Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO
EDITORIALE
Ai lettori
di Gigi Anataloni
DALLA PARTE DEI POVERI
il tema che la Chiesa italiana propone per questo Ottobre missionario come risposta a papa
Francesco il quale ha ricordato ai direttori delle Pontificie Opere Missionarie che «L’evangelizzazione, che deve raggiungere tutti, è chiamata a partire dagli ultimi, dai poveri, da quelli che
hanno le spalle piagate sotto il peso e la fatica della vita. [...] La Chiesa è il popolo delle beatitudini, la casa dei poveri, degli afflitti, degli esclusi e dei perseguitati, di coloro che hanno fame e sete
di giustizia. A voi è chiesto di operare affinché le comunità ecclesiali sappiano accogliere con amore
preferenziale i poveri, tenendo le porte della Chiesa aperte perché tutti vi possano entrare e trovare
rifugio» (Ai direttori delle PP.OO.MM., 9 maggio 2014).
Essere dalla parte dei poveri è nel Dna della Chiesa fin dalle sue origini, anche se spesso uomini di
Chiesa hanno tradito questo ideale. È un impegno che nei secoli ha generato miriadi di attività e per il
quale centinaia e centinaia di santi hanno dato la vita, non ultima la nostra beata Irene. Ma dove c’è
«il grano» trovi sempre anche «la zizzania». Già san Giacomo se la prendeva con i cristiani che davano i primi posti ai ricchi impomatati e cacciavano in un angolo i poveri puzzolenti (Gc 2,1-4). E se fosse tra noi oggi, cosa direbbe a noi cristiani del «bel paese»?
Nella nostra bella Italia ci sono due facce della stessa medaglia: da una parte una generosità incredibile ed eroica, dall’altra una durezza di cuore da vergognarsi. L’Italia che amo ha un cuore grande che
batte in milioni di volontari, negli angeli del fango, in chi è impegnato in migliaia di onlus, in chi sostiene l’adozione a distanza, nei gruppi missionari, nei benefattori e amici di missionari e volontari,
nei laici impegnati, in chi lotta per la pace e la giustizia e sfida la mafia e la camorra, in chi accoglie rifugiati, fuggitivi e migranti senza se e senza ma... L’altra faccia ha il volto dello sfruttamento della
prostituzione dove mafia e camorra e cartelli di trafficanti di uomini prosperano al servizio dei gusti
perversi di clienti insospettabili; delle industrie agroalimentari a caccia di tutto quello che costa meno anche sapendo di sfruttare migliaia di lavoratori schiavizzati da caporalati criminali e mafiosi; dei
politici che cavalcano e alimentano le paure della gente con l’occhio ai sondaggi e poi non fanno il loro dovere al servizio del bene comune persi come sono nelle loro diatribe, ripicche, ricatti; dei giornalisti che provano un godimento morboso nello scrivere di «invasioni, masse, conquiste, furti, violenze, contagi e contaminazioni», dimenticando che paesi molto più poveri del nostro hanno accolto
centinaia di migliaia di fuggitivi, rifugiati e migranti senza fare tutte le storie che facciamo noi che pure abbiamo tantissimi alloggi sfitti, interi paesi disabitati e abbandonati e un gran numero di posti lavoro nell’agricoltura, nei servizi e nell’artigianato rifiutati dai più; dei super cristiani che nella difesa
della purezza della religione vogliono insegnare il mestiere al papa che si permette di mettere in discussione il loro perbenismo affumicato d’incenso ed esteriorità.
È
lettori di questa rivista senza pretese sanno bene che stare dalla parte dei poveri fa bene allo spirito e alla società, e non amano gli slogan, il vociare per sentirsi e farsi sentire. Essere amici dei
missionari significa condividerne la scelta preferenziale per i poveri ovunque essi siano. E non solo con un aiuto economico, ma soprattutto con uno stile di vita che parte dal cuore. Solo qualche
settimana fa, era il 30 agosto, il Vangelo ci ha ricordato che l’inquinamento delle persone viene dal di
dentro. Gesù ha elencato 12 fattori di inquinamento, tra cui avidità, inganno, malvagità e superbia.
L’avidità, che san Paolo definisce come idolatria, fa perdere il baricentro: non si pensa più secondo il
progetto d’amore di Dio, ma si diventa schiavi del denaro, del potere, delle cose, del proprio piccolo
mondo. Guai a chi lo tocca. La malvagità ha molte forme, una è particolarmente pericolosa: il godimento nel diffondere informazioni sbagliate e diffamanti sugli altri. La superbia o arroganza mette il
«sé» al centro e rifiuta ogni confronto e dialogo. L’inganno, tra le sue molte facce, fa passare per vero
quello che è spudoratamente falso.
Bisogna reagire a questo inquinamento, che è come una polvere sottile che ci penetra e ci corrompe.
La cura è quella indicata dal papa: rimanere accoglienti verso i poveri, i migranti, i rifugiati, i disperati,
i senza lavoro, chiunque sia nel bisogno, senza distinguo. Stare dalla parte dei poveri ci aiuta a rimanere umani, a mantenere il cuore limpido, ad avere le mani libere per accogliere, abbracciare, accarezzare, consolare, aiutare e ricevere.
Stare dalla parte dei poveri fa bene a noi, fa bene alla Chiesa, fa bene alla società.
I
OTTOBRE 2015 MC
3
SOMMARIO
10 | OTTOBRE 2015 | ANNO 117
3 ai lettoRi
DALLA PARTE DEI POVERI
Il numero è stato chiuso in redazione il 14 settembre 2015.
La consegna alle poste di Torino è avvenuta
prima del 30 settembre 2015.
di Gigi Anataloni
5 dai lettoRi
CARI MISSIONARI
(lettere a MC)
ARTICOLI
OSSIER
10
10 nigeR
CHIESA, DIALOGO
CONTRO TERRORE
di Marco Bello
17 mondo Consolata
DUE ISTITUTI
UNA MISSIONE
27
17
RoRaima: gli Yanomami e i 50
anni di CatRimani (1965-2015)
l’inContRo (nohimayou)
di Romina Remigio
59 tuRChia
IL RITORNO DELL’IMPERO?
di STEFANO CAMERLENGO, CORRADO
DALMONEGO, GUGLIELMO DAMIOLI,
LAURINDO LAZZARETTI, CARLO
MIGLIETTA, PAOLO MOIOLA, DANIELE
ROMEO, SILVIA ZACCARIA
di Enrico Casale
63 CoRea del sud
LA CONSOLATA
SI È FATTA COREANA
63
di Diego Cazzolato
RUBRICHE
NOVITÀ
24 miseRiCoRdia Voglio
1. FRANCESCO, PAPA PROFETA
08 Chiesa nel mondo
65
di Sergio Frassetto
65 CoopeRando
TTIP, SOGNO O INCUBO?
di Chiara Giovetti
79 i peRdenti /7
ANTÔNIO CONSELHEIRO
di Paolo Farinella
82 peRsone
Che ConosCo
IL PAPA DEL SUD E IL
RISVEGLIO DI UN CONTINENTE
di Gianni Minà
di Mario Bandera
69 amiCo
24
amico
a cura di Luca Lorusso
IN COPERTINA:
donna yanomami alla missione
sul Rio Catrimani
(foto di: Silvano Sabatini).
STRUMENTO
DI FORMAZIONE MISSIONARIA
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MC OTTOBRE 2015
WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT
DAI LETTORI
Cari mission@ri
VOLONTARIATO
Carissimi,
ho appena finito di leggere l’interessante, e in
gran parte condivisibile,
esperienza del volontario
Alberto Zorloni (MC 89/2015 p. 51). Non ho let-
to il libro, ma quanto
scrive Marco Bello, per
me, è più che sufficiente,
chiaro e circostanziato
sulla vita di Alberto.
Sono un professore universitario di lingua araba, in pensione, appena
rientrato dalla Guinea
(grazie a Dio senza ebola!) completando così i
miei primi 13 anni di volontariato. I primi 5 anni
in Medio Oriente, precisamente la Palestina,
dove ho potuto dare sfogo e sfoggio della lingua
locale e ricevere i migliori apprezzamenti e incredulità di fronte alla mia
ottima loquacità. Quindi
sono approdato in Africa,
passando in vari paesi:
Egitto, Darfour, Sudan,
Burundi, Sud Sudan, e ora, per la terza volta, in
Guinea: canto ogni giorno «misericordias Domini in aeternum cantabo».
Vi scrivo per complimentarmi dell’esperienza di
Alberto e volevo non solo
abbracciarlo ma, soprattutto, incoraggiarlo a
continuare nel testimoniare quei valori di «ieri»
che saranno la sua corona e il suo trofeo, non da
parte di qualche Ong, ma
dei bambini, delle persone, dei bisognosi che avrà incontrato. Dico
spesso anch’io: «Gli occhi dei bambini africani
mi giudicheranno». La
mia attività è stata ed è
nel campo educativoscolastico e ne vale veramente la pena: ciò che
ho e ricevo è molto di più
di quanto cerco di dare.
Quindi, bravissimo
Alberto e sempre alla
grande: questa è una
grande sfida e dobbiamo
fare di tutto per lasciare
questo bel mondo un po’
migliore di come l’abbiamo ricevuto.
Un abbraccio,
Gianni Foccoli
12/08/2015
un parcheggio multipiano, il tutto costruito con
le offerte raccolte tra la
gente delle parrocchie di
Nairobi.
La Chiesa permette ai
suoi pastori di ripetere i
grandi errori della sua
storia? Almeno nel Medioevo era stata costruita
la basilica di San Pietro
con i soldi della povera
gente... L’arcivescovo di
Nairobi non vede più gli
occhi degli street boys
perché forse la sua automobile ha i vetri oscurati? Vorrei fargli arrivare il
messaggio che sono sicura che sono altre le opere di cui necessitano i
suoi fratelli e sorelle kenioti: mi vengono in
mente promozione sociale e umana, tutela
dell’infanzia, formazione
ad un mestiere onesto,
come ci hanno indicato i
miei compaesani padre
Allamano e don Bosco.
Grazie e cordiali saluti,
Caterina S.
22/07/2015
Gentile Caterina,
conosco il progetto a cui
lei si riferisce: riguarda
un’area proprio nel centro
di Nairobi, dietro alla cattedrale. Quando ho lasciato il Kenya a metà del
2009 non era ancora stato
realizzato, ma era in discussione ormai da molti
anni. Per questo posso
precisare i seguenti punti.
1. Il progetto, chiamato
«Cardinal Otunga plaza»,
è un edificio di nove piani
con l’interrato. Sei piani
COI SOLDI DEI
POVERI?
Caro padre Gigi,
lei non può ricordarsi di
me, ma io mi ricordo
molto bene di lei perché
l’ho incontrata durante il
mio primo viaggio in
Kenya nel 1991, quando
lei era missionario a Maralal. Sono tornata laggiù altre volte negli anni
per accompagnare mio
marito che aiutava i missionari come falegname
e fabbro. In particolare
nel 1998 eravamo a Karaba, dal caro amico padre Alex Moreschi (19442011), quando abbiamo
avuto l’onore di conoscere e pranzare con il vescovo John Njue (allora
primo vescovo di Embu)
in occasione di una grande festa della chiesa locale. Oggi però non lo
considero più un onore,
alla luce delle notizie da
me apprese da fonti sicure: lussuosi palazzi a
uso ufficio ed affitto per
le banche, e il progetto di
OTTOBRE 2015 MC
5
[email protected]
[email protected]
sono di uffici da affittare,
mentre gli ultimi tre sono
riservati per le attività
della diocesi. È costato
cinque milioni di euro ed è
stato inaugurato il 23 agosto 2013. Ma tale costruzione non è frutto della
fantasia del card. Njue.
Quando lui è diventato arcivescovo di Nairobi, nel
2007, il progetto era già in
stato molto avanzato, approvato dall’arcivescovo
precedente, dal Consiglio
economico e dal Consiglio
presbiterale dell’arcidiocesi e dalle autorità civili
competenti.
2. All’origine del progetto
c’è il desiderio della Chiesa di Nairobi di rendersi
indipendente dalle donazioni fatte dalle Chiese
sorelle d’Europa e d’America, e dai sussidi di Propaganda Fide. Essendo
chiaro che le offerte dei
fedeli non sono sufficienti
per le spese che una diocesi in continua crescita
deve affrontare (seminario, sacerdoti, uffici, nuove parrocchie - ce ne vorrebbero subito almeno 40
nuove di zecca: terreno,
chiesa e strutture parrocchiali) e che non si può
contare in eterno sulle
donazioni dall’estero (in
diminuzione, anche per la
crisi economica generalizzata), la Chiesa del
Kenya ha lanciato una politica per «contare sulle
proprie forze» (self-reliance) e «auto sostenersi» (self-supporting).
3. Per quanto il progetto
sia discutibile, l’idea è valida, anche se il vecchio
giardino dietro alla cattedrale era più romantico.
Una volta pagati i debiti,
sarà un investimento sicuro, pulito e duraturo,
pur rimanendo sempre un
fattore di rischio: l’uomo.
Infatti quando ci sono di
mezzo molti soldi, anche
dei buoni cattolici possono essere tentati dalla
corruzione. Forse per
questo hanno dedicato la
«plaza» (un nome che ben
si associa con «affari») al
card. Otunga (1923-2003)
che era invece un uomo
6
MC OTTOBRE 2015
molto sobrio e staccato
dai soldi, un santo.
4. Il card. John Njue rimane sempre lo stesso: guida personalmente la sua
auto, che non ha i vetri oscurati, ed è sempre molto attento alle necessità
dei suoi fedeli, sapendo
bene che solo un milione
degli abitanti di Nairobi è
benestante o davvero ricco, mentre gli altri quattro
(o più) milioni vivono sotto
il livello di povertà.
5. Il parcheggio multipiano. Non ho informazioni
in merito, ma tenendo
conto del traffico ipercongestionato di Nairobi e
della cronica mancanza di
parcheggi nel centro storico della città dove si trova la cattedrale, ritengo
che anche questo potrebbe essere un investimento
intelligente. A mio parere
la questione dovrebbe essere vista come un fatto
positivo, perché segna
un’inversione di tendenza: invece di continuare a
elemosinare aiuti dalle
Chiese sorelle, la Chiesa
d’Africa sta cominciando a
valorizzare le risorse locali per rispondere ai suoi
crescenti bisogni.
DIO CERCA
L’UOMO
Cari, anzi,
carissimi missionari,
prima di tutto grazie di
seguitare a mandarmi la
vostra rivista… ho ormai
compiuto 90 anni, ma
non ho mai finora trovato
stampa che chiamasse
pane al pane e vino al vino senza paure né timidezze, svelando le occulte (ma non tanto) violenze dei potentati.
Però ogni qual volta finisco di leggere sono impaurita del potere demoniaco che sta stravolgendo la vita dei terrestri,
sottomettendoli al predominio del potere e dell’avere.
Certo, Cristo, e il suo popolo, cioè il corpo mistico, seguiteranno a essere perseguitati fino alla
fine del mondo. E questo
mi spaventa.
Perché vi scrivo? Sì, sono
forse presuntuosa e un
po’ sfacciata. Ma voglio
dirvi una cosa che mi pare assai importante. L’apertura agli altri - anche
alle altre religioni - mi fu
insegnata fin dai 18 anni.
Mi fu insegnato che tutti
gli onesti davanti a Dio,
appartengono al Logos,
sono il Suo corpo mistico
- anche se non lo sanno.
Ma mi fu pure insegnato,
che non tutte le religioni
sono pari, come sembra
indicare un certo sincretismo religioso che si va
diffondendo a macchia
d’olio.
Mi fu insegnata una verità senza la quale non
so davvero se avrei potuto appartenere a una
Chiesa che, allora, predicava più che altro un
perbenismo molto borghese e ipocrita, chiusa
nelle forme esteriori,
senza vita spirituale. La
verità è che il Cristianesimo non è una religione,
(ma) è una rivelazione!
Fin da quando Abramo
parte da Ur, è Dio che lo
muove, e attraverso i secoli parla per mezzo dei
profeti al popolo «di dura
cervice», sempre disposto all’idolatria, correggendolo e sostenendolo
perché «i tempi sono
maturi». Allora Dio si fa
addirittura uomo.
È forse questa verità che
fa paura alla gente?
Anche sfrondando tutte
le sovrastrutture – liturgiche e filosofiche –, la
base è questa. Non è
l’uomo che cerca Dio, ma
Dio che si rivela all’uomo. E se Gesù non fosse
risorto, dimostrando di
non essere un invasato, e
se chi lo ha visto risorto
(dichiarando di aver faticato a crederlo risorto)
non avesse preferito morire che negare la verità,
saremmo stolti a esser
cristiani.
Dio seguita a cercare
l’uomo. Ma l’uomo è assente e sordo. E specie
ora che l’uomo si sente
molto «evoluto», fa fatica
a credere al Risorto.
Sbattiamo continuamente in faccia la verità incredibile.
Scusatemi, ma mi vedo
intorno tanta nebbia. Fate chiaro voi! A tutti!
Pina Tiezzi Moscaldi
Asciano (Si), 01/08/2015
PADRE TARCISIO
Vi sono grato per aver ricordato il fante, il semplice, il piccolo grande
Tarcisio (Crestani). L'ho
incontrato nella missione di Mater Dei a Kimbondo, Kinshasa, dieci
anni fa. Mi ha dato molte
chiavi per conoscere la
Rdc. L’avevo conosciuto a
Torino nei primi anni
Settanta e poi più nessuna sua notizia. Quando
glielo dissi mi rispose:
«Caro mio, sono stato dimenticato, da 30 anni
nessuno mi ha mai cercato, non sono nessuno».
E invece quanto conta
essere semplice (la sua
camera aveva solo l'essenziale) per essere in
sintonia con le persone
che incontri. Grazie Tarcisio
Viaggi in rete? Scopri
lo sfogliabile di MC.
Maurizio M.
02/08/2015
Sfoglia la rivista online:
www.rivistamissioniconsolata.it
con un click giri le pagine,
scarichi in pdf quel che ti interessa,
ricerchi una parola,
ingrandisci a piacimento...
Cari mission@ri
Scusate se mi permetto
un piccolo ricordo. Padre
Tarcisio lo conoscevo, o
meglio l’ho conosciuto,
quando avevo tre anni
(34 anni fa). Allora gli ho
regalato il fiocco rosa
che era stato appeso alla
porta della nostra casa
perché era appena nata
la mia sorellina. Mi avevano detto che stava partendo per l'Africa, così
poteva portarlo a quei
bambini là, che non ce
l’avevano.
Di lui mi ricordo un enorme barbone nero e
crespo, così lungo che
mentre mi spingeva con
il triciclo mi faceva il
solletico!
Forse anche lui si ricorda
di me, da lassù, e sorride
insieme a zio Benedetto
(Bellesi) di quel lontano
episodio.
salutatelo, poiché chi lo
saluta partecipa alle sue
opere perverse» (2Gv 1011).
Non ho bisogno di aggiungere altro alle sante
parole; soltanto la diffido
dal mandare ancora al
mio domicilio la sua rivista, né ricevere alcuna
risposta.
Lettera firmata
07/08/2015
Alice Bellesi
18/08/2015
SVENDITORE
DI CRISTO
Al signor (o padre) Gigi
Anataloni,
sostenitore dei negatori
di Cristo (musulmani).
Sono il marito di una vostra lettrice e ho letto
con vivo rincrescimento
e sgomento il suo editoriale su Missioni Consolata del luglio u.s. Rilevo
che anche lei fa parte di
quei cristiani che sono
pronti a svendere Cristo
e il cristianesimo purché
si dica di loro che sono a
posto e accoglienti, cioè
buoni e considerati tali
dalla maggioranza dominante cattocomunista e
massonica.
Vorrei portare alla sua
attenzione le parole dell’apostolo Giovanni nelle
sue lettere: «Chi è menzognero se non colui che
nega che Gesù è il Cristo? (musulmani). L’Anticristo è colui che nega il
Padre e il Cristo» (1Gv 2,
22). E ancora: «Se qualcuno viene a voi e non
porta questo insegnamento (di Cristo) non ricevetelo in casa e non
In quasi quarant’anni di
servizio missionario nella
stampa me ne sono sentite dire molte, ma mai di
essere uno che svende
Cristo. A «cattocomunista» mi ero abituato, ma
questa mi mancava. Comunque non è niente in
confronto a quanto si
stanno sentendo dire i vescovi italiani, con mons.
Galantino in testa, e soprattutto a quanto viene
vomitato sul nostro amato
papa Francesco.
se con una democrazia
al limite della dittatura,
perché il governo ha in
mano tutte le leve del
potere e di tutti gli organismi di contrappeso. Il
che permette a Maduro
di dire che il sig. Lopez,
che è in carcere in attesa
di giudizio, è un assassino e va condannato. Questo è qualcosa di impensabile in qualsiasi paese
democratico. La situazione economica è disastrosa perché gli ammanicati al potere hanno
fatto sparire negli ultimi
15 anni qualcosa come
250 miliardi di dollari (è
un dato ormai accettato
da tutti). Il regime attuale
in Venezuela assomiglia
molto al fascismo. Il sig.
Moiola dovrebbe riportare non solo interviste di
compiacenti al governo,
ma anche i dati economici del paese.
Mi dispiace che una rivista del calibro di Missioni
Consolata cada nel racconto della verità.
Distinti Saluti
Alvise Moschen
04/08/2015
VENEZUELA
PRO E CONTRO
Egregio Direttore, ho letto con attenzione gli articoli dedicati al Venezuela
nel numero di agostosettembre. Sono stupefatto della superficialità
con cui si descrive la Venezuela di oggi, e delle
affermazioni dei due personaggi intervistati. Ma
questo è il tipico modo di
operare del sig. Moiola:
non dare mai numeri o
cifre a supporto di una
tesi.
La Venezuela di oggi, e la
conosco bene, è un pae-
Salve! Conosco e apprezzo il lavoro dei missionari
e delle missionarie della
Consolata in vari paesi.
Ora ho avuto modo di apprezzare anche il lavoro
della rivista (che comincerò a seguire); grazie ai
servizi di Paolo Moiola
sul Venezuela. Danno voce a persone che in Venezuela vivono, e che
presentano un quadro
ben diverso da quello offerto dalla dittatura mediatica internazionale e italiana, la stessa che
aiuta guerre devastanti
(in Medioriente e Africa)
con la disinformazione.
Cordiali saluti
Marinella Correggia
Torri in Sabina (Ri),
18/08/2015
Due opinioni opposte sullo stesso articolo, riflesso
della difficoltà che si incontra a voler conoscere
la verità e scrivere su situazioni complesse e polarizzate come quella del
Venezuela e di altri paesi.
È un dato di fatto che gran
parte dell’informazione
che arriva sui nostri quotidiani o sui nostri notiziari televisivi è controllata
da poche agenzie fortemente interconnesse con
gli interessi europei e
nordamericani. Pochi
giornali o televisioni possono permettersi oggi di
avere propri corrispondenti in loco.
Noi non abbiamo la pretesa di fare concorrenza ai
grandi network, non è il
nostro scopo. Ma siamo liberi da influenze politiche
o economiche, e abbiamo
un vantaggio: la libertà di
contattare testimoni sul
posto, possibilmente testimoni fuori dal coro, che
non cantino lo stesso
spartito di tutti gli altri. Al
lettore la valutazione e il
confronto.
Circa il nostro giornalista, non è vero che sia tipico suo «non dare mai
numeri o cifre a supporto
di una tesi». Paolo è un
professionista serio e
preciso e basta una rapida scorsa ai suoi articoli
pieni di box, cartine e tabelle per avere la conferma della sua accuratezza,
a volte persino pignola. La
stessa professionalità l’ha
posta nello scrivere l’articolo che il sig. Moschen
critica, anche se forse, in
questo caso, s’intuisce
simpatia e una severità
meno accentuata del solito nel porre domande
alle sue fonti.
OTTOBRE 2015 MC
7
La Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto
CUBA
UN LOGO PER IL PAPA
proposto dal governo cubaper la visita di Papa FranceIsco,lnositoeffettuata
dal 19 al 22 settembre scorsi, presentava come logo
una grafica centrata sul messaggio di fratellanza e amore frutto
della misericordia divina. Un cuore rosso, una mano gialla che regge una croce blu, i simboli della visita apostolica di Papa Francesco
a Cuba offrivano un messaggio
molto chiaro di questo evento, insieme alla foto del Papa. «L’identità visuale parte dal concetto e
dall’immagine religiosa di Gesù
Divina Misericordia, che è parte
del programma liturgico e del
messaggio che Papa Francesco
porterà a Cuba», così l’introduzione al nuovo sito web, fatto dal governo cubano, in vista della visita
del Pontefice. Gli elementi simbolici della mano, del cuore e della
croce, insieme ai colori, identificano la misericordia e l’amore. «Il
gesto della mano è associato al
saluto e a gesti rituali propri della
religione cattolica. Trasmettono
anche umanesimo e fratellanza.
La croce identifica il carattere religioso. Sono presenti i colori della
nostra bandiera insieme alla stella solitaria che indica il carattere
nazionale».
(Fides)
CINA
INDOSSA LA CROCE
na campagna «ecumenica»
per costruire in casa e portare
U
ovunque la croce, simbolo del cristianesimo, unisce in questi giorni
i cattolici e i protestanti della provincia orientale del Zhejiang. L’area è da tempo al centro di una
politica di demolizione di chiese e
croci, ordinata dalle autorità locali
per presunti «abusi ai regolamenti edilizi». In realtà, lo scopo è
quello di recuperare terreni in vista di un futuro ricco sviluppo edilizio. Di qui la protesta coraggiosa
del clero di Wenzhou che in una
lettera aperta esorta: «Basta rimanere in silenzio! Gridiamo per
salvare le nostre croci!». Tutti coloro «che hanno a cuore la giustizia» sono invitati a intervenire in
maniera pacifica e secondo la legge per fermare la campagna di
demolizioni in corso nel Zhejiang.
I funzionari che la portano avanti,
continua la lettera, «agiscono per
vendetta» e «devono essere portati davanti alla giustizia». I sa-
cerdoti si dicono «pronti a tutto,
anche alla morte, per fare ciò che
è giusto». E assicurano: dove viene demolita una croce «là ne sorgeranno a milioni». A questa protesta si unisce ora l’impegno di
costruirsi la croce in casa. Una
campagna online, condivisa da
cattolici e protestanti, invita i fedeli a costruirsi in casa la propria
croce e a indossarla ovunque. Una
risposta pacifica e non violenta alla campagna delle autorità contro
il simbolo religioso.
(AsiaNews)
INDIA
PELLEGRINAGGIO
l 15 agosto scorso è partito da
Varanasi il Tyagarchana Shanti
IYatra
(Tsy), un pellegrinaggio di
pace che durerà 100 giorni e toccherà 125 città dello stato dell’Uttar Pradesh, il più grande e popoloso dell’India. Lo scopo è quello
di promuovere la cooperazione interreligiosa e l’armonia tra le sue
varie comunità religiose. È stato
scelto l’Uttar Pradesh come luogo
di pellegrinaggio perché qui si sono verificati più casi di violenza di
matrice religiosa nel 2013: oltre
250, soprattutto tra indù e musulmani. Padre Anand, coordinatore
dell’iniziativa, ha spiegato che per
dare risalto ai valori di pace, armonia, amore, perdono e amicizia,
atti a promuovere l’unione nella
diversità della composita cultura
dell’India, durante il pellegrinaggio si terranno manifestazioni, seminari, programmi culturali e veglie di preghiera in scuole, istituti
educativi e nelle piazze pubbliche
di villaggi e città.
(AsiaNews)
# Cuba - il logo preparato dal
governo per la visita del Papa.
8
MC OTTOBRE 2015
La Chiesa nel mondo
INDONESIA
LA PIU’ ALTA DEL MONDO
lmeno 30 mila persone, provenienti da centinaia di parrocA
chie, si sono radunate domenica
16 agosto a Gua Maria (La grotta di
Maria) di Ambarawa per la benedizione della statua dedicata alla
Madonna più alta al mondo. I fedeli
hanno così festeggiato il 61° anniversario del santuario mariano, il
secondo per importanza dello Java
centrale. Sette vescovi hanno presieduto la messa, insieme a 15 sacerdoti dell’arcidiocesi di Samarang. Conclusa la funzione, l’arcivescovo Johannes Pujasumarta,
utilizzando una gru, ha cosparso di
acqua benedetta la statua di Santa
Maria Assunta, alta 42 metri. Tre
scultori religiosi locali - Kuncoro
(45), Adi Nugroho (40) e Agung
Hartanto (38) - hanno progettato il
monumento, che sorge nei pressi
del santuario. Il trio è molto famoso per avere ideato decine di statue a tema religioso in tutto il paese. Una settimana prima della celebrazione, il santuario ha ospitato
un convegno interreligioso a cui
hanno preso parte anche alcuni
leader musulmani insieme ai loro
studenti, che hanno compiuto una
danza sufi all’ombra della statua
dell’Assunta.
(AsiaNews)
promuovere un anno della riconciliazione a livello continentale per
chiedere a Dio un perdono speciale per tutti i mali e le ferite che gli
esseri umani si sono inflitti gli uni
gli altri in Africa, e affinché si riconcilino le persone e i gruppi che
sono stati offesi nella Chiesa e
nell’insieme della società».
(Radio Vaticana)
AFRICA
l Card. Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, ha riferito che
Idurante
un suo recente incontro
RICONCILIAZIONE
n occasione del suo 46° anniversario di fondazione, il Simposio
Idelle
Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) ha indetto uno speciale Anno Africano
per la Riconciliazione. Dedicato al
tema «Un’Africa riconciliata per una pacifica coesistenza», l’anno è
stato lanciato il 29 luglio con una
solenne celebrazione eucaristica
ad Accra, in Ghana, e si concluderà il 29 luglio 2016, durante la
17ª Assemblea plenaria dell’associazione in Angola. L’iniziativa risponde all’invito rivolto nel 2011
da Benedetto XVI agli episcopati africani nell’Esortazione apostolica
post-sinodale Africae Munus «a
FILIPPINE
IL FUTURO DELLA CHIESA
con il Papa ha chiesto al Pontefice
di non essere eletto a capo della
Caritas Internationalis e della Federazione Biblica Cattolica, ma il
Pontefice ha rifiutato dicendo di
volervi un asiatico, perché «Il futuro della Chiesa è in Asia». «Non è
una questione d’onore - ha detto il
Cardinale -, ma sicuramente è un
tema di grande responsabilità, una grande missione». La Chiesa in
Asia, ha aggiunto, «prende sul serio la nostra missione ed è in cerca di metodi che ci permettano di
dare un contributo alla Chiesa
mondiale, in termini di riflessione,
ricerca e prassi».
(News cattoliche)
COSTA D’AVORIO: DIALOGO INTERRELIGIOSO
l Nord della Costa d’Avorio, soprattutto a Dianra, il dialogo interreligioso è una necessità e una sfida
nello stesso tempo che ispira un cammino fatto di piccoli passi. Viviamo in un ambiente caratterizzato da una forte presenza musulmana. Di fronte a questa realtà possiamo chiuderci nella nostra
piccola cerchia di cristiani, oppure possiamo aprirci al contatto con gli altri e cercare vie d’amicizia e collaborazione a progetti in comune. Abbiamo scelto l’amicizia e «il dialogo delle opere»: un lungo cammino
che conduce a quello che il Vangelo chiama il Regno di Dio. Il nostro dialogo interreligioso con l’ambiente
musulmano si concretizza in una relazione di amicizia, visite reciproche in occasione delle grandi feste
islamiche o cristiane e partecipazione ai nostri progetti di promozione umana e sociale, ecc. Una buona
parte delle persone che beneficiano dei nostri progetti di salute, alfabetizzazione o microcredito sono musulmane. Il medico responsabile del nostro centro di salute «Giuseppe Allamano» è un musulmano che ci
edifica per la sua competenza, onestà e religiosità e la
stessa cosa possiamo dire di molte altre persone con
le quali viviamo e lavoriamo. La situazione attuale del
mondo, a cominciare dai paesi vicini alla Costa d’Avorio, ci invita a proseguire su questo cammino. Il fondamentalismo, il terrore e l’intolleranza sono molto
vicini a noi e più che una sfida costituiscono una minaccia. Facciamo nostro il pressante appello di Papa
Francesco ai diversi gruppi di vescovi dell’Africa dell’Ovest di approfittare di ogni occasione per creare
dialogo e amicizia.
Imc
A
# Costa d’Avorio - i padri della missione di Dianra: Boniface
Sambu-Sambu, Manolo Grau e Matteo Pettinari.
OTTOBRE 2015 MC
9
NiGer
© Marco Bello
di MARCO BELLO
LaureNt Lompo, iL primo vesCovo NiGeriNo deLLa storia
CHIESA, DIALOGO
CONTRO TERRORE
N
Giovanissimo, ma già
sperimentato. La sua
parola d’ordine è «dialogo interreligioso»,
non raccontato, ma
applicato. È la nuova
guida della piccola
comunità dei cattolici
nella diocesi di
Niamey. Con approccio «missionario».
10
MC OTTOBRE 2015
iamey. Monsignor Laurent Djalwana Lompo è il
nuovo arcivescovo dell’arcidiocesi di Niamey. È
il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina ed è stato intronizzato dal cardinale Philippe
Ouedraogo (del Burkina Faso) il
14 giugno scorso. Originario di
Makalondi, 100 Km a Ovest della
capitale, è nato nel 1967. Dopo la
scuola primaria nella città natale,
il collegio a Say e il liceo a Niamey, ha passato dieci anni di seminario in Burkina. È stato ordinato prete nel 1997, e in seguito
ha lavorato un anno alla parroc-
chia St. Gabriel a Niamey. È stato
poi responsabile al foyer Samuel,
dove ci si occupa dei giovani che
vengono per maturare la loro vocazione.
Dopo una fase di studi in Francia è
rientrato nel 2003, e monsignor
Michel Cartateguy, arcivescovo di
Niamey, lo ha nominato vicario
generale. Ruolo che ha ricoperto
per dieci anni. Nel 2013 papa Benedetto ha nominato mons.
Lompo vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Niamey e dall’11 ottobre 2014, è stato chiamato a sostituire mons. Michel.
In Niger, paese a maggioranza
• Vescovo | Missione | Dialogo | Terrorismo • MC ARTICOLI
Che sentimento prova, in quanto
nigerino, a ricoprire questo ruolo
importante per la Chiesa cattolica, in un paese in cui i cattolici
sono una minoranza?
«In un paese in cui il 98% della
gente è musulmana, per me è una
gioia, un onore, sapere che la comunità cristiana ha fatto il suo
cammino, è arrivata a maturità. È
anche un dovere, quello di mettere le basi per consolidare il dialogo interreligioso in questo
paese. Gli avvenimenti del 16 e 17
gennaio scorso (manifestazioni
anti cristiane, vedi box, ndr) ci
danno ancora l’occasione concreta per affermare che il dialogo
interreligioso è di una importanza
capitale. E non deve restare solo a
livello della gerarchia, ovvero dei
responsabili e leader religiosi, ma
deve partire dalla base e andare
fino in cima. Perché gli eventi che
si sono prodotti hanno mostrato
che la gioventù è molto coinvolta.
Quindi vogliamo fare in modo che
il dialogo sia vero e sincero. Siamo
in un paese laico, le autorità politiche devono tenere conto del rispetto delle minoranze. I cristiani
hanno il loro posto. Preghiamo affinché questo impegno possa essere concreto, e noi cristiani possiamo intenderci con i musulmani
e continuare la missione in Niger».
Nella pratica, quale programma
avete con i capi religiosi
musulmani?
«Siamo rimasti molto stupiti delle
manifestazioni di gennaio. Viste le
relazioni che abbiamo, non
avremmo mai immaginato che in
Niger si sarebbero potuti produrre degli eventi simili. Noi
stiamo continuando quanto faceva mons. Michel Cartateguy: il
dialogo interreligioso, a tutti i livelli. Il programma sul quale abbiamo riflettuto si chiama “Vivere
insieme”, e tiene conto della formazione della gioventù di oggi.
Una gioventù sbandata, che ha bisogno di contatto tra cristiani e
musulmani. Contiamo di mettere
in opera un programma, con il
supporto di partner interni ed
esterni, affinché possiamo formare i giovani alla tolleranza, al rispetto mutuo, alla conoscenza
dell’altro. Perché quando conosci
qualcuno lo rispetti. Questo rispetto, pensiamo si possa avere
se ciascuno è radicato nella sua
fede: i cristiani nella propria fede
e così i musulmani. Insieme possiamo coltivare la pace di cui il Niger ha bisogno oggi».
ordine e grado di scuola. Lo stesso
accade nelle attività come la Caritas, in cui lavoriamo con i musulmani. Anche a livello dei nostri dispensari cerchiamo la collaborazione con gli altri.
Abbiamo una Commissione nazionale di dialogo interreligioso che
raggruppa musulmani e cattolici a
livello di diocesi di Maradi e di
Niamey, insieme costituiscono la
commissione interdiocesana, di
cui monsignor Ambroise Ouedraogo è coordinatore. Alla mia
intronizzazione c’è stato un gran
numero di musulmani presenti.
Penso che la Commissione permetta di avvicinarci ulteriormente
e di togliere le paure e le incomprensioni dovute agli eventi del
16 e 17 gennaio scorso. In quei
giorni, in seguito alle caricature
del profeta Maometto uscite su
Charlie Hebdo, c’è stata una reazione a livello internazionale, che
in altri paesi si è potuta contenere, ma in Niger purtroppo no.
C’era un certo numero di giovani
infiltrati, e la gioventù sbandata è
una porta aperta agli attacchi, ai
saccheggi e alla profanazione che
abbiamo vissuto nelle nostre diverse chiese. Ci siamo visti con le
spalle al muro. Hanno bruciato
tutto. Non accusiamo la comunità
musulmana, ma c’è stata una intromissione dall’esterno. La tattica secondo noi è quella di Boko
Continua a pagina 14
© Marco Bello
musulmana, i cristiani sono un’esigua minoranza: si parla di alcune
decine di migliaia di persone su 17
milioni. Le diocesi sono due,
quella metropolitana di Niamey e
quella di Maradi, il cui pastore è
monsignor Ambroise Ouedraogo
(cfr. MC settembre 2007).
Il 29 giugno scorso mons. Lompo
era a Roma per concelebrare la
messa con papa Francesco, durante la festa dei santi Pietro e
Paolo. In quell’occasione il santo
padre ha benedetto il palio per i
46 arcivescovi metropoliti nominati nell’anno. L’insegna ecclesiastica di lana bianca «è simbolo del
pastore che sente l’odore del
gregge e ne porta il peso, facendo
l’unità della Chiesa», ci racconta
monsignor Lompo, che incontriamo nel suo ufficio, a ridosso
della sobria cattedrale di Niamey,
in pieno centro città.
«Voglio continuare la missione di
mons. Michel, che ha molto operato per questa diocesi, e ha vissuto il suo motto “Che lui diventi
più grande e che io diminuisca”,
spingendo il clero diocesano a
prendere le sue responsabilità.
Penso sia in questa linea che papa
Francesco mi ha nominato arcivescovo».
Vi coordinate
con i leader musulmani?
«Lavoriamo con tutti gli strati sociali. Abbiamo diverse scuole cattoliche, nelle quali la maggioranza
degli studenti sono musulmani. La
formazione mette l’accento sul vivere insieme, e questo per ogni
# A sinistra: un uomo con un cappello tipico, sulle strade sabbiose
di un villaggio del Niger.
# Di fianco: l’arcivescovo di Niamey,
mons. Laurent D. Lompo, davanti al
suo ufficio.
OTTOBRE 2015 MC
11
NIGER
A pochi mesi dalle elezioni, il Niger deve fare i conti con Boko Haram
Stretto tra due fuochi
Un paese tra i più poveri al mondo si vede costretto a combattere una guerra. E a vegliare sulla propria
sicurezza interna. Un governo che in oltre quattro anni è riuscito a realizzare infrastrutture e promuovere l’agricoltura. Una società che tende a islamizzarsi sempre di più a causa di infiltrazioni e influenze
esterne.
N
aese saheliano con territorio in gran parte desertico, tra i più poveri del mondo, il Niger è ormai da
alcuni anni stretto in una morsa di guerra. A Nord
imperversano i jihadisti di Aqmi (Al Qaida nel Maghreb
islamico, cfr. MC luglio 2012) e vari altri gruppi, attivi in
Mali, contro i quali è in corso una guerra che ormai
dura da marzo 2012, con l’intervento della Francia nel
gennaio 2013 (operazione Barckhane) e della successiva
Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite (Minusma).
A Sud Est, nella confinante Nigeria, opera da metà
anni ‘90 la setta, gruppo integralista Boko Haram
(cfr. MC luglio 2012). Questa ha di fatto cambiato il livello del conflitto, quando nel febbraio scorso, ha attaccato la città nigerina di Diffa e cominciato incursioni in diversi villaggi lungo il confine. Oltre al Niger
e alla Nigeria sono coinvolti nella guerra Ciad e Camerun, tant’è che militari nigerini e ciadiani controllano alcune città in Nigeria, nello stato del Borno
(Nord Est), dopo averle sottratte a Boko Haram. È
del luglio scorso la creazione di una nuova coalizione
militare per combattere i terroristi: la Forza d’intervento multinazionale, della quale fa parte, oltre ai
quattro paesi citati, anche il Benin, confinante con la
Nigeria a Ovest.
P
l Niger, è da sempre patria di un islam tollerante, ma
qualcosa sta cambiando. Il paese ha vissuto alcuni
avvenimenti mai visti il 16 e 17 gennaio scorso. In seguito all’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo
I
12
MC OTTOBRE 2015
a Parigi e alla reazione del mondo contro l’accaduto, a
Zinder e Niamey si sono verificate due violente manifestazioni, rapidamente degenerate, contro la minoranza
cattolica. Chiese e case parrocchiali sono state attaccate e incendiate, così come scuole cattoliche. Le forze
dell’ordine sono riuscite a intervenire troppo tardi.
Monsignor Ambroise Ouedraogo, vescovo di Maradi,
diocesi di cui fa parte anche Zinder, ci racconta: «Qualche giorno prima degli eventi, padre Léo (missionario
d’Africa, originario della Rdc, da anni nel paese, ndr)
aveva mandato una lettera al prefetto per chiedere protezione. Erano state mandate due camionette di gendarmi. Ma quando c’è stato l’attacco nessuno ha fermato gli assalitori. Solo la Guardia nazionale, in seguito,
è intervenuta per fermare i manifestanti quando questi
hanno tentato di attaccare l’altra scuola cattolica. A
Niamey sono state bruciate sei chiese su otto, di cui una
inaugurata pochi mesi prima. I preti e le suore hanno
abbandonato Zinder per paura. Andiamo a celebrare
la messa ogni due settimane da Maradi (230 km). Ma
la chiesa è stata completamente bruciata, come la
scuola e i locali parrocchiali. La celebrazione si effettua sotto una tettoia».
econdo un professore dell’Università di Niamey,
che ha chiesto di mantenere l’anonimato: «I partiti
politici di opposizione hanno usato il pretesto di
Charlie Hebdo per tentare di destabilizzare il paese e i
cristiani sono stati le vittime innocenti della manovra.
Diversi esponenti di questi partiti sono stati ricono-
S
© Af Diocesi di Maradi
iamey. È un torrido pomeriggio di fine giugno, le
piogge stagionali sono in ritardo, e dall’aeroporto
internazionale di Niamey, Diori Hamani, vediamo
uno strano velivolo decollare e dileguarsi rapidamente.
È un drone militare, verosimilmente Usa (non ne esistono altri nella regione). È pilotato da qualcuno dietro a
dei monitor, molto lontano dal caldo e dalla sabbia del
Niger. Si alza in missione verso Est, per ricognizione o
per sparare contro gli uomini di Boko Haram, con i quali
è ormai guerra aperta dal febbraio scorso.
Qualche settimana fa, sulla pista del piccolo aeroporto di Zinder, seconda città del paese, a 900 km a
Est della capitale, due caccia bombardieri Sukhoi, di
fabbricazione russa e con insegne nigerine, erano
parcheggiati in attesa di decollo. Sempre all’aeroporto di Zinder, il 24 giugno, una quindicina di militari francesi, facevano una rapida sosta, per ripartire
con il loro turboelica alla volta di Diffa, città a 460
km più ad Est, zona di guerra.
MC ARTICOLI
# In basso: le auto della missione cattolica di Zinder,
date alle fiamme il 16 gennaio scorso.
# A fianco: un caccia bombardiere Sukhoi russo, ma con
insegne nigerine, pronto all’aeroporto di Zinder, giugno 2015.
È utilizzato per bombardare le milizie di Boko Haram nella regione di Diffa.
© Habib Dogo
sciuti durante le violenze e poi arrestati. Gli studenti del
campus di Niamey hanno testimoniato che elementi dei
partiti di opposizione sono andati dalle associazioni studentesche per convincerle a partecipare massivamente
alle manifestazioni, ma queste si sono rifiutate». Un’analisi, questa, condivisa anche in ambito ecclesiale. Sta
di fatto che membri di Boko Haram erano infiltrati tra i
manifestanti e i metodi usati sono stati quelli della setta
nigeriana.
«È certo - ci dice ancora mons. Ouedraogo - che
membri di Boko Haram sono in mezzo a noi».
l governo di Issoufou Mahamadou è giunto ormai al
suo quinto anno e, a inizio 2016, si terranno le elezioni. Mahamadou, del partito Pnds (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo), oppositore storico dei regimi succedutisi a partire dagli anni ’90, è arrivato finalmente al potere grazie alle elezioni del gennaio 2011, che misero fine a 13 mesi di governo di transizione della giunta militare (cfr. MC giugno-luglio 2011).
È stato come se i nigerini avessero chiesto una svolta,
affidando la guida del paese a chi non l’aveva mai avuta.
L’anno prossimo Mahamadou potrebbe vedere confermata questa fiducia, oppure potrebbero tornare
alcuni falchi del passato, come il potente ex primo
ministro Hama Amadou. Per questo, la campagna
elettorale è, di fatto, già cominciata e il tema «sicurezza contro il terrorismo» è cruciale.
Il governo ha ingaggiato una guerra a trecentosessanta gradi contro il terrorismo islamico, sul fronte
Sud Est e su quello Nord, intervenendo con il pugno
di ferro. Dopo gli attentati a Bamako (capitale del
Mali, a marzo) e a Ndjamena (capitale del Ciad, giugno e luglio), i servizi segreti - molto efficienti in Niger - mantengono l’allerta alta. La nostra fonte universitaria: «Si tratta di una guerra “asimmetrica”, un
esercito contro singoli attentatori incontrollabili che
si mischiano alla popolazione. Il governo ha sensibilizzato la popolazione dicendo che se si osserva qualcuno di sospetto si deve subito avvisare il capo quartiere. Adesso la gente è più tranquilla, non c’è la fobia
che si è avuta subito dopo gli eventi di gennaio. Penso
che il governo sia stato bravo ad assicurare la sicurezza, in un paese povero, senza mezzi, stretto tra Libia, Mali e Nigeria».
I
a nell’Est, vicino alla frontiera con lo stato nigeriano di Borno, gruppi di Boko Haram attaccano
direttamente i villaggi. È della notte tra il 17 e 18
giugno uno dei peggiori massacri, compiuto nei villaggi
M
Lamana, Boulamare e Goumao, a circa 50 km da Diffa.
Trentotto civili uccisi, di cui 10 bambini, tre feriti, un
centinaio di case bruciate, così come i granai e alcune
auto. Un attacco peggiore era avvenuto solo sull’isola
Karamga nel lago Ciad, ad aprile, con 74 morti tra civili
e militari. Gli attacchi sulle isole hanno anche creato oltre 30.000 sfollati interni, sempre all’estremo Est del
paese.
Ci confida una personalità vicina al primo ministro:
«Molti membri di Boko Haram che agiscono sulla
frontiera sono ormai nigerini, non nigeriani. Molti
nostri giovani hanno ingrossato le fila dei miliziani.
Li conosciamo e la gente del posto sa chi sono».
ntanto si osservano evidenti cambiamenti nella società nigerina. Secondo monsignor Ouedraogo «assistiamo a una certa radicalizzazione islamica, che avviene poco a poco. Ad esempio nel 2001 erano ancora
molte le donne che non portavano il velo. Oggi sono
tutte velate». Secondo il professore universitario «si assiste a una “islamizzazione” piuttosto che a una radicalizzazione. La gente è più islamizzata a causa della povertà crescente. Non è tanto dovuto al fatto che abbiano
paura dei gruppi radicali. Quella è stata palpabile dopo
gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio e l’entrata di Boko
Haram in Niger a febbraio».
E mentre il governo impone regole più stringenti
sulle prediche nelle moschee, in particolare quelle,
sempre più diffuse, realizzate da imam mediorientali,
la chiesa cattolica incontra i leader islamici grazie
alla Commissione per il dialogo interreligioso, che ha
lo scopo di sensibilizzare e promuovere dialogo e tolleranza.
Marco Bello
I
OTTOBRE 2015 MC
13
NIger
© Af Diocesi di Maradi
© Af Diocesi di Maradi
Haram. Il modo con cui hanno attaccato le chiese era pianificato, si
erano organizzati per bruciare.
Stiamo lottando contro questo
nemico comune, che sia cristiano
come musulmano. Boko Haram è
un nemico di tutti».
In Niger l’islam è stato sempre
molto tollerante. Queste infiltrazioni riescono a influenzare e radicalizzare i musulmani comuni?
«Oggi non possiamo non parlare
di radicalizzazione, quando vediamo il comportamento esteriore, l’abbigliamento, le reazioni,
penso che l’islam si stia radicalizzando poco a poco in un paese in
cui è stato sempre tollerante. L’influenza esterna ha un peso, e noi
nel dialogo interreligioso lo di-
ciamo. Non credevamo che sarebbe potuto succedere, ma il
fatto che ci sia questa radicalizzazione può avere un effetto negativo. Durante gli assalti a Zinder
c’erano delle persone con la bandiera di Boko Haram, che gridavano parole d’ordine tipiche del
gruppo. Queste cose hanno buon
gioco con la grande massa.
Al momento non abbiamo preoccupazione perché non crediamo
che possano capitare ancora questi fatti. Quando incontriamo i musulmani, le associazioni, i leader
politici, tutti condannano quello
che è successo. E penso che delle
disposizioni siano state prese. Per
questo diciamo, rispetto a quello
che è successo: occorre che lo freniamo con il dialogo, il mutuo ri-
© Af Diocesi di Maradi
spetto e il rispetto delle minoranze. Se continuiamo a operare,
cristiani e musulmani insieme, in
questa direzione possiamo fermare questo fenomeno».
Collaborate con altre chiese sorelle in altre parti del mondo?
«In Niger ci sono cattolici ed
evangelici. Collaboriamo e vogliamo impostare l’ecumenismo,
affinché tra cristiani ci possiamo
conoscere ancora meglio e lavorare insieme di più.
A livello regionale facciamo parte
della Conferenza episcopale
Burkina Faso - Niger e lavoriamo
con le chiese sorelle del Burkina e
del Benin. All’intronizzazione c’erano cinque vescovi del Benin.
Collaboriamo anche con l’Europa,
ad esempio con le diocesi italiane
di Lodi, Belluno, Milano e Genova,
delle quali abbiamo dei missionari
qui con noi.
Recentemente ho fatto un viaggio
nell’ambito di questa collaborazione per rinforzare la cooperazione missionaria e allo stesso
tempo presentare i progetti di ricostruzione per le nostre chiese.
Ho avuto un’accoglienza calorosa
e sono tornato con un’immagine
molto bella della chiesa italiana».
Ci sono anche dei missionari di
ordini religiosi?
«Sì, ci sono i padri Bianchi, i Redentoristi, la Società delle missioni africane oltre ai sacerdoti fidei donum, sia dell’Italia che della
MC ARTICOLI
Francia. Inoltre abbiamo molte altre congregazioni religiose che
vengono dal Benin, Togo, Burkina
Faso, ma anche da Canada e Francia. La maggior parte delle congregazioni lavorano nelle scuole e
nei dispensari. È una fetta importante della cooperazione missionaria».
In Niger molti cattolici sono di
origine straniera. Avete una pastorale per la diffusione del cattolicesimo?
«È vero, molti cattolici vengono
da altri paesi, ma molti cristiani
nelle parrocchie di campagna
sono autoctoni. Prendo il caso di
Dogon Doutchi, in zona haussa
(prima etnia per numero, presente anche in Nigeria, ndr) oppure la zona sonrai: entrambe
hanno molti cristiani. Un centro
importante è Makalondi, che rag-
gruppa le parrocchie di Makalondi, Bomanga, Torodi e Kankani.
Non posso dire che si tratta del
polmone dei cristiani nigerini, ma
in quella zona sono tutti nazionali.
Quest’anno su 400 battesimi, oltre 150 sono stati di persone originari di quella regione. Lì la gente
ha sete di fede, le chiese sono
piene e quando sono stato in visita pastorale, mi hanno detto:
“Siamo in soprannumero, non è
che potete trovare i mezzi per costruire altre chiese?”. Conteremo
sulla partecipazione locale per poter costruire luoghi di culto in
queste regioni, dove il cristianesmo avanza rapidamente in numero e qualità.
Penso anche, in questa prospettiva, alla promozione delle vocazioni, perché il clero diocesano è
una necessità. Abbiamo una pastorale vocazionale. A livello del seminario maggiore ci sono nove seminaristi, e altri tre stanno facendo
l’anno propedeutico. Altri giovani
sono al foyer Samuel dove si preparano fino all’esame di maturità.
# In alto a sinistra: resti della casa parrocchiale di Zinder, data
alle fiamme il 16 gennaio 2015. Il libretto rinvenuto «Cristiani
oggi, Signore dove sei?» è emblematico.
# A sinistra: mons. Ouedraogo celebra sotto una tettoia a Zinder.
# In questa pagina: volti di una giovane donna nigerina e di un
anziano notabile di villaggio.
© Marco Bello
© Marco Bello
Quali sono le sfide maggiori che
sente e qual è il suo programma
per i prossimi anni?
«Portiamo avanti la visione che
recita: “Tutti sono missionari in
una chiesa famiglia che testimonia l’evangelo nella realtà del Niger”. Vivere la parola di Dio nel
Niger di oggi ha come sfide, prima
di tutto, il dialogo interreligioso, la
formazione dei nostri cristiani alla
cultura della tolleranza, la formazione dei cristiani ad avere una
fede solida e a radicarsi ancora di
più nella Parola. Perché quando si
è forti a livello spirituale, si regge
meglio davanti alle prove. Vogliamo sviluppare la Caritas diocesana, come servizio ai più poveri
del paese, che sono molti. Mettere l’accento sulla responsabilizzazione. I missionari ci danno uno
stimolo esaltante e dobbiamo
fare in modo che tutti i preti, i religiosi, i laici, ad ogni livello, possano essere responsabili. Una
chiesa che poco a poco prenderà
se stessa in carico. È il nostro programma. Noi abbiamo bisogno
delle chiese straniere, ma dobbiamo prima di tutto contare sulle
nostre forze. Le altre vengono a
complemento».
niger
© Marco Bello
I missionari sono venuti in passato,
ma adesso vediamo la rarità di
quelli che vengono dall’Europa. È il
nostro turno di fare uno sforzo
missionario affinché le comunità
comprendano l’importanza della
missione oggi in Niger. Facendo la
promozione delle vocazioni preghiamo ogni giorno e ci mettiamo
in opera affinché ci sia un accompagnamento a livello delle parrocchie. Nella diocesi di Niamey ci
sono circa 45.000 cattolici. La maggioranza si trova della zona di
Makalondi. E ogni anno aumentano».
Come concilia la sua cultura e tradizione africana con la spiritualità cattolica?
«A livello della nostra diocesi crediamo molto nello sforzo dell’inculturazione: partire dai valori positivi delle nostre culture e li leggiamo alla luce del Vangelo che
viene a purificarli in modo che
possiamo comprenderli. Un impegno importante è la traduzione
della Bibbia nelle diverse lingue
del Niger. Il giorno della mia intronizzazione abbiamo fatto la processione delle offerte, e hanno
partecipato tutte le etnie del
paese nel loro vestito tradizionale, per mostrare l’universalità. Il
Vangelo è venuto per tutte le etnie, non per una sola, tutte hanno
la possibilità di aprirsi al Vangelo.
Abbiamo anche utilizzato il griot
(importante figura del cantastorie
in Africa dell’Ovest, ndr). Nel
paese gourmanché (altra etnia
presente in Niger e Burkina, ndr),
il messaggio trasmesso dal griot
diventa un messaggio popolare,
ascoltato da tutto il mondo. Per
questo anche il testo che ratifica
che sono diventato arcivescovo e
stato tradotto in lingua locale e
letto, in modo tale che tutti potessero comprendere meglio. Prendiamo quello che è positivo nelle
nostre culture e vediamo come si
inserisce nel Vangelo. Facciamo
questo sforzo in modo che la Parola prenda più forza nelle nostre
culture, perché sappiamo che il
Vangelo entra nella cultura e la
purifica, così la nostra fede diventa solida».
Marco Bello
# In questa pagina: scene di villag-
© Marco Bello
gio nigerino. Una pastora con i
suoi dromedari. | Un gruppo di animali si abbevera a un pozzo. Case
in terra essicata sullo sfondo.
16
MC OTTOBRE 2015
MONDO CONSOlAtA
Testo di ROMINA REMIGIO
Foto dall’ARCHIVIO FOTOGRAFICO MC
2
ISTITUTI
MISSIONE
1
Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore
generali delle missionarie e dei missionari della Consolata,
eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.
uor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a
fine anni Ottanta sceglie la missione ad
gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale.
I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo
che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.
S
adre Stefano Camerlengo, marchigiano
Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19
marzo del 1984 a Wamba, Congo RD,
nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di
padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile,
l’amore, la dedizione alla missione, e
un’apertura mentale plasmata dal pensiero
del beato Allamano.
P
OTTOBRE 2015 MC
17
MonDo Consolata
Quando ha scelto di
o deciso
diventare missionario/a?
quando
Cosa l’ha spinto/a
avevo
a lasciare tutto per dedicirca 22
carti a Dio e alla missione?
anni e lavoravo
E perché proprio in
come infermiera
questo Istituto?
professionale in
un ospedale. Il
contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul
senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il
mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa
tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di
loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie
della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!
H
18
MC OTTOBRE 2015
L
Mi racconti l’emozione
più grande che ha provato
girando il mondo e
incontrando tante realtà
in questi anni.
è un’emozione che
provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è
quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla
missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne,
vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e
trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci
ornano con pannocchie di mais e un aguayo
(panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di
benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi
del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro
maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre
sorelle ci decorano le mani con impasto di henna…
e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio,
è un dare e un ricevere.
C’
a storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere
la mia vita con i più poveri, da questa spinta
iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che
mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi
ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in
primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di
questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo ringrazio i miei confratelli missionari
che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della
missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho
incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la
mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi
ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari
della Consolata perché sono stati i primi missionari
che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo
come la mia vera famiglia.
n questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare
tanti paesi, tante comunità e tanti
missionari, la cosa che più mi
emoziona è la forza della debolezza.
Mi meraviglia sempre e mi fa cadere
in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra
tantissimi problemi, possono cambiare la storia di
un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno
di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla
notte del mondo. Un’altra emozione forte te la
danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini,
la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono
sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti
riempie il cuore e ti fa camminare.
Infine mi piace ricordare che, come missionario, mi
sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque
vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle
persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il
calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.
I
• Consolata | Missione | Vocazione | Laici • MC ARTICOLI
n punto
Come vede il futuro
di forza è dell’Istituto. Quali sono
senza
secondo lei i punti di forza
dubbio la e quali, qualora ci fossero,
vivacità del nostro le debolezze?
carisma, la missione rivolta ai
non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e
chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È
sempre se stesso e proprio per questo capace di
rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle
epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro
aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.
Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata
dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la
«mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro
là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro
casa nella fruttuosa convivialità delle differenze.
Siamo in cammino, un cammino non facile ma che
assolutamente vale la pena di percorrere. Non si
può pensare la missione se non a partire dalla comunione.
Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico
luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le
nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il
fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo
un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che
è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il
bene, senza rumore».
U
ersonalmente non sono eccessivamente
preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono
più attento alla qualità dell’Istituto. Mi
guida una frase della grande santa Edith
Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui
a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di
Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di
forza della nostra famiglia missionaria sono diversi.
Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto»,
la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità.
Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio
per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di
«spirito di famiglia».
Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo
perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i
nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo
ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà
e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a
volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza
di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai
modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…
P
OTTOBRE 2015 MC
19
MONDO CONSOLATA
Si parla di crisi
irca la crisi vocazionale in Europa
di vocazioni, secondo me
ì, la crisi di vocanon ho molte letture sociali e psicodovremmo parlare di crisi
zioni mi sembra
logiche da fare, ma appare evidente
di valori e d’identità in
un segno, un
la crisi di valori che blocca ogni
Europa. Cosa ne pensa?
aspetto di qualideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una
cosa di molto più vasto. E
crisi della gratuità e della donazione: siamo
non solo in Europa. Certain una società dove tutto ci è dovuto e in cui
mente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa
io non devo niente; senza la gratuità non si capistiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro
sce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’alcarisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato
tro. L’assenza di gratuità provoca anche una manGiuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un
canza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi.
tesoro inesauribile; la vocazione a essere MissioQuando si è troppo piegati su se stessi non si può
naria della Consolata è vocazione alla gioia. E alpiù dare spazio agli altri; quando i miei problemi
lora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le
sono più grandi e importanti di tutto, non posso
analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che
chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si
cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui
perde la compassione non ho più passione per la
nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte
vita e per la fede e vivo male.
concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di
responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo
mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono
Quali sono le realtà del
e ne sono diconvinta che il discernimento vocazionale debba
suo Istituto che secondo
verse perché
essere un processo molto serio, approfondito e
lei hanno bisogno di
siamo sempre maggiore attenzione
esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per
in cammino e
entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per
e sacrificio?
dobbiamo
cercare di
questo non spero in grandi numeri, ma nel coltimigliorare, di andare
vare in profondità la chiamata di quelle giovani
avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre
donne che portano nel loro cuore «il Dna della
aspetti che oggi sono più urgenti.
Consolata», donne a cui possiamo proporre una
1.
La formazione:
vita che è davvero bella e intensissima. Non ho
oggi
più di ieri siamo chiamati a curare la formadetto facile, ho detto bella, che è molto diverso.
zione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non
possiamo realizzare una buona missione. I giovani
di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma
sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé
vivono profonde contraddizioni e fragilità.
Inoltre c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche
parole oggi dobbiamo studiare molto per capire
come funziona la realtà e che cosa possiamo fare
per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti
della teologia e della prassi missionaria meritano
grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare
continua. Continua appunto, per significare che
non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il
nostro pane quotidiano e la base su cui fondare
tutto il nostro servizio alla gente nella missione.
2. La vita comunitaria:
è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per
questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo
ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita
fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il
proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la
S
C
C
MC ARTICOLI
ccennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con
«lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli
nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni
vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di
molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper
potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La
vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.
A
nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali
per verificare la qualità della nostra vita evangelica.
3. L’economia:
la crisi economica, se da un lato è positiva perché
ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in
un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la
nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda.
Il futuro della vita consacrata e della missione ce li
giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci
invita a maggiore sobrietà e condivisione con la
gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le
persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo
deve prendere in considerazione la difficoltà reale
di reperire fondi per realizzare la missione e per
dare un minimo di stabilità alle comunità.
Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà
la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che
ci attende su questi temi, ma merita la pena porre
mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità
dipenderà la fecondità della nostra missione e
della nostra vita.
Come pensa possano
rima di parlare dei laici nell’Istibbiamo diversi tipi
aiutare i laici e cosa
tuto
e della loro importanza, vordi rapporto coi
potrebbero fare
rei
sottolineare
un atteggiamento
laici… ci sono gli
per l’Istituto?
che, reputo, dovrebbe essere alla
amici, i benefattori, i
base di tutto, e cioè la simpatia per il
volontari, e ci sono i «Laici
mondo, per la società in cui viviamo. La nostra
missionari della Consolata», ai quali ci lega un parmissione comporta anche una simpatia con la soticolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel
cietà alla quale desideriamo portare la bella notisenso che i Lmc condividono con noi suore e con i
zia del Vangelo, una simpatia che ci permette di
confratelli missionari il dono dello stesso carisma,
entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi
vissuto secondo le modalità proprie della vocaper incontrarli e per condividere il Vangelo. La simzione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicupatia ci conduce ad avere una visione positiva del
ramente essi ci offrono è quello dell’essere parte
contesto e della cultura nella quale siamo immersi,
di una unica famiglia, con tutte le possibilità di diascoprendo nella nostra realtà le opportunità inelogo, confronto e crescita nella comunione che
dite della grazia che il Signore ci offre per la nostra
questa appartenenza comune ci dona.
missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di
dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di
# Pag. 17: suor Simona e padre Stefano appena eletti a servire
come madre e padre generale, in piazza San Pietro nel 2011.
dialogo fecondo e costruttivo. Con questo attegPag. 18: insieme alla tomba del beato Giuseppe Allamano
giamento di simpatia possiamo valorizzare anche
nell’ottobre 2014, a conclusione dell’anno a lui dedicato.
la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e
Pag. 19: con bambini della Mongolia durante la visita uffiservizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei
ciale che hanno fatto in contemporanea nell’agosto 2015.
laici è fondamentale nella missione, essi sono l’ePag. 20: 23 maggio 2015, Nyeri, suor Simona alla cerimonia
spressione di un carisma che non appartiene a un
di beatificazione di suor Irene Stefani.
gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma
Qui sopra: padre Stefano a Guiúa, Mozambico, con alcuni
più è donato e più è credibile, fecondo e visibile.
confratelli nel 2012.
Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono
A
P
OTTOBRE 2015 MC
21
Mondo ConsolATA
# Da sinistra: suor Simona in visita a Gibuti (2015). | Padre
Stefano in Costa d’Avorio (2012). | L’incontro con papa
Francesco (2014). | Suor Simona con le mani dipinte in maniera tradizionale con l’henna durante la visita a Gibuti. |
Padre Stefano nella chiesa del beato Allamano, a Torino,
durante la festa della Consolata il 20 giugno 2012.
Animazione missionaria.
Come l’Istituto la sta
portando avanti e cosa
pensa dei nuovi metodi
di comunicazione come
i social network
(Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?
eh, questa per noi
è una domanda
che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che
anche nell’animazione
missionaria la dimensione
della comunione sia essenziale: comunità
aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera,
di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.
Vediamo la necessità di aperture missionarie nel
mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando
come fare per esserci di più e meglio, in questo
mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto,
siamo nei «lavori in corso».
B
22
MC OTTOBRE 2015
chiamati a rispondere generosamente al Signore
che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del
creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla
conservazione, all’esercizio e alla professione
della fede ricevuta e della missione condivisa.
er una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la
testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è
un’autentica animazione. Ma la missione è
fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno
fare nulla autonomamente. Personalmente credo
che non ci sia cosa migliore del Vangelo come
metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi
mezzi di comunicazione affinché la Parola e la
missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su
questo abbiamo già un problema, perché oggi noi
facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani
e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fanta-
P
MC ARTICOLI
sia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le
mani di fango» per condividere con gli ultimi la
loro situazione e allora saper narrare il Vangelo
dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La
strada dell’animazione missionaria oggi è quella
della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con
la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti
di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla
realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo
a domande che nessuno pone.
Per rispondere alle esigenze della missione attuale
è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore
propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione
missionaria comporta una profonda conversione
personale, comunitaria e pastorale, altrimenti
siamo come «cembali squillanti». La missione è
sempre nel segno della speranza: speranza fondata
in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e
facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il
Vangelo e per i poveri.
Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo,
perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra
presenza costruttiva nella storia attuale e guida
della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai
suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non
abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per
consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo
armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non
possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli,
cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo
mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».
Che questo sia il nostro cammino e la nostra
strada!
Romina Remigio
Misericordia voglio
STORIA DEL GIUBILEO
di Paolo Farinella, prete
1. FRANCESCO,
PAPA PROFETA
C
© AFP/NurPhoto/Manuel Romano
on la Bolla «Misericordiae Vultus» (MV) dell’11 aprile 2015, Papa Francesco ha indetto un
Giubileo Straordinario dedicato alla Misericordia. Il Giubileo durerà un anno, dall’8 dicembre 2015, cinquantesimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, al 20 novembre 2016, memoria liturgica della festa di «Cristo Re dell’universo». Il Papa ha esteso a
tutte le chiese cattedrali diocesane e a quelle più significative di tutto il mondo le stesse
prerogative delle Basiliche vaticane di Roma, per cui - e questo è anche il desiderio di Papa Francesco - non sarà necessario andare a Roma, come per tutti gli altri Giubilei, ma si potrà partecipare
intimamente anche dalle proprie città e diocesi.
Questa scelta è importante perché il Papa, in questo modo, afferma «l’ekklesìa» universale che si
realizza ovunque si celebri la Misericordia di Dio che lo stesso Francesco nella Bolla di indizione definisce «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa» (MV, n. 10), la quale «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la
sua forza diffusiva».
La rivista MC ha deciso di predisporre dieci puntate (una al mese e quindi per l’intero anno giubilare) per approfondire il significato del Giubileo nella Bibbia, quali sono i suoi contenuti, e quale ne
è stato lo sviluppo nella storia della Chiesa, che vide il primo Giubileo nel 1300, indetto da Papa
Bonifacio VIII con intenzioni ben diverse da quelle di Papa Francesco. Cercheremo di capire meglio
- almeno lo speriamo - le ragioni e le motivazioni interiori che hanno spinto il Papa a fare questo
gesto e con modalità diverse da quelle degli altri Giubilei. Sono grato a MC di avermi affidato questo compito che, pur essendo impegnativo, mi permette di compiere un atto di devozione e di ossequio ai nostri lettori, verso i quali MC non può che nutrire sentimenti di gratitudine.
Non possiamo però cominciare il racconto della storia del Giubileo senza domandarci chi sia Papa
Francesco. Se è vero, come lui stesso ha detto la sera della sua elezione a vescovo di Roma (13
marzo 2013), che i «cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo», è anche vero che
fin dall’inizio egli ha compiuto gesti e ha detto parole incisive per le persone, per lo stesso papato
e anche per chi non crede. Questo Papa non lascia indifferenti.
UnA ProFezIA SContAtA
© AFP/Vincenzo Pinto
MC RUBRICHE
Devo iniziare con un riferimento personale. Me ne
scuso, ma è necessario. Nel 1999, quando vivevo a
Gerusalemme, pubblicai un romanzo dal titolo «Habemus Papam, Francesco». Alla vigilia del Giubileo
che segnava il passaggio tra il II e il III Millennio, immaginavo l’arrivo di un papa che prendesse il nome
«Francesco» e cominciasse a riformare sul serio la
Chiesa che già allora, nel declino del pontificato di
Giovanni Paolo II, viveva i sintomi di un sistema ecclesiastico che iniziava a precipitare.
Nel 2012, a richiesta dei lettori, il romanzo fu ripubblicato dall’Editore Gabrielli con il titolo «Habemus
Papam. La leggenda del Papa che abolì il Vaticano».
Questa seconda edizione fu aggiornata al pontificato
di Papa Ratzinger, durante il quale il Vaticano fu teatro di fatti scandalosi e di corruzione, così gravi da
portare lo stesso Papa a rassegnare le dimissioni, le
prime dopo quelle del 1294 di Celestino V, il Papa
che con l’istituzione della «Perdonanza» di Collemaggio (L’Aquila), anticipò di quattro anni il primo
Giubileo della Chiesa Cattolica, proclamato per
l’Anno Santo del 1300 dal suo successore, Papa Bonifacio VIII della famiglia «Cajetani».
L’idea di un papa che prendesse il nome Francesco,
anticipata di tredici anni e poi ribadita l’anno precedente la sua realizzazione, non fu una preveggenza
perché il cristiano non ha bisogno di arti magiche
per leggere il futuro, gli è sufficiente avere gli strumenti adatti alla lettura dei «segni dei tempi» (Mt
16,2-3; cf Lc 12,54-56; Vangelo [apocrifo] di Tommaso, n. 91) che sono il Vangelo e la Storia, accostati
senza prevenzioni. Usare questi strumenti è il modo
«ordinario» per conoscere il senso e la profondità di
ciò che accade e anche di quello che verrà.
Oggi, ascoltando il papa, spesso gli sento pronunciare le stesse parole del Papa del romanzo o vedo
che compie gesti simili al Francesco letterario, e non
mi meraviglio perché il Papa crede che lo Spirito
Santo guidi la storia e le ragioni profonde dell’agire.
Non ha quindi idee o interessi o privilegi da difendere. Con il cuore libero sa discernere le esigenze
del Regno di Dio, distinte dagli schemi dei propri
# A sinistra: apertura della porta santa della basilica di
Collemaggio a L’Aquila in occasione del Perdono di Celestino (o «Perdonanza celestiniana»), che si celebra ogni
anno il 24 agosto.
In alto: il momento in cui il neo eletto papa Francesco
chiede la benedizione del popolo di Roma.
convincimenti. Papa Francesco è isolato all’interno
del «sistema clericale» e alcuni non lo nascondono
nemmeno: sono gli stessi che prima difendevano il
«primato del Papa», ma solo perché il pensiero del
Papa di turno coincideva con il loro. È sufficiente che
un Papa pensi secondo Dio con spirito di servizio,
combattendo la perversione del potere e lo spirito di
casta, che di solito degenera nella corruttela, ed
ecco montare un muro di resistenza strisciante.
Papa Francesco ha il senso di Dio perché è affamato
di umanità e sa di rappresentare sulla terra quel Cristo, che è «Lògos [che] carne fu fatto» (Gv 1,18). Si
presenta all’umanità non come maestro di princìpi e
dispensatore di dottrina, difensore di tradizioni passate e fustigatore di costumi, ma semplicemente
come il servo del Dio incarnato che viene a misurarsi
con il passo delle persone alle quali prospetta e offre
un orizzonte che solo nella libertà e nell’amore è
possibile.
Si può dire che Papa Francesco esprima l’anelito e
l’ansia pascaliani di non preoccuparsi del Dio della filosofia e delle dimostrazioni apologetiche, ma unicamente del Dio incontrato e sperimentato nella sua
storia e in quella dei suoi compagni e compagne di
viaggio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di
Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù
Cristo» (B. Pascal, Memoriale; cf anche Pensieri, 5,
362, 366, 556; 602, 730).
Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (16231662), un domestico trovò cucito nella fodera di un suo
indumento, un foglio autografo in cui filosofo e scienziato faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica,
avvenuta nella notte del 23 novembre 1654. Il breve
documento è conosciuto come «Memoriale» e riporta
la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco,
Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di
Gesù Cristo».
DA SoMMo PonteFICe A «Servo DeI ServI»
Per capire Papa Francesco e la scelta d’indire un Giubileo Straordinario sulla Misericordia, bisogna ritornare a quella sera straordinaria del 13 marzo 2013,
quando dopo la fumata bianca e l’annuncio del cardinale protodiacono: «Habemus Papam … Franciscum», il primo latinoamericano della storia e il
primo gesuita papa, si è affacciato alla loggia delle
benedizioni. Da subito gli addetti del mestiere
hanno capito che molto era cambiato, già solo al vederlo vestito di bianco e senza la mozzetta scarlatta
e la stola cosiddetta di «Pietro e Paolo». Accanto al
Papa, alla sua sinistra, stava terreo e sudato il cerimoniere pontificio che sul braccio teneva piegata la
stola pontificia. È stata una scena indimenticabile
perché ha segnato il confine irreversibile tra un
«prima» e un «poi» (cf V. Gigante - L. Kocci, La
Chiesa di tutti, prefazione di Paolo Farinella, Altraeconomia, Milano 2013). Per la prima volta nella stoOTTOBRE 2015 MC
25
Misericordia voglio
ria, un Papa appena eletto non si presentato come
«pontefice», ma come Vescovo di Roma e ha voluto
mostrarlo in modo visibile perché nella Chiesa i simboli sono essenziali. Egli ha rinunciato alla «mozzetta
rossa, ornata di ermellino», residuo della clamide
rossa indossata l’imperatore come simbolo della sua
autorità di massimo magistrato dello stato. Rinunciando all’indumento imperiale, il Papa rinunciava a
presentarsi come «Sommo Pontefice», titolo riservato all’imperatore e simbolo del potere temporale.
Non indossando la stola che di solito i Papi portano
quando esercitano la loro funzione di capi di stato, il
Papa si è offerto al suo popolo «nudo» come Francesco di Assisi e ha trasformato in un colpo solo il potere in servizio.
L’ultimo gesto sconvolgente è stata la richiesta al
popolo romano, cioè il «suo» popolo ecclesiale, d’invocare la benedizione di Dio su di lui vescovo, prima
che questi benedicesse il popolo, dando corpo alle
parole di sant’Agostino che nell’anniversario della
sua ordinazione diceva ai cristiani di Ippona: «Per voi
sono vescovo, con voi sono cristiano» (Sermones,
340, 1 PL 38, 1483). La sera del 13 marzo 2013 dalla
loggia centrale del Vaticano non si è presentato il
rappresentante del potere temporale, anche se stilizzato, il Papa-Re, anche se di un minuscolo Stato di
0,44 km2, ma «il servo dei servi di Dio». Non si è presentato soltanto. Ne ha anche avuto coscienza.
L’appellativo «Servus servorum Dei» fu utilizzato per la
prima volta da Papa Gregorio I (1145-1241) in risposta
al Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV Nesteutés,
che significa Digiunatore (582-595), che nel 587 aveva
assunto il titolo di Patriarca «Ecumenico». Papa Gregorio si definì «Servo di Dio» che nell’Amtico Testamento
è un titolo onorifico, sinonimo di ambasciatore/rappresentante, e per sottolineare l’umiltà del ministero aggiunse «dei servi di Dio», cioè il Popolo santo dei credenti. L’appellativo, per le circostanze in cui è nato, ha
un richiamo esplicito al profeta Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9-10).
LA MISErICorDIA nEL SAnGuE
Francesco di Assisi andava in giro per la città predicando il Vangelo «sine glossa», cioè senza alcun
commento, ma testimoniandolo con la vita e l’esempio e assumendo la povertà assoluta come misura
della sequela di Cristo. Papa Francesco, che prende il
nome del poverello di Assisi, si condanna da sé a essere inchiodato a una vita di austerità e povertà, anche esteriore, perché quel nome non è un nome
qualsiasi, ma quello di uno che «fece sul serio».
Papa Francesco è coerente e due anni di servizio petrino lo dimostrano: egli è quello che appare e fa
quello che dice (cf Mt 23,3).
Nell’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium»,
Papa Francesco scrive facendo eco al Santo suo ispiratore e facendo suo il metodo del «sine glossa»:
«È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo
invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non
come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo
molto chiaramente avvertiti: “Sia fatto con dolcezza e
rispetto” (1 Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18).
26
MC OTTOBRE 2015
Siamo anche esortati a cercare di vincere “il male con
il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene”
(Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma
considerando “gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3).
Di fatto gli Apostoli del Signore godevano “il favore di
tutto il popolo” (At 2,47; cfr. 4,21.33; 5,13). Resta
chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come principi che
guardano in modo sprezzante, ma come uomini e
donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa
né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine
glossa, senza commenti. In tal modo sperimenteremo
la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo
fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore
del mondo» (EG, 271).
Questo è l’uomo che ha indetto il Giubileo Straordinario della Misericordia, parola che segnava la vita
di Bergoglio già prima di essere eletto. Quando nel
1992 era stato eletto Vescovo, secondo la tradizione
come suo motto episcopale scelse il motto latino:
«Miserando atque eligendo». La frase è tratta dalle
Omelie di san Beda, detto il Venerabile (672-735), il
quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrisse: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di
amore [in latino: miserando = avendone misericordia] e lo scelse, gli disse: Seguimi» (Omelia 21; CCL
122, 149-151).
Non è più tempo di difendere i princìpi a forza di manifestazioni o urla, oggi è l’umile tempo del sacramento della testimonianza con la vita, che è il vero
martirio che il Vangelo chiede a quanti vogliono avventurarsi per questa via, senza esaurirsi in una religiosità esteriore e di convenienza. Annunciando il
Giubileo, Papa Francesco, come novello Giona, attraversa la Ninive della storia, annunciano a tutti
non la «Misericordia di Dio», ma che «Dio è Misericordia». In questo modo egli resta fedele alla sua
storia personale e alla sua vocazione, dando spazio
alla Dimora/Shekinàh dello Spirito nella sua vita. Da
Papa ha coscienza di doverne testimoniare la realtà
davanti al mondo e davanti a chiunque incontri.
D’altra parte anche Gesù ha iniziato il ministero pubblico nella sinagoga di Nàzaret, scandalizzando i cultori del Dio «castigamatti», annunciando per tutti un
Dio dal Volto non solo umano, ma amorevole e carico di tenerezza e di amore a perdere:
«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo
mi ha consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a
portare ai poveri il lieto annuncio,/ a proclamare ai
prigionieri la liberazione/ e ai ciechi la vista;/ a rimettere in libertà gli oppressi,/ 19a proclamare l’anno di
grazia del Signore» (Lc 1,18-19).
Ogni tempo è «anno di grazia» perché il tempo di
ciascuno è diverso dal tempo degli altri, ma il tempo
di Dio è sempre un «kairòs - occasione propizia» da
afferrare, perché Dio ha tutta l’eternità per perdere
il suo tempo con noi, suoi figli e figlie, oggi e domani.
Sempre.
Paolo Farinella, prete
(1 - continua)
© Daniele Romeo / 2015
MISSÃO
50 anos
1965-2015
RORAIMA: GLI YANOMAMI E I 50 ANNI DI CATRIMANI (1965-2015)
L’INCONTRO
(Nohimayou)
TESTI DI: Stefano Camerlengo, Corrado Dalmonego, Guglielmo Damioli,
Laurindo Lazzaretti, Carlo Miglietta, Paolo Moiola, Daniele Romeo, Silvia Zaccaria.
DOSSIER A CURA DI: Paolo Moiola.
INTRODUZIONE
UNA STORIA
CHE DEVE CONTINUARE
Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come
cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico.
DI
STEFANO CAMERLENGO
© AfMC / Guglielmo Damioli
ome missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza
con il popolo yanomami nella foresta
amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier
speciale a loro dedicato.
Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro
cuore questa immensa foresta, bacino di vita per
l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità,
capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a
elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro.
C
Sopra: Yanomami si divertono in acqua. Pagina preceddente (copertina dossier): un’anziana, ornata a festa per una
cerimonia, beve frullato di banane; nei rituali funerari, al
frullato, vengono aggiunte le ossa polverizzate del defunto
(per gli Yanomami la forza vitale risiede infatti nelle ossa).
28 MC
OTTOBRE 2015
DIALOGO SENZA PREGIUDIZIO - Gli indios yanomami
si presentano al tavolo del dialogo interculturale
per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo
che non ha bisogno di intermediari che parlino
per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari
canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il
dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di
tutto, la convinzione del valore della loro cultura
senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In
questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio
di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro gioie e speranze, nei
loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché
l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento
delle diverse culture. In un dialogo che non è un
mero condividere e comunicare pensieri, ma un
essere disponibili al cambiamento e alla scoperta
di nuovi spazi di realizzazione.
UNO STILE RISPETTOSO - È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro
riconoscendolo come già illuminato e capace di
leggere i segni della presenza di un Dio buono in
chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile
di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso
quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza
che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da
non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il
bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel
bisogno.
PRESENZA, DENUNCIA, ANNUNCIO - Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire.
Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di
L’INCONTRO
© Daniele Romeo / 2015
DOSSIER MC
TERRA INDIGENA
© Maurice Tomioka Nilsson / 2005
YANOMAMI
In alto: ripresa aerea della foresta amazzonica durante
il viaggio da Boa Vista alla Missione Catrimani. In basso:
nella mappa grande il bordo rosso delimita la «Terra indigena yanomami»; in evidenza, Boa Vista, capitale dello
stato di Roraima, e la Missione Catrimani.
OTTOBRE 2015 MC
29
trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone
con ostinazione e metodo, aggregando forze ed
educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la
voce ovunque, approfittando con saggezza dei
mezzi tecnologici e dei media (come - ad esempio la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità
ha reso visibile a molti un piccolo angolo del
mondo, ha offerto la sua esperienza locale come
possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli
alleati che vogliano affrontare le stesse sfide.
TANTI, MA NON ABBASTANZA - Mi sembra questo
uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale
vivono: l’invito a non scordare mai che, anche
quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà
sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà
l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla
presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che
lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.
Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per
aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro
storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente
che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza.
IL DOVERE «ETICO» DI RIMANERE - Rimaniamo a
Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha
il diritto di vivere. E come missionari abbiamo
sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma
ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami.
Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri
e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi
egoistici di quel mondo. I governi pensano solo
alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che
continui così.
Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili
di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando
delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore
alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è
possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri.
Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di
difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la
pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui.
Stefano Camerlengo
Qui sotto: la Missione Catrimani con la pista di atterraggio. Pagina seguente: gruppo di Yanomami in cammino.
© Carlo Zacquini
30 MC
OTTOBRE 2015
L’INCONTRO
© AfMC
DOSSIER MC
L’EVOLUZIONE DEL DUBBIO
YANOMAMI E NAPËPË
Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami
(e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti.
Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale.
DI
PAOLO MOIOLA
oa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil
sono presenti molte persone. La banca ha
soltanto sportelli automatici. Dopo aver
prelevato il denaro, veniamo avvicinati da
due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di
averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione
yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo
stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due
indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro
tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti.
Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi
non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci
salutiamo.
Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso
del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un
impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o
come agente di sanità indigena. Nella mente si
fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma
crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios
e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia,
passata e attuale, risponde che sono gli indios ad
avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili
esistenziali e cultura.
«Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lon-
B
tano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di
Roraima2. «La domanda è lecita - proseguiva il prelato - e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente
verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios
hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel
loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente
quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri
giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente
senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?».
Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzatoselvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi.
«Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di
questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva
Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del
missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4.
Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per
OTTOBRE 2015 MC
31
cambiare gli indios - hanno scritto di lui -, è stato da
loro cambiato»6.
Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la
sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa.
Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in
stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di
gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima
opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8.
Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la
prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo,
nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile
non subire influenze e contaminazioni. Piccole e
grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del
Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per
imparare come loro a vivere armoniosamente con la
natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro
sugli Yanomami9.
elle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto
sia stato duro difendersi dall’avanzata - fisica e culturale - dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello
specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel
mondo del 2015. Con o senza bancomat.
Paolo Moiola
N
NOTE
(1) Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi
Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata,
marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è scomparso nel settembre 2014.
(3) Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni
Consolata, Torino 1967, pag. 79.
(4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritorno
alla maloca, Emi, Bologna, 1972.
(5) Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma
2011, pag. 65.
(6) Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4.
(7) Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt,
Rinehart and Winston, Usa 1968.
(8) Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli
Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013).
(9) Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014.
32 MC OTTOBRE 2015
YANOMAMI
Dati e informazioni
DOve sONO - Il popolo degli Yanomami vive in
un’area di foresta tropicale a Ovest del massiccio delle Guiane, sui due lati della frontiera tra
Brasile e Venezuela.
superfIcIe - Occupano un territorio di circa
192.000 chilometri quadrati (quasi 2/3 dell’Italia), di cui 96.650 in Brasile.
pOpOlAzIONe - Sono circa 33.100 persone
(fonte: Albert - Milliken, 2009).
lINgue - Gli Yanomami si riconoscono come un
popolo che presenta, al suo interno, diversità
culturali e che parla lingue appartenenti alla
stessa famiglia e mutuamente comprensibili.
IN BrAsIle - La Terra indigena Yanomami è localizzata all’estremo Nord del Brasile e ha un’estensione di 9.664.975 ettari, essendo abitata
da 21.249 persone, organizzate in 285 comunità (Distrito sanitário especial indígena yanomami, 2014).
lOcAlIzzAzIONe DellA MIssIONe cAtrIMANI - La Missione Catrimani è localizzata sulla sponda sinistra del fiume Catrimani (N: 02°21’167’’; W:
063°00’447’’), affluente del Rio Branco, di
fronte alla rapida del Cujubim.
cOMuNItà e pOpOlAzIONe - Nella regione della
missione Catrimani esistono 22 comunità con
una popolazione di quasi 900 abitanti.
DAtI DeMOgrAfIcI - Gli Yanomami stanno vivendo una forte crescita demografica, perciò
la popolazione è molto giovane. Nella regione
del Catrimani, 408 persone hanno meno di 14
anni, corrispondendo al 49 % del totale.
DIstANze - La Missione Catrimani dista circa 250
Km in linea d’aria da Boa Vista, capitale dello
stato di Roraima.
MezzI DI trAspOrtO - Partendo da Boa Vista, è
raggiungibile con piccoli aerei leggeri che atterrano sulla pista della missione (circa un’ora
di volo), ma si può arrivarvi per via fluviale, risalendo il fiume Catrimani (circa tre giorni di
navigazione), o per via terrestre, utilizzando
veicoli fino a dove esistono strade e... continuando a piedi nella foresta, meglio se ben accompagnati (circa cinque giorni).
sAlute - Le patologie più diffuse: infezioni respiratorie, gastroenteriti/verminosi, malattie
della pelle/dermatiti, tubercolosi, malaria, denutrizione. Alla missione esiste un ambulatorio con farmacia, ma i casi più gravi sono trattati in città.
eDucAzIONe - Ogni comunità, in genere, possiede una piccola scuola con il proprio maestro
Yanomami che vi risiede. Alla missione esiste
un Centro di formazione usato per la formazione di maestri, di tecnici indigeni di salute,
per corsi, incontri e assemblee.
DOSSIER MC
L’INCONTRO
LO STILE NUOVO DI CATRIMANI
LA CAPPELLA
NON È AL CENTRO
DI
GUGLIELMO DAMIOLI
Cinquant’anni fa - era l’ottobre del 1965 - i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono
tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca),
al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo
Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni.
D
lato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà
misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre
frequentavo l’Università Gregoriana tentando di
coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il
mio mondo. Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima
come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo,
frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di
sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia
delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali,
In basso: una grande «yano» (maloca) immersa nel verde
della foresta amazzonica, non lontana da Catrimani.
© Daniele Romeo / 2015
a bambino facevo parte di una banda che
giocava nei boschi di Cividate Camuno
(Brescia), in Val Camonica. La domenica
amavamo andare al cinema dell’oratorio a
vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento
in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con
le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri».
Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò.
Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti
tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano Sabatini, un
missionario della Consolata. Ricordo la foto di una
giovane donna, dentro una canoa, con un bambino
in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con
frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua
e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo,
vero incontro con gli indios. L’immaginario popo-
OTTOBRE 2015 MC
33
mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie
di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni
a conoscenza della mostruosa e vera storia della
«scoperta» dell’America.
Brandendo la croce e la spada
Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili,
dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù... sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada,
dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore
genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei
anni a Roma, venne pubblicato Ritorno alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione
umiliante e disperata degli indios cristianizzati
delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968)
l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon,
con il suo libro Yanomamö. The Fierce People,
aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante:
nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato
e «primitivo» che racchiude il «gene della
guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati - Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli - di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel
contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già
aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa
missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che
condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di
collisione col potere integrazionista e distruttivo
dello stato e con interessi economici e politici a tal
punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo
di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista.
«Il Dio dei bianchi è cattivo»
Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979
arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un
centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato»,
stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità
e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí,
protagonista del libro di Sabatini, a concludere:
«... il Dio dei bianchi è cattivo».
Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente
costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e
34 MC
OTTOBRE 2015
fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla
Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria.
Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col
labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con
un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad
archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli
perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le
gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a
tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di
tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un
deposito, era certamente la più piccola del mondo:
una presenza discreta, una semente nel cuore del
mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche
fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini
neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti.
Non ricordo i testi biblici di quella messa perché
nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di
Giovanni: «...e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi...».
Al mattino seguente visitammo la comunità dei
Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigantefiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una
specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno
un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una
piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo.
Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso
accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi
sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto
carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto»,
poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro
di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il
gruppo.
Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di
testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della
Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli
Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra.
Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i
missionari della Consolata che hanno lavorato
anni alla missione Catrimani - dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori
(Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore
della Consolata, le laiche locali, italiane e del
L’INCONTRO
© Daniele Romeo / 2015
DOSSIER MC
Cimi) fino a noi - battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare,
si sono lasciati condurre per mano sui sentieri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei
fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo
dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami.
Una breccia mortale: «napëpë mohoti»
Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di
salvare vite. La costruzione della Perimetrale
Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una
breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia
di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità
di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura
degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto
intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva
già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte,
dopo una corsa affannata di un giorno o una notte,
con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto... Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia,
piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo
a salvarli tutti...».
Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yano-
Sopra: gruppo di anziane e giovani donne impegnate a macinare radici di manioca già sbucciata e lavata; servirà a ottenere la farina usata per preparare focacce («beijù»).
mami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di
localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di
accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche
con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini
seminudi, coperti di fango e con fucili in mano,
bottiglie di cachaça, taniche di mercurio.
A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da
Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando
la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di
Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di
organizzare la resistenza armata degli indios.
Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei:
4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di
espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia
e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto
il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col
cuore a pezzi, dopo avere tranquilizzato gli indios,
OTTOBRE 2015 MC
35
© AfMC / Silvano Sabatini
© AfMC / Silvano Sabatini
salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6
giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro
dell'equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in
stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto
sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione.
I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi:
5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le
terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la
foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di
tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in
terra nemica, senza saper dire una parola. La luce
si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la
stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi.
Autodifesa: terra, lingua, identità
Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla
missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli
indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca
di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di
cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie
per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una
salute e una educazione «differenziata».
36 MC OTTOBRE 2015
La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario
costituzionale e alla rottura dell’isolamento col
conseguente scontro disuguale di culture, era
chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa.
Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di
laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in
pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura
bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribú attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire
l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno
di Roraima»).
In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni,
registrando la storia, raccontando miti, scrivendo
lettere alle autorità, inviti, informazioni... La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere
ogni villaggio.
L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un
cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i
tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra,
lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio
destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo.
Guglielmo Damioli
(Hewësi Par+ki)
In alto, a destra: momento di un rito sciamanico in favore di
un ammalato. In alto, a sinistra: l’abbraccio tra due uomini
avviene durante un rito («yã+mu») di scambio di notizie
(matrimoni, alleanze, ecc.). Si notino le bocche nere a causa
delle foglie di tabacco.
DOSSIER MC
Mondo yanomami
L’INCONTRO
Mistica e mitologia
A
causa dell’isolamento e di un’esistenza millenaria
nell’ambiente della foresta tropicale dell’Amazzonia, il popolo Yanomami ha sviluppato una cultura
e un sistema simbolico propri, molto differenti dalla
simbologia biblica frutto di un ambiente e di una cultura di pastori del deserto. Qualsiasi traduzione letterale, tipo Dio = Omã, risulta insostenibile. La tradizione
orale yanomami, miti e storie esemplari rivissute nei rituali, spiega le origini e orienta il comportamento sociale e etico della società che vive in foresta. In una cultura orale come quella yanomami, i miti sono dinamici,
raccontati o celebrati, liberamente adattati alla situazione ma conservandone inalterato il nucleo.
LE ORIGINI
Invece di un Dio creatore, alle origini ci sono due gemelli: Omâ e Yoasi. Omâ rappresenta l’intelligenza creativa, la furbizia, la generositá. Yoasi, il caimano, rappresenta la stupidità e l’egoismo.
• Gli Yanomami sono figli di Omâ e i napëpë (= non Yanomami) sono figli di Yoasi, egoisti e irresponsabili (mohoti).
• Omâ ha dato queste terre agli Yanomami, ai napëpë
ha dato Boa Vista, São Paulo...
• Omâ si è ritirato sulle montange del Parima, ma è
chiamato in causa quando c’è bisogno.
• Il figlio di Omâ aveva sete. Omâ fece un buco nella
terra causando la grande inondazione.
L’UNIVERSO E L’ARMONIA
La foresta (urihi) è il mondo, il pianeta, il cosmo dove vivono tutte le cose che esistono, materiali e spirituali:
Yanomami, napëpë, spiriti, ancestrali, animali, piante,
fenomeni naturali... Una struttura molto instabile frutto
di un cataclisma originale causato dalla rottura dell’equilibrio. Se si rompe l’armonia dell’insieme tutto cade,
è la fine di tutto.
• Ferire la foresta, tagliare o strappare alberi in grande
quantità, aprire strade, scavare buchi per estrarre metalli libera un fumo, una nebbia mortifera invisibile che
si sparge seminando epidemie, malattie mortali (xawara).
• Nella foresta ci sono luoghi dove abitano animali mostruosi, Teperesik+, Terema... sono luoghi protetti, nessuno può andare là per cacciare o pescare impunemente. Sono nidi di riproduzione della biodiversità.
• Gli xapuripë (sciamani) yanomami, grandi alberi materiali e spirituali, sono le colonne del cielo. Quando l’ultimo sciamano morirà, anche l’ultimo albero sarà abbattuto e il cielo cadrà nuovamente.
GLI SCIAMANI (XAPURIPË)
Lo sciamanismo e l’endocannibalismo sono i rituali più
affascinanti della cultura yanomami. Gli sciamani, mediante l’uso di allucinogeni, di canti e danze, sono il
ponte tra il mondo materiale e quello spirituale con la
funzione di mantenere l’equilibrio, l’armonia della foresta/mondo.
• Quando uno sciamano muore, gli elementi si infuriano, particolarmente il vento e il tuono. (In occasione
della morte di una persona importante ho visto una
donna gridare allo sciamano: «Il tuono sta dormendo,
scuoti la sua amaca»).
• La morte di uno sciamano scuote l’equilibrio, asce tagliano i pilastri del cielo, gli sciamani alzano le braccia
per reggere un peso che può diventare insostenibile. I
pianti rituali, le grida, i canti e le danze mimiche creano
un clima di grande drammaticità, letteralmente da fine
del mondo.
• Lo sciamano viaggia nel mondo degli spiriti animali, incarna e imita l’animale appropriato, succhia e poi soffia
buttando via lo spirito responsabile per la malattia. Il rituale, eseguito singolarmente o in gruppo, può durare
una notte intera.
• L’endocannibalismo consiste nella consumazione rituale e in gruppo delle ceneri delle ossa di uno Yanomami morto sciolte in una zuppa di banane.
• I rituali funebri valorizzano le qualità a servizio del
gruppo. È una forma di comunione per perpetuare questi valori e stringere alleanza con altri gruppi.
GLI ANIMALI
I personaggi dei miti delle origini, dei racconti e dei disegni sono animali della foresta, indicando una intima
unione ancestrale e attuale.
• Ogni Yanomami ha un «alter ego» (altro-io) animale, il
falco reale è il più rappresentativo, la sua uccisione richiede rituali di purificazione.
• Il giaguaro ruggisce nel petto degli sciamani e dei giovani cacciatori.
• Il colibrì ha estratto il fuoco dalle fauci del caimano e
l’ha posto dentro il legno della pianta di cacao.
• Il sangue della puzzolente e antipatica mocura (faina)
stà all’origine dei colori degli animali.
• Il tacchino selvatico, dalle penne nere e petto bianco,
sta all’origine della alternanza del giorno e della notte.
«Voi napëpë pensate che l’aurora viene meccanicamente? Sono gli uccelli che, cantando, chiamano l’aurora. Se uccidete tutti gli uccelli, la notte si estenderà
per sempre».
L’intima unione di tutti gli elementi della foresta /
mondo fa sì che non ci sia distinzione tra voce e rumore,
tutti parlano, tutti si comunicano: la voce degli Yanomami, la voce del tucano, del giaguaro... del tuono,
delle rapide dei fiumi, del vento.
R
itengo che le tradizioni racchiuse nella sapienza
yanomami possano realmente trasmettere segnali
e valori alla nostra società occidentale. A garanzia
della vita e soprattutto della sopravvivenza del pianeta.
Guglielmo Damioli*
(*) Per approfondire le tematiche della cultura yanomami
rimandiamo a: Guglielmo Damioli, Giovanni Saffirio,
Yanomami. Indios dell’Amazzonia, Edizioni Il Capitello,
Torino 1996.
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DALL’INCONTRO ALLA CONDIVISIONE
I NOSTRI PRIMI
CINQUANT’ANNI
DI
CORRADO DALMONEGO
In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati
da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che
soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani.
olto tempo fa, quando noi Yanomami non conoscevamo i bianchi,
quando io ero un bambino di circa
10 anni, i padri risalirono il fiume
Catrimani [...]. Loro fecero conoscenza degli Yanomami e divennero amici. [...]». Con queste parole,
Davi Kopenawa, leader e sciamano yanomami1, inizia a narrare una vicenda di fatti e vite lunga cinquant’anni: la storia della Missione Catrimani.
«M
© Daniele Romeo / 2015
Esotici, strani, misteriosi
Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli
indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si
38 MC OTTOBRE 2015
possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono
solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che
ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in
generale di ogni realtà missionaria.
Primo: l’incontro dei missionari della Consolata
con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca
reciproca. Il padre Domenico Fiorina - allora superiore generale dell’Istituto - aveva già indicato una
direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone
inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos - bravos significa selvaggi [...]. È alla
conversione di questi indios che i nostri missionari
dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami - che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni - seguivano le tracce
DOSSIER MC
L’INCONTRO
A sinistra: padre Corrado Dalmonego con due giovani yanomami. Pagina precedente: un gruppo di Yanomami in attesa di entrare nella maloca per iniziare un rituale di festeggiamento.
altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e
fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca.
© AfMC
lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i
fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato.
Secondo: questo trovarsi - seppure segnato da concezioni molto diverse - ha richiesto e messo in luce
una disponibilità all’incontro. La descrizione che
padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del
fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che - nonostante l’iniziale timore reciproco e
la difficoltà di comunicazione - il missionario era
accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti
di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul
petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un
apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno
non pensa due volte - in una notte di pioggia - a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende
la coperta per proteggere dal freddo della notte il
suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul
fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in
marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani,
ricevendo la stessa accoglienza: un cammino
aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero.
Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità.
L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico,
ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che
certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari
dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici,
strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la
loro visione del mondo prevedeva uno spazio che
poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che
rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5.
Con questi presupposti, la missione si è configurata
come un intreccio di relazioni che hanno cercato di
essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e
Invasori e missionari
Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la
«nuova evangelizzazione», pensata dai missionari
che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano
nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di
Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto
rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro
terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle
città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette - per la eseguità di risorse e la scarsità di personale disposto a
condizioni di vita poco confortevoli - a concentrare
le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla
realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza
stabile della Missione Catrimani si mostra ancora
più significativa.
Questa presenza era già stata difesa, con le unghie
e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica
della «desobriga» - le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti - come unica possibile
forma di azione evangelizzatrice.
La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza
fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume,
durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse
della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la
lingua della gente.
La prossimità nel quotidiano
La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o
l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di
fiducia e convivialità che - all’inizio della presenza
missionaria, come oggi - anelano a essere diverse
da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo
a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comuOTTOBRE 2015 MC
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© Daniele Romeo / 2015
Parola
di Yanomami
• TesTimonianza di K. Yanomami
(morto in marzo 2014, a circa 75 anni)
Stralcio della deposizione raccolta e registrata, a gennaio
2013, presso la comunità di Waroma (regione Missione Catrimani).
«Ci Presero Con loro»
«[Poco dopo la fondazione della Missione Catrimani] padre
Giovanni Calleri disse proprio così: “Voi, altri bianchi, non
dovete piú venire qui, non dovete risalire il fiume. No! Io
ho giá preso sotto la mia protezione gli Yanomami”. [...]
Che cosa passava per la testa dei padri, quando sono arrivati? Padre Calleri diceva cosí: “Molto bene, io sono venuto
a cercarvi, per prender con me voi Yanomami”. [...]
I padri hanno preso con sé noi Yanomami, perciò hanno
detto: “È bene che vi prendiamo con noi [...]: noi vi cureremo, vi difenderemo dai garimpeiros, quando questi arriveranno per stabilirsi”. Così, quando hanno iniziato a costruire la strada [BR 210] loro sono rimasti qui».
• TesTimonianza di aleXandre Yanomami
(di circa 55 anni)
Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, a
gennaio 2015, presso la comunità di Hawarixa (regione
Missione Catrimani).
«ma lui fu uCCiso»
«Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di
Hawarihi [localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del Catrimani] e raggiunse le altre comunità dei nostri avi. In seguito, lo raggiunsero altri e chiamò
40 MC OTTOBRE 2015
Qui a sinistra: adulti e bambini durante l’attività di rappresentazione di miti e leggende yanomami attraverso il
disegno. In basso: in partenza
per la caccia; gli Yanomami
apprezzano molto la carne,
soprattutto quella di scimmia
e di tapiro.
molti abitanti di questa regione. [Padre Calleri] vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di
cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari
[un tipo di cinghiale] per lisciare l’arco, [...] l’utensile di
denti di aguti [un roditore] legato al braccio. [...]
Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”. In questo modo, Calleri vide
con i suoi occhi le difficoltà degli antenati: le donne cuocevano la focaccia di mandioca sulle pietre, grattuggiavano i
tuberi di mandioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero
operema, spremevano la polpa di mandioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò: li
aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite
qui” e i nostri genitori andarono ad aprire la pista di atterraggio. [...] Venendo da tutte le comunità, gli Yanomami,
insieme, costruirono questa pista. In seguito, per il servizio
prestato, padre Calleri distribuì i coltellacci che aveva portato con sé da Manaus.
I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri:
tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di
Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui. Ma lui
fu ucciso».
l’ePidemia di morbillo
«Questo qui [indicando fratel Carlo Zacquini] era un papà.
Aiutò i nostri anziani. Loro piangevano di dolore, ma li soccorse. Molti furono curati. Vedendo che le persone venivano curate, [i nostri anziani] lo chiamarono di xapuri [sciamano/curatore] bianco.
Dissero: “Lui è xapuri bianco, per questo guariamo, recuperiamo la salute”. [...]
Nel 1977, quando i nostri genitori morivano nei pressi del
fiume Hwaia u, corse insieme alla mamma Claudia (Andujar, fotografa svizzera molto conosciuta per il suo lavoro tra
gli Yanomami, ndr), per soccorrerci durante l’epidemia di
DOSSIER MC
nità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi
per maestri yanomami o visite per la realizzazione
di azioni di salute.
In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una
strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da
progetti lontani dalle reali necessità di un popolo.
Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il
quotidiano della missione è stato anche l’affrontare
insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume,
soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla
danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura.
Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i
missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci - soprattutto se si tratta di una
spedizione di caccia o di una cerimonia rituale sono molto apprezzate da loro.
© Daniele Romeo / 2015
morbillo. Questi due accorsero per darci ausilio, mentre noi
e altri Yanomami ammalati, qui [nell’alto corso del fiume]
stavamo correndo [cercando soccorso alla Missione Catrimani]. [...]
In quel tempo, quando il morbillo aveva già ucciso molti ed
era calata l’intensità dell’epidemia, questi due arrivarono.
Ci raggiunsero nella comunità ormai spopolata. Portarono
vaccini e medicine contro il morbillo, con i quali - noi che
eravamo sopravvissuti - fummo curati e ci ristabilimmo.
A causa di questa situazione [di grave sofferenza degli Yanomami], Claudia e Carlo Zacquini, cominciarono la lotta
per la [demarcazione della] terra indigena. Iniziarono questa nuova lotta perché volevano prendersi cura di noi. [...] I
missionari della Consolata ci aiutarono realmente. Padre
Giovanni [Saffirio] corse al Posto indigeno della Funai [Fondazione Nazionale dell’Indio] al Watorikɨ [Demini], per richiedere il soccorso di un elicottero. [...]
Loro hanno inviato [più di una] proposta [di demarcazione]
al governo [brasiliano]. [Affermando:] “Il popolo Yanomami
è importante”. [...] Tutto questo perché potessimo vivere
L’INCONTRO
Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi)
Su questa prossimità e condivisione, la missione si
è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro
partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica.
Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità
gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo
padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare fornendo generosamente oggetti industriali (attrezzi
da taglio, ami da pesca, e altro).
Se per i missionari era questione di emergenza
prendersi cura della salute degli indigeni, quando
l’invasione del loro territorio era accompagnata da
epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentieri
(continua a pagina 44)
in salute, [continuare a] realizzare le nostre feste reahu,
fare le nostre piantagioni, crescere [allevare] i nostri figli».
• TesTimonianza di PedRo Yanomami
(di circa 80 anni, comunitá di Maamapi)
Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, in
gennaio 2015, presso la comunitá di Maamapi (regione
Missione Catrimani).
«noi due moRiRemo insieme»
«Fratel [Carlo Zacquini] andava a caccia con me, in quella
direzione. Noi cacciavamo là tapiri e scimmie. Adesso è anziano. Io sono divenuto anziano, e lui, come me.
[Rivolgendosi a Fratel Carlo che da qualche anno vive a Boa
Vista:] Fratello tu tornerai? Vieni di nuovo a visitarci alla
Missione. Vieni ad abitare qui di nuovo. Moriremo insieme.
Noi due moriremo insieme. [Gli altri Yanomami] realizzeranno il rituale con le nostre ceneri. Se seppelliranno il tuo
corpo, tu [in questo passaggio] soffrirai: i bianchi sono irresponsabili, non sanno le cose. Solo se sarà realizzato qui il
rituale delle ceneri, andrà tutto a buon fine.
Io ho pensato che sarà bene così per noi, perciò ti chiamo:
ritorna qui.
[Fra qualche settimana,] quando realizzeremo la festa
reahu, nella mia comunità, visitaci di nuovo. Anche se anziano, danzerai nella mia casa. Noi due anziani danzeremo.
Io non vedo più le persone e le cose con i miei occhi, ma
ancora posso camminare. Invece, i tuoi occhi scorgono ancora chiaramente: solo io sono immerso in una grande
oscurità.
Sento molta nostalgia. Tu hai cacciato e pescato per alimentarmi, perciò ti ricordo, ti conservo nel cuore. Se io
avessi occhi buoni, ti visiterei varie volte a Boa Vista, dopo
aver volato con l’aereo. Domanderei: “Tu stai bene?”. Questo è ciò che penso».
(a cura di Corrado Dalmonego)
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© AfMC / Silvano Sabatini
© AfMC
© AfMC / Silvano Sabatini
© AfMC / Silvano Sabatini
DALL’ALBUM DI FAMIGLIA
L’INCONTRO
Nella pagina precedente: un bimbo sorridente con Guglielmo Damioli; padre Bindo Meldolesi in barca con un gruppo di indigeni; padre Giovanni
Calleri con un indio; padre Silvano Sabatini con due bambini; il «Dornier», il piccolo aereo della Prelazia di Roraima, sulla pista di Catrimani
in uno dei suoi primi voli (di spalle, davanti all’elica, c’è padre Calleri).
In questa pagina: il cartello, messo all’inizio della deviazione che dal km
145 della Perimetrale Nord portava alla Missione Catrimani; con esso gli
Yanomami volevano notificare ai garimpeiros e a chiunque altro che
quello era territorio indigeno sul quale non si poteva cacciare, pescare
o coltivare; fratel Carlo Zacquini con un bimbo yanomami in una bella
foto della nota fotografa Claudia Andujar; suor Florença Águida Lindey
nella farmacia della Missione.
© Claudia Andujar
© AfMC / Silvano Sabatini
DOSSIER MC
© AfMC / Silvano Sabatini
nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava
come un curatore e un parente: un papà.
Se l’infermiera della missione dedicava il massimo
sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato
che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla
patologia da cui era stato curato.
Se la demarcazione del territorio indigeno, per i
missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi
rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un
socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili.
Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli
strumenti che dovevano essere messi nelle mani
degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle
minacce sempre piú pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi
di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un
ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato.
Nonostante le prospettive siano distanti e le letture
degli avvenimenti siano diverse, la condivisione
della storia ha reso e rende possibile un dialogo
nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno
prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti
senza pronunciarne il nome - per non risvegliare la
tristezza e il risentimento per la perdita recente - o
festeggiano una nascita.
Il segreto sta nella condivisione
Il cammino della missione è stato percorso con
grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito,
si configura come il sentiero tracciato dal Signore,
lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare
attenzione, aprendo gli occhi e entrando - quando
accolti - in un mondo differente, con atteggiamenti
di condivisione:
- togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti - fra spine, zone allagate, liane - per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di
questo popolo;
- imparando un’altra lingua - che questo popolo ci
insegna con grande disponibilità e allegria - per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta;
- cercando di conoscere - condotti dalle nostre
guide - la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui
vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio - anche se trascendente - ha senso solo se dice qualcosa
a partire da un mondo conosciuto;
- apprezzando cibi diversi, perché è consumando
insieme un abbondante frullato di banana - alle
44 MC OTTOBRE 2015
volte... troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di
mandioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro
affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia;
- imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela
sulle spalle per accompagnare le persone nei loro
lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra
due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli
Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un
morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da
estranei che minacciano la loro vita.
È attraverso questi gesti di completa condivisione
che si costruisce la missione. Le persone vengono
cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari
- fragili messaggeri - scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di
morte.
Avvicinarsi e rimanere
Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in
assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che - essendo
voi religiosi e conoscendo Dio - Lui vi ha mandati
per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta
lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni.
La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale”
[mentre settori della società lo trattano come fosse
tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, cosí come sono stati creati i nonindigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare
far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro
lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici,
che vogliono impossessarsi delle ricchezze della
L’INCONTRO
A sinistra: giovani donne si dipingono viso e corpo in occasione di una festa; gli Yanomami ottengono dalla bixa
orellana l’annatto, un colorante naturale che viene poi
mischiato con la cenere (o altri prodotti) per ottenere una
tonalità rosso cupo-marrone. Sotto: mamma yanomami.
© Daniele Romeo / 2015
© Daniele Romeo / 2015
DOSSIER MC
Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare
come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia,
senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!».
Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima
enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a
continuare la missione per... altri cinquant’anni o,
come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi,
sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla
Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del
mondo: io non so quando questo mondo terminerà,
ma so che per noi questo è importante».
Corrado Dalmonego
(Hewësi Ihurupë)
NOTE
(1) Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna
del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni
Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951.
(3) Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni
Consolata, p. 14-20, febbraio 1964.
(4) Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234,
1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in
Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954.
(5) Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15,
p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42, luglio-agosto 1966.
(6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram.
Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della
Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi
né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile.
OTTOBRE 2015 MC
45
DIECI ANNI TRA GLI YANOMAMI
CIRCONDATI
DAL MONDO
DI
LAURINDO LAZZARETTI
Catrimani è stato un centro di resistenza contro gli invasori e contro le politiche governative.
Negli anni alcune cose sono cambiate: presso alcuni gruppi di Yanomami sono arrivati vestiti,
fucili, barche a motore, soldi. Cambiamenti grandi, rapidi e profondi stanno avvenendo senza
lasciare il tempo agli indigeni di discernere ciò che è meglio. Ricordi, riflessioni e preoccupazioni del primo brasiliano che ha lavorato nella Missione Catrimani. Per 10 intensissimi anni.
rima dell’arrivo a Roraima il mio contatto
con i popoli indigeni era stato minimo1.
Porto con me un’immagine dell’infanzia in
cui i Kaingang2 del Rio Grande do Sul (il
mio stato di nascita) passavano per la strada in
gruppi, recandosi in città a vendere i loro prodotti
artigianali. Al ritorno si accampavano ai bordo del
torrente e da lontano si ascoltavano i loro canti e
le conversazioni. Il più delle volte, ubriachi, finivano per litigare e per fare a botte. Non sapevo né
capivo che la loro terra era stata invasa e presa in
mano da coloni venuti da diverse regioni. In pochissimi anni questo gruppo scomparve e la sua
terra, che era ricca di un legno tipico della regione, fu completamente disboscata e occupata da
© Daniele Romeo / 2015
P
1.200 famiglie. Parecchi anni dopo, durante il noviziato in Colombia, ebbi l’opportunità di conoscere
da vicino il lavoro dell’equipe missionaria di Toribio e tramite essa la realtà indigena della regione
del Cauca (che non è diversa da quella della maggior parte dei popoli indigeni delle Americhe).
A favore della vita
L’arrivo a Catrimani e l’incontro con gli Yanomami fu un punto di svolta nella mia vita. Tutto
ciò che avevo studiato, udito e visto fino ad allora
venne azzerato, mostrandomi la necessità di ricominciare da capo. E, in effetti, iniziò un processo
di conversione che mi ricordò l’esperienza della
caduta da cavallo di san Paolo: diventare cieco,
DOSSIER MC
L’INCONTRO
© Daniele Romeo / 2015
guarire e infine vedere le cose con occhi diversi,
con un altro cuore e con motivazioni molto più
profonde che non fossero soltanto quelle emotive.
Come, per esempio, era quella di vedere «l’indigeno come buon selvaggio». Quello che più mi ha
colpito durante i dieci anni - dal 2001 al 2011 - trascorsi nella Missione Catrimani è stato sperimentare il Dio della vita accanto a un popolo con lingua, costumi, tradizioni, spiritualità, mistica e organizzazione sociale completamente diversi da
quelli che avevo vissuto fino ad allora.
Ricevetti un’enorme eredità dai missionari, la
maggior parte di loro italiani, rimasti per molti
anni tra gli Yanomami che essi avevano fatto conoscere al mondo, a dispetto delle molte polemiche - all’interno della chiesa e dell’istituto - per un
impegno più a favore della vita che della dottrina
e della evangelizzazione.
Primo missionario brasiliano a rimanere così a
lungo tra gli Yanomami di quella missione, con
una nuova equipe e meno risorse finanziarie rispetto a coloro che ci avevano preceduto, nei dieci
anni trascorsi a Catrimani assistetti alle grandi
sfide cui la missione fu chiamata. Qui di seguito ne
ricorderò qualcuna.
Catrimani, centro di resistenza
Verso la metà degli anni Settanta i governi brasiliani promossero la costruzione della Perimetral
norte o Br-210, che causò molti disastri nelle popolazioni indigene e tra gli Yanomami in particolare.
Così facendo favorirono l’ingresso di migliaia di
minatori (garimpeiros) nei territori degli Yanomami e promossero lo sfruttamento delle ricchezze minerarie provocando un genocidio degli
In alto: mani di donna impastano la «farinha» di manioca,
con la quale si preparano le focacce chiamate «beijù».
Pagina precedente: una donna cuoce le focacce poste su
un piatto di terracotta (o di metallo).
indigeni, attraverso epidemie e scontri di ogni genere. Inoltre, a causa della strada, sempre più
agricoltori iniziarono ad avanzare sulle terre indigene. In questo contesto, insieme con gli Yanomami la Missione Catrimani divenne un centro di
resistenza alle invasioni e di critica alle politiche
poste in essere dalle autorità brasiliane.
Vari anni dopo, proprio nel periodo in cui ero a
Catrimani, Brasilia cambiò strategia chiedendo
alla nostra missione di seguire l’attuazione di alcuni programmi di salute. Il governo esigeva però
risultati immediati: tempestiva esecuzione di tutti
i programmi, riduzione della mortalità, soprattutto di quella infantile. Non dava seguito ai suoi
obblighi, ma tuttavia esigeva e faceva pressioni.
Attraverso questi programmi la missione venne
«invasa» da tecnici sanitari che però non provavano alcun interesse per la causa indigena e nessuna comunione d’intenti con la chiesa e con l’equipe missionaria. A causa del cambio delle
equipe di lavoro e del trasporto di indigeni in città
triplicò il viavai sia per la strada (finché essa funzionò) che per via aerea. I gerenti di questo progetto, che stavano a Boa Vista, dialogavano poco
con l’equipe e i missionari erano chiamati in causa
per cose che non competevano loro o per le quali
non erano preparati. I missionari stavano lì per la
formazione sanitaria, l’istruzione, l’accompagnamento, per stabilire un dialogo interreligioso e interculturale con le comunità yanomami.
Non erano lì per soddisfare le esigenze strutturali
e logistiche del programma di governo e dei tecnici che si turnavano a brevi intervalli. L’equipe
missionaria era vista come «manodopera a basso
costo», e ovviamente questo causò molti conflitti,
malessere nelle persone e di conseguenza nel lavoro missionario.
Il denaro e le sue conseguenze
Al primo incontro a cui partecipai alla missione
rimasi scioccato. Alcuni giovani che erano stati
preparati in microscopia e come agenti di salute e
che fornivano un servizio gratuito alle loro comunità si confrontavano con i missionari affermando
che, se non fossero stati pagati, non avrebbero più
svolto questi servizi. Molto era stato investito
nella loro preparazione e, soprattutto, sulla prospettiva della gratuità. Ma ora veniva prevista
una remunerazione per questi giovani e in seguito
essi avrebbero lavorato con un contratto formale.
Più tardi lo stesso sarebbe accaduto con gli insegnanti. Il significato e il mutamento che i soldi
nelle mani di questi giovani produssero furono
(sono) molto profondi. Iniziarono a prendere il posto degli anziani nelle relazioni con i non indigeni
e nel cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali della comunità (machete, asce, reti, nasse,
tabacco, sale, ...); non era (è) più necessario essere
un buon cacciatore, pescatore e raccoglitore per
OTTOBRE 2015 MC
47
© Daniele Romeo / 2015
A sinistra: uno Yanomami, orgogliosamente impettito,
con viso e corpo dipinti. Pagina seguente: molte donne
yanomami si abbelliscono con tre «bastoncini» (spesso di
banale paglia) infilati nel mento e uno trasversale nel naso.
sposarsi, ma avere un salario. Non accettavano
più di andare in città con gli stessi pantaloncini
rossi, di serie, forniti dalla missione. Ora volevano
comprare jeans e scarpe firmate. Con il denaro
arrivò il motore di coda sulle barche che facilitava
la vita sul fiume e permetteva di andare a pescare
più lontano. Entrò il fucile a sostituire l’arco e le
frecce3, le reti da pesca al posto dei metodi tradizionali.
Strade, alcol e lavoro schiavo
Il 31 dicembre 2002 ci fu l’ultimo viaggio lungo un
tratto di strada che dalla missione proseguiva per
110 chilometri. Poi la foresta riprese il sopravvento. Lungo questo tratto c’erano almeno quattro villaggi (come le aldeias Ajarai I e II) che
erano seguiti, se non in modo permanente, almeno quando i missionari in transito si fermavano
per uno scambio e un accompagnamento. Con
l’abbandono della strada divenne impossibile l’accompagnamento da Catrimani e d’altra parte non
si riuscì a formare un gruppo permanente che potesse seguire quelle comunità. Esse così si avvicinarono al villaggio di Sao José e alla città di Caracaraí. Vari fazendeiros occuparono illegalmente la
terra indigena. Per quelle comunità fu un periodo
davvero disastroso. Si intensificarono le incursioni nei centri urbani e si moltiplicarono i problemi a causa dell’alcol che era venduto dai mercanti della regione e del lavoro semischiavo praticato nelle aziende agricole che erano sorte all’interno della terra indigena.
Le «cose» come fattore disgregante
Al centro della missione c’era una piccola casa
che per lungo tempo servì come luogo di scambio
con gli Yanomami. Artigianato e prodotti coltivati
48 MC OTTOBRE 2015
dagli Yanomami erano scambiati con manufatti
dei missionari, ottenuti questi tramite la vendita
di prodotti artigianali o come aiuti (avuti per i
progetti o da amici e familiari). Questa piccola attività commerciale non era però del tutto benefica
per la comunità influenzando i comportamenti di
missionari e indigeni. La nuova conformazione
della équipe della missione, la diminuzione dei
progetti, il costo del viaggio aereo e gli scambi disparati ne causarono la cessazione. Poi il desiderio
di comprare cose che non erano nelle opzioni della
missione fece sì che gli indigeni scegliessero di acquistare i loro prodotti in città, pagando il trasporto.
Sembra banale, ma questo fatto cambiò molto le
relazioni tra gli indigeni, dato che alcuni avevano
la possibilità di acquistare beni e distribuirli, mentre altri non potevano. Ma cambiò anche l’atteggiamento verso i membri dell’équipe missionaria.
Il fattore economico era dunque divenuto il nuovo
modo di «integrare gli indigeni nella società nazionale» dimenticando specificità e differenze. Pertanto, grandi, rapidi e profondi cambiamenti stavano avvenendo senza dare agli indigeni il tempo
di discernere ciò che fosse meglio. Negli anni questa tendenza si è accentuata, con l’entrata di altri
programmi del governo, in futuro i cambiamenti
potrebbero essere ancora più grandi e probabilmente più disastrosi.
Attrazioni fatali?
Al termine dei primi 40 anni di missione tra gli
Yanomami vedemmo come la città stesse incantando gli Yanomami. Oggi, dopo 50 anni, possiamo vedere come molti di essi vivono nei centri
urbani, chiedono di studiare e laurearsi.
La politica economica del paese sta costringendo
allo spopolamento delle zone interne per fare spazio alla produzione di materie prime per l’esportazione. I popoli indigeni e le loro terre sono nel mirino di questa politica e il primo obiettivo è quello
di smantellare i loro diritti costituzionalmente garantiti.
Laurindo Lazzaretti
NOTE
(1) Su Laurindo Lazzaretti si legga: Paolo Moiola, La biodiversità è indigena, dossier MC, maggio 2015.
(2) Oggi gli indigeni kaingang vivono in condizioni precarie in
quattro stati brasiliani. Si stimano essere circa 32.000 persone.
(3) Secondo le stime di padre Dalmonego, nelle comunità yanomami del Catrimani ci sarebbero una dozzina di fucili su
una popolazione di circa 900 persone.
DOSSIER MC
L’INCONTRO
Indigeni e mondo dei bianchi / 1
Esiste una strada per la convivenza?
I
n pochi anni, tra il ‘65 e il ‘68, i missionari della Consolata,
anche grazie al nuovo metodo di approccio stimolato dal
Concilio Vaticano II che li portò alla costituzione della
prima equipe diocesana di pastorale indigena del Brasile, la
Commissione Pro-Indio (Coprind), passarono dall’idea di integrazione a quella di avvicinamento graduale degli indios
alla società bianca, incarnata dal progetto di «pacificazione»
dei Waimiri Atroari. Nello stesso periodo, la Coprind elaborò
anche un primo progetto di demarcazione di riserve indigene nell’area yanomami, che preludeva a quello di creazione del Parco Yanomami presentato dalla Ong Ccpy nel
1978 e poi ufficialmente approvato nel 1992.
Per Sabatini, allora presidente della Coprind, quello fu il momento d’oro della Consolata a Roraima: la Missione Catrimani venne ampliata con l’invio di due giovani missionari,
fratel Carlo Zacquini e padre Giovanni Saffirio e la Commissione avviò una collaborazione proficua con i vertici della Funai, il nuovo organo indigenista appena creato, che però sarebbe durata poco. La realizzazione della Perimetrale Nord,
nel 1971, inaugurò l’invasione massiccia del territorio yanomami, aprendo la strada ai cercatori d’oro. L’ambiguità della
Funai che soccorreva i superstiti senza cercare di impedire
l’invasione (come poi avrebbe fatto nel caso dei WaimiriAtroari), sfociò in uno scontro aperto con la missione che
durò vari anni. Malgrado le pressioni e le minacce della nuova
presidenza della Funai, retta per più di un decennio dai militari,
l’equipe del Catrimani rimase a fianco degli indios, stimolando
il mantenimento delle istituzioni culturali indigene come la maloca e la pratica dello sciamanesimo, tanto che la Conferenza
nazionale dei vescovi definì quella di Catrimani come «esperienza missionaria profetica» del Brasile.
N
ella storia della Missione Catrimani, padre Silvano Sabatini è stato un protagonista, pur non essendo stato uno
specialista di cultura yanomami. Sin dai primi contatti
con gli indios, le sue intuizioni sono state segnate da una
grande libertà di pensiero e dalla capacità di sospendere il giudizio anche di fronte a pratiche facilmente condannabili - secondo il nostro sistema di valori - come l’infanticidio o la
guerra, giungendo a conclusioni radicali e illuminanti per il
modo in cui il missionario dovrebbe approcciare contesti culturali altri: «Non ha senso battezzare l’indio fuori dalla comunità… Il missionario deve “essere Cristo” invece di nominarlo…».
Sabatini si è spinto anche oltre. Avventurandosi nel territorio
caro agli antropologi, egli ha riconosciuto il ruolo fondamentale
giocato dai leader indigeni (come Gabriel Macuxi e Davi Yanomami) come «mediatori dell’alterità», in quanto figure «di confine» in grado di tradurre la nostra cultura all’interno del proprio gruppo e di operare una rielaborazione della cultura indigena il più possibile rispondente alle esigenze dell’immaginario
occidentale dominante, per renderla intellegibile all’esterno e
«attuale», garantendole così il diritto di continuare a esistere. E
ancora, Silvano Sabatini e la Missione Catrimani hanno dimostrato come solo la piena legittimazione dei valori delle culture
altre possa oggi dare nuovo senso non solo alla pratica missionaria ma, più in generale, alla nostra stessa cultura occidentale,
che ha bisogno, questa sì, di una «nuova evangelizzazione» se
vuole gettare le basi per una convivenza pacifica con l’Altro.
Silvia Zaccaria
© Daniele Romeo / 2015
L
a storia della Missione Catrimani può contribuire a gettare luce sulle vicende più recenti relative alla conquista dell’Amazzonia e sul modello di convivenza possibile tra indigeni e mondo dei bianchi.
Ci ricorda, ad esempio, che i protagonisti dell’epopea della
conquista furono uomini che inseguivano promesse ingannevoli, come quella contenuta nello slogan «terra senza
gente, per gente senza terra!», dietro alla bandiera illusoria
di un progresso che non sarebbe mai stato per loro. È a questi avventurieri che inizialmente si associarono i missionari
per realizzare la propria opera in terra amazzonica, ovvero
portare il Vangelo a popoli allora considerati selvaggi e senza
Dio.
Benché il suo territorio fosse stato raggiunto dalla «Commissione nazionale per l’ispezione delle frontiere» già nel 1927,
nei primi anni ‘60, quando il desbravamento (colonizzazione)
del Brasile centrale era già stato completato, Roraima ospitava ancora indios non contattati come i Vaikà (nome dispregiativo dato agli Yanam, sottogruppo yanomami).
I missionari della Consolata, catapultati in quell’ambiente
ostile e sconosciuto, non avevano altra scelta se non quella
di mettersi al seguito degli «invasori»: come il cacciatore di
pelli Joãozinho, che risalendo il rio Ajaraní, aveva «scoperto»
gli Yanam e i raccoglitori di gomma che invitarono padre
Bindo Meldolesi ad accompagnarli in un viaggio sul rio Catrimani dove avevano individuato gruppi di indios.
Già nella spedizione successiva al Catrimani, organizzata
dallo stesso Meldolesi e da padre Calleri nel 1965, i missionari rinunciarono ad appoggiarsi a intermediari «bianchi».
Individuata la sede per la missione, i due padri iniziarono a
preparare la pista di atterraggio, che sarebbe stata inaugurata nel 1967 con un volo dell’aereo della Diocesi di Roraima, avvenimento documentato fotograficamente da padre Silvano Sabatini, al tempo amministratore della Consolata in Brasile.
INCONTRO CON CARLO ZACQUINI
«IO SONO HOKOSI»
DI
DANIELE ROMEO
Una vita trascorsa tra gli Yanomami, fratel Carlo Zacquini (Hokosi, per gli indigeni) racconta nascita, storia e problemi della Missione Catrimani. Con un’avvertenza finale: per gli indios i pericoli sono più che mai attuali.
ncontro fratel Carlo Zacquini1 al Centro di documentazione indigena dei missionari della
Consolata a BoaVista. Siamo in gennaio,
piena estate a Roraima, e le giornate nella
casa regionale dei missionari iniziano molto presto: celebrazione della messa, colazione e poi
ognuno alle proprie mansioni quotidiane. Con fratel Carlo Zacquini trascorro due giorni nelle
stanze che, in via provvisoria, racchiudono le testimonianze e i materiali raccolti da lui e da numerosi confratelli in cinque decenni di vita passata tra gli indigeni yanomami. Seduto davanti al
suo computer, sul quale ha digitalizzato migliaia
di immagini e documenti, mi racconta i primi anni
della presenza dei missionari a Catrimani.
© Daniele Romeo / 2015
I
Anni Cinquanta: i primi viaggi
«Padre Riccardo Silvestri è stato il primo missionario della Consolata ad avere contatti con gli Yanomami lungo il fiume Apiaú. Morì tragicamente
nelle acque del Rio Branco nel 1957. Padre Bindo
Meldolesi seguì le orme di Silvestri e fece parecchi viaggi verso il Rio Apiaú e il Rio Ajaraní. L’accesso era sempre fluviale, con un piccolo motore
fuoribordo e i remi. Padre Meldolesi voleva fermarsi più a lungo e per questo cominciò subito a
realizzare una piccola piantagione con a fianco
una tettoia di foglie di palma. Qui coltivava alcune
piante per poter alimentarsi: manioca, banani, papaya e trascorreva in foresta un paio di mesi per
poi tornare a Boa Vista».
50 MC OTTOBRE 2015
DOSSIER MC
Requisito essenziale: una pista di atterraggio
Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta
gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio
Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che
ho perso con gli anni», precisa con simpatica autoironia. Fu un momento sconvolgente per la sua
vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di
osservare cosa facessero e di comunicare con
loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi
colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni».
Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi organizzarono una spedizione per fondare una missione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una
caratteristica fondamentale: essere raggiungibile
da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume
fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide
incontrate lungo il cammino, trovarono dei sentieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto
stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta
per una pista di atterraggio, cominciarono ad abbattere la foresta per preparare il terreno. Lavorarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima
parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30.
Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo2.
«Quando arrivai a Catrimani - racconta fratel
Carlo - padre Bindo aveva già costruito quasi
tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però
senza pareti e, quando pioveva, il vento portava
acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato sicuro dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per
far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi
realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei
cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare animali».
Pagina precedente: donne yanomami camminano nella foresta; escono dal villaggio per la raccolta di frutti, per la pesca nei fiumi o per la caccia (limitata ad alcuni tipi di animali). A destra: un’anziana yanomami saluta Hokosi alias
Carlo Zacquini durante una recente visita a Catrimani.
La lingua yanomae
«Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami
risultò molto complicato. A cominciare dalle difficoltà linguistiche. Appresi una cinquantina di parole da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la
carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola,
veniva usata con significati diversi, a seconda del
contesto».
«Una volta andai dall’altra parte del fiume con
uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Avevamo un cane con noi. A un certo momento notammo delle grosse impronte sul terreno. Non
avevo alcuna idea a quale animale esse appartenessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo
surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in
portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva:
“Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui:
“Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con
lo Yanomami. Io avevo con me una carabina calibro 22, mentre l’indio era disarmato».
«Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con
molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale.
Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare
ci veniva incontro scodinzolando. Andammo
avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un
punto davanti a noi. In quel momento vidi un animale nero, fermo in una pozzanghera di un ruscello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte
finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per
abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’animale si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo tagliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi
alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uomini per prendere il resto. La caccia fortunata fu
occasione per fare una festa con carne per tutti. E
io scoprii anche il motivo delle incomprensioni linguistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in
lingua yanomae, si chiama... chama!».
© Daniele Romeo / 2015
«Quando tornava dopo qualche mese, la foresta
aveva già invaso la piantagione, gli animali avevano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, riusciva ancora a trovare qualche banana o papaia.
Doveva ricominciare quasi tutto da capo».
«Questa modalità di presenza era proseguita per
diversi anni senza passi decisivi: andando una o
due volte all’anno per poche settimane era difficile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare
molto duramente per avere qualcosa da mangiare
e magari da offrire agli indios quando lo visitavano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che
andare nei villaggi, perché questi erano lontani
dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios
di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a
causa della presenza degli insetti e di altri popoli
indigeni che, in passato, occupavano le rive dei
fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vicino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi
di loro sapevano nuotare».
L’INCONTRO
© Daniele Romeo / 2015
Sopra: Pedro Yanomami, un anziano sciamano non vedente,
tiene in braccio un neonato, suo nipotino. Pagina accanto:
a riposo su un’amaca (oggi di cotone, in passato di corteccia o di liane).
«Durante il mio primo mese a Catrimani andavo a
cacciare o pescare quasi tutti i giorni. Dovevo
provvedere la carne per i lavoratori e per quelli
che venivano con me. Praticavo la caccia con la
carabina, mentre si pescava in riva al fiume, ma
era molto difficile senza barca. A dire il vero gli
Yanomami ci vedevano con simpatia perché attraverso noi potevano ottenere manufatti a cui prima
non avevano accesso: coltelli di acciaio, machete,
scuri, ami, lenze, fiammiferi e altro ancora».
Indios, «caboclos», «civilizados»
«Nel 1975 arrivò un nuovo vescovo, dom Aldo
Mongiano, missionario della Consolata, che conosceva poco la realtà locale, poiché proveniva dal
Mozambico e non aveva alcuna esperienza di Brasile. All’inizio non riusciva a comprendere la situazione e noi missionari cercavamo di fare pressione su certe sue decisioni. Il vescovo insisteva
sul dialogo, ma il potere locale non aveva nessuna
intenzione di dialogare: il solo obiettivo era di continuare a lasciare immutata la situazione degli indigeni. Dopo circa due anni cominciò a partecipare ad alcune riunioni nei villaggi indigeni e ad
ascoltare quello che gli indios dicevano. Cose che
noi cercavamo di fargli capire da tempo. Allora si
52 MC
OTTOBRE 2015
rese conto che veniva usato dal potere locale e
cambiò il suo modo di agire prendendo decisioni
coraggiose insieme a noi».
«A Roraima, i gradini della “civiltà” erano sostanzialmente tre. Su quello più basso c’erano gli indios:
erano quelli che non usavano vestiti e che vivevano
nella foresta. Erano definiti “bravos” (selvaggi, insomma). Quelli della savana, che usavano qualche
capo di vestiario e a volte parlavano un pò di portoghese, erano chiamati caboclos. Gli altri erano i civilizados. Questi ultimi facevano quello che volevano con modalità più o meno eleganti. Alcuni divennero poi nemici della Chiesa perché questa iniziò a prendere decisioni forti, arrivando a parlare in
maniera chiara in difesa della causa indigena».
«I civilizados facevano apparire il mondo indigeno
come un’isola fortunata dove tutti stavano bene.
In realtà gli indios e i caboclos non avevano alcun
diritto. Varie volte ho visto giovani indigeni che lavoravano senza stipendio per il proprio padrone
in cambio di cose di pochissimo valore o di bevande alcoliche. Gli indios erano completamente
soggiogati, a tal punto che sovente i civilizados
erano invitati a fare da padrini di battesimo. La
cosa era andata avanti per generazioni e una
parte degli indios si era abituata e difendeva gli
invasori a tal punto che, quando ci fu la lotta vera
per la definizione del territorio, una parte di loro
era contraria. Ritenevano che, se gli invasori fossero andati via, gli indios sarebbero rimasti privi
degli “aiuti” che costoro davano loro. Una volta
parlai con un gruppo di Yanomami la cui terra era
DOSSIER MC
L’INCONTRO
Indigeni e mondo dei bianchi / 2
Sopravviveranno alle contaminazioni?
C’
è qualcosa di inevitabile nella distruzione delle società
tribali? Quello che sta accadendo oggi nei territori Yanomami dell’Amazzonia brasiliana - furto delle terre,
estrazione indiscriminata di minerali pregiati, sfruttamento selvaggio delle risorse idriche e della biodiversità - fa sorgere questa domanda. I governi brasiliani e gli amministratori locali di
Roraima hanno sempre spiegato (e giustificato) questa situazione come una conseguenza secondaria dello sviluppo e del
progresso.
Quando, nel gennaio 2015, sono arrivato a Roraima e a Boa Vista, avevo una sorta di pregiudizio che considerava l’estinzione
degli Yanomami come una condizione tragica ma inevitabile.
In effetti, una lotta impari sta portando gli Yanomami a modificare rapidamente la loro esistenza, passando da un isolamento
millenario a indossare i nostri abiti, acquistare telefoni di ultima
generazione, guardare la tv satellitare nel mezzo alla foresta. Si
tratta di un processo di implosione e di «evoluzione sociale» inconsapevole, incontrollato e forse oscuramente «pilotato»-,
che sta modificando e distruggendo tradizioni e abitudini di
vita.
L
a terra è da sempre il cuore del conflitto e dello sterminio
del popolo yanomami che, fino a qualche generazione fa,
conosceva la nostra esistenza solo grazie ai contatti con i
missionari. Uno di loro, tra i pochi superstiti di una generazione
probabilmente eroica, è fratel Carlo Zacquini, missionario della
Consolata. Da quasi 50 anni Carlo vive a contatto con la realtà
indigena e per questo era la miglior guida possibile nell’area del
Catrimani. Lungo i percorsi fluviali, durante gli spostamenti tra i
villaggi e durante le serate trascorse insieme sotto la tettoia
della missione, ho ascoltato dalla sua voce racconti emozionanti di anni vissuti tra gli indigeni, dai primi contatti fino alla
costruzione e allo sviluppo della missione. Attraverso i suoi racconti ho ripercorso la storia degli ultimi anni degli indios del Ca-
trimani, le leggende, gli aneddoti, le tradizioni, le difficoltà incontrate e i momenti difficili. Fratel Carlo rappresenta un parte
importante della memoria storica degli ultimi decenni del popolo yanomami del Brasile. Un testimone vivente la cui esistenza è stata dedicata alla causa indigena. Parte del lavoro suo
e di altri missionari è raccolto e custodito in maniera precaria a
Boa Vista. Due piccole stanze - soggette alle intemperie e sotto
la minaccia costante dell’umidità e delle termiti - raccolgono
anni di immagini, giornali, carteggi, libri, testimonianze, oggetti
della cultura yanomami. Un patrimonio inestimabile che, con
fatica, fratel Carlo cerca di difendere, preservare e accrescere.
Nella speranza che possa diventare un giorno un punto di riferimento per gli indigeni, i giovani missionari, gli studiosi, i ricercatori e la gente comune.
I
l mio timore di una lenta contaminazione degli Yanomami ha
trovato riscontri concreti durante la mia pur breve permanenza tra loro: operatori dei punti di salute disinteressati alla
causa, strutture di supporto e personale inadeguato. Tuttavia,
l’aver visto le loro vite integrate con i ritmi della foresta e fatte
di straordinaria umanità, mi ha anche aperto la strada verso una
più ampia visione del futuro: lottare per la causa Yanomami
dando supporto a quanti di loro, attraverso il principio di autodeterminazione e autodocumentazione, si stanno attivando per
sensibilizzare altri Yanomami e per cercare di essere preparati
ad affrontare le sfide portate dall’invasione occidentale.
Di certo, sono molte le domande senza risposta. Cosa sarà degli
Yanomami (come di molti altri popoli indigeni del mondo) in un
futuro nemmeno tanto lontano? Cosa possiamo fare noi per
contribuire alla loro lotta? Quanti sono a conoscenza della loro
esistenza, dei drammi e dei pericoli per la loro stessa sopravvivenza? Da ultimo, cosa sarà delle testimonianze e dei materiali
raccolti e custoditi dai missionari?
Daniele Romeo
stata invasa da fazendeiros e, mentre spiegavo
loro che i bianchi non avevano diritto di rimanere
nella loro terra, dicevano che andando via loro
avrebbero fatto la fame. “Chi ci darà il riso?”, domandavano. I fazendeiros davano loro riso in
cambio di lavoro e servizi. Non si rendevano conto
che in passato non avevano mai avuto bisogno del
riso. Soltanto col tempo esso era diventato una
necessità».
La devastante corsa all’oro
«Quel che andava per la maggiore, a Roraima,
erano i giacimenti di diamanti nelle regioni della
savana o di montagna abitate da altri indios. C’erano molte leggende sul fatto che le persone più
ricche e più importanti fossero quelle che commerciavano in pietre preziose. Si parlava molto di
un tale che aveva un piatto pieno di diamanti sul
tavolo da pranzo… Non so cosa ne facesse, ma immagino che li usasse per pavoneggiarsi. Successivamente i diamanti iniziarono a passare in secondo piano, sia perché l’oro cominciò ad avere un
prezzo più conveniente sia perché furono scoperti
© Daniele Romeo / 2015
OTTOBRE 2015 MC
53
molti giacimenti auriferi». «Nell’area degli Yanomami i primi giacimenti furono trovati nei primi
anni Settanta. Negli anni Ottanta i cercatori d’oro
furono facilitati da un programma finanziato dal
governo brasiliano che voleva avere una mappatura e un controllo del territorio amazzonico al
Nord del Rio delle Amazzoni e del Rio Solimões.
Si trattava del progetto “Calha Norte”. Un progetto che stava molto a cuore ai militari, che infatti arrivarono in gran numero».
«Nel 1987 ci fu una vera e propria invasione di cercatori d’oro. La Funai pensò bene di cacciare via i
missionari e l’equipe medica che svolgeva azioni
di medicina preventiva, lasciando gli Yanomami
totalmente in balia di questi cercatori che provo-
carono livelli di mortalità altissima a causa delle
malattie da loro portate. Fu un genocidio».
«Nel 1988 i missionari ritornarono alla Missione
Catrimani, sistemarono le strutture danneggiate
e fecero ripartire le attività di appoggio cercando
di utilizzare uno schema diverso perché la realtà
era cambiata molto nel frattempo. Iniziarono ad
aiutare gli Yanomami nell’organizzazione di assemblee indigene, a preparare corsi scolastici per
portare i propri giovani ad avere conoscenze sufficienti per non essere annientati dai bianchi. I leader yanomami volevano che i giovani imparassero
a leggere e scrivere non per diventare bianchi, ma
per difendersi dai bianchi che, ormai lo avevano
capito, erano molto pericolosi per loro».
Il Comitato Roraima (Co.Ro.)
«Nada se compara a Catrimani»
D
Un medico torinese e un gruppo di volontari, innamorati della realtà indigena brasiliana, hanno
fondato un comitato che da anni opera per appoggiare indigeni e missionari.
urante l’anno Santo del 2000, con la mia famiglia e
alcuni amici decidemmo di andare in Brasile, nello
stato di Roraima, alla ricerca di padre Silvano Sabatini, un amico missionario che da un po’ di
tempo non dava più notizie. Era infatti nascosto perché
minacciato di morte, da quando, due anni prima, era
uscito il suo libro Massacre, con nomi e testimonianze precise che inchiodavano gli autori del massacro della spedizione in cui fu ucciso padre Calleri (esponenti militari,
compagnie minerarie, sette nordamericane).
«Padres ladroes e viados»
Giunti a Boa Vista, capitale di Roraima, subito respirammo
il pesante clima di persecuzione nei confronti della Chiesa.
La città era tappezzata di manifesti del governo di Roraima
e di associazioni di commercianti e agricoltori che attaccavano i missionari per la loro lotta in difesa degli indios:
«Una diocesi deve catechizzare e non interessarsi delle
terre indigene!»; «La diocesi è nociva alla società di Roraima». Sui muri vistose scritte: «Padres ladroes e viados!», «Padres corruptos!»
Al mattino seguente i missionari ci svegliarono dicendo
che c’'era la possibilità per una persona di raggiungere con
un piccolo aereo la missione Yanomami di Catrimani, in foresta, dove gli indios avrebbero tenuto una riunione sui
problemi sanitari. Ma le speranze appena accese si spensero presto: la piccola pista di atterraggio di Catrimani era
allagata e tale sarebbe rimasta per tutta la settimana. Catrimani divenne per noi un mito, una sorta di irraggiungibile Eldorado: tanto più che Carlos, il simpatico factotum
della missione, che con un fuoristrada ci accompagnava
nei nostri spostamenti, continuava a martellarci, di fronte
al nostro stupore per la bellezza della savana o dei grandi
fiumi, che comunque «Nada se compara a Catrimani»,
«Nulla è paragonabile a Catrimani».
Il mio contatto con Catrimani avvenne l’anno dopo, ac-
54 MC
OTTOBRE 2015
compagnato da fratel Carlo Zacquini: portavo con me due
giornalisti di Famiglia Cristiana perché documentassero le
vessazioni a cui gli Yanomami erano (e sono) sottoposti.
Restammo conquistati dall’affetto con cui fratel Carlo, uno
dei primi missionari che avevano «scoperto» gli Yanomami, era accolto dagli indigeni, che facevano a gara per
abbracciarlo, stringerlo a sé con le lacrime agli occhi per la
gioia e la riconoscenza. Fratel Carlo aveva vissuto con gli
Yanomami lunghi periodi in solitudine, indio tra gli indios,
incurante dei pericoli, del clima umidissimo, di scorpioni,
serpenti, giaguari e dei terribili «piun» (le micidiali piccolissime zanzare), della fame, delle malattie (quante volte ha
avuto la malaria, e alcune volte anche il coma malarico).
E davvero constatai che «nada se compara a Catrimani».
Nulla è paragonabile per il fascino della foresta amazzonica, la bellezza del fiume Catrimani, i meravigliosi pappa-
DOSSIER MC
Anno 2015: ancora invasioni
Nel 1992, anche grazie al lavoro dei missionari
della Consolata, la terra yanomami viene ufficialmente riconosciuta e protetta. Si tratta però di
una protezione più teorica che reale. «Ancora nel
2015 - conclude con evidente rammarico fratel
Carlo3 - centinaia o forse migliaia di cercatori
d’oro continuano a invadere illegalmente il territorio indigeno, a distruggere la natura, a contaminarne l’acqua con il mercurio, a causare epidemie
e danni irreparabili alla cultura yanomami».
Daniele Romeo
L’INCONTRO
NOTE
(1) Su Carlo Zacquini si legga anche: Paolo Moiola, Il bianco
che si fece Yanomami, MC, ottobre 2013.
(2) Sulla scelta del luogo e sulla costruzione della pista di atterraggio si legga: Bindo Meldonesi, Il campo è pronto!, MC,
luglio-agosto 1966.
(3) La conversazione di queste pagine è tratta dall’intervista
inserita nel documentario sulla Missione Catrimani realizzato da Daniele Romeo e Yuri Lavecchia. Il trailer è visibile
sul sito: www.tribeslife.org.
Sotto: tre piccoli yanomami davanti alla «yano» (la maloca).
galli multicolori che volteggiavano attorno alla missione,
l’imponente tucano, i voraci piranha pescati dagli indigeni
insieme agli enormi «pesce gatto», l’anaconda, fortunatamente «piccola», che aveva dilaniato la gamba di un giovane yanomami, le cui ferite riuscii a suturare alla meglio
poco prima della mia partenza, i canti degli uccelli, le urla
delle scimmie.
«Nada se compara a Catrimani» per l’incontro con gli indigeni, che ci accolsero con calore misto a curiosità, e che
per noi organizzarono una festa con canti e danze, e l’immancabile frullato di banane. Il sonno della prima notte fu
interrotto da urla disperate di uno Yanomami che gridava:
«È morto mio figlio! È morto mio figlio!». Quando accorremmo, scoprimmo che gli era morto... il cane, considerato però come un membro della famiglia. In quei giorni ricordo i bambini che si affollavano intorno a me perché fischiettavo bene, cosa che loro non sanno fare. E ancora la
paura di quando, uscito con un gruppo di indios a caccia
nella foresta, mi attardai un attimo per fare una fotografia
e mi ritrovai sperduto tra alberi altissimi, assolutamente
incapace di orientarmi: mi misi allora a gridare e altre
grida indigene mi indicarono il cammino. Rammento gli
sciamani che prima che sorga l’alba, nel tepore dei fuochi
della maloca, raccontano i miti della tribù e ricordano a
© Daniele Romeo / 2015
tutti che, se gli Yanomami smettessero di sostenere con la
loro preghiera la volta del cielo, questa si schianterebbe
sulla terra. La giovane mamma yanomami affetta da mastite che rifiutava la terapia antibiotica da me proposta,
perché voleva una mastectomia, confusa notizia arrivatale
chissà come dal mondo dei bianchi. E la pazienza di fratel
Carlo che si accovacciò accanto a lei (all’uso indigeno), abbracciandola e convincendola, attraverso un lungo colloquio, ad accettare la mia cura, che risolse poi il problema
con due sole iniezioni intramuscolo.
Nascita e attività del Co.Ro.
Dopo il viaggio del 2000, dall’indignazione per l’etnocidio
in atto e dall’ammirazione per il lavoro dei missionari, nacque il Co.Ro. Onlus, Comitato Roraima di solidarietà con i
popoli indigeni del Brasile. Oltre a interventi per altre popolazioni indigene di Roraima (Macuxi, Wapichana, Tuarepang, tra le principali), per la missione di Catrimani il Comitato ha reso possibili numerosi progetti come: la ristrutturazione delle strutture adibite ad accoglienza, ambulatorio
e scuola; la fornitura di barche per raggiungere le maloche
più distanti lungo il fiume Catrimani; l’impianto di pannelli
solari che oggi forniscono energia per le attività sanitarie
ed educative; la formazione degli agenti indigeni di sanità;
la organizzazione di incontri formativi per i leaders delle
24 comunità che afferiscono alla missione; la preparazione
di incontri dei tuxaua (capi) per partecipare ad eventi internazionali in difesa degli indios e sulla possibilità di un’agricoltura ecologica e sostenibile; il mantenimento di un
prezioso collaboratore laico, indispensabile motorista,
meccanico, carpentiere; il progetto di documentazione audiovisiva sulla storia della missione e sulle sfide affrontate
dagli Yanomami. Infine, una curiosità. Non poche difficoltà
sorsero tra noi quando ci fu proposto di sostenere un
corso di formazione per gli sciamani. Alla fine le perplessità furono superate: i missionari ci aiutarono a comprendere che gli sciamani erano (e sono) insostituibili custodi
della tradizione e della spiritualità yanomami.
Catrimani: una missione estrema, con missionari che incarnano concretamente una Chiesa che sta con gli ultimi
o, come dice papa Francesco, «con gli scarti, alla periferia
del mondo».
Carlo Miglietta
OTTOBRE 2015 MC
55
Cronologia (essenziale)
1929 - 1930 - Una spedizione raggiunge il fiume Catrimani e incontra un gruppo di Yanomami. Ne fa parte il
benedettino Alcuino Meyer.
1948 - I missionari della Consolata arrivano a Roraima
in sostituzione dei Benedettini.
1953 - Primo viaggio di padre Riccardo Silvestri (Imc)
tra gli indios isolati del fiume Apiaú.
1960 - Primo viaggio di Bindo Meldolesi (Imc) tra gli indios del fiume Apiaú.
1965, ottobre - I padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri fondano la missione sulla sponda sinistra del fiume
Catrimani.
1966, marzo - Il primo aereo Cesna 170 atterra sulla
pista della missione, appena terminata.
1967, dicembre - Viene creata la Funai (Fundação Nacional do Índio) in sostituzione dello Spi (Serviço de
Proteção aos Índios).
1968, gennaio - All’equipe missionaria di Catrimani si
aggrega fratel Carlo Zacquini.
1968, novembre - Massacro della spedizione di padre
Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri-Atroaris.
1972 - Viene fondato il Conselho indigenista missionario (Cimi), un’organizzazione che si rivelerà fondamentale per la difesa dei popoli indigeni del Brasile.
1974 - Inizia la costruzione della Perimetral Norte (Br210). Prime invasioni di lavoratori e macchine. Si lavorerà per poco più di tre anni. Poi il progetto verrà sospeso per mancanza di fondi.
1974 - Prima epidemia di morbillo.
1977 - Seconda epidemia di morbillo.
1987, agosto - I missionari sono espulsi dalla Missione
Catrimani. Vi torneranno soltanto un anno e mezzo
più tardi (novembre 1988).
1988, ottobre - Viene emanata la nuova Costituzione
brasiliana contenente anche il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni.
1989, marzo - I missionari iniziano il progetto di etnoalfabetizzazione.
1992, maggio - Esce il decreto presidenziale con il
quale viene finalmente omologata la Terra indigena
yanomami.
2015, agosto - Cinque anni dopo la sua uscita in Francia, anche in Brasile, esce la biografia di Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni leader riconosciuto
degli Yanomami.
(a cura di Paolo Moiola)
© AfMC / Silvano Sabatini
56 MC OTTOBRE 2015
In basso: indios con padre Meldolesi. Pagina seguente,
in alto: una struttura della Missione Catrimani (con il
logo); in basso, Davi Kopenawa, sciamano yanomami,
sfoglia la copia di Missioni Consolata (del novembre
2014) con l’articolo a lui dedicato.
Copertina finale del dossier: donne yanomami nella foresta.
Breve glossario
yanomami
Urihi - Terra-foresta. Per gli Yanomami la foresta è
viva, popolata da un’infinità di esseri viventi: umani,
animali, spiriti ecc.
Yano - La casa comunitaria, una costruzione circolare unica, di pali e paglia, condivisa fra i parenti.
Possiede al centro un’area destinata alle funzioni rituali e socio-politiche, e non esistono pareti divisorie che separino gli spazi occupati dalle diverse famiglie. È l’ambito privilegiato delle relazioni sociali, ma
anche metafora del cosmo. Spesso è chiamata «maloca», che però è un termine tupí-guarani.
hUtUkana - La piantagione dove sono coltivati prevalentemente banani, piante di manioca, canna da
zucchero, papaie, tabacco, cotone, piante curative e
magiche ecc.
Wakatha U - Nome yanomami di una specie di armadillo e, con l’aggiunta del suffisso «u», del fiume Catrimani, sulla cui sponda sinistra, all’altezza della rapida del Cujubim, è stata fondata la Missione Catrimani.
XapUri - Il termine si riferisce sia agli spiriti ausiliari
invocati durante le sessioni sciamaniche che agli
sciamani stessi che viaggiano nel tempo e nello spazio, visitando altre dimensioni.
napë - In contesti diversi, assume significati differenti: puó indicare un nemico, ma anche uno straniero, un non-Yanomami o un bianco. Plurale: napëpë.
XaWara - Epidemia. Per gli Yanomami le gravi epidemie che hanno decimato la popolazione a partire
dal contatto con i bianchi sono attribuite ai fumi
prodotti dalle sostanze e dai macchinari usati dai
bianchi e dai cercatori d’oro in particolare.
Xori - Cognato. La relazione fra due cognati promuove alleanza, amicizia e facilità di scambio. Sin
dal principio, i missionari sono stati classificati con
questo termine.
nohimaYoU - La parola «nohi» significa amico. Il
verbo nohimayou si riferisce all’abilità di suscitare
nell’altra persona un sentimento di amicizia. Gli Yanomami usano quest’espressione per descrivere anche l’atteggiamento dei missionari del Catrimani.
Garimpeiros (port.) - Cercatori d’oro che invadono illegalmente la Terra indigena. Gli Yanomami li denominano anche con i termini: «napë wareri pë», spiriti pecari stranieri, o «urihi wapo pë», mangiatori di
terra, poiché devastano il suolo e scavano buche
per estrarre i minerali.
(a cura di Corrado Dalmonego)
DOSSIER MC
L’INCONTRO
GLI AUTORI
• Stefano Camerlengo - Superiore generale dei missionari della
Consolata.
• Corrado Dalmonego - Missionario della Consolata, dal 2002 al
A CATRIMANI
© Daniele Romeo / 2015
• I missionari della Consolata (dall’ottobre 1965): Bindo Meldolesi, Giovanni Calleri, Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Guglielmo
Damioli, Tullio Martinelli, Silvano Sabatini, Adalberto Lopes Buriticá, Laurindo Lazzaretti, Gianfranco Graziola, Francesco Bruno,
Antonio Costardi, Ch. Gitari Denis Mwenda, Carlos Eduardo Alarcon Mesa, Andrés Ribeiro, Corrado Dalmonego*, Rosalino Dall’Agnese*.
• Le missionarie della Consolata (dal marzo 1990): Auristela
Stinghen, Clotildes Orso, Maria da Silva Ferriera, Florênça Lindey
Águida (diocesana), Rosa Aurea Longo, Severa Riva, Felicita Muthoni, Blanca Yolanda Mancera Lombata, Noeli Domingos Bueno,
José Iris Dos Santos, Mary Agnes Njeri Mwangi, Felicidade Maria
D. Lurdes, Noemi del Valle Mamani, Geltrudes Dolsan*, Inés Arciniegas Tasco*.
(*) Presenza attuale (settembre 2015).
BIBLIOGRAFIA (ESSENZIALE)
• Ernesta Cerulli - Silvano Sabatini (a cura di), Il ventre dell’Universo, Sellerio Editore, Palermo 1986.
• Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968 (non tradotto in italiano).
• Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, Il Saggiatore, Milano 2014.
• Guglielmo Damioli - Giovanni Saffirio, Yanomami, indios dell’Amazzonia, Edizioni il Capitello, Torino 1996.
• Achille da Ros - Silvano Sabatini (a cura di), Ritorno alla maloca.
Autobiografia di un indio makuxí, Emi, Bologna 1972.
• Davi Kopenawa - Bruce Albert, A queda do céu. Palavras de um
xamá yanomami, Companhia das Letras, agosto 2015.
• Aldo Mongiano, Roraima. Tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010.
• Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apiaú, Torino 1967.
• Silvano Sabatini - Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli
indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011.
2003 è stato a Catrimani. Dopo gli studi a São Paulo, nel 2008 è rientrato nella équipe di Catrimani. Negli ultimi anni ha perfezionato nelle università brasiliane le conoscenze antropologiche apprese sul campo.
• Guglielmo Damioli - Ha lavorato alla Missione Catrimani dal
1981 al 2000. Lasciata Catrimani, con Rosi Soares, missionaria
laica, si è stabilito nella cittadina di Bujaru, sulle rive del Rio
Guamá, davanti alla città di Belém (Pará). La coppia lavora con
un’associazione di piccoli agricoltori, cercando di coniugare sviluppo sociale e economico con la preservazione dell’Amazzonia.
Nel 2014 un loro progetto ha vinto il «Premio Odm Brasil».
• Laurindo Lazzaretti - Brasiliano, è stato nella Missione Catrimani per dieci anni (2001-2011). Oggi, assieme alla moglie Gilmara, antropologa, lavora per il Conselho indigenista missionário
(Cimi) tra i popoli indigeni della Vale do Javari.
• Carlo Miglietta (Co.Ro.) - Medico (internista e geriatra), è un
noto biblista. Ha pubblicato una decina di libri. Nel 1970 ha fondato il Gruppo missionario giovanile (Gmg) e dal 2000 è segretario del Co.Ro., la onlus di solidarietà con i popoli indigeni brasiliani. Si è recato più volte a Roraima.
• Daniele Romeo - Fotoreporter, è stato a Catrimani nel gennaio
2015 con il videomaker Yuri Lavecchia. Da quel viaggio è nato un
documentario su Catrimani (www.tribeslife.org) e una mostra fotografica (www.yanomami.org).
• Silvia Zaccaria - Antropologa, ha scritto numerosi libri, alcuni in
collaborazione con padre Silvano Sabatini.
• Paolo Moiola - Giornalista, è redattore MC. È stato a Roraima
nel 2014.
PER CHI VOGLIA CONTRIBUIRE
• Tramite Missioni Consolata Onlus (info a pag. 83), specificando
la causale: «Missione Catrimani» (referente: Corrado Dalmonego) e/o «Centro di documentazione indigena» di Boa Vista (referente: Carlo Zacquini).
• Missioni Consolata e archivio fotografico: la rivista ha pubblicato parecchie decine di articoli sugli Yanomami. Una parte di essi
sono reperibili anche sul sito. L’archivio fotografico (AfMC) che si
sta (faticosamente) digitalizzando raccoglie immagini di grande
valore storico e antropologico.
SITOGRAFIA (ESSENZIALE)
• pib.socioambiental.org
• www.cimi.org.br
• www.rivistamissioniconsolata.it
• www.survival.it
© Daniele Romeo / 2015
© Daniele Romeo / 2015
MISSÃO
50 anos
1965-2015
OSSIER
FINE
TurchIA
di ENRICO CASALE
GLI INTeressI DI IsTAMbuL IN AfrIcA e MeDIO OrIeNTe
IL RITORNO
DELL’ IMPERO?
«N
eottomanesimo»,
così è definito il recente fenomeno
dell’inedito protagonismo della Turchia in politica
estera. A partire dagli inizi degli
anni Duemila, infatti, Ankara ha
iniziato a tessere intensi rapporti
politici, economici e culturali in
aree in cui non era presente (a
volte neanche con propri diplomatici). Questa espansione ha ricordato a molti la vasta influenza
che l’impero ottomano esercitò
nei secoli passati nei suoi domini
non solo in Asia centrale e in Medio Oriente, ma anche in Africa.
Alcuni analisti vi hanno scorto una
volontà di dominio regionale, altri
l’hanno letta come una necessità
economica, altri ancora come un
modo per esportare l’islam. Ma di
che cosa si tratta realmente? E
quali effetti ha avuto?
Origini e fondamenti
La nuova politica economica
turca nasce nel 2002 quando Ahmet Davutoğlu, fino ad allora, un
anonimo professore dell’Università di Beykent a Istanbul, dà alle
stampe un corposo volume dal titolo «Profondità strategica». Il
volume teorizza un allargamento
degli orizzonti della politica
estera turca verso altre regioni
sulla base degli interessi economici e strategici di Ankara. È una
© AFP / Aykut Unlupinar
La Turchia ha intrapreso un allargamento
dei propri orizzonti.
In particolare ha
espanso la sua
influenza in Medio
Oriente e Africa.
Non senza intrecci con
le primavere arabe.
Per interessi economici, religiosi o puramente geopolitici?
OTTOBRE 2015 MC
59
TURCHIA
© AFP / Orhan Karsli
condo meeting Turchia - Africa, a
Malabo, Guinea Equatoriale, 21/9/14.
# A destra: il presidente Erdogan con
Hassan Sheikh Mohamud, presidente della Somalia, a Mogadiscio,
25/1/15.
# Sotto: visitatori al meeting Turchia Africa di Malabo.
# Pagina seguente: viaggio inaugurale della Turkish Airlines a Mogadiscio, prima compagnia non africana a tornare in Somalia, 6/4/12.
© AFP \ Mohamed Abdiwhab
# Pagina precedente: Erdogan al se-
nuova visione del ruolo della Turchia nel mondo che stravolge gli
schemi adottati fino ad allora dai
politici della penisola anatolica.
«A partire da Mustafa Kemal
Atatürk - spiega Eugenio Dacrema, esperto di politica mediorientale, ricercatore presso l’Università di Trento -, la classe politica turca ha sempre guardato
Stati Uniti, Europa e Nato come
uniche sponde di interesse. I rapporti con i vicini sono stati per
molto tempo conflittuali, quando
non erano un ignorarsi a vicenda.
Con il nuovo trend dettato dall’opera di Davutoğlu, la visione si
amplia. La Turchia dovrebbe diventare un nuovo attore egemo-
60
MC OTTOBRE 2015
nico in una regione più vasta e,
pur non tagliando i rapporti con
Europa e Usa, le relazioni con
l’Occidente dovrebbero passare
in secondo piano.
Le direttrici dell’espansione della
Turchia quindi si indirizzano verso
l’Asia centrale, il Medio Oriente e
l’Africa (soprattutto il Nord Africa).
Davutoğlu viene progressivamente coinvolto in questa politica.
Da semplice teorizzatore, ne diventa protagonista, prima come
ministro degli Esteri e poi come
premier (carica che ricopre attualmente). Così, le sue tesi diventano
la dottrina ufficiale dell’Akp, il partito al governo, e del suo leader
Recep Tayyip Erdoğan».
Quello della Turchia è un espansionismo prevalentemente economico e politico. I politici di
Ankara non hanno mai accennato a un ruolo delle forze armate in questa strategia. Ma ciò
è comprensibile, se si considerano le cattive relazioni tra l’Akp
e le forze armate turche, depositarie dell’eredità laica di Atatürk.
Molto di questo entusiasmo deriva dal successo economico degli anni Duemila quando la Turchia sembrava essere in grado di
attrarre nella sua sfera i paesi
del Medio Oriente e di trasformarli in mercati per i propri prodotti. «In realtà - aggiunge Dacrema -, l’economia turca si è rivelata molto fragile. Il sistema si
è basato sul credito facile volto
al consumo e su un’industria nascente, ma che produce beni di
basso valore aggiunto, che fanno
fatica a competere sui medio-alti
livelli tecnologici. Ciò ha aumentato la ricchezza, ma si è trattato
di una bolla. La Turchia ha vissuto la stessa crisi della Grecia
ed è rimasta a galla solo perché
ha potuto svalutare la moneta (40% nell’ultimo anno)». Ma per
tutti gli anni Duemila, è l’economia a far da traino alla politica
estera turca. In questo senso va
letta la creazione di accordi di libero scambio con i paesi limitrofi
(Libano, Siria e Giordania) accompagnati dalla liberalizzazione
dei visti. Così come l’intesa con
• Geopolitica | Economia | Africa | Ong • MC ARTICOLI
Relazioni tra Somalia e Turchia: ne parla monsignor Giorgio Bertin
Amici nei secoli
uello tra Somalia e Turchia è un rapporto
che affonda le radici nei secoli. A partire dal
XVI e fino al XIX secolo l’Impero Ottomano
corse più volte in soccorso dei somali, in particolare per contrastare le mire egemoniche del Portogallo e, poi, quelle del Regno Unito. Ma è nel 2011
che questo rapporto antico riprende vita. In quell’anno, la Somalia vive una violenta crisi umanitaria che ucciderà 260 mila persone falciate dalla carestia e dalla guerra civile. Il paese del Corno d’Africa è allo stremo e le immagini di quella tragedia
arrivano in Turchia. L’allora premier Recep Tayyip
Erdogan (oggi presidente) ne rimane colpito e, nell’agosto di quell’anno, decide di recarsi a Mogadiscio. Sarà il primo capo di stato non africano a visitare il paese dal 1991, cioè dalla destituzione del
presidente Siad Barre. Da allora il rapporto tra i
due paesi si fa sempre più stretto.
La Turchia sostiene il Governo di transizione guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud e si
offre di ricostruire alcune infrastrutture andate distrutte durante il conflitto: l’aeroporto e il porto di
Mogadiscio, un ospedale, una moschea, campi per i
rifugiati, reti di acqua potabile e servizi di raccolta
rifiuti. Riorganizza alcune scuole e offre borse di
studio nelle università turche. Riapre anche l’ambasciata a Mogadiscio e la Turkish Airlines inaugura una linea diretta Istanbul-Mogadiscio.
Ma quanto è avvertita questa presenza turca in Somalia? Ne abbiamo parlato con mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico
di Mogadiscio, profondo conoscitore della Somalia.
«L’influenza turca in Somalia - spiega - è forte. Per
accorgersene è sufficiente atterrare all’aeroporto
dove non solo si è accolti da un nuovo terminal costruito dai turchi, ma l’intero scalo passeggeri è di-
Q
l’Iran che, per anni, diventa un
partner strategico per Ankara.
Le Primavere arabe
Sarebbe limitante, però, vedere il
«Neottomanesimo» solo in
chiave economica. La nuova politica turca si è nutrita anche di una
visione politica che si è rivelata
«attraente» per molti paesi arabi.
Da anni, la Turchia si presenta
come un paese musulmano nel
quale un partito islamico governa
secondo i principi della democrazia. Questa impostazione è diventata un modello di riferimento
per quelle nazioni che, uscite
retto proprio dai turchi attraverso personale turco
e somalo. In città poi alcune strade sono state rifatte da imprese di Ankara. Il vecchio ospedale
Degfer è stato completamente ricostruito con fondi
turchi. Si potrebbe continuare... ».
Quella turca è un’influenza solo politica ed economica?
«Certamente è influenza politica ed economica, ma
anche culturale. Le borse di studio offerte a somali
e gibutini avranno un grande peso nella formazione
delle future classi dirigenti somale».
Quale ruolo gioca la comune fede nell’islam sunnita?
«Questi crescenti rapporti tra Turchia e Somalia
sono rafforzati anche dall’islam sunnita che entrambi professano. L’islam resta un canale privilegiato che la Turchia utilizza, forse anche alla ricerca di un nuovo modello che ricalchi l’influenza
dell’antico Impero Ottomano».
Anche a Gibuti si avverte questa presenza
turca?
«Sì, anche a Gibuti l’influenza turca è in crescita:
da più di un anno c’è una ambasciata, borse di studio sono offerte ai giovani gibutini, imprese turche
sono all’opera in diverse parti del paese (per esempio una di esse ha rifatto la strada del Gran Barrà,
circa 30 km). Prodotti turchi si trovano nel mercato locale. Nel cuore della città di Gibuti è in costruzione un centro culturale e religioso. L’attenzione verso Gibuti è dimostrata anche dalla recente visita di Erdogan che è stato ricevuto dal
presidente gibutino Ismail Omar Guelleh».
Enrico Casale
dalle rivolte arabe, stavano cercando nuovi assetti politico costituzionali. «Va detto - osserva Valeria Talbot, ricercatrice dell’Ispi,
esperta in Medio Oriente e Nord
Africa - che i rapporti politici con i
paesi del Medio Oriente e il Nord
Africa hanno subìto diverse fasi.
Dopo la Primavera araba, la Turchia era certamente un modello
politico da imitare. Il successo
delle visite di Erdoğan in Egitto e
di Davutoğlu in Tunisia ne sono la
dimostrazione più lampante. La
successiva apertura alla Fratellanza musulmana ha però creato
tensioni con i paesi del Golfo e
con lo stesso Egitto. Solo da qualche mese i rapporti con Riad sono
nuovamente migliorati e si sono
registrate convergenze sul dossier siriano».
È proprio in questo legame con la
Fratellanza che molti hanno visto
il limite della politica del presidente turco. «Erdoğan cercava di
prendere sotto la propria protezione la Fratellanza musulmana
internazionale - osserva Dacrema
-. Voleva diventare cioè un modello per gli altri paesi. Un progetto ostacolato tanto dalla Fratellanza egiziana, che da sempre
ha un ruolo di guida dell’organizOTTOBRE 2015 MC
61
zazione, sia dalla tunisina Ennahda che, nonostante la buona
accoglienza dei politici turchi, si è
sempre dimostrata piuttosto
fredda rispetto all’idea di una
guida turca della Fratellanza. Qui
giocano anche un po’ i rapporti
non sempre facili tra il mondo
turco e quello arabo.
È un po’ come se la Cdu/Csu tedesca in passato avesse voluto
imporre un suo ruolo guida ai
partiti democristiani europei: i
valori in comune c’erano, ma poi
ogni Dc ha sempre lavorato in
modo autonomo nel suo paese».
A ciò si è aggiunto un sostanziale
fallimento della penetrazione
economica nel Nord Africa e in
Medio Oriente. Inizialmente pareva che la Turchia potesse rubare il mercato agli imprenditori
occidentali. In realtà, non è avvenuto. Le imprese turche sono di
piccole dimensioni e realizzano
beni con basso valore aggiunto.
Questo, insieme alla scarsa conoscenza delle dinamiche economiche dei paesi arabi, ha fatto sì che
la Turchia non sia riuscita a scardinare i decennali rapporti che le
aziende europee intrattenevano
con i sistemi locali. E, complice la
crisi globale che ha interessato
anche il sistema economico
turco, la penetrazione sui mercati
arabi è sostanzialmente fallita.
L’Africa a portata di mano
La Turchia però è andata al di là
del Medio Oriente e del Nord
Africa, spingendosi anche nell’Africa subsahariana. «Il dinamismo
62
MC OTTOBRE 2015
© AFP / Phil Moore
TURCHIA
turco nell’Africa subsahariana osservano Marco Cardoni e Andrea Marino, due funzionari diplomatici del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione
internazionale, in una recente
analisi pubblicata per l’Ispi - si caratterizza per un approccio multidimensionale che si concretizza in
un intenso sforzo diplomatico
senza precedenti. Ankara ha proceduto ad ampliare la rete diplomatica, aprendo 19 ambasciate in
Africa dal maggio 2009 al 2014.
Oggi in tutto il continente ne possiede 35, di cui 30 nella regione
subsahariana». La rete diplomatica ha supportato anche un impegno crescente negli investimenti diretti e, in particolar
modo, nel campo della cooperazione allo sviluppo. «I numeri parlano chiaro - sostengono Cardoni
e Marino -: il totale degli aiuti
nella regione, sommando quelli
governativi a quelli delle Ong, è
passato dai 28 milioni di dollari
nel 2006 ai 425 nel 2011». In questo settore il punto di riferimento
è l’Agenzia ministeriale per la
cooperazione e lo sviluppo che
opera in 37 paesi africani e ha tre
sedi: Addis Abeba, Dakar e
Khartoum. Ciò ha comportato un
impegno nella costruzione o ricostruzione di infrastrutture (porti,
aeroporti, strade, scuole, ospedali), ma anche un’assistenza capillare attraverso la cooperazione
e il volontariato.
L’impegno turco però non si è
realizzato solo attraverso il rafforzamento dei rapporti bilaterali,
ma anche mediante una sempre
più ampia partecipazione a missioni internazionali. Attualmente,
Ankara partecipa a cinque missioni di pace nel Continente: Monusco nella Repubblica Democratica del Congo, Unamid in Darfur
(Sudan), Unmiss nel Sud Sudan,
Unoci in Costa d’Avorio e Unmil
in Liberia.
Due simboli della penetrazione
turca sono le Turkish Airlines e
Hizmet, il movimento fondato dal
predicatore musulmano Fethullah Gülen. Le linee aeree hanno
aperto numerose rotte verso l’Africa. Oggi la Turkish ha 39 destinazioni in 26 paesi tra i quali
quelli più importanti politicamente e interessanti sotto il profilo economico: Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Ruanda, Nigeria. Ma anche
destinazioni non coperte da nessun vettore non africano come la
Somalia e l’Eritrea.
L’organizzazione di Gülen, che
vanta più di 10 milioni di seguaci
e ha creato un impero mediatico
e culturale, pur non essendo sempre in sintonia con l’Akp ha
aperto una rete di scuole in Africa
che hanno contribuito ad avvicinare la società africana a quella
turca. Non solo ma ha favorito
l’incontro tra imprenditori africani e turchi.
Tutti questi fattori hanno portato
a un forte incremento dell’interscambio commerciale (dai 742 milioni di dollari del 2000 ai 7 miliardi
nel 2013) e a un aumento dell’influenza politica (libera da fardelli
coloniali che appesantiscono i
concorrenti). Ma questa influenza
è destinata a durare? «Oggi l’Africa concede molti spazi alla Turchia - concludono Cardoni e Marino -, ma Pechino, Washington e
Bruxelles hanno dalla loro la possibilità di far valere sul medio-lungo
periodo una dimensione economica complessiva maggiore».
Enrico Casale
COREA DEL SUD
Testo di DIEGO CAZZOLATO
Foto di MArCOS COELhO
L
o scorso 20 giugno, anche
noi qui in Corea abbiamo
celebrato solennemente la
festa della nostra Conso-
lata.
La pioggia cadeva a dirotto quel
giorno, ma in realtà è stata una
vera e propria benedizione perché da oltre un mese il paese
stava soffrendo una siccità terribile, che ha già distrutto molte
coltivazioni e non ha nemmeno
permesso a molti contadini di
piantare il riso.
Inoltre pensavamo che la paura
del Mers (Middle East respiratory syndrome), del virus che ha
contagiato molte persone, uccidendone quasi 30, e costringendone migliaia a sottostare alla
quarantena, frenasse la gente
dal partecipare. Invece, all’ora
stabilita, alle 15, ci siamo ritrovati 200 persone nel salone sotterraneo della nostra casa centrale di Yokkok.
La festa della nostra tenerissima
Madre è sempre una bella festa,
con la gente che partecipa attenta e commossa. Ma quest’anno c’era un motivo particolare che ha colpito ancor di più
l’attenzione dei nostri amici e
fedeli coreani: lo «svelamento»
e la benedizione di un nuovo
quadro della Consolata, dipinto
in perfetto stile coreano.
I nostri amici e fedeli coreani, al
vedere il nuovo quadro, sono
tutti usciti in un grande «oh!» di
meraviglia, e davvero a loro
piace molto: ce lo hanno detto
in tutti i modi possibili.
• Consolata | Missione | Arte | Inculturazione • MC ARTICOLI
LA CONSOLATA
SI È FATTA COREANA
Un po’ di storia
Fin dall’inizio della nostra presenza in Corea, ci siamo prodigati
per fare conoscere la nostra Consolata, quella originale, intendo.
Poi, dopo diversi anni, ha cominciato a far capolino in comunità
l’idea di averne, prima o poi, una
versione «coreana». Si era fatto
allora qualche timido tentativo,
ma senza grandi risultati. Qualche
anno fa, in un’altra festa della
Consolata, avevamo addirittura
lanciato una campagna di brain
storming tra i nostri amici, affinché ci dessero idee e suggerimenti su come sarebbe dovuta
essere la versione coreana della
Consolata, ma anche in quell’occasione i risultati erano stati piut-
OTTOBRE 2015 MC
63
COREA DEL SUD
tosto scarsi. La cosa, poco a poco,
era finita nel serbatoio dei «sogni
irrealizzati». Fino all’anno scorso,
quando il nostro missionario coreano Han Pedro, durante un’eucaristia celebrata in uno dei santuari dei Martiri a Seoul, ha avuto
la buona sorte di conoscere personalmente la signora Shim Sunhwa Caterina: pittrice il cui nome
è già molto noto nel paese e la
cui arte molto apprezzata nella
Chiesa cattolica. Da quell’incontro provvidenziale e dal susseguente rapporto di amicizia che
ne è nato, il nostro desiderio di
avere una Consolata coreana ha
ripreso forza e vigore. Abbiamo
così chiesto alla signora Caterina
se poteva cimentarsi nell’impresa. E ha detto di sì.
Hanno fatto seguito vari incontri,
tra Caterina, padre Han Pedro e il
nostro superiore padre Pedro
Louro, per presentare e far apprezzare all’artista il quadro della
Consolata nei suoi dettagli, e per
rivedere e correggere diverse
volte, poi, le bozze di dipinto che
la signora Caterina andava presentando.
Nel frattempo, altri tasselli del
mosaico sono andati provvidenzialmente al loro posto: per
esempio una corposa donazione
64
MC OTTOBRE 2015
da parte di una coppia di amici, e
la riflessione in comunità su come
fare, una volta che fosse stato
pronto il nuovo quadro, per intronizzarlo solennemente all’entrata
della casa di Yokkok, e per la riproduzione dell’immagine in vari
formati e materiali.
Alla fine siamo arrivati alla bozza
che ci soddisfaceva, e l’artista si è
messa d’impegno a «scrivere» l’icona della Consolata nella sua
versione coreana.
Le parole dell’autrice
«Ho cercato di immergermi nei
simboli dell’immagine della Madre
Consolata, e ho cercato di esprimere la stessa simbologia con lo
stile proprio delle immagini coreane. Il volto della Vergine l’ho
reso con i lineamenti teneri e leggermente arrotondati dei volti coreani, mentre lo sguardo dolce
della madre si fissa sul figlio Gesù.
I capelli di Maria Consolata stretti
da una bella spilla tradizionale, dal
colore oro, indicano in lei la Madre
celeste. Il colore del vestito tradizionale coreano della Santissima
Madre, salvando il senso simbolico della santità, è di un azzurro
oceano profondo, mentre la sua
verginità è resa dalle parti in
rosso. Il riflesso dorato dell’anello
esprime la sua fedeltà eterna,
mentre la pietra di giada simboleggia la sua maternità.
Gesù è stato rappresentato in atteggiamento regale, simboleggiato dalla tunica verde che ricopre l’indumento intimo e viene
coperta a sua volta da un mantello rosso. Un cordoncino tradizionale rosso ne completa l’abbigliamento».
A mo’ di conclusione
I missionari della Consolata sono
arrivati in Corea ben 27 anni fa,
nel 1988. Abbiamo potuto sperimentare sulla nostra carne come i
tempi per ogni cosa, in Corea, dall’imparare la lingua, all’assuefarsi
a cibo e cultura, sono molto lunghi. Anche i tempi per «mettere
radici» in Corea, dunque, sono
stati molto lunghi. Ma, con l’aiuto
della grazia del Signore, crediamo
proprio di averle messe, e abbastanza profonde. Il quadro della
Consolata «coreana» ne diventa
per noi un po’ il simbolo e una
bella evidenza. Dopo tanti anni in
Corea, finalmente la Consolata è
diventata pienamente coreana.
Ora tocca alla Corea raccoglierne il
messaggio, e l’invito a diventare
sempre più «missionaria».
Diego Cazzolato
Cooperando...
www.missioniconsolataonlus.it
MCO
Fondazione
Missioni
Consolata
Onlus
Testo di Chiara Giovetti
TTIP
«C
SOGNO O INCUBO ?
on il Ttip vogliamo aiutare i cittadini e le imprese, grandi
e piccole, attraverso le seguenti azioni: apertura degli Usa
alle imprese dell’Ue; riduzione degli oneri amministrativi
per le imprese esportatrici; definizione di norme per rendere più agevole ed equo esportare, importare e investire». Così la
Commissione Europea, nella guida Il Ttip visto da vicino, riassume gli
obiettivi dell’accordo che dal 2013 è oggetto delle negoziazioni fra la
stessa Commissione e il governo statunitense. Si tratterebbe, in sostanza, non solo di eliminare i dazi doganali, che peraltro sono già
molto ridotti (circa al 3%) per la maggior parte dei beni, ma soprattutto di ridurre le cosiddette barriere non tariffarie, cioè tutto quell’insieme di norme, standard e regolamenti che di fatto impediscono l’ingresso delle merci in un mercato. Ma la riduzione di tali barriere
avrebbe conseguenze devastanti, controbattono i detrattori del Ttip.
Un esempio? È grazie agli standard Ue, più elevati rispetto a quelli Usa,
che la carne dei bovini americani, allevati con ormoni, non ha potuto,
fino a ora, arrivare sulle tavole europee. Tale uso, infatti, è consentito
negli Usa e vietato in Europa. Lo stesso vale poi per gli organismi geneticamente modificati e per i prodotti alimentari trattati con pesticidi
banditi nel vecchio continente ma non negli Stati Uniti (se ne contano
ben 82).
Altro tema caldo del trattato è il meccanismo di arbitrato internazionale per risolvere eventuali controversie in materia di investimenti, il
cosiddetto Isds, Investor-State Dispute Settlement, che prevede il ricorso a un tribunale indipendente nel quale gli arbitri - si legge sul sito
del Parlamento europeo - non sono giudici a tempo pieno, ma avvocati
© European Union 2015 - source EP
Qualcuno ne parla
come di una «Nato
economica», pensata
per rafforzare le relazioni commerciali nel
blocco Usa-Ue, che da
solo conta 850 milioni
di persone e rappresenta il 40% del Pil
mondiale. Altri lo dipingono come il peggiore dei mali: consegnerebbe le nostre
economie alle multinazionali e cancellerebbe anni di lotte per
i diritti di consumatori
e lavoratori. A che
punto siamo e che
cosa sappiamo sul
Ttip, il Partenariato
transatlantico per il
commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership).
Cooperando…
Tutto in gran segreto
Prima ancora che il Ttip nei suoi
contenuti, comunque, a scatenare
la polemica è stata la segretezza
delle trattative, affidate a un
gruppo di negoziatori guidati, per
l’Ue, dallo spagnolo Ignacio Garcia
Bercero, capo della Direzione Generale del Commercio e, per gli
Stati Uniti, da Dan Mullaney, rappresentante commerciale aggiunto degli Usa per l’Europa e il
Medio Oriente. Dal luglio 2013 al
luglio 2015 si sono svolti dieci
round di negoziati, ma i dettagli
dell’accordo sono rimasti per lo
più segreti. In più, quando la Commissione ha deciso, lo scorso gennaio, di rendere pubblica una
parte dei documenti, lo ha fatto in
modo ambiguo: lo scorso agosto,
infatti, il giornale britannico The
Independent, rivelava che ai parlamentari europei è possibile prendere visione dei documenti riservati solo in un’apposita sala di lettura sorvegliata, alla quale non si
può accedere con dispositivi elettronici come cellulari e tablet. La
vicenda ha anche assunto contorni da spy story quando Wikileaks ha messo una sorta di taglia
sul Ttip, lanciando una raccolta
fondi per centomila euro da consegnare come premio a chi sia in
grado di fornire informazioni e
documenti segreti riguardanti i
negoziati.
Il dato certo, per il momento, è
che c’è un vero e proprio abisso
fra gli scenari inquietanti di «macdonaldizzazione» dell’Europa tratteggiati dai movimenti contrari,
come la campagna Stop-Ttip, e le
rassicuranti e un po’ asettiche
infografiche della Commissione
europea che cercano di smontare
i «falsi miti sul trattato».
I numeri del Ttip
Secondo uno studio indipendente
citato dalla Commissione, il Ttip
dovrebbe portare un incremento
annuo di 120 miliardi di euro all’economia europea e di 95 miliardi
a quella statunitense entro il
2027, facendo espandere di
mezzo punto percentuale il Pil del
vecchio continente e dello 0,4%
quello a stelle e strisce. Per le famiglie europee tutto questo si tradurrebbe in un guadagno di cinquecento euro all’anno.
Le esportazioni dall’Europa agli
Usa aumenterebbero di quasi un
terzo per un totale di 187 miliardi
di euro. I benefici, continua lo studio, interesserebbero quasi tutti i
beni e servizi, ma toccherebbero
in particolare i settori del metallo,
dei cibi lavorati, dei prodotti chimici, e dei mezzi e attrezzature di
trasporto. A vivere un vero e proprio boom sarebbe il settore automobilistico: l’export di veicoli europei crescerebbe infatti del
149%. Si creerebbero quindi decine di migliaia di nuovi posti di lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico, e le ricadute sul commercio planetario indurrebbero
un incremento del Pil mondiale di
ulteriori cento milioni di euro.
Un’occasione da non perdere, insistono i promotori dell’accordo,
forti dei numeri riportati nello studio.
Che cosa dicono i critici
Lo studio citato dalla Commissione è tutto meno che indipendente, oppongono i detrattori: il
# Pagina precedente: europarlamentari contrari al trattato.
In queste pagine e seguente:
manifestazioni in varie città
europee contro il Ttip.
© http //stop-ttip-italia.net/
specializzati in diritto commerciale. Per capire come funziona in
concreto l’Isds, basti pensare ai
due casi «Vattenfall contro Germania». Nel primo caso, la Vattenfall, azienda svedese del settore energetico e costruttrice
della centrale a carbone di Amburgo, fece ricorso contro i parametri che la città tedesca nel 2009
voleva imporre per legge allo
scopo di migliorare la qualità delle
acque che la centrale a carbone
della compagnia svedese riversava nel fiume Elba. Nel secondo
caso, il ricorso della Vattenfall fu
invece contro l’abbandono del nucleare deciso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel 2011
dopo il disastro di Fukushima: l’azienda svedese gestiva infatti due
centrali atomiche nel Nord del
paese. In entrambi i casi il colosso
svedese sostenne che le decisioni
tedesche generavano aumenti dei
costi o perdite, in violazione del
Trattato energetico europeo, che
protegge gli investimenti nel settore energetico, e chiese compensazioni per 1,4 miliardi di Euro nel
primo caso e per 3,7 nel secondo.
• Trattati | Economia | Commercio | Relazioni internazionali • MC RUBRICHE
suo autore è, infatti, il britannico
Cepr, Centre for Economic Policy
Research, che dedica una pagina
del suo sito web ai ringraziamenti
nei confronti dei suoi finanziatori,
fra i quali figurano tutte le banche
centrali europee e i colossi bancari mondiali, da Citibank e JP
Morgan alle italiane Intesa San
Paolo e Unicredit.
E questo è ancora il meno: la
Commissione, infatti, sostiene che
a beneficiare del Ttip saranno in
primis i cittadini europei, ma allora - si chiede il centro di ricerca
canadese Global Research - perché nei 597 incontri a porte chiuse
con le parti interessate, la Commissione si è confrontata nell’88%
dei casi con i lobbisti del mondo
del business, e solo nel 9% dei casi
con gruppi che si occupano di
temi di pubblico interesse come
l’ambiente o i diritti dei consumatori e dei lavoratori? E, se il Ttip
ha come obiettivo di aiutare «le
imprese, grandi e piccole», perché
la Direzione generale Ue del Commercio, fra il 2012 e il 2014 - cioè
nelle fasi preparatorie e nei primi
cicli di negoziati - ha avuto la stragrande maggioranza degli incontri
con sei raggruppamenti di lobby
fra cui Efpia (European Federation
of Pharmaceutical Industries and
Associations - Federazione europea di Industrie e associazioni farmaceutiche), che rappresenta, fra
gli altri, GlaxoSmithKline, Pfizer,
Novartis, Sanofi e Roche, e FoodDrinkEurope, il più grande gruppo
di pressione dell’industria alimentare europea, che dà voce agli interessi di Nestlé, Coca Cola e Unilever? Dal canto loro, le associazioni di categoria come l’Unione
europea dell’artigianato e delle
piccole e medie imprese (Uapme)
- di cui fanno parte, ad esempio,
Confartigianato e Cna - vedono di
buon occhio il trattato ma insistono sulla necessità di salvaguardare gli standard di qualità europei e di essere maggiormente
coinvolte nel processo negoziale.
I segnali preoccupanti riguardanti
il grande peso dei poteri forti, in
effetti, non mancano, se è vero come riporta il quotidiano inglese
The Guardian - che all’inizio di
quest’anno alcuni alti funzionari
Ue avrebbero insabbiato uno studio che avrebbe contribuito a
identificare e mettere al bando
trentuno pesticidi contenenti sostanze che alterano la funzionalità
del sistema endocrino. L’insabbiamento sarebbe avvenuto in seguito a pressioni esercitate da
funzionari del commercio statunitensi, e anche da colossi della chimica come Bayer e Basf. Questo
nonostante diversi studi scientifici
associno le sostanze contenute in
quei pesticidi a un aumento delle
mutazioni genitali, dell’infertilità
maschile, delle anomalie del feto
e della riduzione del quoziente intellettivo, e stimino in 150 miliardi
di euro i costi sanitari connessi ai
danni provocati.
Le raccomandazioni del
Parlamento europeo
In questa ridda di voci, fughe di
notizie, smentite e precisazioni,
un punto fermo che chiarisce almeno un po’ che cosa c’è sui tavoli negoziali, è la risoluzione
© Jess Hurd/NoTT P
© http://ttip2015.eu/blog-detail/blog/-73.html
adottata lo scorso 8 luglio dal Parlamento europeo. Essa contiene
una serie di raccomandazioni, tra
cui una riguardante il meccanismo
dell’arbitrato internazionale che
propone un sistema alternativo
nel quale «i possibili casi siano
trattati in modo trasparente da
giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti durante
udienze pubbliche».
Vi è poi la richiesta dell’europarlamento ai negoziatori di escludere
dal trattato ambiti nei quali le legislazioni Ue e Usa sono molto diverse: «I servizi sanitari pubblici,
gli Ogm, l’impiego di ormoni nel
settore bovino, il regolamento
Reach [relativo alle sostanze chimiche, ndr] e la sua attuazione, e
la clonazione degli animali a
scopo di allevamento». Altre raccomandazioni riguardano la protezione dei dati personali dei cittadini europei, la tutela delle indicazioni geografiche, la garanzia
della tracciabilità ed etichettatura, il rispetto della normativa
sul lavoro. I critici del Ttip hanno
accolto con disappunto anche
questa risoluzione perché colpevole, a loro dire, di essere troppo
vaga e di costituire di fatto un
avallo al trattato.
«Se il Ttip sarà un accordo misto
(cioè con competenze condivise
fra Unione europea e Stati membri, ndr)», ha dichiarato il presidente del Parlamento europeo
Martin Schulz, «e ne sono certo, i
Parlamenti nazionali e quello europeo dovranno sottoporlo ad atOTTOBRE 2015 MC
67
Cooperando…
ULRIKE SCHMIDT / CAMPACT - Namensnennung - keine kommerzielle Nutzung
tenta verifica, secondo il proprio
ordinamento». Il commissario europeo per il commercio, Cecilia
Malmström, ha affermato che
l’impegno è quello di concludere
entro il 2015: l’anno prossimo infatti terminerà il secondo mandato di Barack Obama e gli Stati
Uniti avranno una nuova amministrazione che potrebbe ridefinire
le priorità statunitensi. In più
Washington sta negoziando anche
un secondo trattato, il Tpp, con
undici Stati del Pacifico.
I risvolti per i paesi in via
di sviluppo
Gli analisti concordano nel dire
che attualmente è ancora presto
per immaginare quali potranno
essere le ripercussioni dell’eventuale accordo Usa-Ue per i paesi
in via di sviluppo. Tuttavia, alcune
considerazioni preliminari sono
emerse, anche di segno positivo:
ad esempio quelle che sottolineano come l’esistenza di un
blocco nordatlantico con regole
unificate permetterebbe ai produttori dei paesi terzi di adeguare
i loro prodotti a un solo standard
per l’esportazione verso Europa e
Stati Uniti, e non più a due, con un
possibile calo dei costi di produzione.
Ma c’è anche chi è più cauto e invita a fare studi più approfonditi:
lo scorso febbraio, la commissione sviluppo del Parlamento europeo chiedeva ai negoziatori di
Bruxelles di considerare il rischio
di una «possibile deviazione degli
scambi e degli investimenti per alcuni paesi in via di sviluppo». Il direttore di Oxfam Germania, Marion Lieser, chiarisce il punto: «Se
l’Unione europea e gli Stati Uniti
aprono ulteriormente i loro mercati, le importazioni da paesi terzi,
fra cui quelli in via di sviluppo, potrebbero diminuire. Prendiamo il
caso della Florida, stato della costa orientale statunitense produttore di frutta esotica: se aumentasse il flusso di questi prodotti
dalla Florida verso l’Europa è
ai lettori
e amici
che hanno
firmato il
68
MC OTTOBRE 2015
Per l’approfondimento:
Alberto Zoratti - Monica Di Sisto Marco Bersani, Nelle mani dei mercanti,
Perché il TTIP va fermato, Emi, Bologna
2015.
plausibile che simili frutti provenienti dai paesi in via di sviluppo
perdano parte della loro quota
di mercato». Solo a negoziati
conclusi sarà possibile azzardare
previsioni più precise.
Chiara Giovetti
AMICO.RIV
NICONSOLA
TA.IT
H
.04
\\ 69 EDITORIALE \\ 70 VOCE DI PIETRO \\ 72 BIBBIA ON THE ROAD \\ 74 PROGETTO MESSICO \\ 76 AMICOMONDO
ai lottato con tutte le tue forze e risorse. Non eri solo,
ma non avevi con te niente che ti desse sicurezza, nessun
rifugio, nessuna ricetta magica. Eri esposto alla contingenza vertiginosa della vita, all’assenza di garanzia. Hai scacciato demoni di ogni tipo: strambi, spaventosi, insensati. Hai
unto di olio molti infermi, e li guarivi con lo stupore di avere ricevuto davvero potere sugli spiriti immondi. Hai incontrato
molti che desideravano rinascere, e molti altri che invece rifiutavano (cfr. Mc 6, 7-13.30-34).
Hai fatto molto, e vorresti fare ancora. Ma vieni ora. Vieni con
me. In disparte, in un luogo deserto. Riposati un po’. Qui non
hai più nemmeno il tempo per nutrirti, per introdurre in te la
luce necessaria a trovare la guarigione che vi ho posto.
Vieni in un luogo solitario. Sali su questa piccola barca, e attraversiamo le acque profonde del tuo mare solcandone con
calma la superficie. Non temere: questo pezzo di legno, per
quanto precario, ti proteggerà dall’abisso, perché Io sono con
te. Tu starai con me e potrai osservare su quali creature splendide e lucenti sei sospeso, ma anche su quali mostri spaventosi
e su quale mistero irriducibile ti muovi.
Lo so che tu desideri arrivare dall’altra parte e trovare riposo
sull’altra sponda, distante da queste acque. Temi di venirne inghiottito, di perderti in esse. Ma non puoi riposare di là: appena sbarcato troverai molte cose nuove da fare. Molte pecore
senza pastore. Troverai innumerevoli incrinature nell’architettura del mondo che ti chiederanno di essere accolte, un po’
raddrizzate forse, giusto il minimo per evitare il crollo dell’edificio, ma tant’è: sarai di nuovo preso dalla lotta.
Lo so che vorresti attraversare il mare in fretta, ma il tuo deserto e il tuo riposo non sono là.
È qua, su questa barchetta al pelo dell’acqua, il deserto.
È in quel «vieni», in quello «stai con me», il tuo riposo.
Quando sbarcheremo, allora sarai pronto per «dare loro da
mangiare».
Buon mese missionario da amico.
Luca Lorusso
INDICE
Caro amico
ISTAMISSIO
Chiamati
a vivere di missione
Voce di Pietro
C
ari fratelli e sorelle,
la Giornata Missionaria Mondiale 2015 avviene sullo sfondo dell’Anno della Vita
Consacrata [...]. Infatti, se ogni battezzato è chiamato a rendere testimonianza al Signore Gesù
annunciando la fede ricevuta in dono, questo
vale in modo particolare per la persona consacrata [...]. La sequela di Gesù, che ha determinato
il sorgere della vita consacrata nella Chiesa, risponde alla chiamata a prendere la croce e andare dietro a Lui, ad imitare la sua dedicazione al
Padre e i suoi gesti di servizio e di amore, a perdere la vita per ritrovarla. E
poiché tutta l’esistenza
di Cristo ha carattere
missionario, gli uoIl Messaggio
del Santo Padre
Francesco per
l’89^ Giornata
Missionaria Mondiale,
che si celebra domenica 18 ottobre
2015.
Leonora Giovanazzi/Flickr.com
di Papa Francesco
mini e le donne che lo seguono più da vicino assumono pienamente questo medesimo carattere.
La dimensione missionaria, appartenendo alla natura stessa della Chiesa, è intrinseca anche ad
ogni forma di vita consacrata, e non può essere
trascurata senza lasciare un vuoto che sfigura il
carisma. La missione [...] fa parte della «grammatica» della fede, è qualcosa di imprescindibile
per chi si pone in ascolto della voce dello Spirito
che sussurra «vieni» e «vai». Chi segue Cristo non
può che diventare missionario, e sa che Gesù
«cammina con lui, parla con lui, respira con lui.
Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario» (EG, 266).
a missione è passione per Gesù Cristo e nello
stesso tempo è passione per la gente.
Quando sostiamo in preghiera davanti a Gesù
crocifisso, riconosciamo la grandezza del suo
amore che ci dà dignità e ci sostiene; e nello
stesso momento percepiamo che
quell’amore che parte dal suo
cuore trafitto si estende a
tutto il popolo di Dio e all’umanità intera; e proprio
così sentiamo anche che
Lui vuole servirsi di noi
per arrivare sempre più
L
I
O
ricambiarti (cfr. Lc 14,13-14) [...] (EG, 48). Ciò dev’essere chiaro specialmente alle persone che
abbracciano la vita consacrata missionaria: con il
voto di povertà si sceglie di seguire Cristo in questa sua preferenza, non ideologicamente, ma
come Lui identificandosi con i poveri, vivendo
come loro nella precarietà dell’esistenza quotidiana e nella rinuncia all’esercizio di ogni potere
per diventare fratelli e sorelle degli ultimi, portando loro la testimonianza della gioia del Vangelo e l’espressione della carità di Dio.
er vivere la testimonianza cristiana e i segni
dell’amore del Padre tra i piccoli e i poveri, i
consacrati sono chiamati a promuovere nel servizio della missione la presenza dei fedeli laici. Già
il Concilio Ecumenico Vaticano II affermava: «I
laici cooperino all’opera evangelizzatrice della
Chiesa, partecipando come testimoni e come vivi
strumenti della sua missione salvifica» (AG, 41). È
necessario che i consacrati missionari si aprano
sempre più coraggiosamente nei confronti di
quanti sono disposti a collaborare con loro, anche per un tempo limitato, per un’esperienza sul
campo. Sono fratelli e sorelle che desiderano
condividere la vocazione missionaria insita nel
Battesimo [...].
Le Istituzioni e le Opere missionarie della Chiesa
[...] hanno bisogno dei carismi e dell’impegno
missionario dei consacrati, ma anche i consacrati
hanno bisogno di una struttura di servizio,
espressione della sollecitudine del Vescovo di
Roma per garantire la koinonia, così che la collaborazione e la sinergia siano parte integrante
della testimonianza missionaria. Gesù ha posto
l’unità dei discepoli come condizione perché il
mondo creda (cfr. Gv 17,21) [...].
L’Opera Missionaria del Successore di Pietro ha
un orizzonte apostolico universale. Per questo ha
bisogno anche dei tanti carismi della vita consacrata [...].
ari fratelli e sorelle, la passione del missionario è il Vangelo. San Paolo poteva affermare:
«Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor
9,16). Il Vangelo è sorgente di gioia, di liberazione e di salvezza per ogni uomo. [...] La missione dei servitori della Parola – vescovi, sacerdoti, religiosi e laici – è quella di mettere tutti,
nessuno escluso, in rapporto personale con Cristo. Nell’immenso campo dell’azione missionaria
della Chiesa, ogni battezzato è chiamato a vivere
al meglio il suo impegno, secondo la sua personale situazione. [...].
entre affido a Maria, Madre della Chiesa e
modello di missionarietà, tutti coloro che,
ad gentes o nel proprio territorio, in ogni stato di
vita cooperano all’annuncio del Vangelo, di
cuore invio a ciascuno la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 24 maggio 2015
Solennità di Pentecoste
Francesco
P
C
M
OTTOBRE 2015
amico 71
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
vicino al suo popolo amato (EG, 268) e a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Nel comando di Gesù: «andate» sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa. In essa tutti sono chiamati ad annunciare il Vangelo con la testimonianza della vita [...].
l cinquantesimo anniversario del Decreto conciliare Ad gentes ci invita a rileggere e meditare
questo documento che suscitò un forte slancio
missionario negli Istituti di vita consacrata. Nelle
comunità contemplative riprese luce ed eloquenza la figura di santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni, quale ispiratrice dell’intimo legame della vita contemplativa con la
missione. Per molte congregazioni religiose di
vita attiva l’anelito missionario scaturito dal Concilio Vaticano II si attuò con una straordinaria
apertura alla missione ad gentes, spesso accompagnata dall’accoglienza di fratelli e sorelle provenienti dalle terre e dalle culture incontrate nell’evangelizzazione, tanto che oggi si può parlare
di una diffusa interculturalità nella vita consacrata. Proprio per questo è urgente riproporre l’ideale della missione nel suo centro: Gesù Cristo,
e nella sua esigenza: il dono totale di sé all’annuncio del Vangelo. Non vi possono essere compromessi su questo: chi, con la grazia di Dio, accoglie la missione, è chiamato a vivere di missione. Per queste persone, l’annuncio di Cristo,
nelle molteplici periferie del mondo, diventa il
modo di vivere la sequela di Lui e ricompensa di
tante fatiche e privazioni. [...] Mi rivolgo soprattutto ai giovani [...]: non lasciatevi rubare il sogno
di una missione vera, di una sequela di Gesù che
implichi il dono totale di sé. Nel segreto della
vostra coscienza, domandatevi quale sia la ragione per cui avete scelto la vita religiosa missionaria e misurate la disponibilità ad accettarla per
quello che è: un dono d’amore al servizio dell’annuncio del Vangelo, ricordando che, prima di essere un bisogno per coloro che non lo conoscono, l’annuncio del Vangelo è una necessità
per chi ama il Maestro.
ggi, la missione è posta di fronte alla sfida di
rispettare il bisogno di tutti i popoli di ripartire dalle proprie radici e di salvaguardare i valori
delle rispettive culture. Si tratta di conoscere e rispettare altre tradizioni e sistemi filosofici e riconoscere ad ogni popolo e cultura il diritto di farsi
aiutare dalla propria tradizione nell’intelligenza
del mistero di Dio e nell’accoglienza del Vangelo
di Gesù, che è luce per le culture e forza trasformante delle medesime.
All’interno di questa complessa dinamica, ci poniamo l’interrogativo: «Chi sono i destinatari privilegiati dell’annuncio evangelico?». La risposta è
chiara e la troviamo nel Vangelo stesso: i poveri, i
piccoli e gli infermi, coloro che sono spesso disprezzati e dimenticati, coloro che non hanno da
purolipan/Flickr.com
Bibbia on the road
Gesù
propone una
revisione cristologica
della cultura e delle
tradizioni dei singoli e di
ciascun popolo.
Il contrasto con le autorità
religiose del suo tempo
mostra tutta la difficoltà
di accogliere la nuova
prospettiva.
di Antonio Magnante
La Parola
che supera le tradizioni
D
opo Nicodemo e la Samaritana, parliamo ora
delle autorità giudaiche
e della loro reazione all’insegnamento di Gesù, sempre secondo il Vangelo di Giovanni.
LA LEGGE AL SERVIZIO
DEL SALVATORE
Nel Giudaismo l’insegnamento
era intimamente connesso alla
Legge, che si riteneva dettata
direttamente da Dio. I maestri
di Israele avevano il solo compito di far conoscere quanto
Dio stesso aveva rivelato a
Mosè allo scopo di favorire le
relazioni tra gli individui e Dio e
tra i singoli e il loro prossimo.
Nella comunità di Qumran, che
viveva nei pressi del Mar
Morto, il maestro di giustizia
aveva il compito di svelare le
cose nascoste nella Legge. Di
conseguenza egli era totalmente al suo servizio.
Anche Gesù come i farisei e i
rabbini vede nella Legge la rivelazione della volontà di Dio,
72 amico
OTTOBRE 2015
ma rifiuta, a differenza loro, di
considerarla come una realtà
assoluta. Per lui anche la Legge
deve essere al servizio della
sua missione di inviato del Padre: con la sua venuta la Legge
perde centralità. Il nuovo centro della rivelazione è Gesù
stesso. Mentre i rabbini del suo
tempo insegnano che la Legge
va studiata e osservata, Gesù
insegna che va ascoltata e osservata la sua Parola, quale realizzazione della Legge. D’ora in
poi l’accesso alla volontà del
Padre si ottiene non con la
Legge, ma con la Parola di
Gesù. Egli cambia la funzione
della Legge e la sostituisce con
la sua persona.
Nel Vangelo di Giovanni l’insegnamento di Gesù è menzionato nel contesto della festa
dei Tabernacoli (Gv 7-8) e consiste fondamentalmente in una
autorivelazione. Mentre Gesù
rivela se stesso, rivela il Padre.
Non vi è dubbio che in questo
Vangelo «insegnare» e «par-
lare» siano verbi di rivelazione.
Nella maggior parte dei casi, il
loro oggetto è la stessa persona di Gesù, il quale non intende spiegare la Legge, tanto
meno rivelarne i risvolti sconosciuti. Un’altra annotazione di
rilievo è che nel quarto Vangelo Gesù insegna esclusivamente nel tempio (Gv 7,14-35;
8,20.28) o nella sinagoga. Gesù
sceglie il tempio perché proprio in esso gli scribi si radunano per discutere le problematiche della Legge. Quando
al capitolo 7,14 l’evangelista
dice che Gesù sale al tempio,
molto probabilmente intende
dire che Gesù si pone sullo
stesso piano degli scribi, e
come loro impartisce il suo insegnamento.
UN’IMPRESA DIFFICILE
La reazione alla Parola di Gesù
è violenta. Le autorità non accettano la sua dottrina, la ritengono fuorviante. Per loro Gesù
è un falso profeta e addirittura
segnato» riguardo le cose del
Padre portando una nuova rivelazione, che non si trova nella
Legge di Mosè. Coloro che vogliono credere in lui devono
avere il coraggio di considerare
la Legge, e tutte le tradizioni
antiche, al servizio della nuova
rivelazione.
OLTRE CULTURE E
TRADIZIONI
L’evento Cristo supera culture
e tradizioni e impone una scelta
radicale: o con lui o contro di
lui. Ciò che appartiene alla nostra storia personale deve essere solo ed esclusivamente al
servizio della nuova rivelazione.
Né la Legge di Mosè né le differenti culture e tradizioni dei
vari popoli possono avere un
posto d’onore nella vita dei
credenti. Tale posto spetta solo
a Cristo, il Verbo Incarnato.
Culture e tradizioni diverse
possono vivere insieme a condizione che venga accolta in
tutti la radicale trasformazione
operata da Cristo Gesù. L’affermazione di Paolo rimane sempre attuale: «Non vivo più io,
ma Cristo vive in me» (cf. Gal
2,20).
Antonio Magnante
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
LO SCHIAFFO DEL
SOLDATO
suoi discepoli e la sua dottrina»
(Gv 18,19). Le autorità giudaiche si ostinano a credere che
Gesù sia un impostore. Alla domanda di Anna, Gesù risponde:
«Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato
nella sinagoga e nel tempio,
dove tutti i Giudei si riuniscono,
e non ho detto nulla di nascosto» (Gv 18,20). Lui sa bene, infatti, che esse hanno già deciso
la sentenza di morte, e sa di
conseguenza che non c’è bisogno di esporre ancora una volta
la sua dottrina.
In questa sezione del quarto
Vangelo (Gv 18,19-24) si può
notare un dialogo tra Gesù e
Anna che è strutturato in maniera concentrica: Anna (v. 19),
Gesù (v. 20-21), lo schiaffo del
soldato (v. 22), Gesù (v. 23),
Anna (v. 24). Bisogna notare
che il verbo «parlare» (verbo di
rivelazione) ricorre tre volte nel
versetto 22 e una volta nel versetto 23. Da questa struttura
emerge che lo schiaffo del soldato, che si trova al centro,
quindi nella posizione più rilevante, viene inferto per punire
il parlare rivelare di Gesù, rigettando brutalmente il suo insegnamento.
Durante il suo ministero pubblico, Gesù ha «parlato» e «inJoséde Madrazo, Jesús en casa de Anás,1803, Museo del Prado
un indemoniato (cf. Gv 7,20).
Essi credono che il suo insegnamento stia allontanando la
gente dalla sacra Legge di
Mosè (Gv 7,47). Essi rifiutano la
dottrina di Gesù, perché essa
imporrebbe loro una radicale
trasformazione personale e una
rivisitazione della Legge stessa.
In Gv 7,38 Gesù proclama: «Chi
crede in me, come dice la Scrittura: “fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”». Non
vi è alcun dubbio che solo la
fede può guidare le persone a
riconoscere Gesù come il rivelatore del Padre, e il suo insegnamento come proveniente
da Dio, e, infine, ad accettare
di diventare per sé e per gli altri fonti di acqua zampillante.
La venuta di Gesù svela che la
Legge ha lo scopo di preparare
gli animi ad accoglierlo. Coloro
che ritengono invece la Legge
di Mosè intangibile, non essendo disposti a una trasformazione, considerano Gesù un traviatore di folle da togliere di
mezzo. I Farisei oppongono
Mosè a Gesù quando affermano: «Noi sappiamo, infatti,
che a Mosè ha parlato Dio; ma
costui non sappiamo di dove
sia» (Gv 9,29). Essi credono che
Dio abbia parlato faccia a faccia
con Mosè, in più credono di essere loro i suoi legittimi discepoli. Di Gesù essi ignorano la
provenienza, e ritengono che il
suo insegnamento non sia ortodosso. Per loro il nazareno non
può essere un autentico maestro, anche per il fatto che non
ha frequentato la scuola di nessun rabbino famoso, e pochi
sono disposti a credere all’affermazione di Gesù che sostiene che il suo unico e vero
Maestro è Dio stesso (Gv 7,16;
8,28).
Lo stesso tema dell’accoglienza
dell’insegnamento di Gesù ricorre nel momento cruciale
della vita del salvatore, quando
Anna, suocero del sommo sacerdote, lo interroga «circa i
OTTOBRE 2015
amico 73
Progetto Messico
Testo e foto di
Alessandro Conti
Un mattone
per la missione
arissimi amici,
mi auguro che stiate bene e sempre con la
speranza viva nel cuore. Sono padre Alessandro Conti, nativo di Lecco, Missionario della
Consolata in Messico, e vi scrivo per chiedervi
un appoggio per la nostra missione.
Il nostro Istituto è giunto in Messico nel 2008,
con una prima presenza nella periferia di Guadalajara, la seconda città del paese per numero di
abitanti, circa sette milioni di persone considerando tutta la zona metropolitana. Attualmente i
missionari della Consolata contano nel paese tre
comunità: una parrocchia nello stato del Chiapas, una comunità formativa a Guadalajara e
un’altra comunità ai margini di Guadalajara, in
zona rurale. Quest’ultima è la comunità cui si riferisce il progetto.
Le due comunità di Guadalajara non reggono
parrocchie allo scopo di essere più presenti tra
«i lontani». In questi anni infatti la nostra missione si è realizzata soprattutto attraverso la presenza semplice, l’accoglienza, l’ascolto e l’accompagnamento personale di quanti incontriamo.
Inoltre, con l’aiuto di un’équipe di psicologi, psicoterapeuti, e altri professionisti, stiamo cercando di attuare anche qui lo spirito e la pratica
della Fundación para la Reconciliación, esperienza molto feconda nata in Colombia da un
nostro confratello, padre Leonel Narváez e in via
di diffusione in diversi paesi dell’America Latina.
C
UNA CASA PER ESSERE PRESENTI
All’arrivo nel 2008, la nostra prima comunità ha
vissuto per cinque anni in una casa di campagna,
prestataci da una famiglia amica, poco fuori dal
74 amico
OTTOBRE 2015
villaggio di San Antonio de Juanacaxtle che si
trova all’estrema periferia di Guadalajara, in
zona rurale. La casa aveva problemi seri nella
struttura, nell’impianto elettrico, nell’approvvigionamento di gas e acqua. Dopo un sopralluogo di alcuni esperti nel 2013, la comunità l’ha
dovuta lasciare per il pericolo di un crollo. Ora
vive in un’altra casa, anch’essa prestataci da una
persona del villaggio. Nel frattempo però abbiamo ricevuto in dono un terreno per costruire
una casa meno isolata, e la gente di San Antonio
ha promesso di aiutarci a realizzarla. Il costo è di
circa 75.000 euro. Già il nostro Istituto ci sta appoggiando con una quota importante. Noi abbiamo realizzato lotterie, e altre iniziative, tra cui
una campagna presso la parrocchia italiana Madonna della Rovinata di Lecco. Ciò che chiediamo ai lettori di Amico è un aiuto per raccogliere ciò che manca.
Pensavamo di far partecipi le persone con l’acquisto simbolico di mattoni. Ogni
offerta di 2 euro ne rappresenta uno. Il sogno è di poterne raccogliere 5.000. Il
contributo di ciascuno
sarà importante: pochi o
molti che siano i mattoni
donati, sarà un gran regalo.
ACCOMPAGNANDO OGNI FASE DI VITA
In accordo con la gente del villaggio, abbiamo
deciso di utilizzare il terreno che ci è stato donato, non solo per la casa dei missionari, ma anche per costruire un salone multi-funzionale per
attività con adolescenti e giovani, che in questi
villaggi hanno pochi spazi in cui socializzare in
modo sano, e sono quindi spesso facili prede di
droga e alcool. Il salone verrà costruito grazie all’aiuto di una Ong del Canada. La nostra gente
ci ha chiesto inoltre di poterlo utilizzare anche
come sala funeraria quando vi fosse la necessità.
Dovete sapere infatti che qui, quando una persona muore, la famiglia, i parenti e le persone
del villaggio (per lo meno due o tre rappresentanti per famiglia) vegliano tutta la notte il defunto, poi per nove giorni dopo il funerale, alla
sera, il villaggio partecipa alla preghiera del rosario, e la famiglia offre sempre bevande e cibo.
Dato che San Antonio conta circa 1500 abitanti,
Ecco il nuovo progetto: Amico Messico Un
mattone per la missione dedicato alla creazione di spazi e strutture per i missionari e le
attività pastorali.
Sostieni anche tu
quest’iniziativa.
Versa un contributo tramite il bollettino
allegato alla rivista, specificando
la seguente causale: AMICO. Progetto Messico, un mattone per la missione.
Per altre info visita il nostro sito:
amico.rivistamissioniconsolata.it
TITOLO PROGETTO
Un mattone per la missione.
OBIETTIVI A LUNGO TERMINE
Offrire al territorio spazi e strutture utili per
attività pastorali e sociali.
si radunano dalle 50 alle 200 persone per volta, e
non tutte le famiglie hanno lo spazio per accoglierle. È per questo che è nata l’idea di questa ulteriore funzione del salone.
IL NOSTRO SOGNO
Con l’aiuto della gente già abbiamo iniziato a costruire il muro di recinzione e tra poco inizieremo
a costruire anche un deposito per l’acqua. Qui generalmente da ottobre a giugno non piove.
Le persone del villaggio ci stanno aiutando economicamente con una raccolta di offerte settimanali
volontarie, ma il costo è alto, e quindi i lavori
vanno a rilento.
Il nostro sogno è che da qui a un anno possiamo
realizzare il pozzo e la recinzione grazie all’aiuto
del villaggio, il salone multi-uso grazie alla Ong
canadese di cui ho scritto sopra, e la casa per i
missionari grazie anche a voi.
Che il Signore vi benedica e vi sorrida.
Buon mese missionario vissuto in pienezza e in
profondità, riscoprendo l’amore «matto» di un Dio
che non si stanca di volerci bene nonostante le nostre debolezze, lentezze e la nostra miopia d’amore.
Alessandro Conti
IMC Messico
OBIETTIVI A BREVE TERMINE
Costruzione della casa dei missionari.
1 mattone
2 Euro
contributo richiesto:
10.000 Euro
RESPONSABILE
Padre Alessandro Conti, Imc
MISIONEROS DE LA CONSOLATA
C/Camino Juanacaxtle, 220-San Antonio
Juanacaxtle, 45880, Municipio Juanacatlan,
Jalisco, México.
Tel. 005213311525159.
Mail di p. Alessandro: [email protected]
OTTOBRE 2015
amico 75
Le sfide
del mondo
attuale
amicomondo
i prepara un cartellone
con articoli e foto che riportano notizie attuali di
situazioni di ingiustizia, sfruttamento, povertà, migrazione,
problematiche ambientali… Si
chiede ai presenti di darne una
lettura e di rispondere alle seguenti domande:
* Quali problematiche vive il
mondo oggi?
* Quali sentimenti e emozioni
suscitano in noi queste situazioni?
* Quali sfide provocano?
S
Marco Monetti/Flickr.com
LA PAROLA DI DIO
A fianco del cartellone si apre
una Bibbia e si legge il seguente brano del Vangelo di
Luca: «Sono venuto a gettare
fuoco sulla terra e quanto vorrei che fosse acceso! Quando
vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la
pioggia”, e così accade. E
quando soffia lo scirocco dite:
“Farà caldo”, e così accade.
Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo;
come mai questo tempo non
sapete valutarlo? E perché non
giudicate voi stessi ciò che è
giusto?» (Lc. 12,49.54-57).
RIFLETTIAMO INSIEME
Una famosa frase del teologo
evangelico Karl Barth dice che
il cristiano dovrebbe avere in
una mano la Bibbia e nell’altra
il giornale, per leggere l’una
76 amico
OTTOBRE 2015
di Deborah Corti
Ecco la terza e
ultima scheda sull’Evangelii Gaudium, pensata per animare gruppi di
giovani allo scopo di approfondire l’esortazione apostolica di papa Francesco che
tanti considerano il «manifesto politico» di
papa Bergoglio.
alla luce
dell’altro e viceversa. Abbiamo infatti bisogno della luce delle Scritture,
per comprendere il significato
degli avvenimenti; ma abbiamo
anche bisogno di illuminare le
pagine della Bibbia con le concrete esperienze di vita, che ci
permettono di far scaturire significati sempre nuovi.
Per questo, secondo un’altra
frase famosa, questa volta del
papa Gregorio Magno, la Bibbia cresce con chi la legge; non
nel senso che vi aggiungiamo
pagine, ma che gli avvenimenti
della storia permettono una
comprensione sempre più viva
della Parola di Dio. Dio infatti
ha parlato negli eventi narrati
nella Bibbia, ma continua a parlare anche oggi.
L’EVANGELII GAUDIUM
Nn. 51-75: «Esorto tutte le comunità ad avere una sempre vigile capacità di studiare i segni
dei tempi. È opportuno chiarire
ciò che può essere frutto del
Regno e anche ciò che nuoce al
progetto di Dio» (n. 51).
«Dobbiamo dire “no ad un’eco-
riconoscere ciò che semina lo
Spirito Santo.
Significherebbe non avere fiducia nella sua azione libera e generosa» (n. 68).
TESTIMONE DI VITA
- Servo di Dio Giorgio La Pira
(Pozzallo, 9 gennaio 1904 - Firenze, 5 novembre 1977).
Terziario domenicano, fu un
politico di primo piano negli
anni della Costituzione e della
nascita della Repubblica. Credeva nella responsabilità di ciascun credente di fronte ai problemi storico sociali e coerentemente impegnò tutta la propria vita a servizio dello stato e
dei cittadini, come esponente
della Democrazia Cristiana, sindaco di Firenze e deputato.
Fautore del dialogo e della mediazione anche quando essa si
presentava non facile, La Pira si
schierò sempre dalla parte dei
meno fortunati, cercando una
feconda integrazione fra Vangelo e vita.
Per saperne di più:
www.giorgiolapira.org
NELLA NOSTRA FAMIGLIA
Suor Eugenia Bonetti, Missionaria della Consolata (nata a
Bubbiano, nel milanese, nel
1939), ha vissuto in Africa per
24 anni, dal 1993 impegnata in
un centro Caritas di Torino
dove ha conosciuto il mondo
della notte e della strada e
dove ha incontrato il volto, le
storie e le sofferenze, la disperazione e la schiavitù di tante
UK in Holy See/Flickr.com
donne portate in Italia e vittime
della prostituzione. Dal 2000
lavora a Roma come responsabile dell’Ufficio «Tratta donne e
minori» dell’Usmi (Unione Superiore Maggiori d’Italia). Si ritiene la voce di chi non ha
voce, alle nuove schiave e vittime della tratta per sfruttamento lavorativo e sessuale.
Per saperne di più:
www.usminazionale.it
A LIVELLO LOCALE
I Gruppi di Acquisto Solidali
(Gas) nascono da una riflessione sulla necessità di un cambiamento profondo del nostro
stile di vita. Come tutte le
esperienze di consumo critico,
anche questa vuole immettere
una «domanda di eticità» nel
mercato, per indirizzarlo verso
un’economia che metta al centro le persone e le relazioni.
Per saperne di più:
www.retegas.org
INTERROGHIAMOCI
1. Quali aspetti positivi e opportunità riconosciamo nelle
sfide del mondo attuale?
2. Come mi provocano le esperienze di vita e di fede dei testimoni?
3. Quali conversioni dobbiamo
attuare alla luce del Vangelo:
quali modi di pensare, atteggiamenti da maturare, compor-
OTTOBRE 2015
amico 77
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
nomia dell’esclusione e della
inequità”. Non è possibile che
non faccia notizia il fatto che
muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada. Non
si può tollerare il fatto che si
getti il cibo, quando c’è gente
che soffre la fame. Oggi tutto
entra nel gioco della competitività e della legge del più forte,
dove il potente mangia il più
debole» (n. 53).
«Dobbiamo dire “no alla nuova
idolatria del denaro”. La crisi finanziaria che attraversiamo ci
fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del
primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. Si riduce l’essere umano ad uno
solo dei suoi bisogni: il consumo» (n. 55).
«Dobbiamo dire “no all’inequità che genera violenza”.
Fino a quando non eliminiamo
l’esclusione e l’inequità nella
società e tra i diversi popoli
sarà impossibile sradicare la
violenza. Come il bene tende a
comunicarsi, così il male a cui si
acconsente, cioè l’ingiustizia,
tende ad espandere la sua
forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale».
(n. 59)
«L’individualismo postmoderno
e globalizzato favorisce uno
stile di vita che indebolisce lo
sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone e che snatura i vincoli familiari». (n. 67)
«Uno sguardo di fede sulla
realtà non può dimenticare di
CONCLUSIONE
Non dobbiamo aver paura di
fare come i profeti della Bibbia,
che si pongono in situazioni
conflittuali pur di verificare le
scelte politiche ed economiche
alla luce della Parola di Dio.
DONO
Viene consegnato un biglietto
su cui è scritta la seguente provocazione di papa Francesco:
«Usciamo, usciamo ad offrire a
tutti la vita di Gesù Cristo. Preferisco una Chiesa accidentata,
ferita e sporca per essere uscita
per le strade, piuttosto che una
Chiesa malata per la chiusura».
Deborah Corti
PREGHIAMO INSIEME
Oxfam talia/Flickr.com
tamenti da assumere?
4. Che cosa possiamo fare concretamente per annunciare il
Vangelo nella nostra attuale situazione e nelle nostre comunità? Quali iniziative proporre?
Non dire: perdona i nostri debiti se non sei disposto a perdonare gli altri.
Non dire: non ci indurre in tentazione se continui a vivere nell’ambiguità.
Non dire: liberaci dal male se
non ti opponi alle opere malvagie.
Non dire: amen se non prendi
sul serio le parole del Padre
nostro.
Progetto
Scuola
Tanzania
Il progetto lanciato nel marzo scorso, Amico scuola Mafinga per il Tanzania, dedicato all’avvio di
una scuola secondaria dei missionari della Consolata in una zona in cui c’è assenza di scuole secondarie, ha ancora bisogno del vostro contributo:
manca poco per la sua conclusione.
Versa un’offerta a MCOnlus specificando la seguente causale:
AMICO. Progetto scuola Mafinga Tanzania, per offrire, attraverso l’acquisto di libri di testo, l’opportu-
nità di studi di livello secondario a ragazzi che non possono permettersi di spostarsi in altre aree.
RESPONSABILE: padre Kwajaba Vedastus - [email protected].
Seminari ya Consolata, PO Box 297, Mafinga - Tanzania.
78 amico
OTTOBRE 2015
Oxfam talia/Flickr.com
Non dire: Padre, se ogni giorno
non ti comporti da figlio.
Non dire: nostro se vivi soltanto
del tuo egoismo.
Non dire: che sei nei cieli se
pensi solo alle cose terrene.
Non dire: venga il tuo regno se
lo confondi con il successo materiale.
Non dire: sia fatta la tua volontà se non l’accetti anche
quando è dolorosa.
Non dire: dacci oggi il nostro
pane quotidiano se non ti
preoccupi della gente che ha
fame.
4 chiacchiere
con « i Perdenti»
a cura di Mario Bandera
8. ANTÔNIO
CONSELHEIRO
DI CANUDOS
Nella diocesi di Paulo Afonso, nello stato della
Bahia in Brasile, sorge la cittadina di Canudos; il
nome di una località che agli italiani dice ben
poco, ma che in Brasile ha invece un significato
molto profondo in quanto città di Antonio Conselheiro (1830-1897), il carismatico fondatore di
una originale comunità di vita imperniata sulla
condivisione dei beni, sull’uguaglianza dei membri e sulla fratellanza reciproca che andava oltre
le condizioni sociali ed economiche e il colore
della pelle di ciascuno.
La comunità si organizzò stabilmente nel 1893
fondando il villaggio di Canudos in quella che era
una fazenda vicino alla cittadina di Monte Santo.
Fu il tentativo di costruire un’alternativa possibile a una concezione di stato che, sostenuto dai
grandi latifondisti, si basava sulla supina sottomissione dei neri, degli indios, dei meticci e dei
braccianti senza terra. La comunità di Canudos,
fin dal suo inizio, fu considerata dalle autorità
politiche e militari dell’appena nata Repubblica
brasiliana come un «bubbone» da estirpare a
qualunque costo per evitare che le idee egualitarie che essa propugnava si propagassero a macchia d’olio.
Canudos venne abbattuta a cannonate dall’esercito nell’ottobre 1896. I suoi abitanti furono tutti
sterminati, comprese le donne e i bambini. Una
comunità profetica che ricercava l’ideale evangelico di vita non «poteva» sussistere nel territorio dei latifondisti. La sua radicalità era uno
scandalo troppo evidente, perciò «doveva» essere distrutta. Da quell’eccidio nacque la leggenda di Canudos, il cui spirito aleggia ancora
oggi nel vento che accarezza i mandacarù (i cactus selvatici) nella calura quotidiana che caratterizza il sertão del Nordeste brasiliano. Con il suo
carismatico fondatore abbiamo voluto rievocare
non solo le giornate di allora ma anche gli ideali
di libertà che attraversano ogni epoca.
Antonio Conselheiro come ti venne l’idea di fondare
Canudos?
Ai miei tempi il sertão brasiliano, zona arida caratterizzata da periodi di forte siccità dove dovevi spaccarti la
schiena per ricavare dalla terra quanto necessario per vivere, era un territorio in cui vagavano molti ex schiavi
africani liberati, indigeni (indios) che avevano perso completamente la loro identità e la loro terra a causa dell’incontro-scontro con i latifondisti e coloni che avevano
portato anche nuove malattie e un alcolismo devastante,
e fuoriusciti bianchi in fuga dalla legge o dai debiti con
padroni esosi e usurai. Questi disperati vivevano in condizioni di grande miseria senza che nessuno si curasse di
loro. Ero convinto che i principi di giustizia e fraternità
del Vangelo e l’esempio della comunità degli Atti degli
Apostoli potessero essere le basi per costruire con loro
un mondo dove tutti potessero avere uguale dignità.
OTTOBRE 2015 MC
79
I Perdenti
# Pagina precedente: l’attore Adoniran Barbosa ha interpretato Antonio Conselheiro in un film di Lima Barreto del 1953.
Nel web si trova in portoghese il film «Guerra de Canudos», girato nel 1997 da Sérgio Rezende.
In alto, da sinistra: il villaggio di Canudos, una delle case e
il piccolo gruppo dei superstiti dell’ultima battaglia (dall’Arquivo Histórico do Museu da República [do Brasil]).
In basso a destra: la statua di Conselheiro davanti al Museo storico di Canudos, dove sono raccolte le testimonianze di quei tragici eventi.
Se non vado errato, in quei tempi nel sertão brasiliano si muovevano molte figure carismatiche.
È vero, predicatori del Vangelo ce n’erano in abbondanza, ma il personaggio che più di ogni altro ha incarnato l’anima nordestina, è stato Padre Cicero (Romão Batista, 1844-1934, zelantissimo sacerdote considerato
santo dai nordestini, anche se morto ufficialmente scomunicato. Oggi il vescovo della diocesi di Crato nel Cearà
ne ha avviato il processo di riabilitazione, ndr), che percorse il sertão in lungo e in largo, a piedi o in groppa a
umili somarelli per migliaia di chilometri sotto il sole cocente per predicare, confessare e celebrare l’Eucarestia
in posti dove nessun sacerdote aveva messo mai piede.
Per noi, abitanti del sertão, è stato un sacerdote santo e
capace di miracoli e accorrevamo da ogni parte per
ascoltarlo, confessarci e mettere a posto la coscienza.
E tu come ti collocasti in questa realtà?
Considerando la violenza imperante ai miei tempi in
quella zona, ebbi l’idea di creare una comunità in cui si
vivesse radicalmente l’ideale evangelico, cominciai così
ad accogliere gli ex schiavi (circa l’80% della comunità) e
gli indigeni sbandati.
Ma c’erano anche bianchi nella tua comunità?
Certamente. C’erano marinai che si erano ammutinati
sulle loro navi, in fuga dalla dura disciplina che regnava a
bordo e che, una volta a terra, avevano trovato rifugio
nel sertão. Così c’era anche chi, avendo problemi con la
legge, non poteva più rimanere nelle città e si rifugiava
nell’interno disabitato, nella caatinga autentico cuore
del sertão (caatinga, lett. foresta grigia, è l'unico bioma
esclusivamente brasiliano e si trova solo negli stati del
Nordeste, ndr). Erano tutti accomunati da uno stato di
povertà e di esclusione sociale. Non per questo erano
tutti pacifici e inermi. Tra loro c’era anche gente dura,
abituata a combattere per sopravvivere.
Dal 1877 il Nordeste fu colpito da una delle sue tipiche devastanti siccità aggravando gli effetti di una
crisi economica e sociale già molto grave.
Si, migliaia di persone (banditi, flagellanti, miserabili
senza terra) vagavano affamate senza alcun aiuto dal governo, contando solo sull’aiuto divino. Ma la miseria è
una pessima consigliera, così molti, ritenendo che «rubare per ammazzare la fame» non fosse peccato, assaltavano le grandi fazendas e i piccoli proprietari.
In più, a partire dal 1888, quando in Brasile fu ufficialmente abolita la schiavitù, molti ex schiavi, tutti di origine africana, si ritrovarono allo sbando senza nessuna risorsa e, quel che è peggio, senza una terra su cui vivere.
Vedendo questa gente vagabondare senza meta nel
sertão, cominciai a radunarla in un nuovo piccolo villaggio chiamato appunto Canudos, in un territorio disabitato, dove ognuno riceveva un pezzo di terra da coltivare
e metteva poi a disposizione dell’intera collettività i prodotti ricavati dal suo lavoro. Ciò permetteva loro di guardare con speranza al futuro.
80
MC OTTOBRE 2015
Canudos divenne quindi un punto di riferimento importante per molti disperati.
Alla fine del 1800, Canudos poteva contare su un totale
di circa 30mila abitanti. Il movimento popolare che avevamo avviato ispirandoci al Vangelo, crebbe rigogliosamente. Eravamo ben organizzati, quasi una «comune»
religiosa. Canudos era diventata la seconda città della
Bahia, dopo Salvador. Le autorità politiche e anche religiose, però, cominciarono ben presto a preoccuparsi di
una presenza così scomoda e autonoma che di fatto non
riconosceva il governo centrale, non pagava le tasse, si
autogestiva collettivamente e aveva leggi proprie.
Erano gli anni in cui il Brasile si era appena staccato
definitivamente dalla monarchia portoghese per diventare una Repubblica a tutti gli effetti.
Il Brasile era diventato indipendente dal Portogallo nel
1822 e si era dato una monarchia costituzionale, ma l’imperatore Pietro II era della stessa famiglia del monarca
del Portogallo. Negli anni era cresciuto un forte movimento repubblicano che aveva contagiato anche l’esercito, il quale nel 1889 depose l’imperatore con un golpe
militare. C’era quindi, in quegli anni, un clima politico sociale caratterizzato da una cronica instabilità istituzionale, la nuova Repubblica cercava di rafforzarsi e Canudos era fuori dal sistema, anzi a qualcuno sembrava una
roccaforte di restaurazione monarchica.
Tu, Antonio, eri favorevole alla nuova Repubblica o
eri un nostalgico dell’impero?
Fuori dal mondo come eravamo là nel sertão, la questione non ci toccava molto. Non avevo certo molte simpatie per i repubblicani i quali avevano separato - per me
in un modo anticristiano - Chiesa e Stato, ma non ho mai
pensato di fomentare una restaurazione. Purtroppo è anche vero che la Repubblica non fece molto per farsi
amare dai poveri, anche se erano stati i repubblicani a far
abolire la schiavitù. Ma gli ex schiavi erano stati abbandonati a se stessi e uno dei primi atti della Repubblica era
stato un pesante aumento delle tasse sia sulla terra che
su tutti i prodotti. E, come al solito, chi ci rimetteva di più
erano i più poveri, non i ricchi.
Il tuo progetto poteva sembrare a molti la realizzazione di un sogno, ma le autorità brasiliane non
erano certamente disposte a lasciare una zona
franca nel bel mezzo del sertão.
Purtroppo era cosi! Accusandoci di essere ribelli e monarchici, tra il 1896 e il 1897 mandarono ben quattro
spedizioni militari contro di noi. La resistenza di Canudos
fu straordinaria. C’è da dire che, oltre al coraggio della
• Brasile | Canudos | Utopie | Libertà | Sertão • MC RUBRICHE
comunità, potevamo contare su uomini valorosi dall’invidiabile acume tattico e una profonda conoscenza della
natura aspra e impervia del sertão nel quale i soldati,
provenienti dalle città della costa, erano impreparati a
sopravvivere. Respingemmo facilmente le prime due
spedizioni e anche la terza, ma con perdite pesantissime.
Ma il vostro desiderio di vivere in pace e armonia, liberi da ogni legge eccetto quella di Dio, non poteva
durare…
Sì, e in più l’esercito repubblicano si era sentito umiliato
da straccioni come noi. Così l’ultima spedizione fu organizzata con molta cura dallo stesso ministro della guerra,
il maresciallo Carlos Machado Bittencourt. Furono messi
in campo circa 4.000 soldati con le armi più moderne del
tempo. L’attacco cominciò a settembre. La mia gente era
provata da fame e denutrizione, male armata, senza
scorta di munizioni e demoralizzata dalla mia morte avvenuta il 22 settembre
1897 a seguito di molti
giorni di penitenza,
preghiera e digiuno
per la pace. Dopo un
terrificante bombardamento durato diversi giorni che incendiò
le case e rase al suolo
Canudos, la maggioranza
dei superstiti si arrese il 5
ottobre, ma i soldati sterminarono ugualmente uomini, donne e bambini tra
terribili violenze. Di circa 30mila
persone della comunità, ufficialmente ci furono solo 150 superstiti.
Di essi le donne giovani furono vendute nei
bordelli di Bahia. Il mio corpo fu riesumato e la
mia testa tagliata e fatta esaminare dagli scienziati
per provare che ero stato un matto fanatico.
Messa poi nel Museo della Scuola di Medicina di
Salvador, un incendio, più pietoso degli uomini, la
consumò nel 1905.
L’unica relazione sulla «guerra di Canudos» ci è pervenuta tramite gli scritti di Euclides da Cunha, corrispondente del giornale O Estado de São Paulo, che era stato
inviato nel sertão brasiliano al seguito dell’esercito (embedded, si direbbe oggi). Con il passare del tempo i luoghi della battaglia di Canudos caddero nel dimenticatoio dell’imbarazzo collettivo e la caatinga ebbe il sopravvento.
Ma la memoria storica dell’esperienza di Antonio Conselheiro e della sua comunità non è mai scomparsa e si
è tramandata nei racconti della gente semplice e umile
del sertão fino a quando è stata recuperata tra le pieghe della storia e le è stata ridata la sua importanza,
grazie anche a libri e film (purtroppo non tradotti in italiano, ndr). Si può dire che lo spirito di Canudos scorre
ancora oggi come un fiume carsico
sotto la crosta dura e solida dell’arida terra del sertão, dove i
nordestini imparano fin
dalla nascita che devono
misurarsi con le
asprezze della natura
e con i cataclismi sociali che i potenti di
turno ciclicamente
rovesciano loro addosso. Questa gente
speciale ha bisogno di
esempi di libertà e figure eccezionali per continuare a sperare, Canudos e Antonio Conselheiro proprio per l’ansia di libertà che incarnano, indicano ancora oggi la strada da percorrere.
Don Mario Bandera,
Missio Novara
Persone che conosco
Personaggi e luoghi con gli occhi di Gianni Minà
IL PAPA DEL SUD
U
P
E IL RISVEGLIO DI UN CONTINENTE
no degli eventi più importanti negli equilibri internazionali di questi ultimi anni è stato certamente
il riavvicinamento fra gli Stati Uniti d’America e la
Rivoluzione cubana.
Un atto di coraggio del presidente nordamericano
Obama, possibile però solo ora che il primo presidente
nero degli Stati Uniti è arrivato all’ultima parte del suo secondo mandato alla guida del paese più poderoso del
mondo. Possibile soprattutto grazie alla mediazione di un
papa speciale (in visita proprio a Cuba e Stati Uniti dal 19
al 28 settembre), che non ha avuto dubbi sull’esigenza di
parlare seriamente di pace, e non rimanere prigioniero,
anche lui, delle troppe belle parole che circolano in un
mondo abituato ormai a non essere conseguente.
Quello che tuttavia non hanno voluto considerare i media
occidentali, specie quelli italiani, è che questo inatteso
cambio nella politica degli Stati Uniti riguardo all’isola
della Revolución è avvenuto perché tutta l’America Latina
sta con Cuba, perfino le nazioni come Colombia e Messico
dilaniate dalla violenza e da sempre molto vicine agli interessi del governo di Washington.
In America Latina, in questo momento, ci sono almeno
dieci paesi che hanno governi di centrosinistra o addirittura
di sinistra dichiarata, come la Bolivia indigena del presidente Evo Morales, quello che ha fatto dono a papa Francesco, nella sua visita di luglio a La Paz, di un crocefisso
guarnito di falce e martello, o l’Ecuador del presidente Rafael Correa, laureato in economia e con un master e un dottorato negli Stati Uniti e un altro master conseguito all’Università cattolica di Lovanio in Belgio. Queste sono prove inconfutabili del riscatto di un continente che solo vent’anni
fa aveva al potere feroci dittature militari e ora fa incetta di
conquiste democratiche (per esempio, nel campo dei diritti
nel lavoro e nella sanità) le quali, al contrario, incominciano
a essere negate a molti proprio nei paesi dell’Occidente.
Ancora un esempio: chi violenta la natura è punibile, nelle
nuove Costituzioni di Bolivia ed Ecuador, con le stesse pene
inflitte a chi offende un essere umano. Questa non è forse
modernità? Non è forse etica?
Questa rubrica
Giornalista, scrittore, documentarista, presentatore e autore televisivo, Gianni Minà è una firma e un volto amato e
conosciutissimo, non soltanto in Italia. Appassionato di calcio, musica e America Latina, nel corso della sua lunga e
prestigiosa carriera ha incontrato migliaia di persone e
personaggi. Proprio da questa circostanza è nata «Persone
che conosco», la rubrica che da oggi lui firmerà per noi.
Siamo consapevoli che non tutti concorderanno con le sue
opinioni e i suoi giudizi, ma confidiamo che il libero e civile
dibattito costituirà un arricchimento. A Gianni vada il mio
personale benvenuto assieme al ringraziamento del direttore e della redazione.
Paolo Moiola
82
MC OTTOBRE 2015
iaccia o non piaccia, tutto questo è stato ed è possibile anche per la resistenza, nel tempo, di un paese
come Cuba, o grazie al coraggio di un leader d’avanguardia come Hugo Chávez, il defunto presidente
del Venezuela che, proprio per la svolta impressa non solo
nel suo paese ma anche in buona parte delle altre terre di
Simón Bolívar (1783-1830), ha anticipato il cambio che ora
si vive nel continente.
Al cospetto di questa trasformazione l’informazione occidentale fa a gara a chi, pateticamente, è più capace di irridere le speranze e i tentativi di liberazione dell’America
Latina. Gli interessi degli ex padroni o di quelli che furono i
conquistadores non si discutono.
Nel frattempo, il Brasile, che dalla presidenza di Lula Da
Silva fino a Dilma Rousseff ha condiviso quella svolta politica, è diventato la settima potenza economica del mondo.
Un fatto che, come hanno dimostrato le intercettazioni
(ovviamente illegali) della Nsa statunitense (insieme alla
Cia, i servizi segreti Usa, ndr) ai danni della Petrobras brasiliana, disturba le strategie commerciali del governo di
Washington. Un paese, il Brasile, che un tempo era considerato solo «la terra del samba e del calcio», oggi, insieme
a Sudafrica, Russia, India e Cina (in pratica, metà dell’umanità), è parte dei Brics, il gruppo principale tra i cosiddetti
paesi emergenti.
Alla fine di settembre (dal 28 al 30) si sono riuniti a Quito,
in Ecuador, alcuni fra gli intellettuali e i pensatori più prestigiosi del continente latinoamericano. Una specie di proseguimento di quello che nel 2001 fu il Forum di Porto Alegre e che, insieme all’insurrezione zapatista in Messico,
venti anni fa (era il 1994), ha il merito, ormai riconosciuto,
di aver fatto risvegliare la coscienza di un continente per
tanto tempo schiacciato.
L’Encuentro latinoamericano progresista (Elap) è un appuntamento organizzato, per il secondo anno, dal Movimiento Alianza Pais (il partito che sostiene il governo ecudoriano) e voluto con forza dal presidente Correa, che
continua il discorso portato avanti per anni da Cuba e ribadito da Hugo Chávez.
Come si può capire, completamente assente era l’informazione italiana. Per questi media il mondo nasce e muore in
Occidente, pur essendo ormai chiaro che quello di oggi e
di domani è un mondo multipolare e che le istituzioni occidentali (come la Ue) politicamente ed eticamente spesso
non rappresentano più nessuno.
Forse non è un caso che questo vuoto di attenzione e di
conoscenza sia in questi ultimi anni coperto solo da papa
Francesco che, quando lo scorso luglio andò in visita in
Ecuador (oltre che in Bolivia e Paraguay), davanti a una
folla di un milione di persone, affermò: «I poveri sono il
debito più grande che ancora abbiamo con l’America Latina». Un credo, come l’avversione alle guerre, che, in
questo momento, è ribadito con sincerità solo da una
parte della Chiesa cattolica, quella più vicina al papa venuto dal Sud.
Gianni Minà
I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
MENSILE DEI
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OTTOBRE 2015 MC
83
Per un ottobre missionario con EMI
ANTONIO BARGIGGIA
«Ho scoperto
di saper amare»
Vita e martirio di un volontario tra gli ultimi d’Africa
Presentazione di
L
Con un intervento del
A cura di
Il nuovo libro del
Premio Nobel per la Pace
Il grido dei cristiani perseguitati
dall’ISIS in Medio Oriente
La toccante testimonianza di
un martire tra gli ultimi d’Africa
Il vescovo del Sahara in Italia.
Incontri con mons. Claude Rault
mm
rcorr
as
utta co e m crive a un gi rno
d m Chri ian de Ch gé:
“D o non hi de l imposs bile: ce o d na!
Domenica 4 ottobre, Castelfranco V.to (TV)
Casa dei Padri Bianchi
Giovedì 8 ottobre, Torino
Missionari della Consolata
Lunedì 5 ottobre, Modena
Centro Missionario Diocesano
Venerdì 9 ottobre, Riva del Garda (TN)
Casa dei Missionari Verbiti
Martedì 6 ottobre, Bologna
Parr. SS. Bartolomeo e Gaetano
Sabato 10 - Domenica 11 ottobre
Treviglio (BG) - Casa dei Padri Bianchi
Mercoledì 7 ottobre, Milano
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Martedì 13 ottobre, Roma
Pontificio Ist. di Studi Arabi e d’Islamistica
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Più forti del terrore €13,00 € 11,70
Ho scoperto di saper amare €9,00 € 8,10
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