Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Guerre finanziarie India: La svolta filoamericana
Dialogo tra scienza e fede: La nostalgia dei figli delle stelle
Culture e religioni raccontate: Acrobazie di identità
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ANNO
NUMERO
7
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
e 2,00
Programmi elettorali: Punti caldi a confronto
Dalle etiche all’ethos condiviso Progetto Veronesi: Il testamento biologico
Il Corano e il Concilio Chiesa: Un Concistoro sobrio
Islam in primo piano
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
1 aprile 2006
ISSN 0391 – 108X
novità
Un nuovo servizio ai lettori.
A grande richiesta
la raccolta in volume degli articoli
più significativi di uno stesso Autore
con particolare riferimento
alle tematiche più dibattute
a livello sociale, etico, politico
e religioso
Carlo Molari
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
pagg. 168 - E 20,00
RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO
La speranza nei tempi della disperazione
Decadenza della fede, relativismo, religione civile
La fede in Dio nella pratica politica
Politica e profezia
Guai a voi!
Secolarizzazione e dialogo interreligioso
La nuova Europa: radici e identità
Le Chiese in difesa dell’ambiente
FEDE E CULTURA
Le tracce di Dio nella cultura umana
Scienza e trascendenza
L’azione di Dio in un contesto evolutivo
Creazionisti e neodarwinisti
Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male
per i lettori
di Rocca
e 15
anziché
e 20
RICHIEDERE A ROCCA
c.p. 94-06081 Assisi
e-mail: [email protected]
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NEL VORTICE DELLA STORIA
La crisi della Chiesa
Come e perché cambiare
Le componenti della conversione
Transizioni traumatiche
Letture divergenti del Concilio
La missione della Chiesa nel mondo attuale
Ritrovare l’essenziale
I laici nella Chiesa
I laici nel mondo
Il primato della coscienza
Funzioni e limiti del Magistero
UOMINI NUOVI
L’esperienza religiosa
Le emozioni nell’esperienza di fede
Cammini di libertà
Spiritualità del gratuito
Leggi umane e fedeltà alla vita
Spiritualità della liberazione
4
6
10
11
13
sommario
Libri
Rocca
14
16
19
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22
25
26
28
1 aprile
2006
7
29
38
41
Ci scrivono i lettori
42
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Valentina Balit
Notizie dalla scienza
44
Vignette
Il meglio della quindicina
47
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Il Corano e il Concilio
49
Maurizio Salvi
India
La svolta filoamericana
50
Aldo Eduardo Carra
Europa
Guerre finanziarie
52
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Il timbro di Dio
54
Filippo Gentiloni
Politica italiana
Islam in primo piano
57
Pietro Greco
Progetto Veronesi
Il testamento biologico
Oliviero Motta
Terre di vetro
Una polizza sul futuro
Giannino Piana
Etica politica economia
Dalle etiche all’ethos
Romolo Menighetti
Parole chiave
Poteri forti
Programmi elettorali
Punti caldi a confronto
Roberta Carlini
Economia
Non sono tutti uguali
Fiorella Farinelli
Questione sociale
Due opposte filosofie
Umberto Allegretti
Istituzioni
Progetti europei e internazionali
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Bello e impossibile
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Sembra scuola
58
58
59
59
60
60
61
62
63
Giuseppe Moscati
Letteratura
Paul Eluard
Un grande sperimentatore dell’inarrivabile
Marco Gallizioli
Culture e religioni raccontate
Acrobazie d’identità
Giancarlo Zizola
Chiesa
Un concistoro sobrio
Adriana Zarri
Controcorrente
San Musone
Carlo Molari
Dialogo tra scienza e fede
La nostalgia dei figli delle stelle
Rosanna Virgili
La voce del dissenso
I trucchi del potere
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Sorelle separate
Giacomo Gambetti
Cinema
Una storia dopo l’altra
Saw 2 – La soluzione dell’enigma
Roberto Carusi
Teatro
Il dialetto interattivo
Renzo Salvi
RF&TV
Montalbano
Mariano Apa
Arte
Brescia
Augusto Cavadi
Mostre
Rouault a Palermo
Michele De Luca
Fotografia
Mariano Fortuny
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Siti Internet
Energie rinnovabili
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Ecuador
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 7 – 1 aprile 2006
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Editore: Pro Civitate Christiana
ROCCA 1 APRILE 2006
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non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 14/03/2006 e spedito da
Città di Castello il 17/03/2006
4
Religione
cattolica a scuola
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Ho letto la lettera di Clara
Pericoli su Rocca n. 5, sono
un insegnante di religione
cattolica della scuola secondaria di I grado e vorrei ribadire, proprio in un momento come questo che vede
contrapposizioni di religioni e scontri violenti in nome
di Dio, l’utilità e la necessità
dell’insegnamento della Religione Cattolica (Irc) nella
scuola italiana vista la valenza sociale che rivesta questa
religione in Italia.
Vorrei ricordare che con
l’accordo di revisione del
concordato del 1984 (L. 121/
85) l’Irc non è più una disciplina catechetica ma un insegnamento di tipo culturale che deve servire a far acquisire una conoscenza critica di quello che è e di ciò
che ha rappresentato la religione cattolica in Italia e
nel mondo. L’analfabetismo
religioso, che esiste ed è
molto alto specie tra i giovani, non può essere imputato alla disciplina che insegno, perché, almeno nell’intento della legge, è finalizzata ad acquisire conoscenze che permettano di valutare culturalmente il fenomeno religioso cristiano e
saperlo poi porre a confronto con gli altri fenomeni religiosi che proprio grazie
all’Irc vengono studiati dai
ragazzi (nei programmi del
1987 e negli Osa del 2004 si
insiste nello studio delle religioni non cristiane, in particolare dell’Ebraismo e dell’Islamismo).
L’incontro tra culture e religioni diverse, cosa importantissima per la crescita
della nostra società, avviene non solo conoscendo l’Altro, ma sapendo proporre in
modo equilibrato l’identità
storico-religioso-culturale
propria: è questo che si
aspettano legittimamente
quanti ci vengono incontro.
Dimenticare chi siamo o siamo stati, non solo è un pericolo per noi, ma è un’ingiustizia che facciamo a
quanti incontriamo, i quali
sono giustamente desiderosi di conoscere qualcosa di
noi e del «nuovo» paese
dove vengono ad abitare.
Credo che la soluzione non
sia quella di sostituire Religione Cattolica con Storia
delle Religioni, ma magari
rafforzare l’importanza dell’Irc ed affiancarle una Storia delle Religioni che porti
a consolidare la conoscenza delle fenomelogie religiose esistenti. Il rischio, altrimenti, potrebbe essere quello di gettare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino, cosa questa molto sperimentata in Italia in vari
momenti storici.
Leonardo Magnani
Sansepolcro (Ar)
Bonus nati con
la legge
finanziaria
Sono Presidente della 3a Circoscrizione di Verona. La
scorsa settimana si è presentato un cittadino «Ho ricevuto una lettera in cui il Presidente del Consiglio assegna
1.000 euro a mia figlia appena nata in Italia, e non posso
riscuoterli, perché io non
sono cittadino italiano: ma i
soldi a chi li dà? A mia figlia
o a me? Non so, ma Lei cosa
vede negli occhi di Kizzy?».
Mi permetto di tradurre in
parole le sensazioni che ho
provato nel vedere gli occhi
di una bambina italiana
(anche se un po’ «diversa»
di pelle!). Sono la risposta
alla lettera inviatale.
«Caro Presidente, mi ha
scritto che devo sentirmi
fortunata, perché da Lei ho
ricevuto la prima lettera,
così anche Lei, penso, che
si possa ritenere fortunato
nel ricevere una lettera da
una cittadina italiana con
pochi giorni di vita.
Ho ascoltato per 9 mesi i silenzi del cuore di mia madre, che aveva pochissime
certezze e stranamente Lei,
caro Presidente, mi annuncia subito una grande certezza. Sono stata accolta nel
paese Italia e Lei me ne dà
avviso. Grazie.
Sono stata cullata all’interno
della pancia di mia madre ma
anche da una carretta che ha
affrontato le onde di un mare
che separava la speranza in
una vita dignitosa, con una
vita che le stava chiudendo il
sorriso. Mi ritornano in mente le sue paure quando nella
barca si doveva spegnere il
motore e in silenzio sperare
di non essere visti.
Che strano, non ho fatto
quasi in tempo ad aprire i
miei occhi che Lei, caro Presidente, già mi conosceva e
mi ha visto per primo.
Ho vissuto 9 mesi in cui i
silenzi di mia madre erano
carichi di speranze. Ho assaporato la sua gioia nell’essere riuscita ad entrare nel
paese Italia. Mia madre mi
ha trasmesso la speranza,
ma anche la paura di essere
rimandata indietro, magari
per mancanza di una firma
su qualche documento.
Che strano, per 9 mesi mia
madre sperava di avere tutte le firme giuste, io, non
faccio in tempo a dire il mio
nome, che già ho la Sua di
firma, caro Presidente.
In quei silenzi ho potuto
ascoltare le mille domande
che mia madre si faceva sul
senso della vita e il suo accarezzarsi la pancia, la sua gioia nel sentire che mi muovevo erano già delle risposte.
In quei nove mesi sono stata fortunata e ne rendo grazie al mistero della vita.
Mio padre non ha avuto il
coraggio di dichiarare il falso, ha solo detto che l’italiana sono io, lui è ancora uno
straniero anche se soffre e
lavora in questa terra.
Così la cifra da Lei promessa a me (la lettera porta il
mio nome, Kizzy), non peserà sul bilancio dello Stato
da Lei amministrato.
Le chiedo solo una piccola
possibilità. A 18 anni, da cittadina italiana, vorrei ricevere la somma da Lei promessa. Le assicuro che la spenderò solo per poter rifare il
viaggio all’incontrario che ha
fatto mia madre. A quell’età
mi troverò nelle condizioni di
tutti quegli emigrati italiani
che ora hanno una cittadinanza diversa, ma nel cuore
hanno, sempre, un piccolo
spazio per la patria d’origine.
Nella parte finale della sua
lettera mi ha detto che avrò
un avvenire felice e pieno di
gioia in quanto la terra Italia mi saprà accogliere e
dare tante possibilità.
Mi permetto di sperare che
Lei capisca che molte volte le
parole del cuore non devono
essere scritte ma vissute. Se
effettivamente pensa quello
che ha scritto, le auguro di
trovare il tempo di testimoniare con la vita quanto promesso nella lettera. Con affetto, la piccola Kizzy».
Giorgio Di Filippo
Verona
Un bruttissimo
appello
Un appello settario e totalitario.
Ho appena letto l’«appello
all’Occidente» di Marcello
Pera. Molto brutto. In esso
si mescolano riduzioni storiche, manovre politiche e
contraddizioni culturali di
vario tipo (sul concetto di
individuo, di persona, di civiltà, di cristianesimo). A
mio parere, suoi elementi
centrali sono: una visione
compatta dell’Occidente
sempre univoco e fedele ai
suoi «costumi millenari»;
una sindrome da assedio
provocata da nemici interni ed esterni in agguato;
l’idea della propria superiorità culturale che degrada a
crisi autodistruttiva, a una
bestemmia neoconservatrice, la rilevazione antropologica e laica dell’«uguale valore di tutte le culture»; una
visione solo militarizzata
della sicurezza.
È il documento della paura.
Il suo linguaggio più che tradizionalista (lo firmano anche esponenti del neofascismo cattolico) è totalitario.
Tra le molte cose, mi indigna una citazione abusiva e
strumentale di Benedetto
XVI. In realtà, in molti discorsi del papa incontriamo
un respiro universale che i
clericali di qualunque orientamento non vogliono e non
possono conoscere. Tra i
tanti, vorrei citarne tre: 1.
l’enciclica «Deus caritas est»
che contiene, come scrive il
papa nell’introduzione, «un
messaggio di grande attualità» proprio oggi «in un
mondo in cui al nome di Dio
viene a volte collegata la
vendetta o perfino il dovere
dell’odio e della violenza»;
2. l’intervento del 9 gennaio
2006 al Corpo diplomatico
della S. Sede dove si citano
i «gravi errori» commessi
dai cristiani favorevoli a
«guerre di religione» (rinnovando, così, la «purificazione della memoria» di Giovanni Paolo II) e si riprende
il tema della «menzogna selettiva e tendenziosa» che
produce continue violenze
(riflessione già presente nel
Messaggio per la Giornata
mondiale della pace del 1
gennaio);
3. il discorso a Colonia dell’agosto 2005 agli «amici
musulmani»: «quante pagine di storia registrano le
battaglie e le guerre affrontate invocando, da una parte e dall’altra, il nome di Dio,
quasi che combattere il nemico e uccidere l’avversario
potesse essere cosa a Lui
gradita. Il ricordo di questi
tristi eventi dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano
state commesse nel nome
della religione. Le lezioni del
passato devono servirci a
evitare di ripetere gli stessi
errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro[...]. Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo far fronte alle numerose sfide che il nostro tempo
ci propone. Non c’è spazio
per l’apatia e il disimpegno
e ancor meno per la parzialità e il settarismo. Non possiamo cedere alla paura né
al pessimismo. Dobbiamo
piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza».
Ecco, l’appello di Pera mi
pare proprio rassegnato,
impaurito, parziale e settario. Mi dispiace molto che
l’abbia firmato il ministro
della Pubblica Istruzione. Io
sono un insegnante. Vorrei
dire alla ministro che non
posso proprio insegnare
quanto ha sottoscritto. Ne
va della mia credibilità professionale oltre che della
mia fede cristiana.
ROCCA 1 APRILE 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
Sergio Paronetto
Verona
5
6
ATTUALITÀ
Corfù
la sfida
delle
migrazioni
Usa
la gioventù
che sconfigge
la violenza
Copenaghen
difficile
dialogo dopo
le vignette
Cultura
l’intelligenza
e
la fantasia
Roma
il rabbino
in visita
alla moschea
I Presidenti delle conferenze
episcopali del sud-est Europa
(Albania, Bulgaria, Bosnia Erzegovina, Serbia e Montenegro, Macedonia, Romania) si
sono riuniti il 3-5 marzo a Corfù insieme ai vescovi cattolici
della Grecia per approfondire
la comune responsabilità e la
solidarietà in questa parte dell’Europa. Tema centrale: «le
migrazioni», fenomeno che
tocca radicalmente tutti i paesi del sud-est europeo. Se gli
anni del secolo scorso hanno
visto cadere muri esterni, segni visibili di irriducibili incomprensioni, molti altri muri
hanno continuato a essere
eretti e all’interno di una situazione conflittuale, in un clima
di difesa e di paura, di ansia e
di rifiuto, di illegalità e chiusura, di spaesamento di fronte
a diversi sistemi di conoscenza e di valori. L’elemento religioso concorre tuttavia a determinare legami di aggregazione e di appartenenza. Per questo, i vescovi cattolici, ripercorrendo la dottrina sociale della
chiesa con i suoi quattro cardini fondamentali (dignità e libertà della persona umana,
bene comune e sussidiarietà)
e i pastori ortodossi presenti
auspicando il rinnovamento
interiore, intendono trasformare il «problema» migrazione in «chance». S’inaugura,
dicono, una nuova stagione
dell’umanità, e ciò spinge a una
nuova scoperta della cattolicità. In Grecia, in 30 anni i cattolici sono passati da 50.000
fedeli a circa 350.000. Sono
arrivati migliaia di filippini,
polacchi, albanesi, iracheni. I
cattolici di origine greca sono
ora una minoranza nella minoranza cattolica del paese.
Qui, come altrove, le parole
chiave sono: dialogo, conoscenza, riconoscimento, ecumenismo, incontri. Un incontro di tutte le chiese cristiane è
previsto a Sibiu (Romania) nel
settembre del 2007.
«Non siamo riusciti a levare
una voce profetica in modo
abbastanza forte e persistente
da dissuadere le nostre autorità dalla via della guerra
preventiva…I fiumi, i laghi, le
foreste e le terre umide che ci
sostengono, anche l’aria che
respiriamo continua a essere
violentata, e l’allarme del mondo viene ignorato quando permettiamo che la creazione di
Dio volga alla distruzione. Eppure il nostro paese si rifiuta
di riconoscere la sua correità e
respinge gli accordi multilaterali finalizzati ad invertire queste disastrose tendenze. Noi
consumiamo senza integrare;
ci impadroniano di risorse limitate come fossero proprietà
privata. Confessiamo che non
siamo riusciti a levare una voce
profetica abbastanza forte e
persistente da richiamare la nostra nazione alla responsabilità globale nella creazione, che
noi stessi siamo complici di
una cultura di consumo che
impoverisce la terra».
È questo uno dei brani della lettera che gli statunitensi del
Consiglio mondiale delle chiese hanno inviato alla IX Assemblea ecumenica di Porto Alegre
lo scorso febbraio. Scrivono
ancora sull’ingiustizia dell’economia globale: «La nostra nazione gode di un’immensa ricchezza, eppure ci attacchiamo
a ciò che possediamo invece di
condividerlo. Non siamo riusciti a incarnare il patto della vita
al quale ci ha chiamati il nostro Dio; l’uragano Katrina ha
rivelato al mondo quelli che,
nella nostra nazione, sono stati lasciati indietro dalla rottura
del nostro contratto sociale.
Come nazione ci siamo rifiutati di affrontare il razzismo presente nelle nostre comunità…
Di fronte alla povertà della terra, la nostra ricchezza ci condanna... Sorelle e fratelli della
comunità ecumenica, da un
luogo sedotto dalle lusinghe
dell’impero, veniamo da voi in
penitenza…».
Il 10 marzo l’Istituto danese di
studi internazionali ha organizzato a Copenaghen un incontro sul tema: «Il dialogo culturale e religioso», esattamente
un mese e mezzo dopo l’avvampare delle polemiche per le caricature di Maometto. I relatori, danesi e mediorientali, erano stati invitati per un dialogo
di riconciliazione. Ma, com’era
forse prevedibile, le buone intenzioni non hanno tenuto conto della posta in gioco identitaria del mondo musulmano, del
particolarissimo contesto storico, socio-politico e culturale
nel quale le caricature erano venute a collocarsi. Già in apertura dei lavori lo sceicco Tareq
Al-Suweidan esordiva: «Vogliamo le scuse ufficiali per tutti i
musulmani, e soprattutto i musulmani danesi, che il vostro governo non ha trattato bene. Diversamente, il boicottaggio dei
prodotti danesi in certi paesi
arabi continuerà». Intransigente, il primo ministro danese Rasmussen criticava lo stesso dialogo, ribadendo il principio della libertà di espressione. Il resto della riunione si è svolta più
agevolmente; i giovani di entrambe le parti si sono fermati
altri due giorni a discutere.
Sono iniziati il 13 marzo e proseguono sino al 10 aprile a Milano e a Parigi, dialoghi e letture, le «iocundissimae disputationes», organizzate dall’Università Vita-Salute San
Raffaele con la Fondazione
Corriere della Sera e l’Istituto
italiano di cultura a Parigi. I
temi sul tappeto sono i nodi
cruciali dell’esistenza, le questioni di sempre: chi siamo,
che senso ha la vita, la scienza
e i suoi limiti, la guerra e la
pace, l’essere uomini e donne… Le sedi sono il Teatro Studio a Milano e il Théatre de
Gallifet di Parigi. Tra le prime
personalità del mondo accademico coinvolte si notano Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Alain Finkielkraut e
Tzvetan Todorov, impegnati
nella doppia lezione a Milano
e a Parigi. Galli della Loggia,
preside della Facoltà di Filosofia del San Raffaele spera di
fare di queste disputationes
motori di pensiero. Anche don
Verzé, rettore dell’Università
punta a provocare una ricerca
«perché l’uomo arrivi a capire
che vale moltissimo, riscoprendo come proprio modello Dio».
Gesto dalla forte carica simbolica la visita del rabbino capo
di Roma Riccardo Di Segni alla
moschea di Forte Ardenne, il 13
marzo mattina. Ebrei e musulmani si sono incontrati e «fraternamente» riconosciuti.
La loro biblica discendenza è,
infatti, dai due figli di Abramo,
Isacco e Ismaele, non sempre in
buoni rapporti. Ma, «malgrado
tutto, ha detto di Segni in un’intervista della vigilia della visita,
siamo essenzialmente dei fratelli, dunque con un rapporto privilegiato». E ha aggiunto: «Dobbiamo lavorare insieme a tutti
coloro che dicono no all’islamofobia e no all’antisemitismo. E
vorremmo anche essere utili alla
comunità musulmana sui temi
quotidiani. Noi ebrei viviamo da
secoli esperienze consolidate di
integrazione». In queste ultime
parole possiamo anche leggere
molte pagine di storia e di dolore. Ma abbandonandoci alla
speranza, ci portiamo all’auditorium Santa Cecilia dove due
ragazzi, un ebreo israeliano e un
musulmano palestinese, tengono un concerto di pianoforte:
note che veicolano armonia,
profondità che invocano la
pace.
Parigi
agnostici
a
Notre-Dame
La cattedrale di Notre-Dame
ospita in quaresima ogni domenica un famoso predicatore, e questo da oltre un secolo
(si ricorderà il famoso Henri
Lacordaire al tempo del cattolicesimo liberale). Quest’anno l’arcivescovo Vingt-Trois,
continuando nello stile del
suo predecessore, ha deciso
d’innovare offrendo il pulpito, oltre ai teologi, anche a
non cristiani, a personalità
agnostiche o non credenti. Ha
iniziato il poeta ebreo Claude
Vigée sul tema della speranza, seguito da Axel Kahn, genetista, che con Jean Vanier
ha affrontato il tema dell’accoglienza del «diverso», e dalla psicanalista Julia Kristeva
che con la teologa Anne-Marie Pelletier ha parlato della
sofferenza «un soggetto – hanno ammesso – che non è possibile affrontare se non con un
infinito rispetto». Non sono
mancate le critiche di chi
avrebbe voluto un insegnamento frontale, «sicuro» . Ma
il portavoce dell’arcivescovo si
è riferito all’intuizione originaria che intendeva «fare di
Notre-Dame il luogo di un incontro, a livello intellettuale,
tra la Chiesa e la società secolare».
Rotterdam
vince la «nuova sinistra»
Rotterdam è una città stupenda e architettonicamente modernissima; in essa gli immigrati rappresentano il 45% dei cittadini. Alle elezioni amministrative del 7 marzo hanno votato
anche loro e qui, come in altre città olandesi, hanno vinto i
socialisti, mentre sono usciti sconfitti i conservatori tradizionali, la destra xenofoba e quella ultraliberista.
Si può leggere anche politicamente questo voto? Certo, i risultati rovesciano lo schema governativo con in testa i cristianodemocratici e la destra liberale, mentre emerge il successo per
com’è stato gestito dalla sinistra il conflitto con gli immigrati,
che sono tanti. Dal voto risulta chiaro che la loro segregazione
in alcuni quartieri e in alcune scuole non paga, e nemmeno
giova alla sicurezza una politica solo repressiva.
Erano chiamati alle urne 12 milioni di olandesi e 2,2 milioni
di immigrati con le carte in regola. La campagna elettorale era
stata segnata dai conflitti nelle periferie, rivelando una grave
crisi esistenziale sia tra gli immigrati che tra i nativi.
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
7
8
ATTUALITÀ
Economia
la povertà
e i suoi rapporti
con la guerra
Cecenia
questione
da non mettere
da parte
Il dossier «Economie» del
quotidiano Le Monde del 7
marzo dedica un ampio servizio al rapporto che intercorre
tra guerra e povertà, partendo dall’80% dei paesi che hanno conosciuto un conflitto
armato nel corso degli ultimi
15 anni e che sono i meno sviluppati del pianeta.
Il rapporto si rivela strettissimo. Le Monde cita uno studio pubblicato nel 2003 dalla
Banca Mondiale (Briser la
trappe à conflit: guerre civile et
politique de développement)
dal quale si rileva che quando
in un paese la crescita è debole e la dipendenza riguardo
alle materie prime è forte,
quando il reddito pro-capite è
limitato e ripartito in maniera ineguale, proprio allora
sale il rischio di guerra civile.
«La spiegazione più rilevante
e plausibile dei conflitti è il
fallimento della politica nei
paesi in via di sviluppo», sostengono gli autori dello studio.
Con tutte le riserve del caso,
con la necessaria contestualizzazione e la indispensabile ricerca delle concause, non si
può non tener conto della conclusione a cui giunge di una
comparazione significativa:
tra i 52 paesi che avevano conosciuto conflitti tra il 1960 e
il 1999 e l’insieme degli altri
paesi vissuti in pace, raddoppiare il reddito degli abitanti
sarebbe servito a dividere in
due il rischio della guerra.
E’ una trappola, quella dei
conflitti. Una volta scatenati
è difficile spegnerli e, quando
arriva la pace – di solito dopo
sette anni circa – la situazione resta estremamente fragile. Solo guardando la situazione dal punto di vista economico, dopo ogni guerra il reddito pro capite scende del
15%, le spese militari pesano
sul bilancio, mentre si registra
la fuga di capitali per il 20%.
Così, la guerra può ritornare.
«Sarebbe davvero una tragedia se la questione cecena venisse messa da parte durante il vertice del G8 (in programma a San Pietroburgo
nel prossimo giugno). La
questione cecena e questa
guerra orribile e interminabile devono diventare oggetto di discussione aperta per
essere definitivamente affrontate in maniera pacifica». Questo si legge nell’appello di intellettuali e politici, tra cui spiccano i nomi dei
Nobel Desmond Tutu e Frederik de Klerk, del ceco
Vaclav Havel e del filosofo
André Glucksmann. Vi si legge anche: «In Cecenia c’è in
gioco il nostro senso più elementare di umanità. Può il
mondo accettare lo stupro di
ragazze sequestrate dalle forze occupanti o dalle milizie?
Dobbiano tollerare l’infanticidio, o il rapimento di ragazzini torturati, mutilati e
rivenduti poi alle loro famiglie, vivi o morti? Non si può
più dire ‘noi non ne sapevamo nulla’.
In Cecenia è a rischio il principio fondamentale che sta
alla base della democrazia e
dello Stato civile: il diritto
alla vita, compresa la protezione degli innocenti, delle
vedove e degli orfani. Gli accordi internazionali e la carta delle Nazioni Unite vanno
rispettati in Cecenia come in
qualsiasi altro Stato. Questa
situazione mette a rischio la
stessa lotta contro il terrorismo.
Ormai tutti hanno capito che
l’esercito russo si comporta
come un gruppo di pompieri piromani, alimentando i
focolai del terrorismo…La
guerra cecena funge sia da
maschera che da giustificazione per il ristabilimento
del potere centrale in Russia
e impedisce alle istituzioni e
alla autorità di combattere
e limitare il Cremino».
Monrovia
fine
dell’embargo
alla Liberia?
La presidente della Liberia
Ellen Johnson Sirleaf (nella
foto) è stata accolta l’8 marzo
all’Eliseo da Jacques Chirac.
Lo scopo della visita a Parigi
(oltre alla partecipazione di
un Colloquio all’Unesco come
prima donna Presidente di
una repubblica, ormai simbolo dell’emergenza femminile
nel continente nero) è stata la
richiesta di ottenere l’appoggio della Francia perché siano tolte le sanzioni economiche al suo paese. La Liberia,
con le elezioni dello scorso
anno sembra avviata ormai al
suo riscatto ma, dopo 14 anni
di guerra civile, è ormai tutta
da ricostruire. Perfino nella
capitale, Monrovia, mancano
tuttora la luce elettrica e l’acqua, per non parlare di altre
infrastrutture. Ma è anche da
ricostituire la speranza nell’animo della popolazione più
giovane, soffocata dal precoce scontro con la violenza (Il
15% dei combattenti costretti
a imbracciare fucili e maneggiare bombe aveva meno di 14
anni). La signora Sirleaf ha
avuto la promessa che la Francia riaprirà la sua ambasciata
a Monrovia.
notizie
seminari
&
convegni
Vaticano. L’11 marzo, giornata europea degli universitari,
il Papa ha incontrato oltre
10.000 studenti universitari
nell’aula Paolo VI. Alla preghiera si sono collegati via satellite le città di Madrid, Salamanca, Friburgo, Monaco di
Baviera, Dublino, Sofia, Abidjan, Nairobi, Owelli (Nigeria)
e in televisione e via radio numerose altre università.
Podgorica (Montenegro). È
stato fissato per il 21 maggio
il referendum che dovrà decidere dell’assetto del paese: se
l’indipendenza oppure mantenere l’unione con la Serbia.
Mentre l’Unione europea si
mantiene riservata in merito
all’indipendenza, temendo un
ulteriore frazionamento nell’area balcanica, la Serbia non
nasconde la propria opposizione al progetto di indipendenza.
Otranto (Le). Lo scrittore
israeliano David Grossman e
mons.Vincenzo Paglia, vescovo, sono i vincitori della seconda edizione del Premio
Grinzane –Terra d’Otranto,
istituito dalla Regione Puglia,
Assessorato al Mediterraneo,
Grinzane Cavour e Città di
Otranto. Questo premio è un
riconoscimento internazionale per il dialogo, la tolleranza,
la solidarietà e l’integrazione
ed è stato consegnato il 18
marzo, nel Castello aragonese della città.
2 aprile. Bologna. Ritiro spirituale condotto da p. Angelo
Cavagna in preparazione alla
Pasqua per laici dehoniani,
Gavci e Cefa sul tema. «Morte-Resurrezione di Cristo».
Sede: Villaggio del Fanciullo,
via Scipione dal Ferro, 4, Bologna.
3 aprile. Bitonto (Ba). Incontro ecumenico di preghiera
nella Chiesa di San Leucio con
interventi di Nicola Pantaleo
presidente del Consiglio della
Chiesa battista di Bari e del
parroco p.Pasquale de Ruvo.
Ore 19.30 via Tauro 37.
3 aprile.Vercelli. Per il ciclo
«L’esperienza del credere oggi»
incontro con Alberto Melloni
e Cesare Massa sul tema: «Che
cosa chiede il mondo oggi alla
Chiesa?». Ore 21, Seminario p.
S. Eusebio 10, Vercelli.
4 aprile. Genova. Incontro
con il teologo Luca Mazzinghi
sul tema: «In principio era la
Parola» (ore 18, presso la sede
«Gruppo Piccapietra», p. Santa Marta 2). Informazioni: 010
2180 74 /010 2161 49.
4 aprile. Parigi. Conferenza
su Martin Buber e Franz Rosenzweig con Dominique Bourel e Stephane Moses. Ore 19,
Museo di Arte e storia del Giudaismo, 71 rue du Temple
75003 Paris, tel. 0153 01 8648
(Lingua francese).
5 aprile. Firenze. Al Palazzo
Vecchio (h.17,30) Serge Latouche tratta il tema: «Globalizzazione e nuovo etnocentrismo»
per il ciclo «Alterità e nuova
cittadinanza» organizzato dalla Fondazione Balducci, via dei
Roccettini 9, 50016 San Domenico di Fiesole, tel. 055 599240.
5 aprile. Roma. Organizzato
dal Centro interconfessionale
per la pace, incontro sul tema:
«Esperienze di un musulmano
in Europa e di un Cristiano
nell’Islam». Parlano Khalid
Chaouki e Michel Thomas. Informazioni: Cipax, tel e fax 06
572 87347.
10 aprile. Brescia. Per gli incontri di san Cristo, Carlo Molari parlerà sul tema: «Antisemitismo senza memoria. Insegnare la Shoà nelle società
multiculturali». Missionari
Saveriani, Via Piamarta, 9, Brescia. Informazioni: 030 377
2780.
12-16 aprile. Decollatura (Cz).
Al monastero san Benedetto Labre percorso biblico-liturgico sul
tema delle Lamentazioni e della Passione secondo san Giovanni. Informazioni: tel. 0968 610
21; www.eremiti.org.
12-18 aprile. Andalusia. Settimana Santa a Siviglia, Cordoba, Granata, Ronda, Malaga, in
partenza da Roma il 12 aprile.
Partecipazione alle caratteristiche manifestazioni di religiosità popolare a Siviglia, visita
alle principali testimonianze
della civiltà ispano-musulmana. Informazioni: Cosmoviaggi, Cittadella cristiana, 06081
Assisi, tel. 075813231.
19-21 aprile. Marango di Caorle (Ve). 2° Convegno sul monachesimo con incontro e
scambio tra comunità monastiche nuove e tradizionali. Relazioni di sr. Patrizia Bagni di
Contra, don Mario Torcivia e
il vescovo Giancarlo Bregantini. Informazioni: 042 889 077,
fax 0421 881 42, e-mail:
[email protected].
22-25 aprile. Camaldoli (Ar).
Convegno sul tema: «Quale intelligenza per un mondo complesso ed ecologico?». Relazioni di Aldo Natale Terrin, Giorgio Bonaccorso, Elisabeth Ferrero, Roberto Tagliaferro. Informazioni: Foresteria Mona-
stero, 52010 Camaldoli (Ar),
tel. 0575 556006, e-mail:
[email protected].
21 maggio. Polignano a
Mare (Ba). Giornata di spiritualità presso l’Abbazia san
Vito per Volontari, lettori di
Rocca, amici pugliesi della
Cittadella di Assisi. Liturgia
comunitaria e intervento di
Giovanni Grossi, Volontario
della Pro civitate christiana
dal titolo «Slegate l’asinello»
(Lc 19,29-40). Informazioni:
De Giosa tel. 347 5257 041 oppure: Cittadella Ospitalità tel.
075 813231, Assisi.
25-28 maggio. Piacenza. Inizio del Corso di specializzazione «So-stare nel conflitto» organizzato dal Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti, in 7 moduli distribuiti in 20 giornate per un
totale di 140 ore di aula. Intende focalizzare un’area professionale di aiuto nella gestione
dei conflitti. Informazioni: email [email protected].
1-3 giugno. Magnano (Bi).
Presso il Monastero di Bose
IV Convegno liturgico internazionale «Lo spazio liturgico e il suo orientamento».
Prosegue la riflessione sul
rapporto liturgia-architettura.
Relazioni di Enzo Bianchi,
Stefano Russo, Frédéric Debusty, Walter Zahner, Johannes Kramer, Franco Magnani,
Massimiliano Valdinoci, Marc
Augé, Camille Focant, Patrick Prétot, Vincenzo Gatti, Richard Giles, Martin Wallraff,
Albert Gerhards, Robert
F.Taft, Paul De Clerck. Informazioni: Monastero di Bose,
Segreteria organizzativa convegno liturgico 13887 Magnano (Bi) tel. 015 679 185, fax
015 679 294; [email protected].
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
ATTUALITÀ
Valentina
Balit
10
Una nuova classe di stelle di neutroni, con
caratteristiche mai osservate finora, è stata
scoperta da un team internazionale di astrofisici tra cui scienziati della Università di
Cagliari e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. La notizia è stata pubblicata sulla rivista Nature. La nuova classe di stelle (denominate RRAT Rotating RAdio Transient), scoperte grazie al radiotelescopio australiano
Parkes, sembrerebbe essere la più abbondante fra le diverse tipologie di stelle di neutroni conosciute. Nelle stelle di neutroni una
quantità di materia paragonabile a quella
del Sole è contenuta in una sfera di appena
qualche decina di chilometri di diametro,
che ruota rapidissimamente (da circa un
giro al secondo fino a oltre 700 giri al secondo) e che possiede un campo magnetico
elevatissimo (fino a 10.000 miliardi di volte
quello terrestre). A differenza delle radio
pulsar, un altro tipo di stelle di neutroni il
cui segnale è percepibile a ogni rotazione
della stella, quindi in modo regolare, i nuovi oggetti celesti identificati emettono un
singolo lampo di onde radio, intensissimo e
breve, e poi rimangono silenti per un tempo lunghissimo. Secondo alcuni scienziati
questa nuova classe di stelle potrebbe anche rappresentare l’anello evolutivo di congiunzione, finora mancante, fra le pulsar e
altre famiglie di stelle di neutroni scoperte
negli scorsi decenni. Se l’ipotesi sarà confermata, la scoperta si annuncia secondo gli
esperti uno degli argomenti più interessanti dell’astrofisica degli ultimi anni.
della quindicina
Un gruppo di ricercatori dell’European
Molecular Biology Laboratory di Heidelberg
ha sviluppato un metodo computazionale
che permette di ricostruire le parentele evolutive tra tutti gli esseri viventi con una precisione finora mai raggiunta. Lo studio è
stato pubblicato sull’ultimo numero della
rivista Science.
Il primo «albero della vita» fu composto
verso la fine dell’Ottocento dallo scienziato Ernst Haeckel. Egli ricostruì in questa forma le linee evolutive che uniscono
tutte le piante e gli animali del creato a
partire da un solo antenato comune. Da
allora gli scienziati hanno continuato ad
ampliare e modificare la genealogia del
vivente con il supporto dei dati provenienti dalla biologia molecolare, senza tuttavia riuscire ancora a chiarire alcune relazioni evolutive tra le specie. Lo studio
dei ricercatori tedeschi fornisce interessanti indicazioni in particolare sull’origine dei batteri, alle radici dell’albero, e
sull’unico antenato comune. «Il sequenziamento di interi genomi reso oggi possibile dalla scienza ci offre una rappresentazione diretta dell’evoluzione» spiega Peer Bork, coordinatore del progetto,
«per molto tempo tuttavia la sovrabbondanza di dati ha reso difficile selezionare
le informazioni necessarie per tracciare
una mappa ad alta risoluzione dell’evoluzione. Il nostro lavoro mostra ora come
questa sfida possa essere affrontata utilizzando le differenti metodologie del calcolo automatico».
Bork e collaboratori sono riusciti ad identificare in 191 organismi, dal batterio al
topo fino all’Homo sapiens (quelli di cui è
disponibile ad oggi il genoma sequenziato), 31 geni chiaramente imparentati. «Anche utilizzando questi geni però – fa notare la ricercatrice italiana Francesca Ciccarelli, che ha lavorato nel gruppo – si possono ottenere risposte sbagliate. Gli organismi infatti ereditano la maggior parte
dei geni dai genitori, ma nel corso dell’evoluzione alcuni geni provengono invece da
organismi vicini, attraverso un meccanismo di trasferimento genico orizzontale.
E questo tipo di geni non ci dice nulla sui
nostri antenati. Il problema della nostra
ricerca era appunto identificare questi
geni ed escluderli dall’analisi». Così facendo l’équipe è riuscita a ridurre «il rumore
di fondo» nelle informazioni disponibili
ed evidenziare dati nuovi, in particolare
sui primi stadi e i primi organismi dell’evoluzione, i batteri. L’ipotesi dei ricercatori
è che alla radice dell’albero si trovi una
certa classe di batteri termofili, e per questo è probabile che la vita si sia sviluppata
inizialmente in un ambiente a temperatura elevata.
il meglio
Individuato un nuovo tipo di stelle
vignette
Le radici dell’albero della vita
da IL CORRIERE DELLA SERA, 1 marzo
da IL CORRIERE DELLA SERA, 3 marzo
Le radici profonde dell’altruismo
Non solo gli esseri umani possono essere altruisti. Anche se in forma meno evoluta, le
scimmie sembrano conoscere come aiutare
gli altri senza chiedere nulla in cambio. È
quanto tendono a dimostrare due ricerche
condotte in Germania, pubblicate su Science, che hanno esaminato la capacità di aiutare il prossimo in un gruppo di bambini di
18 mesi e in alcuni scimpanzé. I due gruppi
sono stati messi alla prova mentre un adulto svolgeva dei compiti ordinari, per esempio sistemare dei libri. Gli scimpanzé, contrariamente a quanto previsto (questo tipo
di scimmie di solito non dimostra una grande attitudine alla cooperazione, a meno di
una ricompensa), si sono dimostrati pronti
ad aiutare l’adulto, per esempio raccogliendo un pennarello caduto a terra. L’atteggiamento dei bambini si è dimostrato ancora
più evoluto: i piccoli sono disposti non solo
a raccogliere l’oggetto caduto a terra, ma
sanno anticipare i bisogni dell’adulto e dimostrano di volerlo aiutare. Data l’età dei
bambini, secondo i ricercatori ciò indicherebbe una predisposizione all’altruismo indipendente dai condizionamenti sociali.
da L’UNITÀ, 3 marzo
da L’UNITÀ, 6 marzo
da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 marzo
da IL CORRIERE DELLA SERA, 6 marzo
da L’UNITÀ, 5 marzo
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
notizie
dalla
scienza
ATTUALITÀ
da IL CORRIERE DELLA SERA, 13 marzo
11
giornate di spiritualità
13-17 aprile
il Corano e il Concilio
PASQUA IN CITTADELLA
conversazioni sul Mistero pasquale, fondamento della fede cristiana, di mons. Luigi BETTAZZI; liturgie del Triduo; tradizionale processione
cittadina del Cristo morto
28° seminario
LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA
28 aprile - 1° maggio
DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA
il maschile e il femminile alla prova, oggi
per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali
articolazione: tavole rotonde, relazioni, laboratori, gruppi di approfondimento, spazi di preghiera, testimonianze, serate artistiche
relatori: Luigi BOVO, psicoanalista; Giancarlo BRUNI, biblista, di Bose; Francesco COMINA, editorialista de ‘L’Adige’; Rosella DE LEONIBUS,
psicoterapeuta; Cornelia DELL’EVA, giornalista; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra
4° Convegno Terza Età
14-17 maggio
PADRI E FIGLI... NEL FLUIRE DELLE GENERAZIONI
'proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che ti sei coltivato' (Salmo 80, 16)
per adulti/anziani, docenti e allievi università terza età, operatori socio-sanitari,
assistenti sociali, psicologi, volontari di cooperative, giovani studenti
Il convegno è un’occasione per mettere a confronto giovani e anziani su punti nodali della vita, della società, dei sentimenti che sostengono i rapporti amicali.
“La vita per me è…- risponde un cinquantenne - un’imposizione, ti trovi dentro senza sapere perché, senza sapere cosa si deve fare, non
si è dotati neanche di un libretto di istruzioni, ma si va, si va per tentativi. Si va prima a soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza;
soddisfatti questi, si scopre di avere anche un pensiero e dei sentimenti e allora si incomincia a farsi delle domande…”.
Il resto degli interrogativi? All’appuntamento in Cittadella per il convegno…
64° Corso internazionale di Studi cristiani
20-25 agosto
SENZA I SANDALI DELL’IDENTITÀ?
“Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero…” (Gal 3, 28-29)
alcune tematiche: paradossi e contraddizioni dell’identità - se l’identità cammina con la storia - nelle derive integraliste… vivere la laicità
- cos’è di Cesare? cos’è di Dio? - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - crescere con le differenze - l’identità feriale - le
identità negate interpellano la politica - ‘chiunque io sia, Tu mi conosci’ - a piedi nudi…consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio
in collaborazione con la Comunità di Bose e l’Editrice Queriniana
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
Raniero
La Valle
P
uò sembrare una roba da nulla che il
cardinale Renato R. Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e
Pace, abbia caldeggiato l’insegnamento del Corano ai bambini musulmani
nelle scuole italiane, ed anzi perfino
una cosa un po’ avventata e inconsulta, tanto è
vero che subito altri cardinali ne hanno preso
le distanze e lui stesso ha poi abbozzato qualche arretramento in termini di «reciprocità».
Eppure dietro questa affermazione così semplice e solare del cardinale – «se in una scuola
ci sono cento bambini di religione musulmana, non vedo perché non si possa insegnare la
loro religione» – c’è una difficilissima e straordinaria rivoluzione che la Chiesa ha fatto col
Concilio, tanto che prima del Concilio, e per
secoli, una tale dichiarazione sarebbe stata impensabile e degna di anatema.
Infatti ciò che ha detto il cardinale è possibile,
venendo da una Chiesa che si professa depositaria della verità, solo a patto che essa pensi le
seguenti cose:
Primo. La libertà religiosa è un diritto fondamentale della persona umana, derivante dalla
sua stessa dignità. La libertà religiosa non consiste solo in un diritto del credente a non subire coercizioni da parte dello Stato, ma consiste nella libertà dell’atto religioso stesso; questo diritto umano, fondamentale e universale
deve essere riconosciuto dagli ordinamenti
positivi, ma non è istituito dagli ordinamenti:
deriva all’uomo dall’essere uomo, in forza della sua dignità e della primaria autorità della
sua coscienza. Questa è la dottrina della Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio
«Dignitatis humanae». Ma prima del Concilio
la Chiesa pensava che il diritto alla libertà religiosa fosse solo di quanti professano la vera
religione, e ciò perché «l’errore non ha diritti».
Secondo. Il rapporto tra la religione cristiana
quale è professata dalla Chiesa e le altre religioni non è identificabile come un rapporto
tra la verità e l’errore, ovvero tra salvezza e perdizione, tra conoscenza e non conoscenza di
Dio. Infatti, dice il Concilio («Lumen Gentium»), «il disegno di salvezza abbraccia anche
coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i Musulmani, i quali professando di tenere la fede di Abramo, adorano con
noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale». Dio «vuole
che tutti gli uomini si salvino… Né la divina
Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati
alla chiara cognizione e riconoscimento di
Dio», e si sforzano di compiere la sua volontà,
«conosciuta attraverso il dettame della coscienza». Prima del Concilio valeva al contrario il
principio che «fuori della Chiesa (cattolica) non
c’è salvezza», e Pio XII spiegava ai giuristi
(6.12.1953) che «solo la verità ha diritti». Ora
il Concilio riconosce come «fuori dell’organismo della Chiesa si trovino molteplici elementi di santificazione e di verità» e dice, nella Dichiarazione «Nostra aetate» sulle religioni non
cristiane, che «la Chiesa cattolica nulla rigetta
di quanto è vero e santo» in tali religioni, che
«non raramente riflettono un raggio di quella
verità che illumina tutti gli uomini». Ciò viene
teologicamente spiegato in vari modi, uno dei
quali è che i «semina Verbi», i «semi del Verbo», sono sparsi dovunque.
Terzo. Il Corano non è un libro da mettere all’indice, ma anzi da rispettare e venerare. È
proprio lui che nella sura della «tavola imbandita» parla di questa sovrabbondanza divina
sparsa su cristiani, ebrei e musulmani. E proprio riferendosi al Corano, pur senza citarlo, il
Concilio dice che «la Chiesa guarda con stima
i Musulmani che adorano l’unico Dio vivente
e sussistente, misericordioso e onnipotente,
creatore del cielo e della terra, che ha parlato
agli uomini» (Nostra aetate, n. 3).
Tutto ciò crede e professa la Chiesa, dopo il
Concilio, in via di principio, non tatticamente e senza condizioni. Farle diventare verità
condizionate, sottoposte a gravami e condizioni di reciprocità, mercanteggiarle, significherebbe una caduta politicistica e opportunistica, anche dal punto di vista di quei famosi «valori dell’Occidente», sia declinati in termini laici che religiosi.
È un brutto segno dei tempi che a insorgere
contro il cardinale Martino e Allah nelle scuole, siano stati, come un sol uomo, Pera, Alessandra Mussolini ed Emma Bonino: il primo
in nome dell’identità, la seconda in nome di
un rapporto razzista tra «noi» e gli «altri», e la
terza in nome del principio che non solo la religione islamica, ma ogni religione, deve essere praticata solo nell’ambito privato, come il
fumo dopo Sirchia. E, con una singolare rivalutazione dell’Impero turco, Guido Rampoldi
ha qualificato una democrazia che riconosca
il diritto delle diverse comunità religiose come
«una democrazia ottomana». Allora non ce
l’hanno con l’Islam, ce l’hanno con le religioni
come ancora dotate di senso.
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ROCCA 1 APRILE 2006
Cittadella Ospitalità
RESISTENZA E PACE
la svolta
filoamericana
ROCCA 1 APRILE 2006
Maurizio
Salvi
14
a nuova sospensione con un nulla
di fatto a New Delhi dei colloqui
fra India e Cina sulle decennali
controversie di confine non avrebbe avuto alcun significato particolare se non avesse fatto seguito al
passaggio nella regione del presidente statunitense George W. Bush e all’annuncio
dell’avvio di un’era di cooperazione nucleare indo-statunitense, che pone numerosi problemi, fra cui la sopravvivenza stessa del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp).
Entrato in vigore il 5 marzo 1970, esso è stato ratificato da 187 paesi e si basa su tre principi: disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare. Il trattato proibisce agli stati
firmatari «non-nucleari» (ovvero che non
possiedono armi nucleari) di procurarsi tali
armamenti, e agli stati «nucleari» di fornirgli tali tecnologie.
Quella realizzata nella prima metà di marzo
in Afghanistan (a sorpresa), in India e Pakistan è stata la seconda visita in pochi mesi
dell’ospite della casa Bianca in Asia, dopo l’altra, pure impegnativa, da lui compiuta nell’autunno scorso in Corea del Sud, Giappone, Cina e Mongolia. E la somma dei due viaggi ha permesso di definire un più chiaro progetto strategico degli Stati Uniti, che in questo momento hanno scelto di stringere una
alleanza importante con l’India, paese giudicato adatto per la costruzione di un argine di
contenimento di fronte al crescente potere
economico, politico e militare cinese.
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, dopo la caduta del Muro di Berlino e la
fine dell’Urss di cui New Delhi era alleata, i
due giganti asiatici progettavano la possibilità di stringere una alleanza fra loro che creasse difficoltà all’asse New York-Tokyo. Il
governo indiano pratica con Pechino una
politica di buon vicinato ed è rimasto aperto
ed economicamente legato a quello russo,
ma l’attuale primo ministro, Manmohan
Sing, ha impresso una svolta filo-statunitense
L
alla sua politica, che Bush si è convinto a
definire e che Le Monde ha chiamato «il rovesciamento delle priorità della diplomazia
americana nella regione».
Questa volontà si è manifestata chiaramente
quando il capo dello stato statunitense ha visitato New Delhi annunciando l’accordo di
cooperazione nucleare in campo civile, limitandosi, nella tappa successiva a incoraggiare il presidente pachistano e generale Pervez
Musharraf a continuare una lotta senza quartiere contro il terrorismo, senza offrire accordi particolari per poter bilanciare l’importante
concessione fatta all’India, storico avversario
dei pachistani. E Bush ci ha tenuto a non
navigare nell’ambiguità in questo delicatissimo campo di due paesi entrambi dotati di
armi nucleari quando ha dichiarato il 4 marzo a Islamabad che «il Pakistan e l’India sono
due paesi differenti, con bisogni ed una storia differente. E la nostra strategia terrà evidentemente conto di tali differenze».
nucleare e affari
Ma vediamo prima di tutto i termini di un
accordo che mette fine ad un trentennale
isolamento nucleare dell’India, paese che
come abbiamo detto si è sempre rifiutato di
firmare il Tnp (così come non lo hanno fatto neppure il Pakistan, Israele e la Corea del
Nord), nonostante l’ammissione fin dal 1988
di possedere armi atomiche. La dichiarazione congiunta indo-statunitense prevede che
il partner asiatico si impegna a separare i
suoi programmi nucleari civili da quelli militari mentre permetterà all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) di effettuare ispezioni sui primi. Secondo fonti ufficiali indiane, saranno aperti ai controlli
internazionali 14 dei 22 reattori nucleari indiani già in funzione o in via di realizzazione. Inoltre gli Stati Uniti forniranno all’India la loro tecnologia nucleare a fini civili,
compresi reattori e combustibile, esortando
gli altri Paesi fornitori a fare altrettanto.
Il segretario di stato americano agli Affari
Politici, Nicholas Burns, ha precisato che
questo accordo, che non verrà esteso ad altri paesi, è stato possibile perché «l’India si
è conformata a tutte le linee guida internazionali sulla tecnologia nucleare, al contrario, per esempio, dell’Iran che ha violato più
volte questi programmi internazionali».
Burns ha sottolineato anche il fatto che l’India, al contrario della Corea del Nord, non
ha mai violato le norme contro la proliferazione (che però, come abbiamo visto, non
ha mai firmato, ndr) e ha aggiunto che la
Russia e gli alleati europei hanno già garantito il loro appoggio all’accordo, salutato con
favore anche dall’Aiea.
Al tentativo di dare rispettabilità alla decisione di concedere tecnologia nucleare civile all’India si è aggiunto anche il rappresentante
permanente degli Usa all’Onu, John Bolton,
che per giustificare la politica dei due pesi e
due misure nei confronti dell’Iran ha ripetuto candidamente che «India e Pakistan (e
quindi anche Israele, ndr), non hanno mai
firmato il Tnp, e non l’hanno violato dotandosi di armi nucleari, mentre l’Iran sta violando i suoi obblighi». Seguendo questa logica, allora, l’errore di Teheran non è stato quello
di volere la bomba, ma di avere sottoscritto il
Trattato di non proliferazione!
La Cina, che ha pensato bene di non far avanzare i negoziati di confine sulle rivendicazioni reciproche con l’India su terre negli altopiani del Tibet e nello stato indiano dell’Arunachal Pradesh, aveva subito messo i puntini
sugli i dopo l’annuncio dell’accordo indiano
con Bush facendo dire al portavoce del suo
ministero degli esteri, Qin Gang, che il trattato «gioca un ruolo importante» nel promuovere la non proliferazione, il disarmo e l’uso
pacifico della energia atomica.
Comunque la volontà di Washington è una
cosa, e quella del Congresso, un’altra, per cui
non è affatto automatico che deputati e senatori diano il semaforo verde all’intesa che
dovrebbe permettere a imprese statunitensi
quali General Electric e Westinghouse Electric
di realizzare succosi accordi di vendita di
materiale per lo sviluppo delle centrali nucleari. Critiche ad essa provengono da membri
dei due rami del Congresso, sia democratici,
sia repubblicani, ed anche autorevoli analisti. Joseph Cirincione, uno dei principali
esperti della non proliferazione, ha condannato l’accordo: «Se regge, il Tnp andrà in pezzi. Bush – ha continuato – ha semplicemente
accettato quello che né Richard Nixon, né
Ronald Reagan, né suo padre avevano accettato. Ha venduto l’intero negozio». «Certo –
ha concluso – l’India ha fatto un gesto accettando che due terzi dei suoi reattori siano ispezionati dall’Aiea, ma 14 altre installazioni sfuggiranno ai controlli». Con questo accordo, ha
ancora detto, «l’India potrà raddoppiare o triplicare la quantità di armi nucleari che è capace di costruire ogni anno». E se per Cirincione, comunque, una ratifica da parte del
congresso potrebbe necessitare «vari anni»,
per il collega Kurt Campbell del Centro per
gli studi strategici ed internazionali (Csis), si
tratterà solo «di mesi» per approvare un accordo che è necessario, perché le relazioni con
l’India condizioneranno la diplomazia statunitense nei confronti di questo paese per i
prossimi 50 anni.
Maurizio Salvi
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INDIA
EUROPA
guerre
finanziarie
M
a colpi Opa
Ma negli ultimi mesi, l’opinione pubblica,
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anche quella meno esperta, ha potuto assistere a una nuova guerra, quella del controllo delle società, attraverso tante battaglie che hanno appassionato milioni di
persone.
Si tratta delle battaglie finanziarie condotte
per il controllo di banche e società con una
nuova arma micidiale: l’Opa. Di cosa si
tratta?
Partiamo dalla descrizione di questa nuova arma. L’Opa è l’Offerta Pubblica di Acquisto, una offerta che colui che intende
acquisire titoli con diritto di voto di una
società quotata deve fare agli azionisti per
entrarne in possesso e poter controllare la
società.
Se è intenzionato a pagare queste azioni
in denaro si parla di offerta pubblica di
acquisto, se vuole pagarle con altri titoli si
parla di offerta pubblica di scambio.
Nella legislazione italiana l’Opa è obbligatoria quando una società ha già acquisito
perlomeno il 30% delle azioni di un’altra
società a meno che la Consob non stabilisca diversamente.
Quando un’Opa è stata lanciata da un acquirente ed un altro vuole comprare in alternativa si parla di Opa concorrente o
contro Opa. Di questo si è parlato durante
la lunga vicenda Unipol, quando questa
compagnia voleva acquisire il controllo
della Banca Nazionale del Lavoro, di questo si è parlato negli ultimi tempi a proposito del tentativo dell’Enel di acquisire la
società francese Suez che è presente nell’elettricità in diversi paesi europei.
Ma al di là dei tecnicismi vediamo quale è
il processo che si sta dispiegando con sem-
pre maggiore velocità ed intensità da qualche tempo a questa parte.
Perché queste Opa sono sempre più all’ordine del giorno?
Perché ci sono due processi in atto: la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia.
Il primo determina la necessità di essere
competitivi a livello globale e, quindi, di
assumere dimensioni rilevanti per poterlo
fare.
Il secondo, creando una massa monetaria senza precedenti disponibile per investimenti, si sposa col primo e lo alimenta.
L’insieme produce una tendenza ad allargarsi oltre i confini nazionali e ad acquisire altre società per creare sinergie e per
raggiungere dimensioni adatte alla competizione globale.
Il fenomeno è particolarmente evidente
oggi, ma in realtà è in corso da alcuni anni.
nuovi muri
Per stare all’esempio di maggiore attualità, quello del rapporto tra Italia e Francia,
basti pensare che in pochi anni settori di
prestigio dell’industria e della distribuzione italiana sono stati acquisiti da società
francesi.
Si tratta della grande distribuzione (da Gs
alla Sma), del lusso (Fendi, Gucci), di prodotti alimentari tipici (Galbani, Invernizzi), di settori e marchi, insomma, che si
stenta a pensare appartengano oggi ad
imprese non italiane.
Ma, si dice, è la logica della globalizzazio-
ne e non accettarla significherebbe stare
con la testa rivolta all’indietro. È vero,
come è vero che l’Europa se vuole in futuro competere con sistemi economici come
quello cinese o quello americano deve dotarsi di un sistema industriale a dimensione continentale.
Ma questo è facile a dirsi, difficile a farsi.
Non tutti ragionano allo stesso modo ed
appena appena si è sparsa la voce che l’Enel
voleva lanciare una Opa su una società
francese per acquisire una dimensione tale
da collocarla nel mercato europeo, ecco
scattare la paura dell’invasione ed inventare una fusione tra la società Suez che
produce energia e la Gaz de France concentrata sul gas.
Risultato: la nuova azienda che risulta
dalla fusione è troppo grande per essere
acquisita dall’Enel ed ha una forte presenza di capitale pubblico (la GdF è controllata all’80% dallo Stato), quindi l’Opa
Enel è, se non impedita, resa molto difficile.
Certo che l’episodio non è né unico né isolato.
È ormai evidente da un po’ di tempo che
Francia, Paesi Bassi, Germania e Spagna
stanno alzando muri per difendere i propri «campioni nazionali».
È altrettanto evidente che essi non esitano
ad occupare territori di altri paesi come
credito ed assicurazioni, energia e grande
distribuzione.
È evidente ancora che l’Italia nulla ha fatto per contenere lo «shopping» che società straniere hanno fatto nel nostro territorio.
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
Aldo Eduardo
Carra
a chi l’ha detto che dove c’è pace
non c’è guerra?
Certo dove non ci sono guerre,
intese in senso tradizionale,
quelle con armi di morte e vite
distrutte, regna la pace, intesa
come assenza di distruzioni di case e di
popoli, e sarebbe bello e giusto che così
fosse sempre e dappertutto. Ma dove regna questa pace non è detto non ci siano
altre guerre, meno cruente, ma non irrilevanti per la vita ed il futuro dei popoli.
Pensiamo alle guerre «commerciali» che
non sono solo uno strumento d’altri tempi
se è vero come è vero che, mentre si esaltano globalizzazione e liberalizzazione, si
mettono dazi e si minacciano ritorsioni.
Due esempi per tutti: la guerra dell’acciaio
(dichiarata dagli Stati Uniti contro Giappone, Europa, Canada introducendo imposte sulle importazioni per difendere i
produttori nazionali e che, dichiarata illegittima dal Wto, sta dando vita a misure
di rivalsa di questi paesi), oppure quella
delle banane (provocata dall’Europa per
difendere le importazioni dai paesi africani dalla concorrenza dell’America del Sud).
Per essere più attuali pensiamo che un
mese fa, il 13 febbraio, l’Organizzazione
Mondiale del Commercio ha condannato
gli Usa per sovvenzioni fiscali agli esportatori (si tratta di Boeing, General Electric,
Motorola, Microsoft tanto per fare qualche nome).
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È evidente che gli atteggiamenti di difesa
del carattere nazionale di alcuni settori e
di alcune imprese contrastano con le leggi
e le regole della competizione globale e
della liberalizzazione.
Ma la realtà, piaccia o meno, è questa: tutti si dicono favorevoli a liberalizzazione e
globalizzazione, ma quando si tratta di alcuni settori si dice che i «campioni nazionali» vanno difesi e debbono restare nazionali. Allora?
Allora è inutile far finta di niente o giocare ai dispetti: se tu non mi fai comprare le
tue società io ti impedisco di comprare le
mie.
Europa inceppata
ROCCA 1 APRILE 2006
Per l’Italia questo ragionamento oltre che
inutile è ridicolo perché ci è rimasto ben
poco che altri possano comprare.
Più utile sarebbe, invece, cercare di capire quali sono i problemi che stanno sotto questi processi ed affrontarli prendendo, come si dice, il toro per le corna. Vediamo quali sono i due principali problemi.
Primo problema. Non c’è dubbio che il
processo europeo, inteso come ambizioso progetto di costruzione di una grande
area in grado di stare tra i grandi come
Usa, Cina, Urss, di un’area, quindi, intesa come governo unitario di politiche
estere, economiche e sociali, si è inceppato.
Il momento visibile è stata la bocciatura
della Costituzione, ma in realtà il processo si è bloccato prima: con l’incapacità
dell’Europa di giocare un ruolo unitario
nella vicenda irachena, con l’incapacità
di andare oltre l’Unione degli Stati.
Se in questo mondo globalizzato non si
diventa una grande potenza economica,
non è che non si va avanti, si torna indietro verso gli Stati nazionali. Ed è quello che sta accadendo.
Prendere il toro per le corna su questo
aspetto significa chiedersi se questa Europa con tanti Stati così diversi per condizioni economiche e storie potrà mai essere una potenza mondiale.
Significa, forse, chiedersi se la logica dell’allargamento che si è praticata non sia
una fuga dal problema reale. Chiedersi
cioè se si vuole veramente una Europa
potenza economica e politica o semplicemente una Europa area di libero scambio. Se si vuole la prima cosa, l’allargamento andrebbe fatto progressivamente
man mano che l’unificazione tra gli stati
che già stanno dentro si rafforza. Insom18
ma forse bisognerebbe scegliere tra una
Europa forte di pochi Stati ed un’Europa debole con molti Stati.
Se non lo si fa e si punta ad allargare il
più possibile, facendo un’Europa grande, ma debole, tanto vale dire che si vuole fare una grande area di libero scambio nella quale i singoli stati possano trovare grandi mercati di consumo e di manodopera, ma restando singoli Stati che,
quindi, debbono guardare ai loro interessi nazionali.
il nodo energetico
Il secondo problema, non sganciato dal
primo, è quello dell’energia, e non è un caso
che la vicenda Enel si collochi proprio in
questo campo.
L’Europa ha un deficit energetico, sia petrolifero che di gas. La fine del petrolio a
buon mercato e la crescita del prezzo del
gas fanno esplodere la questione della sicurezza degli approvvigionamenti.
Inoltre si prevede una crescita del prezzo
del carbone. Ciò favorisce le imprese che
si affidano all’energia idraulica e nucleare, e svantaggia quelle che dipendono dal
carbone e dal petrolio.
Poiché nel 2007 ci sarà la terza fase della
liberalizzazione dei mercati europei, diventa cruciale per gli operatori tradizionali
uscire dai territori nazionali ed avviare
offerte multienergetiche.
Allora, tornando all’Europa, se questi sono
i problemi le concentrazioni dovrebbero
essere negoziate e gestite a livello europeo,
invece, si cercano soluzioni nazionali. Perché?
Perché non esiste una Europa all’altezza
dei problemi di politica energetica.
Ma questo è solo un di cui del fatto che
non esiste una politica industriale europea
di fronte alle sfide della globalizzazione che
richiedono non solo aggregazioni di imprese esistenti, ma creazione di settori strategici per il futuro.
Allora, comunque vada a finire la vicenda
Enel, il problema di fondo è l’Europa: o
essa fa passi avanti per diventare una realtà geopolitica all’altezza delle grandi potenze mondiali o sarà inevitabile il ritorno
alle logiche nazionali.
E sarebbe proprio paradossale che l’Europa che ha preso l’avvio nel 1952 con la Ceca
(Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e con l’Euratom nel 1957, dopo cinquanta anni, naufragasse proprio sull’energia.
Aldo Eduardo Carra
OLTRE LA CRONACA
il timbro di Dio
Romolo
Menighetti
ony Blair, in una recente intervista
all’emittente britannica ITV1, indicando Dio come fonte di ispirazione per muovere guerra all’Iraq, ha
inteso sottrarsi al giudizio dei suoi
contemporanei, implicitamente
gratificandosi con uno «sta bene» da parte di colui che egli pensa sia il «Dio degli
Eserciti». Non ha però potuto sottrarsi al
«disgusto» delle madri britanniche i cui
figli sono caduti a Bassora.
Mettere il timbro di Dio sulle nostre scelte
è un trucco vecchio come il mondo.
Nell’Antico Testamento le guerre tra popoli
diversi erano considerate sfide tra le due rispettive divinità, e la vittoria costituiva il
segno della superiorità di una divinità sull’altra. Perciò gli ebrei, nelle loro preghiere
a Javhè, chiedevano la vittoria in battaglia,
adombrando una sottile provocazione del
tipo: guarda che se perdessimo ci rimetteresti tu per primo, perché di fronte alle genti
risulteresti sminuito rispetto alle divinità dei
popoli che ci vincessero.
Venne poi Gesù, e per far capire agli uomini
che Dio non ha a che fare con nessuna guerra,
subì la crocifissione, pur essendo innocente,
con ciò affermando essere blasfemo ogni tentativo di usare la croce come vessillo-contro.
Ma la lezione fu solo superficialmente assimilata. Ben presto le croci, da Costantino in
poi, furono usate come clave, mentre di Dio
si fecero versioni a misura di popoli e culture, e lo si arruolò su fronti contrapposti. Il
Dio dei cristiani fornì l’alibi per la loro espansione coloniale. Per contro il Dio di Maometto costituì pretesto per una islamizzazione
portata sulla punta delle scimitarre.
Lungo i secoli poi, nel nome dello stesso
Dio vennero benedetti cannoni gli uni contro gli altri puntati. Infine la croce, da parte
di chi portava scritto in pancia che Dio era
dalla loro parte, divenne uncinata, per meglio triturare le sue creature.
Si pensava che la storia, dopo una tale sequenza, avrebbe generato un salutare moto
d’orrore a fronte di ogni ulteriore tentativo
d’arruolamento di Dio. Ma non fu così. E
per contrastare i sacrileghi che si uccidono
uccidendo in nome di Dio, si torna alla visione e alla croce di Costantino.
Blair afferma che la scelta di partecipare
T
all’intervento armato in Iraq gli fu ispirata
da Dio. Bush dice che la meditazione della
Bibbia precede gran parte dei suoi pronunciamenti e delle sue decisioni, anche quelle
che costano la vita a migliaia di persone.
Insomma, una tragedia che finora è costata la vita a decine di migliaia di iracheni, e
a qualche migliaio di soldati della coalizione, avrebbe avuto origine in mente Dei.
Invano papa Benedetto XVI si affanna a
spiegare che Deus caritas est. Le stesse mani
che applaudono, tornano subito dopo ad
imbracciare le armi.
Venendo al nostro piccolo mondo italico,
da qualche tempo sembra che non resistano alla tentazione di appropriarsi del timbro di Dio, nemmeno i protagonisti della
locale politica.
L’esito, se non è altrettanto sanguinolento
come per la grande storia, è però ridicolo, e
soprattutto fuorviante.
Incominciò Berlusconi con l’autoproclamarsi «unto del Signore», superando tra l’altro di un balzo i profeti e i grandi dell’Antico Testamento, che l’unzione, almeno, la
ricevevano da un altro. Non soddisfatto, recentemente volò ancora più alto, fin quasi
a dare del tu a Gesù Cristo.
Ora i concorrenti ad un accreditamento da
parte di Dio sono di molto aumentati. L’ex
laico Marcello Pera, Presidente del Senato,
reitera plateali esternazioni di fronte al suo
Vicario in terra e alle gerarchie cattoliche.
Giuliano Ferrara, dopo aver a lungo sostenuto con la sua straripante dialettica diverse laiche cause, ora ha piazzato le sue batterie sul
fronte del sacro. L’ex radicale Rutelli ha imparato molto bene a genuflettersi. E pure
Fassino e Bertinotti hanno scoperto e rispolverato antiche ascendenze clericali. Per non
parlare del presidente della Camera Pierferdinando Casini, modello del cristiano impegnato in politica secondo monsignor Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, difensore pubblico di sacri valori che
quotidianamente contraddice nel privato.
Tali atteggiamenti, di là dell’evidente opportunismo, denotano la grande carenza di laicità nell’approccio alla dimensione religiosa, della maggioranza dei nostri politici.
Che Dio, ora è proprio il caso di invocarlo,
ce la mandi buona.
❑
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ROCCA 1 APRILE 2006
EUROPA
POLITICA ITALIANA
ROCCA 1 APRILE 2006
Filippo
Gentiloni
20
on lo si prevedeva qualche anno
fa, quando si pensava che con il
Concordato con la chiesa cattolica lo Stato italiano avesse risolto tutto il possibile contenzioso
con la religione. Oggi l’islam costringe a parlare di religioni al plurale, un
plurale che finisce per rimettere in discussione anche gli accordi di ieri con il cattolicesimo. Tutto è più complicato.
Gli eventi recenti sono noti e fanno riflettere. Si è costituita anche nel nostro paese
la Consulta islamica (Ucoii, Unione delle
Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia), che, nonostante le notevoli
divisioni al suo interno, si presenta come
interlocutore ufficiale nei confronti dello
Stato, che come tale la riconosce.
Le recenti prese di posizione dell’Ucoii
hanno fatto e fanno discutere. Anche perché non possono essere indifferenti nei
confronti di una immigrazione di musulmani sempre più numerosa e anche sempre più qualitativamente rilevante. Né può
l’Ucoii restare indifferente – anche se a
maggioranza moderata – nei confronti dello scandalo provocato dalle vignette blasfeme e dal comportamento del ministro
leghista Calderoli.
I temi in discussione sono noti. Più degli
altri in primo piano la questione di un
eventuale insegnamento di religione musulmana nelle scuole. Tema scottante non
tanto per il numero degli studenti musulmani, d’altronde non irrilevante e in crescita (si parla di 250 mila nelle scuole pubbliche) quanto perché la questione coinvolge quella dell’insegnamento della reli-
N
gione cattolica. Una questione, questa, che
in teoria è stata risolta nell’ultima revisione del Concordato, ma che in pratica fa
ancora discutere. Non pochi, infatti, commentando la richiesta musulmana, hanno
messo in discussione la stessa ora di religione cattolica. Nonché la presenza del
crocefisso nelle aule. O tutti o nessuno, è
stato detto; a prescindere dai numeri, dalle maggioranze e minoranze. Si potrebbe,
non pochi sostengono, pensare ad un insegnamento generale di storia delle religioni, non legato a nessuna confessione particolare ma adatto anche agli atei. È in gioco, e fino in fondo, la stessa laicità dello
Stato.
Le posizioni si dividono non soltanto nell’Ucoii. Ha fatto scalpore, ad esempio, nel
mondo cattolico la voce molto autorevole
del Cardinale Martino che si sarebbe dichiarato disponibile ad una apertura all’insegnamento religioso musulmano nelle
scuole. Voce in parte ritrattata e, comunque, contraddetta da altre voci cattoliche,
altrettanto autorevoli, contrarie a quella
apertura: fra le altre, la voce del Cardinale
Tettamanzi. Ma è stata anche ricordata la
presa di posizione dell’allora Cardinale
Ratzinger che qualche anno fa si era detto
favorevole all’introduzione del Corano nelle scuole tedesche.
identità e reciprocità
Comunque il dibattito è aperto e fra i protagonisti di primo piano anche quei laici
che insistono sulla necessità di tenere fede
alla identità cattolica della nostra società
e cultura. Fra i più impegnati in questo
senso il presidente del Senato Pera che, a
ragione o a torto, indica il papa come leader dello schieramento.
Identità e reciprocità: i sostenitori, infatti, della linea più rigida insistono sulla necessità di quella reciprocità che, invece,
nei paesi musulmani è assente o quasi.
Senza reciprocità, dicono infatti, qualsiasi concessione alle richieste musulmane
comporterebbe un cedimento inutile e pericoloso. Non soltanto per il nostro paese
ma per tutto lo scacchiere geopolitico globale.
Un dibattito, dunque, aperto e di estremo
interesse. Vale la pena di citare qualche
intervento, fra i più autorevoli. Su «La
Repubblica» Giuliano Amato insiste sulla necessità che i settori più moderati e
democratici sia dei cristiani che dei musulmani «si riconoscano» e rivalutino le
posizioni più aperte, condannando i fondamentalismi, anche quelli di casa propria. Sul «Corriere della Sera» il famoso
teologo Hans Küng spinge i cristiani a
«parlare davvero con l’Islam», al di là di
un dialogo spesso convenzionale e insufficiente. «Se si vuole che la falsa teoria
dello scontro di civiltà non si realizzi è
tempo che entrambe le parti parlino apertamente e onestamente, riconoscendo le
rispettive differenze e cercando un terreno comune».
Si potrebbe aggiungere che è necessario
che le varie parti riconoscano le loro colpe e responsabilità del passato.
Filippo Gentiloni
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ROCCA 1 APRILE 2006
Islam
in primo piano
PROGETTO VERONESI
ROCCA 1 APRILE 2006
Pietro
Greco
22
I
stituiamo anche in Italia il registro per
il testamento biologico. In modo che
ciascuno di noi possa affidare a un garante le sue disposizioni su quali terapie accettare e quali rifiutare nel
caso dovesse sfortunatamente trovarsi nella fase di decorso terminale di una
qualsivoglia malattia. Evitiamo nuovi casi
come quelli di Terry Schiavo in America o
di Eluana Englaro in Italia. Evitiamo l’accanimento terapeutico. Evitiamo, in ogni
caso, che a decidere in quella fase eventuale e tragica della nostra vita siano altri (il
medico, i familiari, lo Stato) in vece nostra.
Ad avanzare la proposta del primo registro
in Italia per il testamento biologico è stato, all’inizio di marzo, Umberto Veronesi,
oncologo di chiara fama ed ex ministro
della Sanità. È anche per questo che la
proposta ha suscitato una notevole eco e,
anche, un diffuso consenso.
In qualche caso, tuttavia, il consenso è stato condizionato. Il cardinale Ersilio Tonini, per esempio, si è detto favorevole al testamento biologico, purchè non preluda a
pratiche di eutanasia.
Insomma, la questione resta aperta. E non
solo sul piano giuridico. Per capire perchè,
cerchiamo di analizzare meglio i termini
della proposta di Umberto Veronesi.
Capita spesso che nel decorso di una malattia – un cancro, le conseguenze di un
trauma o altro ancora – un malato si trovi
– proprio come Terry Schiavo o Eluana
Englaro – nella condizione disperata: la
guarigione non è più possibile; il paziente
non ha più e mai più potrà riavere una vita
dignitosa di relazione sociale e continua a
vivere solo grazie all’uso di particolari tecnologie e terapie mediche. Ovvero solo grazie a quello che in gergo viene chiamato
accanimento terapeutico.
Per essere ancora più precisi, è bene usare
anche la terminologia degli esperti: stiamo parlando del caso in cui una persona
ha perduto ogni capacità di autodeterminazione, a causa di una malattia acuta o
degenerativa assolutamente invalidante sul
piano fisico e, soprattutto, mentale.
il dibattito
Cosa si deve fare, in questi casi? Continuare a insistere a tempo indefinito con la terapia senza speranza finché il malato non
muore o è possibile sospenderla, quella
terapia, e lasciare che la persona concluda la sua vita? E, soprattutto, chi deve decidere, in questi casi estremi ma non rarissimi in cui il paziente non può in nessun modo esprimersi?
Beh, sostiene Umberto Veronesi, occorre
richiamarsi – o meglio, dare la possibilità
di richiamarsi – al principio di autodeter-
minazione e di instaurare un rapporto paritario col medico.
Neppure dal punto di vista logico e astratto questo richiamo è scontato. Molti infatti sostengono che, quando in gioco è la vita,
nessuno – neppure l’individuo che ne è titolare – possa assumere una decisione diversa da quella di prolungarla, al meglio
possibile e il più a lungo possibile. Per cui
l’unico che ha il diritto di decidere è il
medico, che deve rispettare il dovere deontologico e giuridico di operare sempre
a beneficio del paziente e il suo massimo
per beneficio è la sopravvivenza, in qualsiasi condizione.
Al contrario, altri sostengono che gli uomini hanno diritto a vivere con dignità e,
nel caso che le condizioni di vita siano
completamente invalidanti e quindi soggettivamente sentite come non più dignitose, hanno il diritto conseguente di interrompere, se lo vogliono, quelle condizioni
giudicate oscene. In collaborazione con il
medico che, proprio perché deve operare
a favore del maggior beneficio del paziente, deve tutelare il suo diritto a vivere con
dignità.
valore legale della dichiarazione
preventiva
Si può discutere – e, infatti, molto si di23
ROCCA 1 APRILE 2006
il testamento
biologico
problemi bioetici
ROCCA 1 APRILE 2006
Ma, forse, di più stringente interesse sono
i problemi bioetici che la proposta evoca
senza sciogliere. Per esempio: cosa dobbiamo esattamente intendere per «accanimento terapeutico» e per «condizione assolutamente invalidante».
Viviamo in un’epoca in cui la differenza
tra naturale e artificiale, se mai lo è stata, non è più così netta. Quali sono gli
aiuti «artificiali» alle persone ormai prive di totale autonomia che definiscono
l’«accanimento terapeutico»: solo l’utilizzo di sofisticate e costose macchine, o anche semplici flebo per l’alimentazione e
l’idratazione?
E cosa dobbiamo considerare come «condizione assolutamente invalidante»: quella che riguarda, irreversibilmente, la mente o anche quelle che riguardano, irrever24
sibilmente, anche il corpo? Cosa si intende per assoluto quando parliamo della
mente? E cosa si intende per invalidità assoluta quando parliamo del corpo? Ed è
poi così semplice distinguere la mente dal
corpo?
È chiaro che il tema del testamento biologico richiama inevitabilmente il tema, più
generale e più controverso, dell’eutanasia.
Tema di estrema delicatezza che, nella nostra società multietica, vede una costellazione di interpretazioni diverse del peso
specifico che devono assumere il diritto
alla vita e il principio dell’autodeterminazione.
Non è un caso che proprio Umberto Veronesi abbia richiamato il tema dell’eutanasia. Ricordando un sondaggio di Eurispes
realizzato all’inizio dell’anno, secondo cui
in Italia il 69% delle persone che si dichiarano non cattoliche è favorevole al diritto
a una buona morte e solo il 19% è contrario. Secondo Eurispes, l’atteggiamento
cambia tra gli italiani che si dichiarano
cattolici. Ma non in modo speculare: se il
48% dei cattolici italiani è, infatti, contrario all’eutanasia, il 38% si dichiara favorevole.
È ovvio che i sondaggi non possono fare
testo, men che meno in materie così delicate. Ma chi, allora, deve fare testo, in
maniera vincolante, in una società multietica così (saggiamente) articolata persino
in merito a concezioni di fondo che riguardano dimensioni dicotomiche come la vita
e la morte?
È l’eterno problema che si pone tra chi (a
prescindere dal suo credo religioso) ha una
visione laica della vita sociale e si richiama al principio della responsabilità individuale e chi (a prescindere dal suo credo
religioso) ha una visione non laica della
vita sociale e si richiama alla primazia di
principi universali.
Vale la pena ricordare ancora una volta che
la proposta, quasi universalmente giudicata benemerita di Veronesi, non riguarda
l’eutanasia, ma «solo» il testamento biologico e l’accanimento terapeutico. È anche
per questo cha ha ottenuto consensi in
ambienti (di credenti e di non credenti) che
non sono definibili laici. Ma proprio perché, nella sua interpretazione, richiama
ambiguamente ma inevitabilmente temi
più scomodi e più controversi, essa merita
di essere esaminata con maggiore attenzione. E, possibilmente, discussa con profondità di argomentazioni e serenità di
toni.
TERRE DI VETRO
una polizza sul futuro
Oliviero
Motta
V
edi alla voce impiegati». È il primo pensiero dopo averli visti entrare dalla porta: i visi perfettamente rasati, la cravatta d’ordinanza e i completi grigi, le cartelle scure. In realtà sono due
funzionari di un istituto bancario e assicurativo con un antico radicamento in una
grande regione del nord. Il logo dell’impresa, latinorum e rosa dei venti (o giù di lì),
mi ha fatto sempre pensare a una banca
d’affari un po’ esclusiva, tutto il contrario
di una cassa popolare. È anche per questo
che mi incuriosisce il motivo del nostro incontro: immigrati extracomunitari.
Apprendo così che da qualche tempo la
loro casa madre sta proponendo prodotti
assicurativi e di risparmio pensati ad hoc
per migranti. I due parlano di assicurazioni, di strumenti di risparmio e investimento, di servizi progettati appositamente per
persone che vengono da lontano e che in
Italia hanno messo in piedi una attività
produttiva. Parlano, come è ovvio che sia,
di clienti, imprenditori, piccoli artigiani e
il loro tono suona così professionale. Niente di più naturale, insomma: domanda e
offerta, impresa e rischio, proposte e vantaggi per attirare e convincere nuovi clienti.
Mi colpisce soprattutto una delle offerte:
l’assicurazione (copertura dei costi e disbrigo delle pratiche) per il rimpatrio della
propria salma, in caso di morte. «All’inizio eravamo perplessi anche noi – mi confidano candidamente – perché ci sembrava che parlare di morte non fosse il modo
migliore per avviare un rapporto commerciale; insomma, tutto il contrario del
marketing…». Eppure anche questo prodotto ha goduto di un qualche successo, al
di là delle attese.
Rifletto insieme ai miei due interlocutori
sul fatto che forse una proposta così ci sorprende e magari ci urta un poco perché
non riusciamo bene ad immedesimarci in
ciò che può sentire una persona lontana
dal suo Paese. Non si tratta qui di minori
non accompagnati o giovani venuti in Italia per avventura, ma nemmeno di professionisti o uomini d’affari ben pagati per
lavorare all’estero. Ci si rivolge invece a
persone adulte che hanno lasciato il proprio contesto culturale e affettivo e che si
trovano a fare i conti con questa lontananza. Forse da quel punto di vista è più facile
e naturale pensare alla morte e perfino ai
costi e agli ostacoli burocratici che può
incontrare il rientro della propria salma.
Si può sorridere (scaramanticamente?) di
questa polizza assicurativa, ma in fondo
lo può fare solo chi non è costretto a convivere con la precarietà esistenziale di una
prolungata trasferta. Perché prendere seriamente in considerazione un’offerta
come questa richiede al contempo profondità e concretezza, dimensione contemplativa della vita e praticità. Tutte cose che
l’umano occidentale indigeno stenta a tenere insieme.
Ma il fortuito incontro di oggi mi fa riflettere anche sui progressi dell’integrazione
di una fetta significativa di immigrati. Se
si muovono le banche, se le assicurazioni
vendono prodotti ad hoc, allora vuol dire
che l’integrazione è molto più avanti di
quanto i falsi profeti dello scontro di civiltà cerchino di farci credere. In fondo la
migliore assicurazione contro la divisione
violenta tra diversità, religioni o etnie è
proprio questa piana quotidianità fatta di
vendere e comprare.
Business? Certamente.
Eppure, se ci pensiamo bene, i migliori termometri dell’integrazione sono proprio i
bancari: giacca, cravatta e scure cartelle.
Pietro Greco
25
ROCCA 1 APRILE 2006
PROGETTO
VERONESI
scute – su queste due diverse visioni. C’è
tuttavia un problema pratico. Come fa un
paziente totalmente invalidato a esprimere la propria determinazione? È proprio
per rispondere a questa domanda che, soprattutto in ambiente anglosassone, è
nato il concetto – e la pratica – del «living will», che noi traduciamo con qualche approssimazione in testamento di
vita o testamento biologico. Poiché il
paziente che viene a trovarsi nell’infausta condizione di totale invalidazione
non può esprimere in tempo reale la sua
volontà, allora è bene che lo faccia in via
preventiva. Con un testamento. Una dichiarazione che abbia il medesimo valore morale e legale del testamento classico e che ponga il medico in condizioni
di conoscere le sue determinazioni. È di
questo «living will» che si fa promotore
Umberto Veronesi.
Oggi in Italia c’è un vuoto normativo in
proposito. Che certo va colmato, come
è stato fatto in diversi paesi: dagli Stati
Uniti ai paesi dell’Europa settentrionale (Germania, Danimarca, Belgio, Olanda).
In attesa di colmare il vuoto legislativo,
esistono diversi problemi relativi al registro per il testamento biologico proposto da Umberto Veronesi che conviene affrontare. Uno è di tipo giuridico:
in assenza di una legge specifica, quale
valore legale ha una simile dichiarazione preventiva? Chi volesse conoscere le
risposte dei giuristi (di alcuni giuristi),
può consultare il libro che la Fondazione Veronesi ha pubblicato con Il Sole 24
Ore.
ETICA POLITICA ECONOMIA
Giannino
Piana
N
onostante la tendenza oggi diffusa
a ridurre l’etica della e nella politica alla semplice produzione delle
«regole del gioco» mediante il ricorso al consenso sociale o a criteri di stampo utilitarista, l’esigenza
del riferimento a valori forti non può essere
del tutto elusa. Del resto, dietro le stesse regole, che si presentano in apparenza come
neutrali, si cela di fatto (anche se non viene
esplicitamente riconosciuto) l’appello a una
piattaforma valoriale. L’esigenza di un’etica
per la politica è dunque fuori discussione.
Ma gli interrogativi che insorgono e ai quali
occorre dare risposta sono: a quale etica la
politica deve oggi riferirsi se intende promuovere un vero sviluppo umano nel pieno rispetto della molteplicità (e diversità) dei sistemi etici presenti nella società? E ancora:
con quale metodo e con quali strumenti è
possibile pervenire alla identificazione di tale
etica?
il pericolo dello Stato etico
ROCCA 1 APRILE 2006
Va detto con chiarezza, fin dall’inizio, che lo
Stato (e dunque la politica nella sua accezione più specifica) non può essere considerato portatore di un’etica propria e tanto
meno – come pensava Hegel – fonte esclusiva della moralità. Si incorrerebbe infatti, in
questo modo, nel pericolo del cosiddetto
«Stato etico», nella teorizzazione cioè di uno
Stato assoluto, che, divenendo principio del
bene e del male, finisce per giustificare ogni
comportamento (anche criminoso) in nome
della propria autoconservazione e della propria espansione. D’altra parte, la politica che
si sviluppa all’interno di uno Stato democratico e contrassegnato – come si è rilevato
– da un forte pluralismo etico, non può assumere e fare propria un’etica particolare –
quella di un gruppo, fosse pure esteso, di ispirazione laica o religiosa – proponendola
come la propria etica, conferendole cioè carattere di universalità.
Dove, allora, attingere i presupposti etici, che
vanno posti alla base degli interventi di carattere sociale e dei pronunciamenti di ordine legislativo? La via da percorrere è (e non
26
può che essere) quella del passaggio dalle
etiche delle varie soggettività sociali all’individuazione di un ethos collettivo, proprio
della società civile, espressione cioè della
convergenza dei diversi sistemi etici attorno
ad un nucleo essenziale di valori condivisi e
riconducibile, in senso più profondo, all’insieme delle tradizioni e dei costumi che configurano il volto di tale società e motivano
l’appartenenza dei cittadini ad essa. La definizione di questo ethos non è impresa da
poco. Ad esso appartengono quei valori che
conferiscono senso e solidità alla convivenza civile di un popolo e che sono alla base
delle Costituzioni democratiche nate nell’immediato dopoguerra. Ma tale ethos è anche
frutto del confronto che va, di volta in volta,
attivato su tematiche emergenti attraverso
il dibattito pubblico. Il dialogo e l’interazione tra visioni etiche diverse, per quanto difficile per la presenza talvolta di posizioni
nettamente contrapposte, costituisce un’occasione preziosa per la creazione di forme
di comunicazione che favoriscano l’integrazione reciproca e concorrano a rafforzare il
tessuto sociale.
L’etica cui la politica deve riferirsi può essere dunque ricavata soltanto ricuperando le
istanze morali derivanti dalla società civile
nel suo complesso. La possibilità che la politica si nutra di contenuti valoriali (e dunque in qualche misura si eticizzi) è, in definitiva, legata alla capacità che si ha di far
emergere, al di là delle etiche proprie dei singoli e dei vari gruppi sociali, valori condivisi, che possono (devono) essere posti alla
base dei progetti di edificazione della convivenza.
irrinunciabilità di alcuni valori
Esiste perciò un rapporto di proporzionalità diretta tra il livello dell’ethos collettivo di
un popolo e quello della politica, nel senso
che questo ultimo riflette (e non può che riflettere) la ricchezza (o la povertà) dei processi che si sviluppano nell’ambito del primo. È dunque ingiustificato contrapporre –
come talvolta avviene con atteggiamento
qualunquistico – società e Stato, rivendican-
do la trasparenza e l’integrità della società e
denunciando invece la condizione di immoralità e di corruzione presente all’interno
delle istituzioni pubbliche. Tra società e Stato sussiste in realtà una grande continuità,
essendo, in larga misura, la politica, pur con
le innegabili e gravi responsabilità dovute al
ruolo di primaria importanza che è chiamata a svolgere, lo specchio della società, anche negli aspetti deteriori di tutela di egoismi particolaristici o di interessi corporativi
che spesso la caratterizzano: il clientelismo,
che costituisce una delle piaghe più negative della vita pubblica del nostro Paese non
attecchirebbe se la domanda di clientela non
fosse profondamente radicata nella società.
L’attenzione a questo rapporto di continuità
e l’importanza perciò di sollecitare un forte
risveglio etico all’interno della società, non
devono farci tuttavia dimenticare che la politica esige per se stessa la presenza di alcuni riferimenti valoriali, che rivestono il carattere di precondizioni necessarie all’esercizio della sua azione, e sono dunque costitutivi della sua stessa identità. Si tratta di
istanze di ordine generale, che vanno incarnate, di volta in volta, in modo appropriato
nei diversi contesti situazionali e socioculturali. Si vuole alludere qui al primato della
persona mai riducibile a mezzo, alla centralità della società, in quanto discendente dal
carattere costitutivamente relazionale della
persona, e perciò alla subordinazione ad essa
dello Stato, al rispetto del pluralismo e al riconoscimento (non solo teorico) dei diritti
delle minoranze, fino all’accettazione di «regole» e «procedure», che, in base a un complesso e delicato sistema di pesi e di contrappesi, garantiscono la democraticità delle
decisioni e la possibilità dell’alternanza nella gestione del potere, assicurando l’attuazione di una convivenza democratica e partecipata.
funzione etica della politica
Ribadire – come si è fatto – la funzione centrale della società civile nella determinazione dell’ethos che deve fornire la base ai processi messi in atto dalla politica non può
significare, d’altra parte, rifiuto a riconoscere a quest’ultima una strutturale eticità,
connessa al fine che essa deve perseguire,
la promozione del bene della polis. Questo
significa che la politica, lungi dal poter essere considerata come un ambito del tutto
neutrale, è piuttosto investita della fondamentale funzione di dare contenuto situato e operativo a quei valori civili e sociali,
che concorrono alla concreta attuazione del
bene comune (o dell’interesse generale). Il
che comporta – come giustamente ci ha ricordato Max Weber – che il modello al quale essa deve riferirsi è quello dell’etica della
responsabilità; di un’etica cioè che senza rinunciare ad un costante confronto con i
valori, che rappresentano il riferimento
obbligato per scelte liberanti, e tenendo in
seria considerazione la rettitudine delle intenzioni soggettive, ha tuttavia come obiettivo il perseguimento del risultato concreto. Un’etica che non si limiti dunque ad affermare a parole l’adesione ai principi, ma
si sforzi di renderli efficacemente presenti
nel vivo delle situazioni concrete e che si
misuri pertanto, di volta in volta, con le
conseguenze delle azioni, preoccupandosi
del bene «possibile» e accontentandosi talvolta del male minore.
L’uomo al quale la politica fa riferimento
nell’elaborazione del suo progetto di società
è infatti l’uomo concreto, contrassegnato dal
limite e dalla caducità (per il cristiano dalla
dimensione creaturale) e soggetto all’esperienza del male presente nel mondo come
realtà mai del tutto vincibile, con la quale è
necessario fare concretamente i conti. L’etica della e nella politica deve essere dunque
un’etica realistica, non proiettata verso obiettivi irraggiungibili, ma capace, anche grazie
a precisi interventi strutturali, di intervenire
efficacemente nei confronti delle ingiustizie
esistenti; ingiustizie che possono essere vinte solo se, accanto ad una profonda sensibilizzazione delle coscienze, si sviluppa
un’azione volta ad incidere sui processi socioeconomici per modificarne radicalmente il corso.
ROCCA 1 APRILE 2006
dalle etiche all’ethos
Giannino Piana
27
poteri forti
ROCCA 1 APRILE 2006
Romolo
Menighetti
28
cosiddetti poteri forti sono quelle realtà – economiche, finanziarie, produttive, culturali, sociali, professionali
e quant’altro – in grado di influenzare
la politica nazionale, al di là del Parlamento, o meglio, servendosi di esso,
ridotto però a semplice paravento dell’apparenza democratica. I poteri forti, infatti, prendono le loro decisioni al di fuori
delle Aule, e poi, attraverso i loro collegamenti con il circuito politico-istituzionale, li impongono come risultante dell’attività governativa e legislativa. Il Parlamento resta ancora, sul piano giuridico-formale, l’organismo di potere attraverso il quale il popolo esercita la sovranità. In realtà
potere e sovranità sono nelle mani di una
ristretta oligarchia.
I poteri forti, in quanto possono plasmare
il potere politico ai loro interessi, rappresentano una radicale minaccia per la democrazia. Essi, infatti, negano la stessa
definizione di democrazia. Non più potere del popolo per il popolo, ma potere di
pochi, per pochi. Essi sono espressione
della separazione tra democrazia ed istituzioni, tra istituzioni e potere.
Da qui la necessità che la politica non scenda mai al di sotto di un certo livello di autorevolezza e dignità, onde poter sempre
mantenere il primato sui poteri forti.
In Italia, fino a qualche tempo fa, il potere
forte per eccellenza era rappresentato da
Enrico Cuccia con la sua Mediobanca, che
costituiva il punto di gravità permanente
tra capitale pubblico e privato.
Ora, nell’attuale fase di riassetto della situazione politico-finanziaria dell’Italia, che
vede il tramonto del progetto neocentrista
«cattolico» (dimissioni di Antonio Fazio da
Bankitalia e sua sostituzione con il laico
Mario Draghi; fallimento della scalata alle
banche degli immobiliaristi guidati da
Francesco Caltagirone, suocero di Pierferdinando Casini, massimo esponente del neocentrismo cattolico) i poteri forti risultano essere, prima di tutto, i «monopoli» (telecomunicazioni, energia, trasporti) che,
grazie ad una privatizzazione senza liberalizzazione, hanno rafforzato il loro potere. E poi ci sono le banche.
Ma il potere si coagula anche attorno ad al-
I
tri centri tradizionalmente forti. Ne elenchiamo i più importanti, con le particolari caratterizzazioni che attualmente presentano.
La gerarchia cattolica italiana. Stando al
corteggiamento e alla strumentalizzazione cui è oggetto da parte di molti politici
italiani (in gran parte non praticanti), è
accreditata di notevole potere. Però non è
facile stabilire la reale incidenza sugli
orientamenti sociali e politici dei credenti.
Confindustria. Dopo anni di collateralismo
con Berlusconi, ora Montezemolo è alla
ricerca di una precisa collocazione sulle
scelte determinanti del Paese.
Confcommercio. Già battagliera protagonista contro l’euro e il governo Prodi (tax
day), ora è in calo per l’incriminazione del
suo presidente Billè.
Massoneria. Assorbiti gli effetti giudiziari
conseguenti allo scandalo P2, mantiene un
basso profilo, anche se molti suoi affiliati
siedono in Parlamento e nei consigli di
amministrazione di banche, assicurazioni
e imprese varie.
Banca d’Italia. Ridimensionata come potere dalla recenti scelte dell’ex governatore (ostracismo all’euro, previsione sbagliata circa un nuovo miracolo economico italiano, gestione spericolata delle scalate alla
banche) è tornata, dopo il «cattolico» Fazio, entro l’orbita della finanza «laica».
Aspen Institute. È un’associazione privata
internazionale, nata negli Stati Uniti nel
1950 per iniziativa di un gruppo di uomini
d’affari e intellettuali statunitensi. Studia
«i problemi e le sfide più attuali della società e della business community». I suoi
soci, importanti esponenti di diversi aspetti
del potere politico, economico e finanziario internazionale, si incontrano nell’annuale convegno esclusivo che si tiene a settembre a Villa d’Este, sul lago di Como.
Presidente per l’Italia è il Ministro berlusconiano dell’economia e vicepremier Giulio Tremonti. L’Aspen appare come nuovo
potere forte emergente.
Ma tanti altri sono i poteri forti, che si coagulano attorno a interessi specifici: docenze universitarie (Fondazione Magna
Carta), farmaci, assicurazioni, giornali,
armi, petrolio, e, giù giù, fino ai tassisti.
Poi ci sono le mafie.
PROGRAMMI ELETTORALI
punti caldi
a confronto
Umberto Allegretti
Roberta Carlini
Fiorella Farinelli
economia
PROGRAMMI ELETTORALI
non sono tutti
uguali
30
P
Ma è meglio fermare qui lo sport della
«caccia alla bugia», e prendere i programmi sul serio per quello che contengono e
promettono. Cominciando con una notazione: la sconfessione del luogo comune
«sono tutti uguali». Un luogo comune che
alligna da sempre nell’animo profondo di
un pezzo dell’Italia, qualunquista o rassegnata: un pezzo d’Italia che prima si ascriveva genericamente alla destra e che finiva per non votare o votare per la conservazione dell’esistente. Ma che ormai da tempo – da quando esiste ed è politicamente
rilevante anche l’astensionismo di sinistra
– si trova anche dall’altra parte dello schieramento, dalla parte di quanti vedono o
temono una sostanziale omogeneità tra i
due poli, e pensano che in fondo la gara
elettorale sia una gara per la conquista del
potere che alla fine poco cambierà delle
nostre condizioni di vita, lavoro, salute,
eccetera eccetera.
libertà e identità
Non è così. Per quanto ricoperti di quel
cerone che l’obiettivo elettorale comunque
sparge in quantità, i due programmi mostrano due diverse (e reali) facce. Frutto
di diverse identità e di opposti approcci alla
politica e al governo del paese. Può piacere l’una o l’altra, o possono non piacere
entrambe, ma sono due facce diverse.
Il programma della Casa delle libertà, nell’enunciare i valori di riferimento, parla
chiaramente di «libertà e identità», aggiungendo una forte e aggressiva componente
di «difesa» (difesa dei valori europei, della
nazione, delle nostre imprese e merci, delle radici religiose) alla più alata e generica
invocazione della «libertà». Dal piano dell’Unione emergono invece altre parole d’ordine, la parola più gettonata è «solidarietà» e le aperture (agli «altri» nella politica
dell’immigrazione, alla «multilateralità»
nella politica internazionale, alla «pace
preventiva») prevalgono. Ma con molte ed
enormi timidezze, quasi che la paura, sentimento su cui fanno leva le proposte di
chiudersi nella fortezza Nord-Est, o nella
fortezza Italia, o nella fortezza Europa,
fosse entrata a pieno titolo in tutte le agende politiche. Non si spiega altrimenti perché, nel dedicare giustamente attenzione
al capitolo della cittadinanza degli stranieri, il programma dell’Unione si fermi alla
generica invocazione di «ridurre il periodo di attesa»; perché non si può semplicemente dire, come dicono le leggi di paesi
di antica immigrazione come gli Stati Uniti, che si è cittadini del Paese in cui si nasce. Dunque, chi nasce in Italia è cittadino
italiano.
continueremo...
Passando ai temi economici, le differenze
sono evidenti. Oltre ai tanti «continueremo» e alla promessa di «un ulteriore milione di posti di lavoro», il programma
della Casa delle libertà lancia alcune proposte rivelatrici. Per il Sud, alle tradizionali infrastrutture da costruire o sbloccare si aggiungono «zone e porti franchi» e
una «banca del Sud»: da un lato, l’idea che
solo con zone libere da lacci, tasse, regole
e controlli si possa sviluppare l’economia;
dall’altro, un veicolo per far arrivare finanziamenti e soldi, con una banca ad hoc. E
ancora: per il lavoro, si propone la detassazione degli straordinari. Che è in ultima
analisi un incentivo a fare più straordinari. Naturalmente ne saranno contenti i lavoratori che possono così arrotondare i
loro magri stipendi, e anche le imprese che
possono spremere fino all’ultimo il personale che hanno già, senza dover assumerne altro: una misura che può creare consenso, ma è difficile che crei «ulteriore»
occupazione.
Per la casa, che è uno dei temi-clou di questa campagna elettorale, si propone di continuare il modello «tutti proprietari»: vendendo le case popolari per pochi soldi agli
inquilini, dunque finendo per dare la casa
solo a chi già ce l’ha. E promettendo nuove costruzioni, vendite e mutui per tutti gli
altri. Infine, sulla finanza pubblica si propone di incidere sul debito vendendo il
patrimonio: la prosecuzione di una politi-
ca avviata dai tempi delle cartolarizzazioni. C’è ancora tanto da vendere, dice Tremonti ogni volta che va in tv; aggiungendo
che i proventi di queste vendite dovrebbero andare a ridurre il debito, dunque non
a finanziare la spesa corrente né la riduzione delle imposte (anche queste promesse): dunque, chi pagherà per la spesa o le
minori tasse?
risanamento e rilancio
Non che il programma dell’Unione sia
molto più dettagliato sul «chi pagherà»
(siamo in campagna elettorale, non dimentichiamolo: ma sarebbe bene che «loro»
non dimenticassero che gli elettori e le elettrici si sono abituati a far di conto). Stavolta l’Unione non punta solo sul risanamento, né sulla politica dei «due tempi»
(prima aggiustiamo i conti, poi ridistribuiremo i benefici: politica che nel ’98 costò
la presidenza del consiglio a Prodi). Risanamento e rilancio, per Prodi, vanno insieme. Dunque il programma è ricco di
spese da fare: per generalizzare i benefici
del welfare, dare la copertura della disoccupazione a tutti, elargire un assegno per
ogni bambino che nasce, fondare 2.500
asili nido in più, finanziare con crediti
d’imposta le assunzioni a tempo indeterminato e le assunzioni di ricercatori, fare
domanda pubblica nei settori innovativi ed
emergenti, garantire un nuovo sistema di
assistenza e sanitario adeguato all’invecchiamento dell’Italia, rifare edilizia sociale e sostenere l’affitto… Proposte nuove e
vecchie, all’impronta del rinnovamento del
modello «stato più mercato» che ha caratterizzato la tradizione europea senza mai
riuscire a decollare davvero nell’Italia dei
clientelismi, del debito pubblico, dell’evasione fiscale.
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
Roberta
Carlini
rima ancora che i contenuti, i due
programmi contrapposti che sono
dietro la scheda-lenzuolo che il 9 e
10 aprile troveremo nell’urna riflettono lo stile radicalmente differente dei due schieramenti e dei due
candidati premier. Il programma dell’Unione è poderoso, prolisso e numeroso (281
pagine, decine e decine di proposte); quello
della Casa delle libertà ha uno stile decisamente più snello e pubblicitario (22 pagine, la gran parte delle quali dedicate all’illustrazione di quanto già fatto). Il primo ha
un titolo: «per il bene dell’Italia». Il secondo dice solo: «programma elettorale 2006»,
e sotto il logo della Casa. Il primo sembra
un libro, il secondo un opuscolo di quelli
che si trovano nelle sale d’attesa dei dentisti. Sul primo devi faticare per ore prima di
individuare le proposte specifiche per fare
«il bene dell’Italia»; sul secondo lo sguardo
scorre veloce e trova subito le conferme in
un verbo, «continueremo», ripetuto decine
di volte. Diciamo la verità: fanno sbadigliare, il primo per eccesso di parole e il secondo per eccesso di «già sentito».
Detto questo, vanno letti e riletti e commentati, per capire quel che ci aspetta. In
particolare nel campo delle politiche sociali ed economiche, se è vero che la gran
parte dei problemi che angustiano le famiglie italiane vengono dalla riduzione di
quelle che Keynes chiamava «le prospettive economiche per i nostri nipoti»: i quali
nipoti ci saranno, visto che per fortuna il
trend della riduzione delle nascite in Italia
sembra essersi finalmente invertito, ma
rischiano di ereditare un paese sempre più
impoverito, visto che l’Istat ha testimoniato per il 2005 la «crescita zero» della nostra economia. E qui va citata per manifesta sfacciataggine una frase che è scritta
nel programma della Casa delle libertà, ove
si parla della «tenuta dell’economia, ora
finalmente in ripresa, con un buon tasso
di crescita coerente con la nostra posizione in Europa». (Per quanto edulcorati e
propagandistici possano essere i programmi elettorali, un minimo di riferimento alla
realtà sarebbe consigliabile).
chi pagherà?
Tutte proposte che darebbero risorse ma
richiedono risorse, fermo restando che il
Patto di stabilità europeo è un limite all’indebitamento dei governi. Dove trove31
questione sociale
ranno le risorse, Prodi e gli altri? «Riordino» degli strumenti esistenti è una della
risposte: ma è limitata, nell’ammontare e
nel tempo. «Lotta all’evasione» è un’altra
risposta: e non c’è dubbio sul fatto che
dopo cinque anni di condoni qualcosa da
fare ci sia, qualche dubbio semmai è sul
tempo che ci vorrà per ricostruire una
macchina dell’accertamento fiscale completamente smantellata.
In modo molto accidentale, quasi per caso,
ci si imbatte poi in una frase: «abolizione
degli ingiustificati vantaggi fiscali per le
rendite». Le rendite, ossia i guadagni che
non vengono dal frutto del lavoro (salario)
né da investimenti produttivi (profitti): ma
da patrimoni immobiliari, mobiliari, investiti in modo più o meno speculativo. Ci si
indigna ogni volta che qualcuno propone
di metterci mano – e la stessa timidezza di
quella frase mostra tutta la paura nel farlo
– ma qualcuno può spiegare perché la pro-
posta di un 12% sulle rendite da patrimonio sia più scandalosa della realtà del 2730% sui redditi da lavoro? Non solo. Tutte
le ricerche più serie dimostrano della colossale redistribuzione che in questi anni
si è avuta, dal lavoro alla rendita, tra i meno
ricchi e i più ricchi. Studiare, in una situazione di difficoltà economica e finanziaria come quella in cui siamo, forme per
cui i cittadini che hanno aumentato più
che proporzionalmente il loro benessere
contribuiscano in misura più che proporzionale al benessere di tutti, non sembra
poi tanto scandaloso: semmai, sarebbe
un’attuazione dell’art. 53 della Costituzione. La reintroduzione di un’imposta sulla
successione per i grandi patrimoni, proposta da Prodi (anche se non scritta nel
programma), sarebbe un primo passo simbolico in questa direzione.
Roberta Carlini
due opposte
filosofie
ROCCA 1 APRILE 2006
Fiorella
Farinelli
stato già detto ma vale la pena ripeterlo. Quello che colpisce, nel
programma «per il bene dell’Italia» del candidato Prodi e della
coalizione che lo sostiene, non è
tanto la lunghezza del testo, quanto lo stile espositivo. È un tratto importante, rivelatore di una cultura politica, anche nei quattro capitoli – I nuovi diritti;
Lavoro diritti e crescita camminano insieme; Migranti e nuovi italiani; Conoscere è
crescere – che sono specificamente dedicati ai temi del «sociale». Si arriva alle proposte, o meglio agli impegni di governo,
in modo molto argomentato, molto riflessivo, con un andamento che non dà niente
per scontato, ricco di analisi delle cose
come sono e come sono diventate, di statistiche e di dati, di confronti con gli altri
paesi.
È
immigrazione
Un capitolo emblematico è quello sull’immigrazione. Un tema che manca del tutto,
invece, nel programma del presidente del
consiglio, che cita la parola solo a propo32
sito delle politiche di prevenzione sanitaria («in particolare per i giovani e per gli
immigrati») e vi allude, solo indirettamente, nella premessa: dove si afferma la necessità di difendere «le nostre radici», di
«far rispettare la nostra civiltà da parte di
chi entra», di coniugare il valore della libertà con quello della «sicurezza della nostra identità».
Nel testo dell’Unione, al contrario, le proposte – il diritto di asilo, l’ingresso nella
cittadinanza, le politiche antidiscriminatorie e di integrazione, la modifica delle
politiche dei flussi ecc. – sono precedute
da un’analisi che riparte dai fondamentali. Dall’immigrazione come fenomeno
strutturale, che si deve governare ma non
si può eliminare; dai tre milioni di stranieri regolarizzati che sono ormai una risorsa essenziale del mondo del lavoro, nella produzione, nei servizi, e perfino in quelli più delicati e difficili dentro le nostre
famiglie; dal beneficio che viene alle casse
dell’Inps e al nostro sistema fiscale dai contributi e dalle tasse che pagano; dall’insostenibilità di norme che fanno degli immigrati degli «ospiti in prova perenne»,
dall’importanza per tutti noi di una loro
integrazione come cittadini con diritti e
con doveri, e dei pericoli viceversa di una
loro non-integrazione. E dall’assurdità –
dati della Corte dei Conti – di una spesa
pubblica per l’immigrazione che, su ogni
5 euro, ne dedica 4 alle azioni di contrasto, detenzione, espulsione, che rialimentano la clandestinità, e 1 soltanto alle politiche di integrazione.
Non sono dunque proposte che derivano
solo da sistemi valoriali o da scelte etiche:
il testo analizza, presenta argomenti, non
grida e non adotta le tecniche della persuasione, vuole discutere e tramite la discussione convincere.
politiche sociali nuove
Da dove deriva questo stile espositivo?
Dall’insopportabile presunzione pedagogica di una cultura politica antica che
deve sempre spiegare ogni cosa prima di
avanzare anche la più piccola proposta?
O dalla necessità – come insinuano i numerosi detrattori – di mascherare con
un’abbondanza di parole la pluralità delle posizioni politiche che si accalcano sotto le bandiere dell’Ulivo? Non è da escludere che questi elementi abbiano un qualche peso, ma – guardando anche agli altri
temi del «sociale», il lavoro, la casa, la
sanità, l’istruzione – le ragioni di fondo
sembrano piuttosto altre. Intanto la necessità di ricostruire analisi e significati
condivisi, contro la confusione che c’è sicuramente negli elettori, e forse nelle stesse forze politiche, attorno a temi che sono
stati utilizzati come clave o come manifesti ideologici, o che sono stati insistentemente devastati dalla disinformazione
e dal fragore dei media. Ma anche e sopratutto l’esigenza di elaborare politiche
sociali nuove, attente alla tutela dei più
deboli ma lontane dall’assistenzialismo,
dal welfare che risarcisce ma che non promuove, da strumenti che sanciscono la
minorità delle persone, e forse le mortificano, ma non le aiutano a trovare una
propria strada soddisfacente.
È questa transizione da politiche sociali
«passive» a politiche «attive», all’ordine del
giorno in tutti i paesi europei, che in Italia
si rivela come particolarmente difficile: e
proprio perché i processi di innovazione
avviati negli anni ’90 sono stati interrotti e
smentiti da un liberismo così sgangherato
ed iniquo da indurre molti a tornare indietro, a prima di quel decennio, ai vecchi
miti e ai vecchi strumenti delle politiche
sociali degli anni settanta.
Lo si vede benissimo analizzando la parte del programma dedicato ai problemi
del lavoro, dove l’impegno a coniugare
tutela e promozione senza chiudere gli
occhi di fronte alle trasformazioni dell’economia e del mercato del lavoro appare assolutamente evidente. A proposito del precariato, per esempio, non ci sono
proposte mirate solo al contenimento del
fenomeno (basate sull’eliminazione delle
maggiori convenienze economiche del
lavoro precario rispetto a quello stabile,
sul superamento dei dispositivi peggiori
della legge 30, sull’incentivazione del lavoro a tempo indeterminato ecc.), ce ne
sono anche altre per la costruzione di reti
di sicurezza (ammortizzatori sociali, strumenti previdenziali, formazione permanente ecc.) che riducano l’impatto negativo di una flessibilità del lavoro che è
ormai impossibile eliminare del tutto. E
altre ancora che, senza negare la possibilità del lavoro interinale, tornano sulla
stessa normativa introdotta dieci anni fa
dal centrosinistra per migliorarne la regolamentazione.
Stessa intenzione di calibrare vecchio e
nuovo c’è anche rispetto ai problemi previdenziali: se da un lato occorrono nuovi
strumenti di sostegno delle pensioni che
sono state erose dal costo della vita, non
solo quelle «al minimo» ma anche quelle
di livello più alto ma ormai insufficienti
ad una vecchiaia dignitosa, dall’altro si
accetta ormai che le pensioni da lavoro
debbano essere integrate da strumenti previdenziali complementari, e ci si occupa
di come alimentarli e disciplinarli. Non si
può, insomma, tornare al passato come se
Berlusconi fosse un incidente della storia,
e come se il consenso di cui ha goduto – e
di cui ancora gode – non nascesse anche
da un evidente logoramento, di fronte ai
processi economici e sociali nuovi, della
cultura tradizionale della sinistra politica
e sindacale.
Per i problemi della casa, quindi, non si
può proporre solo nuova edilizia pubblica
popolare, ma anche mutui agevolati per le
giovani coppie che vogliono acquistarla,
ma anche dispositivi per raffreddare la
corsa alla speculazioni sugli affitti e sulle
compra-vendite.
Per la sanità, non si può solo impegnarsi a
destinare più risorse pubbliche, ma occorre anche lavorare ad eliminare gli sprechi
e le inefficienze di sistemi malgestiti.
Per i giovani, non bastano scuole e università migliori o sussidi di diritto allo studio
a fondo perduto, bisogna anche – come in
Germania, Regno Unito, Svezia – erogare
ROCCA 1 APRILE 2006
PROGRAMMI ELETTORALI
33
istituzioni
PROGRAMMI ELETTORALI
liberismo a tutto campo
ROCCA 1 APRILE 2006
Assai più facile, al contrario, è l’elaborazione programmatica dell’altra parte. Intanto perché si presenta come la «continuazione «di quello che è stato già fatto in
questi anni, rispetto a cui non sembrano
esserci dubbi né ripensamenti, e tanto
meno il bisogno di nuove analisi». E poi
perché la filosofia è quella liberista di sempre: si tratta di «liberare» il più possibile
le famiglie, le persone, le imprese dal peso
del fisco e poi lasciare che ciascuno, con
le proprie risorse, acquisti quello che vuole e che è in grado di procurarsi, i servizi,
l’istruzione, la sanità, la casa. Si tratta quindi di «abbattere la manomorta del debito
pubblico», di ridurre la spesa sociale, di
alleggerire non solo la burocrazia ma anche il ruolo dei sistemi pubblici, e di sostenere con agevolazioni i soggetti privati.
Le politiche per le famiglie vedono al centro l’applicazione del «quoziente familiare», per calibrare l’imposizione fiscale sulle caratteristiche del nucleo (che dev’essere, naturalmente, quello del modello
tradizionale), quelle per il lavoro non ci
34
sono (perché la legge 30 è perfetta, l’occupazione cresce, il precariato è moderna flessibilità e al resto ci penseranno le
imprese), quelle per l’immigrazione neanche.
Per la casa, la prospettiva principale è quella di continuare a vendere il patrimonio
pubblico e, con quelle risorse, erogare
mutui agevolati per gli acquisti; per la sanità è «ridurre le liste di attesa»; per l’istruzione, è garantire i libri di testo gratuiti
fino ai 18 anni e sostenere la libertà di scelta delle famiglie tra il pubblico e il privato.
Non c’è da convincere nessuno con le analisi, gli argomenti, la definizione della fattibilità delle diverse misure, bisogna solo
persuadere, con le stesse tecniche della
pubblicità commerciale. Non mancano,
quindi, i messaggi rivolti a target particolari, quelli che dovrebbero votare per la
Casa delle Libertà a scatola chiusa.
Per gli anziani, c’è l’innalzamento delle
pensioni minime a 800 euro, l’eliminazione del canone di abbonamento televisivo
e la «carta d’oro» con cui i settantenni arzilli potranno andare gratis al cinema e allo
stadio.
Per le donne che lavorano – che in Italia
sono assai meno che in altri paesi europei
e che non godono di una situazione di pari
opportunita – ci sono solo asili nido «sociali e aziendali».
Per le coppie che tardano a fare figli, magari perché entrambi i potenziali genitori
sono precari, c’è il «bonus» una tantum per
ogni nuovo nato e la promessa di sussidi
per comprare il latte artificiale fino ai sei
mesi di vita dei bambini.
Per i clienti delle banche, che negli ultimi
anni sono più volte incorsi in guai prodotti dagli istituti di credito, c’è la promessa
che si potranno trasferire i conti- corrente
senza oneri – proprio «come un cellulare»
– da una banca all’altra.
Infine, per le famiglie dei malati mentali
e per tutti quelli che nella legge 180 vedono il segno di una cultura sociale e medica perversa, di un antico antiautoritarismo che sovverte ogni sano valore, c’è
l’impegno ad abbattere presto anche quella norma. Una filosofia spiccia, disinvolta, basata sulla definizione di prodotti
specifici per particolari gruppi di clienti,
fatta di spot più che di argomenti: mortificante per quanti, tra gli elettori, vorrebbero vederci chiaro e votare a ragion veduta; ma forse ancora assai attraente per
molti altri.
Fiorella Farinelli
progetti europei
e internazionali
Umberto
Allegretti
aranno decisivi per l’Italia, e molto
influenti anche sull’Europa, i risultati delle elezioni politiche e il di
poco seguente referendum sulla riforma costituzionale approvata dal
centrodestra, la cui entrata in vigore è subordinata all’esito del voto referendario già promosso, dati i contenuti
della riforma, sia dai parlamentari dell’attuale opposizione che da ben 15 regioni e
da quasi un milione di elettori. Perciò sembra di grande importanza un confronto fra
i programmi che le due coalizioni presentano al corpo elettorale, confronto che noi
faremo per i progetti istituzionali, europei
e internazionali.
S
Costituzione, Stato, Autonomie regionali
Cominciamo dai problemi istituzionali interni. Il terreno è reso aspro da una riforma costituzionale che porta all’estremo le
prassi e i propositi già seguiti dalla destra. Essa infatti conferirebbe alla maggioranza – anzi, neppure all’organo governo, ma all’individuale posizione del primo ministro – dei poteri esorbitanti di dominio sul parlamento, le cui funzioni e la
cui stessa sorte sarebbero rimesse interamente all’imposizione da parte del premier della questione di fiducia per ogni
decisione importante e alla sua decisione
di scioglierlo (con svuotamento dei poteri di arbitrato del presidente della repubblica). Per altro verso, darebbe nelle mani
delle regioni settori delicatissimi come
l’assistenza e l’organizzazione sanitaria e
la gestione del sistema scolastico, mettendo a grave rischio fondamentali diritti
sociali dei cittadini e la loro uguaglianza
in tutto il territorio del paese, e simulando oltretutto, ma non attuando, la trasformazione del senato in una camera delle
regioni, le cui funzioni sarebbero confusamente distinte e intrecciate con quella
della Camera dei deputati, la sola dotata
(nominalmente) del potere di fiducia verso il governo.
La difesa della riforma è ovviamente posta dalla destra al vertice del suo programma e la vedrà impegnata per sostenerla
nella campagna referendaria. Quanto al
centrosinistra, esso vi contrappone il voto
referendario che dovrà seppellire questa
profonda alterazione della Costituzione,
assieme alla rigorosa affermazione che
nessuna «grande riforma» è necessaria né
utile per i problemi del paese. Rinnegata
così una tentazione che spesso ha percorso in passato anche le file della sinistra, il
programma si propone di approvare immediatamente nel nuovo parlamento, con
l’auspicato concorso della contrapposta
coalizione, l’elevamento della maggioranza richiesta per ogni riforma costituzionale, rispetto a quella attuale che può essere anche solo quella del cinquanta per
cento più uno. Per poi prospettare che –
sempre in collaborazione tra tutte le forze – vengano approvate con singole separate leggi di revisione, da sottoporre a distinti referendum, modifiche della Costituzione che migliorino il sistema delle
garanzie, come contrappeso al già intervenuto e tuttora auspicato rafforzamento
del governo.
Un modo di rapportarsi alla Costituzione,
dunque, estremamente corretto, che si tradurrebbe nell’aumento delle maggioranze
necessarie per la nomina del presidente
della repubblica e dei presidenti delle due
camere, nell’istituzione della possibilità di
ricorso alla Corte costituzionale – normale in altri paesi e consono a uno stato di
diritto – per i vizi nell’elezione e sulle questioni di ineleggibilità e incompatibilità dei
parlamentari e dei membri del governo, e
in altre utili garanzie contro il prepotere
della maggioranza di turno.
Meno lineari le proposte per razionalizzare il sistema delle autonomie regionali e
locali e i rapporti stato-autonomie. A questo riguardo, si converge giustamente sulle modifiche restrittive già lodevolmente
incluse nell’attuale grande riforma costituzionale, volte a togliere alle regioni alcuni poteri eccessivi conferiti loro dalla
riforma costituzionale del 2001 (in tema
ad esempio di reti dell’energia, del trasporto e delle comunicazioni); e per converso
si spazzano via le cosiddette devoluzioni
alle regioni di nuovi poteri, di cui si è già
35
ROCCA 1 APRILE 2006
prestiti che potranno essere restituiti dopo
la stabilizzazione professionale, con cui
sviluppare una responsabilizzazione delle
persone rispetto al proprio futuro.
Più in generale, per assicurare i servizi sociali necessari a tutta la popolazione, occorre certo sviluppare e qualificare il pubblico, ma anche sostenere e regolamentare il contributo del privato e del privato
sociale. Una filosofia del sociale, insomma, che cerca di stare in linea con le indicazioni europee e con le politiche che mettono al centro la promozione – non solo la
tutela – delle persone; la difesa non sopratutto o unicamente dei posti di lavoro esistenti ma in primo luogo della capacità di
tenuta dei soggetti nel mercato del lavoro.
Che recupera l’importanza della concertazione tra le parti sociali e il ruolo insostituibile del sindacato, e tuttavia non mostra indulgenza per i corporativismi da
chiunque difesi: fino al proposito di rivisitare una norma sulla regolamentazione
degli scioperi che, con tutta evidenza, non
basta ad evitare la sopraffazione degli interessi degli utenti da parte delle categorie
più forti. Ma questi nuovi equilibri non
sono facili, e dunque occorrono analisi
puntuali, argomenti di merito, proposte
sostenibili, misure effettivamente praticabili. Non bastano né le bandiere né gli editti, insomma, occorre convincersi e convincere.
istituzioni
PROGRAMMI ELETTORALI
la questione giustizia
ROCCA 1 APRILE 2006
Sulla giustizia, il centrodestra intende
completare le riforme già compiute stabilendo la totale separazione delle carriere
tra pubblici ministeri e giudici, aggravando il regime delle responsabilità disciplinari, civili e persino penali dei magistrati,
inasprendo le pene (soprattutto per i reati
minori e non certo per quelli di corruzione o amministrativi).
L’Unione, invece (non possiamo qui entrare in tutti i particolari), propone di azzerare quelle riforme quanto meno in tutte
le parti più insostenibili, escludendo fra
l’altro ogni rigidità nell’accesso alla funzione giudicante e a quella requirente, ogni
selezione che si presti a finalità di controllo dell’orientamento dei magistrati e ogni
formalismo concorsuale nelle promozioni, sopprimendo ogni gerarchizzazione
negli uffici del p.m. e riconducendo la Cassazione alle sue funzioni di legittimità. È
chiaro che tra le riforme da accantonare
dovrebbero esserci la legge ex-Cirielli e la
legge Pecorella, che hanno apportato guasti gravi al sistema.
Invece, utili riforme proposte nel programma, che aderiscono, pur non tutti accogliendoli, a orientamenti ormai maturati,
vanno nella direzione – richiesta sia da ragioni di efficienza e rapidità del servizio
giustizia che dal fine di ottenere una giustizia più giusta – di migliorare l’organizzazione giudiziaria, costituendo l’ufficio
del processo che collabori col giudice sollevandolo dalle incombenze più minute,
assicurando criteri migliori – ma un po’
generici, bisogna dire, nelle nomine dei
capi-uffici, ed altre ancora. In ogni caso,
l’Unione promette un più corretto rapporto tra governo e magistratura, che dovrebbe togliere dal campo i problemi più gravi
di questi anni.
36
Sull’amministrazione, è impressionante la
carenza di ogni proposito della destra (se
si esclude una generica modernizzazione
e una politica di informatizzazione). Abbondante, invece, la serie di proposte dell’Unione. Il ripristino dell’imparzialità,
contraddetta dal governo a partire dalle
legge Frattini e da tutta la prassi, che richiede di tornare al reclutamento per concorso e al rispetto dell’autonomia dei dirigenti nei confronti dei vertici politici.
La ripresa di una messa a punto dei sistemi di controllo dei risultati e di assicurazione della responsabilità dei funzionari.
L’impegno di assumere 1000 giovani laureati selezionati per le nuove professioni
e altre proposte per realizzare una forte
professionalità in seno alle amministrazioni.
Europa identità e pace
Passando alla politica europea e internazionale, notiamo che non a caso non sono
trattate in forma specifica dal documento
della destra se non come supporto di legittimazione e di realizzazione delle scelte interne, che la politica estera ha avuto
nel governo Berlusconi.
Afferma l’impegno nei confronti dell’Europa» e insieme «la nostra alleanza con gli
Stati Uniti», senza però chiarire su come
raggiungere obiettivi che, in concreto, il
governo ha seguito nell’intero quinquennio in forme incompatibili tra loro. Notevole la totale assenza di ogni presa di posizione sulla gravità dei problemi del Sud
del mondo, la riaffermazione di un esclusivo nesso pace-libertà, nessuna indicazione su come affrontare i conflitti – compreso quello irakeno – e la mancanza di proposte sulla riforma delle istituzioni internazionali, sulla ripresa del processo di costituzionalizzazione dell’Europa e sul rinsaldamento delle politiche europee entrate in quest’anno in plurime e gravissime
crisi.
Un punto poi è particolarmente rivelatore: l’accento fortissimo messo sul concetto di «sicurezza della nostra identità», indicato come valore guida della nostra politica. Non mancano ovviamente gli accenni espliciti alle radici giudaico-cristiane
dell’Europa e alla difesa dei valori religiosi, come pure la critica a ogni fondamentalismo. Tutto ciò vuol dire muoversi nella
linea di attizzare lo scontro interculturale
nel mondo. Si ripropone per il futuro «il
rafforzamento del contrasto all’immigrazione clandestina» e la precedenza nell’ammissione degli stranieri a quelli dei «Paesi
che garantiscono la reciprocità dei diritti».
Assolutamente opposto è il quadro che,
su tutto quest’arco di problemi, emerge
dal programma dell’Unione. Esso dedica due densi e distinti capitoli alle politiche europee e internazionali e lo fa recependo dall’insegnamento dei fatti in
corso e dalle proposte formulate in sedi
culturali e di opinione pubblica che da
tempo si battono su questi fronti (ad
esempio molte Ong) progetti e intenzioni apprezzabili.
Sull’Europa, ci si esprime con chiarezza
a favore d’una ripresa del processo di costituzionalizzazione, respingendo il prolungarsi di un dannosissimo status quo
e ogni fantomatico proposito di «nucleo
duro» (tra quali paesi, infatti, si potrebbe mai costituirlo?). Per tale processo –
che si pensa debba concludersi nel 2009
con un referendum unitario su scala europea – non si precisano però contenuti
più adeguati di quelli caduti coi referendum francese e olandese, né nel senso di
dare all’Unione (come i popoli europei
hanno mostrato di volere) strumenti
avanzati di politica sociale, e non solo
economica, e migliori istituti di democrazia, né nel senso di precisare il valore
e gli strumenti di una politica di pace.
Importante, però, che si proponga l’adozione fin da subito dei miglioramenti istituzionali attuabili anche senza un nuovo trattato, come l’istituzione di un ministro degli esteri europeo e l’abbandono del veto nelle decisioni di politica
estera; come pure che ci si riprometta di
usare della prossima presenza dell’Italia
nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite agendo in nome e per conto dell’Europa e che si esiga che l’Europa uniformi le sue politiche in seno a tutte le
istituzioni internazionali.
Si prende anche una posizione equilibrata sui problemi dell’allargamento, sottolineandone le rigorose condizioni ed
esprimendosi con nettezza solo a favore
dell’inserimento nell’Unione dei Balcani.
Viene invece richiamata la «politica di
vicinato» impostata dalla Commissione
Prodi, come adatta ad affrontare le relazioni con i paesi confinanti, tra cui occorrerebbe considerare, riteniamo, quelli delle sponde meridionale e orientale del
Mediterraneo.
Sulle politiche quotidiane dell’Unione, si
propone fondatamente l’incremento del
bilancio e il potenziamento dei fondi
strutturali e del fondo di coesione e l’uso
per politiche di investimento di prestiti
obbligazionari europei. Ma allora perché
non si raccolgono le proposte di istituire
tasse europee sulle transazioni commerciali a breve e sui trasporti aerei e marittimi? Apprezzabili sono anche alcune altre proposte, come quella di istituire un
«corpo civile di pace» per l’intervento nelle
crisi e di rispettare più rigorosamente le
restrizioni al commercio di armi verso i
paesi in guerra o violatori dei diritti umani.
Onu, rapporti Nord-Sud
Sui problemi internazionali in genere,
l’Unione promette un’applicazione rigorosa dell’art. 11 della Costituzione, un’azione sostenuta dai principi del multilateralismo nel quadro dell’Onu, del multipolarismo in cui l’Europa riequilibri, tra l’altro,
i rapporti transatlantici, della politica preventiva di pace, di legalità, equità e giustizia internazionale, e di cooperazione allo
sviluppo fuori dallle strettoie anche finanziarie che l’hanno fatta tanto gravemente
decadere in questi anni.
In questo contesto, si scarta la «riforma
oligarchica» del Consiglio di sicurezza fondata sul suo allargamento ad alcuni paesi
in qualità di membri permanenti e invece
si postulano una presenza in seno all’Onu
di organismi consultivi interparlamentari
e rappresentativi della società civile, l’appoggio alla proposta di istituire un Consiglio dei diritti umani e l’adozione, finora
molto contrastata dai paesi occidentali, di
dar vita a un Consiglio di sicurezza economico-sociale dotato (finalmente!) del potere di dare «indirizzi» obbligatori al Fondo monetario internazionale, alla Banca
mondiale e al Wto. Inoltre, si dichiara necessario sottoporre al parlamento, con votazioni separate, ogni spesa per missioni
all’estero: il che, vorremmo precisare, dovrebbe comportare un voto preventivo sull’invio della missione, in conformità del
principio risultante dall’art. 78 della Costituzione.
Perché non dichiarare più chiaramente,
allora, che il problema dei rapporti NordSud, in campo sia economico che culturale e politico, è il grave complessivo problema del mondo di oggi, e cominciare a
mostrare questa priorità nei nostri comportamenti concreti nel Mediterraneo, tra
l’altro collegando a questi, secondo un
orientamento culturale ampiamente motivato, l’affrontamento efficace della rinascita del nostro Mezzogiorno?
ROCCA 1 APRILE 2006
detto. Ma si rinuncia ad alcune interessanti
proposte, inizialmente previste nelle precedenti bozze del programma, riguardanti le competenze concorrenti tra Stato e
regioni che più hanno attizzato i loro cattivi rapporti (negli ultimi tempi diventati
veramente eccessivi). E inoltre non ci si
impegna – anche qui modificando le bozze – a rendere il senato una vera camera
regionale simile a quelle esistenti in vari
Stati federali, nella quale le regioni entrerebbero direttamente coi loro rappresentanti a dar vita a un luogo di compensazione di quei rapporti, a tutela insieme dell’autonomia dei territori e dell’unità nazionale.
Umberto Allegretti
37
ché assuma una qualche definitezza. Ecco,
proprio questo chiede Narciso al suo – alla
sua – partner. Che se ne stia là immobile, il
più possibile, e che resti là a guardarlo/a fisso, in modo tale che lui/lei si possa specchiare. E vedersi bello, grandioso, invincibile, attraverso lo sguardo ammirato degli altri.
Ecco perché i legami non funzionano: non è
ammessa la comunicazione di ritorno, solo
una è la via, solo andata, e il ritorno, paradosso dei paradossi dei miti, nel caso esista,
deve e può essere solo un’eco, che ripete mille
volte «sei tu il più bello del reame…!».
COSE DA GRANDI
bello
e impossibile
38
A
E il giusto equilibrio delle cose verrà ristabilito, il giorno in cui Narciso andrà alla fonte
in mezzo ai monti, e si avvicinerà per bere, e
dimenticherà perfino la sete nel vedere questa immagine di volto perfetto rispecchiata
dall’acqua, e stavolta crede di poter amare,
perdutamente irretito dalla propria bellezza, si illude che anche per lui sia scoccato
finalmente il giorno fatidico, e preso dal desiderio si spenzola sull’acqua per abbracciare quel volto. Si arrabbia, stavolta, Narciso,
perché quel volto, quella figura non si lascia
afferrare, e si uccide – lascia intuire Ovidio –
o cade o si getta nella fonte e annega – raccontano altri – abbagliato da una illusione.
Narciso e il non-amore
L’amore a circuito chiuso, tra me e me stesso/a, ecco la croce di Narciso. Innamorarsi
follemente, immaginando qualità sublimi
nell’altro/a, solo perché ci ha gratificato a
dovere, solo perché si è chinato/a ai nostri
piedi adorante, per poi gettarlo/a via senza
rimorsi quando ci avrà deluso o soltanto annoiato. Proprio perché ha continuato a fare
quello che all’inizio ci ha tanto ammaliato,
cioè vivere delle nostre briciole, pendere dalle
nostre labbra, camminare nella nostra ombra.
Il rapporto con il partner è di umiliazione
più o meno conclamata, è di prosciugamento della sua energia vitale e della sua generosa dedizione, e quando l’altro è ridotto ad
una larva, come il vampiro all’alba, Narciso
si allontana dalla sua ormai inutile vittima.
Non sa stare alla pari nei legami, Narciso,
lui non sa ascoltare, non ce la fa ad accogliere l’altro-da-sé, a stare davanti alla differenza, al confine dell’altro/a, si aspetta solo che
vengano confermate le sue aspettative, che
vengano accolte come verità assolute le sue
proiezioni. Non sa scorgere i moti dell’ani-
mo altrui, sa solo usare gli altri come mezzi,
utensili per un qualche suo scopo.
Ha uno spasmodico bisogno di essere ammirato/a, e usa tutti i mezzi per raggiungere
la sua meta: il podio del vincitore. Lui o lei
sono prede, trofei di caccia, bottini di guerra, spesso sottratti ai contendenti, e per ogni
testa impagliata in più sulla parete, Narciso
segna un punto a proprio favore, si riscatta
da una immagine di sé inadeguata e vacillante.
Proprio come quella rispecchiata dall’acqua
del lago, l’immagine di sé è, nella percezione che questa persona ne ha, tremula, indefinita, precaria. Bisogna che l’acqua sia immobile e bisogna guardarla fissamente per-
Alla fine la ninfa scacciata era invece esattamente ciò di cui il Nostro aveva più bisogno,
se solo non avesse piagnucolato tanto di volerlo amare come si deve. Ma Eco aveva anche lei i suoi bravi limiti, poveretta: non poteva più parlare, non sapeva più dire la sua.
E così ha firmato la sua condanna. Perché
la parola, quando è il frutto del pensiero,
quando è il distillato delle idee, è potente, e
svela le illusioni, fa cadere il velo e rompe lo
specchio. L’imperatore sarebbe nudo, se si
potesse parlare, pardon, se si potesse guardare e pensare.
Narciso la scaccerebbe lo stesso, e anche più
velocemente, una Eco che non facesse solo
l’eco. Ma almeno lei andrebbe a cercarsi
qualcun altro meno sordo nel cuore, invece
che struggersi di un amore impossibile fino
a consumarsi.
Il destino di molte donne – qui il genere femminile prevale in modo clamoroso – si compie proprio in questo dilemma: se penso, se
parlo, se rompo il gioco, allora mi lascia.
Allora imparo a non parlare, a volgere a Lui
– la maiuscola è d’obbligo, ma la divinità qui
è umana – il mio sguardo ammirato e sollecito, a farmi piacere questo servizio ancillare, e in cambio Lui mi terrà ai suoi piedi.
Non mi lasciare, sarò l’ombra della tua ombra, l’ombra del tuo cane, l’ombra della tua
mano, non mi lasciare, cantava Leo Ferré.
Allora il mio vuoto d’amore lo colmo da sola:
me la canto e me la suono, e vado distillando rare goccioline infinitesime di bene da
mari di acqua di scarico, e riempio il vuoto
del tuo amore che non c’è col mio amore
che diventa smisurato, grande, dipendente,
assoluto. Tanto poco ti percepisco nel rapporto, che conto ogni virgola, ogni battito di
ciglia, e mi interrogo per ore per cercare di
interpretarti, di non urtarti, e anticipo i tuoi
desideri, in modo che almeno, se proprio non
riesci ad amarmi, Tu non possa fare a meno
di me. E ti nutro di pane e ammirazione, di
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ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
Rosella
De Leonibus
sedici anni soltanto, Narciso, ci
racconta Ovidio, era già il più
bello del reame. E però, pur
avendo in dotazione un aspetto
che faceva innamorare chiunque
lo vedesse, lui non si sentiva attratto da nessuno. Neanche da chi – uomo o
donna – era disposto ad uccidersi per il dolore di non poterlo avvicinare. Cuore crudele, cuore di pietra… No, solo cuore impenetrabile, cuore inaccessibile, blindato, cuore
che non si commuove, non si sposta di una
virgola per nulla e per nessuno che sia diverso da se medesimo. O dalla propria immagine, stavolta, modernamente, non quella rispecchiata dall’acqua limpida del laghetto, ma
quella mediatica, per esempio, o quella pubblica.
Non piange, Narciso, non ha amici, solo
ammiratori, e nessuno lo interessa davvero.
Il mito racconta della ninfa Eco, la quale,
punita per il suo spettegolare, aveva avuto
tolto il dono della parola e poteva solo ripetere l’eco – appunto – delle parole altrui. Eco,
così menomata come era della capacità di
esprimere un suo pensiero autonomo, si innamora perdutamente di Narciso, perché si
sa, più gli uomini sono impossibili, e impassibili, e più ci attraggono. Vale per noi donne, ma non è nostra esclusiva, questo vezzo.
Lui non ci pensa due volte e la scaccia in
malissimo modo, ed Eco, vinta dal dolore
del rifiuto, si consuma pian piano, fino a che
di lei rimare solo il soffio – l’eco – della sua
voce. Puro suono, ogni volta un po’ più lontano e flebile, mai più solida carne e sangue,
Eco sfinita e mai morta, condannata per
sempre a non esistere, se non nella risposta
pedante e ripetuta al richiamo altrui.
Ma il popolo vede, tira le somme e non dimentica, almeno nei miti, e augura al bello e
impossibile di venire a sua volta rifiutato
come lui aveva fatto con gli altri.
Narciso e la sua eco
Narciso e il suo dolore segreto
ROCCA 1 APRILE 2006
C’è un punto che non abbiamo chiarito:
come avviene che qualcuno si leghi così tanto a Narciso? Forse perché fugge, rifiuta? O
per la sottile manipolazione che esercita sul
partner, tanto da farlo sentire all’inizio innalzato ed esaltato, e poi colpevole di una
qualche grave omissione indefinibile, ma tale
per cui, se ti comporti bene, ti farò uno sconto di pena, forse forse se ti darai tutto/a a
me, anche la grazia? Naturalmente rimarrai
mio ostaggio, il mondo non esiste più, io ne
sono il centro assoluto e tu ruoterai per sempre intorno a me, il re sole della tua inutile
vita.
Non piace a Narciso restare solo a lungo,
avanti il prossimo se tu non vuoi più giocare
a farmi da specchio o da spalla. Solo in tarda età, quando la bellezza o la salute, il denaro o il prestigio saranno sfumati, allora
assaggerò la solitudine, e sarà amara e dura,
perché non ho mai costruito sostanza in
questo unico compagno che mi ritrovo ad
essere per me stesso. Se ne sono andati tutti
i fans, nessuno grida più il mio nome davanti al mondo. Già non ho mai sopportato alcun genere di critica, e come faccio, adesso
che sono costretto a guardarmi fuori dalle
luci della ribalta, nel grigiore quotidiano, e
intravedo per qualche istante, a tratti, angosciosamente, i frammenti di questo disastro
di vita che ho alle spalle, dove ho invidiato e
infierito su tutti, dove non mi sono mai goduto serenamente il frutto del mio lavoro,
dove non sono mai riuscito a scaldarmi il
cuore…
Un anestetico per il mio dolore profondo,
ecco cosa cerco nella approvazione degli altri.
Dentro di me c’è un bambino che chiama la
mamma e vuole specchiarsi nei suoi occhi
affettuosi, per questo attraggo tanto le donne. Se non ti ascolto, forse non sono stato
ascoltato, forse non ho mai imparato su di
me l’empatia che non riesco a produrre, e
magari per sopravvivere a questo vuoto mi
sono dovuto immaginare un sé grandioso e
onnipotente, mi sono dovuto pensare speciale e migliore, e gli altri tutti insignificanti, per mantenere le proporzioni.
Il mio tallone di Achille si chiama autostima. Te ne mostro una montagna, ma è una
montagna di cartapesta, dentro è tutta vuota. Per questo non ti faccio avvicinare troppo, sennò mi smascheri. Per questo non reggo nessuna critica, sennò mi smonti. Ho biso40
gno che tu – tutti – ci crediate che io valgo,
così sembrerà vero anche a me, per un po’.
Non hai idea di quanto questo sia vitale per
me.
Se poi non fossi riuscito a costruire neanche
la montagna di cartapesta, allora nasconderò questa mia povera verità in tutti gli angoli più bui, cercherò di passare inosservato/a,
studierò con attenzione ogni tua parola e
ogni tua smorfia per capire se mi apprezzi o
no, starò davanti a te come un mendicante
chiuso e altero, bisognoso nella tua elemosina e incapace di suscitare compassione. La
vergogna e la paura saranno le mie guardie
del corpo, ma attenzione: l’interesse che ho
per te è solo per strapparti un segno di approvazione, solo per anticipare il tuo rifiuto
con una mia chiusura. Solo per predare qualche lembo di energia e per vigilare che tu
non mi ferisca. Mai mi potrò affidare, fidare, scambiare le mie cose, le mie idee, l’affetto con te. Ti importunerò come un’ombra
un po’ appiccicosa, geloso dei tuoi successi
e sottilmente ambivalente anche se mi aiuti.
Non fidarti di me, ti morderò la mano che
mi porgi, sembro miserevole e innocuo e
invece sono famelico/a. Di una fame atavica
di affetto e approvazione. Adesso sono disposto anche a rapinarli.
Narciso e lo schermo
L’unica mia possibilità, se ho costruito la
montagna di cartapesta o se non ce l’ho fatta, è che tu pensi e parli parole forti e sincere, e mi sveli poco a poco la mia anima vuota, che tu non abbia paura o riverenza per
me, che tu sia netto quanto io sono ambiguo, che tu sia fermo quando tento di sedurti, che tu resista quando tento di distruggerti. Che tu non dipenda dal mio giudizio, che
tu sia adulto quando intuisci in me il bambino piangente e solo. Che mi insegni a conoscermi, a guardarmi dentro, e poi ad amarmi anche così come mi sono riconosciuto, e
poi ad amare, se mai ce la farò… se mai te lo
lascerò fare.
Sai qual è anche il problema? Che siamo in
tanti, qua intorno, siamo quasi la norma,
anzi, il modello, il punto di arrivo, la meta
più ambita. È difficile scendere dal trono, e
ancor più non tentare di salirci. Oggi lo specchio, il laghetto limpido, è lo schermo della
tv, è il numero dei siti che compaiono quando cerchi il mio nome in internet. Oggi l’eco
è l’opinione pubblica, i giornalisti compiacenti ne sono i musicanti, il sondaggio il direttore d’orchestra.
Come nel racconto di Ovidio, qualcuno prima o poi produrrà un atto di giustizia.
LEZIONE SPEZZATA
sembra scuola
Stefano
Cazzato
O
ggi, lunedì mattina, è un giorno
speciale. Il primo giorno speciale di una settimana speciale:
quella dello studente.
Vengo accolto da uno striscione
su cui c’è scritto «l’immagginazione al potere» e la cosa mi mette già di
cattivo umore. Va bene l’immaginazione
ma anche la grammatica però…
«Professò, da oggi pe nà settimana, niente
spiegazioni e interrogazioni, che figata, sembra scuola ma non è scuola…».
Dedicata ai ragazzi, concessa ai ragazzi,
regalata ai ragazzi, la settimana dello studente, lontana parente dell’autogestione,
è decisa dal Collegio con una specie di patto tacito tra presidi impauriti, che temono
le occupazioni, e alunni disorientati, che
non le saprebbero fare: voi vi impegnate a
non occupare l’istituto, noi vi doniamo sette giorni di spensieratezza.
«Preferite dicembre, ragazzi, o gennaio? Proponete, vediamo cosa si può fare!».
Mi avvio lungo l’interminabile corridoio
che porta in sala professori, a destra e a
sinistra le aule, da cui proviene un vociare
confuso e quell’eccitazione, mista a spavalderia, con la quale Settini e compagni
hanno deciso di sfidare le istituzioni.
«Ce viene al torneo de briscola in palestra?
E dai, professò, sempre a legge sti libri de
filosofia».
«Professò se rilassi, che è stà faccia tirata,
me sembra un…».
Freme l’organizzazione di attività parallele, si dice che arriverà qualche esperto a
parlare di non si sa che, ma non si vede
nessuno fino a mezzogiorno; intanto si tiene una finale di calcetto, sui libri, quei
poveri libri, tutt’al più ci si siede ma non
se ne troverebbe aperto uno, di aperte ci
sono solo le iscrizioni al corso di salsa e
merengue, di cucina africana e di linguaggio del corpo. Noi, come da una torre di
controllo, vigiliamo che tutto si svolga secondo le regole.
«… il linguaggio del corpo… che ci tocca sopportare!» commenta sconsolato il collega
Corseti sperando di aprire un dibattito sul
degrado della scuola ma nessuno lo segue.
Poco più in là ci sono gli studenti adulti,
esenti dalla febbre-giovane: sono quelli del
«diurno» che il tempo, più che perderlo,
vogliono recuperarlo. Non è mai troppo
tardi, il diploma è gia qualcosa e poi non
si sa mai l’università. Anche con gli adulti
c’è una specie di patto: noi vi facciamo uno
sconto sulla frequenza, voi lo ricambiate
con la serietà. E infatti ricambiano: curiosi, esigenti, motivati, responsabili, grati che
sia data loro questa seconda volta.
Maris, come ogni mattina, ha portato il
figlio alla materna e arriva trafelata appena in tempo per la lezione di psicologia.
Torrini deve uscire prima, il supermercato
in cui lavora le ha appena comunicato con
un sms che il turno pomeridiano è suo.
Fassi ha preso un giorno per l’interrogazione «ma solo sul Comportamentismo,
professore». Anida divora letteralmente una
mela. Lei il suo turno di lavoro l’ha già fatto in una cooperativa di pulizie dalle 5 alle
10 e poi di corsa a prendere la metro e il
42 che il professore aspetta e non è corretto farlo aspettare.
Questa volta sono io provocare: «e voi non
aderite alla settimana dello studente?».
«professore glielo dica ai giovani che imparare è bello, per noi, al limite, ci vorrebbe una bella settimana del lavoratore,
tipo… studiare di più, lavorare tutti!
Rosella De Leonibus
41
ROCCA 1 APRILE 2006
COSE
DA
GRANDI
vino e gratificazione, così il tuo livore, il tuo
modo sprezzante li stempero un pochetto,
ed io, la bella, rabbonisco la bestia che sei
tu.
Paul Eluard
un grande sperimentatore
dell’inarrivabile
Giuseppe
Moscati
ugène Grindel il suo vero nome,
l’impossibile la sua vera passione.
Paul Eluard (1895-1952) vive
un’esistenza che possiamo ben
definire ‘da iperbole’: iperbolico è
infatti il suo modo d’amare,
iperboliche le modalità in cui sente di
esprimere emozioni e sentimenti, quindi
iperbolica è naturalmente la sua stessa
poetica, che rimane sempre in bilico tra
quella che è una sfrenata voglia di comunicare il proprio vissuto e il limite costitutivo della parola. Ben sapendo tuttavia che
«ci sono parole che fanno vivere […] la parola calore la parola fiducia / giustizia amore e la parola gentilezza». Credo d’altra
parte che egli sia massimamente poeta proprio nella misura in cui si sforza di varcare la soglia del detto/non detto e in particolare là dove si arrampica sulla parete a
strapiombo dell’impotenza della penna,
diciamo così, di ‘dire la vita’.
E
se la poesia è agitata dall’utopia
ROCCA 1 APRILE 2006
Se si guarda alla biografia di Eluard, comunque, viene da immaginarsi un D’Annunzio di sinistra. Ho pensato a questo,
però, non tanto in riferimento al fatto che,
dopo aver preso parte ai movimenti dadaista e surrealista, si iscrive al Partito comunista francese (1926), da cui poi si sarebbe
allontanato e al quale successivamente
(’42) si sarebbe riscritto. È decisamente più
interessante seguirlo nelle varie fasi del suo
impegno concreto, che prende le mosse da
un fertile intreccio di vita e poesia, quando scrive Le devoir et l’inquiétude e Poèmes
sur la paix, rispettivamente nel ’17 e nel
’18 appunto a caldo rispetto ai tragici eventi della Prima guerra mondiale. Ma un
impegno, il suo, fatto di slanci e rotture,
di entusiasmo e delusioni. Prima portavoce di André Breton al Congresso organizzato nel ’35 dagli scrittori antifascisti uni42
ti, poi – appena tre anni più tardi – in rotta
con lui; quando arriverà la Seconda guerra, il nuovo impegno e le nuove energie tra
partecipazione sincera e volantinaggi clandestini, tra bambini ebrei messi in salvo e
inviti all’ottimismo, con l’uscita di Poésie
et vérité (’42), Dignes de vivre e Au rendezvous allemand (’44); dopo la resistenza, le
valige sempre pronte per partire, nella
maggior parte dei casi per viaggi particolarmente lunghi tra Europa e Asia.
Un’inquietudine, quella dell’uomo Eluard,
che ritroviamo anche nella produzione
poetica: pubblica le sue prime liriche già
nel ’13, non ancora diciottenne; poi scrive
ora da solo, ora in collaborazione con autori come lo stesso Breton o René Char,
ora ‘in dialogo’ con le opere più suggestive
di Picasso, di Max Ernst o altri. Scrive e
scrive, sempre lottando contro la tisi che
lo tormenta in continuazione; scrive in
maniera del tutto genuina, mai facendo del
surrealismo un dogma, e addirittura arriva a sperimentare la scrittura poetica sotto ipnosi. A proposito, egli guarda molto a
Freud, come del resto a Marx, l’uno e l’altro letti o meglio riletti come riferimenti
antiscientisti (non antiscientifici!): Freud
in particolare è il baluardo contro le rimozioni del razionalismo.
Le sue poesie, anche quando raccolgono
la rabbia e il sogno dell’emancipazione
sociale, non sanno di artificio, vibranti
come sono di quella certezza che «sulla
notte figlia dell’uomo / splende la rivincita
dell’amore / l’alba è intessuta di fili limpidi». Esse non scadono a componimenti a
tavolino o «impegnati» forse perché animate da un’eccezionale facilità di raccordo visionario tra la realtà osservata e la
speranza di una sua trasformazione. Poesie dettate, cioè, da un patto segreto tra
realtà e desiderio: «Tutti, noi ci ameremo
tutti e i figli / un giorno rideranno / della
leggenda nera dove un uomo / lacrima in
amore, rivoluzione, libertà
Amore, felicità, condivisione e rivoluzione
abitano la poetica eluardiana in una significativa intesa tra immediatezza e ritmo
come tra espressione fulminea e lievità del
verso. La critica non a caso ha notato come
l’Eluard esclamativo e vicino al linguaggio
quotidiano sia capace di rifarsi anche alla
poesia francese del Cinque e Seicento, coniugando armoniosamente la vera e propria
materia surrealista con alcuni toni di quella lirica più tradizionale. Primo destinatario di quest’arte poetica è il cuore di donna,
che di volta in volta prende le forme della
musa Gala (Elena Djakonova), la russa cui
dedica la raccolta L’amour la poésie nel ’29
e che lo avrebbe lasciato nientemeno che
per Salvator Dalì; poi della musa Nusch
(Maria Benz), che sposa e che peraltro perde prematuramente («Non c’è nulla attorno a me / e se mi volto, il nulla ha due volti
/ il nulla e me»); infine della musa Dominique Lemor, la ragazza con cui vive i suoi
ultimi cinque anni e per la quale compone
le ultime liriche di Le phénix (’51).
Il poeta si chiede spesso che senso avrebbe la sua vita senza l’amore: «Io esisto ma
esisterei / se non ci fossi anche tu?» e si
nutre delle parole come dei silenzi condivisi con l’amata mentre c’è «la luce che va
/ la luce che torna» e «l’alba e la sera sono
il nostro sorriso».
Il poeta di Saint-Denis canta così il suo amore per Nusch, la cui immagine ci è presentata come diafana e quasi impalpabile:
«Sentimenti visibili / vicinanza leggera /
chioma di carezze. / Senza ombre né dubbi
/ dài gli occhi a quel che vedono / visti da
quel che guardano. / Fiducia di cristallo /
tra due specchi / ti si perdono gli occhi nella notte / per unire desiderio e risveglio».
Ma l’amore libera e gli elementi rivoluzionari dell’opera eluardiana – quelli letterario-espressivi e quelli più segnatamente
politici – si fondono assieme producendo
effetti particolarissimi, trovandosi accostati i sensi alle idee, le debolezze agli impeti.
Un amore che è crocevia delle libertà di essere e di fare e di immaginare, un amore
che è amore sempre, senza soste e senza
vuoti: «Anche quando dormiamo vegliamo
l’uno sull’altro»; un amore che vive di positività: «La mia fede in te è così ben circondata
/ di terra e di acqua così ben coperta / di sole
fresco e di notte chiara». Anzi, se in Eluard
quello della rivoluzione è in definitiva il termine medio tra l’amore e la libertà, possiamo
dire che questi ultimi si confondono tra loro
fino a coincidere come per magia.
È la magia del verso, la stessa che di Gala
gli aveva permesso di scrivere: «Ha sempre
camminato sotto le arcate della notte / e
dovunque è passata / ha lasciato / l’impronta delle cose spezzate»; ma anche: «I suoi
sogni in pieno giorno […] mi fanno ridere,
piangere e ridere / parlare senza aver nulla
da dire». Ma la donna è simbolo del nostro
rapporto con ciò che è fuori di noi: «I tuoi
capelli d’arance nel vuoto del mondo / nel
vuoto di vetri, pesanti di silenzio / e d’ombra dove le mie nude mani tutti i tuoi riflessi cercano». Del ’42 è una delle poesie più
note e amate di Eluard, Libertà, mirabile
confessione di cui non posso che cogliere
le istantanee che sento più vicine: «su tutte
le pagine lette / su tutte le pagine bianche
[…] io scrivo il tuo nome […] sull’eco della
mia infanzia […] i miei squarci d’azzurro […]
sul mulino delle ombre […] sul mare sulle
barche […] sulla schiuma delle nuvole […]
sulla fronte dei miei amici / su ogni mano
che si tende […] su ogni mio infranto rifugio
/ su ogni mio crollato faro / sui muri della
mia noia […] e per la forza di una parola / io
ricomincio la mia vita / sono nato per conoscerti / per nominarti Libertà».
Altrove il poeta, avendo dinanzi ai propri
occhi gli affetti più cari, non nasconde a
se stesso che tutto l’universo potrebbe dipendere da un bacio e trova nella più semplice visione delle cose e dei nostri legami
con il mondo – appunto con i versi di Per
un bacio – i tratti peculiari della più intima e autentica umanità: «Giorno la casa e
notte la strada / i suonatori ambulanti /
suonano a distesa vediamo chiaro sotto il
cielo buio. / La lampada è colma dei nostri
occhi / abitiamo la nostra valle / i nostri
muri i nostri fiori il nostro sole / i nostri
colori e la nostra luce. / La capitale del sole
/ è ad immagine nostra / e nel rifugio della
nostra casa / la nostra porta è la porta degli uomini». È qui che la poesia fa il suo
felice ingresso nell’immortalità.
Giuseppe Moscati
Per leggere Eluard:
ROCCA 1 APRILE 2006
LETTERATURA
solitudine». Quello di Eluard è un irrazionalismo che non trapassa a misticismo e
che piuttosto si fa scavo profondo e sfrenata ricerca di ciò che appare impossibile
o irraggiungibile. È qui che la poesia fa il
suo felice ingresso nell’utopia.
Poesia ininterrotta (Poésie ininterrompue),
trad. it. e prefaz. di F. Fortini, Einaudi,
Torino 1947; 44 poesie, trad. it. di V. Accame, Mondadori, Milano 1997; Ultime poesie d’amore, a cura di V. Accame, Passigli,
Firenze 2000.
43
CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE
acrobazie d’ identità
ta e compiaciuta, ma decisamente più leggera e divertita. E questo perché, osserva
la Paepcke, ogni ebreo avverte, da sempre,
il peso della propria diversità rispetto ai
popoli ospitanti, e allora impara ad essere
acrobata dell’identità, funambolo nell’arte di mantenere le proprie radici e insieme
di non rompere il precario equilibrio con
le culture della maggioranza, modificando emblematicamente il proprio modo di
camminare.
Col procedere della narrazione, tuttavia,
questo acrobatismo si inclina inevitabilmente fino al precipizio: a Max, col procedere della follia storica, non rimane che
incurvarsi sempre di più, perdendo l’elasticità dei movimenti; non resta che accartocciarsi come qualcosa che il tempo devasta e il vento trascina con sé, come un
oggetto dimenticato e di scarso valore, gettato via. La riflessione sul camminare di
Max è talmente cadenzata da non poter
essere casuale. È anzi talmente ricorrente
che il lettore non può fare a meno di ritenerla un correlativo oggettivo dello stato
d’animo del protagonista, un’allegoria capace di rappresentare il frantumarsi vitreo
di un’anima, calpestata da piedi indifferenti, piedi qualunque, forse anche nostri, se
è vero che la storia di Max è particolare e,
insieme, rappresentativa della condizione
dell’emarginato, quindi valida paradigmaticamente.
il cammino
In modo più preciso, attraverso la vita di
Max, percepiamo chiaramente come la
grande storia trituri le biografie individuali; come i veleni del potere, dell’ignoranza,
anche mascherata da qualunquismo, inquinino le coscienze dei popoli e, soprattutto, degli individui comuni che lo compongono. Max, infatti, è ebreo, ma è anche tedesco, senza avvertire contraddizioni in queste sue appartenenze. Come ebreo,
osserva il sabato e si avvia all’attività artigianale del conciatore, retaggio della sua
famiglia, benché in lui ci sia il desiderio di
studiare o di suonare il pianoforte. Come
tedesco, si iscrive al partito socialdemocra-
I
ROCCA 1 APRILE 2006
Ogni stagione della vita di Max Mayer – il
protagonista – viene efficacemente sintetizzata con un’immagine potentissima: la
sua camminata. All’inizio del racconto,
Max cammina in modo buffo e insieme
elegante, con un’andatura «calma, serena,
lieta» (3). Essendo piccolo di statura, Max
incede in modo eretto, non tanto per acquisire maggior dignità, quanto, piuttosto,
per essere più vicino al cielo. Una camminata discreta, diversa, agli occhi della scrittrice allora bambina, da quella dei padri
delle sue amiche tedesche, meno ostenta44
la grande storia e l’individuo
tico e partecipa alle riunioni politiche con
quella vocazione alla discussione e al ragionamento che, ancora una volta, sono
un’eredità ebraica. Il suo essere marxista,
poi, è sempre problematico, ma nel senso
più ampio che si possa conferire a questo
termine. Di Marx apprezza l’utopia di un
mondo senza classi, in cui emerga l’umanità al di là delle distinzioni, ma la dottrina marxista gli pone problemi che il protagonista non vuole nascondersi, quali
quello inerente al come conciliare la sua
attività via via sempre più redditizia con
le ingiustizie e le sperequazioni, o quello
rilanciato dalle domande mute e sospese
degli ultimi.
Ma la questione più scottante è quella che
riguarda Dio, dal momento che l’ateismo
marxiano si scontra con la sua fede incrollabile nel Signore di Israele, Dio dell’alleanza, Dio che ha parlato e che chiede al
suo popolo di seguire i suoi precetti. La
convergenza, Max la troverà nella morale,
in una morale laica e, insieme, privatamente religiosa, grazie alla quale il suo essere
marxista non entra in collisione col suo
essere ebreo.
Con questo spirito dialettico, il giovane Max
parteciperà alla prima guerra mondiale, convinto che occorra saper mettere in second’ordine ogni ideologia, quando la patria chiama. Il suo partecipare alla guerra, rifiutando il neutralismo socialista, è un modo per
ribadire al mondo e soprattutto a se stesso il
suo essere tedesco senza distinguo, il suo
essere parte di una comunità ampia e stratificata. Con questo spirito, accetta di suonare, in quanto musicista, la grancassa dell’esercito, divenendo il simbolo orgoglioso di un
popolo ingabbiato in una guerra atroce, risultato assurdo di un’ancora più assurda e
vecchia politica di potenza. Tornato dalla
guerra, partecipa con entusiasmo al processo di democratizzazione della Repubblica di
Weimar, divenendo assessore al teatro della
sua città, Friburgo in Brisgovia: ancora una
volta la vita sembra volerlo convincere del
fatto che la sua ebraicità non rappresenti più
un ostacolo, alimentando in lui l’illusione di
essere uguale agli altri nel nuovo processo
democratico.
Ma le ombre della storia difficilmente si
dileguano con una schiarita del cielo.
disillusione
Gli anni Trenta portano la crisi economica e il successo di Hitler, sancendo una
volta per tutte che Max non è affatto uno
fra tanti, ma è l’ebreo, l’indesiderato, l’antiuomo, il corruttore della razza ariana tedesca, un diverso, ossia una malattia mortale da estirpare. Nemmeno la resistenza
di sinistra lo desidera tra le sue fila, perché accettare un ebreo è troppo pericoloso. Non rimane che la solitudine, tremenda, angosciosa, plumbea, di un uomo dichiarato estraneo al suo popolo; non resta
che l’emarginazione totale, ribadita da una
SA che piantona l’ingresso del suo negozio e che grida a chi vuole entrarci di non
comprare «dall’ebreo» (4). Un isolamento
ancor più sottolineato dal ricomporsi della grande famiglia ebraica, quella che la
modernità aveva disseminato nelle diverse classi sociali: così, il ricco banchiere
Dorn, esautorato dal suo incarico, si riavvicina alla piccola e media borghesia, ai
proletari e agli operai, aprendo la sua casa
ad ospiti sconosciuti in cerca di rifugio, o,
più semplicemente, investendo i suoi soldi perché gli ebrei, gli esclusi, possano continuare a fare in privato quello che potevano poco prima fare in pubblico, come
leggere libri o ascoltare concerti da camera. Dorn non vuole vedere e preferisce pensare, come tanti, che il mondo non sia poi
così radicalmente mutato: «così si placava
il desiderio di vita sociale e di cultura e si
manteneva la tranquillizzante illusione di
una vita normale» (5).
la fuga
A Max e alla moglie Olga non rimane che
tentare la fuga, prima in Svizzera e, una
volta ottenuto il visto, verso gli Stati Uniti,
dove risiedono alcuni parenti. La storia eterna degli ebrei torna, quindi, a ripetersi nell’esistenza di questo «piccolo padre ebreo»,
nella vita di questo uomo qualunque e, proprio perché tale, esemplare. La fuga, la dia-
ROCCA 1 APRILE 2006
Marco
Gallizioli
l breve romanzo biografico che la giornalista tedesca Lotte Paepcke (1) ha
scritto sulla vita di suo padre è di rara
e toccante intensità. Lo è, innanzi tutto, perché capace di essere profondamente «particolare» e, insieme,
«universale»: particolare, come può essere, per un’ebrea, descrivere la tragedia del
furore antisemita degli anni Trenta in rapporto alle vicende del proprio padre; universale, invece, come solo la grande letteratura sa essere, quando è in grado di chiamare in causa l’uomo in quanto tale davanti a se stesso e al male. È, quindi, un
resoconto inquietante perché esamina la
vita di un ebreo che ha attraversato i momenti più terribili del Novecento (2): dalla
prima guerra mondiale alle persecuzioni
naziste, dalla fuga negli Stati Uniti al rientro in una straniante e irreale Germania
postbellica; ma anche perché, in filigrana,
questa persona ci consente di percepire
l’universale della sofferenza innocente. È,
infine, un romanzo causticamente graffiante perché – pur avendone tutte le ragioni e le capacità stilistiche – la Paepcke
non indulge mai in uno stile volutamente
commosso, anzi, opta coraggiosamente per
bandire dal suo resoconto ogni accento
dichiaratamente lirico. Spogliando la pagina da ogni orpello, però, il linguaggio
diviene ancora più forte e tagliente, quasi
un canto disperato, che si articola oltre il
controcanto stonato e funereo che gli eventi presentano.
45
46
quanto lui, ma desideroso di giustificarsi ai
suoi occhi, Max comprende quella che la
Arendt definirà la «banalità del male (7)».
Capisce razionalmente quello che aveva già
inteso emotivamente: non potrà più essere
tedesco, non potrà più appartenere a un
popolo, perché «chi è stato profugo una
volta, lo rimane per sempre» (8) e perché,
per dirla con Friedmann sulla scia della
Arendt, negli sguardi delle persone vede il
male, inteso come negazione del reale (9).
Privato dell’identità, Max si sente cancellato dal mondo e, anche se continua a sorridere a tutti, dentro di sé avverte di essersi
già decomposto. Così, lentamente e insieme velocemente, muore: una morte lenta,
che ha radici lontane in un male sociale e
culturale che ha scavato dentro di lui devastandolo; una morte veloce, discreta nella
sua evoluzione, capace di riflettere la dignità estrema di un uomo qualunque che, morendo, non vuole disturbare troppo il mondo.
La Paepcke descrive una vita, l’esistenza
particolare e insieme universale del suo
«piccolo padre ebreo», con i tratti veloci
dello schizzo, ma, nel contempo, con la
concentrazione semantica assoluta che
solo il graffio di una parola sintetica possiede. Un libro da leggere per riflettere, senza precomprensioni ideologiche, con l’intento di vedere, al di là di tutto, la sofferenza dell’uomo: di quell’uomo con un nome
e un cognome; di ogni uomo innocente.
Marco Gallizioli
Note
1 Lotte Paepcke (1910-2000), dopo la guerra,
ha esercitato la professione di giornalista, e
ha pubblicato un libro di memorie – qui commentato – e un libro di poesie, vincendo il
premio Johann Peter Hebel nel 1998. (Sfuggì
alle persecuzioni naziste, in un primo tempo
grazie al suo matrimonio con un tedesco e
poi grazie alla protezione trovata in un convento. Il resoconto biografico oggetto di questo articolo è: L. Paepcke, Il mio piccolo padre ebreo, Giuntina, Firenze 2004.
2 Sul secolo delle violenze di massa, si veda
l’interessante saggio: M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano 2005, in
particolare pp. 120-130.
3 L. Paepcke, op. cit., p. 8
4 Cfr. ib., p. 44.
5 Ib., p. 47.
6 Si veda su quest’aspetto: A. B. Yehoshua,
Elogio della normalità. Saggi sulla diaspora
ebraica, Giuntina, Firenze 1991.
7 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 142-157.
8 L. Paepcke, op. cit., p. 86.
9 Cfr. F. G. Friedmann, Hannah Arendt.
Un’ebrea tedesca nell’era del totalitarismo,
Giuntina, Firenze 2001, p. 80.
CHIESA
un concistoro sobrio
U
Giancarlo
Zizola
n concistoro sobrio, il primo di Benedetto XVI, con un minimalismo
che implica intenzionalità riformatrici del ruolo dei cardinali e
del potere curiale. Deludendo le
congetture della vigilia, secondo
cui le porpore sarebbero state almeno 30,
egli ha creato appena quindici cardinali,
di cui tre non elettori, perché ultraottantenni. Ha lasciato alla loro fame alcune
aspettative giustificate dalla prassi, per cui
la porpora era quasi ineluttabile per certe
cariche o sedi: nessun capo di consigli pontifici non ancora cardinale lo è divenuto,
neanche il prefetto della Fabbrica di San
Pietro e vicario del papa per la Città del
Vaticano, Angelo Comastri, ha ricevuto il
suggello di una gloriosa carriera.
Sono solo tre i nuovi cardinali della curia
romana, il successore di Ratzinger alla testa della Congregazione per la Dottrina
l’americano Levada, il prefetto della Congregazione per i religiosi lo sloveno Rodè,
il prefetto della Segnatura apostolica (la
corte di cassazione della Chiesa cattolica)
l’italiano Vallini. Secondo alcune fonti, tale
parsimonia prefigurerebbe un piano di riforma della curia romana, con la fusione
di alcuni dicasteri e il taglio di rami secchi. Secondo altri Papa Benedetto intenderebbe riequilibrare il ruolo del collegio
cardinalizio con quello del Sinodo dei Vescovi, e in questa prospettiva si potrebbe
comprendere il senso antinflazionistico
della discrezione che caratterizza la decisione attuale.
rivalutazione del ruolo cardinalizio
Nell’annuncio dato dal papa all’udienza
generale del 22 febbraio non potrebbe
sfuggire l’accento posto sul ruolo collegiale del Senato cardinalizio. «I cardinali, ha
detto, hanno il compito di sostenere ed
aiutare il successore di Pietro nell’adempimento dell’ufficio apostolico che gli è
stato affidato a servizio della Chiesa. I
cardinali costituiscono intorno al papa
una sorta di Senato, di cui egli si può avvalere nel disimpegno dei compiti connessi col suo ministero».
Era antica la tradizione concistoriale dei
cardinali, la cui collaborazione col papa
nel governo della Chiesa era reale, prima
che la centralizzazione romana la riducesse a simbolo cerimoniale. Che Benedetto
XVI sia deciso a rivalutare il ruolo effettivo dei cardinali sembra indicarlo la decisione di convocare i cardinali alla vigilia
del concistoro del 24 marzo per una riunione «di riflessione e di preghiera».
Val la pena di ricordare che la storia della
Chiesa sta a testimoniare che la crisi temporalista del papato si è congiunta, in un
rapporto quasi causale, con la crisi della
funzione partecipativa del collegio cardinalizio. Le responsabilità e i condizionamenti del governo temporale offuscano ed
appannano ogni volontà anche sincera di
ridare un volto religioso e spirituale all’autorità del pontefice sulla Chiesa universale. Reciprocamente si può notare che la
ripresa del ciclo spirituale del papato implica anche un ritorno del collegio cardinalizio alle sue funzioni effettive di co-attore delle decisioni pontificie nella Chiesa
universale.
In effetti, la restaurazione del papato nel
XV secolo e soprattutto la sua scalata politica come principato hanno l’effetto di segnare il tramonto del collegio dei cardinali: la concezione monarchica della Chiesa
congiunta alla configurazione personale
del governo papale emargina questo ultimo resto della antica struttura sinodale
della Chiesa che era dato dalla partecipazione dei cardinali all’esercizio del governo della Chiesa universale nei concistori.
L’inversione di tendenza è radicale. La permanenza di una funzione collegiale autonoma e di forme di costituzionalismo come
le «capitolazioni elettorali» (che avevano
almeno un valore morale di impegno programmatico per i papi eletti) sono ormai
considerate incompatibili con la dottrina
del Solus Pontifex e con la configurazione
della Chiesa come principato.
Il collegio dei cardinali si riduce a una aristocrazia cortigiana subalterna, nella quale trovano coronamento le carriere amministrative della curia e dello Stato Pontificio. Il Senato cardinalizio diviene sempre
meno rappresentativo delle nazioni e sempre più italiano, anzi clientelare, come
espressione delle grandi casate italiane nel
controllo del sistema politico italiano,
mediante l’influenza esercitata dentro lo
Stato pontificio.
Il Concilio di Trento e la riforma cattolica
non correggono questa tendenza di fondo:
si eliminano gli abusi derivanti dal cumulo dei benefici, si tagliano gli eccessi di
47
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
CULTURE
E
RELIGIONI
RACCONTATE
spora necessaria dell’ebreo storico (6), si tingono dei contrasti dell’abbandono, del rifiuto, dell’isolamento e si consumano nelle
pagine della Paepcke con una velocità che
non ha nulla del frettoloso, ma riflette stilisticamente la concitazione di ogni partenza obbligata verso l’ignoto. Ma, alla rapidità del distacco si contrappunta la lentezza
dell’arrivo negli Stati Uniti, fatta di giornate vuote, senza senso, interminabili. I tempi si allargano, si dilatano in maniera estenuante, togliendo valore all’esistenza e marcando in maniera estremamente timbrata
la sensazione sempre più netta di estraneità. Max è di nuovo il senza patria, lo straniero, l’immigrato in un mondo che, se apparentemente non discrimina in base all’appartenenza religiosa, in realtà lo fa secondo criteri economici. Max e Olga sono ormai anziani, poco produttivi e, in quanto
«vecchi», risultano inutili nel magmatico
processo produttivo del nuovo continente.
Sono costretti a mendicare piccoli lavori: il
cucito per lei, la trascrizione manuale di
spartiti musicali per lui, ricercando in
un’operosità estenuante un senso per contrastare il «non senso» dell’esistenza. Solo
quando i parenti ricchi, commossi da tanta
dedizione, gli regalano un vecchio e ingombrantissimo pianoforte – talmente grande da
occupare metà della stanza dove i due anziani si sono ridotti a vivere – Max è capace
di ravvisare le tracce di un senso minuscolo.
La musica contiene la memoria delle sue appartenenze negate, umiliate e calpestate; così
si impone di suonare Wagner e Haydn; si
obbliga a ripercorrere con la memoria le sue
illusioni spezzate. Quando la guerra finisce,
Max si imbatte nell’atrocità del pericolo da
cui è riuscito a fuggire, viene a conoscenza,
col resto del mondo, della verità sui campi di
sterminio e anche quel briciolo di identità che
era sopravvissuto attraverso la musica marcisce e si corrompe per sempre. Alla tragedia
universale, poi, si sovrappone quella privata,
la morte della moglie Olga, perpetuando quel
rilancio tra universale e particolare che compone la struttura profonda del resoconto della Paepcke. Nell’affetto profondo nutrito nei
confronti della sua consorte, Max trovava ancora un ultimissimo residuo di senso, ma ora,
nella profonda solitudine, diviene, definitivamente e senza possibilità di riscatto, straniero al mondo. Sarà un vecchio spento e ripiegato su se stesso che la figlia, sopravvissuta a
sua volta all’orrore, riporterà a Friburgo. Qui,
Max passeggia stanco nei luoghi della sua
infanzia, della sua giovinezza e della sua maturità; nei luoghi di una vita dissolta, reincontrando persone che lo salutano come se nulla
fosse avvenuto. Ma, quando il «piccolo ebreo»
incontra un suo vecchio amico violinista, il
quale aveva cessato di salutarlo all’indomani
delle leggi razziali per evitare le ritorsioni
naziste, in quell’anziano tedesco, vecchio
porpore di risarcimento
ROCCA 1 APRILE 2006
Tre ultraottatenni sono anche tra i nuovi
cardinali, sono porpore per così dire di risarcimento: per l’italiano Andrea Cordero
Lanza di Montezemolo, ex nunzio in Italia, che era stato emarginato nei decenni
precedenti, per l’ex arcivescovo del Ghana, Peter Poreku Dery, e per il biblista gesuita belga padre Albert Vanhoye, uno degli artefici della cultura biblica nella Chiesa cattolica, a lungo Rettore del Pontificio
Istituto Biblico, fumo negli occhi per i tradizionalisti.
L’«infornata» si fa notare anche per il rilievo preferenziale conferito ai pastori. A
parte Montezemolo, che ora è arciprete
della Basilica di San Paolo fuori le Mura,
nessun nunzio apostolico figura tra i prescelti. Il solo polacco fatto cardinale è l’arcivescovo di Cracovia Stanislao Dziewisz,
per il riconoscimento dovuto a un servitore zelante di Wojtyla. Forse è lui il cardi48
nale «in pectore» creato dal suo papa. Nessun polacco in curia ha ottenuto il cappello. L’assetto della Segreteria di Stato rimane ancora immutato, a quasi un anno dall’elezione.
In realtà è la Chiesa delle grandi diocesi
nel mondo, una Chiesa di pastori che Ratzinger mostra di voler far emergere includendoli nella responsabilità del collegio
cardinalizio. E in una mappa così calibrata, si impone l’attenzione riservata all’Asia,
il continente emergente nella società globale, che è anche lo scenario di un cattolicesimo minoritario ma ricco di segnali vitali promettenti. Su nove cardinali delle
diocesi, tre sono asiatici: Rosales di Manila, Cheong-Jim Suk di Seoul, Zen Ze-Kiun,
il benedettino vescovo di Hong Kong, noto
per le sue battaglie sui diritti umani e la
libertà religiosa in Cina, cui la porpora
conferisce un supplemento di autorità
come «pars corporis papae».
oltre il Mediterraneo
Nel collegio cardinalizio gli asiatici elettori sono ora 13, un tetto mai prima raggiunto. Secondo i dati dell’Annuario Statistico
della Santa Sede il cattolicesimo nell’ultimo quarto di secolo è più che raddoppiato
in Africa, è salito del 72% in Asia e di quasi il 50% in Oceania. Data la crisi della
Chiesa in Europa, questi incrementi indicano uno spostamento tendenziale del baricentro del cattolicesimo fuori dell’area
mediterranea, verso i nuovi areopaghi di
culture e tradizioni spirituali differenti da
quella che ha dato forma alla fede cattolica. È in questa dinamica che si può valutare adeguatamente l’insistenza con cui
papa Benedetto raccomanda di valorizzare il dialogo con le grandi religioni mondiali, unico efficace scudo delle comunità
cattoliche nell’immensa Asia, percorsa dai
fremiti dello «scontro di civiltà».
L’ultimo conclave ha offerto la prova che i
criteri geopolitici per l’analisi delle cose
ecclesiali sono obsoleti. Il papa ha sottolineato che «nella schiera dei nuovi porporati ben si rispecchia l’universalità della
Chiesa». Accanto all’Asia, evidentemente
favorita, l’America Latina (metà dei cattolici del mondo) ottiene un solo nuovo cardinale, negli Stati Uniti l’unica porpora è
per rafforzare l’autorità Sean Patrick
O’Malley, arcivescovo di Boston, una sede
ancora piagata dalle conseguenze degli
scandali dei preti gay. E in Europa, la parsimonia ratzingeriana ha distillato tra le
diocesi una sola porpora per l’Italia (Caffarra a Bologna), una sola per la Francia
(Ricard per Bordeaux, e non l’arcivescovo
di Parigi o altri in lista d’attesa), una sola
per la Spagna (Canizares per Toledo).
Giancarlo Zizola
CONTROCORRENTE
san Musone
Adriana
Zarri
opo la spensieratezza carnevalesca, siamo oramai in piena
quaresima. In certe regioni
d’Italia, il giorno delle ceneri –
che segna appunto l’inizio dell’itinerario quaresimale terminante nella gran veglia di Pasqua – è
detto di san Musone: un santo che non
figura nel calendario liturgico e contraddice lo stesso stile della santità che non
è triste e immusonita, ma serena gioviale e lieta. Ed è opportuno ricordare il
brano evangelico che la liturgia ha fissato per le ceneri: un brano, esso pure, lieto e sereno che esorta il fedele a profumarsi il capo: un brano tutto da leggere,
e che è una critica serrata alla manifestazione della virtù esibita «per esser lodati dagli uomini» e che, in questa lode
ricercata, ha la sua ricompensa. E dopo
aver citato l’elemosina e la preghiera,
passa a parlare del digiuno che è ciò che
in questo momento ci interessa.
«Quando digiuni non assumere un’aria
melanconica, come gli ipocriti che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico che
hanno già avuto la loro ricompensa. Tu
invece, quando digiuni, lavati il volto e
profumati la testa perché la gente non
veda che diguini, ma solo il tuo Padre che
è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel
segreto, ti ricompenserà».
Serenità e profumi; e san Musone – posto
che santo fosse e che fosse esistito – è definitivamente cancellato dal martirologio
cristiano. Non quindi ostentare la virtù,
perché una virtù ostentata non è più una
virtù, è un vizio di orgoglio e vanità. E
non intristire la penitenza perché una
penitenza triste non conduce alla gioia
che è l’esito ultimo della rinuncia. Rinun-
D
cia e penitenza son mezzi transitori, in
vista del fine che è quel «gaudio» di cui
parlò Gesù, nell’ultima cena; alla vigilia
della passione e della morte che non finì
nel sepolcro (anche se, nel sepolcro, per
qualche tempo, il corpo di Cristo dimorò) ma nel giardino della risurrezione prefigurato dal giardino dell’Eden. Così la
quaresima ha il suo termine nella gran
veglia di Pasqua dove, nelle chiese sfolgoranti di luci, si canta l’«exultet»: «esulti l’angelica schiera dei cieli... gioisca la
terra... si allieti anche la madre chiesa...».
Ed è tutto un canto di gioia che percorre
l’intera storia dell’umanità; dal mitico
Adamo, il cui peccato è già visto nella luce
della redenzione («oh felice colpa che
meritasti un tale Redentore!»), fino ai
giorni nostri: al nostro papa, al nostro
vescovo, chiamati entrambi per nome,
come usa sempre la liturgia. E poi alle vicende temporali, civili e politiche, nel senso alto del termine. «Guarda anche a coloro che ci governano (...) volgi i loro pensieri alla giustizia e alla pace perché, dall’operosità terrena, giungano, insieme a
tutto il popolo, alla patria celeste».
La quaresima ci ricorda che questa nostra terra, che tanto, e tanto giustamente,
amiamo, è pur sempre una sorta di esilio,
segnato dal lutto e dal dolore: una «valle
di lacrime», come recita una nota preghiera. Ma l’esilio tende alla patria come la
tristezza alla gioia, la morte alla vita, la
croce alla resurrezione: a quella fine della grande quaresima del mondo, quando
– dice l’Apocalisse – «non ci sarà più lutto, né pianto né dolore perché queste cose
sono passate», così come passa il tempo
amaro della penitenza che sfocia, lieto,
nella gioia pasquale.
❑
49
ROCCA 1 APRILE 2006
CHIESA
mondanizzazione dei «principi della Chiesa», si interviene sul fenomeno del nepotismo, si razionalizza la funzione dei cardinali nell’apparato pontificio con la riforma di Sisto V nel 1586 e la successiva istituzione delle congregazioni cardinalizie, le
une adibite agli affari materiali, le altre a
quelli ecclesiastici. Ma intanto i concistori – che si riunivano due o tre volte alla
settimana, per discutere con il papa i grandi problemi e formare collegialmente le
decisioni, – vengono convocati sempre
meno di frequente, fino a ridursi a cerimoniali eccezionali privi di valore politico
e giuridico.
L’unico potere effettivo rimasto al collegio
è l’elezione del papa. Ma il processo di
svuotamento della funzione collegiale del
Senato cardinalizio, se dapprima sembra
funzionare per la concentrazione del potere nella persona del papa, si trasforma
ben presto in un fattore di debolezza del
papato stesso anche sul piano politico: il
collegio dei cardinali non è in grado di fare
da barriera a difesa dell’autonomia del
papato dalle pressioni politiche esterne,
che si avvalgono, fino al conclave di Pio X
del diritto «di esclusiva».
Nello stesso annuncio concistoriale Benedetto XVI ha confermato, tagliando corto
su opinioni contrarie, la norma fissata da
Paolo VI nel 1973 la quale stabilisce il tetto massimo del collegio degli elettori del
papa a 120 cardinali e la decadenza del
diritto elettorale attivo dei cardinali all’età
di 80 anni.. Con le nuove nomine i cardinali elettori salgono a 122, su un complesso di 180 cardinali, di cui 58 non elettori
avendo più di 80 anni. Si può supporre che
anche nei prossimi concistori, che si prevedono non frequentissimi e sempre minimalisti, il papa tenderà a riportare l’eccedenza nei limiti della norma statutaria.
la nostalgia
dei figli
delle stelle
ROCCA 1 APRILE 2006
Carlo
Molari
50
aramente il dialogo tra scienza e
fede ha avuto espressioni così vivaci ma nello stesso tempo posizioni così contrastanti come in
questi decenni. Da ogni parte se
ne discute ed è comprensibile che
esistano diverse opinioni. Possiamo distinguere quattro posizioni.
1. C’è chi nega il valore del dialogo tra scienza e fede per il semplice motivo che i loro
ambiti sono così disparati da non consentire contrasti reali e neppure convergenze significative. Steven Jan Gould, ad es., in occasione di un convegno tenutosi in Vaticano ha formulato il principio Noma, sigla
dalle iniziali della formula Nonoverlapping
Magisteria: dottrine senza aree sovrapponibili: scienza e fede hanno insegnamenti
fra loro non comparabili (cfr. Nonoverlapping Magisteria, in Natural History 106,
marzo 1997, pp. 16-22). Opinione questa
che sembra riproporre, in un contesto diverso, la dottrina medioevale delle due verità.
2. C’è chi nega la possibilità di dialogo perché la fede non ha ragioni da portare per le
sue affermazioni che siano valide per gli
scienziati. In modo beffardo ad esempio
l’ateo francese Michel Onfray, sostiene che
sul conflitto scienza e fede oggi non possiamo essere neutrali, «non possiamo permetterci ancora questo lusso». Egli spiega: «Nel
momento in cui si profila uno scontro decisivo... per difendere i valori dell’Illuminismo contro le affermazioni magiche, bisogna promuovere una laicità. Ai rabbini, ai
preti, agli ayatollah, agli imam e ai mullah,
io continuo a preferire il filosofo. Contro
tutte le teologie strampalate, preferisco fare
appello alle correnti di pensiero alternative
R
se dimensioni del reale e per la volontà
comune di offrire una descrizione il più possibile completa del reale. Ma perché il dialogo sia fruttifero è necessario che ciascuno rispetti l’ambito proprio e che riconosca
l’ambito altrui.
condizioni per una sintesi nuova
La prima condizione per un fecondo dialogo tra le diverse visioni del mondo dovrebbe essere la convinzione «che non abbiamo
ancora scoperto la vera «strada verso la realtà», nonostante gli straordinari progressi
compiuti nel corso di tre millenni e mezzo,
in particolare negli ultimissimi secoli. Sono
sicuramente necessarie alcune intuizioni
fondamentalmente nuove» (Penrose R., La
strada che porta alla realtà. Le leggi fondamentali dell’universo, Rizzoli, Milano 2005,
p. 1027). Penrose osserva che «invece di tentare di rispondere alla domanda “che cosa”,
la maggior parte degli scienziati moderni
tenterebbero di eluderla. Cercherebbero infatti di argomentare che la domanda è mal
posta: non dovremmo cercare di chiederci
che cosa è la realtà, ma soltanto come si
comporta... Ma senza sapere che cosa sono
queste cose, è difficile capire perché dovrebbero avere un comportamento piuttosto che
un altro» (ib., p. 1028). È in questo spazio
di riflessione sul reale che il contributo delle diverse esperienze è assolutamente necessario.
Credo che in questa direzione vada anche
l’invito di Raimondo Panikkar al teologo
cristiano di «prendere l’iniziativa ed essere
creativo» (Panikkar R., La porta stretta della conoscenza. Sensi ragione e fede, Rizzoli, Milano 2005, p. 67). Egli insiste sulla
necessità che i credenti non rinuncino a
proporre una propria visione del mondo a
partire dall’esperienza di fede. «Forse la vita,
lo spazio, il tempo, la materia, ecc. non sono
ciò che la scienza moderna descrive, ma
molto di più, e la scienza descrive solo un
aspetto delle realtà che chiamiamo con questi nomi. Forse ci dobbiamo emancipare dal
dominio della scienza sul pensiero umano»
(Id., ib., p. 68). Non si tratta evidentemente
di tornare indietro «ma di lasciarsi fecondare da altre visioni del mondo senza dimenticare le scoperte della “modernità”...
Forse una simbiosi con la scienza illuminata dal contributo di altre culture sarebbe
di importanza capitale». Egli ricorda appunto che «la fede non va contro la ragione,
ma è una forma diversa di conoscenza» (ib.,
p. 68).
In ordine alla realizzazione di questo progetto, Panikkar accusa la teologia attuale di
andare a rimorchio della scienza, senza tentare una sintesi. «Il pensiero cristiano si è
via via incarnato nel mondo accettando (anche se con riluttanza e ritardi) la visione del
mondo che man mano incontrava... Il pensiero cristiano è andato più o meno adattandosi alle riforme cosmologiche che venivano proposte, senza però avanzare una propria cosmovisione. Quasi tutte le cosiddette
«teologie» cristiane hanno ceduto al dualismo dominante e sono sfociate in visioni sul
mondo (e sull’uomo) compatibili con ciò che
si credeva fosse Dio (o. c., pp. 46 s.). «È un
fatto storico, istruttivo e anche ironico, che
la teologia cristiana che ha preteso di essere
la regina delle scienze... sia finita con l’essere la loro schiava... Gli scolastici medievali
lo compresero bene e non esitarono a seguire il metodo opposto, adattando le loro concezioni di materia, spazio e tempo alla loro
esperienza cristiana, per poter in tal modo
spiegare ciò in cui credevano. In questo
modo furono precursori dello spirito scientifico: interpretavano dati empirici, ma di
una empeiria non sensibile, e cercavano di
spiegare la realtà partendo da questa esperienza» (ib., p. 64). Panikkar stesso alla fine
degli anni Cinquanta aveva elaborato «un
progetto cui diede il nome di teofisica» (ib.,
p. 67). Con esso aveva tentato di presentare
«una visione della realtà nella quale intuizioni cristiane non fossero né un’appendice
né un supplemento, ma una presa di coscienza della “natura” stessa delle cose: «l’esistenziale cristiano» (ib., p. 68. Si riferisce a Ontonomìa de la ciencia. Sobre el sentito de la
ciencia y sus relaciones con la filosofìa, Gredos, Madrid 1961). Non poté portarlo a compimento ma una preziosa sintesi è offerta
nelle pagine del libro citato (La porta stretta..., o. c., pp. 68 ss.).
La seconda condizione perché il dialogo
tra credenti e scienziati sia fecondo è che
la fede non venga ridotta a semplice accettazione di dottrine ma sia una autentica
esperienza comunitaria, attraverso la quale
la realtà del mondo, delle persone, della
vita venga percepita con quello che la tradizione mistica chiama il terzo occhio o
l’occhio interiore. I modelli con cui l’esperienza viene descritta devono essere però
desunti dalla cultura scientifica corrente,
altrimenti si crea divisione interiore e incapacità di comunicare con gli altri. Ma i
contenuti emergenti devono essere dichiarati in modo proprio: la tensione interiore, il più che essa rivela della vita, l’oltre a
cui è spinta, la profondità da cui emerge.
Se siamo figli delle stelle (Altschuler D. R.,
L’universo e l’origine della vita, Mondadori, Milano 2005, pp. 248 s.) è comprensibile che sentiamo la nostalgia delle nostre
origini.
ROCCA 1 APRILE 2006
DIALOGO TRA SCIENZA E FEDE
alla storiografia filosofica dominante» contro il «pensiero magico» (Trattato di ateologia, Fazi, Roma 2005, p. 198).
Gilberto Corbellini, a sua volta, commentando un articolo dell’antropologo Fiorenzo Facchini pubblicato sull’Osservatore
Romano a proposito del Progetto intelligente, scrive: «non ci si può aspettare che le
religioni riconoscano che la loro esistenza
dipende dal fatto, sperimentalmente provato, che la nostra specie ha sviluppato, sotto
la pressione della selezione naturale e per
migliorare le interazioni sociali, una capacità particolarmente sofisticata di autoingannarsi» (Darwin superstar, ma non è una
fede, «Il Sole-24 Ore» 12 febbraio 2006). La
reazione di Corbellini non è motivata dalla
disputa statunitense sull’Intelligent Design,
perché Facchini dichiara esplicitamente di
considerarlo non scientifico. Si riferisce
invece alla convinzione secondo cui le facoltà superiori dell’uomo non possono essere spiegate ricorrendo ai semplici «processi materiali dell’evoluzione». Il che lascerebbe intravedere che ambiti fisici della
realtà in evoluzione sfuggano al controllo
della scienza e possano essere scoperti attraverso altri strumenti.
3. C’è chi ammette l’utilità del dialogo perché sia gli scienziati che i credenti hanno
problemi umani comuni (guerre, ingiustizie, carestie, malattie, crisi ecc.), alla cui
soluzione tutti possono contribuire con
l’apporto delle specifiche acquisizioni. Max
Planck, pur non riferendosi a questa problematica, scriveva: «La fisica moderna ci
impressiona particolarmente» quando afferma «che ci sono realtà che esistono al
di là della nostra percezione sensoriale e
che ci sono problemi e conflitti nei quali
tali realtà sono per noi molto più importanti dei tesori più ricchi del mondo dell’esperienza».
Degrasse Tyson N. e Goldsmih D., citando
il brano, aggiungono: «È una ricerca antica, che si è guadagnata l’attenzione di pensatori grandi e piccoli attraverso le varie
epoche e le varie culture» (Origini. Quattordici miliardi di anni di evoluzione cosmica,
Codice, Torino 2005, p. 250).
4. C’è chi sostiene la necessità del dialogo
tra scienziati e credenti perché la realtà stessa è molto più complessa di quanto risulti
dalla ricerca scientifica e ciascun ambito di
esperienza riflessa è in grado di contribuire alla sua descrizione. In tale modo la fede
a confronto con la scienza non rischia di
evadere in un mondo immaginario e la
scienza, da parte sua, non si illude di poter
descrivere tutta la realtà o di risolvere i problemi umani con le semplici conclusioni
delle sue ricerche. Il dialogo perciò risulta
urgente per la necessità di cogliere le diver-
Carlo Molari
51
i trucchi del potere
L
Rosanna
Virgili
a seconda bestia dell’Apocalisse
realizza segni eccezionali – qualcosa che si potrebbe paragonare
a quelle che oggi vengono chiamate «le grandi opere»! – per conferire credito alla prima. Gli uomini debbono rimanere impressionati da
quella potenza! Di quali segni si tratta? Prima di definirlo, è utile ricordare che il ricorso a dei segni grandiosi è tipico dei falsi
profeti: «(...) perché sorgeranno falsi cristi e
falsi profeti e faranno segni e portenti per
ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti» (Mc 13, 22); essi sono molto insidiosi,
poiché tendono ad ingannare, pertanto
l’autore vuole rivelare la loro debolezza: anche se vistosi e megagalattici non sono altro che opera dell’uomo, il quale vuole abusare delle facoltà della Trascendenza, utilizzando una sorta di connivenza col Maligno.
Far scendere il cielo sulla terra è opera
propria di Dio, che solo i suoi profeti possono propiziare: «Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, la
pietra e la cenere» in virtù delle parole di
Elia (cf. 1 Re 18, 38). L’attività della seconda bestia nell’organizzare i segni che
rendono credibile la prima, tende a conferire a quest’ultima un potere che altrimenti non le apparterrebbe, essendo soltanto prerogativa di Dio. La prima bestia
viene, così, collocata al posto di Dio, a
tutti gli effetti.
l’abilità del fuorviare
ROCCA 1 APRILE 2006
«E fuorvia quelli che hanno casa sulla terra mediante i segni che gli fu dato di fare
davanti alla bestia dicendo a quelli che
hanno casa sulla terra di fare una immagine alla bestia quella che ha la ferita della
spada e rivisse» (v. 14).
Le grandi opere della bestia, servono, dunque, a fuorviare quelli che abitano la terra, poiché inducono coloro che le ammirano a concederle il posto di Dio. Il suo
potere è, tuttavia, sotto controllo: in realtà
52
«E fa segni grandi
in modo da poter far discendere anche il
fuoco
dal cielo sulla terra
davanti agli uomini» (v. 13).
le viene dato. Il testo spiega bene in che
modo: è la seconda bestia – quella che abbiamo chiamato il «ministero della propaganda» – che persuade gli uomini ad accettare l’assoluta supremazia della prima,
cosicché essi stessi giungano a farsi una
immagine di essa, essi stessi la rendano un
dio!
Questa pratica – peraltro sempre attuale!
– era diffusa nel mondo antico ed era rivolta agli imperatori. Ad Efeso esistevano
un tempio ed una statua di Domiziano. Ma
non si tratta soltanto di una immagine
materiale, della semplice scultura, quanto
di una immagine morale che gli uomini si
costruiscono di colui che poi vanno ad
adorare. Il vero culto di questi uomini sta
nella interiorizzazione e celebrazione di
tale immagine morale, più che in atti rituali veri e propri. Lo stesso fenomeno accade quando oggi si parla di persone che
sono «cult»! proprio nulla di nuovo sotto
il sole...
il furto dello spirito
Mentre sono gli uomini che sotto la pressione della seconda bestia costruiscono
l’immagine fisica e soprattutto quella morale, della prima, è la seconda Bestia che
dà uno spirito di vita a tale immagine. «E
gli fu dato di dare uno spirito all’immagine della bestia in modo che facesse sì che
l’immagine della bestia anche parlasse e
fossero messi a morte tutti coloro che non
adorassero l’immagine del mostro» (v. 15).
A questa immagine, infatti, non viene comunicata una vitalità meccanica, ma viene donato perfino uno «spirito». Il parallelo con
Ap 11,11 è illuminante: ivi si parla di «uno
spirito di vita proveniente da Dio» capace di
risuscitare i corpi. Questa stessa facoltà ri-
il potere che si fa impero
«E fa tutti i piccoli e i grandi, i ricchi e i
poveri, i liberi e gli schiavi in modo che
diano loro una impronta sulla loro destra
o verso la loro fronte; e che non possa comprare o vendere se non chi ha l’impronta
col nome della bestia o la cifra del nome
di lei» (vv. 16-17).
Il raggio di influsso della bestia non ha limiti, come quella del Cristo. L’azione della seconda bestia tende a rendere tutti modellabili, predisposti ad essere «inquadrati» a piacere, dalla prima. Essa impone una impronta, un segno di appartenenza, la fine della
libertà, per i «sigillati». Tipico degli schiavi
era una incisione a fuoco sull’avambraccio
con la sigla del padrone; l’impronta della
bestia è indelebile come un tatuaggio, un irreversibile segno di appartenenza.
L’impronta «sulla mano destra» indica le
attività, il lavoro della gente. Gli uomini
che l’hanno ricevuta agiranno, in questo
ambito, secondo gli scopi della bestia ed
attueranno fattivamente il messaggio da
quella espresso. L’impronta «verso la fronte» indica una progressiva appartenenza
di tutta la persona alla sfera della seconda
bestia: gli uomini con questa impronta
condivideranno i principi della bestia, non
potranno più avere la facoltà di pensare
con la loro «testa».
L’appartenenza alla bestia condiziona la
vita sociale intesa come un interscambio
commerciale, quindi la prassi economica,
in cui ogni rapporto è di carattere mercantile, di vendita e acquisto. Tali acquisti sono
bloccati e resi impossibili per tutti coloro
che non appartengono alla bestia. O ti adegui, insomma, o vieni preso per fame...
la sapienza della profezia
«Qui è la sapienza: chi ha mente calcoli il
numero della bestia si tratta infatti di un
nome di uomo: la sua cifra è 666». (v. 18)
Il passo volge alla conclusione e il «profeta», autore dello stesso, si preoccupa di rivolgere un monito al suo target: chi ascolta deve ora («qui») entrare espressamente
in gioco e mostrare il suo senso di responsabilità. Deve «avere mente» (intelligenza)», capacità di interpretare il messaggio
simbolico proposto e di applicarne il contenuto ricavato, alla propria realtà storica. Il termine «sapienza» è sinonimo di
«orecchio» (cf. «avere orecchio» in Ap 2,
7. 11. 17. 29; 3, 6. 13. 22; 13, 9): esso denota la sensibilità e l’intuito verso ciò che
accade, verso ciò che si nasconde dietro lo
smalto delle immagini, la menzogna sopra
alla quale si agitano le parole.
Il lettore è invitato a calcolare la «cifra» (arithmon) della bestia. Se l’Apocalisse è stata
scritta alla fine del primo/inizio del secondo secolo, l’indicazione più attendibile è
quella di Domiziano, l’imperatore che veniva considerato un Nerone redivivo. Il Nerone storico era esistito molto tempo prima, ma la leggenda ancor diffusa della sua
reviviscenza lo rendeva sempre presente.
L’autore dell’Apocalisse, reinterpretando
quella leggenda afferma, per i cristiani che
ascoltano, che il «tipo» di Nerone si ripresenterà sempre sulla scena della storia, in
virtù della propaganda organizzata dalla
seconda bestia. Perciò i cristiani non debbono abbassare mai la guardia.
Il compito per loro è quello di esercitare
la libertà come senso critico, come intelligenza sul potere e sulle strategie mistificate ed ambigue di coloro che lo esercitano impropriamente, costringendo gli
uomini a forme sempre più sofisticate di
schiavitù. Il compito delle sette chiese di
Apocalisse e di quelle di tutti i tempi è
quello di esercitare la virtù profetica, poiché: «qui sta la sapienza». Nel servizio,
cioè, alla libertà.
ROCCA 1 APRILE 2006
LA VOCE DEL DISSENSO
conosciuta, qui, alla prima bestia, suggerisce un prolungamento del paragone tra la
seconda bestia ed il Cristo risorto: anch’essa, infatti, può far resuscitare i morti!
A causa dello spirito che le ha dato la seconda bestia, la prima è in grado di parlare: sono gli enunciati, le «teorie» su cui essa
fonda il suo potere. È l’«ideologia» di un
potere, la sua forza persuasiva: esso è elaborato e messo in atto da quel «profeta»
del potere che è la seconda bestia! A qualcosa di molto simile oggi lavorano gli intellettuali «organici», certi uomini di cultura, ma specialmente il grande mondo dei
media: il «quarto» e il «quinto potere»,
quando si mettono al servizio dell’ «imperatore» di turno.
Il messaggio ideologico della prima bestia
ha la faziosità radicale di tutte le dittature
che conculcano i diritti dell’uomo. Ciò che
esprime l’immagine costruita della prima
bestia, tende ad avere un effetto cogente e
totalitario: tutti i singoli la debbono considerare come un assoluto, altrimenti saranno uccisi. (Cf. Dn 3, 6 dove chi non si prostra alla statua di Nabucodonosor viene
gettato «in mezzo ad una fornace ardente»). Occorre che i cristiani facciano grande attenzione a ciò che si cela dietro l’immagine, oggi più che mai!
Rosanna Virgili
53
sorelle separate
ROCCA 1 APRILE 2006
Lilia
Sebastiani
54
V
orrei soffermarmi in breve su un
aspetto del Concilio Vaticano II
di cui abbastanza poco si è parlato nelle valutazioni, nelle sintesi e nelle analisi – in certi casi
di alta qualità – che si sono avute in occasione del quarantennale della sua
conclusione: cioè sulla presenza delle donne. Non sulla condizione delle donne in
generale quale fu affrontata dal Concilio;
ma proprio sulla loro ‘presenza’ (assente?)
in quel momento fondamentale.
Sempre più sentiamo l’urgenza di parlare
del Concilio, teologicamente e storicamente (l’approccio storico serve a ‘chiaroscurare’ quello teologico, ne aumenta la visibilità); di scavare, di capire e di far capire,
di mettere più in luce le sue luci e di illuminare le sue penombre.
Forse anche perché siamo consapevoli di
vivere una fase in cui il rischio di regresso
è reale. «I tempi sarebbero maturi per un
Concilio Vaticano III», dice qualcuno.
Qualcun altro dice: «Guai se un Vaticano
Terzo avesse luogo in questo momento, riuscirebbe solo a completare la ‘normalizzazione’ o l’affossamento del Secondo». Comunque la si pensi, è fondamentale ricordare e pensarci ancora.
Al Concilio pensiamo come a uno spartiacque temporale, anche per gli aspetti incompiuti; e anche per quanto si riferisce alle
donne nella chiesa cattolica, alla loro condizione e al modo di considerarle. La carica di novità è innegabile, ma sfuggente. Il
Concilio ha detto poco sulle donne e sul
loro ruolo ecclesiale, e quel poco non è
nuovo, è molto generico, è visibilmente
frenato dal bisogno di non urtare troppo
la minoranza conservatrice che, senza prevalere, influenzò parecchio i lavori e la redazione finale dei documenti, inducendo
a smussare le novità più interessanti di
contenuto e di linguaggio.
Eppure da un certo punto di vista non è
esagerato dire che nella condizione ecclesiale delle donne tutto cambia con il Concilio: anche quanto cominciava a delinearsi già prima, perché di colpo sembra acquisire un insperato diritto di cittadinanza nella chiesa, un’ufficialità nuova; anche
quanto non c’è ancora, forse, perché al
Concilio sono state dischiuse delle porte
verso un cambiamento storico ed ecclesiale
che urgeva. Infatti, nonostante tutte le
spinte regressive che si possono riconoscere nel presente della chiesa, non sembra
né facile né possibile richiudere quelle porte.
Ma di questi problemi generali e specifici
si parla spesso. Ora vorremmo invece ricordare le donne che al concilio furono
presenti, come testimoni senza parola. In
particolare le uditrici, dunque, che comparvero solo a partire dalla terza sessione:
esse sembrarono e si sentirono onorate da
un eccezionale privilegio rispetto alle altre donne, ma erano comunque discriminate (anche rispetto ai laici uomini).
Ci interessano soprattutto perché la loro
posizione sembra riassumere in maniera
esplosiva la posizione delle donne nella
chiesa, «sorelle separate», «ospiti in casa
loro» (1).
costruire sul negativo
È un tema di riflessione che per sua natura deve procedere quasi interamente sulla
linea di una (speriamo) non infeconda negatività.
Le donne – come i laici in genere – non
avevano avuto alcun ruolo nella commissione antepreparatoria che aveva cominciato ad agire nel 1959, e nemmeno nelle
commissioni preparatorie (una di queste
era sull’apostolato dei laici, ma interamente composta da ecclesiastici) o nelle commissioni conciliari. Non facevano eccezione le religiose: nella fase preparatoria erano state consultate solo le comunità religiose clericali.
Eppure alcune donne avevano fatto udire
con forza e chiarezza la loro voce. Ma abbastanza pochi furono quelli che la udirono, ancor meno quelli che diedero segno
di averla udita.
Il 23 maggio 1962 – quando pochi mesi
mancavano ormai all’apertura dei lavori –
un gruppo di donne fece pervenire alla
Commissione preparatoria del Concilio
una specie di libro-manifesto composto di
vari contributi, in cui si chiedeva che la
chiesa riconsiderasse il ruolo delle donne,
accordando loro la piena parità di diritti,
anche per quanto si riferisce al ministero.
Più tardi il libro si sarebbe diffuso con un
titolo significativo: Wir schweigen nicht länger (Non tacciamo più a lungo) (2). Autri-
il rumore di un silenzio
Nell’aula conciliare, come si sa, non c’erano solo i padri conciliari propriamente
detti. Da subito le chiese non unite con
Roma erano state invitate a mandare degli osservatori ufficiali, quasi consulenti
privilegiati: non godevano del diritto di
voto, ma partecipavano a tutte le sedute e
avevano in ogni momento il diritto di prendere visione dei testi preparatori e di avanzare proposte. Inoltre erano stati nominati, direttamente dal papa, dei ‘periti’ (quasi tutti teologi preti) come consulenti per i
diversi ambiti di cui il Concilio si sarebbe
dovuto occupare; pur se non godevano del
diritto di voto e durante le sessioni ufficiali avevano il diritto di parlare solo se richiesti, diedero un apporto notevole. A
partire dalla seconda sessione poi vennero invitati come auditores dei laici, che
potevano partecipare alle riunioni, ma senza prendere la parola, a differenza dei periti. Tredici all’inizio, e – occorre dirlo? –
tutti uomini.
Va ricordato che fino a un certo punto (precisamente, fino al secondo giorno della
terza sessione, 15 settembre 1964), le donne furono escluse anche dall’eucaristia celebrata in San Pietro durante le sessioni
conciliari. Nel 1963 l’esclusione aveva colpito anche donne illustri quali la signora
Montini, cognata di Paolo VI, e m.me Nhu,
vedova del presidente del Vietnam e cognata di uno dei padri conciliari. A una giornalista, Eva Fleischner, un giorno fu fisicamente impedito di accedere a ricevere
la comunione insieme ai colleghi uomini.
Il caso ebbe una certa eco sulla stampa, e
in seguito alla Fleischner furono presentate delle scuse…, ma, per dirla con Manzoni, «inefficaci e tarde», visto che le giornaliste non furono ammesse alla Messa
papale a differenza dei giornalisti. In seguito a questi fatti il cardinale Suenens
(allora arcivescovo di Malines-Bruxelles),
promise di intervenire personalmente presso il papa per eliminare la discriminazione.
Fin dalla seconda sessione il cardinale
Suenens si era espresso a favore della partecipazione di uditrici, il 22 ottobre 1963,
con un intervento decisamente insolito
nell’aula conciliare per contenuto e stile, e
aveva domandato: «Dov’è qui l’altra metà
del genere umano?». Anche l’arcivescovo
Hakim di Galilea si era espresso a favore
dell’ammissione delle donne, mentre il
card. Slipyi aveva sostenuto che la tradizione della chiesa vieta alle donne qualsiasi ruolo attivo, citando a sostegno la frase attribuita a Paolo, «Mulieres in ecclesia
taceant» (1 Cor 14,33b-35) (3).
Varie autorevoli richieste ufficiali di ammettere uditrici al Concilio giunsero nel 1963
da varie parti del mondo cattolico. La risposta, in perfetto stile ecclesiastico, fu che la
questione sarebbe stata esaminata a tempo
opportuno. Quale fosse il «tempo opportuno» o da quali segni lo si sarebbe dovuto riconoscere, non veniva detto.
Rosemary Goldie, molti anni dopo (durante
un convegno indetto nel 1986 per celebrare
i vent’anni dalla chiusura del Concilio) affermò che già nel 1963 il papa aveva pensato a nominare alcune uditrici, contestualmente alla nomina degli uditori, ma che «insistenze poco opportune», anziché facilitare l’iniziativa, l’avevano fatta slittare di un
anno! Se questa è una spiegazione, non spiega molto: ci riesce difficile capire come mai
richieste così legittime e tempestive dovrebbero risultare controproducenti.
la svolta della terza sessione
Comunque la grande svolta visibile del
Concilio per quanto riguarda la presenza femminile si colloca nell’anno 1964,
anche se le dinamiche del cambiamento, per la loro natura non ufficiale, non
sono tanto chiare per noi né facilmente
esplorabili. Certo è che l’8 settembre Paolo VI, ricevendo in udienza un gruppo
di religiose della diocesi di Albano, disse
loro fra l’altro: «Noi abbiamo dato disposizioni affinché anche alcune donne qualificate e devote assistano, come uditrici, a parecchi solenni riti e a parecchie
congregazioni generali della prossima
terza sessione del concilio ecumenico Vaticano II; a quelle congregazioni, diciamo, le cui questioni poste in discussione
possano particolarmente interessare la
vita della donna…».
Come decisione doveva essere dell’ultimo
minuto o quasi, e l’incrociarsi di consultazioni tra i dicasteri vaticani interessati
ritardò la spedizione degli inviti. Nel discorso di apertura della terza sessione (14
ROCCA 1 APRILE 2006
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
ce principale e punto di riferimento del
gruppo di donne che aveva preparato il
testo era una giurista svizzera, Gertrud
Heinzelmann, pervenuta quasi per caso a
occuparsi seriamente di teologia: mentre
lavorava alla sua tesi in diritto canonico,
aveva avuto occasione di incontrare con
inorridito interesse certe affermazioni dei
padri della chiesa e dei teologi medievali
sulle donne, poi di schedarle e raccoglierle in modo più sistematico, rendendosi
conto del peso che quelle idee e quelle affermazioni avevano ancora sul vissuto ecclesiale. La sua petizione/documentazione,
da molti considerata l‘inizio della teologia
femminista, rimase ignorata in sede ufficiale, com’era prevedibile, anche se diversi uomini di chiesa l’avevano privatamente apprezzata.
55
56
ta a riconoscere alla donna una vocazione
che non fosse quella della madre oppure
della suora»…
Sì, per quanto riguarda le donne, forse al
Concilio le cose più interessanti in prospettiva di futuro si verificarono in margine
all’ufficialità dei lavori.
Per questo ricordiamo un dettaglio che
forse non è solo di colore locale. Per ristorare nelle pause quelli che erano impegnati nei lavori conciliari, erano stati
approntati ai lati della Basilica due bar,
che gli habitués chiamavano evangelicamente «Bar-Iona» e «Bar-Abba»; ma dopo
l’ammissione delle donne, sembrò indispensabile approntare solo per loro un
terzo bar da un’altra parte, allo scopo di
evitare pericolose mescolanze con gli uomini, e questo fu subito chiamato dagli
uditori anglofoni «Bar-Nun» (in inglese
nun significa suora e le nerovestite-nerovelate uditrici, se anche non erano tutte
suore, potevano sembrarlo) che, pronunciato all’inglese, suonava pressappoco
come «Bar-None» (none = nessuno!).
In realtà le uditrici si guardarono bene dal
frequentare il bar destinato a loro; da subito si mescolarono con gli altri.
E se durante le sessioni ufficiali tacquero
secondo copione, non tacquero negli intervalli: ebbero scambi significativi con gli stessi padri conciliari, con teologi e giornalisti
e con altri uditori laici, ciò che condusse a
stabilire contatti e consentì loro di esercitare qualche influenza sui lavori del Concilio, benché – appunto – sempre in modo non
ufficiale, ‘marginale’ e indiretto.
Lilia Sebastiani
Note
1 «Sorelle separate» richiama il titolo della seconda opera di Gertrud Heinzelmann, Die
getrennten Schwestern (Interfeminas Verlag,
Zürich 1967), in cui l’autrice espone e analizza
gli interventi dei padri conciliari sulla donna.
«Ospiti in casa loro» (forse meglio «nella loro
propria casa») è il titolo di un libro interessantissimo e più recente sull’argomento, pubblicato per il trentesimo anniversario del Concilio: C. Mc Enroy, Guests in their own House:
The Women of the Vatican II, New York 1996.,
purtroppo non tradotto in italiano.
2 G. Heinzelmann, Wir schweigen nicht länger,
Interfeminas Verlag, Zürich 1965.
3 Per queste notizie si rimanda soprattutto alla
fondamentale Storia del Concilio vaticano II diretta da G. Alberigo, vol. IV: La chiesa come comunione (settembre 1964- settembre 1965),
Peeters-Il Mulino, Leuven-Bologna 1999, in particolare i saggi di J. A. Komonchak,
«L’ecclesiologia di comunione», pp. 19-118 e di
H. Sauer, «Il concilio alla scoperta dei laici»,
pp. 259-291.
CINEMA
Giacomo Gambetti
P
uò capitare, come è
capitato a noi, che si
veda un film che è la
«continuazione» di un film
precedente, senza conoscere il film precedente. Esiste
una regola ufficiale e fissa,
in proposito? Non esiste.
Molte volte neppure si sa se
un film cominci o continui
una storia, e poi quando
esce sugli schermi si tratta,
comunque, di un’opera
nuova e autonoma. Se è lecito un confronto, anche
Dumas scrisse, dopo «I tre
moschettieri», un altro romanzo, «Vent’anni dopo»,
che riprende parte della
prima avventura e dei primi personaggi, per continuare a raccontare avventure e personaggi vecchi e
nuovi. I due romanzi si
poterono ovviamente e si
possono leggere autonomamente, e non si vede
perché ciò non possa accadere anche con i film.
Queste «continuazioni»
sono sempre frutto di
obiettivi commerciali, ma
ciò non può far trascurare
che ogni film ha un inizio
e una fine e una sua conclusione, che a volte può
concorrere a una storia e
a una conclusione più generale, ma che è anche valida in se stessa.
Saw 2 – La soluzione dell’enigma di Darren Lynn
Bousman (e non sappiamo se sia stato o no regista anche del film precedente) narra di un delinquente psicopatico che
ama uccidere le proprie
vittime imprimendo sulla
loro pelle un simbolo
enigmistico, che a volte
viene inciso anche addosso ad alcuni prigionieri
torturati e lasciati lentamente morire. Il serial-killer di cui si parla è – così
– l’Enigmista. Il quale, all’inizio del film di oggi, fa
prigioniero il figlio di un
agente di polizia suo ne-
Una storia dopo l’altra
Saw 2 – La soluzione dell’enigma
mico e si diverte a provocare costui perché salvi il
figlio. Gli dice infatti che
rimangono poche ore di
vita, poiché il giovane è
rinchiuso con altri in una
stanza, da individuare, in
cui è immesso un gas destinato a condurre inesorabilmente alla morte. Il
film si svolge fra le torture, le scene di disperazione e le urla strazianti delle vittime designate, il cui
corpo va via via deteriorandosi, e la ricerca ossessiva del poliziotto e di
qualche collega per individuare la famosa stanza,
avendo però già catturato l’Enigmista. Ma l’Enigmista, che sa di essere destinato a morire per una
malattia sicura e incurabile, non vuole assolutamente collaborare e si
«diverte» in un macabro
gioco di dispetti, provocazione, torture psicologiche a non rivelare la strada della liberazione dei
prigionieri, e quindi a
non aiutare in nessun
modo il poliziotto.
Quasi in tempo reale il
film procede con scene di
fortissima violenza e crudeltà, per nulla attenuate
dal bianco e nero costante, lampeggiato a tratti da
qualche sprazzo di rosso.
C’è da trovare la chiave di
una serratura, c’è una
chiave che mette anche i
prigionieri l’uno contro
l’altro, c’è una chiave che
soltanto alla fine viene rintracciata. Ma proprio alla
fine-fine scopriamo che è
il poliziotto a rimanere
rinchiuso, dopo la liberazione degli altri, in uno
spazio letale. Inizio di un
terzo film o conclusione
amara e tragica della storia?
Uno degli interrogativi fondamentali, di fronte a un
film come questo, è: a quale genere di spettatore ci si
rivolge? L’abuso della violenza viene a volte giustificato con l’essere il cinema
– come lo spettacolo in genere – uno specchio e un riflesso della realtà quotidiana la quale, in effetti, sulla
violenza non ci risparmia
nulla. L’eccesso della violenza, a volte, è accompagnato da una sottile ma viva
forma di ironia e di gioco.
Se il film di oggi può essere in qualche modo vicino
ad alcune terribili, esasperate, vicende reali del nostro tempo, certamente nel
film manca qualsiasi forma
di ironia e di divertimento
critico. Si dice anche che
film così violenti come questo siano fatti apposta per
portare la gente al cinema,
dal momento che nessuna
rete televisiva può osare
trasmetterli. Forse qualcuna di queste ipotesi è vicina alla realtà. Il che non toglie che, visto in sé e per sé,
questo Saw 2 denoti una
notevole pochezza di idee
e una corrispondente monotonia di stile.
Gli interpreti sono sconosciuti o quasi e non sembrano brillare per originalità e vivacità.
Quello del serial-killer,
cioè di un assassino metodicamente dedito al delitto non per cause specifiche e singole, ma per una
sua maniacale tendenza
oggettiva, è d’altra parte
un tema che la cinematografia degli Stati Uniti tocca spesso, il che può significare che si tratta di un
tema crudamente insito in
quella società, e non solo
in quel cinema.
❑
57
ROCCA 1 APRILE 2006
ROCCA 1 APRILE 2006
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
settembre 1964) Paolo VI aveva inserito
anche un saluto alle uditrici; ma nessuna
uditrice lo udì. Infatti non c’erano, non
avendo ancora ricevuto l’invito ufficiale.
Gli inviti partirono solo il 21 settembre,
quando cioè la terza sessione era cominciata da una settimana, e finalmente il 25
entrò in San Pietro la prima donna uditrice (Marie-Louise Monnet). Altre ne entrarono nei giorni successivi: in tutto, 8 religiose e 8 laiche.
Era il primo coinvolgimento ufficiale delle donne nei lavori del Concilio. Si trattava di un cambiamento storico. Non possiamo non riconoscerlo; e tuttavia oggi
nemmeno possiamo pensare senza qualche perplessità a quelle sedici pioniere in
Basilica, silenziose, velate e vestite di nero,
le laiche non meno delle religiose, e profondamente comprese dell’onore di cui
erano oggetto.
Erano donne certo «qualificate e devote»,
secondo l’espressione di Paolo VI, ma scelte soprattutto per la rappresentatività del
ruolo che ricoprivano e – le laiche almeno –
conosciute assai più per il loro indiscusso
ossequio all’autorità ecclesiastica che non
per l’impegno nella causa delle donne.
All’inizio era inteso che sarebbero state
ammesse a quelle riunioni in cui erano in
programma argomenti che riguardavano
le donne. Ovviamente gli uditori di sesso
maschile a tali restrizioni non erano soggetti: in perfetta coerenza con il pregiudizio patriarcale che tende a vedere nel femminile una particolarità, un ‘accidente’ all’interno della condizione umana in cui il
maschile coincide invece con il normaleparadigmatico.
Tanto più istruttivo risulta perciò il fatto che
una delle otto religiose invitate, madre
Mary-Luke Tobin, quando le fu detto che
avrebbe potuto partecipare alle sessioni
«che interessavano le donne», rispose:
«Bene, allora posso partecipare a tutte». In
effetti le uditrici finirono con il partecipare
a tutti i lavori, senza che nessuno sollevasse difficoltà: la prassi qualche volta può superare le aperture teoriche.
E vi era qualcuno, per fortuna, a cui il loro
silenzio cominciava a non sembrare così
ovvio. Nell’ottobre vi furono due richieste
da parte degli uditori laici affinché fosse
consentito un intervento femminile in aula,
e le richieste furono anche appoggiate da
alcuni padri conciliari della corrente progressista, ma non ebbero seguito: alla fine
i moderatori autorizzarono l’intervento
con la condizione che venisse fatto da un
uditore e non da una uditrice.
In quello stesso periodo il cardinale Hallinan, arcivescovo di Atlanta, non all’interno dell’aula conciliare bensì parlando alla
stampa, ebbe modo di osservare che la
chiesa fino a quel momento era stata «len-
TEATRO
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
ROCCA 1 APRILE 2006
S
i parla spesso oggi di
spettacoli interattivi,
ad indicare quelle
forme comunicative che
pongono il «fruitore» in
condizione di interagire,
appunto, direttamente
con chi comunica realmente o virtualmente.
Bene: nel teatro mi è recentemente accaduto di
constatare modalità simili legate, più che all’informatica, al linguaggio dialettale e all’ambientazione
locale (nella fattispecie
milanese).
La prima parte della commedia El nost Milàn (La
nostra Milano) sottotitolo La povera gent – è felicissima opera di Carlo
Bertolazzi, autore del verismo lombardo, riscoperta da Giorgio Strehler
che la mise in scena più
di una volta. Scritta alla
fine dell’Ottocento, è un
bell’affresco della Milano
dei poveri. In tale contesto si innesta l’azione: la
tragedia di Nina, vittima
di un malavitoso del quale il vecchio padre della
giovane donna farà giustizia. Bene ha fatto Aleardo Caliari a riproporre –
nel suo Teatro della Memoria – questa fondamentale opera. Discutibile l’ambientazione negli
Anni Cinquanta del Novecento. Diversa era infatti
la miseria del dopoguerra da quella della seconda rivoluzione industriale. Il bel testo di Bertolazzi tuttavia tiene ancora, al
punto che il pubblico interagisce – come dicevo –
anticipando le divertenti
battute di sapore quotidiano o reagendo, nei
momenti più drammatici
al «cattivo» di turno.
Analogo clima, sia pure in
58
lingua ma con belle cadenze milanesi, in una gustosissima Commedia di
Carlo II Colla – La vecchia
Dorotea – che la Compagnia Carlo Colla e Figli ha
messo in scena con le sue
marionette. Scritta nel
1919, la commedia è un
apologo in cui gli attori
dalla testa di legno riecheggiano il Bertolazzi
(l’ingenua popolana che
rischia di sacrificare la
propria vincita al lotto alle
astuzie di un «poco di
buono»), ma anche il Porta (lo scenario è quello del
Verziere al centro di Milano) o addirittura il Giusti (le esilaranti caricature degli sbirri austriaci).
Immancabile il lieto fine,
che fa tirare un sospiro al
pubblico, il quale interagisce con sonore risate
come ai tempi del glorioso Teatro Gerolamo.
Il terzo esempio, infine, è
Che gibilè per quatter ghej
(Che baraonda per quattro
soldi) – versione in milanese, a cura di Roberto
Marelli e Marzio Omati,
di una farsa di Alberto Colantuoni. Anche qui il dialetto lombardo, anche qui
un biglietto vincente che
il possessore – uno zio defunto – ha portato con sé.
La messinscena di una dignitosa compagnia amatoriale diretta da Mariuccia Guizzetti, ha visto –
nel Teatro Parrocchiale di
San Michele Arcangelo a
Milano – tre affollate repliche. Dalla platea risate,
sdegno, stupore per i colpi di scena. Più che interazione, l’antica e viva legge del teatro: riproduzione della realtà, ma anche
personificazione dei sentimenti.
❑
I
n bilico: tra le ultime
sceneggiature tv realizzate e l’annuncio dell’autore, Camilleri, dell’avvenuta consegna all’editore del
romanzo che è conclusivo,
per «scomparsa» del protagonista, delle avventure di
Salvo Montalbano (commissario di Pubblica sicurezza
in Sicilia). In bilico: tra il desiderio dell’interprete, Zingaretti, di smarcarsi dalla
forza attrattiva di quello che
pur essendo uno solo dei
suoi personaggi potrebbe far
ingombro in un itinerario
professionale comunque
ben ricco e positivo, e un
gradimento del pubblico che
va oltre indici di ascolto Tv
(e di vendita libraria) che ne
suggerirebbero prosecuzioni… In bilico, appunto:
come accade a molte avventure, letterarie o tv, che sono
positive prima di essere di
successo o nonostante il successo che vanno riscuotendo, e rispetto alle quali si
deve decidere se concludere,
lasciando rimpianti di vario
genere, o se prolungare sine
die assumendosi pericoli di
scadimento, banalizzazione
e smarrirsi di qualità. È pensabile un Montalbano/serial? O l’invenzione di prequel e sequel come accade
per le saghe fantasy o Sf?
Una risposta, che esula dalle valutazioni della convenienza televisiva è da cercare ragionando intorno a
quella lingua ed alla modalità di scrittura che rappresentano l’invenzione maggiore di Camilleri nella sequenza dei romanzi «di
Montalbano»: nella narrazione degli eventi, così come
nel racconto dei luoghi e
nelle parti dialogate (battute e controbattute, ricostruzioni d’eventi, meditazioni e
«fra sé»). Un linguaggio che
non è totalmente italiano,
pur essendolo per appartenenza di fonemi, non è nessuna delle lingue minori del-
Augusto Cavadi
Brescia
la Sicilia pur avendone l’apparenza di forma dialettale, non è un’astrazione tra
lingue: ché, anzi, anche non
cogliendo in prima lettura
taluni passaggi verbali, il
significato comunque si
raggiunge in forza di una
sorta di interna densità sonora; quasi di concretezza
concettuale. Simil/turpiloquio non escluso.
Il passaggio alle sceneggiature televisive ha saputo
mantenere – i trascorsi Rai
di Camilleri… – invenzioni,
sintesi e concretezza di
quella lingua, nei dialoghi;
ha affidato la rappresentazione dei luoghi ad una regia capace di renderne colori e forme esaltandone gli
«eccessi»: i barocchi di
sfondo come grandi spazi
da pittura metafisica, la
natura come estremizzazione della luce; ha asciugato
la narrazione «stringendo»
i passaggi tra gli eventi ma
concedendosi i lussi del panoramicare e del campo
lungo di ripresa, anche fermo, dentro il quale lasciar
avvenire l’azione. Il tutto a
ripetere, reinventando,
quelle densità, quelle materialità, quello svolgersi delle trame legato a cose concrete.
Nessuna di queste due
«scritture» – né quella tutta
di parole, né quella di Tv – è
serializzabile, su questi livelli qualitativi: al procedere
delle realizzazioni tv, anzi,
qua e là si coglie qualche
cedimento: le battute si fan
convenzionali, il piantone
Tatarella togliendosi dallo
sfondo si fa macchietta,
qualche interno notte svicola l’ambiente verso illuminazioni ad effetto… Ripetere
non giova, dunque, e serializzare farebbe danno.
Una pausa televisiva è opportuna; semmai ci può
augurare che quella autorale trovi ripensamenti.
❑
I
l travaso da Treviso a
Brescia permette a Marco Golden di moltiplicare la sfida e vincerla proprio nel momento in cui
chiarisce l’identità della
propria poetica. Il fare storia dell’arte per esprimere
la interiore necessità di
esprimersi, fino alla costruzione di uno spazio teatrale, di un racconto, per
non aver paura a vedere il
dato esistenziale con il rischio degli psicologismi
tritacarne e la scrittura a
cedere alla cattiva letteratura. E dunque saranno i
capolavori e le filologiche
e storiche indagini a salvaguardare proprio quella intima necessità dell’espressione dell’esistere che
l’opera magna vive proprio
perché è vissuta. Così la
strepitosa mostra di Gauguin e Van Gogh si accompagna ad una sua sorta di
appendice con i bellissimi
Millet (dal Museum of Fine
Arts di Boston) e da tale
fantasmagorica esplosione
di «colore nuovo» ci si congiunge alla tornata italica,
da Perez a Guccione, alla
felice riproposta – per la
cura di Fabrizio D’Amico
che, nel suo argomentato
e felice saggio in catalogo,
afferma: «una dimensione
di primitivismo che in molteplici declinazioni lo terrà avvinto lungo gran parte degli anni venti» – dell’opera del maestro di Assisi – dove nasce nel 1886,
il 9 novembre (morirà a
Roma, il 20 maggio del
1965) – Riccardo Francalancia (e perché non ospitarla proprio ad Assisi!);
dando tale elenco di esposizioni (con i cataloghi benissimo editi da Linea
d’Ombra Libri) corpo e vita
al progetto di Goldin: «Brescia. Lo splendore dell’arte».
La mostra dedicata a Gau-
guin e a van Gogh insegue
i due artisti nella geografia delle loro peripezie, da
Parigi e Bretagna (Gauguin) e dall’Olanda (van
Gogh) agli intrecci in Arles
e quindi a dividersi i significati della vita con la propria solitudine, a SaintRemy e Auvers (van Gogh)
e a Tahiti e alle Marchesi
(Gauguin), così che il colore «nuovo» è l’antico parlare della verità del vivere
e del morire dentro la disperata e stridente felicità
di un significato che raccolga i cocci e li ricomponga in una unitaria infinita
sublimazione.
Scrive Goldin: «(Gauguin)
a Tahiti, più ancora che in
Bretagna, vive, nella bellezza di un mondo, la compenetrazione tra natura e figure sulla spiaggia. Tra ciò
che permane e ciò che
scomparirà. Ma tutto sta
sotto la luce invariabile dell’eterno, anche quelle donne che moriranno giovani
e avvolte nel rosso che ci
fissa quasi a designare
l’amore che santifica e rigenera. C’è meno ottimalità in
van Gogh, ogni cosa sospesa entro una luce che è dello spirito e del colore insieme» fino al Gauguin in cui
«la pelle liscia della pittura
si frantuma in una pioggia
di gialli e rossi, verdi, azzurri» come «il colore degli ultimi paesaggi di van Gogh
a Auvers, vivono per il senso di una stagione che muore ma si perpetua a lungo,
entro un tempo infinito. Il
tempo di oggi e il tempo di
sempre si sommano, in
quell’oblio della terra e dei
colori che dà luogo a una
memoria diversa, assoluta.
Il grasso pulviscolo dei
campi di grano e dell’erba
per van Gogh, la fioritura
accesa di una nuova primavera per Gauguin».
❑
Rouault a Palermo
D
ella serie di 58 incisioni su rame note
col titolo complessivo di «Miserere» (pubblicate originariamente dall’autore qualche anno dopo la
fine della seconda guerra
mondiale), una raccolta
completa è custodita nella
Galleria d’arte contemporanea della «Cittadella cristiana» di Assisi. Dal 3 al 26 marzo una riproduzione fotografica delle tavole, realizzata
dal maestro Elio Ciol e corredata da didascalie scritte
di pugno dall’artista francese, è stata allestita a Palermo
presso il Tabularium del Loggiato San Bartolomeo alla
Marina. Il tema della mostra
didattica itinerante è la passione di Gesù di Nazareth, in
cui il pittore vede simboleggiata la sofferenza che sfigura le vittime della storia. Ma
la tematica religiosa non lo
distrae dalla sua ispirazione
originaria e continua: come
nelle opere in cui rappresenta «donne di strada, pagliacci, giudici e megere», anche
qui egli persegue «il proprio
accordo interiore nell’universo della forma e del colore»
(J. Maritain, Le frontiere). E
lo persegue andando all’essenziale perché «più un artista è grande, più egli semplifica, operando una scelta
e omettendo».
Che la mostra passi da Palermo, potrebbe non essere
privo di significati.
Innanzitutto s’impone una
ragione di carattere generale: la nostra città ha bisogno
di iniezioni di bellezza. Lo
storico Paolo Viola, da poco
scomparso, mi diceva che
l’aveva scelta – lui piemontese d’origine, laureato a
Pisa, abitante a Roma – perché a suo parere sarebbe
una delle città più belle
d’Italia. Ma è imbruttita.
Anzi – per evitare di pensare ad un processo biologico
ineluttabile – abbrutita.
Quanto scriveva Vincenzo
Consolo ne Le pietre di Pantalica del 1988 resta ancora,
per troppi versi, attuale. Qui
Palermo è una Beirut distrutta da una guerra che
dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati della città. La guerra
contro la civiltà, la cultura,
la decenza» (p. 172).
Ma se la situazione fisica,
materiale, è questa, la bellezza di cui abbiamo bisogno in città come la nostra
deve evitare anche solo l’apparenza della retorica. Dev’essere nuda, schietta,
asciutta. Proprio come i
quadri di Rouault che – com’è tipico dell’espressionismo – non concedono nulla
all’eufemismo, all’abbellimento artificioso. E che
aprono gli occhi sulle risorse sepolte in personaggi e
paesaggi, ma attraversandone – con pietoso realismo –
le ferite oggettive. Basta fare
un confronto fra questo Miserere e una Via Crucis ‘media’ esposta nelle nostre
chiese, dove il Messia sofferente ha i lineamenti stucchevolmente piacenti di un
attore di Hollywood. È un
po’ la differenza fra il Gesù
di Pasolini e il Gesù di Zeffirelli (e non è un caso, forse, che Pasolini abbia avuto
proprio alla «Cittadella»
d’Assisi l’idea del suo «Vangelo secondo Matteo»). Dico
di Pasolini, non di Mel Gibson perché non si tratta di
essere sadicamente truculenti: l’arte compie la magia
di rendere liberatrice la contemplazione persino delle
deformazioni. L’arte di
Rouault rispetta la sofferenza dell’uomo Gesù in tutta
la sua cruda concretezza, ma
la trasfigura poeticamente:
la fa diventare, per così dire,
il prototipo della sofferenza
di ogni uomo. Per questo,
davanti a più di una delle tavole esposte, può capitare
che il visitatore avverta la
sensazione di essere davanti ad uno specchio: che rifletta non tanto la sua ‘maschera’ protettiva quanto la sua
anima indifesa.
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ROCCA 1 APRILE 2006
Montalbano
Il dialetto interattivo
MOSTRE
SITI INTERNET
FOTOGRAFIA
Michele De Luca
ROCCA 1 APRILE 2006
L
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proprio entourage, di familiari, di ricordi e di luoghi.
Per l’allestimento della mostra «L’occhio di Fortuny.
Panorami, ritratti e altre
visioni» «è stato riaperto a
Venezia l’atelier al primo
piano di Palazzo Fortuny in
Campo San Beneto; l’intelligente allestimento da un
lato ne rievoca l’ambiente,
dall’altro è puntato su
un’agevole lettura degli
esiti espressivi con più di
cento immagini. Curata da
Silvio Fuso (catalogo Marsilio), la mostra allinea,
una significativa serie di
fotografie selezionate e
stampate da Giorgio Molinari con sensibilità filologica ed accorgimenti
tecnici tali da restituirne
al meglio caratteristiche
ed intonazioni.
È certo che Fortuny non fu
né volle essere un professionista in fotografia; non bisogna però cedere – ci fa
notare Fuso – alla facile
tentazione di liquidarlo
come «un fotografo dilettante seppure talentuoso,
un intellettuale ottocentesco poco attento alla coerenza del linguaggio fotografico, più attratto dai soggetti, dalle occasioni che
dalla potenzialità espressiva del mezzo». Il suo rapporto con la fotografia rimane ancora da approfondire, con contributi importanti come quelli offerti
meritoriamente da questa
mostra; ma la complessa
eterogeneità di queste immagini e l’approccio non
semplicemente «artigianale» testimoniano di come
Fortuny si appropri ed usi
da «artista» il mezzo fotografico, riuscendo consapevolmente a fondere perizia
tecnica e risultato espressivo.
❑
Energie rinnovabili
C
’è voluta la recente
«guerra del gas» tra
Russia e Ucraina per
ricordare ai distratti italiani
(ed europei in generale)
quanto il nostro Paese dipenda in larga parte da fonti
energetiche provenienti dall’estero: tema di grande rilevanza, certo, che diventa
però addirittura infimo se accostato su scala macro al
tema dei temi, ossia la dipendenza del sistema produttivo ed economico mondiale
da fonti di energia per lo più
legate a combustibili fossili,
come petrolio, carbone, gas
naturale. Quand’anche la disponibilità quantitativa di
tali risorse risultasse relativamente cospicua, in proiezione temporale, emergenze di
carattere ecologico-ambientale, oltre che necessità di miglior equilibrio nei rapporti
internazionali in ambito
energetico, rimarcherebbero
comunque l’urgenza di sviluppare un sistema energetico alternativo, sostenibile dal
punto di vista sia ambientale, sia delle risorse finite, sia
socio-economico. In tal senso, risulta di preponderante
importanza sviluppare una
più diffusa coscienza collettiva – e quindi opportune pratiche politiche e tecnologiche
– nella direzione delle cosiddette fonti rinnovabili di
energia, già presenti in natura e virtualmente inesauribili, come ad esempio il sole, il
vento, l’energia idraulica, i
moti ondosi, le maree, le biomasse (trasformazione di rifiuti inorganici, organici e vegetali).
Internet offre diverse risorse che illustrano il quadro
scientifico e tecnologico
dell’attuale stato dell’arte
delle energie rinnovabili.
Limitandoci al panorama
italiano, segnaliamo anzitutto il sito istituzionale del
Ministero dell’Ambiente
(www.minambiente.it), che
nella sezione dedicata all’energia presenta schede in-
formative e link a strutture
che operano in questo settore. Molto efficace e dettagliata – anche per un primo
approccio didatticamente
fruibile – la rassegna informativa di carattere scientifico, ma anche tecnologicooperativo, proposta in
www. e n e r g i e - r i n n o v a bili.net, il primo e miglior
portale italiano sul tema,
dotato di database con enti
e aziende che operano nel
settore.
Un valido contributo offerto a livello nazionale sia in
Internet sia a livello operativo proviene da Ises Italia
(sezione italiana dell’International Solar Energy Society), la principale associazione tecnico-scientifica
non profit per la promozione dell’utilizzo delle fonti
energetiche rinnovabili
(www.isesitalia.it). Preso
atto dei numerosi ostacoli
alla diffusione di queste
energie (barriere informative, politico-legislative, istituzionali, economico-finanziarie, infrastrutturali),
Ises Italia punta ad agire a
livello di informazione, assistenza tecnica, formazione professionale, coinvolgendo enti ed aziende istituzionalmente implicati
nella politica energetica italiana, industrie del settore,
centri di ricerca, università, organizzazioni di categoria ed enti locali interessati.
Articolato in senso scientifico e attento all’intera problematica è infine il sito dell’Enea, che illustra in
un’ampia sezione obiettivi
e organizzazione della valorizzazione e impiego delle energie rinnovabili
(www.enea.it/com/ene/
index.html). Utile anche la consultazione
del portale della rivista
mensile di Legambiente
(www.lanuovaecologia.it).
❑
Luisa Santelli Beccegato
(a cura di)
Bravi da scoprire.
Alunni di diverse nazionalità e successo
scolastico
Levante Editori
Bari 2005, pp. 205
Il testo nasce come resoconto di una ricerca, condotta con un gruppo di 25
scuole di Bari e provincia,
che hanno aderito all’iniziativa promossa dalla Sezione di Pedagogia interculturale dell’Università di
Bari – di cui la curatrice è
la direttrice. Tematica pedagogica di sfondo è l’educazione interculturale ;
l’istituzione scuola non può
rimanere impreparata di
fronte alle nuove dinamiche sociali di cui si decifrano i contorni, ma per le
quali le risposte sono tutte
aperte e possibili. Finora in
Italia si sono affrontate le
problematiche delle diversità culturali passando da
un’attenzione ai momenti
celebrativi sulla tolleranza,
sui temi della pace e della
non violenza allo sviluppo
di una didattica articolata, basata su strategie comunicative e relazionali da
impostare con tutti gli
alunni, per cercare tanto la
valorizzazione delle differenze quanto quella delle
somiglianze, a partire dalle diverse storie ed esperienze personali. Perché
l’interculturalità – sottolinea la Santelli Beccegato
nella sua introduzione –
non è affatto un atteggiamento spontaneo (anzi
spontaneo è il timore o la
vera e propria paura del
diverso), ma è piuttosto un
processo da costruire. Il significato di un’educazione
interculturale sta nella formazione di un’armonica
identità personale e sociale rispettosa di sé e dell’altro, con l’obiettivo di rag-
giungere la cooperazione.
Quella descritta nel libro
si configura comunque
come ricerca in controtendenza rispetto agli studi di settore che preferiscono sottolineare la parte oscura dello scenario
stereotipato di quella che
viene definita Ciucciolandia, scuola dei nuovi barbari, secondo le diffuse
semplificazioni dei media:
bocciature ed abbandoni
scolastici (che certo esistono ma non sono tutto) e
analizza invece i successi
scolastici, cioè le eccellenze raggiunte dagli alunni
stranieri, allo scopo di : far
emergere i casi positivi,
riconoscere le ‘buone pratiche’ di insegnamento avviate in presenza di tali
alunni, nonchè veicolare
un messaggio di fiducia
nei confronti del tessuto
sociale. Ciò è già esplicito
nel sottotitolo, nella scelta di non chiamarli stranieri o extracomunitari,
ma «alunni di diverse nazionalità», a sottolineare
una loro denominazione
positiva, quale connotazione rispettosa delle identità e delle diversità delle
singole storie. L’impostazione della ricerca è di tipo
qualitativo perché rileva
processi e condizioni significative per comprendere e valorizzare scelte
educative, ma anche organizzative e didattiche che
concorrono a costruire
percorsi flessibili di insegnamento / apprendimento. Ne risultano implicati
capi di istituto, insegnanti e alunni assieme ai mediatori culturali tutti coinvolti nel transito dallo ‘stare bene’ al ‘fare bene’ a
scuola (clima e risultati) e
le loro opinioni e le letture del processo vissuto
sono raccolte con attenzione, messe a confronto
con le tecniche del collo-
quio e delle interviste, curando l’organizzazione e
la documentazione delle
attività. Socializzazione ed
apprendimento – insiste la
prof. Santelli Beccegato –
sono processi che si sostengono reciprocamente
e che puntano non solo ad
incrementare le promozioni, ma a stimolare più alti
profili apprenditivi in tutti gli alunni, mediante la
responsabilizzazione di
ogni alunno come singolo,
orientato alla conquista
della sua autonomia ed
allo stesso tempo consapevole componente di un
gruppo.
La direzione di queste osservazioni non mira ad una
facile soluzione delle dinamiche scolastiche, ma vuole prendere la direzione di
ricercare ed elaborare progettazioni condivise tra gli
operatori della scuola, tra
loro e gli alunni, i loro famigliari ed i rappresentanti
della società: c’è di mezzo
l’elaborazione dei saperi e
la valorizzazione dei diversi stili cognitivi ed apprenditivi, ma soprattutto c’entra la consapevolezza che
educare è un crescere insieme.
Luigina Morsolin
Marcel Gauchet
La democrazia contro
se stessa
Città aperta Edizioni,
Troina (En) 2005,
pp. 291.
Ha sconfitto feroci dittature, ha affermato i diritti
dell’uomo e ha lanciato le
basi della partecipazione
collettiva. Ma ora rischia
un clamoroso suicidio. È la
democrazia secondo la visione del filosofo Marcel
Gauchet, redattore capo e
co-fondatore della rivista
francese Le Débat, acuto
osservatore dell’evoluzione
delle forme politiche europee nell’arco del ‘900. Il suo
libro raccoglie i principali
articoli – dal 1980 al 2000 –
che Gauchet ha scritto per
la rivista da lui fondata, brevi saggi che spaziano dalla
politica alla religione, dalla
pedagogia alla psicologia,
ponendo l’accento sulle
macro-trasformazioni che
oggi hanno determinato un
paradosso: l’esercizio della
democrazia regredisce proprio con l’avanzare dei suoi
principi e valori supremi.
Secondo l’analisi di Gauchet, è proprio a partire dagli anni ’80 che i concetti di
«massa», «classe» e «nazione» iniziano a sfaldarsi per
lasciare il campo all’individuo quale soggetto di diritto. La fede nella democrazia diventa così «fede nel
diritto che protegge e distingue le individualità», perfettamente compatibile con la
preferenza per i piaceri privati e il culto del successo
personale. Se all’indomani
della Seconda Guerra Mondiale, con la nuova alba delle carte costituzionali europee, l’obiettivo comune era
rappresentato dall’organizzazione del tutto, la deriva
contemporanea si realizza
nell’indipendenza delle parti. L’esito, per Gauchet, si
concretizza in una sempre
più crescente crisi politica
che, a sua volta, può sfociare in un lungo periodo di
oscurità della partecipazione collettiva alla vita democratica. Eccesso di catastrofismo? L’autore, a questo
punto, quasi prende le distanze da se stesso e afferma: spesso la storia insegna
che gli strumenti politici
possono generare insospettabili processi di consapevolezza, che sanno trasformare la società in soggetto
capace di autogoverno.
Pasquale Martinelli
61
ROCCA 1 APRILE 2006
Giovanni Ruggeri
Mariano Fortuny
a visione «teatrale»
del reale: in sintesi
potrebbe essere questa la specificità che connota la produzione fotografica di Mariano Fortuny, sia che si traduca in
una moderna e personale
concezione della «veduta»,
sia che si concreti nell’altro «classico» della fotografia, e cioè nel «ritratto»;
e ciò in una più generale
aspirazione ed impresa, realizzata soprattutto nei
primi dieci anni (circa) del
secolo, tesa a restituire all’essenza e alla funzione
dello sguardo fotografico
la qualità ed il ruolo di
«trasfigurare» la realtà.
Non a caso sono anni che
coincidono, per quanto riguarda in particolare la
realizzazione di splendide
riprese panoramiche, con
l’entusiastica adesione di
Fortuny alla riforma teatrale wagneriana, che egli
mette in relazione con i
grandi spettacoli di massa
parigini e con la pittura dei
Deutsche Romer.
Una «visione», comunque,
che, per formazione culturale e scelte estetiche, non
può scindersi (anzi ne è
impregnata) da altri fattori che hanno caratterizzato il suo lavoro artistico, e
cioè il suo eclettismo, la
sua moderna progettualità coniugata con un forte
richiamo verso i valori culturali e artistici rinascimentali, il senso di raffinatezza esistenziale e di culto della privacy; che coinvolge l’altro lato della produzione fotografica di Fortuny sviluppatasi nell’arco
di un venticinquennio, riguardante una sorta di privato taccuino di immagini popolato da intimi studi pittorici, personaggi del
LIBRI
Ecuador
ROCCA 1 APRILE 2006
S
tato dell’America latina, attraversato dalla
linea dell’equatore,
l’Ecuador confina con la
Colombia a nord e con il
Perù ad est e a sud. Il Paese
può essere diviso in tre regioni: le pianure costiere
nella parte occidentale, la
Cordigliera delle Ande (che
raggiunge il punto più alto
con il Chimborazo a 6310
m.) nella parte centrale e le
pianure amazzoniche nella parte orientale, oltre alle
Isole Galapagos (famose
per l’unicità della fauna e
per le insolite formazioni
geologiche) situate a circa
1000 km ad ovest della costa lambita dall’Oceano Pacifico. Gli iniziali europei
ad approdare sulle coste
dell’Ecuador furono gli spagnoli nel 1526. I primi tentativi di strappare la regione ai colonizzatori si registrarono però solo agli inizi del XIX secolo. Nel 1822,
ottenuta l’indipendenza, il
Paese entrò a far parte della Grande Colombia, una
confederazione di stati
comprendente Venezuela,
Panama e la stessa Colombia. Nel 1830 il Paese si
emancipò dalla confederazione, proclamando la piena sovranità costituzionale. Iniziò così un periodo
caratterizzato da guerre civili, scontri, tensioni e dal
susseguirsi di regimi dittatoriali. Nel 1941 l’Ecuador
entrò in guerra contro il
Perù. Al conflitto pose termine, l’anno successivo, la
Conferenza panamericana
di Rio de Janeiro, che privò l’Ecuador dei territori
contesi. Durante gli anni
Settanta vennero scoperti
ingenti giacimenti petroli62
feri che trasformarono in
breve l’Ecuador in secondo
produttore di petrolio dell’America latina. Il Paese
aderì quindi all’Opec, ma la
politica del governo provocò una crescente inflazione,
che allargò ulteriormente la
forbice sociale. Nel 1995 il
vecchio conflitto territoriale con il Perù culminò con
uno scontro tra gli eserciti
dei due paesi. La reazione
peruviana fu assai violenta
e l’Ecuador subì numerosi
attacchi aerei prima di accettare il cessate il fuoco. Il contenzioso venne risolto nel
1998, con la firma dell’accordo di Brasilia, che tuttavia
provocò malcontento in entrambi i paesi. Nei primi
mesi del 1999 la moneta nazionale perse rapidamente il
40% del suo valore e l’attuazione di un piano anticrisi
causò una nuova diffusa rivolta. Agli scioperi e alle manifestazioni di piazza, il Presidente Mahuad rispose con
una violenta repressione, indicendo lo stato di emergenza e annunciando l’adozione
del dollaro statunitense come
moneta ufficiale del Paese.
La crisi raggiunse il suo apice quando un gruppo di ufficiali dell’esercito, costrinse il
Presidente a dimettersi, imponendo alla guida del Paese il vicepresidente Gustavo
Noboa. Nel gennaio 2002, le
elezioni presidenziali sono
state vinte dall’ex colonnello
Lucio Gutiérrez.
Popolazione: con una media di 51 unità per km²,
l’Ecuador è il Paese sudamericano con la più alta densità di popolazione, costituita
per il 50% da indigeni, il 40%
da meticci e la parte restante è composto dai discenden-
ti degli spagnoli. La popolazione ecuadoriana (quasi 14
milioni di abitanti) localizzata per l’82% nelle aree urbane lungo la costa, ha una
forte predisposizione per lo
sviluppo imprenditoriale.
Gli abitanti della Cordigliera, al contrario, sono conservatori, sebbene siano sempre
più presenti e attivi nella vita
politica, gestita principalmente dai meticci.
Religione: il 90% della popolazione professa la religione
cattolica. Sono altresì presenti
esigue minoranze di protestanti e nella regione amazzonica persistono i culti tribali.
Economia: l’economia del
Paese, pur essendo fortemente ancorata al petrolio,
che rappresenta da solo
l’80% delle esportazioni, ha
una struttura produttiva ancora di stampo prevalentemente agricolo. L’Ecuador è
inoltre il principale produttore di rose, la cui qualità è
universalmente riconosciuta
come la migliore. Il turismo
rappresenta la più promettente fonte di introiti valutari per il futuro ed è già il
terzo più importante settore dell’economia ecuadoriana. Molto sviluppato è anche
il comparto del pescato, le
cui esportazioni rappresentano una delle voci più fiorenti dell’economia. L’industria, viceversa, si basa essenzialmente su piccole
aziende alimentari, chimiche e tessili, che assumono
però un ruolo estremamente marginale.
Situazione politica e relazioni internazionali: due
anni dopo la nomina dell’ex
colonnello Lucio Gutiérrez a
Capo di Stato, preoccupanti
segnali provenienti sia dal
FRATERNITÀ
Nello Giostra
basso (il movimento indigeno che lo aveva sostenuto)
che dall’alto (il tentato impeachment da parte dell’opposizione) stanno mettendo a fuoco una crescente
perdita di popolarità del
Presidente in carica. Il lento ma inesorabile declino
del Presidente è iniziato,
con ogni probabilità, nel
dicembre 2004, quando,
con una discutibile manovra politica, la sua maggioranza ha deciso di eleggere
i giudici della Corte Suprema di Giustizia, il massimo
organismo giurisdizionale
del Paese. La decisione ha
fatto gridare allo scandalo,
considerato che l’ordinaria
procedura costituzionale
prevede un meccanismo di
auto-sostituzione, gestito
dagli stessi giudici uscenti.
Nell’aprile 2005, in seguito
ad una sollevazione popolare, Gutiérrez è stato costretto a dimettersi, fuggendo nell’ambasciata del Brasile a Quito, dove ha chiesto asilo politico. Il suo posto è stato occupato dal suo
vice, Alfredo Palacio, che
ha già formato un nuovo
governo. L’Unione europea
ha lanciato un appello affinché si ritorni al più presto possibile alla normalità
costituzionale, avvertendo
che il Paese è sull’orlo della
guerra civile. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno già
riconosciuto il nuovo Presidente, sebbene la piazza
chieda un cambiamento
radicale, specialmente nella politica economica. «La
sua caduta era prevedibile»
ha dichiarato Fidel Castro,
aggiungendo che «Era un
alleato dell’impero». La situazione della sicurezza
permane completamente a
rischio e si fa sempre più
probabile uno scontro tra
forze dell’ordine e oppositori, con la presenza di migliaia di scatenati sostenitori di Gutiérrez, che rende
il già surriscaldato clima,
ancora più rovente.
❑
Non ha copertura sanitaria
Mi chiamo Angela, sono
sposata e ho quattro figli,
due di 14 anni, uno di 8 e
l’ultima che va alla scuola
materna. Fin da piccolo
Daniele, il penultimo, è affetto da «spasmi affettivi»
e asma bronchiale; è allergico alle polveri e ad altri
elementi; abbiamo dovuto
acquistare un materasso
ed un cuscino speciale e
sistemare il suo letto nella
parte più alta per farlo respirare meglio. Durante gli
attacchi è necessario portarlo in ospedale e, come
vedete dai certificati medici che allego, deve prendere molti farmaci; occorrono visite a pagamento
presso l’allergologo poiché, nonostante le molte
richieste fatte, ci è sempre
stato risposto che questo
tipo di malattia non ha copertura sanitaria. A queste
spese mediche vanno aggiunte quelle scolastiche
per la mensa e la scuola
materna della piccola. Mio
marito ed io lavoriamo il
più possibile per far fronte ai bisogni della famiglia,
ma i nostri stipendi sono
assai modesti... Ringraziamo tanto per aver letto la
mia lettera e tutti coloro
che mandano a voi le offerte per aituare quanti vivono nell’indigenza e fra
mille necessità. B.A.
È sempre disponibile,
ma...
Il nostro lavoro missionario qui in India continua
senza tregua. La carità di
Cristo ci obbliga, ci spinge
e non possiamo fermarci,
sia che si tratti di malati,
di famiglie povere, di orfani, di studenti, di vecchi. Il
missionario è sempre disponibile perché giorno e
notte la gente bussa alla
sua porta. Chiedo un pic-
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
colo atto di carità per una
povera famiglia composta
dalla mamma e otto figli
dei quali la più grande ha
sedici anni, la più piccola
quattro. Il padre è morto
due anni fa per un cancro
allo stomaco lasciando la
famiglia nella miseria più
nera. Non hanno casa, ora
sono alloggiati nella Missione. Cerchiamo di aiutarli per quanto è possibile,
ma le loro necessità sono
molte: una casetta, gli studi dei figli, un lavoro per
la vedova come una piccola bottega per poter guadagnare e comprare riso a
sufficienza per sfamare la
famiglia ogni giorno. Stendo le mani in loro nome.
Pregate perché il Signore
ci mandi sacerdoti generosi e zelanti. Quello che possiamo realizzare in questa
terra indiana è frutto del
sostegno generoso dei benefattori. Dio ripaghi tutti. Don M.
“Scombinata”
bisogno di essere aiutata
per poter riprendere un
cammino che finora non è
stato tanto sereno e tranquillo. Resto in attesa e ringrazio per tutto il bene che
fate. Don V.S.
Per non diventare cieco
Accludo alla presente i certificati medici di Nicola.
Ha 50 anni e da un anno
circa non trova più pace.
Stava lavorando quando
ebbe una forte emmoragia
agli occhi. Fu subito soccorso e portato in ospedale e da allora sta attraversando questo calvario di
visite, interventi, controlli... Affronta viaggi dal suo
paese in Basilicata a Pisa
dove è in cura, con disagi
comprensibili. Grazie per
tutto ciò che i Rocchigiani
fanno per coloro che sono
in difficoltà e che il Signore possa darvi la forza di
continuare la vostra opera
di bene E.G.
***
Nella mia parrocchia aumentano le situazioni di
necessità e questa volta riguarda un padre di 44 anni
morto tragicamente in un
incidente d’auto il 20 febraio scorso. Conoscete voi
di «Fraternità» la storia di
questa famiglia «scombinata» così come la definii
a suo tempo, ma ora ho potuto capire che era proprio
il capofamiglia che non
aveva alcuna voglia di lavorare e passava il tempo
al bar, fumando, giocando... Ultimamente forse la
moglie lo stava «allontanando» per scuoterlo un
po’ e fargli assumere la responsabilità per i quattro
figli. La famiglia ora ha
Le richieste che ci pervengono sono sempre urgenti, penose e certamente rattristeranno i cari lettori nel
leggerle. Le affidiamo
come sempre al loro cuore
e siamo sicuri che anche
quest’anno, nella ricorrenza della S. Pasqua, potremo donare un po’di conforto a tanti sofferenti. A tutti
il nostro più vivo augurio
pasquale. Gesù Risorto
conceda ricompense divine a ciascuno e benedizioni.
... Alcuni hanno già ricevuto un aiuto e così scrivono:
... sì, ho ricevuto la vostra
lettera e la vostra bontà di
500 euro mi permette di
pagare certe scadenze e di
vivere più serenamente
con i miei figli. Mi auguro
che il 2006 sia all’insegna
di un lavoro fisso, indispensabile per la mia famiglia. Vi ringraziamo tantissimo con i cari benefattori. A.G. «Non riesco più»
... abbiamo ricevuto la vostra offerta di 700 euro per
la missione di Padre Sergio che insieme a confratelli, volontari italiani e
persone locali sta svolgendo in Cameroun a favore
della popolazione più bisognosa. Ringraziamo i Rocchigiani e «Fraternità» calorosamente anche a nome
di coloro che saranno beneficati dal suo gesto di
solidarietà. Sapendo che
ciò che rende sereni è donare ed amare contiamo
sempre nell’impegno dei
buoni ... Grazie ancora.
Don P.M. «Da offerte libere».
... con la presente desidero ringraziarvi dal profondo del mio cuore per i 300
euro. I referti degli esami
continuano a darci speranza. Con l’aiuto di Gesù e
con il vostro riusciremo ad
andare avanti affrontado
questo triste e travagliato
momento con forza e speranza. La strada da percorrere è ancora lunga: nei
mesi prossimi dovrò sottopormi a numerosi cicli di
radioterapia e il centro più
vicino dista 150 km. Dovrò
viaggiare tutti i giorni della settimana... Mio marito
è disoccupato, tranne per
qualche sporadica giornata e si fa fatica a vivere ogni
mese. La paura e l’angoscia sono tante... fam. P.
«Un’altra tempesta».
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi.
63
ROCCA 1 APRILE 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
di confronti
occasioni
fai
c
richiederle
specificando la quantità desiderata
a
Rocca - cas. post. 94 - 06081 Assisi (Pg)
oppure e-mail: [email protected]
per presentarla
sono disponibili
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N°7 – 1 Aprile - Rocca - Pro Civitate Christiana