Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Guerre finanziarie India: La svolta filoamericana Dialogo tra scienza e fede: La nostalgia dei figli delle stelle Culture e religioni raccontate: Acrobazie di identità $# ANNO NUMERO 7 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia e 2,00 Programmi elettorali: Punti caldi a confronto Dalle etiche all’ethos condiviso Progetto Veronesi: Il testamento biologico Il Corano e il Concilio Chiesa: Un Concistoro sobrio Islam in primo piano TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE 1 aprile 2006 ISSN 0391 – 108X novità Un nuovo servizio ai lettori. A grande richiesta la raccolta in volume degli articoli più significativi di uno stesso Autore con particolare riferimento alle tematiche più dibattute a livello sociale, etico, politico e religioso Carlo Molari CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pagg. 168 - E 20,00 RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO La speranza nei tempi della disperazione Decadenza della fede, relativismo, religione civile La fede in Dio nella pratica politica Politica e profezia Guai a voi! Secolarizzazione e dialogo interreligioso La nuova Europa: radici e identità Le Chiese in difesa dell’ambiente FEDE E CULTURA Le tracce di Dio nella cultura umana Scienza e trascendenza L’azione di Dio in un contesto evolutivo Creazionisti e neodarwinisti Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male per i lettori di Rocca e 15 anziché e 20 RICHIEDERE A ROCCA c.p. 94-06081 Assisi e-mail: [email protected] conto corrente postale 15157068 NEL VORTICE DELLA STORIA La crisi della Chiesa Come e perché cambiare Le componenti della conversione Transizioni traumatiche Letture divergenti del Concilio La missione della Chiesa nel mondo attuale Ritrovare l’essenziale I laici nella Chiesa I laici nel mondo Il primato della coscienza Funzioni e limiti del Magistero UOMINI NUOVI L’esperienza religiosa Le emozioni nell’esperienza di fede Cammini di libertà Spiritualità del gratuito Leggi umane e fedeltà alla vita Spiritualità della liberazione 4 6 10 11 13 sommario Libri Rocca 14 16 19 20 22 25 26 28 1 aprile 2006 7 29 38 41 Ci scrivono i lettori 42 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Valentina Balit Notizie dalla scienza 44 Vignette Il meglio della quindicina 47 Raniero La Valle Resistenza e pace Il Corano e il Concilio 49 Maurizio Salvi India La svolta filoamericana 50 Aldo Eduardo Carra Europa Guerre finanziarie 52 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Il timbro di Dio 54 Filippo Gentiloni Politica italiana Islam in primo piano 57 Pietro Greco Progetto Veronesi Il testamento biologico Oliviero Motta Terre di vetro Una polizza sul futuro Giannino Piana Etica politica economia Dalle etiche all’ethos Romolo Menighetti Parole chiave Poteri forti Programmi elettorali Punti caldi a confronto Roberta Carlini Economia Non sono tutti uguali Fiorella Farinelli Questione sociale Due opposte filosofie Umberto Allegretti Istituzioni Progetti europei e internazionali Rosella De Leonibus Cose da grandi Bello e impossibile Stefano Cazzato Lezione spezzata Sembra scuola 58 58 59 59 60 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Letteratura Paul Eluard Un grande sperimentatore dell’inarrivabile Marco Gallizioli Culture e religioni raccontate Acrobazie d’identità Giancarlo Zizola Chiesa Un concistoro sobrio Adriana Zarri Controcorrente San Musone Carlo Molari Dialogo tra scienza e fede La nostalgia dei figli delle stelle Rosanna Virgili La voce del dissenso I trucchi del potere Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Sorelle separate Giacomo Gambetti Cinema Una storia dopo l’altra Saw 2 – La soluzione dell’enigma Roberto Carusi Teatro Il dialetto interattivo Renzo Salvi RF&TV Montalbano Mariano Apa Arte Brescia Augusto Cavadi Mostre Rouault a Palermo Michele De Luca Fotografia Mariano Fortuny Giovanni Ruggeri Siti Internet Energie rinnovabili Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Ecuador Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 7 – 1 aprile 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 1 APRILE 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 14/03/2006 e spedito da Città di Castello il 17/03/2006 4 Religione cattolica a scuola Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Ho letto la lettera di Clara Pericoli su Rocca n. 5, sono un insegnante di religione cattolica della scuola secondaria di I grado e vorrei ribadire, proprio in un momento come questo che vede contrapposizioni di religioni e scontri violenti in nome di Dio, l’utilità e la necessità dell’insegnamento della Religione Cattolica (Irc) nella scuola italiana vista la valenza sociale che rivesta questa religione in Italia. Vorrei ricordare che con l’accordo di revisione del concordato del 1984 (L. 121/ 85) l’Irc non è più una disciplina catechetica ma un insegnamento di tipo culturale che deve servire a far acquisire una conoscenza critica di quello che è e di ciò che ha rappresentato la religione cattolica in Italia e nel mondo. L’analfabetismo religioso, che esiste ed è molto alto specie tra i giovani, non può essere imputato alla disciplina che insegno, perché, almeno nell’intento della legge, è finalizzata ad acquisire conoscenze che permettano di valutare culturalmente il fenomeno religioso cristiano e saperlo poi porre a confronto con gli altri fenomeni religiosi che proprio grazie all’Irc vengono studiati dai ragazzi (nei programmi del 1987 e negli Osa del 2004 si insiste nello studio delle religioni non cristiane, in particolare dell’Ebraismo e dell’Islamismo). L’incontro tra culture e religioni diverse, cosa importantissima per la crescita della nostra società, avviene non solo conoscendo l’Altro, ma sapendo proporre in modo equilibrato l’identità storico-religioso-culturale propria: è questo che si aspettano legittimamente quanti ci vengono incontro. Dimenticare chi siamo o siamo stati, non solo è un pericolo per noi, ma è un’ingiustizia che facciamo a quanti incontriamo, i quali sono giustamente desiderosi di conoscere qualcosa di noi e del «nuovo» paese dove vengono ad abitare. Credo che la soluzione non sia quella di sostituire Religione Cattolica con Storia delle Religioni, ma magari rafforzare l’importanza dell’Irc ed affiancarle una Storia delle Religioni che porti a consolidare la conoscenza delle fenomelogie religiose esistenti. Il rischio, altrimenti, potrebbe essere quello di gettare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino, cosa questa molto sperimentata in Italia in vari momenti storici. Leonardo Magnani Sansepolcro (Ar) Bonus nati con la legge finanziaria Sono Presidente della 3a Circoscrizione di Verona. La scorsa settimana si è presentato un cittadino «Ho ricevuto una lettera in cui il Presidente del Consiglio assegna 1.000 euro a mia figlia appena nata in Italia, e non posso riscuoterli, perché io non sono cittadino italiano: ma i soldi a chi li dà? A mia figlia o a me? Non so, ma Lei cosa vede negli occhi di Kizzy?». Mi permetto di tradurre in parole le sensazioni che ho provato nel vedere gli occhi di una bambina italiana (anche se un po’ «diversa» di pelle!). Sono la risposta alla lettera inviatale. «Caro Presidente, mi ha scritto che devo sentirmi fortunata, perché da Lei ho ricevuto la prima lettera, così anche Lei, penso, che si possa ritenere fortunato nel ricevere una lettera da una cittadina italiana con pochi giorni di vita. Ho ascoltato per 9 mesi i silenzi del cuore di mia madre, che aveva pochissime certezze e stranamente Lei, caro Presidente, mi annuncia subito una grande certezza. Sono stata accolta nel paese Italia e Lei me ne dà avviso. Grazie. Sono stata cullata all’interno della pancia di mia madre ma anche da una carretta che ha affrontato le onde di un mare che separava la speranza in una vita dignitosa, con una vita che le stava chiudendo il sorriso. Mi ritornano in mente le sue paure quando nella barca si doveva spegnere il motore e in silenzio sperare di non essere visti. Che strano, non ho fatto quasi in tempo ad aprire i miei occhi che Lei, caro Presidente, già mi conosceva e mi ha visto per primo. Ho vissuto 9 mesi in cui i silenzi di mia madre erano carichi di speranze. Ho assaporato la sua gioia nell’essere riuscita ad entrare nel paese Italia. Mia madre mi ha trasmesso la speranza, ma anche la paura di essere rimandata indietro, magari per mancanza di una firma su qualche documento. Che strano, per 9 mesi mia madre sperava di avere tutte le firme giuste, io, non faccio in tempo a dire il mio nome, che già ho la Sua di firma, caro Presidente. In quei silenzi ho potuto ascoltare le mille domande che mia madre si faceva sul senso della vita e il suo accarezzarsi la pancia, la sua gioia nel sentire che mi muovevo erano già delle risposte. In quei nove mesi sono stata fortunata e ne rendo grazie al mistero della vita. Mio padre non ha avuto il coraggio di dichiarare il falso, ha solo detto che l’italiana sono io, lui è ancora uno straniero anche se soffre e lavora in questa terra. Così la cifra da Lei promessa a me (la lettera porta il mio nome, Kizzy), non peserà sul bilancio dello Stato da Lei amministrato. Le chiedo solo una piccola possibilità. A 18 anni, da cittadina italiana, vorrei ricevere la somma da Lei promessa. Le assicuro che la spenderò solo per poter rifare il viaggio all’incontrario che ha fatto mia madre. A quell’età mi troverò nelle condizioni di tutti quegli emigrati italiani che ora hanno una cittadinanza diversa, ma nel cuore hanno, sempre, un piccolo spazio per la patria d’origine. Nella parte finale della sua lettera mi ha detto che avrò un avvenire felice e pieno di gioia in quanto la terra Italia mi saprà accogliere e dare tante possibilità. Mi permetto di sperare che Lei capisca che molte volte le parole del cuore non devono essere scritte ma vissute. Se effettivamente pensa quello che ha scritto, le auguro di trovare il tempo di testimoniare con la vita quanto promesso nella lettera. Con affetto, la piccola Kizzy». Giorgio Di Filippo Verona Un bruttissimo appello Un appello settario e totalitario. Ho appena letto l’«appello all’Occidente» di Marcello Pera. Molto brutto. In esso si mescolano riduzioni storiche, manovre politiche e contraddizioni culturali di vario tipo (sul concetto di individuo, di persona, di civiltà, di cristianesimo). A mio parere, suoi elementi centrali sono: una visione compatta dell’Occidente sempre univoco e fedele ai suoi «costumi millenari»; una sindrome da assedio provocata da nemici interni ed esterni in agguato; l’idea della propria superiorità culturale che degrada a crisi autodistruttiva, a una bestemmia neoconservatrice, la rilevazione antropologica e laica dell’«uguale valore di tutte le culture»; una visione solo militarizzata della sicurezza. È il documento della paura. Il suo linguaggio più che tradizionalista (lo firmano anche esponenti del neofascismo cattolico) è totalitario. Tra le molte cose, mi indigna una citazione abusiva e strumentale di Benedetto XVI. In realtà, in molti discorsi del papa incontriamo un respiro universale che i clericali di qualunque orientamento non vogliono e non possono conoscere. Tra i tanti, vorrei citarne tre: 1. l’enciclica «Deus caritas est» che contiene, come scrive il papa nell’introduzione, «un messaggio di grande attualità» proprio oggi «in un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza»; 2. l’intervento del 9 gennaio 2006 al Corpo diplomatico della S. Sede dove si citano i «gravi errori» commessi dai cristiani favorevoli a «guerre di religione» (rinnovando, così, la «purificazione della memoria» di Giovanni Paolo II) e si riprende il tema della «menzogna selettiva e tendenziosa» che produce continue violenze (riflessione già presente nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1 gennaio); 3. il discorso a Colonia dell’agosto 2005 agli «amici musulmani»: «quante pagine di storia registrano le battaglie e le guerre affrontate invocando, da una parte e dall’altra, il nome di Dio, quasi che combattere il nemico e uccidere l’avversario potesse essere cosa a Lui gradita. Il ricordo di questi tristi eventi dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano state commesse nel nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci a evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro[...]. Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo far fronte alle numerose sfide che il nostro tempo ci propone. Non c’è spazio per l’apatia e il disimpegno e ancor meno per la parzialità e il settarismo. Non possiamo cedere alla paura né al pessimismo. Dobbiamo piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza». Ecco, l’appello di Pera mi pare proprio rassegnato, impaurito, parziale e settario. Mi dispiace molto che l’abbia firmato il ministro della Pubblica Istruzione. Io sono un insegnante. Vorrei dire alla ministro che non posso proprio insegnare quanto ha sottoscritto. Ne va della mia credibilità professionale oltre che della mia fede cristiana. ROCCA 1 APRILE 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI Sergio Paronetto Verona 5 6 ATTUALITÀ Corfù la sfida delle migrazioni Usa la gioventù che sconfigge la violenza Copenaghen difficile dialogo dopo le vignette Cultura l’intelligenza e la fantasia Roma il rabbino in visita alla moschea I Presidenti delle conferenze episcopali del sud-est Europa (Albania, Bulgaria, Bosnia Erzegovina, Serbia e Montenegro, Macedonia, Romania) si sono riuniti il 3-5 marzo a Corfù insieme ai vescovi cattolici della Grecia per approfondire la comune responsabilità e la solidarietà in questa parte dell’Europa. Tema centrale: «le migrazioni», fenomeno che tocca radicalmente tutti i paesi del sud-est europeo. Se gli anni del secolo scorso hanno visto cadere muri esterni, segni visibili di irriducibili incomprensioni, molti altri muri hanno continuato a essere eretti e all’interno di una situazione conflittuale, in un clima di difesa e di paura, di ansia e di rifiuto, di illegalità e chiusura, di spaesamento di fronte a diversi sistemi di conoscenza e di valori. L’elemento religioso concorre tuttavia a determinare legami di aggregazione e di appartenenza. Per questo, i vescovi cattolici, ripercorrendo la dottrina sociale della chiesa con i suoi quattro cardini fondamentali (dignità e libertà della persona umana, bene comune e sussidiarietà) e i pastori ortodossi presenti auspicando il rinnovamento interiore, intendono trasformare il «problema» migrazione in «chance». S’inaugura, dicono, una nuova stagione dell’umanità, e ciò spinge a una nuova scoperta della cattolicità. In Grecia, in 30 anni i cattolici sono passati da 50.000 fedeli a circa 350.000. Sono arrivati migliaia di filippini, polacchi, albanesi, iracheni. I cattolici di origine greca sono ora una minoranza nella minoranza cattolica del paese. Qui, come altrove, le parole chiave sono: dialogo, conoscenza, riconoscimento, ecumenismo, incontri. Un incontro di tutte le chiese cristiane è previsto a Sibiu (Romania) nel settembre del 2007. «Non siamo riusciti a levare una voce profetica in modo abbastanza forte e persistente da dissuadere le nostre autorità dalla via della guerra preventiva…I fiumi, i laghi, le foreste e le terre umide che ci sostengono, anche l’aria che respiriamo continua a essere violentata, e l’allarme del mondo viene ignorato quando permettiamo che la creazione di Dio volga alla distruzione. Eppure il nostro paese si rifiuta di riconoscere la sua correità e respinge gli accordi multilaterali finalizzati ad invertire queste disastrose tendenze. Noi consumiamo senza integrare; ci impadroniano di risorse limitate come fossero proprietà privata. Confessiamo che non siamo riusciti a levare una voce profetica abbastanza forte e persistente da richiamare la nostra nazione alla responsabilità globale nella creazione, che noi stessi siamo complici di una cultura di consumo che impoverisce la terra». È questo uno dei brani della lettera che gli statunitensi del Consiglio mondiale delle chiese hanno inviato alla IX Assemblea ecumenica di Porto Alegre lo scorso febbraio. Scrivono ancora sull’ingiustizia dell’economia globale: «La nostra nazione gode di un’immensa ricchezza, eppure ci attacchiamo a ciò che possediamo invece di condividerlo. Non siamo riusciti a incarnare il patto della vita al quale ci ha chiamati il nostro Dio; l’uragano Katrina ha rivelato al mondo quelli che, nella nostra nazione, sono stati lasciati indietro dalla rottura del nostro contratto sociale. Come nazione ci siamo rifiutati di affrontare il razzismo presente nelle nostre comunità… Di fronte alla povertà della terra, la nostra ricchezza ci condanna... Sorelle e fratelli della comunità ecumenica, da un luogo sedotto dalle lusinghe dell’impero, veniamo da voi in penitenza…». Il 10 marzo l’Istituto danese di studi internazionali ha organizzato a Copenaghen un incontro sul tema: «Il dialogo culturale e religioso», esattamente un mese e mezzo dopo l’avvampare delle polemiche per le caricature di Maometto. I relatori, danesi e mediorientali, erano stati invitati per un dialogo di riconciliazione. Ma, com’era forse prevedibile, le buone intenzioni non hanno tenuto conto della posta in gioco identitaria del mondo musulmano, del particolarissimo contesto storico, socio-politico e culturale nel quale le caricature erano venute a collocarsi. Già in apertura dei lavori lo sceicco Tareq Al-Suweidan esordiva: «Vogliamo le scuse ufficiali per tutti i musulmani, e soprattutto i musulmani danesi, che il vostro governo non ha trattato bene. Diversamente, il boicottaggio dei prodotti danesi in certi paesi arabi continuerà». Intransigente, il primo ministro danese Rasmussen criticava lo stesso dialogo, ribadendo il principio della libertà di espressione. Il resto della riunione si è svolta più agevolmente; i giovani di entrambe le parti si sono fermati altri due giorni a discutere. Sono iniziati il 13 marzo e proseguono sino al 10 aprile a Milano e a Parigi, dialoghi e letture, le «iocundissimae disputationes», organizzate dall’Università Vita-Salute San Raffaele con la Fondazione Corriere della Sera e l’Istituto italiano di cultura a Parigi. I temi sul tappeto sono i nodi cruciali dell’esistenza, le questioni di sempre: chi siamo, che senso ha la vita, la scienza e i suoi limiti, la guerra e la pace, l’essere uomini e donne… Le sedi sono il Teatro Studio a Milano e il Théatre de Gallifet di Parigi. Tra le prime personalità del mondo accademico coinvolte si notano Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Alain Finkielkraut e Tzvetan Todorov, impegnati nella doppia lezione a Milano e a Parigi. Galli della Loggia, preside della Facoltà di Filosofia del San Raffaele spera di fare di queste disputationes motori di pensiero. Anche don Verzé, rettore dell’Università punta a provocare una ricerca «perché l’uomo arrivi a capire che vale moltissimo, riscoprendo come proprio modello Dio». Gesto dalla forte carica simbolica la visita del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni alla moschea di Forte Ardenne, il 13 marzo mattina. Ebrei e musulmani si sono incontrati e «fraternamente» riconosciuti. La loro biblica discendenza è, infatti, dai due figli di Abramo, Isacco e Ismaele, non sempre in buoni rapporti. Ma, «malgrado tutto, ha detto di Segni in un’intervista della vigilia della visita, siamo essenzialmente dei fratelli, dunque con un rapporto privilegiato». E ha aggiunto: «Dobbiamo lavorare insieme a tutti coloro che dicono no all’islamofobia e no all’antisemitismo. E vorremmo anche essere utili alla comunità musulmana sui temi quotidiani. Noi ebrei viviamo da secoli esperienze consolidate di integrazione». In queste ultime parole possiamo anche leggere molte pagine di storia e di dolore. Ma abbandonandoci alla speranza, ci portiamo all’auditorium Santa Cecilia dove due ragazzi, un ebreo israeliano e un musulmano palestinese, tengono un concerto di pianoforte: note che veicolano armonia, profondità che invocano la pace. Parigi agnostici a Notre-Dame La cattedrale di Notre-Dame ospita in quaresima ogni domenica un famoso predicatore, e questo da oltre un secolo (si ricorderà il famoso Henri Lacordaire al tempo del cattolicesimo liberale). Quest’anno l’arcivescovo Vingt-Trois, continuando nello stile del suo predecessore, ha deciso d’innovare offrendo il pulpito, oltre ai teologi, anche a non cristiani, a personalità agnostiche o non credenti. Ha iniziato il poeta ebreo Claude Vigée sul tema della speranza, seguito da Axel Kahn, genetista, che con Jean Vanier ha affrontato il tema dell’accoglienza del «diverso», e dalla psicanalista Julia Kristeva che con la teologa Anne-Marie Pelletier ha parlato della sofferenza «un soggetto – hanno ammesso – che non è possibile affrontare se non con un infinito rispetto». Non sono mancate le critiche di chi avrebbe voluto un insegnamento frontale, «sicuro» . Ma il portavoce dell’arcivescovo si è riferito all’intuizione originaria che intendeva «fare di Notre-Dame il luogo di un incontro, a livello intellettuale, tra la Chiesa e la società secolare». Rotterdam vince la «nuova sinistra» Rotterdam è una città stupenda e architettonicamente modernissima; in essa gli immigrati rappresentano il 45% dei cittadini. Alle elezioni amministrative del 7 marzo hanno votato anche loro e qui, come in altre città olandesi, hanno vinto i socialisti, mentre sono usciti sconfitti i conservatori tradizionali, la destra xenofoba e quella ultraliberista. Si può leggere anche politicamente questo voto? Certo, i risultati rovesciano lo schema governativo con in testa i cristianodemocratici e la destra liberale, mentre emerge il successo per com’è stato gestito dalla sinistra il conflitto con gli immigrati, che sono tanti. Dal voto risulta chiaro che la loro segregazione in alcuni quartieri e in alcune scuole non paga, e nemmeno giova alla sicurezza una politica solo repressiva. Erano chiamati alle urne 12 milioni di olandesi e 2,2 milioni di immigrati con le carte in regola. La campagna elettorale era stata segnata dai conflitti nelle periferie, rivelando una grave crisi esistenziale sia tra gli immigrati che tra i nativi. ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 7 8 ATTUALITÀ Economia la povertà e i suoi rapporti con la guerra Cecenia questione da non mettere da parte Il dossier «Economie» del quotidiano Le Monde del 7 marzo dedica un ampio servizio al rapporto che intercorre tra guerra e povertà, partendo dall’80% dei paesi che hanno conosciuto un conflitto armato nel corso degli ultimi 15 anni e che sono i meno sviluppati del pianeta. Il rapporto si rivela strettissimo. Le Monde cita uno studio pubblicato nel 2003 dalla Banca Mondiale (Briser la trappe à conflit: guerre civile et politique de développement) dal quale si rileva che quando in un paese la crescita è debole e la dipendenza riguardo alle materie prime è forte, quando il reddito pro-capite è limitato e ripartito in maniera ineguale, proprio allora sale il rischio di guerra civile. «La spiegazione più rilevante e plausibile dei conflitti è il fallimento della politica nei paesi in via di sviluppo», sostengono gli autori dello studio. Con tutte le riserve del caso, con la necessaria contestualizzazione e la indispensabile ricerca delle concause, non si può non tener conto della conclusione a cui giunge di una comparazione significativa: tra i 52 paesi che avevano conosciuto conflitti tra il 1960 e il 1999 e l’insieme degli altri paesi vissuti in pace, raddoppiare il reddito degli abitanti sarebbe servito a dividere in due il rischio della guerra. E’ una trappola, quella dei conflitti. Una volta scatenati è difficile spegnerli e, quando arriva la pace – di solito dopo sette anni circa – la situazione resta estremamente fragile. Solo guardando la situazione dal punto di vista economico, dopo ogni guerra il reddito pro capite scende del 15%, le spese militari pesano sul bilancio, mentre si registra la fuga di capitali per il 20%. Così, la guerra può ritornare. «Sarebbe davvero una tragedia se la questione cecena venisse messa da parte durante il vertice del G8 (in programma a San Pietroburgo nel prossimo giugno). La questione cecena e questa guerra orribile e interminabile devono diventare oggetto di discussione aperta per essere definitivamente affrontate in maniera pacifica». Questo si legge nell’appello di intellettuali e politici, tra cui spiccano i nomi dei Nobel Desmond Tutu e Frederik de Klerk, del ceco Vaclav Havel e del filosofo André Glucksmann. Vi si legge anche: «In Cecenia c’è in gioco il nostro senso più elementare di umanità. Può il mondo accettare lo stupro di ragazze sequestrate dalle forze occupanti o dalle milizie? Dobbiano tollerare l’infanticidio, o il rapimento di ragazzini torturati, mutilati e rivenduti poi alle loro famiglie, vivi o morti? Non si può più dire ‘noi non ne sapevamo nulla’. In Cecenia è a rischio il principio fondamentale che sta alla base della democrazia e dello Stato civile: il diritto alla vita, compresa la protezione degli innocenti, delle vedove e degli orfani. Gli accordi internazionali e la carta delle Nazioni Unite vanno rispettati in Cecenia come in qualsiasi altro Stato. Questa situazione mette a rischio la stessa lotta contro il terrorismo. Ormai tutti hanno capito che l’esercito russo si comporta come un gruppo di pompieri piromani, alimentando i focolai del terrorismo…La guerra cecena funge sia da maschera che da giustificazione per il ristabilimento del potere centrale in Russia e impedisce alle istituzioni e alla autorità di combattere e limitare il Cremino». Monrovia fine dell’embargo alla Liberia? La presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf (nella foto) è stata accolta l’8 marzo all’Eliseo da Jacques Chirac. Lo scopo della visita a Parigi (oltre alla partecipazione di un Colloquio all’Unesco come prima donna Presidente di una repubblica, ormai simbolo dell’emergenza femminile nel continente nero) è stata la richiesta di ottenere l’appoggio della Francia perché siano tolte le sanzioni economiche al suo paese. La Liberia, con le elezioni dello scorso anno sembra avviata ormai al suo riscatto ma, dopo 14 anni di guerra civile, è ormai tutta da ricostruire. Perfino nella capitale, Monrovia, mancano tuttora la luce elettrica e l’acqua, per non parlare di altre infrastrutture. Ma è anche da ricostituire la speranza nell’animo della popolazione più giovane, soffocata dal precoce scontro con la violenza (Il 15% dei combattenti costretti a imbracciare fucili e maneggiare bombe aveva meno di 14 anni). La signora Sirleaf ha avuto la promessa che la Francia riaprirà la sua ambasciata a Monrovia. notizie seminari & convegni Vaticano. L’11 marzo, giornata europea degli universitari, il Papa ha incontrato oltre 10.000 studenti universitari nell’aula Paolo VI. Alla preghiera si sono collegati via satellite le città di Madrid, Salamanca, Friburgo, Monaco di Baviera, Dublino, Sofia, Abidjan, Nairobi, Owelli (Nigeria) e in televisione e via radio numerose altre università. Podgorica (Montenegro). È stato fissato per il 21 maggio il referendum che dovrà decidere dell’assetto del paese: se l’indipendenza oppure mantenere l’unione con la Serbia. Mentre l’Unione europea si mantiene riservata in merito all’indipendenza, temendo un ulteriore frazionamento nell’area balcanica, la Serbia non nasconde la propria opposizione al progetto di indipendenza. Otranto (Le). Lo scrittore israeliano David Grossman e mons.Vincenzo Paglia, vescovo, sono i vincitori della seconda edizione del Premio Grinzane –Terra d’Otranto, istituito dalla Regione Puglia, Assessorato al Mediterraneo, Grinzane Cavour e Città di Otranto. Questo premio è un riconoscimento internazionale per il dialogo, la tolleranza, la solidarietà e l’integrazione ed è stato consegnato il 18 marzo, nel Castello aragonese della città. 2 aprile. Bologna. Ritiro spirituale condotto da p. Angelo Cavagna in preparazione alla Pasqua per laici dehoniani, Gavci e Cefa sul tema. «Morte-Resurrezione di Cristo». Sede: Villaggio del Fanciullo, via Scipione dal Ferro, 4, Bologna. 3 aprile. Bitonto (Ba). Incontro ecumenico di preghiera nella Chiesa di San Leucio con interventi di Nicola Pantaleo presidente del Consiglio della Chiesa battista di Bari e del parroco p.Pasquale de Ruvo. Ore 19.30 via Tauro 37. 3 aprile.Vercelli. Per il ciclo «L’esperienza del credere oggi» incontro con Alberto Melloni e Cesare Massa sul tema: «Che cosa chiede il mondo oggi alla Chiesa?». Ore 21, Seminario p. S. Eusebio 10, Vercelli. 4 aprile. Genova. Incontro con il teologo Luca Mazzinghi sul tema: «In principio era la Parola» (ore 18, presso la sede «Gruppo Piccapietra», p. Santa Marta 2). Informazioni: 010 2180 74 /010 2161 49. 4 aprile. Parigi. Conferenza su Martin Buber e Franz Rosenzweig con Dominique Bourel e Stephane Moses. Ore 19, Museo di Arte e storia del Giudaismo, 71 rue du Temple 75003 Paris, tel. 0153 01 8648 (Lingua francese). 5 aprile. Firenze. Al Palazzo Vecchio (h.17,30) Serge Latouche tratta il tema: «Globalizzazione e nuovo etnocentrismo» per il ciclo «Alterità e nuova cittadinanza» organizzato dalla Fondazione Balducci, via dei Roccettini 9, 50016 San Domenico di Fiesole, tel. 055 599240. 5 aprile. Roma. Organizzato dal Centro interconfessionale per la pace, incontro sul tema: «Esperienze di un musulmano in Europa e di un Cristiano nell’Islam». Parlano Khalid Chaouki e Michel Thomas. Informazioni: Cipax, tel e fax 06 572 87347. 10 aprile. Brescia. Per gli incontri di san Cristo, Carlo Molari parlerà sul tema: «Antisemitismo senza memoria. Insegnare la Shoà nelle società multiculturali». Missionari Saveriani, Via Piamarta, 9, Brescia. Informazioni: 030 377 2780. 12-16 aprile. Decollatura (Cz). Al monastero san Benedetto Labre percorso biblico-liturgico sul tema delle Lamentazioni e della Passione secondo san Giovanni. Informazioni: tel. 0968 610 21; www.eremiti.org. 12-18 aprile. Andalusia. Settimana Santa a Siviglia, Cordoba, Granata, Ronda, Malaga, in partenza da Roma il 12 aprile. Partecipazione alle caratteristiche manifestazioni di religiosità popolare a Siviglia, visita alle principali testimonianze della civiltà ispano-musulmana. Informazioni: Cosmoviaggi, Cittadella cristiana, 06081 Assisi, tel. 075813231. 19-21 aprile. Marango di Caorle (Ve). 2° Convegno sul monachesimo con incontro e scambio tra comunità monastiche nuove e tradizionali. Relazioni di sr. Patrizia Bagni di Contra, don Mario Torcivia e il vescovo Giancarlo Bregantini. Informazioni: 042 889 077, fax 0421 881 42, e-mail: [email protected]. 22-25 aprile. Camaldoli (Ar). Convegno sul tema: «Quale intelligenza per un mondo complesso ed ecologico?». Relazioni di Aldo Natale Terrin, Giorgio Bonaccorso, Elisabeth Ferrero, Roberto Tagliaferro. Informazioni: Foresteria Mona- stero, 52010 Camaldoli (Ar), tel. 0575 556006, e-mail: [email protected]. 21 maggio. Polignano a Mare (Ba). Giornata di spiritualità presso l’Abbazia san Vito per Volontari, lettori di Rocca, amici pugliesi della Cittadella di Assisi. Liturgia comunitaria e intervento di Giovanni Grossi, Volontario della Pro civitate christiana dal titolo «Slegate l’asinello» (Lc 19,29-40). Informazioni: De Giosa tel. 347 5257 041 oppure: Cittadella Ospitalità tel. 075 813231, Assisi. 25-28 maggio. Piacenza. Inizio del Corso di specializzazione «So-stare nel conflitto» organizzato dal Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti, in 7 moduli distribuiti in 20 giornate per un totale di 140 ore di aula. Intende focalizzare un’area professionale di aiuto nella gestione dei conflitti. Informazioni: email [email protected]. 1-3 giugno. Magnano (Bi). Presso il Monastero di Bose IV Convegno liturgico internazionale «Lo spazio liturgico e il suo orientamento». Prosegue la riflessione sul rapporto liturgia-architettura. Relazioni di Enzo Bianchi, Stefano Russo, Frédéric Debusty, Walter Zahner, Johannes Kramer, Franco Magnani, Massimiliano Valdinoci, Marc Augé, Camille Focant, Patrick Prétot, Vincenzo Gatti, Richard Giles, Martin Wallraff, Albert Gerhards, Robert F.Taft, Paul De Clerck. Informazioni: Monastero di Bose, Segreteria organizzativa convegno liturgico 13887 Magnano (Bi) tel. 015 679 185, fax 015 679 294; [email protected]. ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Valentina Balit 10 Una nuova classe di stelle di neutroni, con caratteristiche mai osservate finora, è stata scoperta da un team internazionale di astrofisici tra cui scienziati della Università di Cagliari e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. La notizia è stata pubblicata sulla rivista Nature. La nuova classe di stelle (denominate RRAT Rotating RAdio Transient), scoperte grazie al radiotelescopio australiano Parkes, sembrerebbe essere la più abbondante fra le diverse tipologie di stelle di neutroni conosciute. Nelle stelle di neutroni una quantità di materia paragonabile a quella del Sole è contenuta in una sfera di appena qualche decina di chilometri di diametro, che ruota rapidissimamente (da circa un giro al secondo fino a oltre 700 giri al secondo) e che possiede un campo magnetico elevatissimo (fino a 10.000 miliardi di volte quello terrestre). A differenza delle radio pulsar, un altro tipo di stelle di neutroni il cui segnale è percepibile a ogni rotazione della stella, quindi in modo regolare, i nuovi oggetti celesti identificati emettono un singolo lampo di onde radio, intensissimo e breve, e poi rimangono silenti per un tempo lunghissimo. Secondo alcuni scienziati questa nuova classe di stelle potrebbe anche rappresentare l’anello evolutivo di congiunzione, finora mancante, fra le pulsar e altre famiglie di stelle di neutroni scoperte negli scorsi decenni. Se l’ipotesi sarà confermata, la scoperta si annuncia secondo gli esperti uno degli argomenti più interessanti dell’astrofisica degli ultimi anni. della quindicina Un gruppo di ricercatori dell’European Molecular Biology Laboratory di Heidelberg ha sviluppato un metodo computazionale che permette di ricostruire le parentele evolutive tra tutti gli esseri viventi con una precisione finora mai raggiunta. Lo studio è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Science. Il primo «albero della vita» fu composto verso la fine dell’Ottocento dallo scienziato Ernst Haeckel. Egli ricostruì in questa forma le linee evolutive che uniscono tutte le piante e gli animali del creato a partire da un solo antenato comune. Da allora gli scienziati hanno continuato ad ampliare e modificare la genealogia del vivente con il supporto dei dati provenienti dalla biologia molecolare, senza tuttavia riuscire ancora a chiarire alcune relazioni evolutive tra le specie. Lo studio dei ricercatori tedeschi fornisce interessanti indicazioni in particolare sull’origine dei batteri, alle radici dell’albero, e sull’unico antenato comune. «Il sequenziamento di interi genomi reso oggi possibile dalla scienza ci offre una rappresentazione diretta dell’evoluzione» spiega Peer Bork, coordinatore del progetto, «per molto tempo tuttavia la sovrabbondanza di dati ha reso difficile selezionare le informazioni necessarie per tracciare una mappa ad alta risoluzione dell’evoluzione. Il nostro lavoro mostra ora come questa sfida possa essere affrontata utilizzando le differenti metodologie del calcolo automatico». Bork e collaboratori sono riusciti ad identificare in 191 organismi, dal batterio al topo fino all’Homo sapiens (quelli di cui è disponibile ad oggi il genoma sequenziato), 31 geni chiaramente imparentati. «Anche utilizzando questi geni però – fa notare la ricercatrice italiana Francesca Ciccarelli, che ha lavorato nel gruppo – si possono ottenere risposte sbagliate. Gli organismi infatti ereditano la maggior parte dei geni dai genitori, ma nel corso dell’evoluzione alcuni geni provengono invece da organismi vicini, attraverso un meccanismo di trasferimento genico orizzontale. E questo tipo di geni non ci dice nulla sui nostri antenati. Il problema della nostra ricerca era appunto identificare questi geni ed escluderli dall’analisi». Così facendo l’équipe è riuscita a ridurre «il rumore di fondo» nelle informazioni disponibili ed evidenziare dati nuovi, in particolare sui primi stadi e i primi organismi dell’evoluzione, i batteri. L’ipotesi dei ricercatori è che alla radice dell’albero si trovi una certa classe di batteri termofili, e per questo è probabile che la vita si sia sviluppata inizialmente in un ambiente a temperatura elevata. il meglio Individuato un nuovo tipo di stelle vignette Le radici dell’albero della vita da IL CORRIERE DELLA SERA, 1 marzo da IL CORRIERE DELLA SERA, 3 marzo Le radici profonde dell’altruismo Non solo gli esseri umani possono essere altruisti. Anche se in forma meno evoluta, le scimmie sembrano conoscere come aiutare gli altri senza chiedere nulla in cambio. È quanto tendono a dimostrare due ricerche condotte in Germania, pubblicate su Science, che hanno esaminato la capacità di aiutare il prossimo in un gruppo di bambini di 18 mesi e in alcuni scimpanzé. I due gruppi sono stati messi alla prova mentre un adulto svolgeva dei compiti ordinari, per esempio sistemare dei libri. Gli scimpanzé, contrariamente a quanto previsto (questo tipo di scimmie di solito non dimostra una grande attitudine alla cooperazione, a meno di una ricompensa), si sono dimostrati pronti ad aiutare l’adulto, per esempio raccogliendo un pennarello caduto a terra. L’atteggiamento dei bambini si è dimostrato ancora più evoluto: i piccoli sono disposti non solo a raccogliere l’oggetto caduto a terra, ma sanno anticipare i bisogni dell’adulto e dimostrano di volerlo aiutare. Data l’età dei bambini, secondo i ricercatori ciò indicherebbe una predisposizione all’altruismo indipendente dai condizionamenti sociali. da L’UNITÀ, 3 marzo da L’UNITÀ, 6 marzo da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 marzo da IL CORRIERE DELLA SERA, 6 marzo da L’UNITÀ, 5 marzo ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 notizie dalla scienza ATTUALITÀ da IL CORRIERE DELLA SERA, 13 marzo 11 giornate di spiritualità 13-17 aprile il Corano e il Concilio PASQUA IN CITTADELLA conversazioni sul Mistero pasquale, fondamento della fede cristiana, di mons. Luigi BETTAZZI; liturgie del Triduo; tradizionale processione cittadina del Cristo morto 28° seminario LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA 28 aprile - 1° maggio DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA il maschile e il femminile alla prova, oggi per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali articolazione: tavole rotonde, relazioni, laboratori, gruppi di approfondimento, spazi di preghiera, testimonianze, serate artistiche relatori: Luigi BOVO, psicoanalista; Giancarlo BRUNI, biblista, di Bose; Francesco COMINA, editorialista de ‘L’Adige’; Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Cornelia DELL’EVA, giornalista; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra 4° Convegno Terza Età 14-17 maggio PADRI E FIGLI... NEL FLUIRE DELLE GENERAZIONI 'proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che ti sei coltivato' (Salmo 80, 16) per adulti/anziani, docenti e allievi università terza età, operatori socio-sanitari, assistenti sociali, psicologi, volontari di cooperative, giovani studenti Il convegno è un’occasione per mettere a confronto giovani e anziani su punti nodali della vita, della società, dei sentimenti che sostengono i rapporti amicali. “La vita per me è…- risponde un cinquantenne - un’imposizione, ti trovi dentro senza sapere perché, senza sapere cosa si deve fare, non si è dotati neanche di un libretto di istruzioni, ma si va, si va per tentativi. Si va prima a soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza; soddisfatti questi, si scopre di avere anche un pensiero e dei sentimenti e allora si incomincia a farsi delle domande…”. Il resto degli interrogativi? All’appuntamento in Cittadella per il convegno… 64° Corso internazionale di Studi cristiani 20-25 agosto SENZA I SANDALI DELL’IDENTITÀ? “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero…” (Gal 3, 28-29) alcune tematiche: paradossi e contraddizioni dell’identità - se l’identità cammina con la storia - nelle derive integraliste… vivere la laicità - cos’è di Cesare? cos’è di Dio? - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - crescere con le differenze - l’identità feriale - le identità negate interpellano la politica - ‘chiunque io sia, Tu mi conosci’ - a piedi nudi…consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio in collaborazione con la Comunità di Bose e l’Editrice Queriniana informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] Raniero La Valle P uò sembrare una roba da nulla che il cardinale Renato R. Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, abbia caldeggiato l’insegnamento del Corano ai bambini musulmani nelle scuole italiane, ed anzi perfino una cosa un po’ avventata e inconsulta, tanto è vero che subito altri cardinali ne hanno preso le distanze e lui stesso ha poi abbozzato qualche arretramento in termini di «reciprocità». Eppure dietro questa affermazione così semplice e solare del cardinale – «se in una scuola ci sono cento bambini di religione musulmana, non vedo perché non si possa insegnare la loro religione» – c’è una difficilissima e straordinaria rivoluzione che la Chiesa ha fatto col Concilio, tanto che prima del Concilio, e per secoli, una tale dichiarazione sarebbe stata impensabile e degna di anatema. Infatti ciò che ha detto il cardinale è possibile, venendo da una Chiesa che si professa depositaria della verità, solo a patto che essa pensi le seguenti cose: Primo. La libertà religiosa è un diritto fondamentale della persona umana, derivante dalla sua stessa dignità. La libertà religiosa non consiste solo in un diritto del credente a non subire coercizioni da parte dello Stato, ma consiste nella libertà dell’atto religioso stesso; questo diritto umano, fondamentale e universale deve essere riconosciuto dagli ordinamenti positivi, ma non è istituito dagli ordinamenti: deriva all’uomo dall’essere uomo, in forza della sua dignità e della primaria autorità della sua coscienza. Questa è la dottrina della Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio «Dignitatis humanae». Ma prima del Concilio la Chiesa pensava che il diritto alla libertà religiosa fosse solo di quanti professano la vera religione, e ciò perché «l’errore non ha diritti». Secondo. Il rapporto tra la religione cristiana quale è professata dalla Chiesa e le altre religioni non è identificabile come un rapporto tra la verità e l’errore, ovvero tra salvezza e perdizione, tra conoscenza e non conoscenza di Dio. Infatti, dice il Concilio («Lumen Gentium»), «il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i Musulmani, i quali professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale». Dio «vuole che tutti gli uomini si salvino… Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio», e si sforzano di compiere la sua volontà, «conosciuta attraverso il dettame della coscienza». Prima del Concilio valeva al contrario il principio che «fuori della Chiesa (cattolica) non c’è salvezza», e Pio XII spiegava ai giuristi (6.12.1953) che «solo la verità ha diritti». Ora il Concilio riconosce come «fuori dell’organismo della Chiesa si trovino molteplici elementi di santificazione e di verità» e dice, nella Dichiarazione «Nostra aetate» sulle religioni non cristiane, che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo» in tali religioni, che «non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Ciò viene teologicamente spiegato in vari modi, uno dei quali è che i «semina Verbi», i «semi del Verbo», sono sparsi dovunque. Terzo. Il Corano non è un libro da mettere all’indice, ma anzi da rispettare e venerare. È proprio lui che nella sura della «tavola imbandita» parla di questa sovrabbondanza divina sparsa su cristiani, ebrei e musulmani. E proprio riferendosi al Corano, pur senza citarlo, il Concilio dice che «la Chiesa guarda con stima i Musulmani che adorano l’unico Dio vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini» (Nostra aetate, n. 3). Tutto ciò crede e professa la Chiesa, dopo il Concilio, in via di principio, non tatticamente e senza condizioni. Farle diventare verità condizionate, sottoposte a gravami e condizioni di reciprocità, mercanteggiarle, significherebbe una caduta politicistica e opportunistica, anche dal punto di vista di quei famosi «valori dell’Occidente», sia declinati in termini laici che religiosi. È un brutto segno dei tempi che a insorgere contro il cardinale Martino e Allah nelle scuole, siano stati, come un sol uomo, Pera, Alessandra Mussolini ed Emma Bonino: il primo in nome dell’identità, la seconda in nome di un rapporto razzista tra «noi» e gli «altri», e la terza in nome del principio che non solo la religione islamica, ma ogni religione, deve essere praticata solo nell’ambito privato, come il fumo dopo Sirchia. E, con una singolare rivalutazione dell’Impero turco, Guido Rampoldi ha qualificato una democrazia che riconosca il diritto delle diverse comunità religiose come «una democrazia ottomana». Allora non ce l’hanno con l’Islam, ce l’hanno con le religioni come ancora dotate di senso. ❑ 13 ROCCA 1 APRILE 2006 Cittadella Ospitalità RESISTENZA E PACE la svolta filoamericana ROCCA 1 APRILE 2006 Maurizio Salvi 14 a nuova sospensione con un nulla di fatto a New Delhi dei colloqui fra India e Cina sulle decennali controversie di confine non avrebbe avuto alcun significato particolare se non avesse fatto seguito al passaggio nella regione del presidente statunitense George W. Bush e all’annuncio dell’avvio di un’era di cooperazione nucleare indo-statunitense, che pone numerosi problemi, fra cui la sopravvivenza stessa del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Entrato in vigore il 5 marzo 1970, esso è stato ratificato da 187 paesi e si basa su tre principi: disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare. Il trattato proibisce agli stati firmatari «non-nucleari» (ovvero che non possiedono armi nucleari) di procurarsi tali armamenti, e agli stati «nucleari» di fornirgli tali tecnologie. Quella realizzata nella prima metà di marzo in Afghanistan (a sorpresa), in India e Pakistan è stata la seconda visita in pochi mesi dell’ospite della casa Bianca in Asia, dopo l’altra, pure impegnativa, da lui compiuta nell’autunno scorso in Corea del Sud, Giappone, Cina e Mongolia. E la somma dei due viaggi ha permesso di definire un più chiaro progetto strategico degli Stati Uniti, che in questo momento hanno scelto di stringere una alleanza importante con l’India, paese giudicato adatto per la costruzione di un argine di contenimento di fronte al crescente potere economico, politico e militare cinese. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Urss di cui New Delhi era alleata, i due giganti asiatici progettavano la possibilità di stringere una alleanza fra loro che creasse difficoltà all’asse New York-Tokyo. Il governo indiano pratica con Pechino una politica di buon vicinato ed è rimasto aperto ed economicamente legato a quello russo, ma l’attuale primo ministro, Manmohan Sing, ha impresso una svolta filo-statunitense L alla sua politica, che Bush si è convinto a definire e che Le Monde ha chiamato «il rovesciamento delle priorità della diplomazia americana nella regione». Questa volontà si è manifestata chiaramente quando il capo dello stato statunitense ha visitato New Delhi annunciando l’accordo di cooperazione nucleare in campo civile, limitandosi, nella tappa successiva a incoraggiare il presidente pachistano e generale Pervez Musharraf a continuare una lotta senza quartiere contro il terrorismo, senza offrire accordi particolari per poter bilanciare l’importante concessione fatta all’India, storico avversario dei pachistani. E Bush ci ha tenuto a non navigare nell’ambiguità in questo delicatissimo campo di due paesi entrambi dotati di armi nucleari quando ha dichiarato il 4 marzo a Islamabad che «il Pakistan e l’India sono due paesi differenti, con bisogni ed una storia differente. E la nostra strategia terrà evidentemente conto di tali differenze». nucleare e affari Ma vediamo prima di tutto i termini di un accordo che mette fine ad un trentennale isolamento nucleare dell’India, paese che come abbiamo detto si è sempre rifiutato di firmare il Tnp (così come non lo hanno fatto neppure il Pakistan, Israele e la Corea del Nord), nonostante l’ammissione fin dal 1988 di possedere armi atomiche. La dichiarazione congiunta indo-statunitense prevede che il partner asiatico si impegna a separare i suoi programmi nucleari civili da quelli militari mentre permetterà all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) di effettuare ispezioni sui primi. Secondo fonti ufficiali indiane, saranno aperti ai controlli internazionali 14 dei 22 reattori nucleari indiani già in funzione o in via di realizzazione. Inoltre gli Stati Uniti forniranno all’India la loro tecnologia nucleare a fini civili, compresi reattori e combustibile, esortando gli altri Paesi fornitori a fare altrettanto. Il segretario di stato americano agli Affari Politici, Nicholas Burns, ha precisato che questo accordo, che non verrà esteso ad altri paesi, è stato possibile perché «l’India si è conformata a tutte le linee guida internazionali sulla tecnologia nucleare, al contrario, per esempio, dell’Iran che ha violato più volte questi programmi internazionali». Burns ha sottolineato anche il fatto che l’India, al contrario della Corea del Nord, non ha mai violato le norme contro la proliferazione (che però, come abbiamo visto, non ha mai firmato, ndr) e ha aggiunto che la Russia e gli alleati europei hanno già garantito il loro appoggio all’accordo, salutato con favore anche dall’Aiea. Al tentativo di dare rispettabilità alla decisione di concedere tecnologia nucleare civile all’India si è aggiunto anche il rappresentante permanente degli Usa all’Onu, John Bolton, che per giustificare la politica dei due pesi e due misure nei confronti dell’Iran ha ripetuto candidamente che «India e Pakistan (e quindi anche Israele, ndr), non hanno mai firmato il Tnp, e non l’hanno violato dotandosi di armi nucleari, mentre l’Iran sta violando i suoi obblighi». Seguendo questa logica, allora, l’errore di Teheran non è stato quello di volere la bomba, ma di avere sottoscritto il Trattato di non proliferazione! La Cina, che ha pensato bene di non far avanzare i negoziati di confine sulle rivendicazioni reciproche con l’India su terre negli altopiani del Tibet e nello stato indiano dell’Arunachal Pradesh, aveva subito messo i puntini sugli i dopo l’annuncio dell’accordo indiano con Bush facendo dire al portavoce del suo ministero degli esteri, Qin Gang, che il trattato «gioca un ruolo importante» nel promuovere la non proliferazione, il disarmo e l’uso pacifico della energia atomica. Comunque la volontà di Washington è una cosa, e quella del Congresso, un’altra, per cui non è affatto automatico che deputati e senatori diano il semaforo verde all’intesa che dovrebbe permettere a imprese statunitensi quali General Electric e Westinghouse Electric di realizzare succosi accordi di vendita di materiale per lo sviluppo delle centrali nucleari. Critiche ad essa provengono da membri dei due rami del Congresso, sia democratici, sia repubblicani, ed anche autorevoli analisti. Joseph Cirincione, uno dei principali esperti della non proliferazione, ha condannato l’accordo: «Se regge, il Tnp andrà in pezzi. Bush – ha continuato – ha semplicemente accettato quello che né Richard Nixon, né Ronald Reagan, né suo padre avevano accettato. Ha venduto l’intero negozio». «Certo – ha concluso – l’India ha fatto un gesto accettando che due terzi dei suoi reattori siano ispezionati dall’Aiea, ma 14 altre installazioni sfuggiranno ai controlli». Con questo accordo, ha ancora detto, «l’India potrà raddoppiare o triplicare la quantità di armi nucleari che è capace di costruire ogni anno». E se per Cirincione, comunque, una ratifica da parte del congresso potrebbe necessitare «vari anni», per il collega Kurt Campbell del Centro per gli studi strategici ed internazionali (Csis), si tratterà solo «di mesi» per approvare un accordo che è necessario, perché le relazioni con l’India condizioneranno la diplomazia statunitense nei confronti di questo paese per i prossimi 50 anni. Maurizio Salvi 15 ROCCA 1 APRILE 2006 INDIA EUROPA guerre finanziarie M a colpi Opa Ma negli ultimi mesi, l’opinione pubblica, 16 anche quella meno esperta, ha potuto assistere a una nuova guerra, quella del controllo delle società, attraverso tante battaglie che hanno appassionato milioni di persone. Si tratta delle battaglie finanziarie condotte per il controllo di banche e società con una nuova arma micidiale: l’Opa. Di cosa si tratta? Partiamo dalla descrizione di questa nuova arma. L’Opa è l’Offerta Pubblica di Acquisto, una offerta che colui che intende acquisire titoli con diritto di voto di una società quotata deve fare agli azionisti per entrarne in possesso e poter controllare la società. Se è intenzionato a pagare queste azioni in denaro si parla di offerta pubblica di acquisto, se vuole pagarle con altri titoli si parla di offerta pubblica di scambio. Nella legislazione italiana l’Opa è obbligatoria quando una società ha già acquisito perlomeno il 30% delle azioni di un’altra società a meno che la Consob non stabilisca diversamente. Quando un’Opa è stata lanciata da un acquirente ed un altro vuole comprare in alternativa si parla di Opa concorrente o contro Opa. Di questo si è parlato durante la lunga vicenda Unipol, quando questa compagnia voleva acquisire il controllo della Banca Nazionale del Lavoro, di questo si è parlato negli ultimi tempi a proposito del tentativo dell’Enel di acquisire la società francese Suez che è presente nell’elettricità in diversi paesi europei. Ma al di là dei tecnicismi vediamo quale è il processo che si sta dispiegando con sem- pre maggiore velocità ed intensità da qualche tempo a questa parte. Perché queste Opa sono sempre più all’ordine del giorno? Perché ci sono due processi in atto: la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia. Il primo determina la necessità di essere competitivi a livello globale e, quindi, di assumere dimensioni rilevanti per poterlo fare. Il secondo, creando una massa monetaria senza precedenti disponibile per investimenti, si sposa col primo e lo alimenta. L’insieme produce una tendenza ad allargarsi oltre i confini nazionali e ad acquisire altre società per creare sinergie e per raggiungere dimensioni adatte alla competizione globale. Il fenomeno è particolarmente evidente oggi, ma in realtà è in corso da alcuni anni. nuovi muri Per stare all’esempio di maggiore attualità, quello del rapporto tra Italia e Francia, basti pensare che in pochi anni settori di prestigio dell’industria e della distribuzione italiana sono stati acquisiti da società francesi. Si tratta della grande distribuzione (da Gs alla Sma), del lusso (Fendi, Gucci), di prodotti alimentari tipici (Galbani, Invernizzi), di settori e marchi, insomma, che si stenta a pensare appartengano oggi ad imprese non italiane. Ma, si dice, è la logica della globalizzazio- ne e non accettarla significherebbe stare con la testa rivolta all’indietro. È vero, come è vero che l’Europa se vuole in futuro competere con sistemi economici come quello cinese o quello americano deve dotarsi di un sistema industriale a dimensione continentale. Ma questo è facile a dirsi, difficile a farsi. Non tutti ragionano allo stesso modo ed appena appena si è sparsa la voce che l’Enel voleva lanciare una Opa su una società francese per acquisire una dimensione tale da collocarla nel mercato europeo, ecco scattare la paura dell’invasione ed inventare una fusione tra la società Suez che produce energia e la Gaz de France concentrata sul gas. Risultato: la nuova azienda che risulta dalla fusione è troppo grande per essere acquisita dall’Enel ed ha una forte presenza di capitale pubblico (la GdF è controllata all’80% dallo Stato), quindi l’Opa Enel è, se non impedita, resa molto difficile. Certo che l’episodio non è né unico né isolato. È ormai evidente da un po’ di tempo che Francia, Paesi Bassi, Germania e Spagna stanno alzando muri per difendere i propri «campioni nazionali». È altrettanto evidente che essi non esitano ad occupare territori di altri paesi come credito ed assicurazioni, energia e grande distribuzione. È evidente ancora che l’Italia nulla ha fatto per contenere lo «shopping» che società straniere hanno fatto nel nostro territorio. ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 Aldo Eduardo Carra a chi l’ha detto che dove c’è pace non c’è guerra? Certo dove non ci sono guerre, intese in senso tradizionale, quelle con armi di morte e vite distrutte, regna la pace, intesa come assenza di distruzioni di case e di popoli, e sarebbe bello e giusto che così fosse sempre e dappertutto. Ma dove regna questa pace non è detto non ci siano altre guerre, meno cruente, ma non irrilevanti per la vita ed il futuro dei popoli. Pensiamo alle guerre «commerciali» che non sono solo uno strumento d’altri tempi se è vero come è vero che, mentre si esaltano globalizzazione e liberalizzazione, si mettono dazi e si minacciano ritorsioni. Due esempi per tutti: la guerra dell’acciaio (dichiarata dagli Stati Uniti contro Giappone, Europa, Canada introducendo imposte sulle importazioni per difendere i produttori nazionali e che, dichiarata illegittima dal Wto, sta dando vita a misure di rivalsa di questi paesi), oppure quella delle banane (provocata dall’Europa per difendere le importazioni dai paesi africani dalla concorrenza dell’America del Sud). Per essere più attuali pensiamo che un mese fa, il 13 febbraio, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha condannato gli Usa per sovvenzioni fiscali agli esportatori (si tratta di Boeing, General Electric, Motorola, Microsoft tanto per fare qualche nome). 17 È evidente che gli atteggiamenti di difesa del carattere nazionale di alcuni settori e di alcune imprese contrastano con le leggi e le regole della competizione globale e della liberalizzazione. Ma la realtà, piaccia o meno, è questa: tutti si dicono favorevoli a liberalizzazione e globalizzazione, ma quando si tratta di alcuni settori si dice che i «campioni nazionali» vanno difesi e debbono restare nazionali. Allora? Allora è inutile far finta di niente o giocare ai dispetti: se tu non mi fai comprare le tue società io ti impedisco di comprare le mie. Europa inceppata ROCCA 1 APRILE 2006 Per l’Italia questo ragionamento oltre che inutile è ridicolo perché ci è rimasto ben poco che altri possano comprare. Più utile sarebbe, invece, cercare di capire quali sono i problemi che stanno sotto questi processi ed affrontarli prendendo, come si dice, il toro per le corna. Vediamo quali sono i due principali problemi. Primo problema. Non c’è dubbio che il processo europeo, inteso come ambizioso progetto di costruzione di una grande area in grado di stare tra i grandi come Usa, Cina, Urss, di un’area, quindi, intesa come governo unitario di politiche estere, economiche e sociali, si è inceppato. Il momento visibile è stata la bocciatura della Costituzione, ma in realtà il processo si è bloccato prima: con l’incapacità dell’Europa di giocare un ruolo unitario nella vicenda irachena, con l’incapacità di andare oltre l’Unione degli Stati. Se in questo mondo globalizzato non si diventa una grande potenza economica, non è che non si va avanti, si torna indietro verso gli Stati nazionali. Ed è quello che sta accadendo. Prendere il toro per le corna su questo aspetto significa chiedersi se questa Europa con tanti Stati così diversi per condizioni economiche e storie potrà mai essere una potenza mondiale. Significa, forse, chiedersi se la logica dell’allargamento che si è praticata non sia una fuga dal problema reale. Chiedersi cioè se si vuole veramente una Europa potenza economica e politica o semplicemente una Europa area di libero scambio. Se si vuole la prima cosa, l’allargamento andrebbe fatto progressivamente man mano che l’unificazione tra gli stati che già stanno dentro si rafforza. Insom18 ma forse bisognerebbe scegliere tra una Europa forte di pochi Stati ed un’Europa debole con molti Stati. Se non lo si fa e si punta ad allargare il più possibile, facendo un’Europa grande, ma debole, tanto vale dire che si vuole fare una grande area di libero scambio nella quale i singoli stati possano trovare grandi mercati di consumo e di manodopera, ma restando singoli Stati che, quindi, debbono guardare ai loro interessi nazionali. il nodo energetico Il secondo problema, non sganciato dal primo, è quello dell’energia, e non è un caso che la vicenda Enel si collochi proprio in questo campo. L’Europa ha un deficit energetico, sia petrolifero che di gas. La fine del petrolio a buon mercato e la crescita del prezzo del gas fanno esplodere la questione della sicurezza degli approvvigionamenti. Inoltre si prevede una crescita del prezzo del carbone. Ciò favorisce le imprese che si affidano all’energia idraulica e nucleare, e svantaggia quelle che dipendono dal carbone e dal petrolio. Poiché nel 2007 ci sarà la terza fase della liberalizzazione dei mercati europei, diventa cruciale per gli operatori tradizionali uscire dai territori nazionali ed avviare offerte multienergetiche. Allora, tornando all’Europa, se questi sono i problemi le concentrazioni dovrebbero essere negoziate e gestite a livello europeo, invece, si cercano soluzioni nazionali. Perché? Perché non esiste una Europa all’altezza dei problemi di politica energetica. Ma questo è solo un di cui del fatto che non esiste una politica industriale europea di fronte alle sfide della globalizzazione che richiedono non solo aggregazioni di imprese esistenti, ma creazione di settori strategici per il futuro. Allora, comunque vada a finire la vicenda Enel, il problema di fondo è l’Europa: o essa fa passi avanti per diventare una realtà geopolitica all’altezza delle grandi potenze mondiali o sarà inevitabile il ritorno alle logiche nazionali. E sarebbe proprio paradossale che l’Europa che ha preso l’avvio nel 1952 con la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e con l’Euratom nel 1957, dopo cinquanta anni, naufragasse proprio sull’energia. Aldo Eduardo Carra OLTRE LA CRONACA il timbro di Dio Romolo Menighetti ony Blair, in una recente intervista all’emittente britannica ITV1, indicando Dio come fonte di ispirazione per muovere guerra all’Iraq, ha inteso sottrarsi al giudizio dei suoi contemporanei, implicitamente gratificandosi con uno «sta bene» da parte di colui che egli pensa sia il «Dio degli Eserciti». Non ha però potuto sottrarsi al «disgusto» delle madri britanniche i cui figli sono caduti a Bassora. Mettere il timbro di Dio sulle nostre scelte è un trucco vecchio come il mondo. Nell’Antico Testamento le guerre tra popoli diversi erano considerate sfide tra le due rispettive divinità, e la vittoria costituiva il segno della superiorità di una divinità sull’altra. Perciò gli ebrei, nelle loro preghiere a Javhè, chiedevano la vittoria in battaglia, adombrando una sottile provocazione del tipo: guarda che se perdessimo ci rimetteresti tu per primo, perché di fronte alle genti risulteresti sminuito rispetto alle divinità dei popoli che ci vincessero. Venne poi Gesù, e per far capire agli uomini che Dio non ha a che fare con nessuna guerra, subì la crocifissione, pur essendo innocente, con ciò affermando essere blasfemo ogni tentativo di usare la croce come vessillo-contro. Ma la lezione fu solo superficialmente assimilata. Ben presto le croci, da Costantino in poi, furono usate come clave, mentre di Dio si fecero versioni a misura di popoli e culture, e lo si arruolò su fronti contrapposti. Il Dio dei cristiani fornì l’alibi per la loro espansione coloniale. Per contro il Dio di Maometto costituì pretesto per una islamizzazione portata sulla punta delle scimitarre. Lungo i secoli poi, nel nome dello stesso Dio vennero benedetti cannoni gli uni contro gli altri puntati. Infine la croce, da parte di chi portava scritto in pancia che Dio era dalla loro parte, divenne uncinata, per meglio triturare le sue creature. Si pensava che la storia, dopo una tale sequenza, avrebbe generato un salutare moto d’orrore a fronte di ogni ulteriore tentativo d’arruolamento di Dio. Ma non fu così. E per contrastare i sacrileghi che si uccidono uccidendo in nome di Dio, si torna alla visione e alla croce di Costantino. Blair afferma che la scelta di partecipare T all’intervento armato in Iraq gli fu ispirata da Dio. Bush dice che la meditazione della Bibbia precede gran parte dei suoi pronunciamenti e delle sue decisioni, anche quelle che costano la vita a migliaia di persone. Insomma, una tragedia che finora è costata la vita a decine di migliaia di iracheni, e a qualche migliaio di soldati della coalizione, avrebbe avuto origine in mente Dei. Invano papa Benedetto XVI si affanna a spiegare che Deus caritas est. Le stesse mani che applaudono, tornano subito dopo ad imbracciare le armi. Venendo al nostro piccolo mondo italico, da qualche tempo sembra che non resistano alla tentazione di appropriarsi del timbro di Dio, nemmeno i protagonisti della locale politica. L’esito, se non è altrettanto sanguinolento come per la grande storia, è però ridicolo, e soprattutto fuorviante. Incominciò Berlusconi con l’autoproclamarsi «unto del Signore», superando tra l’altro di un balzo i profeti e i grandi dell’Antico Testamento, che l’unzione, almeno, la ricevevano da un altro. Non soddisfatto, recentemente volò ancora più alto, fin quasi a dare del tu a Gesù Cristo. Ora i concorrenti ad un accreditamento da parte di Dio sono di molto aumentati. L’ex laico Marcello Pera, Presidente del Senato, reitera plateali esternazioni di fronte al suo Vicario in terra e alle gerarchie cattoliche. Giuliano Ferrara, dopo aver a lungo sostenuto con la sua straripante dialettica diverse laiche cause, ora ha piazzato le sue batterie sul fronte del sacro. L’ex radicale Rutelli ha imparato molto bene a genuflettersi. E pure Fassino e Bertinotti hanno scoperto e rispolverato antiche ascendenze clericali. Per non parlare del presidente della Camera Pierferdinando Casini, modello del cristiano impegnato in politica secondo monsignor Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, difensore pubblico di sacri valori che quotidianamente contraddice nel privato. Tali atteggiamenti, di là dell’evidente opportunismo, denotano la grande carenza di laicità nell’approccio alla dimensione religiosa, della maggioranza dei nostri politici. Che Dio, ora è proprio il caso di invocarlo, ce la mandi buona. ❑ 19 ROCCA 1 APRILE 2006 EUROPA POLITICA ITALIANA ROCCA 1 APRILE 2006 Filippo Gentiloni 20 on lo si prevedeva qualche anno fa, quando si pensava che con il Concordato con la chiesa cattolica lo Stato italiano avesse risolto tutto il possibile contenzioso con la religione. Oggi l’islam costringe a parlare di religioni al plurale, un plurale che finisce per rimettere in discussione anche gli accordi di ieri con il cattolicesimo. Tutto è più complicato. Gli eventi recenti sono noti e fanno riflettere. Si è costituita anche nel nostro paese la Consulta islamica (Ucoii, Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia), che, nonostante le notevoli divisioni al suo interno, si presenta come interlocutore ufficiale nei confronti dello Stato, che come tale la riconosce. Le recenti prese di posizione dell’Ucoii hanno fatto e fanno discutere. Anche perché non possono essere indifferenti nei confronti di una immigrazione di musulmani sempre più numerosa e anche sempre più qualitativamente rilevante. Né può l’Ucoii restare indifferente – anche se a maggioranza moderata – nei confronti dello scandalo provocato dalle vignette blasfeme e dal comportamento del ministro leghista Calderoli. I temi in discussione sono noti. Più degli altri in primo piano la questione di un eventuale insegnamento di religione musulmana nelle scuole. Tema scottante non tanto per il numero degli studenti musulmani, d’altronde non irrilevante e in crescita (si parla di 250 mila nelle scuole pubbliche) quanto perché la questione coinvolge quella dell’insegnamento della reli- N gione cattolica. Una questione, questa, che in teoria è stata risolta nell’ultima revisione del Concordato, ma che in pratica fa ancora discutere. Non pochi, infatti, commentando la richiesta musulmana, hanno messo in discussione la stessa ora di religione cattolica. Nonché la presenza del crocefisso nelle aule. O tutti o nessuno, è stato detto; a prescindere dai numeri, dalle maggioranze e minoranze. Si potrebbe, non pochi sostengono, pensare ad un insegnamento generale di storia delle religioni, non legato a nessuna confessione particolare ma adatto anche agli atei. È in gioco, e fino in fondo, la stessa laicità dello Stato. Le posizioni si dividono non soltanto nell’Ucoii. Ha fatto scalpore, ad esempio, nel mondo cattolico la voce molto autorevole del Cardinale Martino che si sarebbe dichiarato disponibile ad una apertura all’insegnamento religioso musulmano nelle scuole. Voce in parte ritrattata e, comunque, contraddetta da altre voci cattoliche, altrettanto autorevoli, contrarie a quella apertura: fra le altre, la voce del Cardinale Tettamanzi. Ma è stata anche ricordata la presa di posizione dell’allora Cardinale Ratzinger che qualche anno fa si era detto favorevole all’introduzione del Corano nelle scuole tedesche. identità e reciprocità Comunque il dibattito è aperto e fra i protagonisti di primo piano anche quei laici che insistono sulla necessità di tenere fede alla identità cattolica della nostra società e cultura. Fra i più impegnati in questo senso il presidente del Senato Pera che, a ragione o a torto, indica il papa come leader dello schieramento. Identità e reciprocità: i sostenitori, infatti, della linea più rigida insistono sulla necessità di quella reciprocità che, invece, nei paesi musulmani è assente o quasi. Senza reciprocità, dicono infatti, qualsiasi concessione alle richieste musulmane comporterebbe un cedimento inutile e pericoloso. Non soltanto per il nostro paese ma per tutto lo scacchiere geopolitico globale. Un dibattito, dunque, aperto e di estremo interesse. Vale la pena di citare qualche intervento, fra i più autorevoli. Su «La Repubblica» Giuliano Amato insiste sulla necessità che i settori più moderati e democratici sia dei cristiani che dei musulmani «si riconoscano» e rivalutino le posizioni più aperte, condannando i fondamentalismi, anche quelli di casa propria. Sul «Corriere della Sera» il famoso teologo Hans Küng spinge i cristiani a «parlare davvero con l’Islam», al di là di un dialogo spesso convenzionale e insufficiente. «Se si vuole che la falsa teoria dello scontro di civiltà non si realizzi è tempo che entrambe le parti parlino apertamente e onestamente, riconoscendo le rispettive differenze e cercando un terreno comune». Si potrebbe aggiungere che è necessario che le varie parti riconoscano le loro colpe e responsabilità del passato. Filippo Gentiloni 21 ROCCA 1 APRILE 2006 Islam in primo piano PROGETTO VERONESI ROCCA 1 APRILE 2006 Pietro Greco 22 I stituiamo anche in Italia il registro per il testamento biologico. In modo che ciascuno di noi possa affidare a un garante le sue disposizioni su quali terapie accettare e quali rifiutare nel caso dovesse sfortunatamente trovarsi nella fase di decorso terminale di una qualsivoglia malattia. Evitiamo nuovi casi come quelli di Terry Schiavo in America o di Eluana Englaro in Italia. Evitiamo l’accanimento terapeutico. Evitiamo, in ogni caso, che a decidere in quella fase eventuale e tragica della nostra vita siano altri (il medico, i familiari, lo Stato) in vece nostra. Ad avanzare la proposta del primo registro in Italia per il testamento biologico è stato, all’inizio di marzo, Umberto Veronesi, oncologo di chiara fama ed ex ministro della Sanità. È anche per questo che la proposta ha suscitato una notevole eco e, anche, un diffuso consenso. In qualche caso, tuttavia, il consenso è stato condizionato. Il cardinale Ersilio Tonini, per esempio, si è detto favorevole al testamento biologico, purchè non preluda a pratiche di eutanasia. Insomma, la questione resta aperta. E non solo sul piano giuridico. Per capire perchè, cerchiamo di analizzare meglio i termini della proposta di Umberto Veronesi. Capita spesso che nel decorso di una malattia – un cancro, le conseguenze di un trauma o altro ancora – un malato si trovi – proprio come Terry Schiavo o Eluana Englaro – nella condizione disperata: la guarigione non è più possibile; il paziente non ha più e mai più potrà riavere una vita dignitosa di relazione sociale e continua a vivere solo grazie all’uso di particolari tecnologie e terapie mediche. Ovvero solo grazie a quello che in gergo viene chiamato accanimento terapeutico. Per essere ancora più precisi, è bene usare anche la terminologia degli esperti: stiamo parlando del caso in cui una persona ha perduto ogni capacità di autodeterminazione, a causa di una malattia acuta o degenerativa assolutamente invalidante sul piano fisico e, soprattutto, mentale. il dibattito Cosa si deve fare, in questi casi? Continuare a insistere a tempo indefinito con la terapia senza speranza finché il malato non muore o è possibile sospenderla, quella terapia, e lasciare che la persona concluda la sua vita? E, soprattutto, chi deve decidere, in questi casi estremi ma non rarissimi in cui il paziente non può in nessun modo esprimersi? Beh, sostiene Umberto Veronesi, occorre richiamarsi – o meglio, dare la possibilità di richiamarsi – al principio di autodeter- minazione e di instaurare un rapporto paritario col medico. Neppure dal punto di vista logico e astratto questo richiamo è scontato. Molti infatti sostengono che, quando in gioco è la vita, nessuno – neppure l’individuo che ne è titolare – possa assumere una decisione diversa da quella di prolungarla, al meglio possibile e il più a lungo possibile. Per cui l’unico che ha il diritto di decidere è il medico, che deve rispettare il dovere deontologico e giuridico di operare sempre a beneficio del paziente e il suo massimo per beneficio è la sopravvivenza, in qualsiasi condizione. Al contrario, altri sostengono che gli uomini hanno diritto a vivere con dignità e, nel caso che le condizioni di vita siano completamente invalidanti e quindi soggettivamente sentite come non più dignitose, hanno il diritto conseguente di interrompere, se lo vogliono, quelle condizioni giudicate oscene. In collaborazione con il medico che, proprio perché deve operare a favore del maggior beneficio del paziente, deve tutelare il suo diritto a vivere con dignità. valore legale della dichiarazione preventiva Si può discutere – e, infatti, molto si di23 ROCCA 1 APRILE 2006 il testamento biologico problemi bioetici ROCCA 1 APRILE 2006 Ma, forse, di più stringente interesse sono i problemi bioetici che la proposta evoca senza sciogliere. Per esempio: cosa dobbiamo esattamente intendere per «accanimento terapeutico» e per «condizione assolutamente invalidante». Viviamo in un’epoca in cui la differenza tra naturale e artificiale, se mai lo è stata, non è più così netta. Quali sono gli aiuti «artificiali» alle persone ormai prive di totale autonomia che definiscono l’«accanimento terapeutico»: solo l’utilizzo di sofisticate e costose macchine, o anche semplici flebo per l’alimentazione e l’idratazione? E cosa dobbiamo considerare come «condizione assolutamente invalidante»: quella che riguarda, irreversibilmente, la mente o anche quelle che riguardano, irrever24 sibilmente, anche il corpo? Cosa si intende per assoluto quando parliamo della mente? E cosa si intende per invalidità assoluta quando parliamo del corpo? Ed è poi così semplice distinguere la mente dal corpo? È chiaro che il tema del testamento biologico richiama inevitabilmente il tema, più generale e più controverso, dell’eutanasia. Tema di estrema delicatezza che, nella nostra società multietica, vede una costellazione di interpretazioni diverse del peso specifico che devono assumere il diritto alla vita e il principio dell’autodeterminazione. Non è un caso che proprio Umberto Veronesi abbia richiamato il tema dell’eutanasia. Ricordando un sondaggio di Eurispes realizzato all’inizio dell’anno, secondo cui in Italia il 69% delle persone che si dichiarano non cattoliche è favorevole al diritto a una buona morte e solo il 19% è contrario. Secondo Eurispes, l’atteggiamento cambia tra gli italiani che si dichiarano cattolici. Ma non in modo speculare: se il 48% dei cattolici italiani è, infatti, contrario all’eutanasia, il 38% si dichiara favorevole. È ovvio che i sondaggi non possono fare testo, men che meno in materie così delicate. Ma chi, allora, deve fare testo, in maniera vincolante, in una società multietica così (saggiamente) articolata persino in merito a concezioni di fondo che riguardano dimensioni dicotomiche come la vita e la morte? È l’eterno problema che si pone tra chi (a prescindere dal suo credo religioso) ha una visione laica della vita sociale e si richiama al principio della responsabilità individuale e chi (a prescindere dal suo credo religioso) ha una visione non laica della vita sociale e si richiama alla primazia di principi universali. Vale la pena ricordare ancora una volta che la proposta, quasi universalmente giudicata benemerita di Veronesi, non riguarda l’eutanasia, ma «solo» il testamento biologico e l’accanimento terapeutico. È anche per questo cha ha ottenuto consensi in ambienti (di credenti e di non credenti) che non sono definibili laici. Ma proprio perché, nella sua interpretazione, richiama ambiguamente ma inevitabilmente temi più scomodi e più controversi, essa merita di essere esaminata con maggiore attenzione. E, possibilmente, discussa con profondità di argomentazioni e serenità di toni. TERRE DI VETRO una polizza sul futuro Oliviero Motta V edi alla voce impiegati». È il primo pensiero dopo averli visti entrare dalla porta: i visi perfettamente rasati, la cravatta d’ordinanza e i completi grigi, le cartelle scure. In realtà sono due funzionari di un istituto bancario e assicurativo con un antico radicamento in una grande regione del nord. Il logo dell’impresa, latinorum e rosa dei venti (o giù di lì), mi ha fatto sempre pensare a una banca d’affari un po’ esclusiva, tutto il contrario di una cassa popolare. È anche per questo che mi incuriosisce il motivo del nostro incontro: immigrati extracomunitari. Apprendo così che da qualche tempo la loro casa madre sta proponendo prodotti assicurativi e di risparmio pensati ad hoc per migranti. I due parlano di assicurazioni, di strumenti di risparmio e investimento, di servizi progettati appositamente per persone che vengono da lontano e che in Italia hanno messo in piedi una attività produttiva. Parlano, come è ovvio che sia, di clienti, imprenditori, piccoli artigiani e il loro tono suona così professionale. Niente di più naturale, insomma: domanda e offerta, impresa e rischio, proposte e vantaggi per attirare e convincere nuovi clienti. Mi colpisce soprattutto una delle offerte: l’assicurazione (copertura dei costi e disbrigo delle pratiche) per il rimpatrio della propria salma, in caso di morte. «All’inizio eravamo perplessi anche noi – mi confidano candidamente – perché ci sembrava che parlare di morte non fosse il modo migliore per avviare un rapporto commerciale; insomma, tutto il contrario del marketing…». Eppure anche questo prodotto ha goduto di un qualche successo, al di là delle attese. Rifletto insieme ai miei due interlocutori sul fatto che forse una proposta così ci sorprende e magari ci urta un poco perché non riusciamo bene ad immedesimarci in ciò che può sentire una persona lontana dal suo Paese. Non si tratta qui di minori non accompagnati o giovani venuti in Italia per avventura, ma nemmeno di professionisti o uomini d’affari ben pagati per lavorare all’estero. Ci si rivolge invece a persone adulte che hanno lasciato il proprio contesto culturale e affettivo e che si trovano a fare i conti con questa lontananza. Forse da quel punto di vista è più facile e naturale pensare alla morte e perfino ai costi e agli ostacoli burocratici che può incontrare il rientro della propria salma. Si può sorridere (scaramanticamente?) di questa polizza assicurativa, ma in fondo lo può fare solo chi non è costretto a convivere con la precarietà esistenziale di una prolungata trasferta. Perché prendere seriamente in considerazione un’offerta come questa richiede al contempo profondità e concretezza, dimensione contemplativa della vita e praticità. Tutte cose che l’umano occidentale indigeno stenta a tenere insieme. Ma il fortuito incontro di oggi mi fa riflettere anche sui progressi dell’integrazione di una fetta significativa di immigrati. Se si muovono le banche, se le assicurazioni vendono prodotti ad hoc, allora vuol dire che l’integrazione è molto più avanti di quanto i falsi profeti dello scontro di civiltà cerchino di farci credere. In fondo la migliore assicurazione contro la divisione violenta tra diversità, religioni o etnie è proprio questa piana quotidianità fatta di vendere e comprare. Business? Certamente. Eppure, se ci pensiamo bene, i migliori termometri dell’integrazione sono proprio i bancari: giacca, cravatta e scure cartelle. Pietro Greco 25 ROCCA 1 APRILE 2006 PROGETTO VERONESI scute – su queste due diverse visioni. C’è tuttavia un problema pratico. Come fa un paziente totalmente invalidato a esprimere la propria determinazione? È proprio per rispondere a questa domanda che, soprattutto in ambiente anglosassone, è nato il concetto – e la pratica – del «living will», che noi traduciamo con qualche approssimazione in testamento di vita o testamento biologico. Poiché il paziente che viene a trovarsi nell’infausta condizione di totale invalidazione non può esprimere in tempo reale la sua volontà, allora è bene che lo faccia in via preventiva. Con un testamento. Una dichiarazione che abbia il medesimo valore morale e legale del testamento classico e che ponga il medico in condizioni di conoscere le sue determinazioni. È di questo «living will» che si fa promotore Umberto Veronesi. Oggi in Italia c’è un vuoto normativo in proposito. Che certo va colmato, come è stato fatto in diversi paesi: dagli Stati Uniti ai paesi dell’Europa settentrionale (Germania, Danimarca, Belgio, Olanda). In attesa di colmare il vuoto legislativo, esistono diversi problemi relativi al registro per il testamento biologico proposto da Umberto Veronesi che conviene affrontare. Uno è di tipo giuridico: in assenza di una legge specifica, quale valore legale ha una simile dichiarazione preventiva? Chi volesse conoscere le risposte dei giuristi (di alcuni giuristi), può consultare il libro che la Fondazione Veronesi ha pubblicato con Il Sole 24 Ore. ETICA POLITICA ECONOMIA Giannino Piana N onostante la tendenza oggi diffusa a ridurre l’etica della e nella politica alla semplice produzione delle «regole del gioco» mediante il ricorso al consenso sociale o a criteri di stampo utilitarista, l’esigenza del riferimento a valori forti non può essere del tutto elusa. Del resto, dietro le stesse regole, che si presentano in apparenza come neutrali, si cela di fatto (anche se non viene esplicitamente riconosciuto) l’appello a una piattaforma valoriale. L’esigenza di un’etica per la politica è dunque fuori discussione. Ma gli interrogativi che insorgono e ai quali occorre dare risposta sono: a quale etica la politica deve oggi riferirsi se intende promuovere un vero sviluppo umano nel pieno rispetto della molteplicità (e diversità) dei sistemi etici presenti nella società? E ancora: con quale metodo e con quali strumenti è possibile pervenire alla identificazione di tale etica? il pericolo dello Stato etico ROCCA 1 APRILE 2006 Va detto con chiarezza, fin dall’inizio, che lo Stato (e dunque la politica nella sua accezione più specifica) non può essere considerato portatore di un’etica propria e tanto meno – come pensava Hegel – fonte esclusiva della moralità. Si incorrerebbe infatti, in questo modo, nel pericolo del cosiddetto «Stato etico», nella teorizzazione cioè di uno Stato assoluto, che, divenendo principio del bene e del male, finisce per giustificare ogni comportamento (anche criminoso) in nome della propria autoconservazione e della propria espansione. D’altra parte, la politica che si sviluppa all’interno di uno Stato democratico e contrassegnato – come si è rilevato – da un forte pluralismo etico, non può assumere e fare propria un’etica particolare – quella di un gruppo, fosse pure esteso, di ispirazione laica o religiosa – proponendola come la propria etica, conferendole cioè carattere di universalità. Dove, allora, attingere i presupposti etici, che vanno posti alla base degli interventi di carattere sociale e dei pronunciamenti di ordine legislativo? La via da percorrere è (e non 26 può che essere) quella del passaggio dalle etiche delle varie soggettività sociali all’individuazione di un ethos collettivo, proprio della società civile, espressione cioè della convergenza dei diversi sistemi etici attorno ad un nucleo essenziale di valori condivisi e riconducibile, in senso più profondo, all’insieme delle tradizioni e dei costumi che configurano il volto di tale società e motivano l’appartenenza dei cittadini ad essa. La definizione di questo ethos non è impresa da poco. Ad esso appartengono quei valori che conferiscono senso e solidità alla convivenza civile di un popolo e che sono alla base delle Costituzioni democratiche nate nell’immediato dopoguerra. Ma tale ethos è anche frutto del confronto che va, di volta in volta, attivato su tematiche emergenti attraverso il dibattito pubblico. Il dialogo e l’interazione tra visioni etiche diverse, per quanto difficile per la presenza talvolta di posizioni nettamente contrapposte, costituisce un’occasione preziosa per la creazione di forme di comunicazione che favoriscano l’integrazione reciproca e concorrano a rafforzare il tessuto sociale. L’etica cui la politica deve riferirsi può essere dunque ricavata soltanto ricuperando le istanze morali derivanti dalla società civile nel suo complesso. La possibilità che la politica si nutra di contenuti valoriali (e dunque in qualche misura si eticizzi) è, in definitiva, legata alla capacità che si ha di far emergere, al di là delle etiche proprie dei singoli e dei vari gruppi sociali, valori condivisi, che possono (devono) essere posti alla base dei progetti di edificazione della convivenza. irrinunciabilità di alcuni valori Esiste perciò un rapporto di proporzionalità diretta tra il livello dell’ethos collettivo di un popolo e quello della politica, nel senso che questo ultimo riflette (e non può che riflettere) la ricchezza (o la povertà) dei processi che si sviluppano nell’ambito del primo. È dunque ingiustificato contrapporre – come talvolta avviene con atteggiamento qualunquistico – società e Stato, rivendican- do la trasparenza e l’integrità della società e denunciando invece la condizione di immoralità e di corruzione presente all’interno delle istituzioni pubbliche. Tra società e Stato sussiste in realtà una grande continuità, essendo, in larga misura, la politica, pur con le innegabili e gravi responsabilità dovute al ruolo di primaria importanza che è chiamata a svolgere, lo specchio della società, anche negli aspetti deteriori di tutela di egoismi particolaristici o di interessi corporativi che spesso la caratterizzano: il clientelismo, che costituisce una delle piaghe più negative della vita pubblica del nostro Paese non attecchirebbe se la domanda di clientela non fosse profondamente radicata nella società. L’attenzione a questo rapporto di continuità e l’importanza perciò di sollecitare un forte risveglio etico all’interno della società, non devono farci tuttavia dimenticare che la politica esige per se stessa la presenza di alcuni riferimenti valoriali, che rivestono il carattere di precondizioni necessarie all’esercizio della sua azione, e sono dunque costitutivi della sua stessa identità. Si tratta di istanze di ordine generale, che vanno incarnate, di volta in volta, in modo appropriato nei diversi contesti situazionali e socioculturali. Si vuole alludere qui al primato della persona mai riducibile a mezzo, alla centralità della società, in quanto discendente dal carattere costitutivamente relazionale della persona, e perciò alla subordinazione ad essa dello Stato, al rispetto del pluralismo e al riconoscimento (non solo teorico) dei diritti delle minoranze, fino all’accettazione di «regole» e «procedure», che, in base a un complesso e delicato sistema di pesi e di contrappesi, garantiscono la democraticità delle decisioni e la possibilità dell’alternanza nella gestione del potere, assicurando l’attuazione di una convivenza democratica e partecipata. funzione etica della politica Ribadire – come si è fatto – la funzione centrale della società civile nella determinazione dell’ethos che deve fornire la base ai processi messi in atto dalla politica non può significare, d’altra parte, rifiuto a riconoscere a quest’ultima una strutturale eticità, connessa al fine che essa deve perseguire, la promozione del bene della polis. Questo significa che la politica, lungi dal poter essere considerata come un ambito del tutto neutrale, è piuttosto investita della fondamentale funzione di dare contenuto situato e operativo a quei valori civili e sociali, che concorrono alla concreta attuazione del bene comune (o dell’interesse generale). Il che comporta – come giustamente ci ha ricordato Max Weber – che il modello al quale essa deve riferirsi è quello dell’etica della responsabilità; di un’etica cioè che senza rinunciare ad un costante confronto con i valori, che rappresentano il riferimento obbligato per scelte liberanti, e tenendo in seria considerazione la rettitudine delle intenzioni soggettive, ha tuttavia come obiettivo il perseguimento del risultato concreto. Un’etica che non si limiti dunque ad affermare a parole l’adesione ai principi, ma si sforzi di renderli efficacemente presenti nel vivo delle situazioni concrete e che si misuri pertanto, di volta in volta, con le conseguenze delle azioni, preoccupandosi del bene «possibile» e accontentandosi talvolta del male minore. L’uomo al quale la politica fa riferimento nell’elaborazione del suo progetto di società è infatti l’uomo concreto, contrassegnato dal limite e dalla caducità (per il cristiano dalla dimensione creaturale) e soggetto all’esperienza del male presente nel mondo come realtà mai del tutto vincibile, con la quale è necessario fare concretamente i conti. L’etica della e nella politica deve essere dunque un’etica realistica, non proiettata verso obiettivi irraggiungibili, ma capace, anche grazie a precisi interventi strutturali, di intervenire efficacemente nei confronti delle ingiustizie esistenti; ingiustizie che possono essere vinte solo se, accanto ad una profonda sensibilizzazione delle coscienze, si sviluppa un’azione volta ad incidere sui processi socioeconomici per modificarne radicalmente il corso. ROCCA 1 APRILE 2006 dalle etiche all’ethos Giannino Piana 27 poteri forti ROCCA 1 APRILE 2006 Romolo Menighetti 28 cosiddetti poteri forti sono quelle realtà – economiche, finanziarie, produttive, culturali, sociali, professionali e quant’altro – in grado di influenzare la politica nazionale, al di là del Parlamento, o meglio, servendosi di esso, ridotto però a semplice paravento dell’apparenza democratica. I poteri forti, infatti, prendono le loro decisioni al di fuori delle Aule, e poi, attraverso i loro collegamenti con il circuito politico-istituzionale, li impongono come risultante dell’attività governativa e legislativa. Il Parlamento resta ancora, sul piano giuridico-formale, l’organismo di potere attraverso il quale il popolo esercita la sovranità. In realtà potere e sovranità sono nelle mani di una ristretta oligarchia. I poteri forti, in quanto possono plasmare il potere politico ai loro interessi, rappresentano una radicale minaccia per la democrazia. Essi, infatti, negano la stessa definizione di democrazia. Non più potere del popolo per il popolo, ma potere di pochi, per pochi. Essi sono espressione della separazione tra democrazia ed istituzioni, tra istituzioni e potere. Da qui la necessità che la politica non scenda mai al di sotto di un certo livello di autorevolezza e dignità, onde poter sempre mantenere il primato sui poteri forti. In Italia, fino a qualche tempo fa, il potere forte per eccellenza era rappresentato da Enrico Cuccia con la sua Mediobanca, che costituiva il punto di gravità permanente tra capitale pubblico e privato. Ora, nell’attuale fase di riassetto della situazione politico-finanziaria dell’Italia, che vede il tramonto del progetto neocentrista «cattolico» (dimissioni di Antonio Fazio da Bankitalia e sua sostituzione con il laico Mario Draghi; fallimento della scalata alle banche degli immobiliaristi guidati da Francesco Caltagirone, suocero di Pierferdinando Casini, massimo esponente del neocentrismo cattolico) i poteri forti risultano essere, prima di tutto, i «monopoli» (telecomunicazioni, energia, trasporti) che, grazie ad una privatizzazione senza liberalizzazione, hanno rafforzato il loro potere. E poi ci sono le banche. Ma il potere si coagula anche attorno ad al- I tri centri tradizionalmente forti. Ne elenchiamo i più importanti, con le particolari caratterizzazioni che attualmente presentano. La gerarchia cattolica italiana. Stando al corteggiamento e alla strumentalizzazione cui è oggetto da parte di molti politici italiani (in gran parte non praticanti), è accreditata di notevole potere. Però non è facile stabilire la reale incidenza sugli orientamenti sociali e politici dei credenti. Confindustria. Dopo anni di collateralismo con Berlusconi, ora Montezemolo è alla ricerca di una precisa collocazione sulle scelte determinanti del Paese. Confcommercio. Già battagliera protagonista contro l’euro e il governo Prodi (tax day), ora è in calo per l’incriminazione del suo presidente Billè. Massoneria. Assorbiti gli effetti giudiziari conseguenti allo scandalo P2, mantiene un basso profilo, anche se molti suoi affiliati siedono in Parlamento e nei consigli di amministrazione di banche, assicurazioni e imprese varie. Banca d’Italia. Ridimensionata come potere dalla recenti scelte dell’ex governatore (ostracismo all’euro, previsione sbagliata circa un nuovo miracolo economico italiano, gestione spericolata delle scalate alla banche) è tornata, dopo il «cattolico» Fazio, entro l’orbita della finanza «laica». Aspen Institute. È un’associazione privata internazionale, nata negli Stati Uniti nel 1950 per iniziativa di un gruppo di uomini d’affari e intellettuali statunitensi. Studia «i problemi e le sfide più attuali della società e della business community». I suoi soci, importanti esponenti di diversi aspetti del potere politico, economico e finanziario internazionale, si incontrano nell’annuale convegno esclusivo che si tiene a settembre a Villa d’Este, sul lago di Como. Presidente per l’Italia è il Ministro berlusconiano dell’economia e vicepremier Giulio Tremonti. L’Aspen appare come nuovo potere forte emergente. Ma tanti altri sono i poteri forti, che si coagulano attorno a interessi specifici: docenze universitarie (Fondazione Magna Carta), farmaci, assicurazioni, giornali, armi, petrolio, e, giù giù, fino ai tassisti. Poi ci sono le mafie. PROGRAMMI ELETTORALI punti caldi a confronto Umberto Allegretti Roberta Carlini Fiorella Farinelli economia PROGRAMMI ELETTORALI non sono tutti uguali 30 P Ma è meglio fermare qui lo sport della «caccia alla bugia», e prendere i programmi sul serio per quello che contengono e promettono. Cominciando con una notazione: la sconfessione del luogo comune «sono tutti uguali». Un luogo comune che alligna da sempre nell’animo profondo di un pezzo dell’Italia, qualunquista o rassegnata: un pezzo d’Italia che prima si ascriveva genericamente alla destra e che finiva per non votare o votare per la conservazione dell’esistente. Ma che ormai da tempo – da quando esiste ed è politicamente rilevante anche l’astensionismo di sinistra – si trova anche dall’altra parte dello schieramento, dalla parte di quanti vedono o temono una sostanziale omogeneità tra i due poli, e pensano che in fondo la gara elettorale sia una gara per la conquista del potere che alla fine poco cambierà delle nostre condizioni di vita, lavoro, salute, eccetera eccetera. libertà e identità Non è così. Per quanto ricoperti di quel cerone che l’obiettivo elettorale comunque sparge in quantità, i due programmi mostrano due diverse (e reali) facce. Frutto di diverse identità e di opposti approcci alla politica e al governo del paese. Può piacere l’una o l’altra, o possono non piacere entrambe, ma sono due facce diverse. Il programma della Casa delle libertà, nell’enunciare i valori di riferimento, parla chiaramente di «libertà e identità», aggiungendo una forte e aggressiva componente di «difesa» (difesa dei valori europei, della nazione, delle nostre imprese e merci, delle radici religiose) alla più alata e generica invocazione della «libertà». Dal piano dell’Unione emergono invece altre parole d’ordine, la parola più gettonata è «solidarietà» e le aperture (agli «altri» nella politica dell’immigrazione, alla «multilateralità» nella politica internazionale, alla «pace preventiva») prevalgono. Ma con molte ed enormi timidezze, quasi che la paura, sentimento su cui fanno leva le proposte di chiudersi nella fortezza Nord-Est, o nella fortezza Italia, o nella fortezza Europa, fosse entrata a pieno titolo in tutte le agende politiche. Non si spiega altrimenti perché, nel dedicare giustamente attenzione al capitolo della cittadinanza degli stranieri, il programma dell’Unione si fermi alla generica invocazione di «ridurre il periodo di attesa»; perché non si può semplicemente dire, come dicono le leggi di paesi di antica immigrazione come gli Stati Uniti, che si è cittadini del Paese in cui si nasce. Dunque, chi nasce in Italia è cittadino italiano. continueremo... Passando ai temi economici, le differenze sono evidenti. Oltre ai tanti «continueremo» e alla promessa di «un ulteriore milione di posti di lavoro», il programma della Casa delle libertà lancia alcune proposte rivelatrici. Per il Sud, alle tradizionali infrastrutture da costruire o sbloccare si aggiungono «zone e porti franchi» e una «banca del Sud»: da un lato, l’idea che solo con zone libere da lacci, tasse, regole e controlli si possa sviluppare l’economia; dall’altro, un veicolo per far arrivare finanziamenti e soldi, con una banca ad hoc. E ancora: per il lavoro, si propone la detassazione degli straordinari. Che è in ultima analisi un incentivo a fare più straordinari. Naturalmente ne saranno contenti i lavoratori che possono così arrotondare i loro magri stipendi, e anche le imprese che possono spremere fino all’ultimo il personale che hanno già, senza dover assumerne altro: una misura che può creare consenso, ma è difficile che crei «ulteriore» occupazione. Per la casa, che è uno dei temi-clou di questa campagna elettorale, si propone di continuare il modello «tutti proprietari»: vendendo le case popolari per pochi soldi agli inquilini, dunque finendo per dare la casa solo a chi già ce l’ha. E promettendo nuove costruzioni, vendite e mutui per tutti gli altri. Infine, sulla finanza pubblica si propone di incidere sul debito vendendo il patrimonio: la prosecuzione di una politi- ca avviata dai tempi delle cartolarizzazioni. C’è ancora tanto da vendere, dice Tremonti ogni volta che va in tv; aggiungendo che i proventi di queste vendite dovrebbero andare a ridurre il debito, dunque non a finanziare la spesa corrente né la riduzione delle imposte (anche queste promesse): dunque, chi pagherà per la spesa o le minori tasse? risanamento e rilancio Non che il programma dell’Unione sia molto più dettagliato sul «chi pagherà» (siamo in campagna elettorale, non dimentichiamolo: ma sarebbe bene che «loro» non dimenticassero che gli elettori e le elettrici si sono abituati a far di conto). Stavolta l’Unione non punta solo sul risanamento, né sulla politica dei «due tempi» (prima aggiustiamo i conti, poi ridistribuiremo i benefici: politica che nel ’98 costò la presidenza del consiglio a Prodi). Risanamento e rilancio, per Prodi, vanno insieme. Dunque il programma è ricco di spese da fare: per generalizzare i benefici del welfare, dare la copertura della disoccupazione a tutti, elargire un assegno per ogni bambino che nasce, fondare 2.500 asili nido in più, finanziare con crediti d’imposta le assunzioni a tempo indeterminato e le assunzioni di ricercatori, fare domanda pubblica nei settori innovativi ed emergenti, garantire un nuovo sistema di assistenza e sanitario adeguato all’invecchiamento dell’Italia, rifare edilizia sociale e sostenere l’affitto… Proposte nuove e vecchie, all’impronta del rinnovamento del modello «stato più mercato» che ha caratterizzato la tradizione europea senza mai riuscire a decollare davvero nell’Italia dei clientelismi, del debito pubblico, dell’evasione fiscale. ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 Roberta Carlini rima ancora che i contenuti, i due programmi contrapposti che sono dietro la scheda-lenzuolo che il 9 e 10 aprile troveremo nell’urna riflettono lo stile radicalmente differente dei due schieramenti e dei due candidati premier. Il programma dell’Unione è poderoso, prolisso e numeroso (281 pagine, decine e decine di proposte); quello della Casa delle libertà ha uno stile decisamente più snello e pubblicitario (22 pagine, la gran parte delle quali dedicate all’illustrazione di quanto già fatto). Il primo ha un titolo: «per il bene dell’Italia». Il secondo dice solo: «programma elettorale 2006», e sotto il logo della Casa. Il primo sembra un libro, il secondo un opuscolo di quelli che si trovano nelle sale d’attesa dei dentisti. Sul primo devi faticare per ore prima di individuare le proposte specifiche per fare «il bene dell’Italia»; sul secondo lo sguardo scorre veloce e trova subito le conferme in un verbo, «continueremo», ripetuto decine di volte. Diciamo la verità: fanno sbadigliare, il primo per eccesso di parole e il secondo per eccesso di «già sentito». Detto questo, vanno letti e riletti e commentati, per capire quel che ci aspetta. In particolare nel campo delle politiche sociali ed economiche, se è vero che la gran parte dei problemi che angustiano le famiglie italiane vengono dalla riduzione di quelle che Keynes chiamava «le prospettive economiche per i nostri nipoti»: i quali nipoti ci saranno, visto che per fortuna il trend della riduzione delle nascite in Italia sembra essersi finalmente invertito, ma rischiano di ereditare un paese sempre più impoverito, visto che l’Istat ha testimoniato per il 2005 la «crescita zero» della nostra economia. E qui va citata per manifesta sfacciataggine una frase che è scritta nel programma della Casa delle libertà, ove si parla della «tenuta dell’economia, ora finalmente in ripresa, con un buon tasso di crescita coerente con la nostra posizione in Europa». (Per quanto edulcorati e propagandistici possano essere i programmi elettorali, un minimo di riferimento alla realtà sarebbe consigliabile). chi pagherà? Tutte proposte che darebbero risorse ma richiedono risorse, fermo restando che il Patto di stabilità europeo è un limite all’indebitamento dei governi. Dove trove31 questione sociale ranno le risorse, Prodi e gli altri? «Riordino» degli strumenti esistenti è una della risposte: ma è limitata, nell’ammontare e nel tempo. «Lotta all’evasione» è un’altra risposta: e non c’è dubbio sul fatto che dopo cinque anni di condoni qualcosa da fare ci sia, qualche dubbio semmai è sul tempo che ci vorrà per ricostruire una macchina dell’accertamento fiscale completamente smantellata. In modo molto accidentale, quasi per caso, ci si imbatte poi in una frase: «abolizione degli ingiustificati vantaggi fiscali per le rendite». Le rendite, ossia i guadagni che non vengono dal frutto del lavoro (salario) né da investimenti produttivi (profitti): ma da patrimoni immobiliari, mobiliari, investiti in modo più o meno speculativo. Ci si indigna ogni volta che qualcuno propone di metterci mano – e la stessa timidezza di quella frase mostra tutta la paura nel farlo – ma qualcuno può spiegare perché la pro- posta di un 12% sulle rendite da patrimonio sia più scandalosa della realtà del 2730% sui redditi da lavoro? Non solo. Tutte le ricerche più serie dimostrano della colossale redistribuzione che in questi anni si è avuta, dal lavoro alla rendita, tra i meno ricchi e i più ricchi. Studiare, in una situazione di difficoltà economica e finanziaria come quella in cui siamo, forme per cui i cittadini che hanno aumentato più che proporzionalmente il loro benessere contribuiscano in misura più che proporzionale al benessere di tutti, non sembra poi tanto scandaloso: semmai, sarebbe un’attuazione dell’art. 53 della Costituzione. La reintroduzione di un’imposta sulla successione per i grandi patrimoni, proposta da Prodi (anche se non scritta nel programma), sarebbe un primo passo simbolico in questa direzione. Roberta Carlini due opposte filosofie ROCCA 1 APRILE 2006 Fiorella Farinelli stato già detto ma vale la pena ripeterlo. Quello che colpisce, nel programma «per il bene dell’Italia» del candidato Prodi e della coalizione che lo sostiene, non è tanto la lunghezza del testo, quanto lo stile espositivo. È un tratto importante, rivelatore di una cultura politica, anche nei quattro capitoli – I nuovi diritti; Lavoro diritti e crescita camminano insieme; Migranti e nuovi italiani; Conoscere è crescere – che sono specificamente dedicati ai temi del «sociale». Si arriva alle proposte, o meglio agli impegni di governo, in modo molto argomentato, molto riflessivo, con un andamento che non dà niente per scontato, ricco di analisi delle cose come sono e come sono diventate, di statistiche e di dati, di confronti con gli altri paesi. È immigrazione Un capitolo emblematico è quello sull’immigrazione. Un tema che manca del tutto, invece, nel programma del presidente del consiglio, che cita la parola solo a propo32 sito delle politiche di prevenzione sanitaria («in particolare per i giovani e per gli immigrati») e vi allude, solo indirettamente, nella premessa: dove si afferma la necessità di difendere «le nostre radici», di «far rispettare la nostra civiltà da parte di chi entra», di coniugare il valore della libertà con quello della «sicurezza della nostra identità». Nel testo dell’Unione, al contrario, le proposte – il diritto di asilo, l’ingresso nella cittadinanza, le politiche antidiscriminatorie e di integrazione, la modifica delle politiche dei flussi ecc. – sono precedute da un’analisi che riparte dai fondamentali. Dall’immigrazione come fenomeno strutturale, che si deve governare ma non si può eliminare; dai tre milioni di stranieri regolarizzati che sono ormai una risorsa essenziale del mondo del lavoro, nella produzione, nei servizi, e perfino in quelli più delicati e difficili dentro le nostre famiglie; dal beneficio che viene alle casse dell’Inps e al nostro sistema fiscale dai contributi e dalle tasse che pagano; dall’insostenibilità di norme che fanno degli immigrati degli «ospiti in prova perenne», dall’importanza per tutti noi di una loro integrazione come cittadini con diritti e con doveri, e dei pericoli viceversa di una loro non-integrazione. E dall’assurdità – dati della Corte dei Conti – di una spesa pubblica per l’immigrazione che, su ogni 5 euro, ne dedica 4 alle azioni di contrasto, detenzione, espulsione, che rialimentano la clandestinità, e 1 soltanto alle politiche di integrazione. Non sono dunque proposte che derivano solo da sistemi valoriali o da scelte etiche: il testo analizza, presenta argomenti, non grida e non adotta le tecniche della persuasione, vuole discutere e tramite la discussione convincere. politiche sociali nuove Da dove deriva questo stile espositivo? Dall’insopportabile presunzione pedagogica di una cultura politica antica che deve sempre spiegare ogni cosa prima di avanzare anche la più piccola proposta? O dalla necessità – come insinuano i numerosi detrattori – di mascherare con un’abbondanza di parole la pluralità delle posizioni politiche che si accalcano sotto le bandiere dell’Ulivo? Non è da escludere che questi elementi abbiano un qualche peso, ma – guardando anche agli altri temi del «sociale», il lavoro, la casa, la sanità, l’istruzione – le ragioni di fondo sembrano piuttosto altre. Intanto la necessità di ricostruire analisi e significati condivisi, contro la confusione che c’è sicuramente negli elettori, e forse nelle stesse forze politiche, attorno a temi che sono stati utilizzati come clave o come manifesti ideologici, o che sono stati insistentemente devastati dalla disinformazione e dal fragore dei media. Ma anche e sopratutto l’esigenza di elaborare politiche sociali nuove, attente alla tutela dei più deboli ma lontane dall’assistenzialismo, dal welfare che risarcisce ma che non promuove, da strumenti che sanciscono la minorità delle persone, e forse le mortificano, ma non le aiutano a trovare una propria strada soddisfacente. È questa transizione da politiche sociali «passive» a politiche «attive», all’ordine del giorno in tutti i paesi europei, che in Italia si rivela come particolarmente difficile: e proprio perché i processi di innovazione avviati negli anni ’90 sono stati interrotti e smentiti da un liberismo così sgangherato ed iniquo da indurre molti a tornare indietro, a prima di quel decennio, ai vecchi miti e ai vecchi strumenti delle politiche sociali degli anni settanta. Lo si vede benissimo analizzando la parte del programma dedicato ai problemi del lavoro, dove l’impegno a coniugare tutela e promozione senza chiudere gli occhi di fronte alle trasformazioni dell’economia e del mercato del lavoro appare assolutamente evidente. A proposito del precariato, per esempio, non ci sono proposte mirate solo al contenimento del fenomeno (basate sull’eliminazione delle maggiori convenienze economiche del lavoro precario rispetto a quello stabile, sul superamento dei dispositivi peggiori della legge 30, sull’incentivazione del lavoro a tempo indeterminato ecc.), ce ne sono anche altre per la costruzione di reti di sicurezza (ammortizzatori sociali, strumenti previdenziali, formazione permanente ecc.) che riducano l’impatto negativo di una flessibilità del lavoro che è ormai impossibile eliminare del tutto. E altre ancora che, senza negare la possibilità del lavoro interinale, tornano sulla stessa normativa introdotta dieci anni fa dal centrosinistra per migliorarne la regolamentazione. Stessa intenzione di calibrare vecchio e nuovo c’è anche rispetto ai problemi previdenziali: se da un lato occorrono nuovi strumenti di sostegno delle pensioni che sono state erose dal costo della vita, non solo quelle «al minimo» ma anche quelle di livello più alto ma ormai insufficienti ad una vecchiaia dignitosa, dall’altro si accetta ormai che le pensioni da lavoro debbano essere integrate da strumenti previdenziali complementari, e ci si occupa di come alimentarli e disciplinarli. Non si può, insomma, tornare al passato come se Berlusconi fosse un incidente della storia, e come se il consenso di cui ha goduto – e di cui ancora gode – non nascesse anche da un evidente logoramento, di fronte ai processi economici e sociali nuovi, della cultura tradizionale della sinistra politica e sindacale. Per i problemi della casa, quindi, non si può proporre solo nuova edilizia pubblica popolare, ma anche mutui agevolati per le giovani coppie che vogliono acquistarla, ma anche dispositivi per raffreddare la corsa alla speculazioni sugli affitti e sulle compra-vendite. Per la sanità, non si può solo impegnarsi a destinare più risorse pubbliche, ma occorre anche lavorare ad eliminare gli sprechi e le inefficienze di sistemi malgestiti. Per i giovani, non bastano scuole e università migliori o sussidi di diritto allo studio a fondo perduto, bisogna anche – come in Germania, Regno Unito, Svezia – erogare ROCCA 1 APRILE 2006 PROGRAMMI ELETTORALI 33 istituzioni PROGRAMMI ELETTORALI liberismo a tutto campo ROCCA 1 APRILE 2006 Assai più facile, al contrario, è l’elaborazione programmatica dell’altra parte. Intanto perché si presenta come la «continuazione «di quello che è stato già fatto in questi anni, rispetto a cui non sembrano esserci dubbi né ripensamenti, e tanto meno il bisogno di nuove analisi». E poi perché la filosofia è quella liberista di sempre: si tratta di «liberare» il più possibile le famiglie, le persone, le imprese dal peso del fisco e poi lasciare che ciascuno, con le proprie risorse, acquisti quello che vuole e che è in grado di procurarsi, i servizi, l’istruzione, la sanità, la casa. Si tratta quindi di «abbattere la manomorta del debito pubblico», di ridurre la spesa sociale, di alleggerire non solo la burocrazia ma anche il ruolo dei sistemi pubblici, e di sostenere con agevolazioni i soggetti privati. Le politiche per le famiglie vedono al centro l’applicazione del «quoziente familiare», per calibrare l’imposizione fiscale sulle caratteristiche del nucleo (che dev’essere, naturalmente, quello del modello tradizionale), quelle per il lavoro non ci 34 sono (perché la legge 30 è perfetta, l’occupazione cresce, il precariato è moderna flessibilità e al resto ci penseranno le imprese), quelle per l’immigrazione neanche. Per la casa, la prospettiva principale è quella di continuare a vendere il patrimonio pubblico e, con quelle risorse, erogare mutui agevolati per gli acquisti; per la sanità è «ridurre le liste di attesa»; per l’istruzione, è garantire i libri di testo gratuiti fino ai 18 anni e sostenere la libertà di scelta delle famiglie tra il pubblico e il privato. Non c’è da convincere nessuno con le analisi, gli argomenti, la definizione della fattibilità delle diverse misure, bisogna solo persuadere, con le stesse tecniche della pubblicità commerciale. Non mancano, quindi, i messaggi rivolti a target particolari, quelli che dovrebbero votare per la Casa delle Libertà a scatola chiusa. Per gli anziani, c’è l’innalzamento delle pensioni minime a 800 euro, l’eliminazione del canone di abbonamento televisivo e la «carta d’oro» con cui i settantenni arzilli potranno andare gratis al cinema e allo stadio. Per le donne che lavorano – che in Italia sono assai meno che in altri paesi europei e che non godono di una situazione di pari opportunita – ci sono solo asili nido «sociali e aziendali». Per le coppie che tardano a fare figli, magari perché entrambi i potenziali genitori sono precari, c’è il «bonus» una tantum per ogni nuovo nato e la promessa di sussidi per comprare il latte artificiale fino ai sei mesi di vita dei bambini. Per i clienti delle banche, che negli ultimi anni sono più volte incorsi in guai prodotti dagli istituti di credito, c’è la promessa che si potranno trasferire i conti- corrente senza oneri – proprio «come un cellulare» – da una banca all’altra. Infine, per le famiglie dei malati mentali e per tutti quelli che nella legge 180 vedono il segno di una cultura sociale e medica perversa, di un antico antiautoritarismo che sovverte ogni sano valore, c’è l’impegno ad abbattere presto anche quella norma. Una filosofia spiccia, disinvolta, basata sulla definizione di prodotti specifici per particolari gruppi di clienti, fatta di spot più che di argomenti: mortificante per quanti, tra gli elettori, vorrebbero vederci chiaro e votare a ragion veduta; ma forse ancora assai attraente per molti altri. Fiorella Farinelli progetti europei e internazionali Umberto Allegretti aranno decisivi per l’Italia, e molto influenti anche sull’Europa, i risultati delle elezioni politiche e il di poco seguente referendum sulla riforma costituzionale approvata dal centrodestra, la cui entrata in vigore è subordinata all’esito del voto referendario già promosso, dati i contenuti della riforma, sia dai parlamentari dell’attuale opposizione che da ben 15 regioni e da quasi un milione di elettori. Perciò sembra di grande importanza un confronto fra i programmi che le due coalizioni presentano al corpo elettorale, confronto che noi faremo per i progetti istituzionali, europei e internazionali. S Costituzione, Stato, Autonomie regionali Cominciamo dai problemi istituzionali interni. Il terreno è reso aspro da una riforma costituzionale che porta all’estremo le prassi e i propositi già seguiti dalla destra. Essa infatti conferirebbe alla maggioranza – anzi, neppure all’organo governo, ma all’individuale posizione del primo ministro – dei poteri esorbitanti di dominio sul parlamento, le cui funzioni e la cui stessa sorte sarebbero rimesse interamente all’imposizione da parte del premier della questione di fiducia per ogni decisione importante e alla sua decisione di scioglierlo (con svuotamento dei poteri di arbitrato del presidente della repubblica). Per altro verso, darebbe nelle mani delle regioni settori delicatissimi come l’assistenza e l’organizzazione sanitaria e la gestione del sistema scolastico, mettendo a grave rischio fondamentali diritti sociali dei cittadini e la loro uguaglianza in tutto il territorio del paese, e simulando oltretutto, ma non attuando, la trasformazione del senato in una camera delle regioni, le cui funzioni sarebbero confusamente distinte e intrecciate con quella della Camera dei deputati, la sola dotata (nominalmente) del potere di fiducia verso il governo. La difesa della riforma è ovviamente posta dalla destra al vertice del suo programma e la vedrà impegnata per sostenerla nella campagna referendaria. Quanto al centrosinistra, esso vi contrappone il voto referendario che dovrà seppellire questa profonda alterazione della Costituzione, assieme alla rigorosa affermazione che nessuna «grande riforma» è necessaria né utile per i problemi del paese. Rinnegata così una tentazione che spesso ha percorso in passato anche le file della sinistra, il programma si propone di approvare immediatamente nel nuovo parlamento, con l’auspicato concorso della contrapposta coalizione, l’elevamento della maggioranza richiesta per ogni riforma costituzionale, rispetto a quella attuale che può essere anche solo quella del cinquanta per cento più uno. Per poi prospettare che – sempre in collaborazione tra tutte le forze – vengano approvate con singole separate leggi di revisione, da sottoporre a distinti referendum, modifiche della Costituzione che migliorino il sistema delle garanzie, come contrappeso al già intervenuto e tuttora auspicato rafforzamento del governo. Un modo di rapportarsi alla Costituzione, dunque, estremamente corretto, che si tradurrebbe nell’aumento delle maggioranze necessarie per la nomina del presidente della repubblica e dei presidenti delle due camere, nell’istituzione della possibilità di ricorso alla Corte costituzionale – normale in altri paesi e consono a uno stato di diritto – per i vizi nell’elezione e sulle questioni di ineleggibilità e incompatibilità dei parlamentari e dei membri del governo, e in altre utili garanzie contro il prepotere della maggioranza di turno. Meno lineari le proposte per razionalizzare il sistema delle autonomie regionali e locali e i rapporti stato-autonomie. A questo riguardo, si converge giustamente sulle modifiche restrittive già lodevolmente incluse nell’attuale grande riforma costituzionale, volte a togliere alle regioni alcuni poteri eccessivi conferiti loro dalla riforma costituzionale del 2001 (in tema ad esempio di reti dell’energia, del trasporto e delle comunicazioni); e per converso si spazzano via le cosiddette devoluzioni alle regioni di nuovi poteri, di cui si è già 35 ROCCA 1 APRILE 2006 prestiti che potranno essere restituiti dopo la stabilizzazione professionale, con cui sviluppare una responsabilizzazione delle persone rispetto al proprio futuro. Più in generale, per assicurare i servizi sociali necessari a tutta la popolazione, occorre certo sviluppare e qualificare il pubblico, ma anche sostenere e regolamentare il contributo del privato e del privato sociale. Una filosofia del sociale, insomma, che cerca di stare in linea con le indicazioni europee e con le politiche che mettono al centro la promozione – non solo la tutela – delle persone; la difesa non sopratutto o unicamente dei posti di lavoro esistenti ma in primo luogo della capacità di tenuta dei soggetti nel mercato del lavoro. Che recupera l’importanza della concertazione tra le parti sociali e il ruolo insostituibile del sindacato, e tuttavia non mostra indulgenza per i corporativismi da chiunque difesi: fino al proposito di rivisitare una norma sulla regolamentazione degli scioperi che, con tutta evidenza, non basta ad evitare la sopraffazione degli interessi degli utenti da parte delle categorie più forti. Ma questi nuovi equilibri non sono facili, e dunque occorrono analisi puntuali, argomenti di merito, proposte sostenibili, misure effettivamente praticabili. Non bastano né le bandiere né gli editti, insomma, occorre convincersi e convincere. istituzioni PROGRAMMI ELETTORALI la questione giustizia ROCCA 1 APRILE 2006 Sulla giustizia, il centrodestra intende completare le riforme già compiute stabilendo la totale separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, aggravando il regime delle responsabilità disciplinari, civili e persino penali dei magistrati, inasprendo le pene (soprattutto per i reati minori e non certo per quelli di corruzione o amministrativi). L’Unione, invece (non possiamo qui entrare in tutti i particolari), propone di azzerare quelle riforme quanto meno in tutte le parti più insostenibili, escludendo fra l’altro ogni rigidità nell’accesso alla funzione giudicante e a quella requirente, ogni selezione che si presti a finalità di controllo dell’orientamento dei magistrati e ogni formalismo concorsuale nelle promozioni, sopprimendo ogni gerarchizzazione negli uffici del p.m. e riconducendo la Cassazione alle sue funzioni di legittimità. È chiaro che tra le riforme da accantonare dovrebbero esserci la legge ex-Cirielli e la legge Pecorella, che hanno apportato guasti gravi al sistema. Invece, utili riforme proposte nel programma, che aderiscono, pur non tutti accogliendoli, a orientamenti ormai maturati, vanno nella direzione – richiesta sia da ragioni di efficienza e rapidità del servizio giustizia che dal fine di ottenere una giustizia più giusta – di migliorare l’organizzazione giudiziaria, costituendo l’ufficio del processo che collabori col giudice sollevandolo dalle incombenze più minute, assicurando criteri migliori – ma un po’ generici, bisogna dire, nelle nomine dei capi-uffici, ed altre ancora. In ogni caso, l’Unione promette un più corretto rapporto tra governo e magistratura, che dovrebbe togliere dal campo i problemi più gravi di questi anni. 36 Sull’amministrazione, è impressionante la carenza di ogni proposito della destra (se si esclude una generica modernizzazione e una politica di informatizzazione). Abbondante, invece, la serie di proposte dell’Unione. Il ripristino dell’imparzialità, contraddetta dal governo a partire dalle legge Frattini e da tutta la prassi, che richiede di tornare al reclutamento per concorso e al rispetto dell’autonomia dei dirigenti nei confronti dei vertici politici. La ripresa di una messa a punto dei sistemi di controllo dei risultati e di assicurazione della responsabilità dei funzionari. L’impegno di assumere 1000 giovani laureati selezionati per le nuove professioni e altre proposte per realizzare una forte professionalità in seno alle amministrazioni. Europa identità e pace Passando alla politica europea e internazionale, notiamo che non a caso non sono trattate in forma specifica dal documento della destra se non come supporto di legittimazione e di realizzazione delle scelte interne, che la politica estera ha avuto nel governo Berlusconi. Afferma l’impegno nei confronti dell’Europa» e insieme «la nostra alleanza con gli Stati Uniti», senza però chiarire su come raggiungere obiettivi che, in concreto, il governo ha seguito nell’intero quinquennio in forme incompatibili tra loro. Notevole la totale assenza di ogni presa di posizione sulla gravità dei problemi del Sud del mondo, la riaffermazione di un esclusivo nesso pace-libertà, nessuna indicazione su come affrontare i conflitti – compreso quello irakeno – e la mancanza di proposte sulla riforma delle istituzioni internazionali, sulla ripresa del processo di costituzionalizzazione dell’Europa e sul rinsaldamento delle politiche europee entrate in quest’anno in plurime e gravissime crisi. Un punto poi è particolarmente rivelatore: l’accento fortissimo messo sul concetto di «sicurezza della nostra identità», indicato come valore guida della nostra politica. Non mancano ovviamente gli accenni espliciti alle radici giudaico-cristiane dell’Europa e alla difesa dei valori religiosi, come pure la critica a ogni fondamentalismo. Tutto ciò vuol dire muoversi nella linea di attizzare lo scontro interculturale nel mondo. Si ripropone per il futuro «il rafforzamento del contrasto all’immigrazione clandestina» e la precedenza nell’ammissione degli stranieri a quelli dei «Paesi che garantiscono la reciprocità dei diritti». Assolutamente opposto è il quadro che, su tutto quest’arco di problemi, emerge dal programma dell’Unione. Esso dedica due densi e distinti capitoli alle politiche europee e internazionali e lo fa recependo dall’insegnamento dei fatti in corso e dalle proposte formulate in sedi culturali e di opinione pubblica che da tempo si battono su questi fronti (ad esempio molte Ong) progetti e intenzioni apprezzabili. Sull’Europa, ci si esprime con chiarezza a favore d’una ripresa del processo di costituzionalizzazione, respingendo il prolungarsi di un dannosissimo status quo e ogni fantomatico proposito di «nucleo duro» (tra quali paesi, infatti, si potrebbe mai costituirlo?). Per tale processo – che si pensa debba concludersi nel 2009 con un referendum unitario su scala europea – non si precisano però contenuti più adeguati di quelli caduti coi referendum francese e olandese, né nel senso di dare all’Unione (come i popoli europei hanno mostrato di volere) strumenti avanzati di politica sociale, e non solo economica, e migliori istituti di democrazia, né nel senso di precisare il valore e gli strumenti di una politica di pace. Importante, però, che si proponga l’adozione fin da subito dei miglioramenti istituzionali attuabili anche senza un nuovo trattato, come l’istituzione di un ministro degli esteri europeo e l’abbandono del veto nelle decisioni di politica estera; come pure che ci si riprometta di usare della prossima presenza dell’Italia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite agendo in nome e per conto dell’Europa e che si esiga che l’Europa uniformi le sue politiche in seno a tutte le istituzioni internazionali. Si prende anche una posizione equilibrata sui problemi dell’allargamento, sottolineandone le rigorose condizioni ed esprimendosi con nettezza solo a favore dell’inserimento nell’Unione dei Balcani. Viene invece richiamata la «politica di vicinato» impostata dalla Commissione Prodi, come adatta ad affrontare le relazioni con i paesi confinanti, tra cui occorrerebbe considerare, riteniamo, quelli delle sponde meridionale e orientale del Mediterraneo. Sulle politiche quotidiane dell’Unione, si propone fondatamente l’incremento del bilancio e il potenziamento dei fondi strutturali e del fondo di coesione e l’uso per politiche di investimento di prestiti obbligazionari europei. Ma allora perché non si raccolgono le proposte di istituire tasse europee sulle transazioni commerciali a breve e sui trasporti aerei e marittimi? Apprezzabili sono anche alcune altre proposte, come quella di istituire un «corpo civile di pace» per l’intervento nelle crisi e di rispettare più rigorosamente le restrizioni al commercio di armi verso i paesi in guerra o violatori dei diritti umani. Onu, rapporti Nord-Sud Sui problemi internazionali in genere, l’Unione promette un’applicazione rigorosa dell’art. 11 della Costituzione, un’azione sostenuta dai principi del multilateralismo nel quadro dell’Onu, del multipolarismo in cui l’Europa riequilibri, tra l’altro, i rapporti transatlantici, della politica preventiva di pace, di legalità, equità e giustizia internazionale, e di cooperazione allo sviluppo fuori dallle strettoie anche finanziarie che l’hanno fatta tanto gravemente decadere in questi anni. In questo contesto, si scarta la «riforma oligarchica» del Consiglio di sicurezza fondata sul suo allargamento ad alcuni paesi in qualità di membri permanenti e invece si postulano una presenza in seno all’Onu di organismi consultivi interparlamentari e rappresentativi della società civile, l’appoggio alla proposta di istituire un Consiglio dei diritti umani e l’adozione, finora molto contrastata dai paesi occidentali, di dar vita a un Consiglio di sicurezza economico-sociale dotato (finalmente!) del potere di dare «indirizzi» obbligatori al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale e al Wto. Inoltre, si dichiara necessario sottoporre al parlamento, con votazioni separate, ogni spesa per missioni all’estero: il che, vorremmo precisare, dovrebbe comportare un voto preventivo sull’invio della missione, in conformità del principio risultante dall’art. 78 della Costituzione. Perché non dichiarare più chiaramente, allora, che il problema dei rapporti NordSud, in campo sia economico che culturale e politico, è il grave complessivo problema del mondo di oggi, e cominciare a mostrare questa priorità nei nostri comportamenti concreti nel Mediterraneo, tra l’altro collegando a questi, secondo un orientamento culturale ampiamente motivato, l’affrontamento efficace della rinascita del nostro Mezzogiorno? ROCCA 1 APRILE 2006 detto. Ma si rinuncia ad alcune interessanti proposte, inizialmente previste nelle precedenti bozze del programma, riguardanti le competenze concorrenti tra Stato e regioni che più hanno attizzato i loro cattivi rapporti (negli ultimi tempi diventati veramente eccessivi). E inoltre non ci si impegna – anche qui modificando le bozze – a rendere il senato una vera camera regionale simile a quelle esistenti in vari Stati federali, nella quale le regioni entrerebbero direttamente coi loro rappresentanti a dar vita a un luogo di compensazione di quei rapporti, a tutela insieme dell’autonomia dei territori e dell’unità nazionale. Umberto Allegretti 37 ché assuma una qualche definitezza. Ecco, proprio questo chiede Narciso al suo – alla sua – partner. Che se ne stia là immobile, il più possibile, e che resti là a guardarlo/a fisso, in modo tale che lui/lei si possa specchiare. E vedersi bello, grandioso, invincibile, attraverso lo sguardo ammirato degli altri. Ecco perché i legami non funzionano: non è ammessa la comunicazione di ritorno, solo una è la via, solo andata, e il ritorno, paradosso dei paradossi dei miti, nel caso esista, deve e può essere solo un’eco, che ripete mille volte «sei tu il più bello del reame…!». COSE DA GRANDI bello e impossibile 38 A E il giusto equilibrio delle cose verrà ristabilito, il giorno in cui Narciso andrà alla fonte in mezzo ai monti, e si avvicinerà per bere, e dimenticherà perfino la sete nel vedere questa immagine di volto perfetto rispecchiata dall’acqua, e stavolta crede di poter amare, perdutamente irretito dalla propria bellezza, si illude che anche per lui sia scoccato finalmente il giorno fatidico, e preso dal desiderio si spenzola sull’acqua per abbracciare quel volto. Si arrabbia, stavolta, Narciso, perché quel volto, quella figura non si lascia afferrare, e si uccide – lascia intuire Ovidio – o cade o si getta nella fonte e annega – raccontano altri – abbagliato da una illusione. Narciso e il non-amore L’amore a circuito chiuso, tra me e me stesso/a, ecco la croce di Narciso. Innamorarsi follemente, immaginando qualità sublimi nell’altro/a, solo perché ci ha gratificato a dovere, solo perché si è chinato/a ai nostri piedi adorante, per poi gettarlo/a via senza rimorsi quando ci avrà deluso o soltanto annoiato. Proprio perché ha continuato a fare quello che all’inizio ci ha tanto ammaliato, cioè vivere delle nostre briciole, pendere dalle nostre labbra, camminare nella nostra ombra. Il rapporto con il partner è di umiliazione più o meno conclamata, è di prosciugamento della sua energia vitale e della sua generosa dedizione, e quando l’altro è ridotto ad una larva, come il vampiro all’alba, Narciso si allontana dalla sua ormai inutile vittima. Non sa stare alla pari nei legami, Narciso, lui non sa ascoltare, non ce la fa ad accogliere l’altro-da-sé, a stare davanti alla differenza, al confine dell’altro/a, si aspetta solo che vengano confermate le sue aspettative, che vengano accolte come verità assolute le sue proiezioni. Non sa scorgere i moti dell’ani- mo altrui, sa solo usare gli altri come mezzi, utensili per un qualche suo scopo. Ha uno spasmodico bisogno di essere ammirato/a, e usa tutti i mezzi per raggiungere la sua meta: il podio del vincitore. Lui o lei sono prede, trofei di caccia, bottini di guerra, spesso sottratti ai contendenti, e per ogni testa impagliata in più sulla parete, Narciso segna un punto a proprio favore, si riscatta da una immagine di sé inadeguata e vacillante. Proprio come quella rispecchiata dall’acqua del lago, l’immagine di sé è, nella percezione che questa persona ne ha, tremula, indefinita, precaria. Bisogna che l’acqua sia immobile e bisogna guardarla fissamente per- Alla fine la ninfa scacciata era invece esattamente ciò di cui il Nostro aveva più bisogno, se solo non avesse piagnucolato tanto di volerlo amare come si deve. Ma Eco aveva anche lei i suoi bravi limiti, poveretta: non poteva più parlare, non sapeva più dire la sua. E così ha firmato la sua condanna. Perché la parola, quando è il frutto del pensiero, quando è il distillato delle idee, è potente, e svela le illusioni, fa cadere il velo e rompe lo specchio. L’imperatore sarebbe nudo, se si potesse parlare, pardon, se si potesse guardare e pensare. Narciso la scaccerebbe lo stesso, e anche più velocemente, una Eco che non facesse solo l’eco. Ma almeno lei andrebbe a cercarsi qualcun altro meno sordo nel cuore, invece che struggersi di un amore impossibile fino a consumarsi. Il destino di molte donne – qui il genere femminile prevale in modo clamoroso – si compie proprio in questo dilemma: se penso, se parlo, se rompo il gioco, allora mi lascia. Allora imparo a non parlare, a volgere a Lui – la maiuscola è d’obbligo, ma la divinità qui è umana – il mio sguardo ammirato e sollecito, a farmi piacere questo servizio ancillare, e in cambio Lui mi terrà ai suoi piedi. Non mi lasciare, sarò l’ombra della tua ombra, l’ombra del tuo cane, l’ombra della tua mano, non mi lasciare, cantava Leo Ferré. Allora il mio vuoto d’amore lo colmo da sola: me la canto e me la suono, e vado distillando rare goccioline infinitesime di bene da mari di acqua di scarico, e riempio il vuoto del tuo amore che non c’è col mio amore che diventa smisurato, grande, dipendente, assoluto. Tanto poco ti percepisco nel rapporto, che conto ogni virgola, ogni battito di ciglia, e mi interrogo per ore per cercare di interpretarti, di non urtarti, e anticipo i tuoi desideri, in modo che almeno, se proprio non riesci ad amarmi, Tu non possa fare a meno di me. E ti nutro di pane e ammirazione, di 39 ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 Rosella De Leonibus sedici anni soltanto, Narciso, ci racconta Ovidio, era già il più bello del reame. E però, pur avendo in dotazione un aspetto che faceva innamorare chiunque lo vedesse, lui non si sentiva attratto da nessuno. Neanche da chi – uomo o donna – era disposto ad uccidersi per il dolore di non poterlo avvicinare. Cuore crudele, cuore di pietra… No, solo cuore impenetrabile, cuore inaccessibile, blindato, cuore che non si commuove, non si sposta di una virgola per nulla e per nessuno che sia diverso da se medesimo. O dalla propria immagine, stavolta, modernamente, non quella rispecchiata dall’acqua limpida del laghetto, ma quella mediatica, per esempio, o quella pubblica. Non piange, Narciso, non ha amici, solo ammiratori, e nessuno lo interessa davvero. Il mito racconta della ninfa Eco, la quale, punita per il suo spettegolare, aveva avuto tolto il dono della parola e poteva solo ripetere l’eco – appunto – delle parole altrui. Eco, così menomata come era della capacità di esprimere un suo pensiero autonomo, si innamora perdutamente di Narciso, perché si sa, più gli uomini sono impossibili, e impassibili, e più ci attraggono. Vale per noi donne, ma non è nostra esclusiva, questo vezzo. Lui non ci pensa due volte e la scaccia in malissimo modo, ed Eco, vinta dal dolore del rifiuto, si consuma pian piano, fino a che di lei rimare solo il soffio – l’eco – della sua voce. Puro suono, ogni volta un po’ più lontano e flebile, mai più solida carne e sangue, Eco sfinita e mai morta, condannata per sempre a non esistere, se non nella risposta pedante e ripetuta al richiamo altrui. Ma il popolo vede, tira le somme e non dimentica, almeno nei miti, e augura al bello e impossibile di venire a sua volta rifiutato come lui aveva fatto con gli altri. Narciso e la sua eco Narciso e il suo dolore segreto ROCCA 1 APRILE 2006 C’è un punto che non abbiamo chiarito: come avviene che qualcuno si leghi così tanto a Narciso? Forse perché fugge, rifiuta? O per la sottile manipolazione che esercita sul partner, tanto da farlo sentire all’inizio innalzato ed esaltato, e poi colpevole di una qualche grave omissione indefinibile, ma tale per cui, se ti comporti bene, ti farò uno sconto di pena, forse forse se ti darai tutto/a a me, anche la grazia? Naturalmente rimarrai mio ostaggio, il mondo non esiste più, io ne sono il centro assoluto e tu ruoterai per sempre intorno a me, il re sole della tua inutile vita. Non piace a Narciso restare solo a lungo, avanti il prossimo se tu non vuoi più giocare a farmi da specchio o da spalla. Solo in tarda età, quando la bellezza o la salute, il denaro o il prestigio saranno sfumati, allora assaggerò la solitudine, e sarà amara e dura, perché non ho mai costruito sostanza in questo unico compagno che mi ritrovo ad essere per me stesso. Se ne sono andati tutti i fans, nessuno grida più il mio nome davanti al mondo. Già non ho mai sopportato alcun genere di critica, e come faccio, adesso che sono costretto a guardarmi fuori dalle luci della ribalta, nel grigiore quotidiano, e intravedo per qualche istante, a tratti, angosciosamente, i frammenti di questo disastro di vita che ho alle spalle, dove ho invidiato e infierito su tutti, dove non mi sono mai goduto serenamente il frutto del mio lavoro, dove non sono mai riuscito a scaldarmi il cuore… Un anestetico per il mio dolore profondo, ecco cosa cerco nella approvazione degli altri. Dentro di me c’è un bambino che chiama la mamma e vuole specchiarsi nei suoi occhi affettuosi, per questo attraggo tanto le donne. Se non ti ascolto, forse non sono stato ascoltato, forse non ho mai imparato su di me l’empatia che non riesco a produrre, e magari per sopravvivere a questo vuoto mi sono dovuto immaginare un sé grandioso e onnipotente, mi sono dovuto pensare speciale e migliore, e gli altri tutti insignificanti, per mantenere le proporzioni. Il mio tallone di Achille si chiama autostima. Te ne mostro una montagna, ma è una montagna di cartapesta, dentro è tutta vuota. Per questo non ti faccio avvicinare troppo, sennò mi smascheri. Per questo non reggo nessuna critica, sennò mi smonti. Ho biso40 gno che tu – tutti – ci crediate che io valgo, così sembrerà vero anche a me, per un po’. Non hai idea di quanto questo sia vitale per me. Se poi non fossi riuscito a costruire neanche la montagna di cartapesta, allora nasconderò questa mia povera verità in tutti gli angoli più bui, cercherò di passare inosservato/a, studierò con attenzione ogni tua parola e ogni tua smorfia per capire se mi apprezzi o no, starò davanti a te come un mendicante chiuso e altero, bisognoso nella tua elemosina e incapace di suscitare compassione. La vergogna e la paura saranno le mie guardie del corpo, ma attenzione: l’interesse che ho per te è solo per strapparti un segno di approvazione, solo per anticipare il tuo rifiuto con una mia chiusura. Solo per predare qualche lembo di energia e per vigilare che tu non mi ferisca. Mai mi potrò affidare, fidare, scambiare le mie cose, le mie idee, l’affetto con te. Ti importunerò come un’ombra un po’ appiccicosa, geloso dei tuoi successi e sottilmente ambivalente anche se mi aiuti. Non fidarti di me, ti morderò la mano che mi porgi, sembro miserevole e innocuo e invece sono famelico/a. Di una fame atavica di affetto e approvazione. Adesso sono disposto anche a rapinarli. Narciso e lo schermo L’unica mia possibilità, se ho costruito la montagna di cartapesta o se non ce l’ho fatta, è che tu pensi e parli parole forti e sincere, e mi sveli poco a poco la mia anima vuota, che tu non abbia paura o riverenza per me, che tu sia netto quanto io sono ambiguo, che tu sia fermo quando tento di sedurti, che tu resista quando tento di distruggerti. Che tu non dipenda dal mio giudizio, che tu sia adulto quando intuisci in me il bambino piangente e solo. Che mi insegni a conoscermi, a guardarmi dentro, e poi ad amarmi anche così come mi sono riconosciuto, e poi ad amare, se mai ce la farò… se mai te lo lascerò fare. Sai qual è anche il problema? Che siamo in tanti, qua intorno, siamo quasi la norma, anzi, il modello, il punto di arrivo, la meta più ambita. È difficile scendere dal trono, e ancor più non tentare di salirci. Oggi lo specchio, il laghetto limpido, è lo schermo della tv, è il numero dei siti che compaiono quando cerchi il mio nome in internet. Oggi l’eco è l’opinione pubblica, i giornalisti compiacenti ne sono i musicanti, il sondaggio il direttore d’orchestra. Come nel racconto di Ovidio, qualcuno prima o poi produrrà un atto di giustizia. LEZIONE SPEZZATA sembra scuola Stefano Cazzato O ggi, lunedì mattina, è un giorno speciale. Il primo giorno speciale di una settimana speciale: quella dello studente. Vengo accolto da uno striscione su cui c’è scritto «l’immagginazione al potere» e la cosa mi mette già di cattivo umore. Va bene l’immaginazione ma anche la grammatica però… «Professò, da oggi pe nà settimana, niente spiegazioni e interrogazioni, che figata, sembra scuola ma non è scuola…». Dedicata ai ragazzi, concessa ai ragazzi, regalata ai ragazzi, la settimana dello studente, lontana parente dell’autogestione, è decisa dal Collegio con una specie di patto tacito tra presidi impauriti, che temono le occupazioni, e alunni disorientati, che non le saprebbero fare: voi vi impegnate a non occupare l’istituto, noi vi doniamo sette giorni di spensieratezza. «Preferite dicembre, ragazzi, o gennaio? Proponete, vediamo cosa si può fare!». Mi avvio lungo l’interminabile corridoio che porta in sala professori, a destra e a sinistra le aule, da cui proviene un vociare confuso e quell’eccitazione, mista a spavalderia, con la quale Settini e compagni hanno deciso di sfidare le istituzioni. «Ce viene al torneo de briscola in palestra? E dai, professò, sempre a legge sti libri de filosofia». «Professò se rilassi, che è stà faccia tirata, me sembra un…». Freme l’organizzazione di attività parallele, si dice che arriverà qualche esperto a parlare di non si sa che, ma non si vede nessuno fino a mezzogiorno; intanto si tiene una finale di calcetto, sui libri, quei poveri libri, tutt’al più ci si siede ma non se ne troverebbe aperto uno, di aperte ci sono solo le iscrizioni al corso di salsa e merengue, di cucina africana e di linguaggio del corpo. Noi, come da una torre di controllo, vigiliamo che tutto si svolga secondo le regole. «… il linguaggio del corpo… che ci tocca sopportare!» commenta sconsolato il collega Corseti sperando di aprire un dibattito sul degrado della scuola ma nessuno lo segue. Poco più in là ci sono gli studenti adulti, esenti dalla febbre-giovane: sono quelli del «diurno» che il tempo, più che perderlo, vogliono recuperarlo. Non è mai troppo tardi, il diploma è gia qualcosa e poi non si sa mai l’università. Anche con gli adulti c’è una specie di patto: noi vi facciamo uno sconto sulla frequenza, voi lo ricambiate con la serietà. E infatti ricambiano: curiosi, esigenti, motivati, responsabili, grati che sia data loro questa seconda volta. Maris, come ogni mattina, ha portato il figlio alla materna e arriva trafelata appena in tempo per la lezione di psicologia. Torrini deve uscire prima, il supermercato in cui lavora le ha appena comunicato con un sms che il turno pomeridiano è suo. Fassi ha preso un giorno per l’interrogazione «ma solo sul Comportamentismo, professore». Anida divora letteralmente una mela. Lei il suo turno di lavoro l’ha già fatto in una cooperativa di pulizie dalle 5 alle 10 e poi di corsa a prendere la metro e il 42 che il professore aspetta e non è corretto farlo aspettare. Questa volta sono io provocare: «e voi non aderite alla settimana dello studente?». «professore glielo dica ai giovani che imparare è bello, per noi, al limite, ci vorrebbe una bella settimana del lavoratore, tipo… studiare di più, lavorare tutti! Rosella De Leonibus 41 ROCCA 1 APRILE 2006 COSE DA GRANDI vino e gratificazione, così il tuo livore, il tuo modo sprezzante li stempero un pochetto, ed io, la bella, rabbonisco la bestia che sei tu. Paul Eluard un grande sperimentatore dell’inarrivabile Giuseppe Moscati ugène Grindel il suo vero nome, l’impossibile la sua vera passione. Paul Eluard (1895-1952) vive un’esistenza che possiamo ben definire ‘da iperbole’: iperbolico è infatti il suo modo d’amare, iperboliche le modalità in cui sente di esprimere emozioni e sentimenti, quindi iperbolica è naturalmente la sua stessa poetica, che rimane sempre in bilico tra quella che è una sfrenata voglia di comunicare il proprio vissuto e il limite costitutivo della parola. Ben sapendo tuttavia che «ci sono parole che fanno vivere […] la parola calore la parola fiducia / giustizia amore e la parola gentilezza». Credo d’altra parte che egli sia massimamente poeta proprio nella misura in cui si sforza di varcare la soglia del detto/non detto e in particolare là dove si arrampica sulla parete a strapiombo dell’impotenza della penna, diciamo così, di ‘dire la vita’. E se la poesia è agitata dall’utopia ROCCA 1 APRILE 2006 Se si guarda alla biografia di Eluard, comunque, viene da immaginarsi un D’Annunzio di sinistra. Ho pensato a questo, però, non tanto in riferimento al fatto che, dopo aver preso parte ai movimenti dadaista e surrealista, si iscrive al Partito comunista francese (1926), da cui poi si sarebbe allontanato e al quale successivamente (’42) si sarebbe riscritto. È decisamente più interessante seguirlo nelle varie fasi del suo impegno concreto, che prende le mosse da un fertile intreccio di vita e poesia, quando scrive Le devoir et l’inquiétude e Poèmes sur la paix, rispettivamente nel ’17 e nel ’18 appunto a caldo rispetto ai tragici eventi della Prima guerra mondiale. Ma un impegno, il suo, fatto di slanci e rotture, di entusiasmo e delusioni. Prima portavoce di André Breton al Congresso organizzato nel ’35 dagli scrittori antifascisti uni42 ti, poi – appena tre anni più tardi – in rotta con lui; quando arriverà la Seconda guerra, il nuovo impegno e le nuove energie tra partecipazione sincera e volantinaggi clandestini, tra bambini ebrei messi in salvo e inviti all’ottimismo, con l’uscita di Poésie et vérité (’42), Dignes de vivre e Au rendezvous allemand (’44); dopo la resistenza, le valige sempre pronte per partire, nella maggior parte dei casi per viaggi particolarmente lunghi tra Europa e Asia. Un’inquietudine, quella dell’uomo Eluard, che ritroviamo anche nella produzione poetica: pubblica le sue prime liriche già nel ’13, non ancora diciottenne; poi scrive ora da solo, ora in collaborazione con autori come lo stesso Breton o René Char, ora ‘in dialogo’ con le opere più suggestive di Picasso, di Max Ernst o altri. Scrive e scrive, sempre lottando contro la tisi che lo tormenta in continuazione; scrive in maniera del tutto genuina, mai facendo del surrealismo un dogma, e addirittura arriva a sperimentare la scrittura poetica sotto ipnosi. A proposito, egli guarda molto a Freud, come del resto a Marx, l’uno e l’altro letti o meglio riletti come riferimenti antiscientisti (non antiscientifici!): Freud in particolare è il baluardo contro le rimozioni del razionalismo. Le sue poesie, anche quando raccolgono la rabbia e il sogno dell’emancipazione sociale, non sanno di artificio, vibranti come sono di quella certezza che «sulla notte figlia dell’uomo / splende la rivincita dell’amore / l’alba è intessuta di fili limpidi». Esse non scadono a componimenti a tavolino o «impegnati» forse perché animate da un’eccezionale facilità di raccordo visionario tra la realtà osservata e la speranza di una sua trasformazione. Poesie dettate, cioè, da un patto segreto tra realtà e desiderio: «Tutti, noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno / della leggenda nera dove un uomo / lacrima in amore, rivoluzione, libertà Amore, felicità, condivisione e rivoluzione abitano la poetica eluardiana in una significativa intesa tra immediatezza e ritmo come tra espressione fulminea e lievità del verso. La critica non a caso ha notato come l’Eluard esclamativo e vicino al linguaggio quotidiano sia capace di rifarsi anche alla poesia francese del Cinque e Seicento, coniugando armoniosamente la vera e propria materia surrealista con alcuni toni di quella lirica più tradizionale. Primo destinatario di quest’arte poetica è il cuore di donna, che di volta in volta prende le forme della musa Gala (Elena Djakonova), la russa cui dedica la raccolta L’amour la poésie nel ’29 e che lo avrebbe lasciato nientemeno che per Salvator Dalì; poi della musa Nusch (Maria Benz), che sposa e che peraltro perde prematuramente («Non c’è nulla attorno a me / e se mi volto, il nulla ha due volti / il nulla e me»); infine della musa Dominique Lemor, la ragazza con cui vive i suoi ultimi cinque anni e per la quale compone le ultime liriche di Le phénix (’51). Il poeta si chiede spesso che senso avrebbe la sua vita senza l’amore: «Io esisto ma esisterei / se non ci fossi anche tu?» e si nutre delle parole come dei silenzi condivisi con l’amata mentre c’è «la luce che va / la luce che torna» e «l’alba e la sera sono il nostro sorriso». Il poeta di Saint-Denis canta così il suo amore per Nusch, la cui immagine ci è presentata come diafana e quasi impalpabile: «Sentimenti visibili / vicinanza leggera / chioma di carezze. / Senza ombre né dubbi / dài gli occhi a quel che vedono / visti da quel che guardano. / Fiducia di cristallo / tra due specchi / ti si perdono gli occhi nella notte / per unire desiderio e risveglio». Ma l’amore libera e gli elementi rivoluzionari dell’opera eluardiana – quelli letterario-espressivi e quelli più segnatamente politici – si fondono assieme producendo effetti particolarissimi, trovandosi accostati i sensi alle idee, le debolezze agli impeti. Un amore che è crocevia delle libertà di essere e di fare e di immaginare, un amore che è amore sempre, senza soste e senza vuoti: «Anche quando dormiamo vegliamo l’uno sull’altro»; un amore che vive di positività: «La mia fede in te è così ben circondata / di terra e di acqua così ben coperta / di sole fresco e di notte chiara». Anzi, se in Eluard quello della rivoluzione è in definitiva il termine medio tra l’amore e la libertà, possiamo dire che questi ultimi si confondono tra loro fino a coincidere come per magia. È la magia del verso, la stessa che di Gala gli aveva permesso di scrivere: «Ha sempre camminato sotto le arcate della notte / e dovunque è passata / ha lasciato / l’impronta delle cose spezzate»; ma anche: «I suoi sogni in pieno giorno […] mi fanno ridere, piangere e ridere / parlare senza aver nulla da dire». Ma la donna è simbolo del nostro rapporto con ciò che è fuori di noi: «I tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo / nel vuoto di vetri, pesanti di silenzio / e d’ombra dove le mie nude mani tutti i tuoi riflessi cercano». Del ’42 è una delle poesie più note e amate di Eluard, Libertà, mirabile confessione di cui non posso che cogliere le istantanee che sento più vicine: «su tutte le pagine lette / su tutte le pagine bianche […] io scrivo il tuo nome […] sull’eco della mia infanzia […] i miei squarci d’azzurro […] sul mulino delle ombre […] sul mare sulle barche […] sulla schiuma delle nuvole […] sulla fronte dei miei amici / su ogni mano che si tende […] su ogni mio infranto rifugio / su ogni mio crollato faro / sui muri della mia noia […] e per la forza di una parola / io ricomincio la mia vita / sono nato per conoscerti / per nominarti Libertà». Altrove il poeta, avendo dinanzi ai propri occhi gli affetti più cari, non nasconde a se stesso che tutto l’universo potrebbe dipendere da un bacio e trova nella più semplice visione delle cose e dei nostri legami con il mondo – appunto con i versi di Per un bacio – i tratti peculiari della più intima e autentica umanità: «Giorno la casa e notte la strada / i suonatori ambulanti / suonano a distesa vediamo chiaro sotto il cielo buio. / La lampada è colma dei nostri occhi / abitiamo la nostra valle / i nostri muri i nostri fiori il nostro sole / i nostri colori e la nostra luce. / La capitale del sole / è ad immagine nostra / e nel rifugio della nostra casa / la nostra porta è la porta degli uomini». È qui che la poesia fa il suo felice ingresso nell’immortalità. Giuseppe Moscati Per leggere Eluard: ROCCA 1 APRILE 2006 LETTERATURA solitudine». Quello di Eluard è un irrazionalismo che non trapassa a misticismo e che piuttosto si fa scavo profondo e sfrenata ricerca di ciò che appare impossibile o irraggiungibile. È qui che la poesia fa il suo felice ingresso nell’utopia. Poesia ininterrotta (Poésie ininterrompue), trad. it. e prefaz. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1947; 44 poesie, trad. it. di V. Accame, Mondadori, Milano 1997; Ultime poesie d’amore, a cura di V. Accame, Passigli, Firenze 2000. 43 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE acrobazie d’ identità ta e compiaciuta, ma decisamente più leggera e divertita. E questo perché, osserva la Paepcke, ogni ebreo avverte, da sempre, il peso della propria diversità rispetto ai popoli ospitanti, e allora impara ad essere acrobata dell’identità, funambolo nell’arte di mantenere le proprie radici e insieme di non rompere il precario equilibrio con le culture della maggioranza, modificando emblematicamente il proprio modo di camminare. Col procedere della narrazione, tuttavia, questo acrobatismo si inclina inevitabilmente fino al precipizio: a Max, col procedere della follia storica, non rimane che incurvarsi sempre di più, perdendo l’elasticità dei movimenti; non resta che accartocciarsi come qualcosa che il tempo devasta e il vento trascina con sé, come un oggetto dimenticato e di scarso valore, gettato via. La riflessione sul camminare di Max è talmente cadenzata da non poter essere casuale. È anzi talmente ricorrente che il lettore non può fare a meno di ritenerla un correlativo oggettivo dello stato d’animo del protagonista, un’allegoria capace di rappresentare il frantumarsi vitreo di un’anima, calpestata da piedi indifferenti, piedi qualunque, forse anche nostri, se è vero che la storia di Max è particolare e, insieme, rappresentativa della condizione dell’emarginato, quindi valida paradigmaticamente. il cammino In modo più preciso, attraverso la vita di Max, percepiamo chiaramente come la grande storia trituri le biografie individuali; come i veleni del potere, dell’ignoranza, anche mascherata da qualunquismo, inquinino le coscienze dei popoli e, soprattutto, degli individui comuni che lo compongono. Max, infatti, è ebreo, ma è anche tedesco, senza avvertire contraddizioni in queste sue appartenenze. Come ebreo, osserva il sabato e si avvia all’attività artigianale del conciatore, retaggio della sua famiglia, benché in lui ci sia il desiderio di studiare o di suonare il pianoforte. Come tedesco, si iscrive al partito socialdemocra- I ROCCA 1 APRILE 2006 Ogni stagione della vita di Max Mayer – il protagonista – viene efficacemente sintetizzata con un’immagine potentissima: la sua camminata. All’inizio del racconto, Max cammina in modo buffo e insieme elegante, con un’andatura «calma, serena, lieta» (3). Essendo piccolo di statura, Max incede in modo eretto, non tanto per acquisire maggior dignità, quanto, piuttosto, per essere più vicino al cielo. Una camminata discreta, diversa, agli occhi della scrittrice allora bambina, da quella dei padri delle sue amiche tedesche, meno ostenta44 la grande storia e l’individuo tico e partecipa alle riunioni politiche con quella vocazione alla discussione e al ragionamento che, ancora una volta, sono un’eredità ebraica. Il suo essere marxista, poi, è sempre problematico, ma nel senso più ampio che si possa conferire a questo termine. Di Marx apprezza l’utopia di un mondo senza classi, in cui emerga l’umanità al di là delle distinzioni, ma la dottrina marxista gli pone problemi che il protagonista non vuole nascondersi, quali quello inerente al come conciliare la sua attività via via sempre più redditizia con le ingiustizie e le sperequazioni, o quello rilanciato dalle domande mute e sospese degli ultimi. Ma la questione più scottante è quella che riguarda Dio, dal momento che l’ateismo marxiano si scontra con la sua fede incrollabile nel Signore di Israele, Dio dell’alleanza, Dio che ha parlato e che chiede al suo popolo di seguire i suoi precetti. La convergenza, Max la troverà nella morale, in una morale laica e, insieme, privatamente religiosa, grazie alla quale il suo essere marxista non entra in collisione col suo essere ebreo. Con questo spirito dialettico, il giovane Max parteciperà alla prima guerra mondiale, convinto che occorra saper mettere in second’ordine ogni ideologia, quando la patria chiama. Il suo partecipare alla guerra, rifiutando il neutralismo socialista, è un modo per ribadire al mondo e soprattutto a se stesso il suo essere tedesco senza distinguo, il suo essere parte di una comunità ampia e stratificata. Con questo spirito, accetta di suonare, in quanto musicista, la grancassa dell’esercito, divenendo il simbolo orgoglioso di un popolo ingabbiato in una guerra atroce, risultato assurdo di un’ancora più assurda e vecchia politica di potenza. Tornato dalla guerra, partecipa con entusiasmo al processo di democratizzazione della Repubblica di Weimar, divenendo assessore al teatro della sua città, Friburgo in Brisgovia: ancora una volta la vita sembra volerlo convincere del fatto che la sua ebraicità non rappresenti più un ostacolo, alimentando in lui l’illusione di essere uguale agli altri nel nuovo processo democratico. Ma le ombre della storia difficilmente si dileguano con una schiarita del cielo. disillusione Gli anni Trenta portano la crisi economica e il successo di Hitler, sancendo una volta per tutte che Max non è affatto uno fra tanti, ma è l’ebreo, l’indesiderato, l’antiuomo, il corruttore della razza ariana tedesca, un diverso, ossia una malattia mortale da estirpare. Nemmeno la resistenza di sinistra lo desidera tra le sue fila, perché accettare un ebreo è troppo pericoloso. Non rimane che la solitudine, tremenda, angosciosa, plumbea, di un uomo dichiarato estraneo al suo popolo; non resta che l’emarginazione totale, ribadita da una SA che piantona l’ingresso del suo negozio e che grida a chi vuole entrarci di non comprare «dall’ebreo» (4). Un isolamento ancor più sottolineato dal ricomporsi della grande famiglia ebraica, quella che la modernità aveva disseminato nelle diverse classi sociali: così, il ricco banchiere Dorn, esautorato dal suo incarico, si riavvicina alla piccola e media borghesia, ai proletari e agli operai, aprendo la sua casa ad ospiti sconosciuti in cerca di rifugio, o, più semplicemente, investendo i suoi soldi perché gli ebrei, gli esclusi, possano continuare a fare in privato quello che potevano poco prima fare in pubblico, come leggere libri o ascoltare concerti da camera. Dorn non vuole vedere e preferisce pensare, come tanti, che il mondo non sia poi così radicalmente mutato: «così si placava il desiderio di vita sociale e di cultura e si manteneva la tranquillizzante illusione di una vita normale» (5). la fuga A Max e alla moglie Olga non rimane che tentare la fuga, prima in Svizzera e, una volta ottenuto il visto, verso gli Stati Uniti, dove risiedono alcuni parenti. La storia eterna degli ebrei torna, quindi, a ripetersi nell’esistenza di questo «piccolo padre ebreo», nella vita di questo uomo qualunque e, proprio perché tale, esemplare. La fuga, la dia- ROCCA 1 APRILE 2006 Marco Gallizioli l breve romanzo biografico che la giornalista tedesca Lotte Paepcke (1) ha scritto sulla vita di suo padre è di rara e toccante intensità. Lo è, innanzi tutto, perché capace di essere profondamente «particolare» e, insieme, «universale»: particolare, come può essere, per un’ebrea, descrivere la tragedia del furore antisemita degli anni Trenta in rapporto alle vicende del proprio padre; universale, invece, come solo la grande letteratura sa essere, quando è in grado di chiamare in causa l’uomo in quanto tale davanti a se stesso e al male. È, quindi, un resoconto inquietante perché esamina la vita di un ebreo che ha attraversato i momenti più terribili del Novecento (2): dalla prima guerra mondiale alle persecuzioni naziste, dalla fuga negli Stati Uniti al rientro in una straniante e irreale Germania postbellica; ma anche perché, in filigrana, questa persona ci consente di percepire l’universale della sofferenza innocente. È, infine, un romanzo causticamente graffiante perché – pur avendone tutte le ragioni e le capacità stilistiche – la Paepcke non indulge mai in uno stile volutamente commosso, anzi, opta coraggiosamente per bandire dal suo resoconto ogni accento dichiaratamente lirico. Spogliando la pagina da ogni orpello, però, il linguaggio diviene ancora più forte e tagliente, quasi un canto disperato, che si articola oltre il controcanto stonato e funereo che gli eventi presentano. 45 46 quanto lui, ma desideroso di giustificarsi ai suoi occhi, Max comprende quella che la Arendt definirà la «banalità del male (7)». Capisce razionalmente quello che aveva già inteso emotivamente: non potrà più essere tedesco, non potrà più appartenere a un popolo, perché «chi è stato profugo una volta, lo rimane per sempre» (8) e perché, per dirla con Friedmann sulla scia della Arendt, negli sguardi delle persone vede il male, inteso come negazione del reale (9). Privato dell’identità, Max si sente cancellato dal mondo e, anche se continua a sorridere a tutti, dentro di sé avverte di essersi già decomposto. Così, lentamente e insieme velocemente, muore: una morte lenta, che ha radici lontane in un male sociale e culturale che ha scavato dentro di lui devastandolo; una morte veloce, discreta nella sua evoluzione, capace di riflettere la dignità estrema di un uomo qualunque che, morendo, non vuole disturbare troppo il mondo. La Paepcke descrive una vita, l’esistenza particolare e insieme universale del suo «piccolo padre ebreo», con i tratti veloci dello schizzo, ma, nel contempo, con la concentrazione semantica assoluta che solo il graffio di una parola sintetica possiede. Un libro da leggere per riflettere, senza precomprensioni ideologiche, con l’intento di vedere, al di là di tutto, la sofferenza dell’uomo: di quell’uomo con un nome e un cognome; di ogni uomo innocente. Marco Gallizioli Note 1 Lotte Paepcke (1910-2000), dopo la guerra, ha esercitato la professione di giornalista, e ha pubblicato un libro di memorie – qui commentato – e un libro di poesie, vincendo il premio Johann Peter Hebel nel 1998. (Sfuggì alle persecuzioni naziste, in un primo tempo grazie al suo matrimonio con un tedesco e poi grazie alla protezione trovata in un convento. Il resoconto biografico oggetto di questo articolo è: L. Paepcke, Il mio piccolo padre ebreo, Giuntina, Firenze 2004. 2 Sul secolo delle violenze di massa, si veda l’interessante saggio: M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano 2005, in particolare pp. 120-130. 3 L. Paepcke, op. cit., p. 8 4 Cfr. ib., p. 44. 5 Ib., p. 47. 6 Si veda su quest’aspetto: A. B. Yehoshua, Elogio della normalità. Saggi sulla diaspora ebraica, Giuntina, Firenze 1991. 7 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 142-157. 8 L. Paepcke, op. cit., p. 86. 9 Cfr. F. G. Friedmann, Hannah Arendt. Un’ebrea tedesca nell’era del totalitarismo, Giuntina, Firenze 2001, p. 80. CHIESA un concistoro sobrio U Giancarlo Zizola n concistoro sobrio, il primo di Benedetto XVI, con un minimalismo che implica intenzionalità riformatrici del ruolo dei cardinali e del potere curiale. Deludendo le congetture della vigilia, secondo cui le porpore sarebbero state almeno 30, egli ha creato appena quindici cardinali, di cui tre non elettori, perché ultraottantenni. Ha lasciato alla loro fame alcune aspettative giustificate dalla prassi, per cui la porpora era quasi ineluttabile per certe cariche o sedi: nessun capo di consigli pontifici non ancora cardinale lo è divenuto, neanche il prefetto della Fabbrica di San Pietro e vicario del papa per la Città del Vaticano, Angelo Comastri, ha ricevuto il suggello di una gloriosa carriera. Sono solo tre i nuovi cardinali della curia romana, il successore di Ratzinger alla testa della Congregazione per la Dottrina l’americano Levada, il prefetto della Congregazione per i religiosi lo sloveno Rodè, il prefetto della Segnatura apostolica (la corte di cassazione della Chiesa cattolica) l’italiano Vallini. Secondo alcune fonti, tale parsimonia prefigurerebbe un piano di riforma della curia romana, con la fusione di alcuni dicasteri e il taglio di rami secchi. Secondo altri Papa Benedetto intenderebbe riequilibrare il ruolo del collegio cardinalizio con quello del Sinodo dei Vescovi, e in questa prospettiva si potrebbe comprendere il senso antinflazionistico della discrezione che caratterizza la decisione attuale. rivalutazione del ruolo cardinalizio Nell’annuncio dato dal papa all’udienza generale del 22 febbraio non potrebbe sfuggire l’accento posto sul ruolo collegiale del Senato cardinalizio. «I cardinali, ha detto, hanno il compito di sostenere ed aiutare il successore di Pietro nell’adempimento dell’ufficio apostolico che gli è stato affidato a servizio della Chiesa. I cardinali costituiscono intorno al papa una sorta di Senato, di cui egli si può avvalere nel disimpegno dei compiti connessi col suo ministero». Era antica la tradizione concistoriale dei cardinali, la cui collaborazione col papa nel governo della Chiesa era reale, prima che la centralizzazione romana la riducesse a simbolo cerimoniale. Che Benedetto XVI sia deciso a rivalutare il ruolo effettivo dei cardinali sembra indicarlo la decisione di convocare i cardinali alla vigilia del concistoro del 24 marzo per una riunione «di riflessione e di preghiera». Val la pena di ricordare che la storia della Chiesa sta a testimoniare che la crisi temporalista del papato si è congiunta, in un rapporto quasi causale, con la crisi della funzione partecipativa del collegio cardinalizio. Le responsabilità e i condizionamenti del governo temporale offuscano ed appannano ogni volontà anche sincera di ridare un volto religioso e spirituale all’autorità del pontefice sulla Chiesa universale. Reciprocamente si può notare che la ripresa del ciclo spirituale del papato implica anche un ritorno del collegio cardinalizio alle sue funzioni effettive di co-attore delle decisioni pontificie nella Chiesa universale. In effetti, la restaurazione del papato nel XV secolo e soprattutto la sua scalata politica come principato hanno l’effetto di segnare il tramonto del collegio dei cardinali: la concezione monarchica della Chiesa congiunta alla configurazione personale del governo papale emargina questo ultimo resto della antica struttura sinodale della Chiesa che era dato dalla partecipazione dei cardinali all’esercizio del governo della Chiesa universale nei concistori. L’inversione di tendenza è radicale. La permanenza di una funzione collegiale autonoma e di forme di costituzionalismo come le «capitolazioni elettorali» (che avevano almeno un valore morale di impegno programmatico per i papi eletti) sono ormai considerate incompatibili con la dottrina del Solus Pontifex e con la configurazione della Chiesa come principato. Il collegio dei cardinali si riduce a una aristocrazia cortigiana subalterna, nella quale trovano coronamento le carriere amministrative della curia e dello Stato Pontificio. Il Senato cardinalizio diviene sempre meno rappresentativo delle nazioni e sempre più italiano, anzi clientelare, come espressione delle grandi casate italiane nel controllo del sistema politico italiano, mediante l’influenza esercitata dentro lo Stato pontificio. Il Concilio di Trento e la riforma cattolica non correggono questa tendenza di fondo: si eliminano gli abusi derivanti dal cumulo dei benefici, si tagliano gli eccessi di 47 ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE spora necessaria dell’ebreo storico (6), si tingono dei contrasti dell’abbandono, del rifiuto, dell’isolamento e si consumano nelle pagine della Paepcke con una velocità che non ha nulla del frettoloso, ma riflette stilisticamente la concitazione di ogni partenza obbligata verso l’ignoto. Ma, alla rapidità del distacco si contrappunta la lentezza dell’arrivo negli Stati Uniti, fatta di giornate vuote, senza senso, interminabili. I tempi si allargano, si dilatano in maniera estenuante, togliendo valore all’esistenza e marcando in maniera estremamente timbrata la sensazione sempre più netta di estraneità. Max è di nuovo il senza patria, lo straniero, l’immigrato in un mondo che, se apparentemente non discrimina in base all’appartenenza religiosa, in realtà lo fa secondo criteri economici. Max e Olga sono ormai anziani, poco produttivi e, in quanto «vecchi», risultano inutili nel magmatico processo produttivo del nuovo continente. Sono costretti a mendicare piccoli lavori: il cucito per lei, la trascrizione manuale di spartiti musicali per lui, ricercando in un’operosità estenuante un senso per contrastare il «non senso» dell’esistenza. Solo quando i parenti ricchi, commossi da tanta dedizione, gli regalano un vecchio e ingombrantissimo pianoforte – talmente grande da occupare metà della stanza dove i due anziani si sono ridotti a vivere – Max è capace di ravvisare le tracce di un senso minuscolo. La musica contiene la memoria delle sue appartenenze negate, umiliate e calpestate; così si impone di suonare Wagner e Haydn; si obbliga a ripercorrere con la memoria le sue illusioni spezzate. Quando la guerra finisce, Max si imbatte nell’atrocità del pericolo da cui è riuscito a fuggire, viene a conoscenza, col resto del mondo, della verità sui campi di sterminio e anche quel briciolo di identità che era sopravvissuto attraverso la musica marcisce e si corrompe per sempre. Alla tragedia universale, poi, si sovrappone quella privata, la morte della moglie Olga, perpetuando quel rilancio tra universale e particolare che compone la struttura profonda del resoconto della Paepcke. Nell’affetto profondo nutrito nei confronti della sua consorte, Max trovava ancora un ultimissimo residuo di senso, ma ora, nella profonda solitudine, diviene, definitivamente e senza possibilità di riscatto, straniero al mondo. Sarà un vecchio spento e ripiegato su se stesso che la figlia, sopravvissuta a sua volta all’orrore, riporterà a Friburgo. Qui, Max passeggia stanco nei luoghi della sua infanzia, della sua giovinezza e della sua maturità; nei luoghi di una vita dissolta, reincontrando persone che lo salutano come se nulla fosse avvenuto. Ma, quando il «piccolo ebreo» incontra un suo vecchio amico violinista, il quale aveva cessato di salutarlo all’indomani delle leggi razziali per evitare le ritorsioni naziste, in quell’anziano tedesco, vecchio porpore di risarcimento ROCCA 1 APRILE 2006 Tre ultraottatenni sono anche tra i nuovi cardinali, sono porpore per così dire di risarcimento: per l’italiano Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, ex nunzio in Italia, che era stato emarginato nei decenni precedenti, per l’ex arcivescovo del Ghana, Peter Poreku Dery, e per il biblista gesuita belga padre Albert Vanhoye, uno degli artefici della cultura biblica nella Chiesa cattolica, a lungo Rettore del Pontificio Istituto Biblico, fumo negli occhi per i tradizionalisti. L’«infornata» si fa notare anche per il rilievo preferenziale conferito ai pastori. A parte Montezemolo, che ora è arciprete della Basilica di San Paolo fuori le Mura, nessun nunzio apostolico figura tra i prescelti. Il solo polacco fatto cardinale è l’arcivescovo di Cracovia Stanislao Dziewisz, per il riconoscimento dovuto a un servitore zelante di Wojtyla. Forse è lui il cardi48 nale «in pectore» creato dal suo papa. Nessun polacco in curia ha ottenuto il cappello. L’assetto della Segreteria di Stato rimane ancora immutato, a quasi un anno dall’elezione. In realtà è la Chiesa delle grandi diocesi nel mondo, una Chiesa di pastori che Ratzinger mostra di voler far emergere includendoli nella responsabilità del collegio cardinalizio. E in una mappa così calibrata, si impone l’attenzione riservata all’Asia, il continente emergente nella società globale, che è anche lo scenario di un cattolicesimo minoritario ma ricco di segnali vitali promettenti. Su nove cardinali delle diocesi, tre sono asiatici: Rosales di Manila, Cheong-Jim Suk di Seoul, Zen Ze-Kiun, il benedettino vescovo di Hong Kong, noto per le sue battaglie sui diritti umani e la libertà religiosa in Cina, cui la porpora conferisce un supplemento di autorità come «pars corporis papae». oltre il Mediterraneo Nel collegio cardinalizio gli asiatici elettori sono ora 13, un tetto mai prima raggiunto. Secondo i dati dell’Annuario Statistico della Santa Sede il cattolicesimo nell’ultimo quarto di secolo è più che raddoppiato in Africa, è salito del 72% in Asia e di quasi il 50% in Oceania. Data la crisi della Chiesa in Europa, questi incrementi indicano uno spostamento tendenziale del baricentro del cattolicesimo fuori dell’area mediterranea, verso i nuovi areopaghi di culture e tradizioni spirituali differenti da quella che ha dato forma alla fede cattolica. È in questa dinamica che si può valutare adeguatamente l’insistenza con cui papa Benedetto raccomanda di valorizzare il dialogo con le grandi religioni mondiali, unico efficace scudo delle comunità cattoliche nell’immensa Asia, percorsa dai fremiti dello «scontro di civiltà». L’ultimo conclave ha offerto la prova che i criteri geopolitici per l’analisi delle cose ecclesiali sono obsoleti. Il papa ha sottolineato che «nella schiera dei nuovi porporati ben si rispecchia l’universalità della Chiesa». Accanto all’Asia, evidentemente favorita, l’America Latina (metà dei cattolici del mondo) ottiene un solo nuovo cardinale, negli Stati Uniti l’unica porpora è per rafforzare l’autorità Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, una sede ancora piagata dalle conseguenze degli scandali dei preti gay. E in Europa, la parsimonia ratzingeriana ha distillato tra le diocesi una sola porpora per l’Italia (Caffarra a Bologna), una sola per la Francia (Ricard per Bordeaux, e non l’arcivescovo di Parigi o altri in lista d’attesa), una sola per la Spagna (Canizares per Toledo). Giancarlo Zizola CONTROCORRENTE san Musone Adriana Zarri opo la spensieratezza carnevalesca, siamo oramai in piena quaresima. In certe regioni d’Italia, il giorno delle ceneri – che segna appunto l’inizio dell’itinerario quaresimale terminante nella gran veglia di Pasqua – è detto di san Musone: un santo che non figura nel calendario liturgico e contraddice lo stesso stile della santità che non è triste e immusonita, ma serena gioviale e lieta. Ed è opportuno ricordare il brano evangelico che la liturgia ha fissato per le ceneri: un brano, esso pure, lieto e sereno che esorta il fedele a profumarsi il capo: un brano tutto da leggere, e che è una critica serrata alla manifestazione della virtù esibita «per esser lodati dagli uomini» e che, in questa lode ricercata, ha la sua ricompensa. E dopo aver citato l’elemosina e la preghiera, passa a parlare del digiuno che è ciò che in questo momento ci interessa. «Quando digiuni non assumere un’aria melanconica, come gli ipocriti che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico che hanno già avuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, lavati il volto e profumati la testa perché la gente non veda che diguini, ma solo il tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Serenità e profumi; e san Musone – posto che santo fosse e che fosse esistito – è definitivamente cancellato dal martirologio cristiano. Non quindi ostentare la virtù, perché una virtù ostentata non è più una virtù, è un vizio di orgoglio e vanità. E non intristire la penitenza perché una penitenza triste non conduce alla gioia che è l’esito ultimo della rinuncia. Rinun- D cia e penitenza son mezzi transitori, in vista del fine che è quel «gaudio» di cui parlò Gesù, nell’ultima cena; alla vigilia della passione e della morte che non finì nel sepolcro (anche se, nel sepolcro, per qualche tempo, il corpo di Cristo dimorò) ma nel giardino della risurrezione prefigurato dal giardino dell’Eden. Così la quaresima ha il suo termine nella gran veglia di Pasqua dove, nelle chiese sfolgoranti di luci, si canta l’«exultet»: «esulti l’angelica schiera dei cieli... gioisca la terra... si allieti anche la madre chiesa...». Ed è tutto un canto di gioia che percorre l’intera storia dell’umanità; dal mitico Adamo, il cui peccato è già visto nella luce della redenzione («oh felice colpa che meritasti un tale Redentore!»), fino ai giorni nostri: al nostro papa, al nostro vescovo, chiamati entrambi per nome, come usa sempre la liturgia. E poi alle vicende temporali, civili e politiche, nel senso alto del termine. «Guarda anche a coloro che ci governano (...) volgi i loro pensieri alla giustizia e alla pace perché, dall’operosità terrena, giungano, insieme a tutto il popolo, alla patria celeste». La quaresima ci ricorda che questa nostra terra, che tanto, e tanto giustamente, amiamo, è pur sempre una sorta di esilio, segnato dal lutto e dal dolore: una «valle di lacrime», come recita una nota preghiera. Ma l’esilio tende alla patria come la tristezza alla gioia, la morte alla vita, la croce alla resurrezione: a quella fine della grande quaresima del mondo, quando – dice l’Apocalisse – «non ci sarà più lutto, né pianto né dolore perché queste cose sono passate», così come passa il tempo amaro della penitenza che sfocia, lieto, nella gioia pasquale. ❑ 49 ROCCA 1 APRILE 2006 CHIESA mondanizzazione dei «principi della Chiesa», si interviene sul fenomeno del nepotismo, si razionalizza la funzione dei cardinali nell’apparato pontificio con la riforma di Sisto V nel 1586 e la successiva istituzione delle congregazioni cardinalizie, le une adibite agli affari materiali, le altre a quelli ecclesiastici. Ma intanto i concistori – che si riunivano due o tre volte alla settimana, per discutere con il papa i grandi problemi e formare collegialmente le decisioni, – vengono convocati sempre meno di frequente, fino a ridursi a cerimoniali eccezionali privi di valore politico e giuridico. L’unico potere effettivo rimasto al collegio è l’elezione del papa. Ma il processo di svuotamento della funzione collegiale del Senato cardinalizio, se dapprima sembra funzionare per la concentrazione del potere nella persona del papa, si trasforma ben presto in un fattore di debolezza del papato stesso anche sul piano politico: il collegio dei cardinali non è in grado di fare da barriera a difesa dell’autonomia del papato dalle pressioni politiche esterne, che si avvalgono, fino al conclave di Pio X del diritto «di esclusiva». Nello stesso annuncio concistoriale Benedetto XVI ha confermato, tagliando corto su opinioni contrarie, la norma fissata da Paolo VI nel 1973 la quale stabilisce il tetto massimo del collegio degli elettori del papa a 120 cardinali e la decadenza del diritto elettorale attivo dei cardinali all’età di 80 anni.. Con le nuove nomine i cardinali elettori salgono a 122, su un complesso di 180 cardinali, di cui 58 non elettori avendo più di 80 anni. Si può supporre che anche nei prossimi concistori, che si prevedono non frequentissimi e sempre minimalisti, il papa tenderà a riportare l’eccedenza nei limiti della norma statutaria. la nostalgia dei figli delle stelle ROCCA 1 APRILE 2006 Carlo Molari 50 aramente il dialogo tra scienza e fede ha avuto espressioni così vivaci ma nello stesso tempo posizioni così contrastanti come in questi decenni. Da ogni parte se ne discute ed è comprensibile che esistano diverse opinioni. Possiamo distinguere quattro posizioni. 1. C’è chi nega il valore del dialogo tra scienza e fede per il semplice motivo che i loro ambiti sono così disparati da non consentire contrasti reali e neppure convergenze significative. Steven Jan Gould, ad es., in occasione di un convegno tenutosi in Vaticano ha formulato il principio Noma, sigla dalle iniziali della formula Nonoverlapping Magisteria: dottrine senza aree sovrapponibili: scienza e fede hanno insegnamenti fra loro non comparabili (cfr. Nonoverlapping Magisteria, in Natural History 106, marzo 1997, pp. 16-22). Opinione questa che sembra riproporre, in un contesto diverso, la dottrina medioevale delle due verità. 2. C’è chi nega la possibilità di dialogo perché la fede non ha ragioni da portare per le sue affermazioni che siano valide per gli scienziati. In modo beffardo ad esempio l’ateo francese Michel Onfray, sostiene che sul conflitto scienza e fede oggi non possiamo essere neutrali, «non possiamo permetterci ancora questo lusso». Egli spiega: «Nel momento in cui si profila uno scontro decisivo... per difendere i valori dell’Illuminismo contro le affermazioni magiche, bisogna promuovere una laicità. Ai rabbini, ai preti, agli ayatollah, agli imam e ai mullah, io continuo a preferire il filosofo. Contro tutte le teologie strampalate, preferisco fare appello alle correnti di pensiero alternative R se dimensioni del reale e per la volontà comune di offrire una descrizione il più possibile completa del reale. Ma perché il dialogo sia fruttifero è necessario che ciascuno rispetti l’ambito proprio e che riconosca l’ambito altrui. condizioni per una sintesi nuova La prima condizione per un fecondo dialogo tra le diverse visioni del mondo dovrebbe essere la convinzione «che non abbiamo ancora scoperto la vera «strada verso la realtà», nonostante gli straordinari progressi compiuti nel corso di tre millenni e mezzo, in particolare negli ultimissimi secoli. Sono sicuramente necessarie alcune intuizioni fondamentalmente nuove» (Penrose R., La strada che porta alla realtà. Le leggi fondamentali dell’universo, Rizzoli, Milano 2005, p. 1027). Penrose osserva che «invece di tentare di rispondere alla domanda “che cosa”, la maggior parte degli scienziati moderni tenterebbero di eluderla. Cercherebbero infatti di argomentare che la domanda è mal posta: non dovremmo cercare di chiederci che cosa è la realtà, ma soltanto come si comporta... Ma senza sapere che cosa sono queste cose, è difficile capire perché dovrebbero avere un comportamento piuttosto che un altro» (ib., p. 1028). È in questo spazio di riflessione sul reale che il contributo delle diverse esperienze è assolutamente necessario. Credo che in questa direzione vada anche l’invito di Raimondo Panikkar al teologo cristiano di «prendere l’iniziativa ed essere creativo» (Panikkar R., La porta stretta della conoscenza. Sensi ragione e fede, Rizzoli, Milano 2005, p. 67). Egli insiste sulla necessità che i credenti non rinuncino a proporre una propria visione del mondo a partire dall’esperienza di fede. «Forse la vita, lo spazio, il tempo, la materia, ecc. non sono ciò che la scienza moderna descrive, ma molto di più, e la scienza descrive solo un aspetto delle realtà che chiamiamo con questi nomi. Forse ci dobbiamo emancipare dal dominio della scienza sul pensiero umano» (Id., ib., p. 68). Non si tratta evidentemente di tornare indietro «ma di lasciarsi fecondare da altre visioni del mondo senza dimenticare le scoperte della “modernità”... Forse una simbiosi con la scienza illuminata dal contributo di altre culture sarebbe di importanza capitale». Egli ricorda appunto che «la fede non va contro la ragione, ma è una forma diversa di conoscenza» (ib., p. 68). In ordine alla realizzazione di questo progetto, Panikkar accusa la teologia attuale di andare a rimorchio della scienza, senza tentare una sintesi. «Il pensiero cristiano si è via via incarnato nel mondo accettando (anche se con riluttanza e ritardi) la visione del mondo che man mano incontrava... Il pensiero cristiano è andato più o meno adattandosi alle riforme cosmologiche che venivano proposte, senza però avanzare una propria cosmovisione. Quasi tutte le cosiddette «teologie» cristiane hanno ceduto al dualismo dominante e sono sfociate in visioni sul mondo (e sull’uomo) compatibili con ciò che si credeva fosse Dio (o. c., pp. 46 s.). «È un fatto storico, istruttivo e anche ironico, che la teologia cristiana che ha preteso di essere la regina delle scienze... sia finita con l’essere la loro schiava... Gli scolastici medievali lo compresero bene e non esitarono a seguire il metodo opposto, adattando le loro concezioni di materia, spazio e tempo alla loro esperienza cristiana, per poter in tal modo spiegare ciò in cui credevano. In questo modo furono precursori dello spirito scientifico: interpretavano dati empirici, ma di una empeiria non sensibile, e cercavano di spiegare la realtà partendo da questa esperienza» (ib., p. 64). Panikkar stesso alla fine degli anni Cinquanta aveva elaborato «un progetto cui diede il nome di teofisica» (ib., p. 67). Con esso aveva tentato di presentare «una visione della realtà nella quale intuizioni cristiane non fossero né un’appendice né un supplemento, ma una presa di coscienza della “natura” stessa delle cose: «l’esistenziale cristiano» (ib., p. 68. Si riferisce a Ontonomìa de la ciencia. Sobre el sentito de la ciencia y sus relaciones con la filosofìa, Gredos, Madrid 1961). Non poté portarlo a compimento ma una preziosa sintesi è offerta nelle pagine del libro citato (La porta stretta..., o. c., pp. 68 ss.). La seconda condizione perché il dialogo tra credenti e scienziati sia fecondo è che la fede non venga ridotta a semplice accettazione di dottrine ma sia una autentica esperienza comunitaria, attraverso la quale la realtà del mondo, delle persone, della vita venga percepita con quello che la tradizione mistica chiama il terzo occhio o l’occhio interiore. I modelli con cui l’esperienza viene descritta devono essere però desunti dalla cultura scientifica corrente, altrimenti si crea divisione interiore e incapacità di comunicare con gli altri. Ma i contenuti emergenti devono essere dichiarati in modo proprio: la tensione interiore, il più che essa rivela della vita, l’oltre a cui è spinta, la profondità da cui emerge. Se siamo figli delle stelle (Altschuler D. R., L’universo e l’origine della vita, Mondadori, Milano 2005, pp. 248 s.) è comprensibile che sentiamo la nostalgia delle nostre origini. ROCCA 1 APRILE 2006 DIALOGO TRA SCIENZA E FEDE alla storiografia filosofica dominante» contro il «pensiero magico» (Trattato di ateologia, Fazi, Roma 2005, p. 198). Gilberto Corbellini, a sua volta, commentando un articolo dell’antropologo Fiorenzo Facchini pubblicato sull’Osservatore Romano a proposito del Progetto intelligente, scrive: «non ci si può aspettare che le religioni riconoscano che la loro esistenza dipende dal fatto, sperimentalmente provato, che la nostra specie ha sviluppato, sotto la pressione della selezione naturale e per migliorare le interazioni sociali, una capacità particolarmente sofisticata di autoingannarsi» (Darwin superstar, ma non è una fede, «Il Sole-24 Ore» 12 febbraio 2006). La reazione di Corbellini non è motivata dalla disputa statunitense sull’Intelligent Design, perché Facchini dichiara esplicitamente di considerarlo non scientifico. Si riferisce invece alla convinzione secondo cui le facoltà superiori dell’uomo non possono essere spiegate ricorrendo ai semplici «processi materiali dell’evoluzione». Il che lascerebbe intravedere che ambiti fisici della realtà in evoluzione sfuggano al controllo della scienza e possano essere scoperti attraverso altri strumenti. 3. C’è chi ammette l’utilità del dialogo perché sia gli scienziati che i credenti hanno problemi umani comuni (guerre, ingiustizie, carestie, malattie, crisi ecc.), alla cui soluzione tutti possono contribuire con l’apporto delle specifiche acquisizioni. Max Planck, pur non riferendosi a questa problematica, scriveva: «La fisica moderna ci impressiona particolarmente» quando afferma «che ci sono realtà che esistono al di là della nostra percezione sensoriale e che ci sono problemi e conflitti nei quali tali realtà sono per noi molto più importanti dei tesori più ricchi del mondo dell’esperienza». Degrasse Tyson N. e Goldsmih D., citando il brano, aggiungono: «È una ricerca antica, che si è guadagnata l’attenzione di pensatori grandi e piccoli attraverso le varie epoche e le varie culture» (Origini. Quattordici miliardi di anni di evoluzione cosmica, Codice, Torino 2005, p. 250). 4. C’è chi sostiene la necessità del dialogo tra scienziati e credenti perché la realtà stessa è molto più complessa di quanto risulti dalla ricerca scientifica e ciascun ambito di esperienza riflessa è in grado di contribuire alla sua descrizione. In tale modo la fede a confronto con la scienza non rischia di evadere in un mondo immaginario e la scienza, da parte sua, non si illude di poter descrivere tutta la realtà o di risolvere i problemi umani con le semplici conclusioni delle sue ricerche. Il dialogo perciò risulta urgente per la necessità di cogliere le diver- Carlo Molari 51 i trucchi del potere L Rosanna Virgili a seconda bestia dell’Apocalisse realizza segni eccezionali – qualcosa che si potrebbe paragonare a quelle che oggi vengono chiamate «le grandi opere»! – per conferire credito alla prima. Gli uomini debbono rimanere impressionati da quella potenza! Di quali segni si tratta? Prima di definirlo, è utile ricordare che il ricorso a dei segni grandiosi è tipico dei falsi profeti: «(...) perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e portenti per ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti» (Mc 13, 22); essi sono molto insidiosi, poiché tendono ad ingannare, pertanto l’autore vuole rivelare la loro debolezza: anche se vistosi e megagalattici non sono altro che opera dell’uomo, il quale vuole abusare delle facoltà della Trascendenza, utilizzando una sorta di connivenza col Maligno. Far scendere il cielo sulla terra è opera propria di Dio, che solo i suoi profeti possono propiziare: «Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, la pietra e la cenere» in virtù delle parole di Elia (cf. 1 Re 18, 38). L’attività della seconda bestia nell’organizzare i segni che rendono credibile la prima, tende a conferire a quest’ultima un potere che altrimenti non le apparterrebbe, essendo soltanto prerogativa di Dio. La prima bestia viene, così, collocata al posto di Dio, a tutti gli effetti. l’abilità del fuorviare ROCCA 1 APRILE 2006 «E fuorvia quelli che hanno casa sulla terra mediante i segni che gli fu dato di fare davanti alla bestia dicendo a quelli che hanno casa sulla terra di fare una immagine alla bestia quella che ha la ferita della spada e rivisse» (v. 14). Le grandi opere della bestia, servono, dunque, a fuorviare quelli che abitano la terra, poiché inducono coloro che le ammirano a concederle il posto di Dio. Il suo potere è, tuttavia, sotto controllo: in realtà 52 «E fa segni grandi in modo da poter far discendere anche il fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini» (v. 13). le viene dato. Il testo spiega bene in che modo: è la seconda bestia – quella che abbiamo chiamato il «ministero della propaganda» – che persuade gli uomini ad accettare l’assoluta supremazia della prima, cosicché essi stessi giungano a farsi una immagine di essa, essi stessi la rendano un dio! Questa pratica – peraltro sempre attuale! – era diffusa nel mondo antico ed era rivolta agli imperatori. Ad Efeso esistevano un tempio ed una statua di Domiziano. Ma non si tratta soltanto di una immagine materiale, della semplice scultura, quanto di una immagine morale che gli uomini si costruiscono di colui che poi vanno ad adorare. Il vero culto di questi uomini sta nella interiorizzazione e celebrazione di tale immagine morale, più che in atti rituali veri e propri. Lo stesso fenomeno accade quando oggi si parla di persone che sono «cult»! proprio nulla di nuovo sotto il sole... il furto dello spirito Mentre sono gli uomini che sotto la pressione della seconda bestia costruiscono l’immagine fisica e soprattutto quella morale, della prima, è la seconda Bestia che dà uno spirito di vita a tale immagine. «E gli fu dato di dare uno spirito all’immagine della bestia in modo che facesse sì che l’immagine della bestia anche parlasse e fossero messi a morte tutti coloro che non adorassero l’immagine del mostro» (v. 15). A questa immagine, infatti, non viene comunicata una vitalità meccanica, ma viene donato perfino uno «spirito». Il parallelo con Ap 11,11 è illuminante: ivi si parla di «uno spirito di vita proveniente da Dio» capace di risuscitare i corpi. Questa stessa facoltà ri- il potere che si fa impero «E fa tutti i piccoli e i grandi, i ricchi e i poveri, i liberi e gli schiavi in modo che diano loro una impronta sulla loro destra o verso la loro fronte; e che non possa comprare o vendere se non chi ha l’impronta col nome della bestia o la cifra del nome di lei» (vv. 16-17). Il raggio di influsso della bestia non ha limiti, come quella del Cristo. L’azione della seconda bestia tende a rendere tutti modellabili, predisposti ad essere «inquadrati» a piacere, dalla prima. Essa impone una impronta, un segno di appartenenza, la fine della libertà, per i «sigillati». Tipico degli schiavi era una incisione a fuoco sull’avambraccio con la sigla del padrone; l’impronta della bestia è indelebile come un tatuaggio, un irreversibile segno di appartenenza. L’impronta «sulla mano destra» indica le attività, il lavoro della gente. Gli uomini che l’hanno ricevuta agiranno, in questo ambito, secondo gli scopi della bestia ed attueranno fattivamente il messaggio da quella espresso. L’impronta «verso la fronte» indica una progressiva appartenenza di tutta la persona alla sfera della seconda bestia: gli uomini con questa impronta condivideranno i principi della bestia, non potranno più avere la facoltà di pensare con la loro «testa». L’appartenenza alla bestia condiziona la vita sociale intesa come un interscambio commerciale, quindi la prassi economica, in cui ogni rapporto è di carattere mercantile, di vendita e acquisto. Tali acquisti sono bloccati e resi impossibili per tutti coloro che non appartengono alla bestia. O ti adegui, insomma, o vieni preso per fame... la sapienza della profezia «Qui è la sapienza: chi ha mente calcoli il numero della bestia si tratta infatti di un nome di uomo: la sua cifra è 666». (v. 18) Il passo volge alla conclusione e il «profeta», autore dello stesso, si preoccupa di rivolgere un monito al suo target: chi ascolta deve ora («qui») entrare espressamente in gioco e mostrare il suo senso di responsabilità. Deve «avere mente» (intelligenza)», capacità di interpretare il messaggio simbolico proposto e di applicarne il contenuto ricavato, alla propria realtà storica. Il termine «sapienza» è sinonimo di «orecchio» (cf. «avere orecchio» in Ap 2, 7. 11. 17. 29; 3, 6. 13. 22; 13, 9): esso denota la sensibilità e l’intuito verso ciò che accade, verso ciò che si nasconde dietro lo smalto delle immagini, la menzogna sopra alla quale si agitano le parole. Il lettore è invitato a calcolare la «cifra» (arithmon) della bestia. Se l’Apocalisse è stata scritta alla fine del primo/inizio del secondo secolo, l’indicazione più attendibile è quella di Domiziano, l’imperatore che veniva considerato un Nerone redivivo. Il Nerone storico era esistito molto tempo prima, ma la leggenda ancor diffusa della sua reviviscenza lo rendeva sempre presente. L’autore dell’Apocalisse, reinterpretando quella leggenda afferma, per i cristiani che ascoltano, che il «tipo» di Nerone si ripresenterà sempre sulla scena della storia, in virtù della propaganda organizzata dalla seconda bestia. Perciò i cristiani non debbono abbassare mai la guardia. Il compito per loro è quello di esercitare la libertà come senso critico, come intelligenza sul potere e sulle strategie mistificate ed ambigue di coloro che lo esercitano impropriamente, costringendo gli uomini a forme sempre più sofisticate di schiavitù. Il compito delle sette chiese di Apocalisse e di quelle di tutti i tempi è quello di esercitare la virtù profetica, poiché: «qui sta la sapienza». Nel servizio, cioè, alla libertà. ROCCA 1 APRILE 2006 LA VOCE DEL DISSENSO conosciuta, qui, alla prima bestia, suggerisce un prolungamento del paragone tra la seconda bestia ed il Cristo risorto: anch’essa, infatti, può far resuscitare i morti! A causa dello spirito che le ha dato la seconda bestia, la prima è in grado di parlare: sono gli enunciati, le «teorie» su cui essa fonda il suo potere. È l’«ideologia» di un potere, la sua forza persuasiva: esso è elaborato e messo in atto da quel «profeta» del potere che è la seconda bestia! A qualcosa di molto simile oggi lavorano gli intellettuali «organici», certi uomini di cultura, ma specialmente il grande mondo dei media: il «quarto» e il «quinto potere», quando si mettono al servizio dell’ «imperatore» di turno. Il messaggio ideologico della prima bestia ha la faziosità radicale di tutte le dittature che conculcano i diritti dell’uomo. Ciò che esprime l’immagine costruita della prima bestia, tende ad avere un effetto cogente e totalitario: tutti i singoli la debbono considerare come un assoluto, altrimenti saranno uccisi. (Cf. Dn 3, 6 dove chi non si prostra alla statua di Nabucodonosor viene gettato «in mezzo ad una fornace ardente»). Occorre che i cristiani facciano grande attenzione a ciò che si cela dietro l’immagine, oggi più che mai! Rosanna Virgili 53 sorelle separate ROCCA 1 APRILE 2006 Lilia Sebastiani 54 V orrei soffermarmi in breve su un aspetto del Concilio Vaticano II di cui abbastanza poco si è parlato nelle valutazioni, nelle sintesi e nelle analisi – in certi casi di alta qualità – che si sono avute in occasione del quarantennale della sua conclusione: cioè sulla presenza delle donne. Non sulla condizione delle donne in generale quale fu affrontata dal Concilio; ma proprio sulla loro ‘presenza’ (assente?) in quel momento fondamentale. Sempre più sentiamo l’urgenza di parlare del Concilio, teologicamente e storicamente (l’approccio storico serve a ‘chiaroscurare’ quello teologico, ne aumenta la visibilità); di scavare, di capire e di far capire, di mettere più in luce le sue luci e di illuminare le sue penombre. Forse anche perché siamo consapevoli di vivere una fase in cui il rischio di regresso è reale. «I tempi sarebbero maturi per un Concilio Vaticano III», dice qualcuno. Qualcun altro dice: «Guai se un Vaticano Terzo avesse luogo in questo momento, riuscirebbe solo a completare la ‘normalizzazione’ o l’affossamento del Secondo». Comunque la si pensi, è fondamentale ricordare e pensarci ancora. Al Concilio pensiamo come a uno spartiacque temporale, anche per gli aspetti incompiuti; e anche per quanto si riferisce alle donne nella chiesa cattolica, alla loro condizione e al modo di considerarle. La carica di novità è innegabile, ma sfuggente. Il Concilio ha detto poco sulle donne e sul loro ruolo ecclesiale, e quel poco non è nuovo, è molto generico, è visibilmente frenato dal bisogno di non urtare troppo la minoranza conservatrice che, senza prevalere, influenzò parecchio i lavori e la redazione finale dei documenti, inducendo a smussare le novità più interessanti di contenuto e di linguaggio. Eppure da un certo punto di vista non è esagerato dire che nella condizione ecclesiale delle donne tutto cambia con il Concilio: anche quanto cominciava a delinearsi già prima, perché di colpo sembra acquisire un insperato diritto di cittadinanza nella chiesa, un’ufficialità nuova; anche quanto non c’è ancora, forse, perché al Concilio sono state dischiuse delle porte verso un cambiamento storico ed ecclesiale che urgeva. Infatti, nonostante tutte le spinte regressive che si possono riconoscere nel presente della chiesa, non sembra né facile né possibile richiudere quelle porte. Ma di questi problemi generali e specifici si parla spesso. Ora vorremmo invece ricordare le donne che al concilio furono presenti, come testimoni senza parola. In particolare le uditrici, dunque, che comparvero solo a partire dalla terza sessione: esse sembrarono e si sentirono onorate da un eccezionale privilegio rispetto alle altre donne, ma erano comunque discriminate (anche rispetto ai laici uomini). Ci interessano soprattutto perché la loro posizione sembra riassumere in maniera esplosiva la posizione delle donne nella chiesa, «sorelle separate», «ospiti in casa loro» (1). costruire sul negativo È un tema di riflessione che per sua natura deve procedere quasi interamente sulla linea di una (speriamo) non infeconda negatività. Le donne – come i laici in genere – non avevano avuto alcun ruolo nella commissione antepreparatoria che aveva cominciato ad agire nel 1959, e nemmeno nelle commissioni preparatorie (una di queste era sull’apostolato dei laici, ma interamente composta da ecclesiastici) o nelle commissioni conciliari. Non facevano eccezione le religiose: nella fase preparatoria erano state consultate solo le comunità religiose clericali. Eppure alcune donne avevano fatto udire con forza e chiarezza la loro voce. Ma abbastanza pochi furono quelli che la udirono, ancor meno quelli che diedero segno di averla udita. Il 23 maggio 1962 – quando pochi mesi mancavano ormai all’apertura dei lavori – un gruppo di donne fece pervenire alla Commissione preparatoria del Concilio una specie di libro-manifesto composto di vari contributi, in cui si chiedeva che la chiesa riconsiderasse il ruolo delle donne, accordando loro la piena parità di diritti, anche per quanto si riferisce al ministero. Più tardi il libro si sarebbe diffuso con un titolo significativo: Wir schweigen nicht länger (Non tacciamo più a lungo) (2). Autri- il rumore di un silenzio Nell’aula conciliare, come si sa, non c’erano solo i padri conciliari propriamente detti. Da subito le chiese non unite con Roma erano state invitate a mandare degli osservatori ufficiali, quasi consulenti privilegiati: non godevano del diritto di voto, ma partecipavano a tutte le sedute e avevano in ogni momento il diritto di prendere visione dei testi preparatori e di avanzare proposte. Inoltre erano stati nominati, direttamente dal papa, dei ‘periti’ (quasi tutti teologi preti) come consulenti per i diversi ambiti di cui il Concilio si sarebbe dovuto occupare; pur se non godevano del diritto di voto e durante le sessioni ufficiali avevano il diritto di parlare solo se richiesti, diedero un apporto notevole. A partire dalla seconda sessione poi vennero invitati come auditores dei laici, che potevano partecipare alle riunioni, ma senza prendere la parola, a differenza dei periti. Tredici all’inizio, e – occorre dirlo? – tutti uomini. Va ricordato che fino a un certo punto (precisamente, fino al secondo giorno della terza sessione, 15 settembre 1964), le donne furono escluse anche dall’eucaristia celebrata in San Pietro durante le sessioni conciliari. Nel 1963 l’esclusione aveva colpito anche donne illustri quali la signora Montini, cognata di Paolo VI, e m.me Nhu, vedova del presidente del Vietnam e cognata di uno dei padri conciliari. A una giornalista, Eva Fleischner, un giorno fu fisicamente impedito di accedere a ricevere la comunione insieme ai colleghi uomini. Il caso ebbe una certa eco sulla stampa, e in seguito alla Fleischner furono presentate delle scuse…, ma, per dirla con Manzoni, «inefficaci e tarde», visto che le giornaliste non furono ammesse alla Messa papale a differenza dei giornalisti. In seguito a questi fatti il cardinale Suenens (allora arcivescovo di Malines-Bruxelles), promise di intervenire personalmente presso il papa per eliminare la discriminazione. Fin dalla seconda sessione il cardinale Suenens si era espresso a favore della partecipazione di uditrici, il 22 ottobre 1963, con un intervento decisamente insolito nell’aula conciliare per contenuto e stile, e aveva domandato: «Dov’è qui l’altra metà del genere umano?». Anche l’arcivescovo Hakim di Galilea si era espresso a favore dell’ammissione delle donne, mentre il card. Slipyi aveva sostenuto che la tradizione della chiesa vieta alle donne qualsiasi ruolo attivo, citando a sostegno la frase attribuita a Paolo, «Mulieres in ecclesia taceant» (1 Cor 14,33b-35) (3). Varie autorevoli richieste ufficiali di ammettere uditrici al Concilio giunsero nel 1963 da varie parti del mondo cattolico. La risposta, in perfetto stile ecclesiastico, fu che la questione sarebbe stata esaminata a tempo opportuno. Quale fosse il «tempo opportuno» o da quali segni lo si sarebbe dovuto riconoscere, non veniva detto. Rosemary Goldie, molti anni dopo (durante un convegno indetto nel 1986 per celebrare i vent’anni dalla chiusura del Concilio) affermò che già nel 1963 il papa aveva pensato a nominare alcune uditrici, contestualmente alla nomina degli uditori, ma che «insistenze poco opportune», anziché facilitare l’iniziativa, l’avevano fatta slittare di un anno! Se questa è una spiegazione, non spiega molto: ci riesce difficile capire come mai richieste così legittime e tempestive dovrebbero risultare controproducenti. la svolta della terza sessione Comunque la grande svolta visibile del Concilio per quanto riguarda la presenza femminile si colloca nell’anno 1964, anche se le dinamiche del cambiamento, per la loro natura non ufficiale, non sono tanto chiare per noi né facilmente esplorabili. Certo è che l’8 settembre Paolo VI, ricevendo in udienza un gruppo di religiose della diocesi di Albano, disse loro fra l’altro: «Noi abbiamo dato disposizioni affinché anche alcune donne qualificate e devote assistano, come uditrici, a parecchi solenni riti e a parecchie congregazioni generali della prossima terza sessione del concilio ecumenico Vaticano II; a quelle congregazioni, diciamo, le cui questioni poste in discussione possano particolarmente interessare la vita della donna…». Come decisione doveva essere dell’ultimo minuto o quasi, e l’incrociarsi di consultazioni tra i dicasteri vaticani interessati ritardò la spedizione degli inviti. Nel discorso di apertura della terza sessione (14 ROCCA 1 APRILE 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO ce principale e punto di riferimento del gruppo di donne che aveva preparato il testo era una giurista svizzera, Gertrud Heinzelmann, pervenuta quasi per caso a occuparsi seriamente di teologia: mentre lavorava alla sua tesi in diritto canonico, aveva avuto occasione di incontrare con inorridito interesse certe affermazioni dei padri della chiesa e dei teologi medievali sulle donne, poi di schedarle e raccoglierle in modo più sistematico, rendendosi conto del peso che quelle idee e quelle affermazioni avevano ancora sul vissuto ecclesiale. La sua petizione/documentazione, da molti considerata l‘inizio della teologia femminista, rimase ignorata in sede ufficiale, com’era prevedibile, anche se diversi uomini di chiesa l’avevano privatamente apprezzata. 55 56 ta a riconoscere alla donna una vocazione che non fosse quella della madre oppure della suora»… Sì, per quanto riguarda le donne, forse al Concilio le cose più interessanti in prospettiva di futuro si verificarono in margine all’ufficialità dei lavori. Per questo ricordiamo un dettaglio che forse non è solo di colore locale. Per ristorare nelle pause quelli che erano impegnati nei lavori conciliari, erano stati approntati ai lati della Basilica due bar, che gli habitués chiamavano evangelicamente «Bar-Iona» e «Bar-Abba»; ma dopo l’ammissione delle donne, sembrò indispensabile approntare solo per loro un terzo bar da un’altra parte, allo scopo di evitare pericolose mescolanze con gli uomini, e questo fu subito chiamato dagli uditori anglofoni «Bar-Nun» (in inglese nun significa suora e le nerovestite-nerovelate uditrici, se anche non erano tutte suore, potevano sembrarlo) che, pronunciato all’inglese, suonava pressappoco come «Bar-None» (none = nessuno!). In realtà le uditrici si guardarono bene dal frequentare il bar destinato a loro; da subito si mescolarono con gli altri. E se durante le sessioni ufficiali tacquero secondo copione, non tacquero negli intervalli: ebbero scambi significativi con gli stessi padri conciliari, con teologi e giornalisti e con altri uditori laici, ciò che condusse a stabilire contatti e consentì loro di esercitare qualche influenza sui lavori del Concilio, benché – appunto – sempre in modo non ufficiale, ‘marginale’ e indiretto. Lilia Sebastiani Note 1 «Sorelle separate» richiama il titolo della seconda opera di Gertrud Heinzelmann, Die getrennten Schwestern (Interfeminas Verlag, Zürich 1967), in cui l’autrice espone e analizza gli interventi dei padri conciliari sulla donna. «Ospiti in casa loro» (forse meglio «nella loro propria casa») è il titolo di un libro interessantissimo e più recente sull’argomento, pubblicato per il trentesimo anniversario del Concilio: C. Mc Enroy, Guests in their own House: The Women of the Vatican II, New York 1996., purtroppo non tradotto in italiano. 2 G. Heinzelmann, Wir schweigen nicht länger, Interfeminas Verlag, Zürich 1965. 3 Per queste notizie si rimanda soprattutto alla fondamentale Storia del Concilio vaticano II diretta da G. Alberigo, vol. IV: La chiesa come comunione (settembre 1964- settembre 1965), Peeters-Il Mulino, Leuven-Bologna 1999, in particolare i saggi di J. A. Komonchak, «L’ecclesiologia di comunione», pp. 19-118 e di H. Sauer, «Il concilio alla scoperta dei laici», pp. 259-291. CINEMA Giacomo Gambetti P uò capitare, come è capitato a noi, che si veda un film che è la «continuazione» di un film precedente, senza conoscere il film precedente. Esiste una regola ufficiale e fissa, in proposito? Non esiste. Molte volte neppure si sa se un film cominci o continui una storia, e poi quando esce sugli schermi si tratta, comunque, di un’opera nuova e autonoma. Se è lecito un confronto, anche Dumas scrisse, dopo «I tre moschettieri», un altro romanzo, «Vent’anni dopo», che riprende parte della prima avventura e dei primi personaggi, per continuare a raccontare avventure e personaggi vecchi e nuovi. I due romanzi si poterono ovviamente e si possono leggere autonomamente, e non si vede perché ciò non possa accadere anche con i film. Queste «continuazioni» sono sempre frutto di obiettivi commerciali, ma ciò non può far trascurare che ogni film ha un inizio e una fine e una sua conclusione, che a volte può concorrere a una storia e a una conclusione più generale, ma che è anche valida in se stessa. Saw 2 – La soluzione dell’enigma di Darren Lynn Bousman (e non sappiamo se sia stato o no regista anche del film precedente) narra di un delinquente psicopatico che ama uccidere le proprie vittime imprimendo sulla loro pelle un simbolo enigmistico, che a volte viene inciso anche addosso ad alcuni prigionieri torturati e lasciati lentamente morire. Il serial-killer di cui si parla è – così – l’Enigmista. Il quale, all’inizio del film di oggi, fa prigioniero il figlio di un agente di polizia suo ne- Una storia dopo l’altra Saw 2 – La soluzione dell’enigma mico e si diverte a provocare costui perché salvi il figlio. Gli dice infatti che rimangono poche ore di vita, poiché il giovane è rinchiuso con altri in una stanza, da individuare, in cui è immesso un gas destinato a condurre inesorabilmente alla morte. Il film si svolge fra le torture, le scene di disperazione e le urla strazianti delle vittime designate, il cui corpo va via via deteriorandosi, e la ricerca ossessiva del poliziotto e di qualche collega per individuare la famosa stanza, avendo però già catturato l’Enigmista. Ma l’Enigmista, che sa di essere destinato a morire per una malattia sicura e incurabile, non vuole assolutamente collaborare e si «diverte» in un macabro gioco di dispetti, provocazione, torture psicologiche a non rivelare la strada della liberazione dei prigionieri, e quindi a non aiutare in nessun modo il poliziotto. Quasi in tempo reale il film procede con scene di fortissima violenza e crudeltà, per nulla attenuate dal bianco e nero costante, lampeggiato a tratti da qualche sprazzo di rosso. C’è da trovare la chiave di una serratura, c’è una chiave che mette anche i prigionieri l’uno contro l’altro, c’è una chiave che soltanto alla fine viene rintracciata. Ma proprio alla fine-fine scopriamo che è il poliziotto a rimanere rinchiuso, dopo la liberazione degli altri, in uno spazio letale. Inizio di un terzo film o conclusione amara e tragica della storia? Uno degli interrogativi fondamentali, di fronte a un film come questo, è: a quale genere di spettatore ci si rivolge? L’abuso della violenza viene a volte giustificato con l’essere il cinema – come lo spettacolo in genere – uno specchio e un riflesso della realtà quotidiana la quale, in effetti, sulla violenza non ci risparmia nulla. L’eccesso della violenza, a volte, è accompagnato da una sottile ma viva forma di ironia e di gioco. Se il film di oggi può essere in qualche modo vicino ad alcune terribili, esasperate, vicende reali del nostro tempo, certamente nel film manca qualsiasi forma di ironia e di divertimento critico. Si dice anche che film così violenti come questo siano fatti apposta per portare la gente al cinema, dal momento che nessuna rete televisiva può osare trasmetterli. Forse qualcuna di queste ipotesi è vicina alla realtà. Il che non toglie che, visto in sé e per sé, questo Saw 2 denoti una notevole pochezza di idee e una corrispondente monotonia di stile. Gli interpreti sono sconosciuti o quasi e non sembrano brillare per originalità e vivacità. Quello del serial-killer, cioè di un assassino metodicamente dedito al delitto non per cause specifiche e singole, ma per una sua maniacale tendenza oggettiva, è d’altra parte un tema che la cinematografia degli Stati Uniti tocca spesso, il che può significare che si tratta di un tema crudamente insito in quella società, e non solo in quel cinema. ❑ 57 ROCCA 1 APRILE 2006 ROCCA 1 APRILE 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO settembre 1964) Paolo VI aveva inserito anche un saluto alle uditrici; ma nessuna uditrice lo udì. Infatti non c’erano, non avendo ancora ricevuto l’invito ufficiale. Gli inviti partirono solo il 21 settembre, quando cioè la terza sessione era cominciata da una settimana, e finalmente il 25 entrò in San Pietro la prima donna uditrice (Marie-Louise Monnet). Altre ne entrarono nei giorni successivi: in tutto, 8 religiose e 8 laiche. Era il primo coinvolgimento ufficiale delle donne nei lavori del Concilio. Si trattava di un cambiamento storico. Non possiamo non riconoscerlo; e tuttavia oggi nemmeno possiamo pensare senza qualche perplessità a quelle sedici pioniere in Basilica, silenziose, velate e vestite di nero, le laiche non meno delle religiose, e profondamente comprese dell’onore di cui erano oggetto. Erano donne certo «qualificate e devote», secondo l’espressione di Paolo VI, ma scelte soprattutto per la rappresentatività del ruolo che ricoprivano e – le laiche almeno – conosciute assai più per il loro indiscusso ossequio all’autorità ecclesiastica che non per l’impegno nella causa delle donne. All’inizio era inteso che sarebbero state ammesse a quelle riunioni in cui erano in programma argomenti che riguardavano le donne. Ovviamente gli uditori di sesso maschile a tali restrizioni non erano soggetti: in perfetta coerenza con il pregiudizio patriarcale che tende a vedere nel femminile una particolarità, un ‘accidente’ all’interno della condizione umana in cui il maschile coincide invece con il normaleparadigmatico. Tanto più istruttivo risulta perciò il fatto che una delle otto religiose invitate, madre Mary-Luke Tobin, quando le fu detto che avrebbe potuto partecipare alle sessioni «che interessavano le donne», rispose: «Bene, allora posso partecipare a tutte». In effetti le uditrici finirono con il partecipare a tutti i lavori, senza che nessuno sollevasse difficoltà: la prassi qualche volta può superare le aperture teoriche. E vi era qualcuno, per fortuna, a cui il loro silenzio cominciava a non sembrare così ovvio. Nell’ottobre vi furono due richieste da parte degli uditori laici affinché fosse consentito un intervento femminile in aula, e le richieste furono anche appoggiate da alcuni padri conciliari della corrente progressista, ma non ebbero seguito: alla fine i moderatori autorizzarono l’intervento con la condizione che venisse fatto da un uditore e non da una uditrice. In quello stesso periodo il cardinale Hallinan, arcivescovo di Atlanta, non all’interno dell’aula conciliare bensì parlando alla stampa, ebbe modo di osservare che la chiesa fino a quel momento era stata «len- TEATRO RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa ROCCA 1 APRILE 2006 S i parla spesso oggi di spettacoli interattivi, ad indicare quelle forme comunicative che pongono il «fruitore» in condizione di interagire, appunto, direttamente con chi comunica realmente o virtualmente. Bene: nel teatro mi è recentemente accaduto di constatare modalità simili legate, più che all’informatica, al linguaggio dialettale e all’ambientazione locale (nella fattispecie milanese). La prima parte della commedia El nost Milàn (La nostra Milano) sottotitolo La povera gent – è felicissima opera di Carlo Bertolazzi, autore del verismo lombardo, riscoperta da Giorgio Strehler che la mise in scena più di una volta. Scritta alla fine dell’Ottocento, è un bell’affresco della Milano dei poveri. In tale contesto si innesta l’azione: la tragedia di Nina, vittima di un malavitoso del quale il vecchio padre della giovane donna farà giustizia. Bene ha fatto Aleardo Caliari a riproporre – nel suo Teatro della Memoria – questa fondamentale opera. Discutibile l’ambientazione negli Anni Cinquanta del Novecento. Diversa era infatti la miseria del dopoguerra da quella della seconda rivoluzione industriale. Il bel testo di Bertolazzi tuttavia tiene ancora, al punto che il pubblico interagisce – come dicevo – anticipando le divertenti battute di sapore quotidiano o reagendo, nei momenti più drammatici al «cattivo» di turno. Analogo clima, sia pure in 58 lingua ma con belle cadenze milanesi, in una gustosissima Commedia di Carlo II Colla – La vecchia Dorotea – che la Compagnia Carlo Colla e Figli ha messo in scena con le sue marionette. Scritta nel 1919, la commedia è un apologo in cui gli attori dalla testa di legno riecheggiano il Bertolazzi (l’ingenua popolana che rischia di sacrificare la propria vincita al lotto alle astuzie di un «poco di buono»), ma anche il Porta (lo scenario è quello del Verziere al centro di Milano) o addirittura il Giusti (le esilaranti caricature degli sbirri austriaci). Immancabile il lieto fine, che fa tirare un sospiro al pubblico, il quale interagisce con sonore risate come ai tempi del glorioso Teatro Gerolamo. Il terzo esempio, infine, è Che gibilè per quatter ghej (Che baraonda per quattro soldi) – versione in milanese, a cura di Roberto Marelli e Marzio Omati, di una farsa di Alberto Colantuoni. Anche qui il dialetto lombardo, anche qui un biglietto vincente che il possessore – uno zio defunto – ha portato con sé. La messinscena di una dignitosa compagnia amatoriale diretta da Mariuccia Guizzetti, ha visto – nel Teatro Parrocchiale di San Michele Arcangelo a Milano – tre affollate repliche. Dalla platea risate, sdegno, stupore per i colpi di scena. Più che interazione, l’antica e viva legge del teatro: riproduzione della realtà, ma anche personificazione dei sentimenti. ❑ I n bilico: tra le ultime sceneggiature tv realizzate e l’annuncio dell’autore, Camilleri, dell’avvenuta consegna all’editore del romanzo che è conclusivo, per «scomparsa» del protagonista, delle avventure di Salvo Montalbano (commissario di Pubblica sicurezza in Sicilia). In bilico: tra il desiderio dell’interprete, Zingaretti, di smarcarsi dalla forza attrattiva di quello che pur essendo uno solo dei suoi personaggi potrebbe far ingombro in un itinerario professionale comunque ben ricco e positivo, e un gradimento del pubblico che va oltre indici di ascolto Tv (e di vendita libraria) che ne suggerirebbero prosecuzioni… In bilico, appunto: come accade a molte avventure, letterarie o tv, che sono positive prima di essere di successo o nonostante il successo che vanno riscuotendo, e rispetto alle quali si deve decidere se concludere, lasciando rimpianti di vario genere, o se prolungare sine die assumendosi pericoli di scadimento, banalizzazione e smarrirsi di qualità. È pensabile un Montalbano/serial? O l’invenzione di prequel e sequel come accade per le saghe fantasy o Sf? Una risposta, che esula dalle valutazioni della convenienza televisiva è da cercare ragionando intorno a quella lingua ed alla modalità di scrittura che rappresentano l’invenzione maggiore di Camilleri nella sequenza dei romanzi «di Montalbano»: nella narrazione degli eventi, così come nel racconto dei luoghi e nelle parti dialogate (battute e controbattute, ricostruzioni d’eventi, meditazioni e «fra sé»). Un linguaggio che non è totalmente italiano, pur essendolo per appartenenza di fonemi, non è nessuna delle lingue minori del- Augusto Cavadi Brescia la Sicilia pur avendone l’apparenza di forma dialettale, non è un’astrazione tra lingue: ché, anzi, anche non cogliendo in prima lettura taluni passaggi verbali, il significato comunque si raggiunge in forza di una sorta di interna densità sonora; quasi di concretezza concettuale. Simil/turpiloquio non escluso. Il passaggio alle sceneggiature televisive ha saputo mantenere – i trascorsi Rai di Camilleri… – invenzioni, sintesi e concretezza di quella lingua, nei dialoghi; ha affidato la rappresentazione dei luoghi ad una regia capace di renderne colori e forme esaltandone gli «eccessi»: i barocchi di sfondo come grandi spazi da pittura metafisica, la natura come estremizzazione della luce; ha asciugato la narrazione «stringendo» i passaggi tra gli eventi ma concedendosi i lussi del panoramicare e del campo lungo di ripresa, anche fermo, dentro il quale lasciar avvenire l’azione. Il tutto a ripetere, reinventando, quelle densità, quelle materialità, quello svolgersi delle trame legato a cose concrete. Nessuna di queste due «scritture» – né quella tutta di parole, né quella di Tv – è serializzabile, su questi livelli qualitativi: al procedere delle realizzazioni tv, anzi, qua e là si coglie qualche cedimento: le battute si fan convenzionali, il piantone Tatarella togliendosi dallo sfondo si fa macchietta, qualche interno notte svicola l’ambiente verso illuminazioni ad effetto… Ripetere non giova, dunque, e serializzare farebbe danno. Una pausa televisiva è opportuna; semmai ci può augurare che quella autorale trovi ripensamenti. ❑ I l travaso da Treviso a Brescia permette a Marco Golden di moltiplicare la sfida e vincerla proprio nel momento in cui chiarisce l’identità della propria poetica. Il fare storia dell’arte per esprimere la interiore necessità di esprimersi, fino alla costruzione di uno spazio teatrale, di un racconto, per non aver paura a vedere il dato esistenziale con il rischio degli psicologismi tritacarne e la scrittura a cedere alla cattiva letteratura. E dunque saranno i capolavori e le filologiche e storiche indagini a salvaguardare proprio quella intima necessità dell’espressione dell’esistere che l’opera magna vive proprio perché è vissuta. Così la strepitosa mostra di Gauguin e Van Gogh si accompagna ad una sua sorta di appendice con i bellissimi Millet (dal Museum of Fine Arts di Boston) e da tale fantasmagorica esplosione di «colore nuovo» ci si congiunge alla tornata italica, da Perez a Guccione, alla felice riproposta – per la cura di Fabrizio D’Amico che, nel suo argomentato e felice saggio in catalogo, afferma: «una dimensione di primitivismo che in molteplici declinazioni lo terrà avvinto lungo gran parte degli anni venti» – dell’opera del maestro di Assisi – dove nasce nel 1886, il 9 novembre (morirà a Roma, il 20 maggio del 1965) – Riccardo Francalancia (e perché non ospitarla proprio ad Assisi!); dando tale elenco di esposizioni (con i cataloghi benissimo editi da Linea d’Ombra Libri) corpo e vita al progetto di Goldin: «Brescia. Lo splendore dell’arte». La mostra dedicata a Gau- guin e a van Gogh insegue i due artisti nella geografia delle loro peripezie, da Parigi e Bretagna (Gauguin) e dall’Olanda (van Gogh) agli intrecci in Arles e quindi a dividersi i significati della vita con la propria solitudine, a SaintRemy e Auvers (van Gogh) e a Tahiti e alle Marchesi (Gauguin), così che il colore «nuovo» è l’antico parlare della verità del vivere e del morire dentro la disperata e stridente felicità di un significato che raccolga i cocci e li ricomponga in una unitaria infinita sublimazione. Scrive Goldin: «(Gauguin) a Tahiti, più ancora che in Bretagna, vive, nella bellezza di un mondo, la compenetrazione tra natura e figure sulla spiaggia. Tra ciò che permane e ciò che scomparirà. Ma tutto sta sotto la luce invariabile dell’eterno, anche quelle donne che moriranno giovani e avvolte nel rosso che ci fissa quasi a designare l’amore che santifica e rigenera. C’è meno ottimalità in van Gogh, ogni cosa sospesa entro una luce che è dello spirito e del colore insieme» fino al Gauguin in cui «la pelle liscia della pittura si frantuma in una pioggia di gialli e rossi, verdi, azzurri» come «il colore degli ultimi paesaggi di van Gogh a Auvers, vivono per il senso di una stagione che muore ma si perpetua a lungo, entro un tempo infinito. Il tempo di oggi e il tempo di sempre si sommano, in quell’oblio della terra e dei colori che dà luogo a una memoria diversa, assoluta. Il grasso pulviscolo dei campi di grano e dell’erba per van Gogh, la fioritura accesa di una nuova primavera per Gauguin». ❑ Rouault a Palermo D ella serie di 58 incisioni su rame note col titolo complessivo di «Miserere» (pubblicate originariamente dall’autore qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale), una raccolta completa è custodita nella Galleria d’arte contemporanea della «Cittadella cristiana» di Assisi. Dal 3 al 26 marzo una riproduzione fotografica delle tavole, realizzata dal maestro Elio Ciol e corredata da didascalie scritte di pugno dall’artista francese, è stata allestita a Palermo presso il Tabularium del Loggiato San Bartolomeo alla Marina. Il tema della mostra didattica itinerante è la passione di Gesù di Nazareth, in cui il pittore vede simboleggiata la sofferenza che sfigura le vittime della storia. Ma la tematica religiosa non lo distrae dalla sua ispirazione originaria e continua: come nelle opere in cui rappresenta «donne di strada, pagliacci, giudici e megere», anche qui egli persegue «il proprio accordo interiore nell’universo della forma e del colore» (J. Maritain, Le frontiere). E lo persegue andando all’essenziale perché «più un artista è grande, più egli semplifica, operando una scelta e omettendo». Che la mostra passi da Palermo, potrebbe non essere privo di significati. Innanzitutto s’impone una ragione di carattere generale: la nostra città ha bisogno di iniezioni di bellezza. Lo storico Paolo Viola, da poco scomparso, mi diceva che l’aveva scelta – lui piemontese d’origine, laureato a Pisa, abitante a Roma – perché a suo parere sarebbe una delle città più belle d’Italia. Ma è imbruttita. Anzi – per evitare di pensare ad un processo biologico ineluttabile – abbrutita. Quanto scriveva Vincenzo Consolo ne Le pietre di Pantalica del 1988 resta ancora, per troppi versi, attuale. Qui Palermo è una Beirut distrutta da una guerra che dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati della città. La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza» (p. 172). Ma se la situazione fisica, materiale, è questa, la bellezza di cui abbiamo bisogno in città come la nostra deve evitare anche solo l’apparenza della retorica. Dev’essere nuda, schietta, asciutta. Proprio come i quadri di Rouault che – com’è tipico dell’espressionismo – non concedono nulla all’eufemismo, all’abbellimento artificioso. E che aprono gli occhi sulle risorse sepolte in personaggi e paesaggi, ma attraversandone – con pietoso realismo – le ferite oggettive. Basta fare un confronto fra questo Miserere e una Via Crucis ‘media’ esposta nelle nostre chiese, dove il Messia sofferente ha i lineamenti stucchevolmente piacenti di un attore di Hollywood. È un po’ la differenza fra il Gesù di Pasolini e il Gesù di Zeffirelli (e non è un caso, forse, che Pasolini abbia avuto proprio alla «Cittadella» d’Assisi l’idea del suo «Vangelo secondo Matteo»). Dico di Pasolini, non di Mel Gibson perché non si tratta di essere sadicamente truculenti: l’arte compie la magia di rendere liberatrice la contemplazione persino delle deformazioni. L’arte di Rouault rispetta la sofferenza dell’uomo Gesù in tutta la sua cruda concretezza, ma la trasfigura poeticamente: la fa diventare, per così dire, il prototipo della sofferenza di ogni uomo. Per questo, davanti a più di una delle tavole esposte, può capitare che il visitatore avverta la sensazione di essere davanti ad uno specchio: che rifletta non tanto la sua ‘maschera’ protettiva quanto la sua anima indifesa. ❑ 59 ROCCA 1 APRILE 2006 Montalbano Il dialetto interattivo MOSTRE SITI INTERNET FOTOGRAFIA Michele De Luca ROCCA 1 APRILE 2006 L 60 proprio entourage, di familiari, di ricordi e di luoghi. Per l’allestimento della mostra «L’occhio di Fortuny. Panorami, ritratti e altre visioni» «è stato riaperto a Venezia l’atelier al primo piano di Palazzo Fortuny in Campo San Beneto; l’intelligente allestimento da un lato ne rievoca l’ambiente, dall’altro è puntato su un’agevole lettura degli esiti espressivi con più di cento immagini. Curata da Silvio Fuso (catalogo Marsilio), la mostra allinea, una significativa serie di fotografie selezionate e stampate da Giorgio Molinari con sensibilità filologica ed accorgimenti tecnici tali da restituirne al meglio caratteristiche ed intonazioni. È certo che Fortuny non fu né volle essere un professionista in fotografia; non bisogna però cedere – ci fa notare Fuso – alla facile tentazione di liquidarlo come «un fotografo dilettante seppure talentuoso, un intellettuale ottocentesco poco attento alla coerenza del linguaggio fotografico, più attratto dai soggetti, dalle occasioni che dalla potenzialità espressiva del mezzo». Il suo rapporto con la fotografia rimane ancora da approfondire, con contributi importanti come quelli offerti meritoriamente da questa mostra; ma la complessa eterogeneità di queste immagini e l’approccio non semplicemente «artigianale» testimoniano di come Fortuny si appropri ed usi da «artista» il mezzo fotografico, riuscendo consapevolmente a fondere perizia tecnica e risultato espressivo. ❑ Energie rinnovabili C ’è voluta la recente «guerra del gas» tra Russia e Ucraina per ricordare ai distratti italiani (ed europei in generale) quanto il nostro Paese dipenda in larga parte da fonti energetiche provenienti dall’estero: tema di grande rilevanza, certo, che diventa però addirittura infimo se accostato su scala macro al tema dei temi, ossia la dipendenza del sistema produttivo ed economico mondiale da fonti di energia per lo più legate a combustibili fossili, come petrolio, carbone, gas naturale. Quand’anche la disponibilità quantitativa di tali risorse risultasse relativamente cospicua, in proiezione temporale, emergenze di carattere ecologico-ambientale, oltre che necessità di miglior equilibrio nei rapporti internazionali in ambito energetico, rimarcherebbero comunque l’urgenza di sviluppare un sistema energetico alternativo, sostenibile dal punto di vista sia ambientale, sia delle risorse finite, sia socio-economico. In tal senso, risulta di preponderante importanza sviluppare una più diffusa coscienza collettiva – e quindi opportune pratiche politiche e tecnologiche – nella direzione delle cosiddette fonti rinnovabili di energia, già presenti in natura e virtualmente inesauribili, come ad esempio il sole, il vento, l’energia idraulica, i moti ondosi, le maree, le biomasse (trasformazione di rifiuti inorganici, organici e vegetali). Internet offre diverse risorse che illustrano il quadro scientifico e tecnologico dell’attuale stato dell’arte delle energie rinnovabili. Limitandoci al panorama italiano, segnaliamo anzitutto il sito istituzionale del Ministero dell’Ambiente (www.minambiente.it), che nella sezione dedicata all’energia presenta schede in- formative e link a strutture che operano in questo settore. Molto efficace e dettagliata – anche per un primo approccio didatticamente fruibile – la rassegna informativa di carattere scientifico, ma anche tecnologicooperativo, proposta in www. e n e r g i e - r i n n o v a bili.net, il primo e miglior portale italiano sul tema, dotato di database con enti e aziende che operano nel settore. Un valido contributo offerto a livello nazionale sia in Internet sia a livello operativo proviene da Ises Italia (sezione italiana dell’International Solar Energy Society), la principale associazione tecnico-scientifica non profit per la promozione dell’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili (www.isesitalia.it). Preso atto dei numerosi ostacoli alla diffusione di queste energie (barriere informative, politico-legislative, istituzionali, economico-finanziarie, infrastrutturali), Ises Italia punta ad agire a livello di informazione, assistenza tecnica, formazione professionale, coinvolgendo enti ed aziende istituzionalmente implicati nella politica energetica italiana, industrie del settore, centri di ricerca, università, organizzazioni di categoria ed enti locali interessati. Articolato in senso scientifico e attento all’intera problematica è infine il sito dell’Enea, che illustra in un’ampia sezione obiettivi e organizzazione della valorizzazione e impiego delle energie rinnovabili (www.enea.it/com/ene/ index.html). Utile anche la consultazione del portale della rivista mensile di Legambiente (www.lanuovaecologia.it). ❑ Luisa Santelli Beccegato (a cura di) Bravi da scoprire. Alunni di diverse nazionalità e successo scolastico Levante Editori Bari 2005, pp. 205 Il testo nasce come resoconto di una ricerca, condotta con un gruppo di 25 scuole di Bari e provincia, che hanno aderito all’iniziativa promossa dalla Sezione di Pedagogia interculturale dell’Università di Bari – di cui la curatrice è la direttrice. Tematica pedagogica di sfondo è l’educazione interculturale ; l’istituzione scuola non può rimanere impreparata di fronte alle nuove dinamiche sociali di cui si decifrano i contorni, ma per le quali le risposte sono tutte aperte e possibili. Finora in Italia si sono affrontate le problematiche delle diversità culturali passando da un’attenzione ai momenti celebrativi sulla tolleranza, sui temi della pace e della non violenza allo sviluppo di una didattica articolata, basata su strategie comunicative e relazionali da impostare con tutti gli alunni, per cercare tanto la valorizzazione delle differenze quanto quella delle somiglianze, a partire dalle diverse storie ed esperienze personali. Perché l’interculturalità – sottolinea la Santelli Beccegato nella sua introduzione – non è affatto un atteggiamento spontaneo (anzi spontaneo è il timore o la vera e propria paura del diverso), ma è piuttosto un processo da costruire. Il significato di un’educazione interculturale sta nella formazione di un’armonica identità personale e sociale rispettosa di sé e dell’altro, con l’obiettivo di rag- giungere la cooperazione. Quella descritta nel libro si configura comunque come ricerca in controtendenza rispetto agli studi di settore che preferiscono sottolineare la parte oscura dello scenario stereotipato di quella che viene definita Ciucciolandia, scuola dei nuovi barbari, secondo le diffuse semplificazioni dei media: bocciature ed abbandoni scolastici (che certo esistono ma non sono tutto) e analizza invece i successi scolastici, cioè le eccellenze raggiunte dagli alunni stranieri, allo scopo di : far emergere i casi positivi, riconoscere le ‘buone pratiche’ di insegnamento avviate in presenza di tali alunni, nonchè veicolare un messaggio di fiducia nei confronti del tessuto sociale. Ciò è già esplicito nel sottotitolo, nella scelta di non chiamarli stranieri o extracomunitari, ma «alunni di diverse nazionalità», a sottolineare una loro denominazione positiva, quale connotazione rispettosa delle identità e delle diversità delle singole storie. L’impostazione della ricerca è di tipo qualitativo perché rileva processi e condizioni significative per comprendere e valorizzare scelte educative, ma anche organizzative e didattiche che concorrono a costruire percorsi flessibili di insegnamento / apprendimento. Ne risultano implicati capi di istituto, insegnanti e alunni assieme ai mediatori culturali tutti coinvolti nel transito dallo ‘stare bene’ al ‘fare bene’ a scuola (clima e risultati) e le loro opinioni e le letture del processo vissuto sono raccolte con attenzione, messe a confronto con le tecniche del collo- quio e delle interviste, curando l’organizzazione e la documentazione delle attività. Socializzazione ed apprendimento – insiste la prof. Santelli Beccegato – sono processi che si sostengono reciprocamente e che puntano non solo ad incrementare le promozioni, ma a stimolare più alti profili apprenditivi in tutti gli alunni, mediante la responsabilizzazione di ogni alunno come singolo, orientato alla conquista della sua autonomia ed allo stesso tempo consapevole componente di un gruppo. La direzione di queste osservazioni non mira ad una facile soluzione delle dinamiche scolastiche, ma vuole prendere la direzione di ricercare ed elaborare progettazioni condivise tra gli operatori della scuola, tra loro e gli alunni, i loro famigliari ed i rappresentanti della società: c’è di mezzo l’elaborazione dei saperi e la valorizzazione dei diversi stili cognitivi ed apprenditivi, ma soprattutto c’entra la consapevolezza che educare è un crescere insieme. Luigina Morsolin Marcel Gauchet La democrazia contro se stessa Città aperta Edizioni, Troina (En) 2005, pp. 291. Ha sconfitto feroci dittature, ha affermato i diritti dell’uomo e ha lanciato le basi della partecipazione collettiva. Ma ora rischia un clamoroso suicidio. È la democrazia secondo la visione del filosofo Marcel Gauchet, redattore capo e co-fondatore della rivista francese Le Débat, acuto osservatore dell’evoluzione delle forme politiche europee nell’arco del ‘900. Il suo libro raccoglie i principali articoli – dal 1980 al 2000 – che Gauchet ha scritto per la rivista da lui fondata, brevi saggi che spaziano dalla politica alla religione, dalla pedagogia alla psicologia, ponendo l’accento sulle macro-trasformazioni che oggi hanno determinato un paradosso: l’esercizio della democrazia regredisce proprio con l’avanzare dei suoi principi e valori supremi. Secondo l’analisi di Gauchet, è proprio a partire dagli anni ’80 che i concetti di «massa», «classe» e «nazione» iniziano a sfaldarsi per lasciare il campo all’individuo quale soggetto di diritto. La fede nella democrazia diventa così «fede nel diritto che protegge e distingue le individualità», perfettamente compatibile con la preferenza per i piaceri privati e il culto del successo personale. Se all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la nuova alba delle carte costituzionali europee, l’obiettivo comune era rappresentato dall’organizzazione del tutto, la deriva contemporanea si realizza nell’indipendenza delle parti. L’esito, per Gauchet, si concretizza in una sempre più crescente crisi politica che, a sua volta, può sfociare in un lungo periodo di oscurità della partecipazione collettiva alla vita democratica. Eccesso di catastrofismo? L’autore, a questo punto, quasi prende le distanze da se stesso e afferma: spesso la storia insegna che gli strumenti politici possono generare insospettabili processi di consapevolezza, che sanno trasformare la società in soggetto capace di autogoverno. Pasquale Martinelli 61 ROCCA 1 APRILE 2006 Giovanni Ruggeri Mariano Fortuny a visione «teatrale» del reale: in sintesi potrebbe essere questa la specificità che connota la produzione fotografica di Mariano Fortuny, sia che si traduca in una moderna e personale concezione della «veduta», sia che si concreti nell’altro «classico» della fotografia, e cioè nel «ritratto»; e ciò in una più generale aspirazione ed impresa, realizzata soprattutto nei primi dieci anni (circa) del secolo, tesa a restituire all’essenza e alla funzione dello sguardo fotografico la qualità ed il ruolo di «trasfigurare» la realtà. Non a caso sono anni che coincidono, per quanto riguarda in particolare la realizzazione di splendide riprese panoramiche, con l’entusiastica adesione di Fortuny alla riforma teatrale wagneriana, che egli mette in relazione con i grandi spettacoli di massa parigini e con la pittura dei Deutsche Romer. Una «visione», comunque, che, per formazione culturale e scelte estetiche, non può scindersi (anzi ne è impregnata) da altri fattori che hanno caratterizzato il suo lavoro artistico, e cioè il suo eclettismo, la sua moderna progettualità coniugata con un forte richiamo verso i valori culturali e artistici rinascimentali, il senso di raffinatezza esistenziale e di culto della privacy; che coinvolge l’altro lato della produzione fotografica di Fortuny sviluppatasi nell’arco di un venticinquennio, riguardante una sorta di privato taccuino di immagini popolato da intimi studi pittorici, personaggi del LIBRI Ecuador ROCCA 1 APRILE 2006 S tato dell’America latina, attraversato dalla linea dell’equatore, l’Ecuador confina con la Colombia a nord e con il Perù ad est e a sud. Il Paese può essere diviso in tre regioni: le pianure costiere nella parte occidentale, la Cordigliera delle Ande (che raggiunge il punto più alto con il Chimborazo a 6310 m.) nella parte centrale e le pianure amazzoniche nella parte orientale, oltre alle Isole Galapagos (famose per l’unicità della fauna e per le insolite formazioni geologiche) situate a circa 1000 km ad ovest della costa lambita dall’Oceano Pacifico. Gli iniziali europei ad approdare sulle coste dell’Ecuador furono gli spagnoli nel 1526. I primi tentativi di strappare la regione ai colonizzatori si registrarono però solo agli inizi del XIX secolo. Nel 1822, ottenuta l’indipendenza, il Paese entrò a far parte della Grande Colombia, una confederazione di stati comprendente Venezuela, Panama e la stessa Colombia. Nel 1830 il Paese si emancipò dalla confederazione, proclamando la piena sovranità costituzionale. Iniziò così un periodo caratterizzato da guerre civili, scontri, tensioni e dal susseguirsi di regimi dittatoriali. Nel 1941 l’Ecuador entrò in guerra contro il Perù. Al conflitto pose termine, l’anno successivo, la Conferenza panamericana di Rio de Janeiro, che privò l’Ecuador dei territori contesi. Durante gli anni Settanta vennero scoperti ingenti giacimenti petroli62 feri che trasformarono in breve l’Ecuador in secondo produttore di petrolio dell’America latina. Il Paese aderì quindi all’Opec, ma la politica del governo provocò una crescente inflazione, che allargò ulteriormente la forbice sociale. Nel 1995 il vecchio conflitto territoriale con il Perù culminò con uno scontro tra gli eserciti dei due paesi. La reazione peruviana fu assai violenta e l’Ecuador subì numerosi attacchi aerei prima di accettare il cessate il fuoco. Il contenzioso venne risolto nel 1998, con la firma dell’accordo di Brasilia, che tuttavia provocò malcontento in entrambi i paesi. Nei primi mesi del 1999 la moneta nazionale perse rapidamente il 40% del suo valore e l’attuazione di un piano anticrisi causò una nuova diffusa rivolta. Agli scioperi e alle manifestazioni di piazza, il Presidente Mahuad rispose con una violenta repressione, indicendo lo stato di emergenza e annunciando l’adozione del dollaro statunitense come moneta ufficiale del Paese. La crisi raggiunse il suo apice quando un gruppo di ufficiali dell’esercito, costrinse il Presidente a dimettersi, imponendo alla guida del Paese il vicepresidente Gustavo Noboa. Nel gennaio 2002, le elezioni presidenziali sono state vinte dall’ex colonnello Lucio Gutiérrez. Popolazione: con una media di 51 unità per km², l’Ecuador è il Paese sudamericano con la più alta densità di popolazione, costituita per il 50% da indigeni, il 40% da meticci e la parte restante è composto dai discenden- ti degli spagnoli. La popolazione ecuadoriana (quasi 14 milioni di abitanti) localizzata per l’82% nelle aree urbane lungo la costa, ha una forte predisposizione per lo sviluppo imprenditoriale. Gli abitanti della Cordigliera, al contrario, sono conservatori, sebbene siano sempre più presenti e attivi nella vita politica, gestita principalmente dai meticci. Religione: il 90% della popolazione professa la religione cattolica. Sono altresì presenti esigue minoranze di protestanti e nella regione amazzonica persistono i culti tribali. Economia: l’economia del Paese, pur essendo fortemente ancorata al petrolio, che rappresenta da solo l’80% delle esportazioni, ha una struttura produttiva ancora di stampo prevalentemente agricolo. L’Ecuador è inoltre il principale produttore di rose, la cui qualità è universalmente riconosciuta come la migliore. Il turismo rappresenta la più promettente fonte di introiti valutari per il futuro ed è già il terzo più importante settore dell’economia ecuadoriana. Molto sviluppato è anche il comparto del pescato, le cui esportazioni rappresentano una delle voci più fiorenti dell’economia. L’industria, viceversa, si basa essenzialmente su piccole aziende alimentari, chimiche e tessili, che assumono però un ruolo estremamente marginale. Situazione politica e relazioni internazionali: due anni dopo la nomina dell’ex colonnello Lucio Gutiérrez a Capo di Stato, preoccupanti segnali provenienti sia dal FRATERNITÀ Nello Giostra basso (il movimento indigeno che lo aveva sostenuto) che dall’alto (il tentato impeachment da parte dell’opposizione) stanno mettendo a fuoco una crescente perdita di popolarità del Presidente in carica. Il lento ma inesorabile declino del Presidente è iniziato, con ogni probabilità, nel dicembre 2004, quando, con una discutibile manovra politica, la sua maggioranza ha deciso di eleggere i giudici della Corte Suprema di Giustizia, il massimo organismo giurisdizionale del Paese. La decisione ha fatto gridare allo scandalo, considerato che l’ordinaria procedura costituzionale prevede un meccanismo di auto-sostituzione, gestito dagli stessi giudici uscenti. Nell’aprile 2005, in seguito ad una sollevazione popolare, Gutiérrez è stato costretto a dimettersi, fuggendo nell’ambasciata del Brasile a Quito, dove ha chiesto asilo politico. Il suo posto è stato occupato dal suo vice, Alfredo Palacio, che ha già formato un nuovo governo. L’Unione europea ha lanciato un appello affinché si ritorni al più presto possibile alla normalità costituzionale, avvertendo che il Paese è sull’orlo della guerra civile. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno già riconosciuto il nuovo Presidente, sebbene la piazza chieda un cambiamento radicale, specialmente nella politica economica. «La sua caduta era prevedibile» ha dichiarato Fidel Castro, aggiungendo che «Era un alleato dell’impero». La situazione della sicurezza permane completamente a rischio e si fa sempre più probabile uno scontro tra forze dell’ordine e oppositori, con la presenza di migliaia di scatenati sostenitori di Gutiérrez, che rende il già surriscaldato clima, ancora più rovente. ❑ Non ha copertura sanitaria Mi chiamo Angela, sono sposata e ho quattro figli, due di 14 anni, uno di 8 e l’ultima che va alla scuola materna. Fin da piccolo Daniele, il penultimo, è affetto da «spasmi affettivi» e asma bronchiale; è allergico alle polveri e ad altri elementi; abbiamo dovuto acquistare un materasso ed un cuscino speciale e sistemare il suo letto nella parte più alta per farlo respirare meglio. Durante gli attacchi è necessario portarlo in ospedale e, come vedete dai certificati medici che allego, deve prendere molti farmaci; occorrono visite a pagamento presso l’allergologo poiché, nonostante le molte richieste fatte, ci è sempre stato risposto che questo tipo di malattia non ha copertura sanitaria. A queste spese mediche vanno aggiunte quelle scolastiche per la mensa e la scuola materna della piccola. Mio marito ed io lavoriamo il più possibile per far fronte ai bisogni della famiglia, ma i nostri stipendi sono assai modesti... Ringraziamo tanto per aver letto la mia lettera e tutti coloro che mandano a voi le offerte per aituare quanti vivono nell’indigenza e fra mille necessità. B.A. È sempre disponibile, ma... Il nostro lavoro missionario qui in India continua senza tregua. La carità di Cristo ci obbliga, ci spinge e non possiamo fermarci, sia che si tratti di malati, di famiglie povere, di orfani, di studenti, di vecchi. Il missionario è sempre disponibile perché giorno e notte la gente bussa alla sua porta. Chiedo un pic- «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 colo atto di carità per una povera famiglia composta dalla mamma e otto figli dei quali la più grande ha sedici anni, la più piccola quattro. Il padre è morto due anni fa per un cancro allo stomaco lasciando la famiglia nella miseria più nera. Non hanno casa, ora sono alloggiati nella Missione. Cerchiamo di aiutarli per quanto è possibile, ma le loro necessità sono molte: una casetta, gli studi dei figli, un lavoro per la vedova come una piccola bottega per poter guadagnare e comprare riso a sufficienza per sfamare la famiglia ogni giorno. Stendo le mani in loro nome. Pregate perché il Signore ci mandi sacerdoti generosi e zelanti. Quello che possiamo realizzare in questa terra indiana è frutto del sostegno generoso dei benefattori. Dio ripaghi tutti. Don M. “Scombinata” bisogno di essere aiutata per poter riprendere un cammino che finora non è stato tanto sereno e tranquillo. Resto in attesa e ringrazio per tutto il bene che fate. Don V.S. Per non diventare cieco Accludo alla presente i certificati medici di Nicola. Ha 50 anni e da un anno circa non trova più pace. Stava lavorando quando ebbe una forte emmoragia agli occhi. Fu subito soccorso e portato in ospedale e da allora sta attraversando questo calvario di visite, interventi, controlli... Affronta viaggi dal suo paese in Basilicata a Pisa dove è in cura, con disagi comprensibili. Grazie per tutto ciò che i Rocchigiani fanno per coloro che sono in difficoltà e che il Signore possa darvi la forza di continuare la vostra opera di bene E.G. *** Nella mia parrocchia aumentano le situazioni di necessità e questa volta riguarda un padre di 44 anni morto tragicamente in un incidente d’auto il 20 febraio scorso. Conoscete voi di «Fraternità» la storia di questa famiglia «scombinata» così come la definii a suo tempo, ma ora ho potuto capire che era proprio il capofamiglia che non aveva alcuna voglia di lavorare e passava il tempo al bar, fumando, giocando... Ultimamente forse la moglie lo stava «allontanando» per scuoterlo un po’ e fargli assumere la responsabilità per i quattro figli. La famiglia ora ha Le richieste che ci pervengono sono sempre urgenti, penose e certamente rattristeranno i cari lettori nel leggerle. Le affidiamo come sempre al loro cuore e siamo sicuri che anche quest’anno, nella ricorrenza della S. Pasqua, potremo donare un po’di conforto a tanti sofferenti. A tutti il nostro più vivo augurio pasquale. Gesù Risorto conceda ricompense divine a ciascuno e benedizioni. ... Alcuni hanno già ricevuto un aiuto e così scrivono: ... sì, ho ricevuto la vostra lettera e la vostra bontà di 500 euro mi permette di pagare certe scadenze e di vivere più serenamente con i miei figli. Mi auguro che il 2006 sia all’insegna di un lavoro fisso, indispensabile per la mia famiglia. Vi ringraziamo tantissimo con i cari benefattori. A.G. «Non riesco più» ... abbiamo ricevuto la vostra offerta di 700 euro per la missione di Padre Sergio che insieme a confratelli, volontari italiani e persone locali sta svolgendo in Cameroun a favore della popolazione più bisognosa. Ringraziamo i Rocchigiani e «Fraternità» calorosamente anche a nome di coloro che saranno beneficati dal suo gesto di solidarietà. Sapendo che ciò che rende sereni è donare ed amare contiamo sempre nell’impegno dei buoni ... Grazie ancora. Don P.M. «Da offerte libere». ... con la presente desidero ringraziarvi dal profondo del mio cuore per i 300 euro. I referti degli esami continuano a darci speranza. Con l’aiuto di Gesù e con il vostro riusciremo ad andare avanti affrontado questo triste e travagliato momento con forza e speranza. La strada da percorrere è ancora lunga: nei mesi prossimi dovrò sottopormi a numerosi cicli di radioterapia e il centro più vicino dista 150 km. Dovrò viaggiare tutti i giorni della settimana... Mio marito è disoccupato, tranne per qualche sporadica giornata e si fa fatica a vivere ogni mese. La paura e l’angoscia sono tante... fam. P. «Un’altra tempesta». Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 1 APRILE 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede di confronti occasioni fai c richiederle specificando la quantità desiderata a Rocca - cas. post. 94 - 06081 Assisi (Pg) oppure e-mail: [email protected] per presentarla sono disponibili COPIE SAGGIO degli ultimi numeri