Oreste Aime
Alberto Martinengo
Pier Giuseppe Pasero
Paul Ricoeur
tra fenomenologia ed ermeneutica
Per una filosofia dell’ospitalità
Sussidio didattico relativo alla Conferenza tenuta presso il
Liceo Classico Statale «Massimo D’Azeglio»
Torino, 28 ottobre 2008
Sulle tracce
di un progetto didattico
Nei giorni 28 e 29 settembre 2006, a poco più di un anno dalla scomparsa di Paul Ricoeur (27
febbraio 1913 - 20 maggio 2005) si tenne, presso la Facoltà Teologica di Torino, un Convegno di studi
dedicati al grande pensatore francese, un susseguirsi di relazioni prospettate da alcuni tra i più
celebri studiosi dell’autore in questione e impostate sul tema: «Saggezza pratica e riconoscimento. Il
pensiero etico-politico dell’ultimo Ricoeur». Di lui il prof. Domenico Jervolino (Università Federico II di
Napoli) disse in apertura, come primo relatore: «Molto riverito, non sempre riconosciuto». La
definizione era un evidente richiamo, probabilmente anche sotto forma di gioco, al titolo dell’ultima
opera che Ricoeur lasciava in eredità ai posteri, Parcours de la reconnaissance, dov’è contenuta una
parola che in italiano si sdoppia sia nel significato di «riconoscenza», sia di «riconoscimento», ma che
in lingua francese possiede un’ampiezza semantica che ne segna ambivalenza e profondità.
Se la complessità è uno dei tratti caratteristici che configura la modernità a designarne la vastità
di orizzonti e i loro intrecci infiniti, tutta l’opera di Paul Ricoeur si proietta da questa complessità e al
contempo verso questa complessità, entro la quale la sua opera è anzitutto impegno nell’ascolto per
divenire infine impresa di responsabilità. Lasciarsi istruire prima di istruire e per poter davvero
istruire. Una splendida lezione di filosofia e un grande atto di civiltà come testimonianza per la
società attuale e futura.
Ma Ricoeur è anche un filosofo che muove il suo pensare all’insegna di un programma rivolto alla
reciprocità, un compito che in sintesi è ben enunciato nell’espressione «ontologia
dell’interrelazionalità», usata in una relazione del Convegno dal prof. Luca Alici (Università di
Perugia). Non solo il «soggetto» entra nell’ambito di una filosofia riflessiva, ma anche tutto ciò che
rispetto al soggetto è «altro» e che nella sua alterità non può non contribuire a costituirlo ed orientarlo.
Il rapporto con l’alterità non può a sua volta evitare di affrontare la questione dell’ospitalità. Un
esempio della sua importanza è già offerto nell’ambito della traduzione. «Tradurre, dichiara Antoine
Berman, è sia abitare nella lingua dello straniero, sia dare ospitalità allo straniero nel cuore della
propria lingua», scrive Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare (p. 16). E visto che si è di fronte
a un filosofo che s’è applicato all’ermeneutica, perché non interpretare l’intero suo filosofare come un
grande atto di ospitalità nei confronti dei vari temi e dei vari autori coi quali s’è misurato, dai classici
più illustri fino ai maestri del sospetto, dai percorsi di senso che attraversano l’ambito del politico alle
aperture di senso che s’addensano tra i confini del sacro?
È in questa prospettiva che è nata l’ispirazione di tornare a parlare di Ricoeur in un contesto di
studi liceali, proponendo a giovani studenti un modo di filosofare certamente complesso, ma
altrettanto fondato su capacità di apertura e di interrelazione. I due relatori invitati a parlare erano
entrambi protagonisti al Convegno del 2006: il prof. don Oreste Aime (Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale, Torino), autore di un saggio su Ricoeur tra i più documentati e notevoli, e il prof.
Alberto Martinengo (Università di Torino). A loro un grazie sincero sia per la disponibilità alla
realizzazione di una conferenza in procinto di attuazione il prossimo 28 ottobre, sia per l’invio
anticipato del materiale ad essa relativo, ormai convogliato a formare il presente libretto, pronto per
essere distribuito ed utilizzato con finalità didattiche.
Data l’indipendenza dei lavori, si noteranno in alcuni luoghi del libretto riprese tematiche che
sarebbe stato possibile accorciare o tagliare del tutto, ma infine la preferenza è caduta sul lasciare
intatti i vari elaborati, offrendo così più di una versione alla scelta del lettore. Ciò avviene in
particolare a proposito del tema «Leggere e pensare la Bibbia», titolo del secondo articolo di O. Aime
(pp. 10-23), costituito da un’abbreviazione del capitolo conclusivo dell’ultima sezione del suo saggio,
e la ripresa dello stesso capitolo in forma di sintesi nella parte elaborata dal sottoscritto (pp. 67-71).
Altrove le riprese andrebbero accostate non come ripetizioni, ma come avvolgimenti a spirale su un
medesimo nodo tematico.
La conferenza avrà per titolo «Filosofia riflessiva e identità narrativa in Paul Ricoeur», due temi
rispetto ai quali il libretto nella sua funzionalità didattica deliberatamente sovrappone del materiale
in eccedenza a favore dei lettori di buona volontà.
P. G. P.
Torino, 21 ottobre 2008
2
1
Una filosofia riflessiva:
tra autoritratto ed avventura relazionale
ORESTE AIME
1.
Ciò che dà a pensare
Dovendo dare una figurazione alla propria filosofia, Paul Ricoeur, in un’intervista, è
ricorso al famoso quadro di Rembrandt, Aristotele che contempla il busto di Omero (1653).
Aristotele vi rappresenta contemporaneamente la storia del pensiero filosofico e una sua
versione singolare. Nei suoi confronti, nel duplice significato accennato, siamo in una
posizione di debito, ma non a motivo della cronologia che ci colloca storicamente dopo di
lui, bensì perché, come mostra l’antico filosofo rivestito di abiti moderni, il compito svolto
da lui un tempo si rinnova oggi e l’impegno dell’interpretazione rincomincia sempre da
capo.
Pur evidenziando cromaticamente la figura del filosofo, la composizione, mostrando
Aristotele nell’atto di posare la mano sul busto di Omero, suggerisce che la filosofia non
vive in un mondo a sé e non inizia da zero, ma da un senso dato e perciò il contatto con il
lato poetico dell’esperienza umana, il lato della creazione di senso, le è necessario. La
filosofia nasce in un’aura di senso da cui prende le mosse per svolgere il suo compito,
incomincia da sé ma le sue fonti le sono esterne.
Il contatto vitale con la «poesia», pur indispensabile, non determina tuttavia il
pensiero. Infatti il filosofo guarda altrove, per quanto resti difficile stabilire la direzione
dello sguardo e l’oggetto guardato: poesia e pensiero appartengono ad ambiti diversi, che
non si confondono; Omero rappresenta quel mythos da cui il logos si diparte ma che è
chiamato a riscoprire in una interpretazione creatrice di senso. “Il simbolo dà a pensare” sempre da capo, inesauribilmente.
Un particolare del quadro, infine, non deve essere trascurato: proprio sulla spalla di
Aristotele è appuntato il ritratto di Alessandro Magno. La politica - la sua ragione e la sua
forza - sono una responsabilità per il filosofo; il politico, nel senso categoriale e non solo
effettuale, è parte costituente dell’umano e perciò richiede quell’intelligibilità che la
filosofia non può non cercare di realizzare. Non solo il simbolo, dunque, ma anche la forza
(e la violenza) danno a pensare.
Per la filosofia il rapporto con il suo altro è essenziale. Il senso e la forza, a cui si deve
aggiungere il vero delle scienze, il bello dell’arte e il sacro/santo della religione,
costituiscono quelle esperienze da cui il pensiero attinge ma su cui ritorna nell’autonomia
di un compito riflessivo e speculativo, critico e argomentativo.
2.
Una filosofia del soggetto
Come realizza la filosofia il suo compito? Ricoeur si è riconosciuto e ha inscritto il
proprio pensiero nella filosofia riflessiva, quella che da Socrate va ad Agostino, da Cartesio
a Kant, da Fichte a Husserl e Nabert. Anche in questo caso tutto è già dato, ma tutto è da
ripetere, se non altro perché la filosofia del soggetto continua ad essere contestata e
occorre riqualificarne la possibilità e le pretese. Per realizzare questo progetto Ricoeur ha
attraversato la fenomenologia e l’ermeneutica, che nella sua opera diventano variazioni
3
sul tema del soggetto, più facile nel caso della fenomenologia, da inventare in quello
dell’ermeneutica.
Che cosa si può affermare del soggetto, o del sé come da un certo periodo in poi
Ricoeur preferisce dire, dal momento che non si può più riproporre la versione
assolutistica di Cartesio e ciò che ne consegue nella filosofia moderna, né se ne può
accettare la dissolutiva frantumazione operata da Nietzsche e dai suoi epigoni?
Anche in questo caso possiamo far tesoro di una breve meditazione proposta da
Ricoeur su un altro quadro di Rembrandt, un Autoritratto del 1660, sei anni prima della
morte del pittore, la cui carriera, forse non è un caso, corre quasi parallela a quella di
Cartesio. Messo a confronto con gli autoritratti che precedono, se ne coglie la somiglianza
e la differenza. Il tempo ha scavato le rughe sul volto e il pittore si rappresenta mostrando
il lavoro degli anni mentre luce e ombra, come al solito, giocano in un accentuato
contrasto. Nelle movenze del ritratto che il pittore fa di sé si nascondono alcune domande:
perché e come è possibile un autoritratto? Che cosa ci permette di procedere
all’identificazione? Che senso e che legame ha nei confronti di quelli che lo precedono (e lo
seguiranno)?
La breve e incisiva lettura data da Ricoeur è quasi un commento - attraverso la
deviazione pittorica - sulla possibilità stessa della riflessione del soggetto su di sé. La
filosofia riflessiva è una forma di autoritratto del sé, del suo desiderio e del suo sforzo di
esistere, del suo essere al tempo stesso idem e ipse, aperto attraverso il linguaggio e
l’azione al mondo e alla relazione con l’altro oltre che con se stesso.
Di questo soggetto Ricoeur ha messo in evidenza alcuni tratti: a differenza di M.
Heidegger e J.-P. Sartre, l’accento cade più sulla nascita che sulla morte e dunque sulla
sua capacità di iniziativa; la sua identità, che si mostra e si nasconde in una narrazione,
è connotata dalla responsabilità morale; in termini antropologici l’attestazione che il
soggetto ha e dà di sé può essere tradotta in termini di capacità a riguardo della parola e
dell’azione, della responsabilità e della memoria. E se la lunga attenzione rivolta all’azione
ha dato una preminenza a questo aspetto «interventista», la meditazione più recente ha
bilanciato la descrizione con una sempre maggior insistenza sulla passività in tutte le sue
forme. Il soggetto è un homo capax, agens et patiens. Per tutti questi motivi il Cogito della
filosofia riflessiva nella versione di Ricoeur diventa un Cogito brisé e tuttavia in grado di
cogliersi capace e dunque responsabile.
3.
Nel mondo e nella storia
L’iscrizione nell’alveo della filosofia riflessiva potrebbe far pensare a un soggetto
acosmico e astorico tipico delle filosofie coscienziali. Non è il caso di Ricoeur, per il quale
del soggetto si può parlare solo in relazione al mondo e alla storia e attraverso la
deviazione in ogni sorta di segni in cui la coscienza si proietta e si esprime. Alla tensione
centripeta dell’attestazione, corrisponde la tendenza centrifuga della testimonianza che lo
«disperde» nella storia.
Per illustrare questo aspetto, sulla scia dell’indizio rembrandtiano ci prendiamo la
libertà di attingere ancora al pittore neederlandese, a partire da una delle sue tele più
famose e discusse, La ronda di notte (1642), un quadro ampio, innovativo, pieno di
personaggi, ben diverso dai ritratti di gruppo dell’epoca, statici e celebrativi. Le persone
raffigurate sono in movimento, in un’azione complessa, sfaccettata e piena di tensioni,
dominabile nell’insieme ma anche fratta nelle masse che la compongono. In quel groviglio
quasi inestricabile c’è anche lo spazio per la scomposizione sequenziale di alcuni
movimenti (preparazione dell’archibugio). I personaggi sono storici, appartengono a una
corporazione importante e potente, ma sono trasferiti in una dimensione che va oltre la
cronaca; messi in movimento, squarciano lo spazio e il tempo con la loro vorticosa
iniziativa. E che non sia solo una magistrale «fotografia di gruppo», lo rivelano alcune
figure con tratti marcatamente simbolici (i due ragazzini in vesti femminili), che per la loro
luminosità investono anche i personaggi «reali».
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Da un capo all’altro della ricerca di Ricoeur il tema unificante è stato l’azione e il
soggetto è colto innanzitutto nella sua potenza di agire, sul piano individuale e su quello
sociale. La stessa temporalità, grande capitolo del Novecento filosofico, è indagata a
partire dall’azione e da ciò che ce ne permette la decifrazione, il racconto. Azione e
linguaggio in tutte le loro stratificazioni e varianti, dunque, collocano il soggetto nel
mondo e nella storia.
La ricerca sulla parola - la traduzione in atto del sistema linguistico - è un aspetto
divenuto fondamentale e strategico. Solo se la parola può dire il soggetto, l’altro e il
mondo, possiamo varcare quella soglia della prigione dorata che lo strutturalismo e
talvolta la filosofia analitica gli hanno disegnato intorno, concentrando e risolvendo la
realtà nel sistema dei segni. I confini del linguaggio e dei linguaggi, non solo quello
ordinario o scientifico, sono invece i confini del mondo e del tempo. Nella parola, in
particolare nella metafora, urge una veemenza ontologica che la apre al mondo, con tutti i
suoi valori sensibili e patici. Il mondo però non prende senso solo dalla parola proferita
dall’uomo ma anche dalla sua azione, anche se la parola è ancora necessaria per dire nel
racconto l’azione che si distende nel tempo e da cui dipende l’identità del soggetto.
Più si passa dal livello personale a quello intersoggettivo, più diventa difficile
discriminare la struttura dell’agire umano, la trama delle casualità, delle responsabilità e
degli effetti vicini e lontani. Andando al di là del racconto e della memoria, la storiografia
pretende di metter capo in qualche modo a queste questioni, sia che si occupi di
microstoria o di storia di lunga durata e il suo sguardo a distanza sembra alternativo a
ogni pretesa di riflessività e di speculazione, ma con la cancellazione di quel tratto
interpretativo che attraversa ogni sua operazione.
Per una filosofia del soggetto la storia è sempre un capitolo impegnativo, quasi
impossibile, ma non è questo il motivo per il quale Ricoeur propone di rinunciare a Hegel.
Uscire dalla filosofia della storia non significa rinunciare a misurarsi con la storia; solo la
filosofia impara a farlo più umilmente, per il tramite di una filosofia critica che si elabora
a partire dalla stessa operazione storiografica, con l’impegno di connetterla tanto con la
memoria quanto con l’oblio. Una certa felicità della memoria e dell’oblio non sopperiscono,
però, all’estraneità alla storia che caratterizza la storicità stessa dell’uomo.
Dall’insieme delle riflessioni dedicate alla storia e al tempo, Ricoeur ricava
un’ontologia della condizione e della coscienza storiche declinata in termini di debito, di
iniziativa e di promessa. In ognuno di questi tratti si fa sentire un’eccedenza, sia
nell’accogliere il passato ricco di possibilità non attuate, sia nel protendersi al futuro
nell’impegno di una durata che nulla garantisce, sia nell’assumere il presente nel modo
dell’iniziativa responsabile.
Per espletare tutti questi compiti, dalla delineazione della condizione storica a una
vera e propria ontologia o almeno a un suo abbozzo, è sufficiente l’impianto riflessivo?
Solo al termine del suo lungo percorso Ricoeur ha osato esplorare ciò che peraltro era
intravisto fin dall’inizio: l’indagine ontologica che chiude - e apre - Soi-même comme un
autre ricorre a un complemento speculativo che al tempo stesso integra e svolge la stessa
riflessione. Le metacategorie di atto e potenza, di medesimo e altro sono quelle che
sorreggono l’intera indagine fenomenologica del sé e quella ermeneutica della condizione
storica.
4.
Un filosofo legge la Bibbia
Tirando le fila della ricerca sulla natura mimetica del racconto, Ricoeur giunge alla
seguente conclusione al confine tra ermeneutica e ontologia: “A mio parere, il mondo è
l’insieme delle referenze spalancate da tutti i diversi testi descrittivi o poetici che ho letto,
interpretato e amato. Comprendere questi testi, vuol dir interpolare tra i predicati della
nostra situazione tutti i significati che, di un semplice ambiente (Umwelt), fanno un
mondo (Welt). È proprio alle opere di finzione che noi dobbiamo in gran parte la
dilatazione del nostro orizzonte di esistenza” (Temps et récit 1, p. 121, trad. it. p. 130).
5
L’ermeneutica non è solo un capitolo della filosofia riflessiva ma un suo modo di
articolarsi e realizzarsi, perché grazie al linguaggio - testo e lettura - approdiamo al
mondo e alla vita. Nata intorno al simbolismo, l’ermeneutica di Ricoeur si è spostata,
allargandosi, dapprima al testo e poi alla lettura, lasciando il simbolo sullo sfondo. Testo e
lettura sono l’occasione per la fusione di orizzonti nel modo inteso da Ricoeur, il quale,
rispetto a H. G. Gadamer che privilegia l’esperienza estetica, ha maggiormente evidenziato
la configurazione testuale e il corrispondente atto di lettura. Testo e lettura diventano
canone per qualunque interpretazione, la quale però può vantare una singolarità
irriducibile al paradigma generale, in quanto le ermeneutiche regionali eseguono con
libertà ciò che viene trovato e indicato dall’ermeneutica generale.
È importante ricordare che nell’atto interpretativo il soggetto giunge a sé collocandosi
davanti al testo e passando attraverso il testo. Per fare questo ogni approccio è utile e in
qualche caso indispensabile, secondo l’adagio in cui si concentra tutta l’impresa:
“spiegare di più vuol dire comprendere meglio”. Sulla base di questo assunto, grazie al
quale Ricoeur cerca di oltrepassare lo iato tra spiegare e comprendere stilato da W.
Dilthey e confermato da Gadamer nella contrapposizione tra verità e metodo,
l’attraversamento del testo può far tesoro di tutto ciò che ne permette la più ampia
misurazione ai livelli strutturale, semantico e storico.
Che cosa avviene quando si legge la Scrittura? Un altro quadro di Rembrandt,
l’Autoritratto in veste di san Paolo apostolo (1661), permette di sorprendere un gioco di
sovrapposizioni che si trova nello stesso Ricoeur e potenzialmente in ogni lettore.
L’autoritratto che rappresenta un uomo quasi stranito con un fascio di carte in mano
nell’atto di volgersi - a se stesso nello specchio o ad altri? - assomiglia ai tanti altri, una
quarantina, di tutte le età, nella catena che va dalla giovinezza all’estrema vecchiaia - sì, il
soggetto invecchia, anche se il declino non impedisce alla vita di rappresentarsi. Questa
versione però è particolarmente sorprendente, perché le linee dell’autoritratto giungono a
coincidere con il ritratto di san Paolo in perfetta sovrapposizione. Perché offrire le proprie
fattezze a san Paolo? È Paolo o Rembrandt a leggere (o scrivere)? E se il lettore è
Rembrandt perché ha i tratti di Paolo? Si deve accettare che quell’uomo con le carte in
mano sia al tempo stesso l’apostolo e lo stesso pittore, in una forma inusuale di
identificazione e di autocomprensione. Ma non avviene qualcosa di simile in ogni lettura?
Ricoeur è stato un attento lettore della Bibbia ed esploratore di quel mondo testuale,
con una preferenza per il Primo Testamento. Si tratta di una lettura ben caratterizzata, en
philosophe, non da esegeta né da teologo, ma ben informata di quanto soprattutto
l’esegesi ha rivelato delle Scritture. La parola che diventa Parola spetta ad altri, al
predicatore o al credente - e talvolta Ricoeur si è esercitato anche in questa funzione. En
philosophe vuol dire un lettore che si lascia condurre da quella scrittura, che è la
Scrittura in tutta l’ampiezza e ricchezza delle sue possibilità, alla ricerca del pensiero che
lì è contenuto. La teoria dei generi letterari che a partire dagli inizi del Novecento ha
liberato l’esegesi biblica da tanti lacci e impacci, diventa in Ricoeur la legenda stessa del
testo. Il lettore per cogliere le virtualità di ciò che sta leggendo deve certamente ricorrere a
chi quel testo decifra sul lato filologico e storico; ma quella parola deborda il proprio
tempo e ha un senso che cresce in ogni tempo con il suo lettore.
Forse il contributo maggiore di Ricoeur è questa pratica di lettura, in cui il mondo del
testo biblico e il mondo del lettore si intersecano in maniera polifonica. M. Bachtin ha
coniato a proposito di F. Dostoevskij la formula di romanzo polifonico per segnalare che la
voce dell’autore s’aggiunge e conversa con quella dei protagonisti. Analogicamente si può
parlare di una lettura polifonica della Scrittura da parte di Ricoeur, sia perché lascia ai
testi la loro voce propria nella diversità dei generi letterari e dei «protagonisti», sia perché
accoglie generosamente e accuratamente nella lettura la storia della ricezione e la stessa
voce del lettore chiamato a interloquire con il testo. Quest’ultima non è né può essere
puramente passiva, anzi il massimo di ricettività coincide con il massimo di attività
interpretante in termini di decifrazione di senso, di immaginazione e di iniziativa.
6
5.
Filosofia e teologia
L’ermeneutica biblica non esaurisce la questione dei rapporti tra filosofia e teologia e
se a questo proposito ci chiediamo qual è stato il contributo di Ricoeur non è facile fare
un bilancio. Infatti il lascito più cospicuo non è da cercare sul lato delle non molte
affermazioni in merito ai rapporti tra filosofia e teologia, quanto nella teorizzazione di
un’ermeneutica generale e di quella biblica in particolare. Di quest’ultima i saggi realizzati
sono di una finezza del tutto singolare, in grado di collegare esegesi storico-critica, storia
della ricezione ed estrazione di un pensiero che per la sua qualità e forza è una realtà di
grande rilievo e interesse per la stessa ricerca filosofica.
Mossosi alla ricerca di un Dio filosofico, pensato in termini di Trascendenza al confine
tra idea limite e esperienza limite a partire dalla libertà solo umana di un soggetto che
vuole ma si trova anche preceduto, subito dopo egli opta per una formula che comprime
la filosofia in un’assenza di assoluto e poi in una professione di agnosticismo, per
disegnare e iniziare a delineare infine, negli ultimi anni, un rapporto simile a quello che
più in generale stabilisce tra la convinzione e l’argomentazione. Ci troviamo dunque di
fronte all’oscillazione di un pensiero che va da un dichiarato agnosticismo all’ammissione
di una possibile convenienza, non tanto tra filosofia e teologia quanto tra la filosofia come
Ricoeur ritiene si possa e si debba praticare e la fede biblica. L’agnosticismo, la filosofia
senza assoluto, ha una qualche giustificazione nella molteplicità dell’alterità, tra cui
potrebbe annoverarsi anche quella del Dio. Ma tale ricorsività non permette di privilegiare
questa possibilità sulle altre. Si può osservare che si tratta più di un’affermazione che di
una vera argomentazione, la quale però ha dalla sua i confini che l’ontologia del sé
consente. Da un lato l’essere non può essere identificato con Dio e dall’altra la dispersione
delle figure dell’alterità impediscono un percorso che sbocchi unicamente e
inequivocabilmente su una qualche trascendenza divina.
Su questo orientamento ha sicuramente influito il contesto culturale e istituzionale
francese, con l’incombente accusa, talora diventata esplicita, di criptoteologia. C’era
sicuramente una posizione personale, probabilmente di derivazione riformata, e una
pratica dell’insegnamento che voleva demarcare nettamente la filosofia dalla teologia per
evitare fraintendimenti e sconfinamenti.
L’ultima meta ha cercato di trovare delle assonanze o delle consonanze, ma forse
quelle si davano già prima. Al proposito si può far tesoro di una considerazione che
Ricoeur fa, soppesando complessivamente l’impresa di E. Husserl, nella cui opera
distingue un metodo praticato, la descrizione fenomenologica, e un metodo teorizzato,
l’idealismo fenomenologico. Un’osservazione analoga fa nei confronti di R. Bultmann,
distinguendo l’opera dell’esegeta da quella del teologo. In entrambi i casi Ricoeur, dovendo
esprimere una valutazione, sceglie a favore della pratica della descrizione fenomenologica
e dell’esegesi. Lo schema potrebbe essere applicato allo stesso Ricoeur. L’approccio al
testo biblico, sia nel versante analitico sia nel versante speculativo, è molto più ricco di
quanto si trova poi cristallizzato in alcune formule. Il privilegio concesso al momento
dell’esegesi, lettura in atto, rispetto alla teologia ha impedito una riflessione più articolata
sulla stessa teologia. La definizione di quest’ultima solo in rapporto alla predicazione, di
fatto non riconosce l’opera di pensiero che gli stessi sostenitori della tesi (K. Barth, E.
Jüngel) riescono a comporre. La teologia è solo un’ermeneutica biblica ai fini della
predicazione? Perché vietarle un qualche momento speculativo, analogo a quello su cui
sbocca la stessa filosofia riflessiva?
Nel metodo praticato rientrano le indagini dedicate ad alcuni temi biblici, che si
segnalano per la novità dell’esame svolto, che non si limita ai dati consolidati dell’esegesi,
ma osa proporre un’interpretazione pensante del testo biblico, che ridonda sullo stesso
pensiero filosofico. A parte merita un richiamo particolare il capitolo finale di La mémoire,
l’histoire, l’oubli dedicato al perdono, capitolo strettamente filosofico nelle finalità e nella
struttura argomentativa, nel quale però non manca l’eco di un orizzonte escatologico che
ha una profonda radice biblica e anche teologica per la versione (origenista piuttosto che
agostiniana) che si impone a Ricoeur.
7
Qual è l’apporto diretto che la teologia può accogliere da Ricoeur? Come si è detto, è
l’approccio alla consistenza del testo sui cui il teologo lavora e alle imprescindibili qualità
del lettore che vi si accosta. Certo il teologo non è soltanto un lettore qualunque, bensì
qualificato, e tuttavia anch’egli porta in se stesso i tratti di quel sé che la lunga ricerca di
Ricoeur ha cercato di illuminare. D’altra parte la rinuncia a Hegel suggerisce, se non di
abbandonare definitivamente la categoria di Heilsgeschichte, almeno di adottarla con
maggiori cautele, e questo non può non richiedere dei riaggiustamenti di diversi contesti.
Il teologo o l’esegeta non sono soggetti «assoluti» davanti al testo e neppure nella
storia della salvezza. Ci sono dei lutti che anche la teologia e i teologi debbono imparare a
praticare, senza nulla togliere al loro compito di indagare ed esprimere quella verità che il
kérigma - o meglio i kerígmata - sedimentati nelle Scritture ebraico-cristiane pretendono
di esprimere e donare.
Nello stesso tempo il teologo, proprio perché si occupa della verità del pensiero biblico,
che pur non essendo di natura filosofica non è estraneo alla filosofia, può e deve
partecipare all’agorá delle argomentazioni, al dialogo delle convinzioni e al conflitto combat amoureux - delle interpretazioni.
Per concludere su quest’ultimo tema, ricorriamo ancora una volta liberamente a
Rembrandt e al suo Cristo risorto appare a Maria Maddalena (1638). L’interpretazione del
«noli me tangere» è particolare, anzi sfuma nella meraviglia attonita di due sguardi che si
sfiorano nell’evocazione di un nome che il muto quadro lascia comunque risuonare. Sulla
tela si imprime la difficoltà del riconoscimento nell’attimo stesso in cui esso avviene. Il
Risorto - che davvero è vestito ed equipaggiato come un ortolano, dunque un estraneo: chi
avrebbe potuto riconoscerlo? - si presenta, si dà a vedere e al tempo stesso già si sottrae
alla presa. Maria di Magdala nel voltarsi incontra lo sguardo del Maestro non
direttamente ma davanti a sé. Alle sue spalle gli angeli, appollaiati sulla tomba vuota,
hanno già fatto risuonare sul luogo dell’assenza il loro annuncio e sono ora testimoni di
un incontro che si disegna nella luce diafana di un’alba nuova, che si spalanca su una
sconnessione del suolo e nell’orizzonte di un vasto e popolato mondo. La frattura verticale
del quadro e lo scontro di luce e ombra fissano il duello di morte e vita e il trionfo della
vita di cui parla la sequenza pasquale.
In quel quadro, come nella filosofia di Ricoeur, è disegnato un incontro, un difficile
ma possibile riconoscimento, nell’oscuro di un’assenza e nella luce di una parola di senso
che nel loro farsi sia la filosofia sia la teologia possono lasciar risuonare. Quell’incontro è
un compito che ancora appartiene a chi si lascia introdurre nella scena dipinta da
Rembrandt, ma anche a chi da lettore si sente amico di un pensiero come quello di
Ricoeur che, proprio perché intensamente dialogico, chiede di essere continuato nel segno
del riconoscimento, del debito inestinguibile e dell’interpretazione accurata e
creativamente libera.
8
2
Leggere e pensare la Bibbia
ORESTE AIME
a) DALL’ESEGESI ALL’ERMENEUTICA
1.
Alla ricerca del metodo
Tra Heilsgeschichte ed ermeneutica esistenziale. La prima produzione filosofica di
Ricoeur, quando ricorre alla fonte biblica, si svolge sotto il segno della Heilsgeschichte e la
connessa teologia dell’Alleanza, che domina la teologia riformata degli anni Trenta e
Quaranta (Karl Barth, Gehrard von Rad, Oscar Cullmann).
Il metodo escogitato e praticato in Finitudine e colpa risulta dalla convergenza della
fenomenologia eidetica che mette in luce la struttura a duplice intenzionalità del simbolo,
dell’esegesi come esercizio sulla semantica del linguaggio simbolico e dell’ermeneutica che
spezza l’incanto della neutralità fenomenologica che si autolimita a una dettagliatissima
descrizione. La lettura dei singoli testi biblici, pur dando risalto alla dimensione miticosimbolica, ricorre ampiamente alla produzione storico-critica. Il momento critico è
necessario per attingere il senso: “soltanto a prezzo dell’esegesi e del passaggio attraverso
l’esegesi e della comprensione filosofica, il mythos può dare adito ad una nuova fase del
logos” (FC 310, 420). L’esegesi adottata osserva parametri precisi, in particolare
abbandona l’allegoria a favore del significato letterale, che in questo caso non può essere
che simbolico; ma l’orizzonte interpretativo è dominato dal quadro unitario della
Heilsgeschichte, capace di congiungere nel segno della fede e della speranza l’Origine con
la Fine.
Proprio la lettura del testo, il superamento della distanza culturale e l’appropriazione
del significato, al di là di alcuni significati considerati caduchi, fanno ricuperare a Ricoeur
la lezione di R. Bultmann. Se il quadro «teologico» resta quello degli autori succitati il
modo di lavorare si avvicina sempre più a quello di Bultmann; anzi già Finitudine e colpa,
quando vengono tratte le linee riflessive finali, si conclude nel suo nome e nel segno del
suo adagio ermeneutico: «Bisogna comprendere per credere, ma bisogna credere per
comprendere».
A Bultmann però, qualche anno dopo (1968), Ricoeur rivolge alcuni rilievi
fondamentali. Bultmann, anche per non aver sufficientemente distinto l’opera di
demitizzazione (che non deve avvenire: il mito e il simbolo danno a pensare) dalla
demitologizzazione (lettura interpretativa del mito che ne lascia cadere solo gli aspetti che
potremmo definire «datati»), sovrappone esigenze diverse: “di volta in volta è l’uomo
moderno, poi il filosofo esistenziale, infine il credente che conduce il gioco. Tutta l’opera
esegetica e teologica di Rudolf Bultmann è la messa in opera di questo grande circolo in
cui la scienza esegetica, l’interpretazione esistenziale e la predicazione di stile paolinoluterano scambiano i loro ruoli” (CI 385-386, 406).
Nell’evidenziare le componenti della precomprensione, Bultmann ha assolutizzato il
versante esistenziale della filosofia di Heidegger, quando questa si voleva da subito come
propedeutica a una nuova ontologia. Nello stesso contesto si può rilevare la mancata
tematizzazione del linguaggio, anche di quello teologico, a cui Bultmann ricorre per
esprimere in modo apparentemente demitizzato il kérigma neotestamentario; le premesse
critiche non sono state utilizzate fino in fondo e il risultato a cui il teologo perviene è
contestabile sotto il profilo critico che egli stesso ha istituito. Infine Bultmann ha ridotto
9
dogmaticamente a una teologia della Parola e della decisione l’amplissimo repertorio
polifonico biblico: la teologia sistematica ha fatto un cattivo servizio all’esegeta.
L’uscita dalle strettoie dell’interpretazione esistenziale è stata favorita anche dal
ricorso ai metodi e ai risultati della fenomenologia delle religioni che danno risalto alle
componenti cosmiche, psichiche e poetiche del simbolo, e allo studio di quelle
ermeneutiche rivali che a un primo approccio sembrano soltanto tecniche del sospetto. La
poliedricità del simbolo esige un concorso di metodi di lettura, secondo uno schema che
Ricoeur mette a punto nello studio sulla psicanalisi.
Dall’esegesi storico-critica all’ermeneutica. Che dire dell’esegesi così come si è venuta
configurando negli ultimi centocinquanta anni? La si deve accettare senza riserve o basta
innestare opportune correzioni di metodo che, come in ogni disciplina, si rendono
necessarie sulla base dell’avanzamento degli studi?
La prima riflessione esplicita di Ricoeur sul metodo esegetico rappresenta una
considerevole presa di distanza dal metodo storico-critico o, meglio, da alcuni suoi
presupposti non dichiaratamente esplicitati o fondati. Al metodo generale detto storicocritico concorrono metodi particolari accomunati dal riferimento storico: storia della
lingua, del senso e dell’impiego delle parole; storia delle istituzioni; storia delle influenze e
dei rifiuti culturali; storia delle fonti, delle forme e della redazione, ecc. “Questa
predominanza dello storico, nel senso di historisch, pone il problema dell’affinità di questa
metodologia con lo storicismo filosofico”. L’esame di un metodo, qualunque sia, deve
avvenire sulla base di un principio generale fondamentale: non c’è metodo innocente. Il
metodo storico-critico per sua parte, data l’affinità con lo storicismo, seppure
indirettamente partecipa di alcuni suoi presupposti filosofici e metodologici. A questo
proposito Ricoeur formula alcune regole atte a presiedere alla risoluzione di alcuni aspetti
della questione esegetica storico-critica.
La prima si ricollega all’osservazione generale che afferma l’inesistenza di un metodo
innocente, vale a dire scevro di presupposti. Anche il metodo che, costituendosi come
storico e critico, ritiene di porsi come giudice sovrano, ha i suoi presupposti e deve
imparare a riconoscerli, se non vuole immiserirsi in una forma ideologica.
La seconda prescrive di evitare sintesi affrettate; il motivo sta nel fatto che ogni
metodo ha la sua assiomatica, da cui dipendono le disposizioni operazionali. Dovendo
necessariamente scegliere un metodo, l’esegeta non potrà evitare di dire solo ciò che
percepisce entro il campo prescelto o attraverso la griglia metodologica adottata. La
cautela esige che si eviti la sintesi che dipende troppo direttamente da questi assiomi.
La terza è una regola di vigilanza sulle “frontiere del metodo” grazie alla “coscienza dei
punti deboli dei nostri punti forti”. Ma la debolezza in questo caso diventa possibilità e
occasione di confronto con altri e da questo incontro nasce la “ecclesia della ricerca” 1 .
Se l’esame intentato da Ricoeur a questo metodo risulta particolarmente severo, è pur
vero che egli lo dichiara insostituibile, “essenzialmente perché i testi che noi leggiamo non
sono in ultima istanza dei testi su testi ma su testimonianze che rimandano esse stesse
ad avvenimenti. Questa è la mira intenzionale del testo” 2 . La critica del metodo storicocritico, una sorta di metacritica ermeneutica, si propone così come una sua rettifica, in
particolare su tre aspetti ritenuti vere e proprie illusioni 3 .
“Illusione della fonte. Non è la fonte che fa comprendere il testo, ma il testo che sceglie
e articola le sue fonti” 4 . L’atomismo critico, che predilige la fonte come elemento
P. RICOEUR, Esquisse de conclusion, in X. LEON-DUFOUR (éd.), Exégèse et Herméneutique, Seuil, Paris 1971,
pp. 286-287.
2 RICOEUR, Esquisse de conclusion, cit., p. 291.
3 La successiva ricognizione epistemologica dell’operazione storiografica di fatto modifica il quadro generale di
questa metacritica ermeneutica, calibrando maggiormente ciò che è della ricerca storica e ciò che tocca
all’interpretazione. Come pensare la Bibbia mostra però la non facile integrazione del momento storico-critico
(A. LaCoque) con quello ermeneutico (Ricoeur).
4 RICOEUR, Esquisse de conclusion, cit., p. 292.
1
10
esplicativo ultimo, assume acriticamente la tesi che l’anteriorità cronologica spieghi
sempre e comunque ciò che viene dopo.
“Illusione dell’autore. L’intenzione dell’autore non è il suo vissuto psicologico, la sua
esperienza, né l’esperienza della comunità per sempre irraggiungibile perché già
strutturata dal suo discorso” 5 . L’autore non è che una funzione del testo ovvero una
grandezza ermeneutica. In Ricoeur non sopravvive quasi nulla dell’ermeneutica romantica
della congenialità né la sua riformulazione proposta da Dilthey nel codificare i
procedimenti delle scienze dello spirito come psicologia comprendente, che in qualche
modo continua ad ispirare l’esegesi storico-critica allorché cerca di determinare il senso
inteso dall’autore.
“Illusione del destinatario. È forse qui che lo psicologismo deve essere ricusato con
più vigore” 6 . Il testo non si spiega a partire dal destinatario storico, perché, contro la sua
stessa dinamica interna, lo vincolerebbe al passato. Il discorso, quando diventa testo,
assume un’autonomia che lo sottrae all’autore e al primo destinatario, che non gode più
alcun privilegio rispetto ad altri destinatari contemporanei o successivi; è il testo stesso a
crearsi il suo pubblico 7 .
La neutralizzazione dei postulati dell’approccio storico-critico è favorita dalla ripresa
della lezione strutturale. Simile all’epoché fenomenologica, l’accostamento semiotico al
testo sospende ogni sua funzione referenziale e la spiegazione messa in opera si regge
unicamente sui suoi elementi interni: il testo va spiegato con il testo, grazie alla struttura
che esibisce a livello di superficie e in profondità. Ricoeur, tuttavia, nel suo studio dei
testi biblici non utilizza la strumentazione strutturale. Il passaggio attraverso la struttura
in fin dei conti serve a liberare l’esegesi o il trattamento di un testo dalle implicazioni
storiciste e a scoprire stratificazioni e componenti del testo che il ricorso a spiegazioni di
tipo storico-contestuale omettono di prendere in esame. Ricoeur, se accoglie il metodo
strutturale, ne respinge l’ideologia che fa coincidere il senso di un testo con la logica della
sua struttura.
Perché non è sufficiente l’esegesi secondo i tanti possibili approcci disponibili? Grazie
all’ermeneutica siamo in grado di comprendere meglio ciò che si fa sul piano esegetico e di
portare alla luce alcune questioni di importanza capitale, che restano sullo sfondo dello
studio esegetico. Ad esempio: che cos’è un testo? Che cos’è la lettura? Quale rapporto c’è
tra un testo e il suo «oggetto» (evento storico, mondo, invenzione...)? Queste domande,
proprie dell’ermeneutica generale, acquistano un significato specifico nel campo biblico,
perché la peculiarità della Bibbia si riverbera sull’ermeneutica che se ne occupa.
La lettura. Si parte dalla lettura, a motivo della priorità che ha acquistato nell’ultimo
Ricoeur, per arrivare gradualmente alla multiformità del testo e al suo mondo. Ricoeur
distingue tre tipi di lettura della Bibbia. Nei loro rapporti non è difficile trovare, in forma
rinnovata, uno dei primi problemi individuati dalla nascente arte ermeneutica moderna,
la relazione tra parte e tutto, che costituì anche il primo caso esplicitato di circolo
ermeneutico.
Il primo tipo è la lettura parcellare, che nell’ambito biblico si applica al cosiddetto
genere letterario. Individua il modo del discorso biblico, ad esempio il genere narrativo, e
Ibidem.
RICOEUR, Esquisse de conclusion, cit., p. 293.
7 “Mentre il metodo storico-critico si occupa della differenza tra i diversi strati letterari confusi nella redazione
finale, in vista di ristabilire il Sitz-im-Leben di questo o quel racconto o di questa o quella istituzione, la lettura
che praticheremo parte dal fatto che il senso degli avvenimenti raccontati o delle istituzioni proclamate è stato
staccato dalla scrittura del suo Sitz-im-Leben originario e che la scrittura gli ha sostituito ciò che si potrebbe
chiamare un Sitz-im-Wort. La nostra lettura comincia di qui, con il Sitz-im-Wort di avvenimenti, di azioni, di
istituzioni che hanno perduto il loro primo radicamento e di conseguenza hanno solo più un’esistenza
testuale. Ora questo statuto testuale dei racconti, delle legislazioni, delle profezie, delle parole di sapienza,
degli inni, ha l’effetto di rendere vicendevolmente contemporanei questi testi nell’atto di lettura” (P. RICOEUR,
Temps biblique, in «Archivio di Filosofia» 53, 1985, 1, p. 26). A questa ricostruzione ricca e articolata del testo,
e del testo biblico in particolare, manca l’apporto critico e l’aura della filologia. Il testo è già sempre dato,
senza tener conto della sua produzione, ricostruzione, edizione.
5
6
11
ne ricava le implicazioni, non tanto con l’imposizione di uno schema esterno quanto
piuttosto seguendone le indicazioni interne. Svolta in questa modalità “l’interpretazione
non è un atto di violenza esercitato sul testo dall’esterno da parte degli studiosi, degli
esegeti e dei teologi, ma una operazione ermeneutica interna al testo stesso (si può dire
un lavoro del testo nel testo sul testo)” 8 .
Ma che avviene quando si passa da un genere letterario all’altro? Si opera, in questo
secondo caso, una lettura intertestuale, in cui ogni modo del discorso mantiene le proprie
caratteristiche pur nella disponibilità a intersignificare con altri generi letterari fino alla
contaminazione reciproca. Occorre garantire a ogni genere la sua specificità. “Ciò che fa la
bellezza, la grandezza, la ricchezza della Bibbia, è che si possa passare da un genere
all’altro [...] La Bibbia è in qualche modo... un luogo d’intersezione. Si potrebbe, grazie a
queste molteplici intersezioni, far apparire la Bibbia essenzialmente come un grande
intertesto” 9 .
Un passo ancora e siamo alla lettura globale della Bibbia, piena di fascino e
estremamente rischiosa perché, se mira a intempestive sintesi, potrebbe alterarne il testo
e il significato. Globalità per Ricoeur vuol dire innanzitutto rispetto della polifonia. Si
chiude così il circolo ermeneutico della lettura. Quella globale tuttavia non cancella né
sostituisce le precedenti né deve fornire la giustificazione a una lettura che sia una sorta
di omogeneizzazione concettuale 10 .
I generi letterari. Se la lettura è la risposta creativa alle suggestioni contenute nel
testo, quella parcellare introduce all’individuazione e all’esplorazione dei generi letterari.
Sulla scorta di una lunga e consolidata tradizione esegetica se ne può ricavare un elenco
essenziale, tenendo presente che l’indagine di Ricoeur di fatto si concentra soprattutto
nello studio dell’Antico Testamento 11 : narrativo, profetico, prescrittivo, sapienziale, innico.
Senza entrare nel merito dell’uso specifico di queste categorie, possiamo ricordare
alcuni criteri di lettura che egli ne ricava. A un primo approccio i generi letterari possono
essere percepiti come una forma ancora immatura di pensiero. Come nel caso del
simbolo, anche qui occorre seguire il percorso inverso: il contenuto di pensiero non è
indifferente alla forma letteraria, anzi ne è indisgiungibile; Ricoeur dichiara di aver
imparato da von Rad che il contenuto è strettamente connesso con il genere letterario da
cui è portato. Forma e contenuto sono indissociabili: la confessione di fede “che si esprime
nei documenti biblici è direttamente modulata dalle forme di discorso nelle quali essa si
esprime” 12 .
Altre conseguenze riguardano il contenuto. La molteplicità dei generi letterari
suggeriscono e impongono la considerazione polifonica di alcuni concetti. Ad esempio
8 P. RICOEUR, Herméneutique. Les finalités de l’exégèse biblique, in D. BOURG, A. Lion (éd.), La Bible en
Philosophie, Cerf, Paris 1993, pp. 37-38.
9 RICOEUR, Herméneutique, cit., p. 40.
10 È un criterio che vale innanzitutto in ermeneutica generale. “Non esiste intrigo di tutti gli intrighi, in grado
di mettersi allo stesso livello dell’idea dell’umanità una e dell’unica storia” (Temps et récit 3, p. 372, trad. it.
pp. 392-393) - come non esiste il gioco dei giochi linguistici in Wittgenstein. Con questa precisazione in nota
per quanto riguarda l’ermeneutica e la teologia biblica: “Anche se un pensiero di tutt’altro ordine, quello di
una teologia della storia, che qui non è affrontata, propone di unire una Genesi ad una Apocalisse, non è
certo proponendo un intrigo di tutti gli intrighi che questo pensiero può mettere in relazione il Principio e la
Fine di tutte le cose. Il semplice fatto che noi disponiamo di quattro Evangeli per raccontare l’avvenimento
considerato cardine della storia dalla confessione di fede della Chiesa cristiana primitiva, basta per impedire
al pensiero teologico di costruirsi su di un unico super-intrigo univoco”. Questa osservazione è da ricollegare a
quanto si è detto precedentemente sul concetto di Heilsgeschichte.
11 Manca una vera e propria analisi del discorso apocalittico e del genere epistolare, in particolare quello
paolino, con le loro implicazioni di ordine teologico. In particolare il discorso paolino sembra autorizzare un
discorso religioso che porta con sé un orientamento concettuale non trascurabile e non sufficientemente preso
in carico dall’ermeneutica di Ricoeur. Solo tardivamente Ricoeur ha preso in considerazione il genere
epistolare a partire da sollecitazioni filosofiche (S. Breton, A. Badiou, J. Taubes, G. Agamben). Nelle lettere di
Paolo si intrecciano in modo singolare proclamazione e argomentazione, che nella teoria ermeneutica
corrispondono a interpretazione a argomentazione.
12 P. RICOEUR, Herméneutique de l’idée de Révélation, in AA. VV., La Révélation, Publications des Facultés
Universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1977, p. 31.
12
l’idea di rivelazione; Ricoeur l’ha fatto in varie occasioni per il tempo, la salvezza, la legge e
la nominazione di Dio.
L’ultimo soccorso che la lettura per generi offre alla meditazione teologica è la
salvaguardia dall’insidiosa tentazione che riconduce e conseguentemente riduce le forme
di rivelazione al sapere. Proprio l’attenzione alla multiformità dei generi garantisce una
maggior dialettica tra il segreto di Dio e la sua epifania che si media nell’idea stessa di
rivelazione 13 .
Quasi parallelamente, più sul versante del Nuovo Testamento, Ricoeur ha sviluppato
altre letture parcellari ispirate in particolare ai risultati raccolti dalla ricerca sulla
metafora e sul racconto.
Nella letteratura neotestamentaria le parabole evangeliche occupano un posto del
tutto particolare.
Il campo di applicazione biblico della ricerca sul racconto non ha trovato nella
produzione di Ricoeur ampi svolgimenti e si limita a un breve saggio dedicato al racconto
della Passione in Marco, che vale però da modello per intendere il trattamento poetico del
testo narrativo. Si tratta di una lettura, com’è ormai prevedibile, più attenta all’arte della
composizione letteraria che ai guadagni storico-critici. Sul piano teorico Ricoeur, sulla
scorta di Robert Alter, insiste sull’indissociabilità del kerigma dalla narrazione. Solo
affidandosi alla narrazione, al suo ritmo che si propone attraverso precise strategie, si
possono cogliere le valenze, che vanno perdute sia nell’indagine mirata alla dissezione
storica sia nella sintesi teologica che astrae dal contesto narrativo.
Il Grande Codice. Tra le letture globali Ricoeur ne predilige alcune, che gli permettono
di evitare il rischio della frammentazione, a cui anche la stessa lettura intertestuale è
esposta.
Paul Beauchamp ha rilanciato per l’Antico Testamento la suddivisione rabbinica Legge, Profeti, Scritti - in uno schema di lettura che, senza cancellare l’alterità dei due
testamenti, trova l’antico nel nuovo (la teleologia) e il nuovo nell’antico (l’archeologia).
L’uno e l’altro testamento si corrispondono, al di là dei generi letterari e della stessa
opposizione estrinseca di antico e di nuovo 14 .
Claus Westermann dal canto suo invita alla lettura polifonica della Bibbia ebraica
senza privilegiare un aspetto sugli altri, dal momento che a suo parere manca un vero e
proprio centro teologico nell’Antico Testamento. “Il lettore è chiamato a identificarsi di
volta in volta, in immaginazione e simpatia, al sé confrontato al Dio che benedice,
punisce, consola, senza mai fissarsi in un atteggiamento certo di sé, fisso, definitivo” 15 .
Una predilezione del tutto particolare Ricoeur manifesta per la lettura tipologica
proposta da Frye 16 . Confessa: “Se mi sono interessato a questo libro estraneo alle
principali correnti dell’esegesi, è perché mette il testo al riparo della pretesa di ogni
soggetto a reggerne il senso, sottolineando, da una parte, l’estraneità del suo linguaggio in
confronto a quello che parliamo oggi, dall’altra la coerenza interna della sua
configurazione in virtù dei suoi criteri interni di senso. Questi due tratti hanno una
capacità estrema di decentramento rispetto a ogni impresa di autocostituzione dell’ego” 17 .
Grazie a questa proposta è possibile cogliere che alla massima autonomia del testo
13 Su questo punto si possono leggere i saggi Entre philosophie et théologie II: nommer Dieu e Fides quaerens
intellectum: antécédents bibliques?, ora in Lectures 3.
14 P. BEAUCHAMP, L’un et l’autre Testament. 1. Essai de lecture. 2. Accomplir les Écritures, Seuil, Paris 1976,
1990; L’uno e l’altro testamento. 1. Saggio di lettura, trad. it. di A. MORETTI, rev. di L. ARRIGHI, Paideia, Brescia
1985; 2. Compiere le Scritture, trad. it. di M. MILAZZO, rev. di L. ARRIGHI, R. VIGNOLO, Glossa, Milano 2001.
Ricoeur prende in esame la lettura di Beauchamp in «Comme si la Bible n’existait que lue…», Exorde a ‘Ouvrir
les Écritures’. Mélanges offerts à Paul Beauchamp, Paris, Cerf, 1995, pp. 21-28; Accomplir les Écritures selon
l’un et l’autre Testament, in «Esprit» 275 (2001), 6, pp. 36-45.
15 RICOEUR, Herméneutique, cit., p. 50.
16 N. FRYE, The Great Code. Bible and Literature, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London 1982; Il
Grande Codice. La Bibbia e la letteratura, trad. it. di G. RIZZONI, Einaudi, Torino 1986.
17 RICOEUR, Expérience et langage dans le discours religieux, in J.-F. COURTINE (dir.), Phénoménologie et
Théologie, Criterion, Paris 1992, p. 25.
13
corrisponde una massima responsabilità per il lettore, che giunge a sé solo immergendosi
nel senso di un testo, proprio perché gli si mostra altro.
Un’interpretazione poetica. Al termine di questa ricostruzione dell’ermeneutica biblica
di Ricoeur, volendo ricondurla a una caratterizzazione unitaria, su suo suggerimento la
possiamo chiamare poetica. Senza negare il valore del procedimento analitico proprio
dell’esegesi storico-critica e strutturale, essa punta sulla totalità da cui dipendono le
rispettive parti: l’unità letteraria guida la comprensione dei singoli passi; in questo caso la
priorità appartiene alla configurazione globale che il testo possiede. Ma poetica rinvia
anche all’aspetto creativo della lettura di cui avremo ancora occasione di parlare; propone
un rapporto diverso con il testo, fondato sull’atto apparentemente più semplice, la lettura,
preferito alla critica o alla spiegazione, le quali peraltro non possono fare a meno della
lettura stessa, anzi ne sono un’attuazione specifica.
Il pericolo del tentativo di Ricoeur potrebbe essere l’eclettismo, pericolo non
scongiurato se i metodi storico-critico e strutturale fossero accolti e utilizzati a livello di
mera giustapposizione e di controllo critico reciproco; oppure una forma di olismo
ermeneutico, se il ricorso all’analisi fosse rifiutata e la sfida ontologica fosse lasciata
cadere. Il livello integrativo della poetica cerca di evitare giustapposizioni o facili
scorciatoie; rivendica per sé ciò che altri metodi non danno o singole imprese non
codificano 18 .
2.
Questioni di ermeneutica
Il circolo ermeneutico. L’interpretazione poetica permette al lettore di cogliere in una
unità letteraria la biblioteca e la polifonia della Bibbia, nelle sue unità parziali e nella sua
interezza. Il testo diventa opera nell’interpretazione del lettore e dell’esegeta, che vengono
coinvolti nel processo di appropriazione dal mondo del testo nella sua proposta positiva e
insieme critica. Il compito della riflessione non si conclude con la qualificazione
dell’ermeneutica come poetica (e viceversa). Restano ancora da affrontare alcune
questioni, che vanno al di là della poetica e si pongono a un livello generale come
pregiudiziali sotto il titolo di circolo ermeneutico.
La questione del rapporto tra la parte e il tutto è presente nei vari tipi di lettura
biblica elencati da Ricoeur - parcellare, intertestuale, globale -, tipi che nelle loro relazioni
reciproche richiamano la circolarità assunta in vario modo dall’ermeneutica filosofica.
Sul versante biblico-teologico è opportuno partire dalla formulazione che ne ha dato
Bultmann: «Credere per comprendere, comprendere per credere». Fede e comprensione si
implicano a vicenda; nella versione bultmanniana, come del resto in tutta la sua
ermeneutica, si tratta del rapporto personale e singolare dell’individuo con la Parola che
gli si rivolge e lo invita alla decisione. Ricoeur riprende questa formulazione all’interno di
una strategia ermeneutica biblica più vasta. Infatti lo stesso circolo si presenta in modi
diversi, sebbene la sua struttura di mutua implicazione non muti nelle sue linee generali.
Il primo circolo è quello che si instaura tra la Parola (di Dio) e la Scrittura. La Scrittura
per attestarsi come sacra deve appellarsi al fatto che trasmette la Parola di Dio; viceversa,
la Parola di Dio, oggi, non ha modo di farsi udire che attraverso le Scritture. In questa
attuazione del circolo, a dire il vero, si manifesta un’implicazione che è possibile trovare
anche altrove; la parola viva scaturisce dalla scrittura, che si legittima per il fatto di far
Si può tuttavia consentire con l’osservazione di A. LACOQUE che ricupera il nocciolo dell’ermeneutica di
ispirazione romantica: “Né il testo né l’autore scompaiono dal processo. L’idea non è separabile dal suo
veicolo, l’anima dal corpo. L’ermeneutica resta l’ermeneutica del testo, prodotta dal suo autore. […] Il «su che
cosa» è profondamente influenzato dal «che cosa» del testo. E, in definitiva, il «su che cosa» e il «che cosa» sono
rivelatori di un genio con il quale vogliamo dialogare e dal quale vogliamo essere condotti…” (À propos de
l’herméneutique de Paul Ricoeur, in L’Herne, p. 124).
18
14
risuonare la parola, ma “se c’è una scrittura in ogni parola, come afferma Jacques
Derrida, c’è una parola nella scrittura” 19 , ribatte Ricoeur.
Il circolo si attua in un secondo modo: la Parola-Scrittura è tale solo perché c’è una
comunità di credenti che la accoglie come dotata delle prerogative che essa si attribuisce;
dunque la Parola-Scrittura è debitrice alla comunità, che a sua volta è ciò che dichiara di
essere solo con il sostegno e l’attestazione di quella stessa Parola-Scrittura cui si appella.
Senza Scrittura non c’è comunità; ma la testimonianza della comunità è essenziale alla
Scrittura per essere riconosciuta come tale. Ricoeur include in questa modalità del circolo
il rapporto tra Scrittura e Tradizione: la Tradizione si presenta come l’interpretazione
autorevole della Scrittura e non c’è scrittura senza tradizione, come non c’è Scrittura
senza comunità confessante. Ora, questo rapporto non è dato una volta per tutte, ma si
arricchisce di tutte le sfide della storia della fede e le relative risposte, nella tensione tra la
fedeltà alla Parola originaria e la necessaria creatività dell’interpretazione. Lo stesso
circolo si allarga nella misura in cui la Scrittura entra in rapporto con la cultura nel suo
senso più lato. Da sempre è stato così: la Scrittura mantiene profonde relazioni con le
culture vicine ad Israele e d’altra parte la tradizione cristiana non ha mai cessato di
allacciare rapporti fecondi tra la Scrittura e le culture dei popoli e dei tempi, rapporto che
continua fino a noi e che di diritto appartiene alla storia dell’interpretazione.
Il circolo, infine, si stabilisce anche tra singolo credente e Scrittura. La Scrittura è per
lui parola di rivelazione, ma solo la sua risposta, l’obbedienza della fede, permette alla
parola di risuonare come Parola di Dio. In questo ascolto la libertà del credente si realizza
come scommessa; senza scommessa la circolarità diventa viziosa.
Qual è però la vera ultima garanzia nell’interpretazione? “È lo Spirito che disegna il
circolo più grande all’interno del quale la Parola e la Scrittura, la Scrittura e la comunità
confessante, si costituiscono vicendevolmente. La fede, come è professata dai credenti, ma
anche come può essere compresa in immaginazione e con simpatia nella sospensione
della credenza, consiste allora nel credere che la «testimonianza interiore dello Spirito
Santo» - dalla parte delle comunità di ascolto e di interpretazione - e l’ispirazione
attribuita alle Scritture da queste comunità sono l’opera di un solo e stesso Spirito” (L3
326-327).
Il mondo del testo: l’essere nuovo. Il mondo del testo, categoria centrale
dell’ermeneutica, si ripropone anche nell’ermeneutica biblica, sebbene in una peculiarità
irriducibile. Diversamente da Bultmann non si fa perno innanzitutto sulle categorie
esistenziali o esistentive, perché “il compito primario dell’ermeneutica non è quello di
suscitare una decisione nel lettore, ma anzitutto quello di lasciare che si dispieghi il
mondo d’essere che è la «cosa» del testo biblico” (TA 126, 122). In questo mondo del testo
troviamo le grandi «categorie bibliche»: alleanza, regno, ecc.
Proprio di questo mondo è d’essere rivelante; la rivelazione non è una categoria
generale, che trova poi una realizzazione tra le tante nella Bibbia. Solo la Bibbia apre alla
possibilità di capire che cos’è rivelazione 20 - e questa è colta non attraverso una
comprensione psicologizzante dell’ispirazione, ma nell’individuazione degli assi strutturali
di questo mondo, cioè di tutta la realtà com’è configurata nel e dal testo biblico.
Questo mondo del testo non privilegia il singolo lettore, va oltre l’Io-Tu. “Il mondo
biblico ha dimensioni cosmiche - è una creazione -, comunitarie - si tratta di un popolo -,
storico-culturali - si tratta di Israele, del regno di Dio -, e personali. L’uomo è coinvolto
secondo le sue molteplici dimensioni che sono anch’esse cosmiche, storico-mondiali e al
tempo stesso antropologiche, etiche e personalistiche” (TA 127, 123).
La Bibbia come testo ha una dimensione poetica che, se lo distanzia dal mondo
ordinario, per altro verso ne dà una nuova comprensione: “andando fino in fondo e
19 RICOEUR, Le récit interprétatif. Exégèse et Théologie dans les récits de la Passion, «Revue des Sciences
religieuses» 73 (1985), 1, p. 28.
20 Ricoeur distingue manifestazione (ierofania), rivelazione e proclamazione. Cf. Manifestation et proclamation,
in «Archivio di Filosofia» 44 (1974), 2-3, pp. 57-76.
15
ricavando le conclusioni estreme, non si giungerà allora a dire che, quanto si è così aperto
nella realtà quotidiana, è un’altra realtà, la realtà del possibile?” (TA 128, 123). In questo
possibile assume un posto determinante la relazione con il Dio che si manifesta e di cui si
impara a conoscere il Nome; la Bibbia è il poema di Dio e del suo Cristo. Nel passaggio
dall’uno all’altro testamento, nella polifonia dei testi, noi impariamo a raccoglierne e a
interpretarne le testimonianze non come semplici spettatori, ma proprio esercitando la
nostra lettura e, dunque, mettendo in gioco noi stessi.
Se si deve abbandonare il quadro teorico e sistematico della Heilsgeschichte 21 e se non
si vuole rinunciare a una qualche unitarietà non solo formale, come quella offerta dalla
lettura globale, ma anche di contenuto, si possono rintracciare alcuni concetti biblicoteologici che, rispettando la duplicità del discorso religioso e senza costituire un quadro
interpretativo esterno, guidino il lettore all’Essere nuovo che si annuncia nel testo. Questo
«nuovo» si annuncia come un «di più» ed è traducibile in concetti teologici attraverso la
logica della sovrabbondanza e l’economia del dono, che troviamo nelle parabole e nella
riflessione paolina. “In ambedue i casi una «logica» di Dio - che non è la logica
dell’identità, ma del «qualcosa di più» emerge. Oppure, come dice Funk, in ambedue i casi
«la rottura della tradizione lascia filtrare attraverso le spaccature un fugace barlume di un
altro mondo»” (HB 246, EB 150).
Il mondo del lettore. Siamo al punto culminante dell’impresa ermeneutica. Il testo che
diventa opera nella lettura è il plesso di Parola-Scrittura-Tradizione-Spirito. Si tratta di
precisare, attraverso il richiamo di alcune parole chiave, che cosa è in gioco nei vari tipi di
lettura precedentemente elencati sotto il profilo dell’appropriazione.
Per prima viene la fede: scaturisce dal mondo del testo in una dimensione
iperlinguistica che sfugge all’ermeneutica, pur non potendo fare a meno del linguaggio per
esprimersi. La fede in quanto tale è “il limite di ogni ermeneutica così come l’origine non
ermeneutica di ogni interpretazione; il movimento senza fine dell’interpretazione comincia
e si compie nel rischio di una risposta che nessun commento sa né produrre né esaurire”
(TA 130, 126). La fede dunque precede e segue l’ermeneutica, sebbene si articoli sempre
in un linguaggio e in un’interpretazione.
Nell’atto stesso dell’appropriazione che si realizza come comprensione di sé davanti al
testo, permane la distanza che in questo caso assume il tratto della critica delle illusioni e
dunque del soggetto. Con ciò si palesa che l’insistenza sulla lettura non vuol dire
soggettivismo; anzi si richiede un alto esercizio di responsabilità e, quasi in
proseguimento dell’istanza profetica della Scrittura, si deve osare includere la critica del
sospetto. “Un’«ermeneutica del sospetto» è oggi parte integrante di ogni appropriazione di
senso. Con essa si persegue la «de-costruzione» dei pregiudizi che ostacolano il venire
all’essere del mondo del testo” (TA 132, 127). La fede incorpora la sfida che le viene da
altre letture e le risponde con le risorse del mondo del testo che esplora.
Nel progetto di ermeneutica biblica di Ricoeur l’attenzione posta all’immaginazione è
forse la sottolineatura più singolare. La Parola prima ancora che dirigersi alla volontà si
volge ad essa, perché ogni risposta la include. “L’immaginazione è questa dimensione
La categoria ha a che fare con quella di die Geschichte selber e la sua dinamica progressiva. In La memoria,
la storia, l’oblio Ricoeur porta a conclusione la critica a quella categoria: “L’effetto devastante fu
particolarmente visibile riguardo alla versione teologica del topos del progresso, e cioè all’idea di
Heilsgeschichte - «storia della salvezza» - che deriva dall’escatologia cristiana. In verità, il topos del progresso
aveva innanzitutto beneficiato di un impulso venuto dalla teologia grazie allo schema della «promessa» e del
«compimento», che aveva costituito la matrice originale della Heilsgeschichte all’interno della scuola di
Göttingen fin dal XVIII secolo. Ora, questo schema ha continuato a nutrire la teologia della storia fino alla
metà del XX secolo. Il contraccolpo del tema della relatività storica sulla Heilsgeschichte fu severo. Se la
Rivelazione è essa stessa progressiva, si impone il suo reciproco: la venuta del regno di Dio è essa stessa uno
sviluppo storico e l’escatologia cristiana si dissolve in un processo. Anche l’idea di salvezza eterna perde il suo
referente immutabile. Così, il concetto di Heilsgeschichte, proposto innanzitutto come un’alternativa alla
storicizzazione, salvo a funzionare come un doppione teologico del contenuto profano di progresso, si è
rovesciato in un fattore di storicizzazione totale” (La mémoire, l’histoire, l’oubli, pp. 398-399, trad. it. pp. 439440).
21
16
della soggettività che risponde al testo come Poema. ... una poetica dell’esistenza risponde
alla poetica del discorso”. La Bibbia parla anzitutto all’immaginazione “offrendole i
«figurativi» della mia liberazione” (TA 132-133, 128-129); se non cambia l’immaginazione
con l’apertura al possibile, non c’è conversione della volontà e dell’esistenza.
“Niente azione senza immaginazione” (TA 224, 215). Al possibile fa seguito l’azione forse il punto più alto dell’applicazione. Questo aspetto, mai approfonditamente indagato
da Ricoeur in campo biblico, affiora continuamente nella sua riflessione sull’azione; se
l’azione può essere letta come un testo, se il racconto articola la struttura prenarrativa
dell’azione, ciò che si può dire dell’interpretazione del testo, in particolare della sua
applicazione, può anche essere trasferito all’azione. L’azione presentata dalla Bibbia
diventa allora azione regolativa - nel senso di attività interpretante creatrice - per l’azione
singola o comunitaria dell’interprete. Di qui potrebbe prendere l’avvio di una poetica
biblica della libertà che si misura con l’azione e la ragion pratica. “L’ampiezza del mondo
del testo richiede un’ampiezza uguale dal lato dell’applicatio, che sarà tanto praxis politica
quanto lavoro di pensiero e di linguaggio” (L3 304) 22 .
Ma il raccordo più potente tra mondo del testo e mondo del lettore, si potrebbe dire
l’interfaccia, sembra proporsi nella testimonianza, che assume in questo modo il ruolo di
categoria ermeneutica per eccellenza. Nel senso religioso il significato profano di
testimonianza (constatazione oculare che si deposita in un racconto, entro un contesto
giudiziario o documentario) assume i tratti della proclamazione e dell’impegno personale.
Questi conferiscono al racconto, si veda il caso del Vangelo di Giovanni, una tensione
acutissima per il suo stile di confessione.
È la natura duplice della testimonianza a farne una categoria ermeneutica
fondamentale, “un atto della coscienza di sé su se stessa e un atto della comprensione
storica sui segni che l’assoluto dona di sé” (L3 129). Nell’indagarla Ricoeur ha fatto ampio
ricorso alla meditazione di Nabert 23 . Ermeneutica e testimonianza sono solidali nel
respingere un sapere assoluto, a cui oppongono l’umile e perseverante impegno nella
decifrazione dei segni dell’Assoluto. Della testimonianza l’ermeneutica condivide la
fragilità storica e l’assolutezza dell’attestazione; a sua volta la testimonianza, grazie
all’interpretazione, può, pur restando solo un segno, una parola o un’azione, indicare
l’Altezza e l’Esteriorità della sua provenienza secondo la logica della sovrabbondanza che
lo connota.
L’ultima parola della filosofia del sé sulla via dell’ontologia è l’attestazione; la prima e
l’ultima dell’ermeneutica e della teologia biblica è la testimonianza. Sul confine si
richiamano per quel di più che caratterizza entrambe e in cui si fa presentire, in una,
l’alterità del sé, nella seconda, l’Alterità tout court. “L’attestazione punta verso l’estrema
interiorità, la testimonianza - sarebbe meglio dire le testimonianze - si dispiega
nell’esteriorità della storia. Riguardo al carattere centripeto dell’attestazione, vorrei dire
che l’ermeneutica del sé ne dona un presentimento facendo dell’attestazione la
convinzione intima dell’uomo capace, la certezza e la fidatezza, la fiducia e la confidenza,
che «io posso», che io posso parlare, agire, raccontarmi, ritenermi responsabile dei miei
atti. È nel prolungamento di questa intima convinzione che la confessione propriamente
religiosa può appellarsi a ciò che l’apostolo chiama «la testimonianza interiore dello Spirito
Santo». Ma il movimento centripeto dell’attestazione esige la sanzione, la verificazione,
l’incoraggiamento delle testimonianze date fuori di noi, nella storia esterna, in quegli atti
con cui degli esseri rendono testimonianza, secondo l’espressione di Jean Nabert, al
divino: sacrificio, sublime, perdono, tutti segni dispersi della presenza dello spirito nella
storia” 24 .
22 Anche la saggezza tragica ha il potere di convertire lo sguardo e riorientare la praxis. Cf. Soi-même comme
un autre, p. 288, trad. it. p. 352.
23 Oltre a Herméneutique du témoignage (Lectures 3) si devono tener presenti L’atto e il segno secondo Jean
Nabert (Le conflit des interprétations) e Emmanuel Lévinas, penseur du témoignage (Lectures 3).
24 RICOEUR, De l’Esprit, in «Revue philosophique de Louvain» 92 (1994), 2-3, pp. 251-252.
17
b) EN PHILOSOPHE: IL PENSIERO DELLA BIBBIA
Pensiero biblico e pensiero filosofico. Per pensare la Bibbia, il filosofo si mette alla
scuola dell’esegesi attraverso un apprendistato che comporta diverse esigenze. La
decisione è guidata da un’ipotesi che la ricerca deve consolidare: “Vi è un pensiero fuori
della filosofia, sia essa di tipo greco, cartesiano, kantiano, hegeliano, ecc. D’altra parte
non c’è un pensiero nei grandi testi religiosi dell’India, un altro nelle espressioni
metafisiche del buddhismo? La prima cosa su cui scommette il filosofo è che i generi
letterari… sono modi di discorso che danno di che pensare filosoficamente” (PB 14, 15).
La filosofia è giustificata nell’avviare questa fase di ascolto e dialogo perché ritiene di poter
presupporre che nei testi religiosi sia contenuto un pensiero, non riducibile a soli aspetti
emozionali e irrazionali o anche solo non pertinenti.
Il secondo presupposto impone come indispensabile un’attenta e paziente indagine
letteraria; il pensiero, se c’è, si dà nella trama di un testo dotato di caratteristiche
specifiche: “Questo pensiero si legge in un corpus di testi irriducibili a quelli che egli è
solito scandagliare quando «fa filosofia», nel senso accademico e professionale del termine”
(PB 14, 15), testi differenti dal dialogo socratico, dal trattato aristotelico, ecc. Come
suggerisce Frye, bisogna risalire al di qua tanto del discorso scientifico descrittivo ed
esplicativo quanto del discorso apologetico, argomentativo e dogmatico, fino al linguaggio
metaforico, di cui la poesia è l’equivalente profano più vicino.
C’è ancora un’ulteriore rilevante differenza. Occorre considerare e rispettare il
rapporto tra i testi del corpus biblico e le loro comunità storiche di lettura e di
interpretazione. “Si presenta qui un vero circolo ermeneutico, che per il filosofo è fonte di
stupore e di perplessità, soprattutto quando in lui la critica prevalga sulla convinzione. Il
circolo è questo: interpretando queste scritture, la comunità in questione interpreta se
stessa. Si produce qui una sorta di elezione reciproca” (PB 15, 15-16). Il circolo non è
vizioso perché il ruolo di fondazione attribuito ai testi sacri e la condizione fondata della
comunità storica non sono intercambiabili. “Il testo fondatore istruisce: è il senso del
termine «torah», mentre la comunità riceve l’istruzione. Anche quando questa relazione
oltrepassa quella tra autorità e obbedienza per elevarsi ad un legame d’amore, la
differenza di altezza tra la parola che istruisce con autorità e quella che risponde con
riconoscenza non può essere abolita. A questo proposito, la fede non è altro che la
confessione di questa dissimmetria tra la parola del maestro e quella del discepolo e tra le
scritture nelle quali questi due tipi di parole si inscrivono” (PB 15-16, 16). Il rapporto tra
testo e comunità suggerisce di considerare la chiusura del Canone “come la causa e
insieme l’effetto di questa affinità elettiva tra testi fondativi e comunità fondate” (PB 16,
16). Il filosofo deve entrare in questo circolo se vuole conoscere qualcosa come il pensiero
biblico.
Sotto il segno di questa triplice presupposizione “è possibile creare lo spazio per quella
forma mista di pensiero che nasce dall’intersecarsi del pensiero biblico con le forme di
pensiero delle culture che lo accolgono, diverse da quelle di ebrei e cristiani” (PB 16, 16).
L’incontro con le filosofie greche non è stato una sfortuna né una perversione; grazie a
questo rischio fu assicurata la perennità dei testi biblici. L’incontro è diventato il destino
costitutivo della nostra cultura, “un compito con cui la nostra riflessione deve misurarsi
con onestà e responsabilità totali” (PB 17, 17). Ma oggi la traiettoria di lettura ha
raggiunto una portata più vasta, a contatto con una grande varietà di culture, con una
filosofia nel frattempo mutata, in un contesto non sempre predisposto all’ascolto.
“La flebile voce delle scritture bibliche si perde nel chiasso incredibile di tutti i segnali
che ci si scambiano. Ma il destino della parola biblica è quello di tutte le voci poetiche.
Potrebbero, forse, queste essere intese al livello del discorso pubblico? La mia speranza è
che ci siano sempre poeti e orecchie per ascoltarli. Il destino minoritario di una parola
forte non è soltanto quello della parola biblica” (CC 254, 235).
Pensare la Bibbia vuol dire pensare Dio a partire da quel grande contenitore di testi che è
la Bibbia, i libri per antonomasia nella loro molteplicità e varietà. La scelta dei testi in
Come pensa la Bibbia non è affatto casuale, in quanto l’antologia si propone di
18
individuare i generi letterari fondamentali attraverso cui il pensiero biblico si esprime. La
scelta cade in particolare su passi dell’Antico Testamento, attraverso cui però viene fatto
filtrare, più in continuità che in rottura, il Nuovo Testamento 25 .
L’attraversamento dei contributi di Ricoeur ha per filo conduttore principale il
molteplice e biblico dire Dio, nella prospettiva generale già indicata: di più e altrimenti. In
questo esercizio sono coinvolti il pensiero e, conseguentemente, la filosofia, quella di
Ricoeur e quelle che non si siano già pregiudizialmente definite in forma autarchica.
Bibliografia ricoeuriana (abbreviazioni nel testo)
CC
CI
FC
HB
L
PB
TA
TR
La critique et la conviction, 1995.
Le conflit des interprétations, 1969.
Finitude et culpabilité, 1988.
L’herméneutique biblique, 2001.
Lectures 3. Aux frontières de la philosophie, 1994.
Penser la Bible, 1998.
Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, 1986.
Temps et récit 1, 1983.
Osservazioni
a. Nelle citazioni il primo numero indica la pagina relativa al testo in lingua originale, il
secondo si riferisce alla traduzione italiana.
b. Per la completezza dei dati bibliografici si rimanda all’elenco delle opere di Ricoeur
riportato in fondo al libretto.
25 La scelta è dettata dal dialogo con LaCoque che è un anticotestamentarista. C’è però anche dell’altro, che
crea l’affinità con Beauchamp: “Ciò che mi è parso l’originalità della sua scelta di lettura, è quel tipo di ritardo
che egli impone a se stesso prima di entrare nel Nuovo Testamento: «La cosa strana è che una lettura che
prende forma dal Vangelo sia portata a tenere a distanza il Vangelo»” (Comme si la Bible n’existait que lue…,
cit., p. 28).
19
3
L’identità narrativa e il perdono
nel pensiero di Paul Ricoeur∗
ALBERTO MARTINENGO
Pagine 20-29:
in attesa di permesso per pubblicazione
∗
Questo testo riprende, con qualche modifica, il saggio “Ermeneutica del soggetto ed esperienza del perdono
nel pensiero di Paul Ricoeur”, pubblicato in MAURO PIRAS (a cura di), Saggezza pratica e riconoscimento. Il
pensiero etico e politico dell’ultimo Ricoeur, Meltemi, Roma 2007, pp. 189-207.
20
4
Uno sguardo all’opera di Paul Ricoeur
Tra sintesi e scorci panoramici sul saggio di Oreste Aime:
«Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur»
(Cittadella, Assisi 2007. Pagg. 812)
Ad uso didattico
PIER GIUSEPPE PASERO
*
Dai testi di Ricoeur a un testo su Ricoeur
Ripercorrere a grandi linee un testo denso per contenuti e visioni prospettiche,
laborioso per struttura e voluminoso per estensione (si sfiorano le 800 pagine, le si
superano con la Bibliografia e gli Indici) è impresa destinata a portare il sigillo
dell’incompiuto. Si tratta infatti di un testo che è a sua volta sintesi e versione
interpretativa del pensiero di uno dei filosofi tra i più significativi del Novecento, una sorta
di esame critico a tutto campo e dettagliato, con una calibratura che agli occhi del lettore
non può non risultare quale maturazione effettuata in anni e anni di paziente studio e
lavoro. Senza dubbio si è in presenza di un’attività nel cui svolgimento è richiesta la
capacità di mettersi con rigore e vigore alla scuola del maestro che diventa pretesto di
riflessione, accogliendone punti di vista da vagliare e pregi da interiorizzare. E in coerenza
con la filosofia che l’autore richiamato sottende, la riflessione si concretizza nella forma di
un rimanere instancabilmente nel dialogo e nell’apertura. È quanto il professor Oreste
Aime ha cercato di attuare nell’elaborazione del suo notevole saggio «Senso e essere. La
filosofia riflessiva di Paul Ricoeur» (Cittadella, Assisi 2007).
Nel filosofo francese preso in considerazione, la molteplicità di interessi e l’ampiezza di
orizzonti si fondono con il fecondarsi reciproco degli approcci. Attraversare il XX secolo
prestando attenzione a tutta la sua complessità e con libertà da schieramenti ideologici,
ma non disconoscendo nulla di quanto profilato su ogni fronte, anzi, cercando di
valutarne la portata semplicemente perché si comincia a fare storia quando ci si riconosce
parte della sua totalità, comporta assumere un atteggiamento intellettuale e morale che
non di rado esorbita dalla visibilità e dal successo. Forse per questo il nome di Paul
Ricoeur (1913-2005) non sempre risuona nell’elenco dei nomi celebri che si riconoscono
almeno come un’eco per sentito dire, benché più rara sia anche di loro l’autentica
conoscenza. Ma star fuori dalla filosofia dominante non implica un non esser grandi.
Quell’esorbitare potrebbe coincidere con un eccedere i limiti. Non quindi un essere al di
sotto, ma al di sopra. D’altra parte è giusto dubitare del fatto che il meglio risieda laddove
un qualsiasi prodotto si fa oggetto di consumo di massa, e pensare che lo stesso dubbio
sia estensibile ai risultati che, in modo analogo, lungo i tempi della storia è lo spirito
umano a conseguire.
Tra le caratteristiche della riflessione di Ricoeur va anzitutto ricordato che la sua è
una filosofia che si misura sì con voci autorevoli della storia del pensiero, ma altrettanto
con voci meno imponenti, quasi una convocazione in tavola rotonda di autori la cui
originalità consiste nell’essere inesauribili fonti cui attingere freschezza ad ogni ritorno,
autori che non perdono il carisma della provocazione. Ne deriva come corollario la
capacità di aprire anche ciò che a prima vista può apparire chiuso, per esempio un
sistema filosofico. Se si discende più in profondità è il caso di dire, parlando di Ricoeur,
che nella sua rievocazione di un autore qualsiasi occorre prestare attenzione alla messa in
gioco non solo dell’autore, ma più in generale della stessa storia del pensiero che
30
rimbalzando anche solo frammentariamente in quell’autore riflette orizzonti ben più estesi
e, con essi, i vari ambiti del sapere e dell’agire. Si delinea così una ricerca tenace che si
misura ininterrottamente con vecchie e nuove acquisizioni. Una ricerca che per di più non
dimentica che un percorso di riflessione non soltanto rivede, lascia cadere, valorizza o
riprende un passato che non passa, ma si fa carico di sottoporre al medesimo processo
critico il proprio percorso di riflessione.
Al tutto s’aggiunga che una sapiente azione di coordinamento tra fronti che sembrano
opporsi ed orizzonti che s’intersecano costituisce un’esemplare espressione di
trascendimento di quel relativismo troppo facile e solo apparentemente dimissionario il
quale, mentre ha la pretesa di stare al di sopra di ogni verità, si pone come nuova
indiscussa verità, con fare militante che deride ma di cui si può ridere, più frutto di
fiacchezza di pensiero che non di ricerca in spirito di credibile apertura. Perché questa si
dà non quando ci si mette davanti un presunto «tutto» eguagliandone col giudizio le
manifestazioni, ma quando in quel «tutto» si entra responsabilmente, s’individuano fattori
positivi da rilanciare nell’attualità almeno come criteri di lettura, onde in primo luogo si
percepiscono prossimità più che distanze, spinte attive che implicano scelte sia lungo il
corso della storia che lungo il corso della propria storia. Dunque «riflettere» richiamandosi
ai filosofi e alla storia del pensiero significa far interagire pensatori e filosofie estrapolando
da entrambi nodi problematici e luoghi di latenza, un compito straordinario e uno
straordinario destino per chi in sé e intorno a sé voglia far interagire in armonia senso ed
essere, pensare ed agire. Così la diacronicità attraverso cui s’estende la produzione
umana interpella ogni sincronicità, ovvero il presente in quanto molteplicità, mentre il
passato non resta confinato in un semplice «non più» e si fa invece contemporaneità.
L’estensione dell’opera ricoeuriana risulta davvero oceanica. L’impronta di apertura
che non omette e non censura, che procede senza sosta con calibro e misura, che lungo il
tempo della creatività umana cerca germogli sparsi, li coltiva ed irrora… restituisce alla
medesima un grado di elevata complessità. Un merito incomparabile risiede inoltre nel
fatto che al giudizio dualizzante della cernita e dello scarto si sostituisce il motto del
«lasciarsi istruire», una modestia intellettuale che prima di ascriversi al regno delle virtù
va considerata nell’efficacia del risultato che ne deriva.
Ad un primo approccio non deve stupire se dall’insieme si resta incalzati da
un’impressione di rapsodia che sospende il giudizio sull’unitarietà dell’opera. In realtà, se
di attività rapsodica si tratta, essa non è che l’incipit a numerose riprese di un lungo
percorso che sempre cessa e sempre ricomincia, un salire a spirale e uno stare in
cammino dove il tutto è un evento e non un sistema. L’attenzione a quell’evento, che
s’estrinseca come varietà e molteplicità, richiede un discendere nei pressi, un passare e
tornare, un retrocedere per poter nuovamente avanzare, un riprendere per approfondire.
L’immagine potrebbe essere quella del sassolino gettato in acqua, il cui affondamento
produce in superficie piccole onde che ne segnano la presenza in cerchi sempre più ampi.
Un diversificarsi ed ingrandirsi con punto di riferimento nel medesimo centro.
La liberazione dal sistema va letta come pregio e non come limite, riflesso di un
tragitto itinerante che in qualche modo è già meta nel semplice porsi in atto. La verità non
si dà nell’esclusività di un luogo, dunque non si chiude in nessuna struttura e in nessun
apparato, ma emerge con gradualità grazie ad una ricerca di soggetti in attiva relazione
reciproca. Verità e senso attraggono l’uomo da un già e da un non ancora, sono dunque la
fonte del suo lungo peregrinare, che però non è un vagare a vuoto, ma un’espressione di
libertà sul non limite di tutto quanto, pur avendo forma, richiede pensiero senza togliere
spazio a riformulazioni, in quel percorso ontologico dell’interpretazione non di rado
conflittuale, e tuttavia assolutamente reale, da cui ogni effettivo riflettere non può
prescindere. Perché quel conflitto apre uno spazio di ricerca e in definitiva richiede
un’attività filosofica che, oltre il frammentario, e pur tra il volutamente incompiuto ed
asistematico, riconsegna all’opera uno spirito di organicità, come sottolinea Aime quando
scrive: «Pur non volendo realizzare un sistema, il suo è un pensiero organizzato e non solo
rigoroso, organico nonostante l’andamento saggistico» (761).
31
L’articolarsi del libro in cinque parti non offre una struttura rigida, anzi, sono proprio
le riprese interne alla trattazione a conferirle elasticità e movimento, un progredire nella
ricerca che qualche volta procede per passaggi solo lievemente percettibili, ma che, dato il
metodo e il contesto, s’armonizza con coerenza sul piano programmatico di fondo. Anche
quelle che possono sembrare ripetizioni in realtà lo sono solo apparentemente. Una
lettura più concentrata vi riscontra invece svolgimenti e scioglimenti, nuove sintesi, un
modo intenzionale di avanzare che da un unico centro d’irradiazione tenta di seguire ogni
volta una radiazione diversa. Così è della replica di alcune citazioni: non tanto un ridire,
ma, se può valere un’immagine carpita all’arte pittorica, un mostrare l’effetto differente di
un medesimo cielo in dipinti in cui quel cielo si staglia come sfondo su scene diverse.
D’altro canto le citazioni di Ricoeur nell’opera di Aime sono talmente numerose e non
sempre brevi, da giungere a costituire una sorta di significativa antologia lungo il corso
della trattazione.
La suddivisione delle cinque parti in singoli capitoli - composti a loro volta di paragrafi
e brevi sottoparagrafi (una necessità assoluta per qualsiasi principiante o non, in cerca di
orientamento) - ne alleggerisce l’andamento e ne distilla con gradualità la recezione.
Un pregio da non sottovalutare è la scelta di brevi passi epigrafici riportati in fronte ad
ogni capitolo. Scelte efficaci e felicemente riuscite, per la maggior parte desunte, senz’altro
non a caso, da testi di poeti di varie nazionalità e mai estrinseche, segno che la lezione di
Ricoeur ha inciso profondamente nell’animo di un suo studioso, o forse, capovolgendo la
prospettiva, segno che solo chi dimora in una molteplicità e multiformità di interessi può
trovare consonanza d’animo ed intesa con un autore come Ricoeur, divenendo così
candidato a interpretarlo e riferirne.
Le cinque parti portano rispettivamente i seguenti titoli: I. Una filosofia riflessiva. II.
Fenomenologia ermeneutica e ontologia. III. Uomini nel tempo. IV. Antropologia filosofica.
V. La filosofia e il suo altro. Conclude il testo un finale dal titolo «Opera aperta». In
analogia con la medesima distribuzione procederà lo strutturarsi delle pagine sottostanti.
Data la vastità dell’opera che ne costituisce l’oggetto di rimando, risonanza della suddetta
vastità oceanica e del valore poliedrico dell’opera dell’autore che ne sta a monte, più che
riassumere o recensire si cercherà di procedere almeno per scorci panoramici, non da
ultimo con l’utilizzo di citazioni, il cui scopo risiede nel costituire una piccola antologia
intratestuale dei passaggi più significativi che vi sono evidenziati.
1.
Una filosofia riflessiva (parte prima)
♦ Il capitolo di ouverture, Lo stupore, le domande, le opere, s’imposta chiarificando
quale sia per Ricoeur l’incarico del filosofo: non tanto un uomo che risponde, quanto un
uomo che pone domande. Lo stupirsi per l’essere nel mondo lega uno specifico
domandare alla singolarità del «qualcuno» in cui la domanda si fa strada. Si precisa allora
che «la filosofia di Ricoeur è la filosofia riflessiva alla ricerca di se stessa in dialogo con la
fenomenologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, la filosofia del linguaggio e in rapporto
costante con le scienze, quelle umane in particolare» (10-11). L’asse del progetto iniziale di
una Philosophie de la volonté si sposta pian piano verso l’asse tematico della filosofia del
linguaggio, ma il tema dell’azione nell’ultimo Ricoeur mostra un ricongiungimento agli
esordi.
Tra iniziazione, maturazione e fondazione di un pensiero autonomo, l’opera filosofica
di Ricoeur s’instaura sul principio di un «consenso al mondo», quindi all’essere, che
oltrepassi «tanto l’estatico sì quanto il no della rivolta», fino al delinearsi di «un’ontologia
della conciliazione, nel segno non della dialettica ma della speranza» (16).
Non meno importante è il problema della storia affrontato in Histoire et vérité, di
fronte alla quale sia la ricerca filosofica che l’attività concreta sono chiamate ad evitare la
polarizzazione su dogmatismo o scetticismo, col pericolo della totalizzazione.
La seconda parte dell’opera Philosophie de la volonté appare distinta nei due tomi di
Finitude et culpabilité. Nel primo, L’homme faillible, «la costituzione dell’uomo, teso tra
32
finito e infinito, si palesa a tre livelli: nel suo essere al mondo, nella relazione pratico-etica
con l’altro e nella relazione con se stesso» (18). Nel secondo, La symbolique du mal, il
problema del male in quanto errore e colpa lascia trasparire un’opacità che dissolve i
tentativi di comprenderlo in un rapporto etico con la libertà. Qui ogni riflessione svela la
propria insufficienza e deve perciò trasfigurare se stessa grazie ad un innesto
sull’ermeneutica, col ricorso all’interpretazione di simboli e miti in cui sono custodite
intuizioni essenziali.
L’accoglienza della sfida della psicoanalisi, che irrompe tramite l’opera di Sigmund
Freud, induce Ricoeur ad un’interessante e proficua lettura filosofica di questo grande
momento della storia della cultura, che lo porta alla stesura di due saggi notevoli: De
l’interprétation. Essai sur Freud e Le conflit des interprétations. In antitesi con la
fenomenologia, la psicoanalisi riduce la coscienza a pulsione e nell’indagine si qualifica,
secondo un’espressione sintetica, come «archeologia del soggetto». L’originalità di Ricoeur
consiste in un passaggio che connette «indagine sull’origine» e «sguardo verso il fine». Esso
è presagibile «o in una teleologia dello spirito, polarmente opposta all’archeologia e
detentrice di un significato filosofico ultimo della storia (Hegel), o in una escatologia del
Sacro, che ha fatto sua la critica al simbolo nella misura in cui questo, irrigidendosi nella
sua funzione di appagamento delle istanze psichiche, si trasforma in idolo» (21).
Sotto il magistero di Ferdinand de Saussure un’altra sfida attende Ricoeur, una sfida
che lo condurrà alla svolta linguistica e semiologica. In La métaphore vive è rivendicata
alla metafora una carica euristica ed ontologica, perché nel dire ed immaginare di più ed
altrimenti che la metafora profila viene richiesto per suo tramite di pensare di più ed
altrimenti sul piano concettuale.
Alla domanda fondamentale nella fenomenologia di Edmund Husserl e di Martin
Heidegger su che cosa sia il tempo, Ricoeur cerca di far fronte in un’opera in tre tomi,
Temps et récit, ove si confrontano filosofia, storiografia e poetica (narratologia).
Nell’opera Soi-même comme un autre si effettua un passaggio dall’ermeneutica del sé,
una categoria introdotta per sostituire la più classica categoria del soggetto, all’ontologia,
passando attraverso l’etica.
Nei tre volumi delle Lectures, Ricoeur affronta il problema del rapporto tra filosofia e
politica, sostenendo «l’autonomia della politica come prassi e come teoria dall’economia e
dall’etica» (28). Il terzo volume contiene numerosi articoli riguardanti la filosofia della
religione. Del tutto particolare è il rapporto di Ricoeur filosofo con le Scritture ebraicocristiane, questione che egli ha cercato di chiarire in Penser la Bible.
All’etica e al diritto sono dedicati i due tomi Le Juste, che aprono un capitolo finora
inedito. «La vita etica, ma anche quella politica e culturale, è un’ininterrotta mediazione di
convinzione e argomentazione». L’economia del “Giusto” «andrà compensata dal richiamo
all’eccedente, che si annuncia nel dono e si realizza nell’amore e nel perdono, entrambi
difficili» (29). Appartiene ad un analogo contesto Parcours de la reconnaissance, ultima
pubblicazione che, se chiude un cammino storico di ricerca, in realtà ne mostra ancora
una volta l’apertura. L’impronta etico-politica e giuridica dell’indagine apre infatti a spazi
che oltrepassano quell’impronta e interrogano l’uomo contemporaneo tra dimensione di
finitezza e rapporto con l’alterità.
In La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, in collegamento ideale con le intuizioni esposte in
Histoire et vérité, «Ricoeur approfondisce la struttura epistemologica dell’operazione
storiografica in tutte le sue fasi (dall’archivio alla rappresentazione) e la colloca, con
maestria, tra due “grandezze” antropologiche, la memoria e l’oblio, indagate attraverso i
percorsi della fenomenologia ermeneutica». Uno studio sul «perdono difficile» fa da epilogo
al saggio.
Dopo questa carrellata sulle opere, lo studio di Aime precisa le fasi della ricerca
ricoeuriana (fase di formazione, fenomenologia esistenziale, riflessione ed ermeneutica,
filosofia del linguaggio e fenomenologia ermeneutica, etica ed approdo ontologico), con
l’intento di indicarne, oltre i mille rivoli tematici, l’unità di fondo. Sbocciata come filosofia
della volontà e passata per un’enorme quantità di variazioni, in Ricoeur resta costante il
perseguimento di una filosofia del soggetto.
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♦ Le avventure della riflessione. Che cosa s’intende con l’espressione «filosofia
riflessiva»? Essenzialmente una «filosofia del soggetto» in una prospettiva non univoca e
quindi sempre riformulabile sotto la pressione delle contestazioni.
L’articolazione della fenomenologia sul pensiero riflessivo costituisce un primo
passaggio originale. Al contempo l’impianto fenomenologico si colora di una variante
esistenziale incentrata su tre temi: il corpo proprio, l’altro, la libertà.
Né deve essere dimenticata l’importanza per la fenomenologia della filosofia analitica
(Ludwig Wittgenstein), se non altro per il fatto che «il linguaggio custodisce il campo
dell’esperienza fenomenologica» (c56).
Il lungo percorso dell’ermeneutica si apre come necessità di far fronte alla riflessione
nel momento della sua incapacità a rendere conto del male. Il recupero dei miti e dei
simboli del male, affrontato con audace capacità di interrogare, inaugura un rapporto
straordinario con quelli che si possono definire «segni culturali» (58), mentre la filosofia
ridefinisce il proprio compito e il proprio metodo cominciando da qualcosa che è altro da
sé.
Oltre la storia dell’ermeneutica, i cui contributi imprescindibili rinviano ai nomi di
Friedrich Schleiermacher, Wilhelm Dilthey, Martin Heidegger, Hans Georg Gadamer, e la
critica dell’ermeneutica, basata in particolare sulle contestazioni provenienti dalla
psicoanalisi e dalla linguistica strutturale, ma per recuperarne la forza all’interno
dell’ermeneutica stessa, onde il significato dell’espressione ermeneutica restauratrice o di
ermeneutica creatrice di senso, essa si determina con l’effettuazione di tre passaggi:
l’interpretazione dei simboli e dei miti, l’interpretazione dei testi, l’interpretazione
dell’azione e del sé.
Vengono così a correlarsi riflessione, fenomenologia ed ermeneutica. Detto in formula
sintetica: «una filosofia riflessiva in stile fenomenologico ed ermeneutico» (69). Ma mentre
la fenomenologia predilige distinguere profilandosi come arte del saper differenziare,
l’ermeneutica indugia e rinvia escludendo la conclusività. Fuori dalle estremizzazioni,
«colui che interroga e la cosa interrogata, prima di assumere lo statuto di soggetto e di
oggetto polarmente correlati, si coappartengono in una relazione di inclusione. Espressa
in modo negativo questa condizione ontologica può essere indicata come finitezza, che
costringe il soggetto a rinunciare alla pretesa di erigersi a fondamento ultimo» (73).
Altro fattore che rende intercomunicanti fenomenologia ed ermeneutica è la scelta per
il senso, con un appello all’intenzionalità del primo Husserl.
Nel portare avanti un’impresa così complessa non si deve infine prescindere
dall’imprimerle una movenza dialettica, in accoglienza di un’ispirazione ed istruzione
hegeliana che non comporta un riflusso del suo sistema. Il terreno d’applicazione resta
soprattutto quello dell’esperienza storica e della prassi.
♦ Che cos’è la filosofia? Immediatamente viene posto il problema del rapporto tra
filosofia e non filosofia. Forma specifica ed autonoma di sapere, grazie a cui riceve
un’identità propria e inconfondibile, alla filosofia compete un compito di «controllo critico
riflessivo e speculativo», che include un’azione di arginatura di qualsivoglia pretesa
totalizzante. Interessante diventa la questione delle sue fonti. «Dove comincia la filosofia?
Dall’universo di senso che la precede e l’avvolge. Dove finisce? Non c’è un termine, perché
il lavoro di riflessione, descrizione e interpretazione non è mai concluso. Per la filosofia ci
sono radici, ma non limitazione di indagine» (84). L’originalità della questione sulle fonti
emerge però dal riconoscimento che la filosofia, che riflette su varie forme di esperienza
(scientifica, etica, estetica, religiosa), le trova soltanto fuori di sé, in ciò che propriamente
filosofia non è. Dunque le riceve per il fatto stesso di andare in cerca del suo punto di
partenza. E il legame della filosofia con la non-filosofia resta un fatto vitale, salvaguardia
di una differenza.
Delicata è la questione del rapporto tra filosofia e scienza. Il concetto di episteme
caratterizza il divenire del pensiero occidentale fin dai suoi primordi. Ma il pensiero
moderno è spesso rimasto all’insegna del puro conflitto tra filosofia e scienza. Alla filosofia
si richiede di non rompere il dialogo con le scienze, siano esse le scienze della natura o le
34
scienze dello spirito. La loro continuità risiede nell’omogeneità delle procedure esplicative,
mentre la comprensione ne fa spiccare la differenza in quanto costituisce lo specifico delle
scienze umane. La scienza, che l’idealismo svaluta e il positivismo enfatizza, costituisce
comunque e sempre un vigoroso preambolo per una conseguente retta comprensione.
Infine, per la sua duplice appartenenza al campo teorico e pratico, la scienza ha a che fare
con idee regolatrici aventi una funzione meta-, che nel caso in questione sono date da
verità e giustizia. Se in relazione alla verità si può far echeggiare l’antica definizione
adaequatio rei et intellectus, «la scienza come impresa e istituzione, paragonabile alla
politica e alla tecnica, esige il raccordo con la giustizia» (93), richiesta nel passaggio che va
da un progetto scientifico alla sua realizzazione entro una comunità di ricerca tesa tra
conflitti e consensi.
Una domanda inevitabile riguarda la relazione che intercorre tra storia della filosofia e
filosofia.
Verso il passato della filosofia, in un cammino di anamnesi, ci si dirige sul binario di
debito e possibilità. Il primo è riconoscimento di momenti vitali e inestinguibili della storia
dello spirito. La seconda è invece evocazione di dimensioni inesplorate o rimosse, quindi
ancora futuribili. Il passato consegnato come storia della filosofia non è solo eredità di
conoscenza, ma luogo ancora predisposto allo sbocciare di interpretazioni e sollecitazioni,
un’«opera aperta» (95) da cui sospingere verso l’attualità una serie imprevedibile di
«potenzialità sopite» (96).
La differenza tra riflessione e speculazione viene invece esposta a partire dalla
presentazione di un quadro di Rembrandt la cui lettura ricoeuriana mette in gioco poesia
e politica. Si tratta del quadro che ha per oggetto Aristotele che contempla un busto di
Omero (1653). Scrive Ricoeur in L’unique et le singulier: «Per me è il simbolo dell’impresa
filosofica, quale io la concepisco. Aristotele è il filosofo, così veniva detto nel medioevo. Ma
il filosofo non comincia da niente. E, ugualmente, non comincia a partire dalla filosofia,
inizia a partire dalla poesia. È, d’altra parte, evidente che la poesia è rappresentata dal
poeta, come la filosofia dal filosofo, ma è il poeta ad essere immortalato nel marmo,
mentre il filosofo è vivo, cioè continua sempre a interpretare. […] Contrariamente al titolo,
Aristotele non guarda il busto di Omero; lo tocca. Significa che viene a contatto con la
poesia. La prosa concettuale del filosofo va a contatto con il linguaggio ritmato della
poesia. Aristotele guarda altro. Che cosa? Non lo sappiamo. Ma guarda altro dalla
filosofia. Tocca la poesia, ma per rivolgere lo sguardo verso altro: verso l’essere? La verità?
Qualsiasi cosa che uno voglia immaginare» (c96-97).
Dal petto del filosofo, precettore di Alessandro il Grande, pende una medaglia che
raffigura il celebre conquistatore. Continua Ricoeur, fissando quel dettaglio: «Ma il suo
rapporto con il politico non è solo una relazione da educatore, è anche di chi ha pensato il
politico, al punto di fare dell’etica la prefazione della politica. […] La medaglia sta a
ricordarci che la filosofia non può continuare la propria opera di riflessione su una parola
che non è la sua, la parola poetica, se non continuando ad intrattenere un rapporto
antico con la politica. Oserei dire: il personaggio del quadro ha in carico questa medaglia»
(c97).
Aime rileva che se il commento ricoeuriano al dipinto di Rembrandt si mostrasse
infondato, quell’interpretazione svelerebbe comunque l’autoritratto filosofico di chi la
compie. È nel linguaggio e nelle opere del linguaggio, di cui la «poesia» intesa in senso lato
è fonte, che si stratifica l’orizzonte di «senso» da cui intraprendere a guardare altrove, fino
ad assumere nella responsabilità il politico.
Ora però si pone la questione del nesso tra versante riflessivo e versante speculativo.
Il Sé della riflessione, con fondamento nel Cogito cartesiano, è ad un contempo «la
posizione di un essere e quella di un atto, la posizione di un’esistenza e di un’operazione
di pensiero: io sono, io penso». Ma «il soggetto concreto è raggiungibile solo per la via
mediata dei suoi segni e delle sue opere; in particolare, la riflessione si deve convertire in
riappropriazione del desiderio e dello sforzo di esistere», recuperando del Cogito la qualità
ontologica di atto, perché «la posizione non è un dato, ma un compito, non è gegeben, ma
aufgegeben» (c99).
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In una prospettiva riflessiva, il rapporto tra soggetto ed oggetto viene caratterizzato
come un evento di reciproca appartenenza e di reciproca determinazione, fuori da ogni
circolo vizioso e da una precomprensione spregiativamente qualificata nella forma del
pregiudizio. Si dà invece un circolo ermeneutico in cui, come giustamente intuisce
l’ontologia fondamentale heideggeriana, il presunto pregiudizio si risolve nella struttura
anticipativa del comprendere (Vorverständnis). Anche Ricoeur sostiene che decisivo non
sia «l’uscire dal cerchio, ma il penetrarvi correttamente» (c100).
Che cosa intenda Ricoeur per speculazione è questione da vedere entro confini fluidi.
In linea generale indica il carattere teoretico della filosofia, che se da un lato, per via di
una molteplicità di limiti, non si identifica col sapere assoluto, dall’altro si oppone alle
filosofie che contestano quel carattere (esistenzialismo, neopositivismo, filosofia analitica e
decostruzionismo).
Nonostante il livello speculativo cui la filosofia si erge, essa non deve perdere di vista il
campo pratico, oltre ogni sistema. È in questa direzione che l’ultimo Ricoeur rafforza il
ruolo dell’azione, del sentimento e addirittura dell’immaginazione, entro un dialogo tra
orizzonti che sa circostanziare la tendenza egemonica del concetto ed ogni sorta di
violenza interpretativa.
2.
Fenomenologia ermeneutica e ontologia (parte seconda)
♦ Con l’espressione poetica Le parole come il cielo, desunta da un verso di Yves
Bonnefoy, si apre un capitolo dedicato alla lingua e al linguaggio, quindi alla filosofia del
linguaggio e alla teoria generale dell’interpretazione. Il valore antropologico della parola si
estende ben oltre il campo filosofico, perché è l’uomo stesso ad essere parola, «una parola
plurima, nella varietà delle sue esecuzioni e delle lingue» (110). E non si può dimenticare
che il panorama filosofico novecentesco si caratterizza per quella che solitamente viene
denominata svolta linguistica.
L’incarico della filosofia verso il linguaggio si muove in tre direzioni, secondo un piano
programmatico ben preciso esplicitato da Ricoeur stesso (Filosofia e linguaggio), che sono:
1) La prospettiva ontologica di referenza al mondo: «riaprire il cammino del linguaggio
verso la realtà, nella misura in cui le scienze del linguaggio tendono ad allentare, se non
addirittura ad abolire, il legame fra il segno e la cosa». 2) La prospettiva psicologica di
rapporto col sé: «riaprire il cammino del linguaggio verso il soggetto vivente, verso la
persona concreta, nella misura in cui le scienze del linguaggio privilegiano, a spese della
parola viva, i sistemi, i codici indipendenti da ogni soggetto parlante». 3) La prospettiva
etica di relazione con l’altro: «riaprire, infine, il cammino del linguaggio verso la comunità
umana, nella misura in cui la perdita del soggetto parlante è accompagnata dalla perdita
della dimensione intersoggettiva del linguaggio» (c115; cf. anche c148).
Nella varietà di approcci, discipline e campi, Ricoeur cerca nella loro frammentarietà
una «concertazione sinfonica» (121), pur nella consapevolezza di starne solo in prossimità
a motivo di una precedenza e di un’eccedenza del linguaggio su qualunque teoria venga
formulata al suo riguardo.
Nella teoria generale dell’interpretazione, a fungere da apertura è il tema del simbolo,
visto in un’estensione tra la sfera vitale e la sfera razionale. Nell’orizzonte del simbolo
avviene il passaggio dalla filosofia riflessiva all’ermeneutica, e precisamente attraverso la
simbolica del male.
«Le symbole donne à penser»: l’espressione indica da un lato la ricchezza del senso
quale «donazione» che risiede nel simbolo, dall’altro la provocazione da parte dello stesso
alla comprensione quale «posizione» dell’atto del pensiero. Da un lato l’immediatezza,
dall’altro la mediazione. A differenza della metafora, che si proietta dal terreno del logos, il
simbolo esita fra bios e logos, «nasce nel punto in cui Forza e Forma coincidono» (c132).
Ma nello stesso tempo la sua «eccedenza semantica» (133) affiora solo grazie al ricorso al
concetto, che non abbassa la filosofia al pensiero simbolico, ma innalza quest’ultimo alla
sua autentica dignità.
36
Oltre il simbolo, la teoria dell’interpretazione guarda al farsi evento e significato della
parola in quello scaturire di momenti interconnessi che sono il discorso, il testo e l’opera.
Il discorso suppone un «chi» come soggetto parlante, un «a chi» come destinatario che
ascolta e un «ciò di cui» come contenuto riferito. Il discorso può farsi testo e il suo
significato cessa di coincidere con l’intenzione dell’autore. «L’autonomia del significato del
testo e la conseguente universalizzazione del destinatario sono il luogo di insorgenza del
conflitto delle interpretazioni. “L’ermeneutica incomincia dove il dialogo finisce”» (138). Il
lessico della referenzialità cede qui il posto al lessico della configurazione, la quale si
trasforma in rifigurazione nel farsi opera del discorso, ovvero mediante la lettura. Come
uno spartito musicale o teatrale diventano opera soltanto nel momento dell’esecuzione,
così è di un testo nel farsi lettura. Mondo del lettore e mondo del testo realizzano una
«fusione di orizzonti», per ricorrere ad un’espressione di Gadamer, in cui si attua una
nuova «produzione di senso», ma senza che il lettore rinunci al «delicato e grave compito di
interpretare in verità e responsabilità quel mondo che il testo gli addita e gli affida» (142).
Se si getta uno sguardo complessivo al fluire del discorso verso il testo e del testo
verso l’opera si possono constatare permanenze, mutazioni ed aggiunte. Tra analisi mai
del tutto esaurite e sintesi provvisorie il testo resta opera aperta. All’ermeneutica spetta il
compito di «ricostruire l’insieme delle operazioni grazie alle quali un’opera si eleva sul
fondo opaco del vivere, dell’agire e del soffrire per essere data dall’autore a un lettore che
la riceve e in tal modo muta il suo agire» (c143).
Proseguendo lo sviluppo tematico dell’interpretazione s’incontra la questione della
traduzione, descritta come «sfida dell’alterità» (143). Innanzitutto essa rimanda ai rapporti
tra le varie lingue col problema del trasferimento di un messaggio da una lingua ad
un’altra. Varie scuole si contendono la discussione nell’alternativa fra traducibilità e
intraducibilità, cui Ricoeur sostituisce l’alternativa tra fedeltà e tradimento. Pur nella
consapevolezza della differenza tra il proprio e l’estraneo, egli si richiama ad indirizzi di
pensiero, per esempio quello di Noam Chomsky, secondo cui le lingue suppongono
strutture sotterranee universali che rendono possibile la traduzione. Nell’atto di sfida
verso ciò che è altro, in spirito di «fraternità universale», si realizza ciò che Ricoeur chiama
«ospitalità linguistica» (c146). In secondo luogo può essere detta traduzione la stessa
recezione di un messaggio da interpretare all’interno di una medesima comunità
linguistica. Tra due interlocutori, infatti, l’altro è in un certo senso lo straniero cui occorre
non di rado ridefinire, riformulare, rispiegare un dato messaggio per poterlo davvero
veicolare.
Della funzione di mediazione del linguaggio si può in sintesi sottolineare il suo triplice
risvolto: «mediazione tra l’uomo e il mondo, mediazione tra uomo e uomo, mediazione tra
l’uomo e se stesso. Si può chiamare referenza la prima mediazione, dialogo la seconda,
riflessione la terza. […] Ciò che il linguaggio muta è simultaneamente la nostra visione del
mondo, la nostra capacità di comunicare e la comprensione che abbiamo di noi stessi»
(c148).
♦ Nel capitolo L’iniziativa, azione sensata e potenza d’agire predomina il tema
della filosofia dell’azione.
Alla base di una fenomenologia dell’azione sta un’esposizione descrittiva e diagnostica
della volontà. Nell’azione il volontario interseca l’involontario e la libertà si confronta con
la necessità.
Tre verbi riassumono i livelli dell’azione e della volontà: decido, muovo, consento.
Decidere significa progettare responsabilmente motivando. Muovere è spingersi dal
progettare al fare. Consentire «è convertire in sé l’ostilità della natura, la necessità in
libertà. Il consenso è la marcia asintotica della libertà verso la necessità» (c167).
Rifiuto e consenso restano possibilità aperte dinanzi ad esperienze limite. Diverse
sono le forme di consenso, da quello stoico ed ancora imperfetto che promuove il distacco
invece della conciliazione, a quello orfico di segno iperbolico che spinge verso un sì poetico
ed estatico (Goethe, Rilke, Nietzsche), a quello escatologico che guarda alla sofferenza e al
37
male, ma contemporaneamente sa guardare oltre la sofferenza e il male, facendosi
speranza in attesa di liberazione.
Dall’insieme emerge un quadro in cui la libertà umana non è assoluta, non è atto
puro, ma un intreccio di attività e passività, un annodarsi di iniziativa e recettività.
♦ Nel capitolo Mondi possibili si delinea in primo luogo la pluralità dei discorsi e
l’intertestualità, dalla polisemia del linguaggio ordinario che condensa la ricchezza
dell’esperienza umana custodita nella parola all’univocità del discorso scientifico, dal
discorso poetico al discorso religioso, dal discorso politico a quello filosofico. Ma la
pluralità dei discorsi va eticamente difesa.
Poetica del testo ed estetica della recezione rappresentano i movimenti in cui si
chiarifica il passaggio dal mondo della vita (Lebenswelt) al mondo del testo e il rapporto
tra mondo del testo e mondo del lettore, entro quella che infine diventa una «dilatazione
del nostro orizzonte di esistenza» (c222).
Metafora e racconto «si pongono al punto di incontro di poetica, ermeneutica ed
estetica, con singolari valenze ontologiche ed etiche per i loro intrinseci rapporti con
l’azione, il tempo e il mondo» (222).
L’intero complesso del sapere è investito dal linguaggio della metafora. Nella metafora,
«la sospensione della referenza reale rende possibile un’altra referenza, virtuale e l’appello
al mood [stato d’animo] non designa una mera reazione psicologica ma un modo d’essere»
(226). Altra questione è la verità metaforica e la sua conseguente valenza ontologica. «Non
si può dire il mondo che per metafora; alla riflessione filosofica spetta riconoscere la via
alla realtà che la metafora traccia e lasciarsene istruire nel momento in cui tenta di dire,
per via concettuale, l’essere» (229).
Il tema del racconto viene esplicitato come risignificazione del mondo nella sua
dimensione di temporalità e come teatro dell’azione umana. In gioco è il soggetto che abita
il mondo. L’identità narrativa del soggetto «si rivela solo nella dialettica tra medesimezza
(identità senza mutamento) e ipseità (identità con mutamento) e questo è il contributo
della teoria narrativa alla costituzione del sé» (232).
♦ In Desiderio d’essere e vita buona l’orizzonte riguarda la collocazione dell’etica e il
suo sopraggiungere tardivo nella riflessione di Ricoeur, che in analogia con
l’atteggiamento tenuto in altri campi si mantiene nel solco della tradizione filosofica e in
dialogo con i grandi maestri. Il contesto fenomenologico dell’etica è quello pratico e storico
in cui s’inscrive l’azione, donde la fragilità dell’etica stessa. Considerazioni più specifiche
riguardano motivi, valori e progetto.
Se si cerca di andare oltre la visione etica e si spezza il legame tra colpevolezza e
finitezza, «l’uomo si mostra soltanto fallibile, teso nella costitutiva sproporzione tra finito e
infinito» (249-250). Ma proprio attraverso la colpa e le passioni ci si può interrogare
sull’innocenza primordiale, su «ciò che l’uomo è prima di essere sfigurato», perché «la
presenza massiccia del male non cancella del tutto la traccia dell’innocenza» (249), ovvero,
secondo l’asserto derivato da Kant che Ricoeur riprende in Finitude et culpabilité, «per
quanto originaria sia la malvagità, la bontà è ancora più originaria» (c250). La
predisposizione dell’uomo alla fallibilità non lo necessita alla colpa. Esorbitando da quella
visione etica che tende a spiegare il male con la libertà, l’etica presuppone un uomo già
smarrito, dimentico della sua origine, perciò si propone quale «necessario rimedio alla
situazione di caduta» (251).
Simboli e miti hanno per tema il male in quell’ampia connotazione che la filosofia
designa con gli attributi di metafisico, morale e fisico. Anche il mito antropologico biblico,
certamente il più vicino alla visione etica incentrata sulla libertà, lascia trasparire una
potenza che rende l’uomo vittima e fa del mistero del male un mistero che la risposta etica
non esaurisce. Significativo è il fatto che «la concettualizzazione in termini di servo arbitrio
lascia all’ossimoro la funzione di fissare nella parola l’ambivalente condizione umana:
libertà di agire ma anche servitù inspiegabile, che per ciò stesso invoca liberazione» (254).
38
L’etica coinvolge l’esercizio del sospetto, in fondo un’autentica arte. L’attenzione va in
primo luogo alla psicoanalisi. Il suo valore risiede nel porsi quale «tecnica della sincerità»
(257) in un percorso che muove dal misconoscimento di sé per portare invece ad un
riconoscimento di sé. Per la triplice valenza di metodo di indagine, pratica terapeutica e
teoria fondamentale, la psicoanalisi assume una funzione etica che interroga l’etica
stessa, costringendola a scendere dalla sua assolutezza e a passare da giudicante a
giudicata.
«Il solo modo di pensare eticamente consiste innanzitutto nel pensare non eticamente»
(c260), scrive Ricoeur in Le conflit des interprétations, affermazione con la quale egli «ha in
mente due prospettive da cui vuole prendere le distanze, l’accusa e la consolazione,
istanze proprie alla morale e alla religione. […] Uscire dal regime dell’accusa significa
risalire dalla morale della obbligazione ad un’etica del desiderio di essere o dello sforzo di
esistere. D’altro lato, lasciarsi alle spalle la consolazione significa imparare a reggere la
necessità, senza ricorrere a facili e infantili protezioni» (260). E il desiderio di essere si
apre sugli orizzonti della libertà e della speranza.
La riflessione sul rapporto tra etica e linguaggio fa avanzare la questione del
linguaggio etico. «Il linguaggio è innocente ma la violenza parla, e la parola umana diventa
il misto del discorso e della violenza, come esemplificano la politica, la poesia e la
filosofia». Riconoscere i luoghi della violenza in un discorso è già mettersi sulla via del suo
superamento, ma la «pratica non violenta del discorso consiste nel riconoscimento della
sua esistenza al plurale» (261).
Il fenomeno della promessa, «intesa come mantenimento del sé nel variare del tempo
degli eventi», s’inserisce nella serie degli atti linguistici di particolare rilievo e costituisce
«una condizione di possibilità trascendentale del linguaggio stesso e insieme una
garanzia» (263). Ma implicazioni etiche si riscontrano anche nella narrazione e nella
narratività, fino alla «problematizzazione dell’identità narrativa» che corre sul filo della
domanda: «Come mantenere sul piano etico un sé che, sul piano narrativo, sembra
eclissarsi?» (266).
♦ Al termine della seconda sezione del libro in questione, il capitolo Il sé e l’essere
ne sintetizza e sviluppa ulteriormente i capisaldi. Ricoeur prende le distanze da quel
percorso classico della filosofia intesa come domanda sull’essere che a sua volta identifica
l’essere nella sostanza e affida alla filosofia un ruolo di theoria. Distinguendo ontologia e
metafisica e abbandonando quest’ultima in favore della prima, per lui l’ontologia «si
sviluppa a partire dall’azione e dal linguaggio che confluiscono nell’ermeneutica del
soggetto, inteso come sé e definito dalle nozioni di volontà e potere, posizione e consenso,
sforzo e desiderio, attestazione e capacità, medesimezza, ipseità e alterità». D’altro canto,
«l’impossibilità della metafisica non cancella l’esigenza speculativa da cui nasce, articolata
nella funzione meta-, rispetto alla quale tutte le filosofie, ontologia compresa, sono
seconde» (286) e la cui individuazione è ambito di pertinenza di quel che egli chiama
filosofia prima.
Stretto è il nesso tra filosofia della volontà e ontologia. Dove l’io è inteso come volere e
il mondo come il suo campo d’azione, afferma Ricoeur in Le volontaire et l’involontaire, il
mondo «non è soltanto spettacolo, ma problema e compito, materia da lavorare; è il
mondo per il progetto e l’azione» (c288). L’io vive nel mondo in costante tensione tra
affermazione, negazione e alterità. Più che l’opposizione sartriana tra l’essere e il nulla,
vale l’indicazione platonica della riconduzione del non-essere all’altro, dunque
l’opposizione tra l’essere e l’altro. Inoltre, «sotto la pressione del negativo, delle esperienze
in negativo, dobbiamo riconquistare una nozione dell’essere che sia atto piuttosto che
forma, affermazione vivente, potenza di esistere e di fare esistere» (c293).
Nel passaggio dal linguaggio all’essere resta imprescindibile il ruolo del simbolo. A sua
volta la veemenza ontologica della metafora irrompe al di là del simbolo, nella catarsi del
logos rispetto al semplice bios, mentre la via estetica all’ontologia si schiude attraverso
l’opera d’arte in senso ampio, dove un che della singolarità trapassa in universalità. Il
ricorso al concetto di mímesis viene effettuato non per indicare una copia, una funzione
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speculare o imitativa, quanto un «dinamismo dell’esperienza» (305) rivolto a un «sovrappiù
rispetto a qualsiasi rappresentazione e a qualsiasi regola» (c305), fino a rimettere in
discussione la concezione filosofica classica della verità come adeguazione tra intelletto e
realtà. «L’arte è opera di emozione, mood, da intendersi non come qualcosa di meramente
soggettivo, ma in termini di intenzionalità. L’emozione spalanca un mondo, il mondo, nel
modo patico, diverso da quello teoretico o pratico. Il mood, che è insieme affezione e
intenzione, ci apre una regione, spesso sconosciuta, dell’anima e un aspetto
dell’abitabilità del mondo. La singolarità dell’opera d’arte, nella creazione e nella ricezione,
si raddoppia come via all’essere, percepito in una pertinenza inedita di senso: per dire
l’essere le vie del senso e della creatività sono indispensabili, singolari e innumerevoli»
(305-306).
Nel quadro di un rapporto tra fenomenologia ermeneutica del sé e ontologia
l’orientamento va al «Cogito mediato da tutto l’universo dei segni» (c306). Però «l’ingresso
nella terra promessa dell’ontologia avviene attraverso la fenomenologia del sé in tutta la
sua ampiezza» (307), tra attestazione dell’identità e rapporto con l’alterità. La nozione della
prima si sdoppia in medesimezza, «l’identità immutabile», e in ipseità, «l’identità in grado
di includere il cambiamento senza smentirsi» (308).
L’impegno ontologico, ossia l’esplorazione che va dal sé all’essere, s’incentra sulla
nozione chiave di attestazione. L’opposizione cartesiana tra dubbio e certezza si trasforma
qui in sospetto ed attestazione. L’obiettivo di quest’ultima sta nell’aprire lo spazio
dell’ipseità, «ad un tempo nella sua differenza con la medesimezza e nel suo rapporto
dialettico con l’alterità» (311). Questa ontologia dell’ipseità si qualifica a sua volta non
come «un’ontologia dell’atto soltanto, bensì dell’atto e della potenza» (313), con richiami al
conatus di Spinoza e all’appetitus di Leibniz. Nella filosofia di Ricoeur «spicca la centralità
dell’idea di vita, cioè la potenza come produttività, non opponibile all’atto nel senso di
effettività o compimento» (314).
Al «contenuto di senso» dell’ipseità e alla sua «costituzione ontologica» appartiene
anche l’alterità. «Mentre l’agire fa da attestazione all’ipseità, la passività evoca l’alterità»
(315). Al riguardo l’ipotesi di lavoro attraversa una scansione triplice: la carne, l’altro, la
coscienza. Nel rapporto tra la carne e il corpo appare l’alterità del sé. L’io può percepirsi
come «un altro fra tanti altri» (c317). L’alterità dell’altro appare dai modi molteplici
attraverso cui l’altro tocca o ferisce il sé. Infine, «anche la coscienza è alterità, anzi luogo
di dialettica tra ipseità e alterità» (320). In tutti e tre i casi può avvenire uno
sconfinamento dell’alterità in estraneità.
A coronamento del capitolo sul sé e l’essere sta un lapidario ed incisivo passo di
Ricoeur che riassume al meglio lo spirito dell’intera trattazione e lancia una singolare
provocazione: «Dell’intima certezza di esistere sul modo del sé, l’essere umano non ha
dominio; essa gli viene, gli accade sul modo di un dono, di una grazia, di cui il sé non
dispone» (329).
3.
Uomini nel tempo (parte terza)
♦ Il capitolo su La storia prende il via dalle questioni che concernono l’operazione
storiografica. «Il primo sondaggio si avvolge nella polarità tra la filosofia della storia […] e
la storia degli storici» (334). «Il secondo scandaglio avviene nello spazio concettuale che si
apre tra tempo e racconto». «Nel terzo momento la storia, ancor più al centro dell’indagine,
è stretta e allarmata da due grandezze con cui deve costantemente lottare, la memoria e
l’oblio» (335).
Nelle due opere Temps et récit e La Mémoire, l’Histoire, L’Oubli Ricoeur si occupa da
filosofo del compito specifico dello storico. Nella seconda sono indicate chiaramente le tre
fasi dell’operazione storiografica quale mestiere dello storico, dove per fasi non
s’intendono «stadi cronologicamente distinti», ma «momenti metodologicamente connessi»
dell’operazione storica che ricostruisce il passato. L’individuazione delle tre fasi è la
seguente: «la fase documentaria (la dichiarazione dei testimoni oculari, la costituzione
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degli archivi, il programma scientifico della prova documentaria); la fase
esplicativa/comprensiva (esame degli usi multipli del perché) e la fase rappresentativa
(trasposizione in forma scritturale o letteraria offerta al lettore)» (341).
Filosofia e storia s’intrecciano a più livelli. Se la filosofia della storia è un punto di
partenza irrinunciabile, non si fa filosofia senza riferimenti alla storia della filosofia. Nelle
pagine finali di Temps et récit 3, Ricoeur evoca a sorpresa la Seconda Inattuale di
Nietzsche. Contro lo storicismo del tempo, la critica nietzscheana pone l’accento sulla
forza del presente e sull’iniziativa. In quanto «lezione sul presente», le considerazioni di
Nietzsche spingono Ricoeur a pensare il presente come «storia compiuta» e «fine della
storia», ma anche in qualità di «forza che inaugura una storia da fare» (371). E in
proposito scrive: «Il presente, nel primo senso, dice l’invecchiamento della storia e fa di
noi gente venuta tardi; nel secondo senso, ci qualifica come primi venuti» (c371). Una
«posizione vitalistica» che fa sorgere interrogativi, ma contemporaneamente capace di
fondare «un presente che sia garanzia di hoffendes Streben, di uno slancio della speranza»
(372).
Ai fini di una filosofia critica della storia s’instaura una dialettica tra verità e
interpretazione, all’interno della «tensione tra un’oggettività che non può mai essere piena
e una soggettività che deve costantemente correggersi ed esige, come in altri ambiti
scientifici, una continua rettifica su entrambi i fronti, in particolare ricorrendo al controllo
intersoggettivo» (372). L’operazione della conoscenza storica si configura così come un
complesso di atti linguistici dominato da numerose componenti, ciascuna delle quali
merita il dovuto riconoscimento nel quadro globale.
♦ Il tempo è il tema che segue al capitolo sulla storia, un tema già sviluppato dalla
sapienza antica, benché la riflessione moderna si sia maggiormente impostata sulla sua
variante come storia. L’indagine ricoeuriana portata avanti nelle due opere già citate a
proposito della storia prende le mosse dall’aporetica del tempo, fino ad immergersi nei
suoi labirinti, dove il concetto di tempo avanza «dilaniato dal conflitto speculativo
antinomico e irrisolvibile delle filosofie che se ne sono occupate. Il confronto si dispone in
forma antitetica: tempo dell’anima (Agostino) e tempo cosmico (Aristotele), tempo
fenomenologico (Husserl) e tempo inscrutabile (Kant)», senza scordare le questioni sospese
nel pensiero di Heidegger e il confronto con la tesi hegeliana. L’intento è «l’elaborazione di
una poetica del tempo, sulla base del contributo della storia e della storiografia, del
racconto e della narratologia» (386), benché anche la risposta poetica si limiti ad
illuminare la questione del tempo senza risolverla, ed anzi, per certi versi rafforzi l’aporia
speculativa.
«Solo passando attraverso il racconto possiamo cogliere la densità dell’azione e del
tempo. Il tempo della storiografia e del racconto di finzione risultano alla fine fortemente
delimitati dall’attività mimetica, ma restano una riserva di senso fondamentale per ogni
indagine. La pretesa verità del passato cui mira la storiografia e le tante variazioni sul
tempo suggerite da ogni forma di racconto, in particolare dal romanzo, consentono di
tesaurizzare un tempo diverso rispetto a quello che la filosofia pensa di poter descrivere e
legittimare» (412). Alla poetica sono affidate nuove funzioni, grazie a cui si raccolgono
«l’elaborazione del tempo storico proprio della storiografia e del tempo narrativo della
finzione, con i loro reciproci sconfinamenti in un tempo umano» (413).
Per quanto riguarda il passato, si rileva che esso si mostra infine come un enigma, e
più ancora come una serie di enigmi, primo fra i quali l’identità in negativo e in positivo di
«ciò che non è più» e di «essente stato» (421). «L’altro enigma avanza con la questione
dell’immagine (eikón), con il duplice significato di assente come irreale e di anteriore come
passato» (422). Tutta questa complessa problematica rinvia la verità storica a rimanere scrive Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato - «in sospeso,
plausibile, probabile, contestabile, insomma, in continua ri-scrittura» (c423).
Nel labirinto del tempo le distinzioni effettuate dalla riflessione e dalla speculazione
sembrano minacciarne «l’intuitiva esperienza unitaria» (427). Ai confini tra antropologia ed
ermeneutica, con la testimonianza, l’iniziativa e la promessa da un lato, la coscienza
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storica e la condizione storica dall’altro, una risposta appartiene al versante pratico, unica
possibilità di ritrovare il filo di Arianna. «Il passato pur concluso non è esaurito nel suo
significato; il futuro, non predeterminabile, non conosce discontinuità sul piano della
responsabilità; il presente non è l’eterno presente hegeliano e neppure l’eterno ritorno
nietzcheano, ma il tempo dell’azione e della parola responsabili, il tempo della confluenza
della memoria e della traccia, del desiderio che si fa relazione e della capacità che si prova
nella realizzazione. Su tutto poi si depone la parola poetica - dal mito al romanzo e alla
poesia lirica - che allude all’origine di cui l’uomo non dispone ma senza la quale non è»
(428).
♦ Dopo le tortuose vicende d’indagine sulla storia e sul tempo, si può affrontare con
maggior ricchezza di elementi l’Ermeneutica della condizione storica, nella
consapevolezza dell’inscrutabilità del tempo. «L’aporia attraversa la condizione temporale
storica dell’uomo e degli uomini, il tempo trascolora nel mistero e l’abitazione nella storia
in estraneità» (429). Ma le aporie possono essere rese produttive. Può la narratività
replicare adeguatamente allo scacco speculativo che conclude con l’aporia della non
rappresentabilità del tempo? Scrive Ricoeur in Temps et récit 3: «Il tempo raccontato è
come un ponte gettato sulla voragine che la speculazione continua a scavare tra il tempo
fenomenologico e il tempo cosmologico» (c431). Ed ancora: «Il germoglio fragile nato
dall’unione della storia e della finzione, è l’assegnazione ad un individuo o ad una
comunità di una identità specifica che possiamo chiamare la loro identità narrativa»
(c431-432), con la quale si dice il sé di «una vita purificata, chiarificata grazie agli effetti
catartici del racconto sia storico che di finzione portati dalla nostra cultura. L’ipseità è
così quella di un sé istruito dalle opere della cultura che si è applicato a se stesso» (c432).
Pur nella «mediazione imperfetta di orizzonte d’attesa, ripresa di eredità passate e
incidenza del presente» (433), «è nel modo in cui la narratività è portata verso i suoi limiti
che risiede il segreto della sua replica all’inscrutabilità del tempo» (434).
Un approccio semantico-cognitivo «specifica la memoria come grandezza cognitiva. Più
precisamente, la richiesta di verità dichiara se stessa nel momento del riconoscimento,
sul quale si compie lo sforzo del richiamo. Noi sentiamo e sappiamo allora che qualcosa è
accaduto, che qualcosa ha avuto luogo, che ci ha implicati come agenti, come pazienti,
come testimoni. Chiamiamo fedeltà questa domanda di verità» (c439).
All’approccio semantico-cognitivo si sovrappone l’approccio pragmatico. «La posta in
gioco è la fedeltà come guardiana della profondità del tempo e della distanza temporale»
(440). E se sul piano cognitivo è doveroso discernere tra memoria e immaginazione, sul
piano pragmatico un analogo discernimento va mantenuto tra l’uso della memoria e il suo
abuso.
La fase attributiva è la fase in cui si cerca di stabilire chi sia il soggetto della memoria,
nell’alternativa tra i titoli di «personale» o «collettiva».
Il discorso sulla memoria non può prescindere dal discorso riguardante l’oblio, che
«resta l’inquietante minaccia che si profila sullo sfondo della fenomenologia della memoria
e dell’epistemologia della storia» (c442). Pur avendo il compito di lottare contro l’oblio, una
memoria che non dimenticasse nulla si rivelerebbe mostruosa. Ma l’oblio può farsi
strumento di manipolazione del racconto e della storia.
In sintesi, l’intensificarsi aporetico della riflessione sul tempo «accompagna il
passaggio dal problema al mistero» (448), ma «la lunga odissea speculativa e poetica di
Tempo e racconto si conclude all’Itaca della saggezza pratica. L’aporia è abitabile, perché
connaturale al tempo stesso. La condizione umana vi si esprime al livello più specifico:
abitare il tempo vuol dire definire la propria identità nel rischio etico, assumere le
responsabilità che la storia e l’immaginazione del possibile impongono, riconoscere il
senso senza dominarlo, sperimentare e dire il limite del proprio pensiero» (449).
Dall’ermeneutica della condizione storica si passa all’ontologia della condizione
storica. Se la coscienza storica «articola in termini pratici le estasi temporali attorno allo
spazio di esperienza, all’orizzonte di attesa e al loro intrecciarsi nell’iniziativa», la
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condizione storica «assume una valenza ontologica che si precisa in termini di debito,
promessa e testimonianza» (453).
Contro la prospettiva storiografica che risolve il passato nel passato disconoscendo il
suo legame col presente e il futuro, la coscienza storica può farsi memoria futuri.
Nel segno del passato la storia che viene subita offre anche la possibilità di agire. «Nel
passato si possono rintracciare possibilità dimenticate, potenzialità abortite, tentativi
repressi, che sono carne e sangue delle nostre attese. Attesa e memoria favoriscono
insieme l’utopia di una umanità riconciliata» (457-458).
Nel presente storico s’addensano invece l’iniziativa e la passività. La prima «scioglie in
modo pratico l’aporia speculativa. La posta in gioco è la creatività, cioè la poeticità nella
parola e nell’azione, nel tempo, nella storia, sul piano individuale e intersoggettivo» (458459). La passività sottintende i non poteri e le incapacità.
Da un confronto con Heidegger spicca la specificità di Ricoeur circa l’interpretazione
delle estasi della temporalità e il loro inanellarsi. «Il futuro, nell’orizzonte d’attesa, è il
tempo della possibilità aperta e, a livello immaginativo, lo stesso movimento utopico. La
morte è sostituita dalla promessa» (461). La storia «è ciò che ci permette di rendere attuale
il nostro legame o debito con chi ci ha preceduto, è ciò che mette in esercizio la nostra
memoria e il nostro (necessario) oblio, rendendo possibile il perdono». Il presente in
qualità di iniziativa è «il momento dello sgorgare, il tempo della capacità. Si nutre di
passato, si apre al futuro, ma incide il tempo con l’azione, la parola, la relazione, la
responsabilità» (462).
Le categorie di debito, promessa, attestazione e testimonianza, disposte nello schema
dei tempi, posseggono un tratto comune, dato dalla credenza come atto fiduciale,
accettazione ed accoglienza.
«Debito assume due significati, passivo e attivo: è ciò in cui dipendiamo da chi ci ha
preceduti e, nello specifico senso storiografico, quanto dobbiamo in verità con l’operazione
storiografica e con la fedeltà della memoria» (465). «Nella promessa il soggetto deve
riconoscersi come il soggetto dei propri atti e riconoscere la sua potenza di agire» (466),
mentre in essa «futuro e presente si legano indissolubilmente» (467), al di là dell’inganno
come minaccia sempre in agguato. «Nell’attestazione è in gioco l’affidabilità del soggetto e
la credibilità dell’iniziativa, nella testimonianza la significatività della storia e la possibilità
della comunicazione. Il sé come ipseità, capace di com-prendere medesimezza e alterità,
attività e passività è interamente dato ed esposto nell’attestazione, di cui la testimonianza
è l’estroversione storica» (468). «Anche sulla testimonianza sovrasta perennemente il
sospetto» (469), ma «solo ascoltando attori e vittime - tra memoria, storia e oblio - si
ascolta la vita stessa» (471).
4.
Antropologia filosofica (parte quarta)
♦ Anche per quanto concerne la riflessione sull’uomo ci si trova dinanzi ad un
argomento che deve affrontare Il limite e l’aporia. Chiedersi chi l’uomo sia non è la
prima domanda di pertinenza della filosofia. Ricoeur condivide l’impostazione kantiana
secondo cui la risposta a quella domanda potrà affacciarsi dopo aver affrontato le
«questioni preliminari quali: che cosa posso conoscere, che cosa debbo fare, che cosa mi è
lecito sperare?». Non solo essa si qualifica come «opera di sintesi» (475), ma deve attingere
anche presso fonti extrafilosofiche l’oggetto della sua trattazione, dal mito alle scienze
umane. Importante è evitare l’estremizzazione di chi pensa che oggi lo sviluppo delle
scienze umane renda superfluo l’affidamento del tema antropologico alla filosofia. E
tuttavia la filosofia deve rendersi capace di un incontro e di un dialogo con le scienze
umane, perché mancando della loro sollecitazione e del loro apporto essa «rischia di
essere vuota o di non svolgere il suo ruolo epistemologico, trascendentale e critico» (478).
Alla filosofia spetta l’importante obiettivo di «preservare l’avventura umana
dall’oggettivazione» (477).
43
È comunque opportuno ricordare che in Ricoeur l’assetto dell’antropologia filosofica
risulta frammentario, ma si dispiega entro un’ampia gamma di interessi rivolti alle scienze
umane. Forse solo il suo ultimo volume, Parcours de la reconnaissance, riscatta tale
situazione di frammentarietà.
L’antropologia non può prescindere dal riconoscere l’uomo presente in una situazione
tra il limite e il senso. La nozione di limite s’affianca a quelle di mistero e di paradosso
(dov’è l’eco di Marcel e di Jaspers), ma anche di enigma e di aporia. Diverse sono le
esperienze del limite, dal corpo proprio all’inconscio, dalla storia al tempo della vita, dal
mondo come orizzonte dell’azione alla limitazione in quanto fallibilità. Ma alle situazionilimite si possono opporre le risposte-limite, quali la fiducia, la speranza e l’amore.
Nascita e morte, vita e identità traducono nel linguaggio ricoeuriano quel che altrove
la filosofia qualifica come l’essere in situazione. La predominanza del «momento aurorale»
rispetto al «momento del tramonto» caratterizza il pensiero di Ricoeur. «È un orientamento
che si potrebbe definire spinoziano - la filosofia non è meditazione sulla morte ma sulla
vita e la sua potenza - e in significativa vicinanza a H. Arendt, che all’essere-per-la-morte
di Heidegger ha sostituito il mistero della nascita. […] L’antropologia dell’uomo capace
tende ad accentuare il mistero dell’inizio» (486).
Poiché della morte non si dà esperienza, di essa può darsi solo un sapere, un’idea che
penetra dall’esterno con carico d’angoscia.
Ben altro valore acquista invece l’avvenimento della nascita, tra opacità ed inerzia da
un lato, potenza di agire e creatività dall’altro. «Mescolanza di contingenza negli incontri e
di necessità nel risultato» (c489): sono le parole con cui Ricoeur descrive il destino della
nascita. «Vertigine reificante e alienante», e tuttavia, «per quanto si presenti con la forza
dell’alterità fino all’estraneità, solo se si riconosce alla nascita il suo posto, la riflessione
potrà assumere la condizione di incarnazione dell’uomo: la nascita è il simbolo dell’io
posso, al tempo stesso e inestricabilmente ricettività e iniziativa, e cifra della
trasformazione del destino in libertà» (489).
L’affermarsi del desiderio di vita e dell’energia di vita precedono l’affermarsi del logos e
del senso. In La critique et la conviction Ricoeur giunge fino all’«auspicio profondo di fare
dell’atto del morire un atto di vita. […] La mortalità stessa deve essere pensata sub specie
vitae e non sub specie mortis». Perciò contro il «vocabolario heideggeriano dell’essere-perla-morte» vien fatto valere un principio inverso: «essere fino alla morte» (c490).
Oltre la nascita, le età della vita, che nelle forme del divenire storicizzano il senso
dell’uomo e rappresentano anch’esse un destino, tra limiti e ventaglio di valori, poteri e
libertà.
Tra nascita, età della vita e morte si configura l’identità di una persona. «Se il sé si
conquista nello specchio dei segni e deve frequentare l’alterità per scoprirsi, l’identità è un
processo, un potere all’opera, un’estraneità fatta propria, una casualità trasformata in
destino attraverso atti creativi, che la memoria richiama dall’oblio, la parola fissa nel
racconto, nell’elegia, nell’inno, e il pensiero tenta di portare al concetto» (492).
♦ A partire dalla volontà Ricoeur arriva, attraverso un affondo nell’attività della
coscienza, alla trattazione inevitabile della Libertà incarnata. Filosofia dell’azione e
filosofia della libertà vengono a coincidere, laddove l’ampio campo semantico del concetto
di libertà implica intenzionalità, motivazione, progetto, decisione, responsabilità e così via.
Una filosofia della libertà non trova una vera e propria elaborazione nel mondo
dell’antichità greca. «Il concetto di libertà appare in tutta la sua determinatezza solo con il
cristianesimo, vale a dire con l’avvento del concetto di soggettività e con l’introduzione
dell’infinito nella riflessione» (496).
Una nuova problematica della libertà avanza con la scuola del sospetto, nei classici
nomi di Marx, Nietzsche e Freud. Davanti a diverse voci, Ricoeur percorre la sua strada
dalla volontà alla libertà. «La libertà creata è quella libertà che cerca di accogliere nel suo
orizzonte progettuale ciò che libertà non è e si realizza includendo la “necessità” del corpo
e della natura, della vita e delle sue stagioni, dell’inconscio e della storia. Libertà creata
però vuol anche dire libertà creativa» (499). Dai motivi per cui si agisce al consegnarsi a
44
un ideale, la libertà si fa inventiva solo mediante l’azione concreta, si esplica quindi nella
dimensione pratica.
Con l’espressione «la carne della libertà» si fa riferimento ad uno spettro ampiamente
dilatato della ricerca antropologica. La nozione di carne (chair), al di sopra della nozione di
corpo (corps), allude alla proiezione di quest’ultimo nell’orizzonte del mondo e del tempo,
in una dimensione relazionale e progettuale. Essa significa «l’unità indivisibile» e la
«relazione triadica» (502) di tre elementi: parola, immaginazione e desiderio.
Nelle sue varie forme la parola possiede una valenza antropologica innegabile. «In
particolare il racconto dà a individui e collettività la possibilità di conoscere ed elaborare
un’identità dinamica che sfida il trascorrere del tempo dell’anima e del cosmo» (504-505).
«Il “segreto” legame tra la parola e il desiderio è l’immaginazione, crocevia di esistenza
e possibilità, di creatività e azione» (505). L’immaginazione alimenta altresì il linguaggio
del simbolo, dove «l’universo diventa Cosmo come intreccio senza fine di rimandi e di
corrispondenze segrete» (508), la Psiche s’espande per i meandri del desiderio e il Logos
poetico interpreta il sentimento, «relazione carnale con il mondo» (c508).
«Alla parola, tramite la mediazione dell’immaginazione, corrisponde polarmente il
desiderio. […] In Ricoeur le due linee tradizionali interpretative del desiderio, quella
platonica e cartesiana che lo definisce come mancanza e quella spinoziana che lo
concepisce come impulso e potenza tendono a fondersi: la mancanza orienta il progetto,
l’impulso è il cuore stesso del potere» (512).
♦ Caratterizzare l’uomo in termini di capacità significa intraprendere a caratterizzarlo
con termini che sembrano escludersi reciprocamente, ma che in realtà colgono bene il
paradosso: «azione e passione, autonomia e vulnerabilità, potenza e fragilità.
L’esplorazione della capacità rivela l’inestricabile contrario, l’incapacità» (518).
Vulnerabile capacità è un ossimoro per esprimere il paradosso. L’homo capax è ad un
contempo agens et patiens. Qui la centralità dell’azione spiega lo spostamento dell’asse
dal teoretico al pratico.
Esiste un coordinamento tra linguaggio, azione e racconto. «Con il linguaggio, da
quello quotidiano a quello poetico, l’uomo esplora il mondo, instaura la relazione, dice se
stesso; con l’azione abita quello stesso mondo e interviene nel corso degli avvenimenti; il
racconto con i molteplici intrighi gli dà la possibilità di formulare, abitando il tempo, la
sua identità personale e collettiva». Ma in controtendenza appare anche la vulnerabilità.
«Il potere del soggetto parlante non è integro né trasparente. È nota l’ineguaglianza
fondamentale degli uomini quanto a padronanza della parola, raddoppiata dal non
credere in sé e dalla mancanza di approvazione, fino alla mutilazione dell’esclusione
linguistica. Sul piano politico e giuridico si sa quanto la violenza possa imporsi sulla
parola» (520). Perciò, «se è vero che un uomo è la sua propria storia, per esserne
consapevoli occorre una competenza di buon livello: coerenza, educazione,
apprendimento, sottomissione alla critica» (521), grazie a cui il soggetto esprime la sua
autonomia.
Intersoggettività e riconoscimento hanno a che fare con la capacità vulnerabile. La
stessa esperienza del dono resta «inseparabile dal carico di conflitti potenziali, innescati
dalla polarità tra generosità e obbligazione» (530).
Ulteriori considerazioni provengono dall’antropologia filosofica della politica, sulla
base del presupposto che «la politica, come manipolazione del potere, non esaurisce il
politico come struttura della realtà umana» (c531-532). Nell’ambito del politico si presenta
un duplice paradosso. Da un lato «si affrontano forma e forza, razionalità e decisione»,
dall’altro s’interpone uno iato «tra dimensione orizzontale e verticale, là dove il vivere
insieme rischia di essere fagocitato dai rapporti di dominio» (532).
«Il potere, proprio perché punto cieco e opaco, al tempo stesso trascendentale e fatto,
può travalicare in violenza e dominazione; al tempo stesso è rivelatore della fragilità
umana, che solo quando è consapevolmente confessata può trasformarsi in
responsabilità. Il politico, come la religione e la morale, non sfugge alla problematica
dell’anteriorità, della superiorità e dell’esteriorità» (534-535).
45
La capacità che si manifesta in potere comporta una corrispettiva fragilità. Ma proprio
la fragilità rinvia alla responsabilità, la richiede, «perché il fragile, in qualche modo, è
affidato alla nostra cura» (c536).
Potere non significa coincidenza col male, ma «l’ambito del potere è quello più soggetto
alle devastazioni della passione umana. […] Alla grandezza di dar forma alla convivenza
umana corrisponde in forma proporzionale la grandezza della possibile degenerazione»
(536). «E forse - non detto, ma arguibile dall’antropologia dell’homo capax - l’avere e il
valere trovano nel potere tanto la forza propulsiva per una loro mirabile realizzazione
quanto il delirio supremo» (537).
♦ Situazioni limite, negazione del senso, il male: temi che s’affacciano costantemente
nella ricerca ricoeuriana attraverso lo studio dei simboli e dei miti che ne riferiscono.
L’implosione del senso è espressione efficace per coglierne la portata.
La simbolica del male e l’interpretazione filosofica. Nel suo essere dispersione, il male
non può fare sistema. La forma simbolica della macchia è un modo di rappresentare la
colpa nella «dimensione primordiale dell’esperienza umana e religiosa». Descrivibile come
violazione di un tabù, la macchia si produce per un contatto materiale con la sfera
dell’impuro il cui segno è un’infezione. Tale simbolo «non è riconducibile alla nozione di
responsabilità etica» (541). Un secondo simbolo consiste nel peccato «ed esige la
personalizzazione della Potenza divina sentita come minaccia nell’esperienza
dell’impurità». Si determina nella categoria biblica dell’essere davanti a Dio e il suo senso
«si sviluppa nel contesto positivo dell’Alleanza stabilita da Dio con il suo popolo», dove «la
relazione dialogica precede la formulazione del comandamento» (542). Terzo simbolo è il
simbolo della colpevolezza, nel quale «al momento oggettivo del peccato subentra il
momento soggettivo della colpa e il cattivo uso della libertà prende il posto dell’affezione
esteriore dell’impurità» (543).
Nel ciclo dei miti del male e della salvezza la simbolica trova espressione narrativa. Di
questi miti Ricoeur elabora una quadruplice tipologia: «il dramma della creazione, il mito
tragico, il mito antropologico biblico, il mito dell’anima esiliata» (544).
Il passaggio da questa esposizione ad una ermeneutica dei miti del male avviene
prediligendo il mito biblico, una scelta che «non manca di originalità se si tiene conto che
secoli di teologia e filosofia esibiscono una contaminazione, implicita o esplicita, tra il mito
biblico e il mito orfico» (549). Nel superamento di una concezione etica di Dio e del mondo,
quale si dà nel Libro di Giobbe, riappare una «comprensione tragica di Dio stesso» (c549),
che avrà come correlato la concezione di un Deus absconditus e la figura del Servo
Sofferente di Isaia, «valida alternativa all’eroe tragico greco: la sua sofferenza, pur nella
sua insensatezza e scandalosità, annunzia una qualità di dono che, evitando inutili
giustificazioni razionali di Dio, apre ad una visione nuova della storia» (549). Entro una
dimensione «cristologica», che include la sofferenza in Dio, si comprende il destino umano
alla luce del dono.
La riflessione sulla simbolica del male non può evitare di esercitare influssi
sull’interpretazione filosofica. Proprio il problema del male offre alla riflessione un
orientamento specifico, la quale «rinuncia a qualunque forma di sapere assoluto e
s’immerge nell’interpretazione, assumendone lo stato di conflitto, peraltro già annunciato
nel ciclo dei miti» (551). In Le conflit des interprétations Ricoeur si esprime così: «Lo scacco
di tutte le teodicee, di tutti i sistemi concernenti il male testimonia dello scacco del sapere
assoluto in senso hegeliano. Tutti i simboli danno a pensare, ma i simboli del male
mostrano in modo esemplare che vi è sempre di più nei miti e nei simboli che in tutta la
nostra filosofia e che un’interpretazione filosofica dei simboli non potrà diventare mai
conoscenza assoluta» (c551-552). Non dunque una fenomenologia dello Spirito, ma una
fenomenologia del Sacro, i cui segni rinviano ad un éschaton, «una ultimità verso la quale
puntano le figure dello spirito» (c552).
Di fronte al male e alla sofferenza occorre far valere un pensiero pratico ed una
cultura della compassione. Distanziandosi dal mito e dalle teodicee, Ricoeur insiste
sempre più su «una lettura che eviti lo scoglio della speculazione» (553) e s’interroga sui
46
motivi dell’enigma del male. Ricostruisce così «i livelli di razionalità crescente che il
discorso sul male ha attraversato: il mito, la sapienza, la gnosi e l’antignosi, la teodicea»
(554).
Al di là dell’analisi di tutte queste tentate soluzioni, Ricoeur riafferma l’indole
aporetica del pensiero sul male invitando ad uscire dalla speculazione per trovare invece
«convergenza di pensiero, azione e sentimenti» (558). Poiché il problema del male si apre
nell’enigma e si conclude nell’aporia, si rende necessario un orientamento pratico, un
passaggio dalla domanda unde malum all’azione che lo contrasta. «Prima di accusare Dio
o di speculare, occorre agire eticamente e politicamente contro il male». Ed oltre la
risposta pratica sta un varco ulteriore, quello di chi «riconosce il valore educativo ed
espiatorio della sofferenza nella forma della partecipazione all’abbassamento del Cristo
sofferente. Solo così si rinuncia al problema della ricompensa, all’esigenza di essere
risparmiati, al desiderio infantile di immortalità, fino ad amare Dio per nulla, in modo da
uscire definitivamente dal ciclo della retribuzione» (559).
Scaturisce il valore di un pensiero pratico. «Lo scenario in cui collocare la Scrittura
non è il mito protologico, ma gli altri generi (dal narrativo al profetico) che ne diventano
l’ermeneutica demitologizzante con una funzione pratica» (560). Mentre i racconti
fondatori spingono il pensiero verso un arretramento e trattano «in forma indistinta tanto
l’ethos quanto il cosmos» (561), il problema del male esige un orientamento in avanti, un
pensiero rivolto al futuro. «Il male è una categoria dell’azione e non della teoria. Il male è
ciò contro cui si lotta, quando si è rinunciato a spiegarlo» (c562). Dunque «rovesciamento
di prospettiva: dallo speculativo al pratico, dal passato dell’origine al futuro del fare»
(562). In dimensione pratica si chiarifica il senso della fede come rischio nella categoria
del «nonostante…». Sapienza non insegnabile, speranza personale: «celebrazione della
vita, nonostante il male» (563).
♦ Dopo il capitolo sull’implosione del senso, il capitolo su Il senso in eccedenza. La
riflessione viene subito indirizzata verso la libertà secondo la speranza, che è anche il
titolo di un saggio di Ricoeur risalente al 1968. «Il consenso pratico al mondo […] si colora
di speranza», che ne è l’anima, questa «eccellenza escatologica» (566) che al contempo
«non rinuncia all’unità del vero ma non l’impone» (567), fino al corollario della speranza
cristiana che consente senza riserve il rispetto della verità dell’altro nella sua alterità.
«Il primo Adamo è comprensibile a partire dall’Ultimo» (567), ovvero la bontà originaria
della creazione si percepisce nella prospettiva salvifica finale. Con un richiamo alla
teologia della speranza di Jürgen Moltmann, Ricoeur prospetta un’interpretazione della
«libertà religiosa» in conformità con «l’interpretazione della resurrezione in termini di
promessa e di speranza» (c568), nonostante l’ineluttabilità della morte.
Nella riflessione successiva, con l’affermarsi dell’antropologia dell’homo capax, è questi
«il destinatario della religione, cioè della speranza», che «opera sempre in stretta
connessione con l’immaginazione: al passato, al presente o al futuro la speranza è
l’immaginazione del possibile, dell’innocenza e della riconciliazione, del senso nella sua
esuberanza» (570). E intanto s’affaccia il tema dell’amore.
Dalla reciprocità all’economia del dono. Il tragico dell’azione, nell’insolubile
incongruenza da cui si dipana, richiede un superamento dell’etica, se «l’etica ha come
misura fondamentale la reciprocità» (571). «Stima di sé, sollecitudine, senso di giustizia
hanno un fondamentale tratto comune: l’etica è impresa di giustizia, innanzitutto. Dalla
sua parte stanno l’argomentazione equanime, il sistema democratico e secoli
d’affinamento giuridico. Ma la giustizia/equità è sufficiente? Dal punto di vista
strettamente etico, Ricoeur sembra dire di sì. Da un altro punto di vista, cristiano ma non
solo, s’apre un capitolo, in cui la logica dell’equivalenza e della reciprocità sono convocate
a misurarsi con la logica della sovrabbondanza e della dissimmetria. Fanno corona parole
ricche di altri significati e di valenze: amore, dono, perdono» (572). La reciprocità provoca
verso nuovi orizzonti. «La vita è buona se e solo se è con l’altro e per l’altro. […]
L’intervento a favore di altri tende però a sfuggire alla sola regola della reciprocità e
preannuncia l’uscita dal regime circoscritto dell’etica» (572-573).
47
Tra amore e giustizia, l’amore sconfina nell’ambito delle cosiddette esperienze-limite.
Alle sue varianti in lingua greca di eros, philía e agape Ricoeur aggiunge la sollecitudine e
il rispetto. «A fare da ponte e ad evitare negazioni reciproche tra l’amore e la giustizia sta
la saggezza della Regola d’oro. Regola d’oro e comandamento dell’amore non si escludono.
Il comandamento opera una conversione della regola, trasforma la tendenza in capacità di
accoglienza, l’intenzionalità interessata in economia del dono. Viceversa la regola preserva
il comandamento da una possibile perversione» (573). Frapposta tra l’interesse e il
sacrificio di sé, la Regola d’oro ha la funzione di portare equilibrio, mentre amore e
giustizia cercano una mutua collaborazione, con l’obiettivo fondamentale di non sostituire
l’amore alla giustizia. «Fare dell’amore il motivo profondo della giustizia e della giustizia il
braccio efficace dell’amore», afferma Ricoeur. Poi ancora, dato il carattere sovversivo
dell’amore: «L’amore rompe le frontiere provvisorie, i limiti culturali inevitabili, le figure
storiche necessariamente limitate della giustizia. Il caso dell’amore dei nemici è a questo
riguardo esemplare» (c574).
Ci vuole cautela nell’affrontare il tema dell’amore. «Designa una dimensione nuova,
quella della Fonte o della Poesia». Una filosofia dell’amore appartiene all’orizzonte di una
«meditazione sulla creazione e sul dono» (c574). Prendendo le distanze dalla tesi di Anders
Nygren sull’opposizione tra eros e agape, che invece ha ottenuto successo in ambito
protestante, Ricoeur pensa di poter collocare eros, philía e agape «sulla stessa spirale
ascendente e discendente» (c577). In Penser la Bible, al termine di un commento al
Cantico dei Cantici, suggerisce nel nuziale «il punto di intersezione, virtuale o reale, in cui
si intrecciano le figure dell’amore», che reciprocamente stanno «in rapporto di
intersignificazione piuttosto che di gerarchizzazione» (c578). Il tema del dono e del suo
«mistero» è sullo sfondo degli aspetti finora considerati.
All’economia del dono appartiene la grande questione del perdono, specie se si tratta
di perdono difficile. L’uomo è «fragile sintesi di finito e infinito» e «l’errore si insinua nella
sua apertura prospettica al mondo; l’altro può non essere colto nella sua valenza di
persona ed essere ridotto a cosa; nell’intimità del soggetto si apre un vertiginoso
scollamento tra sé e sé nei registri dell’avere, del potere e del valere». Ma «di fronte alla
potenza del negativo, che appare soverchiante, la speranza permette di attendere qualcosa
che è oltre il male perché lo precede come bontà originaria, e l’amore, nelle sue forme
riuscite, dice poeticamente di altre possibilità, alternative alla pura risposta violenta»
(580). «Il fuori testo sul perdono è un capitolo di vera e propria escatologia filosofica - un
parerga filosofico all’indagine filosofica sulla storia, sulla memoria e sull’oblio. Ciò che la
speranza svolge al futuro, il perdono fa al passato e al presente non senza trovare una
qualche illuminazione e forza dal futuro stesso» (581).
«Profondità della colpa», «altezza del perdono» (582). Da un lato la confessione,
dall’altro l’inno. L’odissea del perdono ha a che fare con diversi tipi di colpa, ma la sua
natura è strettamente congiunta con la realtà del dono. Su suggerimento di H. Arendt, «a
partire dalla simbolica dello sciogliere-legare si collega la coppia dialettica di perdono
(scioglimento) e promessa (legamento)» (587). Secondo Ricoeur, «il perdono possiede
quell’effetto di dissociare il debito dalla sua carica di colpa e, in qualche maniera, di
mettere a nudo il fenomeno del debito, in quanto dipendenza da un’eredità ricevuta. Ma
esso fa qualcosa di più. Per lo meno, dovrebbe fare di più: slegare l’agente dal suo atto»
(c588).
Nello scioglimento dell’agente dal suo atto consiste il nodo cruciale della questione del
perdono. Il colpevole deve essere reintrodotto nella sua capacità di ricominciare, ritornare
ad essere homo capax con potenza di agire, al di là dei suoi errori o delitti. «La promessa,
che proietta l’azione verso l’avvenire, potrebbe impadronirsi proprio di questa capacità
restaurata. La formula di tale parola liberatrice, abbandonata alla nudità della sua
enunciazione, sarebbe: tu vali molto di più delle tue azioni» (c589).
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5.
La filosofia e il suo altro (parte quinta)
♦ L’ubiquità del politico. Già s’è detto del quadro di Rembrandt su Aristotele che
contempla il busto di Omero nell’interpretazione di Ricoeur, un quadro che mette in gioco
filosofia, poesia e politica e nella cui raffigurazione egli si rispecchia. «La filosofia politica
di Ricoeur non è cospicua dal punto di vista quantitativo ma rilevante sotto il profilo
qualitativo», ed ha l’intento di «far incontrare le ragioni del liberalismo politico con quelle
del socialismo democratico attorno a un nucleo che si presenta teoricamente e
praticamente paradossale» (594). Paradosso politico e paradosso dell’autorità sono temi
che trovano sviluppo dal confronto con due interlocutori privilegiati, Max Weber e Hannah
Arendt, oltre ovviamente a pensatori distribuiti sulla scia della tradizione sia antica che
moderna.
I fatti di Budapest del 1956 sconvolsero le coscienze e non lasciarono indifferente il
pensiero di Ricoeur come riflessione sul potere politico già avviata da lungo tempo.
Razionalità del potere e sua possibile perversione ne mostrano la duplicità. Nel
rivendicare l’autonomia della politica rispetto all’economia, e più in generale l’autonomia
del politico, se ne delinea il tratto di razionalità intrinseca e di patologie congiunte, la
prima come espressione di un rapporto umano non riconducibile ai conflitti di classe, le
seconde come mali specifici del potere politico.
L’avvio della riflessione sull’autonomia del politico prende spunto dal pensiero greco,
per il quale «la politica rivela il suo telos solo se può essere collegata con l’intenzione
umana fondamentale, il bene e la felicità», nella reciproca implicazione di politica ed etica
e dove «l’individuo diventa umano solo in quella totalità che è l’universalità dei cittadini»
(599).
Una domanda di fondo riguarda il paradosso dell’autorità: donde essa viene in prima
ed ultima istanza? Dall’asimmetria tra comandare ed obbedire, la questione s’intensifica
in un’altra opposizione: da un lato il diritto di comandare, dall’altro il riconoscimento di
quel diritto da parte dei subordinati. Se l’autorità in forma di dominazione si distingue
dalla violenza per la credibilità che proviene dalla legittimità almeno pretesa, è vero che
oggi è assai stentato ogni riconoscimento di autorità, entro un atteggiamento di generale
riluttanza a dare credito, nel riconoscimento di superiorità a chiunque sia investito di un
potere.
Davanti alle difficoltà della democrazia, solo la consapevolezza della sua fragilità ne
preserva il successo e la salva dalla decadenza. In essa s’intersecano il piano orizzontale
del voler vivere insieme e il piano verticale che si struttura gerarchicamente e comporta
l’uso legittimo della violenza. Ma «il progetto democratico consiste in un insieme di
dispositivi grazie ai quali il razionale prevale sull’irrazionale e l’orizzontale giustifica il
verticale» (610).
Le forme del discorso politico si possono individuare tra ideologia, utopia e retorica.
Mentre ideologia e utopia sono discorsi «forti», la persuasione dell’argomentazione retorica
non ha la medesima forza dimostrativa di carattere scientifico in quanto si muove tra il
probabile e il verosimile. Anche il suo linguaggio sta all’insegna della fragilità, pur non
rendendosi inadempiente. Il compito della retorica si distribuisce su tre livelli: il dibattito
e la deliberazione politica, le discussioni sui fini del buon governo e l’orizzonte dei valori,
la rappresentazione della vita buona.
In primo luogo sta il dibattito politico, tra conflitto e consenso, ma nella forma di
apertura e negoziabilità, sapendo affrontare «pretese rivali» nell’intento di perseguire la
«formazione di una decisione comune» (617). Viene poi la questione dei fini del buon
governo e dell’orizzonte dei valori, quali sono dati da «sicurezza, prosperità, libertà,
giustizia, eguaglianza» estesi in una «pluralità di significati» (617-618). Perciò la questione
del fine del buon governo resta una questione difficile a decidersi, data la presenza di
valori che si escludono a vicenda. «Nell’azione, bisogna scegliere, dunque preferire.
Dunque escludere» (c618). Infine, a motivo della pluralità dei fini, la rappresentazione
della vita buona avanza tra ambiguità ed ambivalenza, caratterizzata da una «crisi di
legittimazione» (618) ben constatabile nelle società occidentali contemporanee. In
49
conclusione, scrive Ricoeur, «il linguaggio politico è retorico non per debolezza, ma per
essenza. Ciò che fa il suo limite, fa anche la sua grandezza. L’uomo non ha migliore
organo per interpretare se stesso come animale politico» (c619).
Se tra etica, politica ed economia occorre far valere una distinzione teorica finalizzata
a preservarne specificità ed autonomia, occorre al contempo cercarne il corretto raccordo.
Prospettiva, previsione e pianificazione caratterizzano l’esercizio dell’economia, che però
lascia aperta la domanda sul tipo di uomo che per suo tramite s’intende costruire e la
questione della realizzazione di una democrazia economica accessibile al maggior numero.
Il rischio di un’assenza di senso non toglie la necessità di una scelta etica. Di fronte al
predominare dell’insignificanza in vari campi, compito dell’etica è quello di saper guardare
all’insieme degli uomini non meno che alla personalizzazione delle loro relazioni.
Etica, politica, diritto vengono a costituire quel versante in cui la politica entra in
relazione con il piano morale e giuridico e gli orizzonti della questione si allargano e si
approfondiscono. Il punto di congiunzione è ravvisabile nella tematica che riguarda il
Giusto. Diritto penale, diritto civile e sistema di distribuzione di ruoli, compiti e incarichi
delineano i cerchi della riflessione in un’estensione sempre maggiore. Irriducibile tanto
alla morale quanto al politico, la natura del diritto si profila da un lato come «concetto e
ambito» del Giusto, dall’altro come «compito ermeneutico». Se inoltre la vita associata
comporta il conflitto, la domanda cade sul suo orientamento etico, tra giustizia ed equità,
dove dell’equità si dice che «è un altro nome del senso della giustizia dopo che questo ha
attraversato le prove e i conflitti suscitati dall’applicazione della regola di giustizia» (c635).
♦ Il secondo capitolo ha per titolo La singolarità comunicabile e si apre sul rapporto
tra poesia e filosofia, sempre con riferimento alla già esposta interpretazione ricoeuriana
del quadro di Rembrandt su Aristotele ed Omero. «Per la filosofia, che nasce a contatto
con la poesia ma per un altro destino, la poesia non è un lusso aggiuntivo quanto
piuttosto una condizione di esistenza. Senza parola poetica non c’è mondo abitabile»
(637). Ma, precisa Ricoeur in Le conflit des interprétations, «la poesia è più che l’arte di
fare poemi, è póiesis, creazione nel senso più ampio del termine» (c638). In tal senso la
poesia è una delle fonti imprescindibili del pensiero di Ricoeur, sulla scia di un dialogo tra
poesia e filosofia aperto nel Novecento anzitutto da Heidegger, poi da Gadamer ed altri.
Poesia biblica, tragedia greca e romanzo moderno costituiscono per lui il lascito
fondamentale, ma resta il segno di letterati quali Montaigne, Pascal, Rousseau e più
ancora Dostoevskij e Shakespeare. L’affermazione di un’interazione tra letteratura e
filosofia giunge alla considerazione che la letteratura può affrontare questioni filosofiche
«spesso con un’ampiezza sconosciuta alla filosofia» (638), ma resta la «netta esclusione
della derivazione della filosofia dalla poetica» (639).
Simbolica, poetica ed ermeneutica. La valenza poetica del linguaggio si nutre di
immaginazione. Nel suo significare viene oltrepassata o violata la prospettiva della
semplice percezione. Forza della simbolica, o poetica del simbolo. «Sýmbolon - ciò che
tiene insieme - è póiesis - esplorazione ed espressione del cosmo, della psiche,
dell’esistenza nelle sue fratture e nelle sue possibilità -, póiesis che, per quanto sospinta
ai margini, precede e avvolge ogni theoria e ogni praxis» (641). Per questo, in contrasto con
la psicoanalisi, Ricoeur evita la riduzione del poetico all’onirico, da un lato perché «le
opere d’arte sono non solo proiezioni dei conflitti dell’artista, ma anche l’abbozzo della loro
soluzione e l’instaurazione del poetico in quanto tale», dall’altro perché «la funzione
poetica investe di significato la sfera del valere, con conseguenze che riguardano il senso
complessivo dell’avventura umana» (642).
Essendo raccolta e integrazione di una molteplicità di significati, «il luogo dell’arte è la
polisemia» (644), e grazie all’immaginazione «la creatività si concentra nell’integrazione dei
livelli». «Nella tensione tra percepire e dire, il mondo si dà attraverso l’attività nascosta e
oscura dell’immaginazione trascendentale, terzo termine in grado di mediare tra le
polarità di intelletto e sensibilità, di logos e pathos» (645).
Nella vicenda artistica novecentesca le arti figurative e non solo figurative perdono il
ruolo di riproduzione della realtà. Avviene così il passaggio dalla funzione rappresentativa
50
alla funzione espressiva. Il rapporto tra estetica e ontologia viene descritto a partire dalla
funzione espressiva dell’arte come libero gioco di segni. «Questa “libertà” come libero gioco
coincide con la creatività allo stato puro fino a condensarsi nella singolarità propria
dell’opera d’arte» (651). Nel dire il mondo in forma diversa dalla rappresentazione si rivela
un «sovrappiù», una «dimensione di sovrastoricità». Il che avviene, come si esprime
Ricoeur, «iconizzando il rapporto emozionale singolare dell’artista al mondo» (c651).
«Mentre la nuda esperienza è incomunicabile per mancanza di coesione, l’opera d’arte,
pur strutturalmente contrassegnata dalla singolarità, non è ineffabile, anzi ciò che in
questa singolarità è sorprendente è proprio la sua comunicabilità» (652). Oltre
l’intenzionalità dell’autore, un’opera d’arte mira alla condivisione superando le barriere
del tempo, ma allo stesso tempo mostrandosi nella storicità della ricezione, grazie ad una
«capacità indefinita di essere reincarnata, ogni volta in modo differente, ma
sostanzialmente ed essenzialmente fondatrice» (c653).
Quale invece il legame tra mood e mondo? Il sentimento non è identificabile con una
semplice emozione passeggera, ma «è una maniera di trovarsi nel mondo. […] Nulla è più
ontologico del sentimento. Suo tramite noi abitiamo il mondo» (c654). «Il mood permette al
soggetto (artista o lettore) di entrare in rapporto con sé e, con ciò stesso, gli consente di
aprirsi al mondo» (655). «L’opera d’arte si riferisce in effetti a un’emozione che è
scomparsa come emozione, ma che è stata preservata come opera. […] Ogni opera è
davvero una modalità d’anima, una modulazione d’anima» (c655). Tra radicamento in un
mondo pre-oggettivo e progettazione dei nostri possibili si dà la nostra appartenenza di
soggetti ad un mondo che, pur precedendoci, porta infine il segno delle nostre opere.
Il bello e il sublime, il buono, il santo. Quali rapporti intercorrono tra estetica, etica e
religione? «L’etica orienta l’azione, l’estetica la sospende. […] Se non bisogna ricavare
un’etica dall’estetica, perché la giustizia è irriducibile a un’idea estetica, l’estetica può
però suggerirle qualcosa, come ha proposto Kant con l’esplorazione del Sublime distinto
dal Bello. La singolarità, la comunicabilità, la creatività hanno una valenza non solo
estetica e l’arte ha un significato etico potenziale nella misura in cui ci libera dalla
dittatura dell’utile e del mercantile» (657-658).
«In territori limitrofi al Giusto, il Bello si può anche incontrare con il Sacro o il Santo.
[…] L’arte può essere una via alla trascendenza, ma senza costrizione o ingiunzione, tanto
nel caso di Mozart quanto in quello di Bach. Lo stesso sublime, nell’accezione kantiana,
ha una valenza solo potenzialmente e mai espressamente religiosa» (659).
♦ Col terzo capitolo si apre il discorso su Filosofia e religione. Lectures 3 porta come
sottotitolo Aux frontières de la philosophie, «Alle frontiere della filosofia». La distinzione
kantiana tra Erkennen (conoscere) e Denken (pensare) è rievocata per sottolineare la
maggior vastità del pensiero rispetto alla conoscenza. Analogamente all’arte, la religione
possiede un pensiero, pur provenendo dall’ambito della non filosofia.
Una serie di tappe e di confronti con autori variegati caratterizza la ricerca di Ricoeur
a proposito di Dio quale oggetto della filosofia, specie dopo la moderna critica che ha
investito pensiero speculativo e religione. Alla domanda se la filosofia possa ancora
occuparsi di Dio, «estraneo allo spirito dei tempi, l’orientamento riflessivo da cui Ricoeur
prende le mosse risponde affermativamente e anche con enfasi» (664). Tuttavia con
qualche precisazione. Anzitutto perché tra il Dio dei filosofi e il Dio che si può pregare di
comune c’è soltanto il nome. Tra teologia filosofica strettamente intesa e teologia biblica
non si dà dunque relazione. Solo in Penser la Bible si apre un nuovo scorcio.
Resta da chiarire meglio il rapporto tra filosofia e religione. La filosofia, senza
trasformarsi né in teologia filosofica né in teologia biblica, può incontrare ed occuparsi
dell’esperienza religiosa e delle sue oggettivazioni. È infatti compito della filosofia
interrogare e lasciarsi interrogare da ciò che filosofia non è.
Con passaggi progressivi Ricoeur si muove tra fenomenologia ed ermeneutica della
religione. «Se l’approccio fenomenologico è in gran parte derivato e utilizzato a partire da
M. Eliade sotto il controllo del pensiero husserliano, l’approccio ermeneutico, pur facendo
tesoro della linea interpretativa che va da Schleiermacher a Bultmann passando per
51
Dilthey e intrecciandosi con il lavoro concreto dell’esegesi e della teologia biblica, è una
rielaborazione del tutto originale da parte di Ricoeur. Invece, nella tappa successiva che si
fa carico anche della problematica relazione tra religione e cristianesimo, l’innesto
dell’ermeneutica sulla fenomenologia fino alla reciproca implicazione si trasforma in
connessione e discontinuità tra la fenomenologia della manifestazione e l’ermeneutica della
proclamazione» (672). Dalla fenomenologia del Sacro all’ermeneutica della tradizione
ebraico-cristiana, quest’ultima incentrata sul ruolo della parola nella teologia del Nome e
nell’istruzione etica, l’intento è la ricerca di una mediazione, di un equilibrio tra i due poli,
«espresso lungo tutta la storia della Chiesa cristiana come dialettica del sacramento e
della predicazione» (c672-673).
Successivamente una svolta: la fenomenologia della religione, pur incontrando
difficoltà, si dispiega solo a partire da un radicamento ed un orientamento
ermeneuticamente fondati, in quanto «la religione è come il linguaggio stesso, che si
realizza solo nelle lingue» (c673). A sua volta l’ermeneutica dovrà essere ermeneutica
testuale o scritturistica. Prima di individuare le linee di una fenomenologia universale
della religione occorre accostarsi al particolare di una religione. Solo in seguito, quasi per
un procedimento di transfert, è possibile trascorrere dalla propria esperienza
all’esperienza altrui, sempre con la consapevolezza di essere di fronte all’articolarsi del
molteplice che mette in guardia dalla caduta nel sistematico. «Ne consegue che una
fenomenologia della religione resta unicamente un’idea regolativa, al modo di un’ospitalità
ecumenica, simile a quella che nell’ambito linguistico presiede alla traduzione» (674).
Il dibattito su religione e fede ha avuto nella teologia protestante del Novecento un
punto di forza e di sviluppo notevole. Vicino alle posizioni di Karl Barth, che «aveva
dichiarato di preferire l’ateismo di Feuerbach alla religione di Schleiermacher, Ricoeur
stabilisce un rapporto triadico, quasi dialettico, tra religione, ateismo e fede. All’ateismo
viene affidato il compito della negazione, quasi per sgomberare il campo a favore della
possibilità della fede in un’epoca post-religiosa, secondo un modello che non è quello del
superamento ma della tensione reciproca» (675). In seguito Ricoeur, richiamandosi al
protestantesimo riformato, cercherà di comprendere il senso delle grandi religioni in una
prospettiva di dialogo ecumenico interreligioso.
Nel rapporto tra Bibbia e pensiero rivestono funzioni diverse la filosofia, l’esegesi e la
teologia. Ricoeur «non nasconde la sua simpatia per quella teologia cristiana che è poco
“filosofica”», dove l’«attestazione scritturale» prevale sul «patrimonio teoretico della
filosofia» (678).
Assai più complessa si fa invece l’articolazione di una filosofia della religione, che
viene a fondersi con la storia della critica della religione, anzi, è la religione stessa che di
fonte alla filosofia elabora la sua critica. Da Spinoza ai maestri del sospetto - Marx,
Nietzsche e Freud - è possibile intravedere un significato religioso dell’ateismo. La
religione non può evitare di sottoporsi ad un esame critico per ritrovare meglio la propria
identità. Nell’allargarsi della coscienza grazie agli spazi aperti dalla critica, tale esame non
andrebbe inteso come un atto facoltativo. Ciò nonostante, il repertorio della critica non
esaurisce il nucleo simbolico della religione che si manifesta come «escatologia del Sacro»
ed «amore per la creazione», ben al di là di quanto nella religione si fa strada come ricerca
di accusa o di consolazione. «L’amore della creazione è una forma di consolazione che non
dipende da alcuna ricompensa esterna e che è parimenti distinta da ogni vendetta.
L’amore trova in se stesso la propria ricompensa, è esso stesso la consolazione» (c680).
Ciò avviene quando l’idolo si allontana dal simbolo. Se l’idolo svolge «una funzione
parassitaria nel soggetto, in particolare nel falso Cogito narcisistico» (680), il secondo
rinvia ad una verità escatologica nella sua essenza. Perciò, scrive Ricoeur, «questo, io
credo, è il significato religioso dell’ateismo: bisogna che un idolo muoia, affinché inizi a
parlare un simbolo dell’essere» (c681).
♦ Leggere e pensare la Bibbia è il capitolo che chiude l’ultima sezione dell’opera.
Anzitutto la questione metodologica del passaggio dall’esegesi all’ermeneutica. Ricoeur si
pone tra Heilsgeschichte ed ermeneutica esistenziale, dove l’interpretazione della
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Heilsgeschichte (storia della salvezza) e della connessa teologia dell’Alleanza si serve degli
apporti di teologi riformati quali Karl Barth, Gehrard von Rad ed Oscar Cullmann.
«Speranza e storia sono il binomio che guida l’interpretazione creatrice del mondo
simbolico della Bibbia» (705). In Finitude et culpabilité si delinea un metodo in cui
convergono fenomenologia eidetica, esegesi ed ermeneutica, ma senza scordare il senso
della produzione storico-critica. Il tutto nel «quadro unitario della Heilsgeschichte, capace
di congiungere nel segno della fede e della speranza l’Origine con la Fine» (706).
Rilevante è l’ispirazione ermeneutica bultmanniana sulla base del principio del
credere per comprendere e del comprendere per credere.
Il passaggio dall’esegesi storico-critica all’ermeneutica avviene con la presa di distanza
da alcuni aspetti del metodo storico-critico. La «critica del metodo storico-critico» si volge
ad una sua rettifica, in particolare su tre aspetti descritti come illusioni: illusione della
fonte, illusione dell’autore, illusione del destinatario. Nel primo caso, «non è la fonte che fa
comprendere il testo, ma il testo che sceglie e articola le sue fonti» (c710). Nel secondo,
«l’autore non è che una funzione del testo ovvero una grandezza ermeneutica». Nel terzo «il
discorso, quando diventa testo, assume un’autonomia che lo sottrae all’autore e al primo
destinatario; […] è il testo stesso a crearsi il suo pubblico» (710). Sullo sfondo di questa
critica avanza la «lezione strutturale. […] Il testo va spiegato con il testo, grazie alla
struttura che esibisce a livello di superficie e in profondità». Ma Ricoeur respinge
quell’ideologia del metodo strutturale «che fa coincidere il senso di un testo con la logica
della sua struttura» (711), preferendo invece un’apertura al processo ermeneutico che
porta in luce questioni assai più importanti.
Con priorità data alla lettura della Bibbia, per giungere poi alla multiformità del testo
e al suo mondo, se ne possono distinguere tre tipi: lettura parcellare, applicabile al genere
letterario come individuazione del discorso biblico; lettura intertestuale, dove emerge
l’intersignificazione dei discorsi nel loro intersecarsi; lettura globale, che «vuol dire
innanzitutto rispetto della polifonia. Il gusto della varietà preserva la peculiarità di ogni
genere letterario, a condizione che non si trasformi in una pura dispersione di significati»
(713).
Nell’esplorazione dei generi letterari Ricoeur si concentra soprattutto sull’Antico
Testamento, dove compaiono il genere narrativo, profetico, prescrittivo, sapienziale,
innico.
Se «l’interpretazione poetica permette al lettore di cogliere in una unità letteraria la
biblioteca e la polifonia della Bibbia» (719), e se la formulazione bultmanniana del
rapporto tra fede e comprensione s’instaura a sua volta sul rapporto personale
dell’individuo con la Parola che gli è rivolta per invitarlo alla decisione, il cosiddetto circolo
ermeneutico, che ad un livello molto elementare riguarda il rapporto tra una parte e il
tutto, deve essere ampliato su più di una visuale. Dunque esso si esprime non solo tra il
singolo individuo e la Parola, ma tra la Parola di Dio e la Scrittura, essendo quest’ultima a
trasmettere la prima. Oppure tra la Parola-Scrittura e la comunità dei credenti che la
accoglie, perché «senza Scrittura non c’è comunità; ma la testimonianza della comunità è
essenziale alla Scrittura per essere riconosciuta come tale» (720). In questa modalità è
incluso il rapporto tra Scrittura e Tradizione, come pure il rapporto tra Scrittura e cultura
quale orizzonte in cui la Scrittura interagisce interpellandolo e lasciandosi interpellare. Ed
infine il circolo si attua tra il singolo credente e la Scrittura, dove la risposta di fede
permette alla parola di essere ascoltata come Parola di Dio, quindi come parola rivelata.
Ma l’ultima garanzia dell’interpretazione è una testimonianza interiore dello Spirito, grazie
a cui si disegna quel circolo nel quale la parti in causa si costituiscono vicendevolmente.
Un compito primario affidato all’ermeneutica resta per Ricoeur il dispiegarsi del
mondo del testo, con la caratteristica di essere rivelante. La poeticità del testo biblico offre
del mondo una «nuova comprensione» in quanto vi apre la «realtà del possibile». E non
solo: «Il mondo biblico ha dimensioni cosmiche - è una creazione -, comunitarie - si tratta
di un popolo -, storico-culturali - si tratta di Israele, del regno di Dio -, e personali. L’uomo
è coinvolto secondo le sue molteplici dimensioni che sono anch’esse cosmiche, storicomondiali e al tempo stesso antropologiche, etiche e personalistiche» (c722). Perciò il
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novum di cui il testo biblico è portatore «si annuncia come un “di più” ed è traducibile in
concetti teologici attraverso la logica della sovrabbondanza e l’economia del dono» (723).
Al «punto culminante dell’impresa ermeneutica» s’incontra il mondo del lettore. Il testo
mette in gioco diversi fattori. In primo luogo la fede, che «scaturisce dal mondo del testo
in una dimensione iperlinguistica che sfugge all’ermeneutica, pur non potendo fare a
meno del linguaggio per esprimersi». E come tale «precede e segue l’ermeneutica». L’atto
dell’appropriazione richiede «insistenza sulla lettura» come «esercizio di responsabilità»
capace di includere la «critica del sospetto» su una via di «de-costruzione dei pregiudizi»
(724).
Oltre la fede, un secondo fattore su cui viene singolarmente posto l’accento è
l’immaginazione, poiché se il messaggio biblico «non cambia l’immaginazione con
l’apertura al possibile, non c’è conversione della volontà e dell’esistenza». Poi ancora «al
possibile fa seguito l’azione, forse il punto più alto dell’applicazione» (724) ed «attività
interpretante creatrice» (725).
Infine la testimonianza come proclamazione e impegno personale, entro cui si attua il
raccordo più intenso tra mondo del testo e mondo del lettore.
Il pensiero non è una prerogativa esclusiva della filosofia. La filosofia può invece
presupporre che vi sia un pensiero nei testi religiosi, di fronte al quale le spetta il compito
dell’ascolto e del dialogo. Esiste dunque un pensiero della Bibbia ricavabile grazie a
un’indagine letteraria attenta e paziente e che deve tener conto dei rilievi finora accennati
sia per quanto riguarda i generi letterari, sia per quanto riguarda la complessità del
circolo ermeneutico. Se pensiero biblico e pensiero filosofico stanno su piani differenti, c’è
comunque un intersecarsi ed un reciproco fecondarsi tra pensiero biblico e pensiero delle
culture che gli offrono accoglienza. Il loro incontro è divenuto un destino costitutivo della
cultura alla quale apparteniamo, «un compito con cui la nostra riflessione deve misurarsi
con onestà e responsabilità totali» (c728). «Pensare la Bibbia», secondo l’espressione di
Ricoeur, significa pensare Dio nel modo molteplice in cui quel testo lo dice. E in primo
luogo delineano il metodo di quel pensiero il tema della rivelazione e il tema del tempo.
I testi biblici presentano se stessi come originati da una fonte non identificabile con il
testo. Ma poiché il concetto di rivelazione scaturisce da una molteplicità di testi letterari,
occorre a sua volta che della rivelazione venga mantenuto un concetto plurale, polisemico
ed analogico, più che non operare un appianamento su un concetto esclusivo, solitamente
di ispirazione profetica.
Per quanto riguarda il tempo, occorre anzitutto evitare l’opposizione frontale tra la
concezione biblica e la concezione greca, sia perché entrambe non sono univoche, sia
perché la Bibbia non consente di ricavare «un concetto di tempo in grado di entrare in
competizione con quello filosofico» (733).
Il filo conduttore della riflessione sul pensiero biblico gravita intorno alla domanda:
«quale Dio?», specie in un’epoca che segue al processo nei confronti dell’ontoteologia. Il
passo scritturistico di Esodo 3,14 ha da sempre costituito una cerniera tra la metafisica
greca e la rivelazione ebraico-cristiana.
Si tratta del rapporto tra Dio e l’essere. Dall’espressione ebraica «’ehyeh ’asher
’ehyeh», a quella greca «egô eimi ho ôn», a quella latina «sum qui sum», ogni traduzione si
rivela un palese atto di interpretazione. La struttura linguistica della formula ebraica
contiene un groviglio di difficoltà a più livelli, mentre la traduzione greca dei LXX, oltre a
sigillare l’incontro tra due culture, «annuncia la fusione tra un’ontologia positiva e una
sospensione ascetica del Nome, sotto l’egida stessa del verbo einai» (c736). Una lunga
tradizione ha contemplato in questa formula la possibilità di un’intelligenza della fede che
congiunge il Dio della rivelazione e l’Essere dei filosofi. Ricoeur richiama il diverso
contributo di Agostino e dello Pseudo-Dionigi. Da un lato il vere et ipsum Esse, dall’altro
l’inaugurazione della via apofatica, una via «che mira all’al di là dell’Essere e considera la
non-conoscenza come la conoscenza più adeguata di Dio». Come al solito, Ricoeur batte
un sentiero in una terra di mezzo. Teologia affermativa e teologia apofatica non vanno
opposte e non si escludono. «Nell’insopprimibile differenza l’una ha bisogno dell’altra:
54
Nome che nega, Nome che afferma; trascendenza dell’Uno sull’essere, trascendenza
dell’Essere sugli esseri» (737).
Diverse sono in proposito le posizioni dei medioevali, spesso sfocianti in un
compromesso tra l’ontologismo dell’affermazione «Dio è l’essere» o l’apofatismo secondo
cui «Dio è ineffabile». Étienne Gilson, grande studioso del pensiero medioevale, «ammette
però che l’incontro del Dio delle Scritture e l’Essere dei filosofi è storicamente contingente
e speculativamente fragile. Facendo leva su questa ammissione, Ricoeur si domanda: “se
abbiamo potuto chiamare un evento di pensiero la convergenza tra Dio e l’Essere, non
sarà forse un altro evento di pensiero il fatto che questa convergenza sia giunta a
dissolversi e che, da plausibile che era, sia diventata sospetta?”» (738).
La questione su «quale Dio?» tocca anche il problema della creazione. Quale il
rapporto tra storia primordiale e storia salvifica, tra creazione e senso della storia? Il
pensiero biblico sulla creazione si muove tra le categorie di separazione e di origine, la
prima per dire la distinzione tra il Creatore e la creatura, la seconda per affermare «la
promessa o almeno l’esigenza di un seguito» (742). Nella conclusione, «la riflessione di
Ricoeur si avvale di un confronto essenziale con Franz Rosenzweig, la cui opera realizza la
distruzione della totalità, sostituita da una rete di rapporti tra creazione, rivelazione e
redenzione, il cui nesso è una temporalità profonda, irriducibile a ogni cronologia» (745).
«C’è un tempo della Creazione, ed è quello di un passato immemoriale; un tempo della
Rivelazione, che è quello del colloquio dell’amante e dell’amato; e un tempo del Regno, che
è quello che non cessa di accadere» (c745).
Nel commento al comandamento di non uccidere, Ricoeur prende in considerazione il
problema riguardante l’etica e Dio. «Se un tempo parlare di etica voleva dire evocare
immediatamente la trascendenza divina del comandamento, oggi inversamente l’etica
rivendica una sostanziale non trascendibilità che mette in questione ogni discorrere su
Dio. L’etica diventa una pregiudiziale per ogni pensiero su Dio e forse esiziale anche per
se stessa» (745).
Nella lamentazione come preghiera, di cui molti Salmi sono l’emblema, «la parola dà
espressione al grido, rendendolo degno di memoria e canto» (750). Nell’immagine del Servo
sofferente è scritta «la pagina più alta, che prestandosi a un pluralismo di interpretazioni
preserva l’inscrutabilità divina» (751). Lo stesso grido sulla croce di Gesù morente è il
grido di chi «riveste la sua sofferenza con le parole del Salmo, che in tal modo egli abita
dall’interno» (c751-752). L’attualità della lamentazione, «grido della sofferenza pura» (751),
può costituire un invito ad evitare l’alternativa: «o costruire (ricostruire) dimostrazioni non
credibili o professare un fideismo incomunicabile» (c752), oltre che un invito ad una
pratica della compassione nei confronti dei sofferenti.
Un riferimento al Cantico dei Cantici all’insegna della metafora nuziale chiude il
capitolo. Di questo poemetto Ricoeur propone una «lettura multipla», precisando che
legame nuziale non va confuso con legame matrimoniale e designa un amore «libero e
fedele» (752). Col ricorso ad una lettura intertestuale, il confronto più immediato è con
Genesi 2,23, «ove l’amore umano è celebrato dentro un mito di creazione, che non conosce
differenza tra amore spirituale e amore carnale e non suggerisce analogie tra l’uno e
l’altro. […] L’innocenza dell’amore erotico all’interno della creazione buona, al di là del
bene e del male, è uno spazio riaperto dal Cantico» (755). Riletto alla luce della Genesi, «il
Cantico diventa un testo religioso in quanto vi si può cogliere la parola di un Dio
silenzioso e innominato, indistinguibile dal potere di attestazione di sé dell’amore. […] Da
un lato, l’amore divino investito nell’alleanza di Israele e poi nel legame con Cristo, con la
sua metaforica nuziale assolutamente originale; dall’altro, l’amore umano investito nel
legame erotico, con la sua metaforica parimenti originale che trasforma il corpo in una
sorta di paesaggio» (c756).
55
6.
Opera aperta
♦ Opera aperta è nel libro di Aime una sorta di appendice, «una lettura complessiva
del pensiero di Ricoeur nel segno del dialogo e della domanda aperta» (760), una breve
rotta che riprende e sintetizza, ma nello stesso tempo amplia e proietta in avanti le
principali tesi presentate. Conclude nell’elaborazione un testo ormai chiamato, sulla scia
del percorso attuato, a diventare opera, quindi a riaprirsi quale fonte di esistenza. Di
questa sezione finale si rimanda ad una lettura diretta e completa per il denso
concentrato di contenuti nella sintesi che li costituisce e la cui ripresa risulterebbe
difficilmente praticabile. [Cf. pp. 759-785].
Legenda
1. Quando da una medesima pagina sono tratte più citazioni, il numero della pagina è
riportato soltanto nell’ultima di esse.
2. La lettera « c » che precede il numero della pagina indica che il passo ripreso dal testo di
Aime costituisce una citazione da un’opera di Ricoeur. Le citazioni dalle opere di Ricoeur
che vengono a trovarsi dentro i passi riprodotti sono indicate dall’uso delle virgolette
alte. Le opere di Ricoeur da cui le citazioni sono riprese sono solitamente indicate.
Quando non lo sono, o è perché l’opera da cui sono riprese è evidente dal contesto,
oppure perché si tratta di opere meno note.
3. Sono evidenziati in grassetto i titoli dei capitoli, con la doppia sottolineatura quelli dei
paragrafi, con la semplice sottolineatura quelli dei sottoparagrafi, il tutto mediante
espressioni non sempre corrispondenti a quelle reperibili nella fonte.
56
5
Antologia
Dal saggio di PAUL RICOEUR:
«Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato»
Il Mulino, Bologna 2004
…
Pagine 57-62:
… … … … …
57
…
Oeuvres de Paul Ricoeur
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19.
20.
(Avec MIKEL DUFRENNE): Karl Jaspers et la philosophie de l’existence, Éditions du
Seuil, Paris 1947.
Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe,
Temps présent, Paris 1948.
Philosophie de la volonté. Tome I: Le volontaire et l’involontaire, Aubier-Montaigne,
Paris 1950.
Æ Filosofia della volontà. 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990.
Histoire et vérité, Éditions du Seuil, Paris 1955.
Æ Storia e verità, Marco Editore, Cosenza 1994.
Philosophie de la volonté. Tome II: Finitude et culpabilité. 1. L’homme faillible; 2. La
symbolique du mal, Aubier-Montaigne, Paris 1960.
Æ Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970.
De l’interprétation. Essai sur Sigmund Freud, Éditions du Seuil, Paris 1965.
Æ Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1966, 2002.
Entretiens Paul Ricoeur - Gabriel Marcel, Aubier-Montaigne, Paris 1968.
Æ Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, Edizioni Lavoro, Roma 1998.
Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Éditions du Seuil, Paris
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(Avec EBERHARD JÜNGEL): Metapher. Zur Hermeneutik religiöser Sprache, Chr.
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Être, essence et substance chez Platon et Aristote, SEDES, Paris 1982.
Temps et récit. Tome I: L’intrigue et le récit historique, Éditions du Seuil, Paris 1983.
Æ Tempo e racconto. Vol. I, Jaka Book, Milano 1986.
Temps et récit. Tome II: La configuration dans le récit de fiction, Éditions du Seuil,
Paris 1984.
Æ Tempo e racconto. Vol. II: La configurazione nel racconto di finzione, Jaka Book,
Milano 1987.
Temps et récit. Tome III: Le temps raconté, Éditions du Seuil, Paris 1985.
ÆTempo e racconto. Vol. III: Il tempo raccontato, Jaka Book, Milano 1988.
Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, II, Éditions du Seuil, Paris 1986.
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À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986.
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Æ Percorsi del riconoscimento. Tre studi, R. Cortina, Milano 2005.
64
Indice
* Sulle tracce di un progetto didattico
p.
2
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”
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3
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18
Pensiero biblico e pensiero filosofico
”
18
– Bibliografia ricoeuriana (abbreviazioni nel testo)
”
19
1. Il cogito concreto e l’ermeneutica
2. Narrazione, identità, perdono
Il soggetto tra continuità e discontinuità
Il perdono come forma del riconoscimento
p.
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– Bibliografia
”
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1
Una filosofia riflessiva: tra autoritratto ed avventura relazionale
ORESTE AIME
1.
2.
3.
4.
5.
Ciò che dà a pensare
Una filosofia del soggetto
Nel mondo e nella storia
Un filosofo legge la Bibbia
Filosofia e teologia
2
Leggere e pensare la Bibbia
ORESTE AIME
a) DALL’ESEGESI ALL’ERMENEUTICA
1. Alla ricerca del metodo
Tra Heilsgeschichte ed ermeneutica esistenziale
Dall’esegesi storico-critica all’ermeneutica
La lettura
I generi letterari
Il Grande Codice
Un’interpretazione poetica
2. Questioni di ermeneutica
Il circolo ermeneutico
Il mondo del testo: l’essere nuovo
Il mondo del lettore
b) EN PHILOSOPHE: IL PENSIERO DELLA BIBBIA
3
L’identità narrativa e il perdono nel pensiero di Paul Ricoeur
ALBERTO MARTINENGO
65
4
Uno sguardo all’opera di Paul Ricoeur
Tra sintesi e scorci panoramici sul saggio di Oreste Aime:
«Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur»
PIER GIUSEPPE PASERO
*
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Dai testi di Ricoeur a un testo su Ricoeur
Una filosofia riflessiva (parte prima)
Fenomenologia ermeneutica e ontologia (parte seconda)
Uomini nel tempo (parte terza)
Antropologia filosofica (parte quarta)
La filosofia e il suo altro (parte quinta)
Opera aperta
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”
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”
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1. Quello che la memoria insegna alla storia
2. Il perdono
Perdono e oblio
Donare e perdonare
Il perdono difficile
”
”
”
”
”
57
59
59
60
62
– Oeuvres de Paul Ricoeur
”
63
– Indice
”
65
– Legenda
5
Antologia
Da PAUL RICOEUR
«Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato»
Il Mulino, Bologna 2004
Immagine di copertina:
REMBRANDT, Aristotele contempla il busto di Omero
(1653. Metropolitan Museum of Art - New York)
Elaborazione del testo:
Agosto - Ottobre 2008
E-mail:
[email protected]
[email protected]
[email protected]
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Scarica

6 - Liceo Classico D`Azeglio