Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO EDITORIALE Ai lettori di Gigi Anataloni DALLA PARTE DEI POVERI il tema che la Chiesa italiana propone per questo Ottobre missionario come risposta a papa Francesco il quale ha ricordato ai direttori delle Pontificie Opere Missionarie che «L’evangelizzazione, che deve raggiungere tutti, è chiamata a partire dagli ultimi, dai poveri, da quelli che hanno le spalle piagate sotto il peso e la fatica della vita. [...] La Chiesa è il popolo delle beatitudini, la casa dei poveri, degli afflitti, degli esclusi e dei perseguitati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia. A voi è chiesto di operare affinché le comunità ecclesiali sappiano accogliere con amore preferenziale i poveri, tenendo le porte della Chiesa aperte perché tutti vi possano entrare e trovare rifugio» (Ai direttori delle PP.OO.MM., 9 maggio 2014). Essere dalla parte dei poveri è nel Dna della Chiesa fin dalle sue origini, anche se spesso uomini di Chiesa hanno tradito questo ideale. È un impegno che nei secoli ha generato miriadi di attività e per il quale centinaia e centinaia di santi hanno dato la vita, non ultima la nostra beata Irene. Ma dove c’è «il grano» trovi sempre anche «la zizzania». Già san Giacomo se la prendeva con i cristiani che davano i primi posti ai ricchi impomatati e cacciavano in un angolo i poveri puzzolenti (Gc 2,1-4). E se fosse tra noi oggi, cosa direbbe a noi cristiani del «bel paese»? Nella nostra bella Italia ci sono due facce della stessa medaglia: da una parte una generosità incredibile ed eroica, dall’altra una durezza di cuore da vergognarsi. L’Italia che amo ha un cuore grande che batte in milioni di volontari, negli angeli del fango, in chi è impegnato in migliaia di onlus, in chi sostiene l’adozione a distanza, nei gruppi missionari, nei benefattori e amici di missionari e volontari, nei laici impegnati, in chi lotta per la pace e la giustizia e sfida la mafia e la camorra, in chi accoglie rifugiati, fuggitivi e migranti senza se e senza ma... L’altra faccia ha il volto dello sfruttamento della prostituzione dove mafia e camorra e cartelli di trafficanti di uomini prosperano al servizio dei gusti perversi di clienti insospettabili; delle industrie agroalimentari a caccia di tutto quello che costa meno anche sapendo di sfruttare migliaia di lavoratori schiavizzati da caporalati criminali e mafiosi; dei politici che cavalcano e alimentano le paure della gente con l’occhio ai sondaggi e poi non fanno il loro dovere al servizio del bene comune persi come sono nelle loro diatribe, ripicche, ricatti; dei giornalisti che provano un godimento morboso nello scrivere di «invasioni, masse, conquiste, furti, violenze, contagi e contaminazioni», dimenticando che paesi molto più poveri del nostro hanno accolto centinaia di migliaia di fuggitivi, rifugiati e migranti senza fare tutte le storie che facciamo noi che pure abbiamo tantissimi alloggi sfitti, interi paesi disabitati e abbandonati e un gran numero di posti lavoro nell’agricoltura, nei servizi e nell’artigianato rifiutati dai più; dei super cristiani che nella difesa della purezza della religione vogliono insegnare il mestiere al papa che si permette di mettere in discussione il loro perbenismo affumicato d’incenso ed esteriorità. È lettori di questa rivista senza pretese sanno bene che stare dalla parte dei poveri fa bene allo spirito e alla società, e non amano gli slogan, il vociare per sentirsi e farsi sentire. Essere amici dei missionari significa condividerne la scelta preferenziale per i poveri ovunque essi siano. E non solo con un aiuto economico, ma soprattutto con uno stile di vita che parte dal cuore. Solo qualche settimana fa, era il 30 agosto, il Vangelo ci ha ricordato che l’inquinamento delle persone viene dal di dentro. Gesù ha elencato 12 fattori di inquinamento, tra cui avidità, inganno, malvagità e superbia. L’avidità, che san Paolo definisce come idolatria, fa perdere il baricentro: non si pensa più secondo il progetto d’amore di Dio, ma si diventa schiavi del denaro, del potere, delle cose, del proprio piccolo mondo. Guai a chi lo tocca. La malvagità ha molte forme, una è particolarmente pericolosa: il godimento nel diffondere informazioni sbagliate e diffamanti sugli altri. La superbia o arroganza mette il «sé» al centro e rifiuta ogni confronto e dialogo. L’inganno, tra le sue molte facce, fa passare per vero quello che è spudoratamente falso. Bisogna reagire a questo inquinamento, che è come una polvere sottile che ci penetra e ci corrompe. La cura è quella indicata dal papa: rimanere accoglienti verso i poveri, i migranti, i rifugiati, i disperati, i senza lavoro, chiunque sia nel bisogno, senza distinguo. Stare dalla parte dei poveri ci aiuta a rimanere umani, a mantenere il cuore limpido, ad avere le mani libere per accogliere, abbracciare, accarezzare, consolare, aiutare e ricevere. Stare dalla parte dei poveri fa bene a noi, fa bene alla Chiesa, fa bene alla società. I OTTOBRE 2015 MC 3 SOMMARIO 10 | OTTOBRE 2015 | ANNO 117 3 ai lettoRi DALLA PARTE DEI POVERI Il numero è stato chiuso in redazione il 14 settembre 2015. La consegna alle poste di Torino è avvenuta prima del 30 settembre 2015. di Gigi Anataloni 5 dai lettoRi CARI MISSIONARI (lettere a MC) ARTICOLI OSSIER 10 10 nigeR CHIESA, DIALOGO CONTRO TERRORE di Marco Bello 17 mondo Consolata DUE ISTITUTI UNA MISSIONE 27 17 RoRaima: gli Yanomami e i 50 anni di CatRimani (1965-2015) l’inContRo (nohimayou) di Romina Remigio 59 tuRChia IL RITORNO DELL’IMPERO? di STEFANO CAMERLENGO, CORRADO DALMONEGO, GUGLIELMO DAMIOLI, LAURINDO LAZZARETTI, CARLO MIGLIETTA, PAOLO MOIOLA, DANIELE ROMEO, SILVIA ZACCARIA di Enrico Casale 63 CoRea del sud LA CONSOLATA SI È FATTA COREANA 63 di Diego Cazzolato RUBRICHE NOVITÀ 24 miseRiCoRdia Voglio 1. FRANCESCO, PAPA PROFETA 08 Chiesa nel mondo 65 di Sergio Frassetto 65 CoopeRando TTIP, SOGNO O INCUBO? di Chiara Giovetti 79 i peRdenti /7 ANTÔNIO CONSELHEIRO di Paolo Farinella 82 peRsone Che ConosCo IL PAPA DEL SUD E IL RISVEGLIO DI UN CONTINENTE di Gianni Minà di Mario Bandera 69 amiCo 24 amico a cura di Luca Lorusso IN COPERTINA: donna yanomami alla missione sul Rio Catrimani (foto di: Silvano Sabatini). STRUMENTO DI FORMAZIONE MISSIONARIA Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 4 MC OTTOBRE 2015 WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT DAI LETTORI Cari mission@ri VOLONTARIATO Carissimi, ho appena finito di leggere l’interessante, e in gran parte condivisibile, esperienza del volontario Alberto Zorloni (MC 89/2015 p. 51). Non ho let- to il libro, ma quanto scrive Marco Bello, per me, è più che sufficiente, chiaro e circostanziato sulla vita di Alberto. Sono un professore universitario di lingua araba, in pensione, appena rientrato dalla Guinea (grazie a Dio senza ebola!) completando così i miei primi 13 anni di volontariato. I primi 5 anni in Medio Oriente, precisamente la Palestina, dove ho potuto dare sfogo e sfoggio della lingua locale e ricevere i migliori apprezzamenti e incredulità di fronte alla mia ottima loquacità. Quindi sono approdato in Africa, passando in vari paesi: Egitto, Darfour, Sudan, Burundi, Sud Sudan, e ora, per la terza volta, in Guinea: canto ogni giorno «misericordias Domini in aeternum cantabo». Vi scrivo per complimentarmi dell’esperienza di Alberto e volevo non solo abbracciarlo ma, soprattutto, incoraggiarlo a continuare nel testimoniare quei valori di «ieri» che saranno la sua corona e il suo trofeo, non da parte di qualche Ong, ma dei bambini, delle persone, dei bisognosi che avrà incontrato. Dico spesso anch’io: «Gli occhi dei bambini africani mi giudicheranno». La mia attività è stata ed è nel campo educativoscolastico e ne vale veramente la pena: ciò che ho e ricevo è molto di più di quanto cerco di dare. Quindi, bravissimo Alberto e sempre alla grande: questa è una grande sfida e dobbiamo fare di tutto per lasciare questo bel mondo un po’ migliore di come l’abbiamo ricevuto. Un abbraccio, Gianni Foccoli 12/08/2015 un parcheggio multipiano, il tutto costruito con le offerte raccolte tra la gente delle parrocchie di Nairobi. La Chiesa permette ai suoi pastori di ripetere i grandi errori della sua storia? Almeno nel Medioevo era stata costruita la basilica di San Pietro con i soldi della povera gente... L’arcivescovo di Nairobi non vede più gli occhi degli street boys perché forse la sua automobile ha i vetri oscurati? Vorrei fargli arrivare il messaggio che sono sicura che sono altre le opere di cui necessitano i suoi fratelli e sorelle kenioti: mi vengono in mente promozione sociale e umana, tutela dell’infanzia, formazione ad un mestiere onesto, come ci hanno indicato i miei compaesani padre Allamano e don Bosco. Grazie e cordiali saluti, Caterina S. 22/07/2015 Gentile Caterina, conosco il progetto a cui lei si riferisce: riguarda un’area proprio nel centro di Nairobi, dietro alla cattedrale. Quando ho lasciato il Kenya a metà del 2009 non era ancora stato realizzato, ma era in discussione ormai da molti anni. Per questo posso precisare i seguenti punti. 1. Il progetto, chiamato «Cardinal Otunga plaza», è un edificio di nove piani con l’interrato. Sei piani COI SOLDI DEI POVERI? Caro padre Gigi, lei non può ricordarsi di me, ma io mi ricordo molto bene di lei perché l’ho incontrata durante il mio primo viaggio in Kenya nel 1991, quando lei era missionario a Maralal. Sono tornata laggiù altre volte negli anni per accompagnare mio marito che aiutava i missionari come falegname e fabbro. In particolare nel 1998 eravamo a Karaba, dal caro amico padre Alex Moreschi (19442011), quando abbiamo avuto l’onore di conoscere e pranzare con il vescovo John Njue (allora primo vescovo di Embu) in occasione di una grande festa della chiesa locale. Oggi però non lo considero più un onore, alla luce delle notizie da me apprese da fonti sicure: lussuosi palazzi a uso ufficio ed affitto per le banche, e il progetto di OTTOBRE 2015 MC 5 [email protected] [email protected] sono di uffici da affittare, mentre gli ultimi tre sono riservati per le attività della diocesi. È costato cinque milioni di euro ed è stato inaugurato il 23 agosto 2013. Ma tale costruzione non è frutto della fantasia del card. Njue. Quando lui è diventato arcivescovo di Nairobi, nel 2007, il progetto era già in stato molto avanzato, approvato dall’arcivescovo precedente, dal Consiglio economico e dal Consiglio presbiterale dell’arcidiocesi e dalle autorità civili competenti. 2. All’origine del progetto c’è il desiderio della Chiesa di Nairobi di rendersi indipendente dalle donazioni fatte dalle Chiese sorelle d’Europa e d’America, e dai sussidi di Propaganda Fide. Essendo chiaro che le offerte dei fedeli non sono sufficienti per le spese che una diocesi in continua crescita deve affrontare (seminario, sacerdoti, uffici, nuove parrocchie - ce ne vorrebbero subito almeno 40 nuove di zecca: terreno, chiesa e strutture parrocchiali) e che non si può contare in eterno sulle donazioni dall’estero (in diminuzione, anche per la crisi economica generalizzata), la Chiesa del Kenya ha lanciato una politica per «contare sulle proprie forze» (self-reliance) e «auto sostenersi» (self-supporting). 3. Per quanto il progetto sia discutibile, l’idea è valida, anche se il vecchio giardino dietro alla cattedrale era più romantico. Una volta pagati i debiti, sarà un investimento sicuro, pulito e duraturo, pur rimanendo sempre un fattore di rischio: l’uomo. Infatti quando ci sono di mezzo molti soldi, anche dei buoni cattolici possono essere tentati dalla corruzione. Forse per questo hanno dedicato la «plaza» (un nome che ben si associa con «affari») al card. Otunga (1923-2003) che era invece un uomo 6 MC OTTOBRE 2015 molto sobrio e staccato dai soldi, un santo. 4. Il card. John Njue rimane sempre lo stesso: guida personalmente la sua auto, che non ha i vetri oscurati, ed è sempre molto attento alle necessità dei suoi fedeli, sapendo bene che solo un milione degli abitanti di Nairobi è benestante o davvero ricco, mentre gli altri quattro (o più) milioni vivono sotto il livello di povertà. 5. Il parcheggio multipiano. Non ho informazioni in merito, ma tenendo conto del traffico ipercongestionato di Nairobi e della cronica mancanza di parcheggi nel centro storico della città dove si trova la cattedrale, ritengo che anche questo potrebbe essere un investimento intelligente. A mio parere la questione dovrebbe essere vista come un fatto positivo, perché segna un’inversione di tendenza: invece di continuare a elemosinare aiuti dalle Chiese sorelle, la Chiesa d’Africa sta cominciando a valorizzare le risorse locali per rispondere ai suoi crescenti bisogni. DIO CERCA L’UOMO Cari, anzi, carissimi missionari, prima di tutto grazie di seguitare a mandarmi la vostra rivista… ho ormai compiuto 90 anni, ma non ho mai finora trovato stampa che chiamasse pane al pane e vino al vino senza paure né timidezze, svelando le occulte (ma non tanto) violenze dei potentati. Però ogni qual volta finisco di leggere sono impaurita del potere demoniaco che sta stravolgendo la vita dei terrestri, sottomettendoli al predominio del potere e dell’avere. Certo, Cristo, e il suo popolo, cioè il corpo mistico, seguiteranno a essere perseguitati fino alla fine del mondo. E questo mi spaventa. Perché vi scrivo? Sì, sono forse presuntuosa e un po’ sfacciata. Ma voglio dirvi una cosa che mi pare assai importante. L’apertura agli altri - anche alle altre religioni - mi fu insegnata fin dai 18 anni. Mi fu insegnato che tutti gli onesti davanti a Dio, appartengono al Logos, sono il Suo corpo mistico - anche se non lo sanno. Ma mi fu pure insegnato, che non tutte le religioni sono pari, come sembra indicare un certo sincretismo religioso che si va diffondendo a macchia d’olio. Mi fu insegnata una verità senza la quale non so davvero se avrei potuto appartenere a una Chiesa che, allora, predicava più che altro un perbenismo molto borghese e ipocrita, chiusa nelle forme esteriori, senza vita spirituale. La verità è che il Cristianesimo non è una religione, (ma) è una rivelazione! Fin da quando Abramo parte da Ur, è Dio che lo muove, e attraverso i secoli parla per mezzo dei profeti al popolo «di dura cervice», sempre disposto all’idolatria, correggendolo e sostenendolo perché «i tempi sono maturi». Allora Dio si fa addirittura uomo. È forse questa verità che fa paura alla gente? Anche sfrondando tutte le sovrastrutture – liturgiche e filosofiche –, la base è questa. Non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che si rivela all’uomo. E se Gesù non fosse risorto, dimostrando di non essere un invasato, e se chi lo ha visto risorto (dichiarando di aver faticato a crederlo risorto) non avesse preferito morire che negare la verità, saremmo stolti a esser cristiani. Dio seguita a cercare l’uomo. Ma l’uomo è assente e sordo. E specie ora che l’uomo si sente molto «evoluto», fa fatica a credere al Risorto. Sbattiamo continuamente in faccia la verità incredibile. Scusatemi, ma mi vedo intorno tanta nebbia. Fate chiaro voi! A tutti! Pina Tiezzi Moscaldi Asciano (Si), 01/08/2015 PADRE TARCISIO Vi sono grato per aver ricordato il fante, il semplice, il piccolo grande Tarcisio (Crestani). L'ho incontrato nella missione di Mater Dei a Kimbondo, Kinshasa, dieci anni fa. Mi ha dato molte chiavi per conoscere la Rdc. L’avevo conosciuto a Torino nei primi anni Settanta e poi più nessuna sua notizia. Quando glielo dissi mi rispose: «Caro mio, sono stato dimenticato, da 30 anni nessuno mi ha mai cercato, non sono nessuno». E invece quanto conta essere semplice (la sua camera aveva solo l'essenziale) per essere in sintonia con le persone che incontri. Grazie Tarcisio Viaggi in rete? Scopri lo sfogliabile di MC. Maurizio M. 02/08/2015 Sfoglia la rivista online: www.rivistamissioniconsolata.it con un click giri le pagine, scarichi in pdf quel che ti interessa, ricerchi una parola, ingrandisci a piacimento... Cari mission@ri Scusate se mi permetto un piccolo ricordo. Padre Tarcisio lo conoscevo, o meglio l’ho conosciuto, quando avevo tre anni (34 anni fa). Allora gli ho regalato il fiocco rosa che era stato appeso alla porta della nostra casa perché era appena nata la mia sorellina. Mi avevano detto che stava partendo per l'Africa, così poteva portarlo a quei bambini là, che non ce l’avevano. Di lui mi ricordo un enorme barbone nero e crespo, così lungo che mentre mi spingeva con il triciclo mi faceva il solletico! Forse anche lui si ricorda di me, da lassù, e sorride insieme a zio Benedetto (Bellesi) di quel lontano episodio. salutatelo, poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse» (2Gv 1011). Non ho bisogno di aggiungere altro alle sante parole; soltanto la diffido dal mandare ancora al mio domicilio la sua rivista, né ricevere alcuna risposta. Lettera firmata 07/08/2015 Alice Bellesi 18/08/2015 SVENDITORE DI CRISTO Al signor (o padre) Gigi Anataloni, sostenitore dei negatori di Cristo (musulmani). Sono il marito di una vostra lettrice e ho letto con vivo rincrescimento e sgomento il suo editoriale su Missioni Consolata del luglio u.s. Rilevo che anche lei fa parte di quei cristiani che sono pronti a svendere Cristo e il cristianesimo purché si dica di loro che sono a posto e accoglienti, cioè buoni e considerati tali dalla maggioranza dominante cattocomunista e massonica. Vorrei portare alla sua attenzione le parole dell’apostolo Giovanni nelle sue lettere: «Chi è menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? (musulmani). L’Anticristo è colui che nega il Padre e il Cristo» (1Gv 2, 22). E ancora: «Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento (di Cristo) non ricevetelo in casa e non In quasi quarant’anni di servizio missionario nella stampa me ne sono sentite dire molte, ma mai di essere uno che svende Cristo. A «cattocomunista» mi ero abituato, ma questa mi mancava. Comunque non è niente in confronto a quanto si stanno sentendo dire i vescovi italiani, con mons. Galantino in testa, e soprattutto a quanto viene vomitato sul nostro amato papa Francesco. se con una democrazia al limite della dittatura, perché il governo ha in mano tutte le leve del potere e di tutti gli organismi di contrappeso. Il che permette a Maduro di dire che il sig. Lopez, che è in carcere in attesa di giudizio, è un assassino e va condannato. Questo è qualcosa di impensabile in qualsiasi paese democratico. La situazione economica è disastrosa perché gli ammanicati al potere hanno fatto sparire negli ultimi 15 anni qualcosa come 250 miliardi di dollari (è un dato ormai accettato da tutti). Il regime attuale in Venezuela assomiglia molto al fascismo. Il sig. Moiola dovrebbe riportare non solo interviste di compiacenti al governo, ma anche i dati economici del paese. Mi dispiace che una rivista del calibro di Missioni Consolata cada nel racconto della verità. Distinti Saluti Alvise Moschen 04/08/2015 VENEZUELA PRO E CONTRO Egregio Direttore, ho letto con attenzione gli articoli dedicati al Venezuela nel numero di agostosettembre. Sono stupefatto della superficialità con cui si descrive la Venezuela di oggi, e delle affermazioni dei due personaggi intervistati. Ma questo è il tipico modo di operare del sig. Moiola: non dare mai numeri o cifre a supporto di una tesi. La Venezuela di oggi, e la conosco bene, è un pae- Salve! Conosco e apprezzo il lavoro dei missionari e delle missionarie della Consolata in vari paesi. Ora ho avuto modo di apprezzare anche il lavoro della rivista (che comincerò a seguire); grazie ai servizi di Paolo Moiola sul Venezuela. Danno voce a persone che in Venezuela vivono, e che presentano un quadro ben diverso da quello offerto dalla dittatura mediatica internazionale e italiana, la stessa che aiuta guerre devastanti (in Medioriente e Africa) con la disinformazione. Cordiali saluti Marinella Correggia Torri in Sabina (Ri), 18/08/2015 Due opinioni opposte sullo stesso articolo, riflesso della difficoltà che si incontra a voler conoscere la verità e scrivere su situazioni complesse e polarizzate come quella del Venezuela e di altri paesi. È un dato di fatto che gran parte dell’informazione che arriva sui nostri quotidiani o sui nostri notiziari televisivi è controllata da poche agenzie fortemente interconnesse con gli interessi europei e nordamericani. Pochi giornali o televisioni possono permettersi oggi di avere propri corrispondenti in loco. Noi non abbiamo la pretesa di fare concorrenza ai grandi network, non è il nostro scopo. Ma siamo liberi da influenze politiche o economiche, e abbiamo un vantaggio: la libertà di contattare testimoni sul posto, possibilmente testimoni fuori dal coro, che non cantino lo stesso spartito di tutti gli altri. Al lettore la valutazione e il confronto. Circa il nostro giornalista, non è vero che sia tipico suo «non dare mai numeri o cifre a supporto di una tesi». Paolo è un professionista serio e preciso e basta una rapida scorsa ai suoi articoli pieni di box, cartine e tabelle per avere la conferma della sua accuratezza, a volte persino pignola. La stessa professionalità l’ha posta nello scrivere l’articolo che il sig. Moschen critica, anche se forse, in questo caso, s’intuisce simpatia e una severità meno accentuata del solito nel porre domande alle sue fonti. OTTOBRE 2015 MC 7 La Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto CUBA UN LOGO PER IL PAPA proposto dal governo cubaper la visita di Papa FranceIsco,lnositoeffettuata dal 19 al 22 settembre scorsi, presentava come logo una grafica centrata sul messaggio di fratellanza e amore frutto della misericordia divina. Un cuore rosso, una mano gialla che regge una croce blu, i simboli della visita apostolica di Papa Francesco a Cuba offrivano un messaggio molto chiaro di questo evento, insieme alla foto del Papa. «L’identità visuale parte dal concetto e dall’immagine religiosa di Gesù Divina Misericordia, che è parte del programma liturgico e del messaggio che Papa Francesco porterà a Cuba», così l’introduzione al nuovo sito web, fatto dal governo cubano, in vista della visita del Pontefice. Gli elementi simbolici della mano, del cuore e della croce, insieme ai colori, identificano la misericordia e l’amore. «Il gesto della mano è associato al saluto e a gesti rituali propri della religione cattolica. Trasmettono anche umanesimo e fratellanza. La croce identifica il carattere religioso. Sono presenti i colori della nostra bandiera insieme alla stella solitaria che indica il carattere nazionale». (Fides) CINA INDOSSA LA CROCE na campagna «ecumenica» per costruire in casa e portare U ovunque la croce, simbolo del cristianesimo, unisce in questi giorni i cattolici e i protestanti della provincia orientale del Zhejiang. L’area è da tempo al centro di una politica di demolizione di chiese e croci, ordinata dalle autorità locali per presunti «abusi ai regolamenti edilizi». In realtà, lo scopo è quello di recuperare terreni in vista di un futuro ricco sviluppo edilizio. Di qui la protesta coraggiosa del clero di Wenzhou che in una lettera aperta esorta: «Basta rimanere in silenzio! Gridiamo per salvare le nostre croci!». Tutti coloro «che hanno a cuore la giustizia» sono invitati a intervenire in maniera pacifica e secondo la legge per fermare la campagna di demolizioni in corso nel Zhejiang. I funzionari che la portano avanti, continua la lettera, «agiscono per vendetta» e «devono essere portati davanti alla giustizia». I sa- cerdoti si dicono «pronti a tutto, anche alla morte, per fare ciò che è giusto». E assicurano: dove viene demolita una croce «là ne sorgeranno a milioni». A questa protesta si unisce ora l’impegno di costruirsi la croce in casa. Una campagna online, condivisa da cattolici e protestanti, invita i fedeli a costruirsi in casa la propria croce e a indossarla ovunque. Una risposta pacifica e non violenta alla campagna delle autorità contro il simbolo religioso. (AsiaNews) INDIA PELLEGRINAGGIO l 15 agosto scorso è partito da Varanasi il Tyagarchana Shanti IYatra (Tsy), un pellegrinaggio di pace che durerà 100 giorni e toccherà 125 città dello stato dell’Uttar Pradesh, il più grande e popoloso dell’India. Lo scopo è quello di promuovere la cooperazione interreligiosa e l’armonia tra le sue varie comunità religiose. È stato scelto l’Uttar Pradesh come luogo di pellegrinaggio perché qui si sono verificati più casi di violenza di matrice religiosa nel 2013: oltre 250, soprattutto tra indù e musulmani. Padre Anand, coordinatore dell’iniziativa, ha spiegato che per dare risalto ai valori di pace, armonia, amore, perdono e amicizia, atti a promuovere l’unione nella diversità della composita cultura dell’India, durante il pellegrinaggio si terranno manifestazioni, seminari, programmi culturali e veglie di preghiera in scuole, istituti educativi e nelle piazze pubbliche di villaggi e città. (AsiaNews) # Cuba - il logo preparato dal governo per la visita del Papa. 8 MC OTTOBRE 2015 La Chiesa nel mondo INDONESIA LA PIU’ ALTA DEL MONDO lmeno 30 mila persone, provenienti da centinaia di parrocA chie, si sono radunate domenica 16 agosto a Gua Maria (La grotta di Maria) di Ambarawa per la benedizione della statua dedicata alla Madonna più alta al mondo. I fedeli hanno così festeggiato il 61° anniversario del santuario mariano, il secondo per importanza dello Java centrale. Sette vescovi hanno presieduto la messa, insieme a 15 sacerdoti dell’arcidiocesi di Samarang. Conclusa la funzione, l’arcivescovo Johannes Pujasumarta, utilizzando una gru, ha cosparso di acqua benedetta la statua di Santa Maria Assunta, alta 42 metri. Tre scultori religiosi locali - Kuncoro (45), Adi Nugroho (40) e Agung Hartanto (38) - hanno progettato il monumento, che sorge nei pressi del santuario. Il trio è molto famoso per avere ideato decine di statue a tema religioso in tutto il paese. Una settimana prima della celebrazione, il santuario ha ospitato un convegno interreligioso a cui hanno preso parte anche alcuni leader musulmani insieme ai loro studenti, che hanno compiuto una danza sufi all’ombra della statua dell’Assunta. (AsiaNews) promuovere un anno della riconciliazione a livello continentale per chiedere a Dio un perdono speciale per tutti i mali e le ferite che gli esseri umani si sono inflitti gli uni gli altri in Africa, e affinché si riconcilino le persone e i gruppi che sono stati offesi nella Chiesa e nell’insieme della società». (Radio Vaticana) AFRICA l Card. Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, ha riferito che Idurante un suo recente incontro RICONCILIAZIONE n occasione del suo 46° anniversario di fondazione, il Simposio Idelle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) ha indetto uno speciale Anno Africano per la Riconciliazione. Dedicato al tema «Un’Africa riconciliata per una pacifica coesistenza», l’anno è stato lanciato il 29 luglio con una solenne celebrazione eucaristica ad Accra, in Ghana, e si concluderà il 29 luglio 2016, durante la 17ª Assemblea plenaria dell’associazione in Angola. L’iniziativa risponde all’invito rivolto nel 2011 da Benedetto XVI agli episcopati africani nell’Esortazione apostolica post-sinodale Africae Munus «a FILIPPINE IL FUTURO DELLA CHIESA con il Papa ha chiesto al Pontefice di non essere eletto a capo della Caritas Internationalis e della Federazione Biblica Cattolica, ma il Pontefice ha rifiutato dicendo di volervi un asiatico, perché «Il futuro della Chiesa è in Asia». «Non è una questione d’onore - ha detto il Cardinale -, ma sicuramente è un tema di grande responsabilità, una grande missione». La Chiesa in Asia, ha aggiunto, «prende sul serio la nostra missione ed è in cerca di metodi che ci permettano di dare un contributo alla Chiesa mondiale, in termini di riflessione, ricerca e prassi». (News cattoliche) COSTA D’AVORIO: DIALOGO INTERRELIGIOSO l Nord della Costa d’Avorio, soprattutto a Dianra, il dialogo interreligioso è una necessità e una sfida nello stesso tempo che ispira un cammino fatto di piccoli passi. Viviamo in un ambiente caratterizzato da una forte presenza musulmana. Di fronte a questa realtà possiamo chiuderci nella nostra piccola cerchia di cristiani, oppure possiamo aprirci al contatto con gli altri e cercare vie d’amicizia e collaborazione a progetti in comune. Abbiamo scelto l’amicizia e «il dialogo delle opere»: un lungo cammino che conduce a quello che il Vangelo chiama il Regno di Dio. Il nostro dialogo interreligioso con l’ambiente musulmano si concretizza in una relazione di amicizia, visite reciproche in occasione delle grandi feste islamiche o cristiane e partecipazione ai nostri progetti di promozione umana e sociale, ecc. Una buona parte delle persone che beneficiano dei nostri progetti di salute, alfabetizzazione o microcredito sono musulmane. Il medico responsabile del nostro centro di salute «Giuseppe Allamano» è un musulmano che ci edifica per la sua competenza, onestà e religiosità e la stessa cosa possiamo dire di molte altre persone con le quali viviamo e lavoriamo. La situazione attuale del mondo, a cominciare dai paesi vicini alla Costa d’Avorio, ci invita a proseguire su questo cammino. Il fondamentalismo, il terrore e l’intolleranza sono molto vicini a noi e più che una sfida costituiscono una minaccia. Facciamo nostro il pressante appello di Papa Francesco ai diversi gruppi di vescovi dell’Africa dell’Ovest di approfittare di ogni occasione per creare dialogo e amicizia. Imc A # Costa d’Avorio - i padri della missione di Dianra: Boniface Sambu-Sambu, Manolo Grau e Matteo Pettinari. OTTOBRE 2015 MC 9 NiGer © Marco Bello di MARCO BELLO LaureNt Lompo, iL primo vesCovo NiGeriNo deLLa storia CHIESA, DIALOGO CONTRO TERRORE N Giovanissimo, ma già sperimentato. La sua parola d’ordine è «dialogo interreligioso», non raccontato, ma applicato. È la nuova guida della piccola comunità dei cattolici nella diocesi di Niamey. Con approccio «missionario». 10 MC OTTOBRE 2015 iamey. Monsignor Laurent Djalwana Lompo è il nuovo arcivescovo dell’arcidiocesi di Niamey. È il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina ed è stato intronizzato dal cardinale Philippe Ouedraogo (del Burkina Faso) il 14 giugno scorso. Originario di Makalondi, 100 Km a Ovest della capitale, è nato nel 1967. Dopo la scuola primaria nella città natale, il collegio a Say e il liceo a Niamey, ha passato dieci anni di seminario in Burkina. È stato ordinato prete nel 1997, e in seguito ha lavorato un anno alla parroc- chia St. Gabriel a Niamey. È stato poi responsabile al foyer Samuel, dove ci si occupa dei giovani che vengono per maturare la loro vocazione. Dopo una fase di studi in Francia è rientrato nel 2003, e monsignor Michel Cartateguy, arcivescovo di Niamey, lo ha nominato vicario generale. Ruolo che ha ricoperto per dieci anni. Nel 2013 papa Benedetto ha nominato mons. Lompo vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Niamey e dall’11 ottobre 2014, è stato chiamato a sostituire mons. Michel. In Niger, paese a maggioranza • Vescovo | Missione | Dialogo | Terrorismo • MC ARTICOLI Che sentimento prova, in quanto nigerino, a ricoprire questo ruolo importante per la Chiesa cattolica, in un paese in cui i cattolici sono una minoranza? «In un paese in cui il 98% della gente è musulmana, per me è una gioia, un onore, sapere che la comunità cristiana ha fatto il suo cammino, è arrivata a maturità. È anche un dovere, quello di mettere le basi per consolidare il dialogo interreligioso in questo paese. Gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio scorso (manifestazioni anti cristiane, vedi box, ndr) ci danno ancora l’occasione concreta per affermare che il dialogo interreligioso è di una importanza capitale. E non deve restare solo a livello della gerarchia, ovvero dei responsabili e leader religiosi, ma deve partire dalla base e andare fino in cima. Perché gli eventi che si sono prodotti hanno mostrato che la gioventù è molto coinvolta. Quindi vogliamo fare in modo che il dialogo sia vero e sincero. Siamo in un paese laico, le autorità politiche devono tenere conto del rispetto delle minoranze. I cristiani hanno il loro posto. Preghiamo affinché questo impegno possa essere concreto, e noi cristiani possiamo intenderci con i musulmani e continuare la missione in Niger». Nella pratica, quale programma avete con i capi religiosi musulmani? «Siamo rimasti molto stupiti delle manifestazioni di gennaio. Viste le relazioni che abbiamo, non avremmo mai immaginato che in Niger si sarebbero potuti produrre degli eventi simili. Noi stiamo continuando quanto faceva mons. Michel Cartateguy: il dialogo interreligioso, a tutti i livelli. Il programma sul quale abbiamo riflettuto si chiama “Vivere insieme”, e tiene conto della formazione della gioventù di oggi. Una gioventù sbandata, che ha bisogno di contatto tra cristiani e musulmani. Contiamo di mettere in opera un programma, con il supporto di partner interni ed esterni, affinché possiamo formare i giovani alla tolleranza, al rispetto mutuo, alla conoscenza dell’altro. Perché quando conosci qualcuno lo rispetti. Questo rispetto, pensiamo si possa avere se ciascuno è radicato nella sua fede: i cristiani nella propria fede e così i musulmani. Insieme possiamo coltivare la pace di cui il Niger ha bisogno oggi». ordine e grado di scuola. Lo stesso accade nelle attività come la Caritas, in cui lavoriamo con i musulmani. Anche a livello dei nostri dispensari cerchiamo la collaborazione con gli altri. Abbiamo una Commissione nazionale di dialogo interreligioso che raggruppa musulmani e cattolici a livello di diocesi di Maradi e di Niamey, insieme costituiscono la commissione interdiocesana, di cui monsignor Ambroise Ouedraogo è coordinatore. Alla mia intronizzazione c’è stato un gran numero di musulmani presenti. Penso che la Commissione permetta di avvicinarci ulteriormente e di togliere le paure e le incomprensioni dovute agli eventi del 16 e 17 gennaio scorso. In quei giorni, in seguito alle caricature del profeta Maometto uscite su Charlie Hebdo, c’è stata una reazione a livello internazionale, che in altri paesi si è potuta contenere, ma in Niger purtroppo no. C’era un certo numero di giovani infiltrati, e la gioventù sbandata è una porta aperta agli attacchi, ai saccheggi e alla profanazione che abbiamo vissuto nelle nostre diverse chiese. Ci siamo visti con le spalle al muro. Hanno bruciato tutto. Non accusiamo la comunità musulmana, ma c’è stata una intromissione dall’esterno. La tattica secondo noi è quella di Boko Continua a pagina 14 © Marco Bello musulmana, i cristiani sono un’esigua minoranza: si parla di alcune decine di migliaia di persone su 17 milioni. Le diocesi sono due, quella metropolitana di Niamey e quella di Maradi, il cui pastore è monsignor Ambroise Ouedraogo (cfr. MC settembre 2007). Il 29 giugno scorso mons. Lompo era a Roma per concelebrare la messa con papa Francesco, durante la festa dei santi Pietro e Paolo. In quell’occasione il santo padre ha benedetto il palio per i 46 arcivescovi metropoliti nominati nell’anno. L’insegna ecclesiastica di lana bianca «è simbolo del pastore che sente l’odore del gregge e ne porta il peso, facendo l’unità della Chiesa», ci racconta monsignor Lompo, che incontriamo nel suo ufficio, a ridosso della sobria cattedrale di Niamey, in pieno centro città. «Voglio continuare la missione di mons. Michel, che ha molto operato per questa diocesi, e ha vissuto il suo motto “Che lui diventi più grande e che io diminuisca”, spingendo il clero diocesano a prendere le sue responsabilità. Penso sia in questa linea che papa Francesco mi ha nominato arcivescovo». Vi coordinate con i leader musulmani? «Lavoriamo con tutti gli strati sociali. Abbiamo diverse scuole cattoliche, nelle quali la maggioranza degli studenti sono musulmani. La formazione mette l’accento sul vivere insieme, e questo per ogni # A sinistra: un uomo con un cappello tipico, sulle strade sabbiose di un villaggio del Niger. # Di fianco: l’arcivescovo di Niamey, mons. Laurent D. Lompo, davanti al suo ufficio. OTTOBRE 2015 MC 11 NIGER A pochi mesi dalle elezioni, il Niger deve fare i conti con Boko Haram Stretto tra due fuochi Un paese tra i più poveri al mondo si vede costretto a combattere una guerra. E a vegliare sulla propria sicurezza interna. Un governo che in oltre quattro anni è riuscito a realizzare infrastrutture e promuovere l’agricoltura. Una società che tende a islamizzarsi sempre di più a causa di infiltrazioni e influenze esterne. N aese saheliano con territorio in gran parte desertico, tra i più poveri del mondo, il Niger è ormai da alcuni anni stretto in una morsa di guerra. A Nord imperversano i jihadisti di Aqmi (Al Qaida nel Maghreb islamico, cfr. MC luglio 2012) e vari altri gruppi, attivi in Mali, contro i quali è in corso una guerra che ormai dura da marzo 2012, con l’intervento della Francia nel gennaio 2013 (operazione Barckhane) e della successiva Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite (Minusma). A Sud Est, nella confinante Nigeria, opera da metà anni ‘90 la setta, gruppo integralista Boko Haram (cfr. MC luglio 2012). Questa ha di fatto cambiato il livello del conflitto, quando nel febbraio scorso, ha attaccato la città nigerina di Diffa e cominciato incursioni in diversi villaggi lungo il confine. Oltre al Niger e alla Nigeria sono coinvolti nella guerra Ciad e Camerun, tant’è che militari nigerini e ciadiani controllano alcune città in Nigeria, nello stato del Borno (Nord Est), dopo averle sottratte a Boko Haram. È del luglio scorso la creazione di una nuova coalizione militare per combattere i terroristi: la Forza d’intervento multinazionale, della quale fa parte, oltre ai quattro paesi citati, anche il Benin, confinante con la Nigeria a Ovest. P l Niger, è da sempre patria di un islam tollerante, ma qualcosa sta cambiando. Il paese ha vissuto alcuni avvenimenti mai visti il 16 e 17 gennaio scorso. In seguito all’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo I 12 MC OTTOBRE 2015 a Parigi e alla reazione del mondo contro l’accaduto, a Zinder e Niamey si sono verificate due violente manifestazioni, rapidamente degenerate, contro la minoranza cattolica. Chiese e case parrocchiali sono state attaccate e incendiate, così come scuole cattoliche. Le forze dell’ordine sono riuscite a intervenire troppo tardi. Monsignor Ambroise Ouedraogo, vescovo di Maradi, diocesi di cui fa parte anche Zinder, ci racconta: «Qualche giorno prima degli eventi, padre Léo (missionario d’Africa, originario della Rdc, da anni nel paese, ndr) aveva mandato una lettera al prefetto per chiedere protezione. Erano state mandate due camionette di gendarmi. Ma quando c’è stato l’attacco nessuno ha fermato gli assalitori. Solo la Guardia nazionale, in seguito, è intervenuta per fermare i manifestanti quando questi hanno tentato di attaccare l’altra scuola cattolica. A Niamey sono state bruciate sei chiese su otto, di cui una inaugurata pochi mesi prima. I preti e le suore hanno abbandonato Zinder per paura. Andiamo a celebrare la messa ogni due settimane da Maradi (230 km). Ma la chiesa è stata completamente bruciata, come la scuola e i locali parrocchiali. La celebrazione si effettua sotto una tettoia». econdo un professore dell’Università di Niamey, che ha chiesto di mantenere l’anonimato: «I partiti politici di opposizione hanno usato il pretesto di Charlie Hebdo per tentare di destabilizzare il paese e i cristiani sono stati le vittime innocenti della manovra. Diversi esponenti di questi partiti sono stati ricono- S © Af Diocesi di Maradi iamey. È un torrido pomeriggio di fine giugno, le piogge stagionali sono in ritardo, e dall’aeroporto internazionale di Niamey, Diori Hamani, vediamo uno strano velivolo decollare e dileguarsi rapidamente. È un drone militare, verosimilmente Usa (non ne esistono altri nella regione). È pilotato da qualcuno dietro a dei monitor, molto lontano dal caldo e dalla sabbia del Niger. Si alza in missione verso Est, per ricognizione o per sparare contro gli uomini di Boko Haram, con i quali è ormai guerra aperta dal febbraio scorso. Qualche settimana fa, sulla pista del piccolo aeroporto di Zinder, seconda città del paese, a 900 km a Est della capitale, due caccia bombardieri Sukhoi, di fabbricazione russa e con insegne nigerine, erano parcheggiati in attesa di decollo. Sempre all’aeroporto di Zinder, il 24 giugno, una quindicina di militari francesi, facevano una rapida sosta, per ripartire con il loro turboelica alla volta di Diffa, città a 460 km più ad Est, zona di guerra. MC ARTICOLI # In basso: le auto della missione cattolica di Zinder, date alle fiamme il 16 gennaio scorso. # A fianco: un caccia bombardiere Sukhoi russo, ma con insegne nigerine, pronto all’aeroporto di Zinder, giugno 2015. È utilizzato per bombardare le milizie di Boko Haram nella regione di Diffa. © Habib Dogo sciuti durante le violenze e poi arrestati. Gli studenti del campus di Niamey hanno testimoniato che elementi dei partiti di opposizione sono andati dalle associazioni studentesche per convincerle a partecipare massivamente alle manifestazioni, ma queste si sono rifiutate». Un’analisi, questa, condivisa anche in ambito ecclesiale. Sta di fatto che membri di Boko Haram erano infiltrati tra i manifestanti e i metodi usati sono stati quelli della setta nigeriana. «È certo - ci dice ancora mons. Ouedraogo - che membri di Boko Haram sono in mezzo a noi». l governo di Issoufou Mahamadou è giunto ormai al suo quinto anno e, a inizio 2016, si terranno le elezioni. Mahamadou, del partito Pnds (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo), oppositore storico dei regimi succedutisi a partire dagli anni ’90, è arrivato finalmente al potere grazie alle elezioni del gennaio 2011, che misero fine a 13 mesi di governo di transizione della giunta militare (cfr. MC giugno-luglio 2011). È stato come se i nigerini avessero chiesto una svolta, affidando la guida del paese a chi non l’aveva mai avuta. L’anno prossimo Mahamadou potrebbe vedere confermata questa fiducia, oppure potrebbero tornare alcuni falchi del passato, come il potente ex primo ministro Hama Amadou. Per questo, la campagna elettorale è, di fatto, già cominciata e il tema «sicurezza contro il terrorismo» è cruciale. Il governo ha ingaggiato una guerra a trecentosessanta gradi contro il terrorismo islamico, sul fronte Sud Est e su quello Nord, intervenendo con il pugno di ferro. Dopo gli attentati a Bamako (capitale del Mali, a marzo) e a Ndjamena (capitale del Ciad, giugno e luglio), i servizi segreti - molto efficienti in Niger - mantengono l’allerta alta. La nostra fonte universitaria: «Si tratta di una guerra “asimmetrica”, un esercito contro singoli attentatori incontrollabili che si mischiano alla popolazione. Il governo ha sensibilizzato la popolazione dicendo che se si osserva qualcuno di sospetto si deve subito avvisare il capo quartiere. Adesso la gente è più tranquilla, non c’è la fobia che si è avuta subito dopo gli eventi di gennaio. Penso che il governo sia stato bravo ad assicurare la sicurezza, in un paese povero, senza mezzi, stretto tra Libia, Mali e Nigeria». I a nell’Est, vicino alla frontiera con lo stato nigeriano di Borno, gruppi di Boko Haram attaccano direttamente i villaggi. È della notte tra il 17 e 18 giugno uno dei peggiori massacri, compiuto nei villaggi M Lamana, Boulamare e Goumao, a circa 50 km da Diffa. Trentotto civili uccisi, di cui 10 bambini, tre feriti, un centinaio di case bruciate, così come i granai e alcune auto. Un attacco peggiore era avvenuto solo sull’isola Karamga nel lago Ciad, ad aprile, con 74 morti tra civili e militari. Gli attacchi sulle isole hanno anche creato oltre 30.000 sfollati interni, sempre all’estremo Est del paese. Ci confida una personalità vicina al primo ministro: «Molti membri di Boko Haram che agiscono sulla frontiera sono ormai nigerini, non nigeriani. Molti nostri giovani hanno ingrossato le fila dei miliziani. Li conosciamo e la gente del posto sa chi sono». ntanto si osservano evidenti cambiamenti nella società nigerina. Secondo monsignor Ouedraogo «assistiamo a una certa radicalizzazione islamica, che avviene poco a poco. Ad esempio nel 2001 erano ancora molte le donne che non portavano il velo. Oggi sono tutte velate». Secondo il professore universitario «si assiste a una “islamizzazione” piuttosto che a una radicalizzazione. La gente è più islamizzata a causa della povertà crescente. Non è tanto dovuto al fatto che abbiano paura dei gruppi radicali. Quella è stata palpabile dopo gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio e l’entrata di Boko Haram in Niger a febbraio». E mentre il governo impone regole più stringenti sulle prediche nelle moschee, in particolare quelle, sempre più diffuse, realizzate da imam mediorientali, la chiesa cattolica incontra i leader islamici grazie alla Commissione per il dialogo interreligioso, che ha lo scopo di sensibilizzare e promuovere dialogo e tolleranza. Marco Bello I OTTOBRE 2015 MC 13 NIger © Af Diocesi di Maradi © Af Diocesi di Maradi Haram. Il modo con cui hanno attaccato le chiese era pianificato, si erano organizzati per bruciare. Stiamo lottando contro questo nemico comune, che sia cristiano come musulmano. Boko Haram è un nemico di tutti». In Niger l’islam è stato sempre molto tollerante. Queste infiltrazioni riescono a influenzare e radicalizzare i musulmani comuni? «Oggi non possiamo non parlare di radicalizzazione, quando vediamo il comportamento esteriore, l’abbigliamento, le reazioni, penso che l’islam si stia radicalizzando poco a poco in un paese in cui è stato sempre tollerante. L’influenza esterna ha un peso, e noi nel dialogo interreligioso lo di- ciamo. Non credevamo che sarebbe potuto succedere, ma il fatto che ci sia questa radicalizzazione può avere un effetto negativo. Durante gli assalti a Zinder c’erano delle persone con la bandiera di Boko Haram, che gridavano parole d’ordine tipiche del gruppo. Queste cose hanno buon gioco con la grande massa. Al momento non abbiamo preoccupazione perché non crediamo che possano capitare ancora questi fatti. Quando incontriamo i musulmani, le associazioni, i leader politici, tutti condannano quello che è successo. E penso che delle disposizioni siano state prese. Per questo diciamo, rispetto a quello che è successo: occorre che lo freniamo con il dialogo, il mutuo ri- © Af Diocesi di Maradi spetto e il rispetto delle minoranze. Se continuiamo a operare, cristiani e musulmani insieme, in questa direzione possiamo fermare questo fenomeno». Collaborate con altre chiese sorelle in altre parti del mondo? «In Niger ci sono cattolici ed evangelici. Collaboriamo e vogliamo impostare l’ecumenismo, affinché tra cristiani ci possiamo conoscere ancora meglio e lavorare insieme di più. A livello regionale facciamo parte della Conferenza episcopale Burkina Faso - Niger e lavoriamo con le chiese sorelle del Burkina e del Benin. All’intronizzazione c’erano cinque vescovi del Benin. Collaboriamo anche con l’Europa, ad esempio con le diocesi italiane di Lodi, Belluno, Milano e Genova, delle quali abbiamo dei missionari qui con noi. Recentemente ho fatto un viaggio nell’ambito di questa collaborazione per rinforzare la cooperazione missionaria e allo stesso tempo presentare i progetti di ricostruzione per le nostre chiese. Ho avuto un’accoglienza calorosa e sono tornato con un’immagine molto bella della chiesa italiana». Ci sono anche dei missionari di ordini religiosi? «Sì, ci sono i padri Bianchi, i Redentoristi, la Società delle missioni africane oltre ai sacerdoti fidei donum, sia dell’Italia che della MC ARTICOLI Francia. Inoltre abbiamo molte altre congregazioni religiose che vengono dal Benin, Togo, Burkina Faso, ma anche da Canada e Francia. La maggior parte delle congregazioni lavorano nelle scuole e nei dispensari. È una fetta importante della cooperazione missionaria». In Niger molti cattolici sono di origine straniera. Avete una pastorale per la diffusione del cattolicesimo? «È vero, molti cattolici vengono da altri paesi, ma molti cristiani nelle parrocchie di campagna sono autoctoni. Prendo il caso di Dogon Doutchi, in zona haussa (prima etnia per numero, presente anche in Nigeria, ndr) oppure la zona sonrai: entrambe hanno molti cristiani. Un centro importante è Makalondi, che rag- gruppa le parrocchie di Makalondi, Bomanga, Torodi e Kankani. Non posso dire che si tratta del polmone dei cristiani nigerini, ma in quella zona sono tutti nazionali. Quest’anno su 400 battesimi, oltre 150 sono stati di persone originari di quella regione. Lì la gente ha sete di fede, le chiese sono piene e quando sono stato in visita pastorale, mi hanno detto: “Siamo in soprannumero, non è che potete trovare i mezzi per costruire altre chiese?”. Conteremo sulla partecipazione locale per poter costruire luoghi di culto in queste regioni, dove il cristianesmo avanza rapidamente in numero e qualità. Penso anche, in questa prospettiva, alla promozione delle vocazioni, perché il clero diocesano è una necessità. Abbiamo una pastorale vocazionale. A livello del seminario maggiore ci sono nove seminaristi, e altri tre stanno facendo l’anno propedeutico. Altri giovani sono al foyer Samuel dove si preparano fino all’esame di maturità. # In alto a sinistra: resti della casa parrocchiale di Zinder, data alle fiamme il 16 gennaio 2015. Il libretto rinvenuto «Cristiani oggi, Signore dove sei?» è emblematico. # A sinistra: mons. Ouedraogo celebra sotto una tettoia a Zinder. # In questa pagina: volti di una giovane donna nigerina e di un anziano notabile di villaggio. © Marco Bello © Marco Bello Quali sono le sfide maggiori che sente e qual è il suo programma per i prossimi anni? «Portiamo avanti la visione che recita: “Tutti sono missionari in una chiesa famiglia che testimonia l’evangelo nella realtà del Niger”. Vivere la parola di Dio nel Niger di oggi ha come sfide, prima di tutto, il dialogo interreligioso, la formazione dei nostri cristiani alla cultura della tolleranza, la formazione dei cristiani ad avere una fede solida e a radicarsi ancora di più nella Parola. Perché quando si è forti a livello spirituale, si regge meglio davanti alle prove. Vogliamo sviluppare la Caritas diocesana, come servizio ai più poveri del paese, che sono molti. Mettere l’accento sulla responsabilizzazione. I missionari ci danno uno stimolo esaltante e dobbiamo fare in modo che tutti i preti, i religiosi, i laici, ad ogni livello, possano essere responsabili. Una chiesa che poco a poco prenderà se stessa in carico. È il nostro programma. Noi abbiamo bisogno delle chiese straniere, ma dobbiamo prima di tutto contare sulle nostre forze. Le altre vengono a complemento». niger © Marco Bello I missionari sono venuti in passato, ma adesso vediamo la rarità di quelli che vengono dall’Europa. È il nostro turno di fare uno sforzo missionario affinché le comunità comprendano l’importanza della missione oggi in Niger. Facendo la promozione delle vocazioni preghiamo ogni giorno e ci mettiamo in opera affinché ci sia un accompagnamento a livello delle parrocchie. Nella diocesi di Niamey ci sono circa 45.000 cattolici. La maggioranza si trova della zona di Makalondi. E ogni anno aumentano». Come concilia la sua cultura e tradizione africana con la spiritualità cattolica? «A livello della nostra diocesi crediamo molto nello sforzo dell’inculturazione: partire dai valori positivi delle nostre culture e li leggiamo alla luce del Vangelo che viene a purificarli in modo che possiamo comprenderli. Un impegno importante è la traduzione della Bibbia nelle diverse lingue del Niger. Il giorno della mia intronizzazione abbiamo fatto la processione delle offerte, e hanno partecipato tutte le etnie del paese nel loro vestito tradizionale, per mostrare l’universalità. Il Vangelo è venuto per tutte le etnie, non per una sola, tutte hanno la possibilità di aprirsi al Vangelo. Abbiamo anche utilizzato il griot (importante figura del cantastorie in Africa dell’Ovest, ndr). Nel paese gourmanché (altra etnia presente in Niger e Burkina, ndr), il messaggio trasmesso dal griot diventa un messaggio popolare, ascoltato da tutto il mondo. Per questo anche il testo che ratifica che sono diventato arcivescovo e stato tradotto in lingua locale e letto, in modo tale che tutti potessero comprendere meglio. Prendiamo quello che è positivo nelle nostre culture e vediamo come si inserisce nel Vangelo. Facciamo questo sforzo in modo che la Parola prenda più forza nelle nostre culture, perché sappiamo che il Vangelo entra nella cultura e la purifica, così la nostra fede diventa solida». Marco Bello # In questa pagina: scene di villag- © Marco Bello gio nigerino. Una pastora con i suoi dromedari. | Un gruppo di animali si abbevera a un pozzo. Case in terra essicata sullo sfondo. 16 MC OTTOBRE 2015 MONDO CONSOlAtA Testo di ROMINA REMIGIO Foto dall’ARCHIVIO FOTOGRAFICO MC 2 ISTITUTI MISSIONE 1 Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano. uor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto. S adre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano. P OTTOBRE 2015 MC 17 MonDo Consolata Quando ha scelto di o deciso diventare missionario/a? quando Cosa l’ha spinto/a avevo a lasciare tutto per dedicirca 22 carti a Dio e alla missione? anni e lavoravo E perché proprio in come infermiera questo Istituto? professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni! H 18 MC OTTOBRE 2015 L Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni. è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere. C’ a storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia. n questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare. Infine mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario. I • Consolata | Missione | Vocazione | Laici • MC ARTICOLI n punto Come vede il futuro di forza è dell’Istituto. Quali sono senza secondo lei i punti di forza dubbio la e quali, qualora ci fossero, vivacità del nostro le debolezze? carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca. Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze. Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione. Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore». U ersonalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia». Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento… P OTTOBRE 2015 MC 19 MONDO CONSOLATA Si parla di crisi irca la crisi vocazionale in Europa di vocazioni, secondo me ì, la crisi di vocanon ho molte letture sociali e psicodovremmo parlare di crisi zioni mi sembra logiche da fare, ma appare evidente di valori e d’identità in un segno, un la crisi di valori che blocca ogni Europa. Cosa ne pensa? aspetto di qualideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una cosa di molto più vasto. E crisi della gratuità e della donazione: siamo non solo in Europa. Certain una società dove tutto ci è dovuto e in cui mente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa io non devo niente; senza la gratuità non si capistiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro sce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’alcarisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato tro. L’assenza di gratuità provoca anche una manGiuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un canza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. tesoro inesauribile; la vocazione a essere MissioQuando si è troppo piegati su se stessi non si può naria della Consolata è vocazione alla gioia. E alpiù dare spazio agli altri; quando i miei problemi lora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le sono più grandi e importanti di tutto, non posso analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui perde la compassione non ho più passione per la nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte vita e per la fede e vivo male. concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono Quali sono le realtà del e ne sono diconvinta che il discernimento vocazionale debba suo Istituto che secondo verse perché essere un processo molto serio, approfondito e lei hanno bisogno di siamo sempre maggiore attenzione esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per in cammino e entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per e sacrificio? dobbiamo cercare di questo non spero in grandi numeri, ma nel coltimigliorare, di andare vare in profondità la chiamata di quelle giovani avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre donne che portano nel loro cuore «il Dna della aspetti che oggi sono più urgenti. Consolata», donne a cui possiamo proporre una 1. La formazione: vita che è davvero bella e intensissima. Non ho oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formadetto facile, ho detto bella, che è molto diverso. zione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità. Inoltre c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione. 2. La vita comunitaria: è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la S C C MC ARTICOLI ccennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo. A nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica. 3. L’economia: la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità. Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita. Come pensa possano rima di parlare dei laici nell’Istibbiamo diversi tipi aiutare i laici e cosa tuto e della loro importanza, vordi rapporto coi potrebbero fare rei sottolineare un atteggiamento laici… ci sono gli per l’Istituto? che, reputo, dovrebbe essere alla amici, i benefattori, i base di tutto, e cioè la simpatia per il volontari, e ci sono i «Laici mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missionari della Consolata», ai quali ci lega un parmissione comporta anche una simpatia con la soticolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel cietà alla quale desideriamo portare la bella notisenso che i Lmc condividono con noi suore e con i zia del Vangelo, una simpatia che ci permette di confratelli missionari il dono dello stesso carisma, entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi vissuto secondo le modalità proprie della vocaper incontrarli e per condividere il Vangelo. La simzione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicupatia ci conduce ad avere una visione positiva del ramente essi ci offrono è quello dell’essere parte contesto e della cultura nella quale siamo immersi, di una unica famiglia, con tutte le possibilità di diascoprendo nella nostra realtà le opportunità inelogo, confronto e crescita nella comunione che dite della grazia che il Signore ci offre per la nostra questa appartenenza comune ci dona. missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di # Pag. 17: suor Simona e padre Stefano appena eletti a servire come madre e padre generale, in piazza San Pietro nel 2011. dialogo fecondo e costruttivo. Con questo attegPag. 18: insieme alla tomba del beato Giuseppe Allamano giamento di simpatia possiamo valorizzare anche nell’ottobre 2014, a conclusione dell’anno a lui dedicato. la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e Pag. 19: con bambini della Mongolia durante la visita uffiservizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei ciale che hanno fatto in contemporanea nell’agosto 2015. laici è fondamentale nella missione, essi sono l’ePag. 20: 23 maggio 2015, Nyeri, suor Simona alla cerimonia spressione di un carisma che non appartiene a un di beatificazione di suor Irene Stefani. gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma Qui sopra: padre Stefano a Guiúa, Mozambico, con alcuni più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. confratelli nel 2012. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono A P OTTOBRE 2015 MC 21 Mondo ConsolATA # Da sinistra: suor Simona in visita a Gibuti (2015). | Padre Stefano in Costa d’Avorio (2012). | L’incontro con papa Francesco (2014). | Suor Simona con le mani dipinte in maniera tradizionale con l’henna durante la visita a Gibuti. | Padre Stefano nella chiesa del beato Allamano, a Torino, durante la festa della Consolata il 20 giugno 2012. Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto? eh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione. Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso». B 22 MC OTTOBRE 2015 chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa. er una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fanta- P MC ARTICOLI sia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone. Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri. Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore». Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada! Romina Remigio Misericordia voglio STORIA DEL GIUBILEO di Paolo Farinella, prete 1. FRANCESCO, PAPA PROFETA C © AFP/NurPhoto/Manuel Romano on la Bolla «Misericordiae Vultus» (MV) dell’11 aprile 2015, Papa Francesco ha indetto un Giubileo Straordinario dedicato alla Misericordia. Il Giubileo durerà un anno, dall’8 dicembre 2015, cinquantesimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, al 20 novembre 2016, memoria liturgica della festa di «Cristo Re dell’universo». Il Papa ha esteso a tutte le chiese cattedrali diocesane e a quelle più significative di tutto il mondo le stesse prerogative delle Basiliche vaticane di Roma, per cui - e questo è anche il desiderio di Papa Francesco - non sarà necessario andare a Roma, come per tutti gli altri Giubilei, ma si potrà partecipare intimamente anche dalle proprie città e diocesi. Questa scelta è importante perché il Papa, in questo modo, afferma «l’ekklesìa» universale che si realizza ovunque si celebri la Misericordia di Dio che lo stesso Francesco nella Bolla di indizione definisce «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa» (MV, n. 10), la quale «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva». La rivista MC ha deciso di predisporre dieci puntate (una al mese e quindi per l’intero anno giubilare) per approfondire il significato del Giubileo nella Bibbia, quali sono i suoi contenuti, e quale ne è stato lo sviluppo nella storia della Chiesa, che vide il primo Giubileo nel 1300, indetto da Papa Bonifacio VIII con intenzioni ben diverse da quelle di Papa Francesco. Cercheremo di capire meglio - almeno lo speriamo - le ragioni e le motivazioni interiori che hanno spinto il Papa a fare questo gesto e con modalità diverse da quelle degli altri Giubilei. Sono grato a MC di avermi affidato questo compito che, pur essendo impegnativo, mi permette di compiere un atto di devozione e di ossequio ai nostri lettori, verso i quali MC non può che nutrire sentimenti di gratitudine. Non possiamo però cominciare il racconto della storia del Giubileo senza domandarci chi sia Papa Francesco. Se è vero, come lui stesso ha detto la sera della sua elezione a vescovo di Roma (13 marzo 2013), che i «cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo», è anche vero che fin dall’inizio egli ha compiuto gesti e ha detto parole incisive per le persone, per lo stesso papato e anche per chi non crede. Questo Papa non lascia indifferenti. UnA ProFezIA SContAtA © AFP/Vincenzo Pinto MC RUBRICHE Devo iniziare con un riferimento personale. Me ne scuso, ma è necessario. Nel 1999, quando vivevo a Gerusalemme, pubblicai un romanzo dal titolo «Habemus Papam, Francesco». Alla vigilia del Giubileo che segnava il passaggio tra il II e il III Millennio, immaginavo l’arrivo di un papa che prendesse il nome «Francesco» e cominciasse a riformare sul serio la Chiesa che già allora, nel declino del pontificato di Giovanni Paolo II, viveva i sintomi di un sistema ecclesiastico che iniziava a precipitare. Nel 2012, a richiesta dei lettori, il romanzo fu ripubblicato dall’Editore Gabrielli con il titolo «Habemus Papam. La leggenda del Papa che abolì il Vaticano». Questa seconda edizione fu aggiornata al pontificato di Papa Ratzinger, durante il quale il Vaticano fu teatro di fatti scandalosi e di corruzione, così gravi da portare lo stesso Papa a rassegnare le dimissioni, le prime dopo quelle del 1294 di Celestino V, il Papa che con l’istituzione della «Perdonanza» di Collemaggio (L’Aquila), anticipò di quattro anni il primo Giubileo della Chiesa Cattolica, proclamato per l’Anno Santo del 1300 dal suo successore, Papa Bonifacio VIII della famiglia «Cajetani». L’idea di un papa che prendesse il nome Francesco, anticipata di tredici anni e poi ribadita l’anno precedente la sua realizzazione, non fu una preveggenza perché il cristiano non ha bisogno di arti magiche per leggere il futuro, gli è sufficiente avere gli strumenti adatti alla lettura dei «segni dei tempi» (Mt 16,2-3; cf Lc 12,54-56; Vangelo [apocrifo] di Tommaso, n. 91) che sono il Vangelo e la Storia, accostati senza prevenzioni. Usare questi strumenti è il modo «ordinario» per conoscere il senso e la profondità di ciò che accade e anche di quello che verrà. Oggi, ascoltando il papa, spesso gli sento pronunciare le stesse parole del Papa del romanzo o vedo che compie gesti simili al Francesco letterario, e non mi meraviglio perché il Papa crede che lo Spirito Santo guidi la storia e le ragioni profonde dell’agire. Non ha quindi idee o interessi o privilegi da difendere. Con il cuore libero sa discernere le esigenze del Regno di Dio, distinte dagli schemi dei propri # A sinistra: apertura della porta santa della basilica di Collemaggio a L’Aquila in occasione del Perdono di Celestino (o «Perdonanza celestiniana»), che si celebra ogni anno il 24 agosto. In alto: il momento in cui il neo eletto papa Francesco chiede la benedizione del popolo di Roma. convincimenti. Papa Francesco è isolato all’interno del «sistema clericale» e alcuni non lo nascondono nemmeno: sono gli stessi che prima difendevano il «primato del Papa», ma solo perché il pensiero del Papa di turno coincideva con il loro. È sufficiente che un Papa pensi secondo Dio con spirito di servizio, combattendo la perversione del potere e lo spirito di casta, che di solito degenera nella corruttela, ed ecco montare un muro di resistenza strisciante. Papa Francesco ha il senso di Dio perché è affamato di umanità e sa di rappresentare sulla terra quel Cristo, che è «Lògos [che] carne fu fatto» (Gv 1,18). Si presenta all’umanità non come maestro di princìpi e dispensatore di dottrina, difensore di tradizioni passate e fustigatore di costumi, ma semplicemente come il servo del Dio incarnato che viene a misurarsi con il passo delle persone alle quali prospetta e offre un orizzonte che solo nella libertà e nell’amore è possibile. Si può dire che Papa Francesco esprima l’anelito e l’ansia pascaliani di non preoccuparsi del Dio della filosofia e delle dimostrazioni apologetiche, ma unicamente del Dio incontrato e sperimentato nella sua storia e in quella dei suoi compagni e compagne di viaggio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo» (B. Pascal, Memoriale; cf anche Pensieri, 5, 362, 366, 556; 602, 730). Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (16231662), un domestico trovò cucito nella fodera di un suo indumento, un foglio autografo in cui filosofo e scienziato faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica, avvenuta nella notte del 23 novembre 1654. Il breve documento è conosciuto come «Memoriale» e riporta la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo». DA SoMMo PonteFICe A «Servo DeI ServI» Per capire Papa Francesco e la scelta d’indire un Giubileo Straordinario sulla Misericordia, bisogna ritornare a quella sera straordinaria del 13 marzo 2013, quando dopo la fumata bianca e l’annuncio del cardinale protodiacono: «Habemus Papam … Franciscum», il primo latinoamericano della storia e il primo gesuita papa, si è affacciato alla loggia delle benedizioni. Da subito gli addetti del mestiere hanno capito che molto era cambiato, già solo al vederlo vestito di bianco e senza la mozzetta scarlatta e la stola cosiddetta di «Pietro e Paolo». Accanto al Papa, alla sua sinistra, stava terreo e sudato il cerimoniere pontificio che sul braccio teneva piegata la stola pontificia. È stata una scena indimenticabile perché ha segnato il confine irreversibile tra un «prima» e un «poi» (cf V. Gigante - L. Kocci, La Chiesa di tutti, prefazione di Paolo Farinella, Altraeconomia, Milano 2013). Per la prima volta nella stoOTTOBRE 2015 MC 25 Misericordia voglio ria, un Papa appena eletto non si presentato come «pontefice», ma come Vescovo di Roma e ha voluto mostrarlo in modo visibile perché nella Chiesa i simboli sono essenziali. Egli ha rinunciato alla «mozzetta rossa, ornata di ermellino», residuo della clamide rossa indossata l’imperatore come simbolo della sua autorità di massimo magistrato dello stato. Rinunciando all’indumento imperiale, il Papa rinunciava a presentarsi come «Sommo Pontefice», titolo riservato all’imperatore e simbolo del potere temporale. Non indossando la stola che di solito i Papi portano quando esercitano la loro funzione di capi di stato, il Papa si è offerto al suo popolo «nudo» come Francesco di Assisi e ha trasformato in un colpo solo il potere in servizio. L’ultimo gesto sconvolgente è stata la richiesta al popolo romano, cioè il «suo» popolo ecclesiale, d’invocare la benedizione di Dio su di lui vescovo, prima che questi benedicesse il popolo, dando corpo alle parole di sant’Agostino che nell’anniversario della sua ordinazione diceva ai cristiani di Ippona: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano» (Sermones, 340, 1 PL 38, 1483). La sera del 13 marzo 2013 dalla loggia centrale del Vaticano non si è presentato il rappresentante del potere temporale, anche se stilizzato, il Papa-Re, anche se di un minuscolo Stato di 0,44 km2, ma «il servo dei servi di Dio». Non si è presentato soltanto. Ne ha anche avuto coscienza. L’appellativo «Servus servorum Dei» fu utilizzato per la prima volta da Papa Gregorio I (1145-1241) in risposta al Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV Nesteutés, che significa Digiunatore (582-595), che nel 587 aveva assunto il titolo di Patriarca «Ecumenico». Papa Gregorio si definì «Servo di Dio» che nell’Amtico Testamento è un titolo onorifico, sinonimo di ambasciatore/rappresentante, e per sottolineare l’umiltà del ministero aggiunse «dei servi di Dio», cioè il Popolo santo dei credenti. L’appellativo, per le circostanze in cui è nato, ha un richiamo esplicito al profeta Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9-10). LA MISErICorDIA nEL SAnGuE Francesco di Assisi andava in giro per la città predicando il Vangelo «sine glossa», cioè senza alcun commento, ma testimoniandolo con la vita e l’esempio e assumendo la povertà assoluta come misura della sequela di Cristo. Papa Francesco, che prende il nome del poverello di Assisi, si condanna da sé a essere inchiodato a una vita di austerità e povertà, anche esteriore, perché quel nome non è un nome qualsiasi, ma quello di uno che «fece sul serio». Papa Francesco è coerente e due anni di servizio petrino lo dimostrano: egli è quello che appare e fa quello che dice (cf Mt 23,3). Nell’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium», Papa Francesco scrive facendo eco al Santo suo ispiratore e facendo suo il metodo del «sine glossa»: «È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: “Sia fatto con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). 26 MC OTTOBRE 2015 Siamo anche esortati a cercare di vincere “il male con il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene” (Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando “gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano “il favore di tutto il popolo” (At 2,47; cfr. 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine glossa, senza commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo» (EG, 271). Questo è l’uomo che ha indetto il Giubileo Straordinario della Misericordia, parola che segnava la vita di Bergoglio già prima di essere eletto. Quando nel 1992 era stato eletto Vescovo, secondo la tradizione come suo motto episcopale scelse il motto latino: «Miserando atque eligendo». La frase è tratta dalle Omelie di san Beda, detto il Venerabile (672-735), il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrisse: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore [in latino: miserando = avendone misericordia] e lo scelse, gli disse: Seguimi» (Omelia 21; CCL 122, 149-151). Non è più tempo di difendere i princìpi a forza di manifestazioni o urla, oggi è l’umile tempo del sacramento della testimonianza con la vita, che è il vero martirio che il Vangelo chiede a quanti vogliono avventurarsi per questa via, senza esaurirsi in una religiosità esteriore e di convenienza. Annunciando il Giubileo, Papa Francesco, come novello Giona, attraversa la Ninive della storia, annunciano a tutti non la «Misericordia di Dio», ma che «Dio è Misericordia». In questo modo egli resta fedele alla sua storia personale e alla sua vocazione, dando spazio alla Dimora/Shekinàh dello Spirito nella sua vita. Da Papa ha coscienza di doverne testimoniare la realtà davanti al mondo e davanti a chiunque incontri. D’altra parte anche Gesù ha iniziato il ministero pubblico nella sinagoga di Nàzaret, scandalizzando i cultori del Dio «castigamatti», annunciando per tutti un Dio dal Volto non solo umano, ma amorevole e carico di tenerezza e di amore a perdere: «18Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,/ a proclamare ai prigionieri la liberazione/ e ai ciechi la vista;/ a rimettere in libertà gli oppressi,/ 19a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 1,18-19). Ogni tempo è «anno di grazia» perché il tempo di ciascuno è diverso dal tempo degli altri, ma il tempo di Dio è sempre un «kairòs - occasione propizia» da afferrare, perché Dio ha tutta l’eternità per perdere il suo tempo con noi, suoi figli e figlie, oggi e domani. Sempre. Paolo Farinella, prete (1 - continua) © Daniele Romeo / 2015 MISSÃO 50 anos 1965-2015 RORAIMA: GLI YANOMAMI E I 50 ANNI DI CATRIMANI (1965-2015) L’INCONTRO (Nohimayou) TESTI DI: Stefano Camerlengo, Corrado Dalmonego, Guglielmo Damioli, Laurindo Lazzaretti, Carlo Miglietta, Paolo Moiola, Daniele Romeo, Silvia Zaccaria. DOSSIER A CURA DI: Paolo Moiola. INTRODUZIONE UNA STORIA CHE DEVE CONTINUARE Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico. DI STEFANO CAMERLENGO © AfMC / Guglielmo Damioli ome missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza con il popolo yanomami nella foresta amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier speciale a loro dedicato. Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro cuore questa immensa foresta, bacino di vita per l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità, capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro. C Sopra: Yanomami si divertono in acqua. Pagina preceddente (copertina dossier): un’anziana, ornata a festa per una cerimonia, beve frullato di banane; nei rituali funerari, al frullato, vengono aggiunte le ossa polverizzate del defunto (per gli Yanomami la forza vitale risiede infatti nelle ossa). 28 MC OTTOBRE 2015 DIALOGO SENZA PREGIUDIZIO - Gli indios yanomami si presentano al tavolo del dialogo interculturale per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo che non ha bisogno di intermediari che parlino per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di tutto, la convinzione del valore della loro cultura senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro gioie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. In un dialogo che non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma un essere disponibili al cambiamento e alla scoperta di nuovi spazi di realizzazione. UNO STILE RISPETTOSO - È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro riconoscendolo come già illuminato e capace di leggere i segni della presenza di un Dio buono in chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel bisogno. PRESENZA, DENUNCIA, ANNUNCIO - Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire. Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di L’INCONTRO © Daniele Romeo / 2015 DOSSIER MC TERRA INDIGENA © Maurice Tomioka Nilsson / 2005 YANOMAMI In alto: ripresa aerea della foresta amazzonica durante il viaggio da Boa Vista alla Missione Catrimani. In basso: nella mappa grande il bordo rosso delimita la «Terra indigena yanomami»; in evidenza, Boa Vista, capitale dello stato di Roraima, e la Missione Catrimani. OTTOBRE 2015 MC 29 trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone con ostinazione e metodo, aggregando forze ed educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la voce ovunque, approfittando con saggezza dei mezzi tecnologici e dei media (come - ad esempio la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità ha reso visibile a molti un piccolo angolo del mondo, ha offerto la sua esperienza locale come possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli alleati che vogliano affrontare le stesse sfide. TANTI, MA NON ABBASTANZA - Mi sembra questo uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale vivono: l’invito a non scordare mai che, anche quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano. Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza. IL DOVERE «ETICO» DI RIMANERE - Rimaniamo a Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha il diritto di vivere. E come missionari abbiamo sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami. Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi egoistici di quel mondo. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che continui così. Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri. Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui. Stefano Camerlengo Qui sotto: la Missione Catrimani con la pista di atterraggio. Pagina seguente: gruppo di Yanomami in cammino. © Carlo Zacquini 30 MC OTTOBRE 2015 L’INCONTRO © AfMC DOSSIER MC L’EVOLUZIONE DEL DUBBIO YANOMAMI E NAPËPË Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale. DI PAOLO MOIOLA oa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo. Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura. «Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lon- B tano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima2. «La domanda è lecita - proseguiva il prelato - e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?». Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzatoselvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi. «Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4. Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per OTTOBRE 2015 MC 31 cambiare gli indios - hanno scritto di lui -, è stato da loro cambiato»6. Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa. Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8. Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo, nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile non subire influenze e contaminazioni. Piccole e grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per imparare come loro a vivere armoniosamente con la natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro sugli Yanomami9. elle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto sia stato duro difendersi dall’avanzata - fisica e culturale - dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel mondo del 2015. Con o senza bancomat. Paolo Moiola N NOTE (1) Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014. (2) Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata, marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è scomparso nel settembre 2014. (3) Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967, pag. 79. (4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritorno alla maloca, Emi, Bologna, 1972. (5) Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma 2011, pag. 65. (6) Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4. (7) Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968. (8) Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013). (9) Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014. 32 MC OTTOBRE 2015 YANOMAMI Dati e informazioni DOve sONO - Il popolo degli Yanomami vive in un’area di foresta tropicale a Ovest del massiccio delle Guiane, sui due lati della frontiera tra Brasile e Venezuela. superfIcIe - Occupano un territorio di circa 192.000 chilometri quadrati (quasi 2/3 dell’Italia), di cui 96.650 in Brasile. pOpOlAzIONe - Sono circa 33.100 persone (fonte: Albert - Milliken, 2009). lINgue - Gli Yanomami si riconoscono come un popolo che presenta, al suo interno, diversità culturali e che parla lingue appartenenti alla stessa famiglia e mutuamente comprensibili. IN BrAsIle - La Terra indigena Yanomami è localizzata all’estremo Nord del Brasile e ha un’estensione di 9.664.975 ettari, essendo abitata da 21.249 persone, organizzate in 285 comunità (Distrito sanitário especial indígena yanomami, 2014). lOcAlIzzAzIONe DellA MIssIONe cAtrIMANI - La Missione Catrimani è localizzata sulla sponda sinistra del fiume Catrimani (N: 02°21’167’’; W: 063°00’447’’), affluente del Rio Branco, di fronte alla rapida del Cujubim. cOMuNItà e pOpOlAzIONe - Nella regione della missione Catrimani esistono 22 comunità con una popolazione di quasi 900 abitanti. DAtI DeMOgrAfIcI - Gli Yanomami stanno vivendo una forte crescita demografica, perciò la popolazione è molto giovane. Nella regione del Catrimani, 408 persone hanno meno di 14 anni, corrispondendo al 49 % del totale. DIstANze - La Missione Catrimani dista circa 250 Km in linea d’aria da Boa Vista, capitale dello stato di Roraima. MezzI DI trAspOrtO - Partendo da Boa Vista, è raggiungibile con piccoli aerei leggeri che atterrano sulla pista della missione (circa un’ora di volo), ma si può arrivarvi per via fluviale, risalendo il fiume Catrimani (circa tre giorni di navigazione), o per via terrestre, utilizzando veicoli fino a dove esistono strade e... continuando a piedi nella foresta, meglio se ben accompagnati (circa cinque giorni). sAlute - Le patologie più diffuse: infezioni respiratorie, gastroenteriti/verminosi, malattie della pelle/dermatiti, tubercolosi, malaria, denutrizione. Alla missione esiste un ambulatorio con farmacia, ma i casi più gravi sono trattati in città. eDucAzIONe - Ogni comunità, in genere, possiede una piccola scuola con il proprio maestro Yanomami che vi risiede. Alla missione esiste un Centro di formazione usato per la formazione di maestri, di tecnici indigeni di salute, per corsi, incontri e assemblee. DOSSIER MC L’INCONTRO LO STILE NUOVO DI CATRIMANI LA CAPPELLA NON È AL CENTRO DI GUGLIELMO DAMIOLI Cinquant’anni fa - era l’ottobre del 1965 - i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca), al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni. D lato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre frequentavo l’Università Gregoriana tentando di coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il mio mondo. Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo, frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali, In basso: una grande «yano» (maloca) immersa nel verde della foresta amazzonica, non lontana da Catrimani. © Daniele Romeo / 2015 a bambino facevo parte di una banda che giocava nei boschi di Cividate Camuno (Brescia), in Val Camonica. La domenica amavamo andare al cinema dell’oratorio a vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri». Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò. Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano Sabatini, un missionario della Consolata. Ricordo la foto di una giovane donna, dentro una canoa, con un bambino in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo, vero incontro con gli indios. L’immaginario popo- OTTOBRE 2015 MC 33 mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni a conoscenza della mostruosa e vera storia della «scoperta» dell’America. Brandendo la croce e la spada Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili, dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù... sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada, dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei anni a Roma, venne pubblicato Ritorno alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione umiliante e disperata degli indios cristianizzati delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968) l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, con il suo libro Yanomamö. The Fierce People, aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante: nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato e «primitivo» che racchiude il «gene della guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati - Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli - di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di collisione col potere integrazionista e distruttivo dello stato e con interessi economici e politici a tal punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista. «Il Dio dei bianchi è cattivo» Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979 arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato», stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí, protagonista del libro di Sabatini, a concludere: «... il Dio dei bianchi è cattivo». Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e 34 MC OTTOBRE 2015 fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria. Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un deposito, era certamente la più piccola del mondo: una presenza discreta, una semente nel cuore del mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti. Non ricordo i testi biblici di quella messa perché nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di Giovanni: «...e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi...». Al mattino seguente visitammo la comunità dei Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigantefiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo. Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto», poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il gruppo. Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra. Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i missionari della Consolata che hanno lavorato anni alla missione Catrimani - dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori (Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore della Consolata, le laiche locali, italiane e del L’INCONTRO © Daniele Romeo / 2015 DOSSIER MC Cimi) fino a noi - battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare, si sono lasciati condurre per mano sui sentieri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami. Una breccia mortale: «napëpë mohoti» Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di salvare vite. La costruzione della Perimetrale Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte, dopo una corsa affannata di un giorno o una notte, con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto... Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia, piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo a salvarli tutti...». Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yano- Sopra: gruppo di anziane e giovani donne impegnate a macinare radici di manioca già sbucciata e lavata; servirà a ottenere la farina usata per preparare focacce («beijù»). mami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini seminudi, coperti di fango e con fucili in mano, bottiglie di cachaça, taniche di mercurio. A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di organizzare la resistenza armata degli indios. Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei: 4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col cuore a pezzi, dopo avere tranquilizzato gli indios, OTTOBRE 2015 MC 35 © AfMC / Silvano Sabatini © AfMC / Silvano Sabatini salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6 giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro dell'equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione. I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi: 5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in terra nemica, senza saper dire una parola. La luce si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi. Autodifesa: terra, lingua, identità Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una salute e una educazione «differenziata». 36 MC OTTOBRE 2015 La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario costituzionale e alla rottura dell’isolamento col conseguente scontro disuguale di culture, era chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa. Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribú attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno di Roraima»). In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni, registrando la storia, raccontando miti, scrivendo lettere alle autorità, inviti, informazioni... La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere ogni villaggio. L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra, lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo. Guglielmo Damioli (Hewësi Par+ki) In alto, a destra: momento di un rito sciamanico in favore di un ammalato. In alto, a sinistra: l’abbraccio tra due uomini avviene durante un rito («yã+mu») di scambio di notizie (matrimoni, alleanze, ecc.). Si notino le bocche nere a causa delle foglie di tabacco. DOSSIER MC Mondo yanomami L’INCONTRO Mistica e mitologia A causa dell’isolamento e di un’esistenza millenaria nell’ambiente della foresta tropicale dell’Amazzonia, il popolo Yanomami ha sviluppato una cultura e un sistema simbolico propri, molto differenti dalla simbologia biblica frutto di un ambiente e di una cultura di pastori del deserto. Qualsiasi traduzione letterale, tipo Dio = Omã, risulta insostenibile. La tradizione orale yanomami, miti e storie esemplari rivissute nei rituali, spiega le origini e orienta il comportamento sociale e etico della società che vive in foresta. In una cultura orale come quella yanomami, i miti sono dinamici, raccontati o celebrati, liberamente adattati alla situazione ma conservandone inalterato il nucleo. LE ORIGINI Invece di un Dio creatore, alle origini ci sono due gemelli: Omâ e Yoasi. Omâ rappresenta l’intelligenza creativa, la furbizia, la generositá. Yoasi, il caimano, rappresenta la stupidità e l’egoismo. • Gli Yanomami sono figli di Omâ e i napëpë (= non Yanomami) sono figli di Yoasi, egoisti e irresponsabili (mohoti). • Omâ ha dato queste terre agli Yanomami, ai napëpë ha dato Boa Vista, São Paulo... • Omâ si è ritirato sulle montange del Parima, ma è chiamato in causa quando c’è bisogno. • Il figlio di Omâ aveva sete. Omâ fece un buco nella terra causando la grande inondazione. L’UNIVERSO E L’ARMONIA La foresta (urihi) è il mondo, il pianeta, il cosmo dove vivono tutte le cose che esistono, materiali e spirituali: Yanomami, napëpë, spiriti, ancestrali, animali, piante, fenomeni naturali... Una struttura molto instabile frutto di un cataclisma originale causato dalla rottura dell’equilibrio. Se si rompe l’armonia dell’insieme tutto cade, è la fine di tutto. • Ferire la foresta, tagliare o strappare alberi in grande quantità, aprire strade, scavare buchi per estrarre metalli libera un fumo, una nebbia mortifera invisibile che si sparge seminando epidemie, malattie mortali (xawara). • Nella foresta ci sono luoghi dove abitano animali mostruosi, Teperesik+, Terema... sono luoghi protetti, nessuno può andare là per cacciare o pescare impunemente. Sono nidi di riproduzione della biodiversità. • Gli xapuripë (sciamani) yanomami, grandi alberi materiali e spirituali, sono le colonne del cielo. Quando l’ultimo sciamano morirà, anche l’ultimo albero sarà abbattuto e il cielo cadrà nuovamente. GLI SCIAMANI (XAPURIPË) Lo sciamanismo e l’endocannibalismo sono i rituali più affascinanti della cultura yanomami. Gli sciamani, mediante l’uso di allucinogeni, di canti e danze, sono il ponte tra il mondo materiale e quello spirituale con la funzione di mantenere l’equilibrio, l’armonia della foresta/mondo. • Quando uno sciamano muore, gli elementi si infuriano, particolarmente il vento e il tuono. (In occasione della morte di una persona importante ho visto una donna gridare allo sciamano: «Il tuono sta dormendo, scuoti la sua amaca»). • La morte di uno sciamano scuote l’equilibrio, asce tagliano i pilastri del cielo, gli sciamani alzano le braccia per reggere un peso che può diventare insostenibile. I pianti rituali, le grida, i canti e le danze mimiche creano un clima di grande drammaticità, letteralmente da fine del mondo. • Lo sciamano viaggia nel mondo degli spiriti animali, incarna e imita l’animale appropriato, succhia e poi soffia buttando via lo spirito responsabile per la malattia. Il rituale, eseguito singolarmente o in gruppo, può durare una notte intera. • L’endocannibalismo consiste nella consumazione rituale e in gruppo delle ceneri delle ossa di uno Yanomami morto sciolte in una zuppa di banane. • I rituali funebri valorizzano le qualità a servizio del gruppo. È una forma di comunione per perpetuare questi valori e stringere alleanza con altri gruppi. GLI ANIMALI I personaggi dei miti delle origini, dei racconti e dei disegni sono animali della foresta, indicando una intima unione ancestrale e attuale. • Ogni Yanomami ha un «alter ego» (altro-io) animale, il falco reale è il più rappresentativo, la sua uccisione richiede rituali di purificazione. • Il giaguaro ruggisce nel petto degli sciamani e dei giovani cacciatori. • Il colibrì ha estratto il fuoco dalle fauci del caimano e l’ha posto dentro il legno della pianta di cacao. • Il sangue della puzzolente e antipatica mocura (faina) stà all’origine dei colori degli animali. • Il tacchino selvatico, dalle penne nere e petto bianco, sta all’origine della alternanza del giorno e della notte. «Voi napëpë pensate che l’aurora viene meccanicamente? Sono gli uccelli che, cantando, chiamano l’aurora. Se uccidete tutti gli uccelli, la notte si estenderà per sempre». L’intima unione di tutti gli elementi della foresta / mondo fa sì che non ci sia distinzione tra voce e rumore, tutti parlano, tutti si comunicano: la voce degli Yanomami, la voce del tucano, del giaguaro... del tuono, delle rapide dei fiumi, del vento. R itengo che le tradizioni racchiuse nella sapienza yanomami possano realmente trasmettere segnali e valori alla nostra società occidentale. A garanzia della vita e soprattutto della sopravvivenza del pianeta. Guglielmo Damioli* (*) Per approfondire le tematiche della cultura yanomami rimandiamo a: Guglielmo Damioli, Giovanni Saffirio, Yanomami. Indios dell’Amazzonia, Edizioni Il Capitello, Torino 1996. OTTOBRE 2015 MC 37 DALL’INCONTRO ALLA CONDIVISIONE I NOSTRI PRIMI CINQUANT’ANNI DI CORRADO DALMONEGO In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani. olto tempo fa, quando noi Yanomami non conoscevamo i bianchi, quando io ero un bambino di circa 10 anni, i padri risalirono il fiume Catrimani [...]. Loro fecero conoscenza degli Yanomami e divennero amici. [...]». Con queste parole, Davi Kopenawa, leader e sciamano yanomami1, inizia a narrare una vicenda di fatti e vite lunga cinquant’anni: la storia della Missione Catrimani. «M © Daniele Romeo / 2015 Esotici, strani, misteriosi Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si 38 MC OTTOBRE 2015 possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in generale di ogni realtà missionaria. Primo: l’incontro dei missionari della Consolata con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca reciproca. Il padre Domenico Fiorina - allora superiore generale dell’Istituto - aveva già indicato una direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos - bravos significa selvaggi [...]. È alla conversione di questi indios che i nostri missionari dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami - che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni - seguivano le tracce DOSSIER MC L’INCONTRO A sinistra: padre Corrado Dalmonego con due giovani yanomami. Pagina precedente: un gruppo di Yanomami in attesa di entrare nella maloca per iniziare un rituale di festeggiamento. altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca. © AfMC lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato. Secondo: questo trovarsi - seppure segnato da concezioni molto diverse - ha richiesto e messo in luce una disponibilità all’incontro. La descrizione che padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che - nonostante l’iniziale timore reciproco e la difficoltà di comunicazione - il missionario era accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno non pensa due volte - in una notte di pioggia - a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende la coperta per proteggere dal freddo della notte il suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani, ricevendo la stessa accoglienza: un cammino aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero. Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità. L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico, ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici, strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la loro visione del mondo prevedeva uno spazio che poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5. Con questi presupposti, la missione si è configurata come un intreccio di relazioni che hanno cercato di essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e Invasori e missionari Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la «nuova evangelizzazione», pensata dai missionari che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette - per la eseguità di risorse e la scarsità di personale disposto a condizioni di vita poco confortevoli - a concentrare le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza stabile della Missione Catrimani si mostra ancora più significativa. Questa presenza era già stata difesa, con le unghie e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica della «desobriga» - le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti - come unica possibile forma di azione evangelizzatrice. La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume, durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la lingua della gente. La prossimità nel quotidiano La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di fiducia e convivialità che - all’inizio della presenza missionaria, come oggi - anelano a essere diverse da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comuOTTOBRE 2015 MC 39 © Daniele Romeo / 2015 Parola di Yanomami • TesTimonianza di K. Yanomami (morto in marzo 2014, a circa 75 anni) Stralcio della deposizione raccolta e registrata, a gennaio 2013, presso la comunità di Waroma (regione Missione Catrimani). «Ci Presero Con loro» «[Poco dopo la fondazione della Missione Catrimani] padre Giovanni Calleri disse proprio così: “Voi, altri bianchi, non dovete piú venire qui, non dovete risalire il fiume. No! Io ho giá preso sotto la mia protezione gli Yanomami”. [...] Che cosa passava per la testa dei padri, quando sono arrivati? Padre Calleri diceva cosí: “Molto bene, io sono venuto a cercarvi, per prender con me voi Yanomami”. [...] I padri hanno preso con sé noi Yanomami, perciò hanno detto: “È bene che vi prendiamo con noi [...]: noi vi cureremo, vi difenderemo dai garimpeiros, quando questi arriveranno per stabilirsi”. Così, quando hanno iniziato a costruire la strada [BR 210] loro sono rimasti qui». • TesTimonianza di aleXandre Yanomami (di circa 55 anni) Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, a gennaio 2015, presso la comunità di Hawarixa (regione Missione Catrimani). «ma lui fu uCCiso» «Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del Catrimani] e raggiunse le altre comunità dei nostri avi. In seguito, lo raggiunsero altri e chiamò 40 MC OTTOBRE 2015 Qui a sinistra: adulti e bambini durante l’attività di rappresentazione di miti e leggende yanomami attraverso il disegno. In basso: in partenza per la caccia; gli Yanomami apprezzano molto la carne, soprattutto quella di scimmia e di tapiro. molti abitanti di questa regione. [Padre Calleri] vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari [un tipo di cinghiale] per lisciare l’arco, [...] l’utensile di denti di aguti [un roditore] legato al braccio. [...] Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”. In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli antenati: le donne cuocevano la focaccia di mandioca sulle pietre, grattuggiavano i tuberi di mandioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema, spremevano la polpa di mandioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò: li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui” e i nostri genitori andarono ad aprire la pista di atterraggio. [...] Venendo da tutte le comunità, gli Yanomami, insieme, costruirono questa pista. In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i coltellacci che aveva portato con sé da Manaus. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri: tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui. Ma lui fu ucciso». l’ePidemia di morbillo «Questo qui [indicando fratel Carlo Zacquini] era un papà. Aiutò i nostri anziani. Loro piangevano di dolore, ma li soccorse. Molti furono curati. Vedendo che le persone venivano curate, [i nostri anziani] lo chiamarono di xapuri [sciamano/curatore] bianco. Dissero: “Lui è xapuri bianco, per questo guariamo, recuperiamo la salute”. [...] Nel 1977, quando i nostri genitori morivano nei pressi del fiume Hwaia u, corse insieme alla mamma Claudia (Andujar, fotografa svizzera molto conosciuta per il suo lavoro tra gli Yanomami, ndr), per soccorrerci durante l’epidemia di DOSSIER MC nità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi per maestri yanomami o visite per la realizzazione di azioni di salute. In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da progetti lontani dalle reali necessità di un popolo. Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il quotidiano della missione è stato anche l’affrontare insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume, soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura. Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci - soprattutto se si tratta di una spedizione di caccia o di una cerimonia rituale sono molto apprezzate da loro. © Daniele Romeo / 2015 morbillo. Questi due accorsero per darci ausilio, mentre noi e altri Yanomami ammalati, qui [nell’alto corso del fiume] stavamo correndo [cercando soccorso alla Missione Catrimani]. [...] In quel tempo, quando il morbillo aveva già ucciso molti ed era calata l’intensità dell’epidemia, questi due arrivarono. Ci raggiunsero nella comunità ormai spopolata. Portarono vaccini e medicine contro il morbillo, con i quali - noi che eravamo sopravvissuti - fummo curati e ci ristabilimmo. A causa di questa situazione [di grave sofferenza degli Yanomami], Claudia e Carlo Zacquini, cominciarono la lotta per la [demarcazione della] terra indigena. Iniziarono questa nuova lotta perché volevano prendersi cura di noi. [...] I missionari della Consolata ci aiutarono realmente. Padre Giovanni [Saffirio] corse al Posto indigeno della Funai [Fondazione Nazionale dell’Indio] al Watorikɨ [Demini], per richiedere il soccorso di un elicottero. [...] Loro hanno inviato [più di una] proposta [di demarcazione] al governo [brasiliano]. [Affermando:] “Il popolo Yanomami è importante”. [...] Tutto questo perché potessimo vivere L’INCONTRO Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi) Su questa prossimità e condivisione, la missione si è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica. Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare fornendo generosamente oggetti industriali (attrezzi da taglio, ami da pesca, e altro). Se per i missionari era questione di emergenza prendersi cura della salute degli indigeni, quando l’invasione del loro territorio era accompagnata da epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentieri (continua a pagina 44) in salute, [continuare a] realizzare le nostre feste reahu, fare le nostre piantagioni, crescere [allevare] i nostri figli». • TesTimonianza di PedRo Yanomami (di circa 80 anni, comunitá di Maamapi) Stralcio della deposizione raccolta e registrata in video, in gennaio 2015, presso la comunitá di Maamapi (regione Missione Catrimani). «noi due moRiRemo insieme» «Fratel [Carlo Zacquini] andava a caccia con me, in quella direzione. Noi cacciavamo là tapiri e scimmie. Adesso è anziano. Io sono divenuto anziano, e lui, come me. [Rivolgendosi a Fratel Carlo che da qualche anno vive a Boa Vista:] Fratello tu tornerai? Vieni di nuovo a visitarci alla Missione. Vieni ad abitare qui di nuovo. Moriremo insieme. Noi due moriremo insieme. [Gli altri Yanomami] realizzeranno il rituale con le nostre ceneri. Se seppelliranno il tuo corpo, tu [in questo passaggio] soffrirai: i bianchi sono irresponsabili, non sanno le cose. Solo se sarà realizzato qui il rituale delle ceneri, andrà tutto a buon fine. Io ho pensato che sarà bene così per noi, perciò ti chiamo: ritorna qui. [Fra qualche settimana,] quando realizzeremo la festa reahu, nella mia comunità, visitaci di nuovo. Anche se anziano, danzerai nella mia casa. Noi due anziani danzeremo. Io non vedo più le persone e le cose con i miei occhi, ma ancora posso camminare. Invece, i tuoi occhi scorgono ancora chiaramente: solo io sono immerso in una grande oscurità. Sento molta nostalgia. Tu hai cacciato e pescato per alimentarmi, perciò ti ricordo, ti conservo nel cuore. Se io avessi occhi buoni, ti visiterei varie volte a Boa Vista, dopo aver volato con l’aereo. Domanderei: “Tu stai bene?”. Questo è ciò che penso». (a cura di Corrado Dalmonego) OTTOBRE 2015 MC 41 © AfMC / Silvano Sabatini © AfMC © AfMC / Silvano Sabatini © AfMC / Silvano Sabatini DALL’ALBUM DI FAMIGLIA L’INCONTRO Nella pagina precedente: un bimbo sorridente con Guglielmo Damioli; padre Bindo Meldolesi in barca con un gruppo di indigeni; padre Giovanni Calleri con un indio; padre Silvano Sabatini con due bambini; il «Dornier», il piccolo aereo della Prelazia di Roraima, sulla pista di Catrimani in uno dei suoi primi voli (di spalle, davanti all’elica, c’è padre Calleri). In questa pagina: il cartello, messo all’inizio della deviazione che dal km 145 della Perimetrale Nord portava alla Missione Catrimani; con esso gli Yanomami volevano notificare ai garimpeiros e a chiunque altro che quello era territorio indigeno sul quale non si poteva cacciare, pescare o coltivare; fratel Carlo Zacquini con un bimbo yanomami in una bella foto della nota fotografa Claudia Andujar; suor Florença Águida Lindey nella farmacia della Missione. © Claudia Andujar © AfMC / Silvano Sabatini DOSSIER MC © AfMC / Silvano Sabatini nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà. Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato. Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili. Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre piú pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato. Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome - per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente - o festeggiano una nascita. Il segreto sta nella condivisione Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando - quando accolti - in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione: - togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti - fra spine, zone allagate, liane - per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo; - imparando un’altra lingua - che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria - per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta; - cercando di conoscere - condotti dalle nostre guide - la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio - anche se trascendente - ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto; - apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana - alle 44 MC OTTOBRE 2015 volte... troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di mandioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia; - imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita. È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari - fragili messaggeri - scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte. Avvicinarsi e rimanere Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che - essendo voi religiosi e conoscendo Dio - Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, cosí come sono stati creati i nonindigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della L’INCONTRO A sinistra: giovani donne si dipingono viso e corpo in occasione di una festa; gli Yanomami ottengono dalla bixa orellana l’annatto, un colorante naturale che viene poi mischiato con la cenere (o altri prodotti) per ottenere una tonalità rosso cupo-marrone. Sotto: mamma yanomami. © Daniele Romeo / 2015 © Daniele Romeo / 2015 DOSSIER MC Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia, senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!». Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a continuare la missione per... altri cinquant’anni o, come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi, sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del mondo: io non so quando questo mondo terminerà, ma so che per noi questo è importante». Corrado Dalmonego (Hewësi Ihurupë) NOTE (1) Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014. (2) Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951. (3) Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni Consolata, p. 14-20, febbraio 1964. (4) Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234, 1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954. (5) Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15, p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42, luglio-agosto 1966. (6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram. Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile. OTTOBRE 2015 MC 45 DIECI ANNI TRA GLI YANOMAMI CIRCONDATI DAL MONDO DI LAURINDO LAZZARETTI Catrimani è stato un centro di resistenza contro gli invasori e contro le politiche governative. Negli anni alcune cose sono cambiate: presso alcuni gruppi di Yanomami sono arrivati vestiti, fucili, barche a motore, soldi. Cambiamenti grandi, rapidi e profondi stanno avvenendo senza lasciare il tempo agli indigeni di discernere ciò che è meglio. Ricordi, riflessioni e preoccupazioni del primo brasiliano che ha lavorato nella Missione Catrimani. Per 10 intensissimi anni. rima dell’arrivo a Roraima il mio contatto con i popoli indigeni era stato minimo1. Porto con me un’immagine dell’infanzia in cui i Kaingang2 del Rio Grande do Sul (il mio stato di nascita) passavano per la strada in gruppi, recandosi in città a vendere i loro prodotti artigianali. Al ritorno si accampavano ai bordo del torrente e da lontano si ascoltavano i loro canti e le conversazioni. Il più delle volte, ubriachi, finivano per litigare e per fare a botte. Non sapevo né capivo che la loro terra era stata invasa e presa in mano da coloni venuti da diverse regioni. In pochissimi anni questo gruppo scomparve e la sua terra, che era ricca di un legno tipico della regione, fu completamente disboscata e occupata da © Daniele Romeo / 2015 P 1.200 famiglie. Parecchi anni dopo, durante il noviziato in Colombia, ebbi l’opportunità di conoscere da vicino il lavoro dell’equipe missionaria di Toribio e tramite essa la realtà indigena della regione del Cauca (che non è diversa da quella della maggior parte dei popoli indigeni delle Americhe). A favore della vita L’arrivo a Catrimani e l’incontro con gli Yanomami fu un punto di svolta nella mia vita. Tutto ciò che avevo studiato, udito e visto fino ad allora venne azzerato, mostrandomi la necessità di ricominciare da capo. E, in effetti, iniziò un processo di conversione che mi ricordò l’esperienza della caduta da cavallo di san Paolo: diventare cieco, DOSSIER MC L’INCONTRO © Daniele Romeo / 2015 guarire e infine vedere le cose con occhi diversi, con un altro cuore e con motivazioni molto più profonde che non fossero soltanto quelle emotive. Come, per esempio, era quella di vedere «l’indigeno come buon selvaggio». Quello che più mi ha colpito durante i dieci anni - dal 2001 al 2011 - trascorsi nella Missione Catrimani è stato sperimentare il Dio della vita accanto a un popolo con lingua, costumi, tradizioni, spiritualità, mistica e organizzazione sociale completamente diversi da quelli che avevo vissuto fino ad allora. Ricevetti un’enorme eredità dai missionari, la maggior parte di loro italiani, rimasti per molti anni tra gli Yanomami che essi avevano fatto conoscere al mondo, a dispetto delle molte polemiche - all’interno della chiesa e dell’istituto - per un impegno più a favore della vita che della dottrina e della evangelizzazione. Primo missionario brasiliano a rimanere così a lungo tra gli Yanomami di quella missione, con una nuova equipe e meno risorse finanziarie rispetto a coloro che ci avevano preceduto, nei dieci anni trascorsi a Catrimani assistetti alle grandi sfide cui la missione fu chiamata. Qui di seguito ne ricorderò qualcuna. Catrimani, centro di resistenza Verso la metà degli anni Settanta i governi brasiliani promossero la costruzione della Perimetral norte o Br-210, che causò molti disastri nelle popolazioni indigene e tra gli Yanomami in particolare. Così facendo favorirono l’ingresso di migliaia di minatori (garimpeiros) nei territori degli Yanomami e promossero lo sfruttamento delle ricchezze minerarie provocando un genocidio degli In alto: mani di donna impastano la «farinha» di manioca, con la quale si preparano le focacce chiamate «beijù». Pagina precedente: una donna cuoce le focacce poste su un piatto di terracotta (o di metallo). indigeni, attraverso epidemie e scontri di ogni genere. Inoltre, a causa della strada, sempre più agricoltori iniziarono ad avanzare sulle terre indigene. In questo contesto, insieme con gli Yanomami la Missione Catrimani divenne un centro di resistenza alle invasioni e di critica alle politiche poste in essere dalle autorità brasiliane. Vari anni dopo, proprio nel periodo in cui ero a Catrimani, Brasilia cambiò strategia chiedendo alla nostra missione di seguire l’attuazione di alcuni programmi di salute. Il governo esigeva però risultati immediati: tempestiva esecuzione di tutti i programmi, riduzione della mortalità, soprattutto di quella infantile. Non dava seguito ai suoi obblighi, ma tuttavia esigeva e faceva pressioni. Attraverso questi programmi la missione venne «invasa» da tecnici sanitari che però non provavano alcun interesse per la causa indigena e nessuna comunione d’intenti con la chiesa e con l’equipe missionaria. A causa del cambio delle equipe di lavoro e del trasporto di indigeni in città triplicò il viavai sia per la strada (finché essa funzionò) che per via aerea. I gerenti di questo progetto, che stavano a Boa Vista, dialogavano poco con l’equipe e i missionari erano chiamati in causa per cose che non competevano loro o per le quali non erano preparati. I missionari stavano lì per la formazione sanitaria, l’istruzione, l’accompagnamento, per stabilire un dialogo interreligioso e interculturale con le comunità yanomami. Non erano lì per soddisfare le esigenze strutturali e logistiche del programma di governo e dei tecnici che si turnavano a brevi intervalli. L’equipe missionaria era vista come «manodopera a basso costo», e ovviamente questo causò molti conflitti, malessere nelle persone e di conseguenza nel lavoro missionario. Il denaro e le sue conseguenze Al primo incontro a cui partecipai alla missione rimasi scioccato. Alcuni giovani che erano stati preparati in microscopia e come agenti di salute e che fornivano un servizio gratuito alle loro comunità si confrontavano con i missionari affermando che, se non fossero stati pagati, non avrebbero più svolto questi servizi. Molto era stato investito nella loro preparazione e, soprattutto, sulla prospettiva della gratuità. Ma ora veniva prevista una remunerazione per questi giovani e in seguito essi avrebbero lavorato con un contratto formale. Più tardi lo stesso sarebbe accaduto con gli insegnanti. Il significato e il mutamento che i soldi nelle mani di questi giovani produssero furono (sono) molto profondi. Iniziarono a prendere il posto degli anziani nelle relazioni con i non indigeni e nel cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali della comunità (machete, asce, reti, nasse, tabacco, sale, ...); non era (è) più necessario essere un buon cacciatore, pescatore e raccoglitore per OTTOBRE 2015 MC 47 © Daniele Romeo / 2015 A sinistra: uno Yanomami, orgogliosamente impettito, con viso e corpo dipinti. Pagina seguente: molte donne yanomami si abbelliscono con tre «bastoncini» (spesso di banale paglia) infilati nel mento e uno trasversale nel naso. sposarsi, ma avere un salario. Non accettavano più di andare in città con gli stessi pantaloncini rossi, di serie, forniti dalla missione. Ora volevano comprare jeans e scarpe firmate. Con il denaro arrivò il motore di coda sulle barche che facilitava la vita sul fiume e permetteva di andare a pescare più lontano. Entrò il fucile a sostituire l’arco e le frecce3, le reti da pesca al posto dei metodi tradizionali. Strade, alcol e lavoro schiavo Il 31 dicembre 2002 ci fu l’ultimo viaggio lungo un tratto di strada che dalla missione proseguiva per 110 chilometri. Poi la foresta riprese il sopravvento. Lungo questo tratto c’erano almeno quattro villaggi (come le aldeias Ajarai I e II) che erano seguiti, se non in modo permanente, almeno quando i missionari in transito si fermavano per uno scambio e un accompagnamento. Con l’abbandono della strada divenne impossibile l’accompagnamento da Catrimani e d’altra parte non si riuscì a formare un gruppo permanente che potesse seguire quelle comunità. Esse così si avvicinarono al villaggio di Sao José e alla città di Caracaraí. Vari fazendeiros occuparono illegalmente la terra indigena. Per quelle comunità fu un periodo davvero disastroso. Si intensificarono le incursioni nei centri urbani e si moltiplicarono i problemi a causa dell’alcol che era venduto dai mercanti della regione e del lavoro semischiavo praticato nelle aziende agricole che erano sorte all’interno della terra indigena. Le «cose» come fattore disgregante Al centro della missione c’era una piccola casa che per lungo tempo servì come luogo di scambio con gli Yanomami. Artigianato e prodotti coltivati 48 MC OTTOBRE 2015 dagli Yanomami erano scambiati con manufatti dei missionari, ottenuti questi tramite la vendita di prodotti artigianali o come aiuti (avuti per i progetti o da amici e familiari). Questa piccola attività commerciale non era però del tutto benefica per la comunità influenzando i comportamenti di missionari e indigeni. La nuova conformazione della équipe della missione, la diminuzione dei progetti, il costo del viaggio aereo e gli scambi disparati ne causarono la cessazione. Poi il desiderio di comprare cose che non erano nelle opzioni della missione fece sì che gli indigeni scegliessero di acquistare i loro prodotti in città, pagando il trasporto. Sembra banale, ma questo fatto cambiò molto le relazioni tra gli indigeni, dato che alcuni avevano la possibilità di acquistare beni e distribuirli, mentre altri non potevano. Ma cambiò anche l’atteggiamento verso i membri dell’équipe missionaria. Il fattore economico era dunque divenuto il nuovo modo di «integrare gli indigeni nella società nazionale» dimenticando specificità e differenze. Pertanto, grandi, rapidi e profondi cambiamenti stavano avvenendo senza dare agli indigeni il tempo di discernere ciò che fosse meglio. Negli anni questa tendenza si è accentuata, con l’entrata di altri programmi del governo, in futuro i cambiamenti potrebbero essere ancora più grandi e probabilmente più disastrosi. Attrazioni fatali? Al termine dei primi 40 anni di missione tra gli Yanomami vedemmo come la città stesse incantando gli Yanomami. Oggi, dopo 50 anni, possiamo vedere come molti di essi vivono nei centri urbani, chiedono di studiare e laurearsi. La politica economica del paese sta costringendo allo spopolamento delle zone interne per fare spazio alla produzione di materie prime per l’esportazione. I popoli indigeni e le loro terre sono nel mirino di questa politica e il primo obiettivo è quello di smantellare i loro diritti costituzionalmente garantiti. Laurindo Lazzaretti NOTE (1) Su Laurindo Lazzaretti si legga: Paolo Moiola, La biodiversità è indigena, dossier MC, maggio 2015. (2) Oggi gli indigeni kaingang vivono in condizioni precarie in quattro stati brasiliani. Si stimano essere circa 32.000 persone. (3) Secondo le stime di padre Dalmonego, nelle comunità yanomami del Catrimani ci sarebbero una dozzina di fucili su una popolazione di circa 900 persone. DOSSIER MC L’INCONTRO Indigeni e mondo dei bianchi / 1 Esiste una strada per la convivenza? I n pochi anni, tra il ‘65 e il ‘68, i missionari della Consolata, anche grazie al nuovo metodo di approccio stimolato dal Concilio Vaticano II che li portò alla costituzione della prima equipe diocesana di pastorale indigena del Brasile, la Commissione Pro-Indio (Coprind), passarono dall’idea di integrazione a quella di avvicinamento graduale degli indios alla società bianca, incarnata dal progetto di «pacificazione» dei Waimiri Atroari. Nello stesso periodo, la Coprind elaborò anche un primo progetto di demarcazione di riserve indigene nell’area yanomami, che preludeva a quello di creazione del Parco Yanomami presentato dalla Ong Ccpy nel 1978 e poi ufficialmente approvato nel 1992. Per Sabatini, allora presidente della Coprind, quello fu il momento d’oro della Consolata a Roraima: la Missione Catrimani venne ampliata con l’invio di due giovani missionari, fratel Carlo Zacquini e padre Giovanni Saffirio e la Commissione avviò una collaborazione proficua con i vertici della Funai, il nuovo organo indigenista appena creato, che però sarebbe durata poco. La realizzazione della Perimetrale Nord, nel 1971, inaugurò l’invasione massiccia del territorio yanomami, aprendo la strada ai cercatori d’oro. L’ambiguità della Funai che soccorreva i superstiti senza cercare di impedire l’invasione (come poi avrebbe fatto nel caso dei WaimiriAtroari), sfociò in uno scontro aperto con la missione che durò vari anni. Malgrado le pressioni e le minacce della nuova presidenza della Funai, retta per più di un decennio dai militari, l’equipe del Catrimani rimase a fianco degli indios, stimolando il mantenimento delle istituzioni culturali indigene come la maloca e la pratica dello sciamanesimo, tanto che la Conferenza nazionale dei vescovi definì quella di Catrimani come «esperienza missionaria profetica» del Brasile. N ella storia della Missione Catrimani, padre Silvano Sabatini è stato un protagonista, pur non essendo stato uno specialista di cultura yanomami. Sin dai primi contatti con gli indios, le sue intuizioni sono state segnate da una grande libertà di pensiero e dalla capacità di sospendere il giudizio anche di fronte a pratiche facilmente condannabili - secondo il nostro sistema di valori - come l’infanticidio o la guerra, giungendo a conclusioni radicali e illuminanti per il modo in cui il missionario dovrebbe approcciare contesti culturali altri: «Non ha senso battezzare l’indio fuori dalla comunità… Il missionario deve “essere Cristo” invece di nominarlo…». Sabatini si è spinto anche oltre. Avventurandosi nel territorio caro agli antropologi, egli ha riconosciuto il ruolo fondamentale giocato dai leader indigeni (come Gabriel Macuxi e Davi Yanomami) come «mediatori dell’alterità», in quanto figure «di confine» in grado di tradurre la nostra cultura all’interno del proprio gruppo e di operare una rielaborazione della cultura indigena il più possibile rispondente alle esigenze dell’immaginario occidentale dominante, per renderla intellegibile all’esterno e «attuale», garantendole così il diritto di continuare a esistere. E ancora, Silvano Sabatini e la Missione Catrimani hanno dimostrato come solo la piena legittimazione dei valori delle culture altre possa oggi dare nuovo senso non solo alla pratica missionaria ma, più in generale, alla nostra stessa cultura occidentale, che ha bisogno, questa sì, di una «nuova evangelizzazione» se vuole gettare le basi per una convivenza pacifica con l’Altro. Silvia Zaccaria © Daniele Romeo / 2015 L a storia della Missione Catrimani può contribuire a gettare luce sulle vicende più recenti relative alla conquista dell’Amazzonia e sul modello di convivenza possibile tra indigeni e mondo dei bianchi. Ci ricorda, ad esempio, che i protagonisti dell’epopea della conquista furono uomini che inseguivano promesse ingannevoli, come quella contenuta nello slogan «terra senza gente, per gente senza terra!», dietro alla bandiera illusoria di un progresso che non sarebbe mai stato per loro. È a questi avventurieri che inizialmente si associarono i missionari per realizzare la propria opera in terra amazzonica, ovvero portare il Vangelo a popoli allora considerati selvaggi e senza Dio. Benché il suo territorio fosse stato raggiunto dalla «Commissione nazionale per l’ispezione delle frontiere» già nel 1927, nei primi anni ‘60, quando il desbravamento (colonizzazione) del Brasile centrale era già stato completato, Roraima ospitava ancora indios non contattati come i Vaikà (nome dispregiativo dato agli Yanam, sottogruppo yanomami). I missionari della Consolata, catapultati in quell’ambiente ostile e sconosciuto, non avevano altra scelta se non quella di mettersi al seguito degli «invasori»: come il cacciatore di pelli Joãozinho, che risalendo il rio Ajaraní, aveva «scoperto» gli Yanam e i raccoglitori di gomma che invitarono padre Bindo Meldolesi ad accompagnarli in un viaggio sul rio Catrimani dove avevano individuato gruppi di indios. Già nella spedizione successiva al Catrimani, organizzata dallo stesso Meldolesi e da padre Calleri nel 1965, i missionari rinunciarono ad appoggiarsi a intermediari «bianchi». Individuata la sede per la missione, i due padri iniziarono a preparare la pista di atterraggio, che sarebbe stata inaugurata nel 1967 con un volo dell’aereo della Diocesi di Roraima, avvenimento documentato fotograficamente da padre Silvano Sabatini, al tempo amministratore della Consolata in Brasile. INCONTRO CON CARLO ZACQUINI «IO SONO HOKOSI» DI DANIELE ROMEO Una vita trascorsa tra gli Yanomami, fratel Carlo Zacquini (Hokosi, per gli indigeni) racconta nascita, storia e problemi della Missione Catrimani. Con un’avvertenza finale: per gli indios i pericoli sono più che mai attuali. ncontro fratel Carlo Zacquini1 al Centro di documentazione indigena dei missionari della Consolata a BoaVista. Siamo in gennaio, piena estate a Roraima, e le giornate nella casa regionale dei missionari iniziano molto presto: celebrazione della messa, colazione e poi ognuno alle proprie mansioni quotidiane. Con fratel Carlo Zacquini trascorro due giorni nelle stanze che, in via provvisoria, racchiudono le testimonianze e i materiali raccolti da lui e da numerosi confratelli in cinque decenni di vita passata tra gli indigeni yanomami. Seduto davanti al suo computer, sul quale ha digitalizzato migliaia di immagini e documenti, mi racconta i primi anni della presenza dei missionari a Catrimani. © Daniele Romeo / 2015 I Anni Cinquanta: i primi viaggi «Padre Riccardo Silvestri è stato il primo missionario della Consolata ad avere contatti con gli Yanomami lungo il fiume Apiaú. Morì tragicamente nelle acque del Rio Branco nel 1957. Padre Bindo Meldolesi seguì le orme di Silvestri e fece parecchi viaggi verso il Rio Apiaú e il Rio Ajaraní. L’accesso era sempre fluviale, con un piccolo motore fuoribordo e i remi. Padre Meldolesi voleva fermarsi più a lungo e per questo cominciò subito a realizzare una piccola piantagione con a fianco una tettoia di foglie di palma. Qui coltivava alcune piante per poter alimentarsi: manioca, banani, papaya e trascorreva in foresta un paio di mesi per poi tornare a Boa Vista». 50 MC OTTOBRE 2015 DOSSIER MC Requisito essenziale: una pista di atterraggio Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che ho perso con gli anni», precisa con simpatica autoironia. Fu un momento sconvolgente per la sua vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di osservare cosa facessero e di comunicare con loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni». Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi organizzarono una spedizione per fondare una missione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una caratteristica fondamentale: essere raggiungibile da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide incontrate lungo il cammino, trovarono dei sentieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta per una pista di atterraggio, cominciarono ad abbattere la foresta per preparare il terreno. Lavorarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30. Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo2. «Quando arrivai a Catrimani - racconta fratel Carlo - padre Bindo aveva già costruito quasi tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però senza pareti e, quando pioveva, il vento portava acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato sicuro dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare animali». Pagina precedente: donne yanomami camminano nella foresta; escono dal villaggio per la raccolta di frutti, per la pesca nei fiumi o per la caccia (limitata ad alcuni tipi di animali). A destra: un’anziana yanomami saluta Hokosi alias Carlo Zacquini durante una recente visita a Catrimani. La lingua yanomae «Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami risultò molto complicato. A cominciare dalle difficoltà linguistiche. Appresi una cinquantina di parole da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola, veniva usata con significati diversi, a seconda del contesto». «Una volta andai dall’altra parte del fiume con uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Avevamo un cane con noi. A un certo momento notammo delle grosse impronte sul terreno. Non avevo alcuna idea a quale animale esse appartenessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva: “Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui: “Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con lo Yanomami. Io avevo con me una carabina calibro 22, mentre l’indio era disarmato». «Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale. Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare ci veniva incontro scodinzolando. Andammo avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un punto davanti a noi. In quel momento vidi un animale nero, fermo in una pozzanghera di un ruscello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’animale si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo tagliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uomini per prendere il resto. La caccia fortunata fu occasione per fare una festa con carne per tutti. E io scoprii anche il motivo delle incomprensioni linguistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in lingua yanomae, si chiama... chama!». © Daniele Romeo / 2015 «Quando tornava dopo qualche mese, la foresta aveva già invaso la piantagione, gli animali avevano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, riusciva ancora a trovare qualche banana o papaia. Doveva ricominciare quasi tutto da capo». «Questa modalità di presenza era proseguita per diversi anni senza passi decisivi: andando una o due volte all’anno per poche settimane era difficile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare molto duramente per avere qualcosa da mangiare e magari da offrire agli indios quando lo visitavano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che andare nei villaggi, perché questi erano lontani dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a causa della presenza degli insetti e di altri popoli indigeni che, in passato, occupavano le rive dei fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vicino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi di loro sapevano nuotare». L’INCONTRO © Daniele Romeo / 2015 Sopra: Pedro Yanomami, un anziano sciamano non vedente, tiene in braccio un neonato, suo nipotino. Pagina accanto: a riposo su un’amaca (oggi di cotone, in passato di corteccia o di liane). «Durante il mio primo mese a Catrimani andavo a cacciare o pescare quasi tutti i giorni. Dovevo provvedere la carne per i lavoratori e per quelli che venivano con me. Praticavo la caccia con la carabina, mentre si pescava in riva al fiume, ma era molto difficile senza barca. A dire il vero gli Yanomami ci vedevano con simpatia perché attraverso noi potevano ottenere manufatti a cui prima non avevano accesso: coltelli di acciaio, machete, scuri, ami, lenze, fiammiferi e altro ancora». Indios, «caboclos», «civilizados» «Nel 1975 arrivò un nuovo vescovo, dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, che conosceva poco la realtà locale, poiché proveniva dal Mozambico e non aveva alcuna esperienza di Brasile. All’inizio non riusciva a comprendere la situazione e noi missionari cercavamo di fare pressione su certe sue decisioni. Il vescovo insisteva sul dialogo, ma il potere locale non aveva nessuna intenzione di dialogare: il solo obiettivo era di continuare a lasciare immutata la situazione degli indigeni. Dopo circa due anni cominciò a partecipare ad alcune riunioni nei villaggi indigeni e ad ascoltare quello che gli indios dicevano. Cose che noi cercavamo di fargli capire da tempo. Allora si 52 MC OTTOBRE 2015 rese conto che veniva usato dal potere locale e cambiò il suo modo di agire prendendo decisioni coraggiose insieme a noi». «A Roraima, i gradini della “civiltà” erano sostanzialmente tre. Su quello più basso c’erano gli indios: erano quelli che non usavano vestiti e che vivevano nella foresta. Erano definiti “bravos” (selvaggi, insomma). Quelli della savana, che usavano qualche capo di vestiario e a volte parlavano un pò di portoghese, erano chiamati caboclos. Gli altri erano i civilizados. Questi ultimi facevano quello che volevano con modalità più o meno eleganti. Alcuni divennero poi nemici della Chiesa perché questa iniziò a prendere decisioni forti, arrivando a parlare in maniera chiara in difesa della causa indigena». «I civilizados facevano apparire il mondo indigeno come un’isola fortunata dove tutti stavano bene. In realtà gli indios e i caboclos non avevano alcun diritto. Varie volte ho visto giovani indigeni che lavoravano senza stipendio per il proprio padrone in cambio di cose di pochissimo valore o di bevande alcoliche. Gli indios erano completamente soggiogati, a tal punto che sovente i civilizados erano invitati a fare da padrini di battesimo. La cosa era andata avanti per generazioni e una parte degli indios si era abituata e difendeva gli invasori a tal punto che, quando ci fu la lotta vera per la definizione del territorio, una parte di loro era contraria. Ritenevano che, se gli invasori fossero andati via, gli indios sarebbero rimasti privi degli “aiuti” che costoro davano loro. Una volta parlai con un gruppo di Yanomami la cui terra era DOSSIER MC L’INCONTRO Indigeni e mondo dei bianchi / 2 Sopravviveranno alle contaminazioni? C’ è qualcosa di inevitabile nella distruzione delle società tribali? Quello che sta accadendo oggi nei territori Yanomami dell’Amazzonia brasiliana - furto delle terre, estrazione indiscriminata di minerali pregiati, sfruttamento selvaggio delle risorse idriche e della biodiversità - fa sorgere questa domanda. I governi brasiliani e gli amministratori locali di Roraima hanno sempre spiegato (e giustificato) questa situazione come una conseguenza secondaria dello sviluppo e del progresso. Quando, nel gennaio 2015, sono arrivato a Roraima e a Boa Vista, avevo una sorta di pregiudizio che considerava l’estinzione degli Yanomami come una condizione tragica ma inevitabile. In effetti, una lotta impari sta portando gli Yanomami a modificare rapidamente la loro esistenza, passando da un isolamento millenario a indossare i nostri abiti, acquistare telefoni di ultima generazione, guardare la tv satellitare nel mezzo alla foresta. Si tratta di un processo di implosione e di «evoluzione sociale» inconsapevole, incontrollato e forse oscuramente «pilotato»-, che sta modificando e distruggendo tradizioni e abitudini di vita. L a terra è da sempre il cuore del conflitto e dello sterminio del popolo yanomami che, fino a qualche generazione fa, conosceva la nostra esistenza solo grazie ai contatti con i missionari. Uno di loro, tra i pochi superstiti di una generazione probabilmente eroica, è fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata. Da quasi 50 anni Carlo vive a contatto con la realtà indigena e per questo era la miglior guida possibile nell’area del Catrimani. Lungo i percorsi fluviali, durante gli spostamenti tra i villaggi e durante le serate trascorse insieme sotto la tettoia della missione, ho ascoltato dalla sua voce racconti emozionanti di anni vissuti tra gli indigeni, dai primi contatti fino alla costruzione e allo sviluppo della missione. Attraverso i suoi racconti ho ripercorso la storia degli ultimi anni degli indios del Ca- trimani, le leggende, gli aneddoti, le tradizioni, le difficoltà incontrate e i momenti difficili. Fratel Carlo rappresenta un parte importante della memoria storica degli ultimi decenni del popolo yanomami del Brasile. Un testimone vivente la cui esistenza è stata dedicata alla causa indigena. Parte del lavoro suo e di altri missionari è raccolto e custodito in maniera precaria a Boa Vista. Due piccole stanze - soggette alle intemperie e sotto la minaccia costante dell’umidità e delle termiti - raccolgono anni di immagini, giornali, carteggi, libri, testimonianze, oggetti della cultura yanomami. Un patrimonio inestimabile che, con fatica, fratel Carlo cerca di difendere, preservare e accrescere. Nella speranza che possa diventare un giorno un punto di riferimento per gli indigeni, i giovani missionari, gli studiosi, i ricercatori e la gente comune. I l mio timore di una lenta contaminazione degli Yanomami ha trovato riscontri concreti durante la mia pur breve permanenza tra loro: operatori dei punti di salute disinteressati alla causa, strutture di supporto e personale inadeguato. Tuttavia, l’aver visto le loro vite integrate con i ritmi della foresta e fatte di straordinaria umanità, mi ha anche aperto la strada verso una più ampia visione del futuro: lottare per la causa Yanomami dando supporto a quanti di loro, attraverso il principio di autodeterminazione e autodocumentazione, si stanno attivando per sensibilizzare altri Yanomami e per cercare di essere preparati ad affrontare le sfide portate dall’invasione occidentale. Di certo, sono molte le domande senza risposta. Cosa sarà degli Yanomami (come di molti altri popoli indigeni del mondo) in un futuro nemmeno tanto lontano? Cosa possiamo fare noi per contribuire alla loro lotta? Quanti sono a conoscenza della loro esistenza, dei drammi e dei pericoli per la loro stessa sopravvivenza? Da ultimo, cosa sarà delle testimonianze e dei materiali raccolti e custoditi dai missionari? Daniele Romeo stata invasa da fazendeiros e, mentre spiegavo loro che i bianchi non avevano diritto di rimanere nella loro terra, dicevano che andando via loro avrebbero fatto la fame. “Chi ci darà il riso?”, domandavano. I fazendeiros davano loro riso in cambio di lavoro e servizi. Non si rendevano conto che in passato non avevano mai avuto bisogno del riso. Soltanto col tempo esso era diventato una necessità». La devastante corsa all’oro «Quel che andava per la maggiore, a Roraima, erano i giacimenti di diamanti nelle regioni della savana o di montagna abitate da altri indios. C’erano molte leggende sul fatto che le persone più ricche e più importanti fossero quelle che commerciavano in pietre preziose. Si parlava molto di un tale che aveva un piatto pieno di diamanti sul tavolo da pranzo… Non so cosa ne facesse, ma immagino che li usasse per pavoneggiarsi. Successivamente i diamanti iniziarono a passare in secondo piano, sia perché l’oro cominciò ad avere un prezzo più conveniente sia perché furono scoperti © Daniele Romeo / 2015 OTTOBRE 2015 MC 53 molti giacimenti auriferi». «Nell’area degli Yanomami i primi giacimenti furono trovati nei primi anni Settanta. Negli anni Ottanta i cercatori d’oro furono facilitati da un programma finanziato dal governo brasiliano che voleva avere una mappatura e un controllo del territorio amazzonico al Nord del Rio delle Amazzoni e del Rio Solimões. Si trattava del progetto “Calha Norte”. Un progetto che stava molto a cuore ai militari, che infatti arrivarono in gran numero». «Nel 1987 ci fu una vera e propria invasione di cercatori d’oro. La Funai pensò bene di cacciare via i missionari e l’equipe medica che svolgeva azioni di medicina preventiva, lasciando gli Yanomami totalmente in balia di questi cercatori che provo- carono livelli di mortalità altissima a causa delle malattie da loro portate. Fu un genocidio». «Nel 1988 i missionari ritornarono alla Missione Catrimani, sistemarono le strutture danneggiate e fecero ripartire le attività di appoggio cercando di utilizzare uno schema diverso perché la realtà era cambiata molto nel frattempo. Iniziarono ad aiutare gli Yanomami nell’organizzazione di assemblee indigene, a preparare corsi scolastici per portare i propri giovani ad avere conoscenze sufficienti per non essere annientati dai bianchi. I leader yanomami volevano che i giovani imparassero a leggere e scrivere non per diventare bianchi, ma per difendersi dai bianchi che, ormai lo avevano capito, erano molto pericolosi per loro». Il Comitato Roraima (Co.Ro.) «Nada se compara a Catrimani» D Un medico torinese e un gruppo di volontari, innamorati della realtà indigena brasiliana, hanno fondato un comitato che da anni opera per appoggiare indigeni e missionari. urante l’anno Santo del 2000, con la mia famiglia e alcuni amici decidemmo di andare in Brasile, nello stato di Roraima, alla ricerca di padre Silvano Sabatini, un amico missionario che da un po’ di tempo non dava più notizie. Era infatti nascosto perché minacciato di morte, da quando, due anni prima, era uscito il suo libro Massacre, con nomi e testimonianze precise che inchiodavano gli autori del massacro della spedizione in cui fu ucciso padre Calleri (esponenti militari, compagnie minerarie, sette nordamericane). «Padres ladroes e viados» Giunti a Boa Vista, capitale di Roraima, subito respirammo il pesante clima di persecuzione nei confronti della Chiesa. La città era tappezzata di manifesti del governo di Roraima e di associazioni di commercianti e agricoltori che attaccavano i missionari per la loro lotta in difesa degli indios: «Una diocesi deve catechizzare e non interessarsi delle terre indigene!»; «La diocesi è nociva alla società di Roraima». Sui muri vistose scritte: «Padres ladroes e viados!», «Padres corruptos!» Al mattino seguente i missionari ci svegliarono dicendo che c’'era la possibilità per una persona di raggiungere con un piccolo aereo la missione Yanomami di Catrimani, in foresta, dove gli indios avrebbero tenuto una riunione sui problemi sanitari. Ma le speranze appena accese si spensero presto: la piccola pista di atterraggio di Catrimani era allagata e tale sarebbe rimasta per tutta la settimana. Catrimani divenne per noi un mito, una sorta di irraggiungibile Eldorado: tanto più che Carlos, il simpatico factotum della missione, che con un fuoristrada ci accompagnava nei nostri spostamenti, continuava a martellarci, di fronte al nostro stupore per la bellezza della savana o dei grandi fiumi, che comunque «Nada se compara a Catrimani», «Nulla è paragonabile a Catrimani». Il mio contatto con Catrimani avvenne l’anno dopo, ac- 54 MC OTTOBRE 2015 compagnato da fratel Carlo Zacquini: portavo con me due giornalisti di Famiglia Cristiana perché documentassero le vessazioni a cui gli Yanomami erano (e sono) sottoposti. Restammo conquistati dall’affetto con cui fratel Carlo, uno dei primi missionari che avevano «scoperto» gli Yanomami, era accolto dagli indigeni, che facevano a gara per abbracciarlo, stringerlo a sé con le lacrime agli occhi per la gioia e la riconoscenza. Fratel Carlo aveva vissuto con gli Yanomami lunghi periodi in solitudine, indio tra gli indios, incurante dei pericoli, del clima umidissimo, di scorpioni, serpenti, giaguari e dei terribili «piun» (le micidiali piccolissime zanzare), della fame, delle malattie (quante volte ha avuto la malaria, e alcune volte anche il coma malarico). E davvero constatai che «nada se compara a Catrimani». Nulla è paragonabile per il fascino della foresta amazzonica, la bellezza del fiume Catrimani, i meravigliosi pappa- DOSSIER MC Anno 2015: ancora invasioni Nel 1992, anche grazie al lavoro dei missionari della Consolata, la terra yanomami viene ufficialmente riconosciuta e protetta. Si tratta però di una protezione più teorica che reale. «Ancora nel 2015 - conclude con evidente rammarico fratel Carlo3 - centinaia o forse migliaia di cercatori d’oro continuano a invadere illegalmente il territorio indigeno, a distruggere la natura, a contaminarne l’acqua con il mercurio, a causare epidemie e danni irreparabili alla cultura yanomami». Daniele Romeo L’INCONTRO NOTE (1) Su Carlo Zacquini si legga anche: Paolo Moiola, Il bianco che si fece Yanomami, MC, ottobre 2013. (2) Sulla scelta del luogo e sulla costruzione della pista di atterraggio si legga: Bindo Meldonesi, Il campo è pronto!, MC, luglio-agosto 1966. (3) La conversazione di queste pagine è tratta dall’intervista inserita nel documentario sulla Missione Catrimani realizzato da Daniele Romeo e Yuri Lavecchia. Il trailer è visibile sul sito: www.tribeslife.org. Sotto: tre piccoli yanomami davanti alla «yano» (la maloca). galli multicolori che volteggiavano attorno alla missione, l’imponente tucano, i voraci piranha pescati dagli indigeni insieme agli enormi «pesce gatto», l’anaconda, fortunatamente «piccola», che aveva dilaniato la gamba di un giovane yanomami, le cui ferite riuscii a suturare alla meglio poco prima della mia partenza, i canti degli uccelli, le urla delle scimmie. «Nada se compara a Catrimani» per l’incontro con gli indigeni, che ci accolsero con calore misto a curiosità, e che per noi organizzarono una festa con canti e danze, e l’immancabile frullato di banane. Il sonno della prima notte fu interrotto da urla disperate di uno Yanomami che gridava: «È morto mio figlio! È morto mio figlio!». Quando accorremmo, scoprimmo che gli era morto... il cane, considerato però come un membro della famiglia. In quei giorni ricordo i bambini che si affollavano intorno a me perché fischiettavo bene, cosa che loro non sanno fare. E ancora la paura di quando, uscito con un gruppo di indios a caccia nella foresta, mi attardai un attimo per fare una fotografia e mi ritrovai sperduto tra alberi altissimi, assolutamente incapace di orientarmi: mi misi allora a gridare e altre grida indigene mi indicarono il cammino. Rammento gli sciamani che prima che sorga l’alba, nel tepore dei fuochi della maloca, raccontano i miti della tribù e ricordano a © Daniele Romeo / 2015 tutti che, se gli Yanomami smettessero di sostenere con la loro preghiera la volta del cielo, questa si schianterebbe sulla terra. La giovane mamma yanomami affetta da mastite che rifiutava la terapia antibiotica da me proposta, perché voleva una mastectomia, confusa notizia arrivatale chissà come dal mondo dei bianchi. E la pazienza di fratel Carlo che si accovacciò accanto a lei (all’uso indigeno), abbracciandola e convincendola, attraverso un lungo colloquio, ad accettare la mia cura, che risolse poi il problema con due sole iniezioni intramuscolo. Nascita e attività del Co.Ro. Dopo il viaggio del 2000, dall’indignazione per l’etnocidio in atto e dall’ammirazione per il lavoro dei missionari, nacque il Co.Ro. Onlus, Comitato Roraima di solidarietà con i popoli indigeni del Brasile. Oltre a interventi per altre popolazioni indigene di Roraima (Macuxi, Wapichana, Tuarepang, tra le principali), per la missione di Catrimani il Comitato ha reso possibili numerosi progetti come: la ristrutturazione delle strutture adibite ad accoglienza, ambulatorio e scuola; la fornitura di barche per raggiungere le maloche più distanti lungo il fiume Catrimani; l’impianto di pannelli solari che oggi forniscono energia per le attività sanitarie ed educative; la formazione degli agenti indigeni di sanità; la organizzazione di incontri formativi per i leaders delle 24 comunità che afferiscono alla missione; la preparazione di incontri dei tuxaua (capi) per partecipare ad eventi internazionali in difesa degli indios e sulla possibilità di un’agricoltura ecologica e sostenibile; il mantenimento di un prezioso collaboratore laico, indispensabile motorista, meccanico, carpentiere; il progetto di documentazione audiovisiva sulla storia della missione e sulle sfide affrontate dagli Yanomami. Infine, una curiosità. Non poche difficoltà sorsero tra noi quando ci fu proposto di sostenere un corso di formazione per gli sciamani. Alla fine le perplessità furono superate: i missionari ci aiutarono a comprendere che gli sciamani erano (e sono) insostituibili custodi della tradizione e della spiritualità yanomami. Catrimani: una missione estrema, con missionari che incarnano concretamente una Chiesa che sta con gli ultimi o, come dice papa Francesco, «con gli scarti, alla periferia del mondo». Carlo Miglietta OTTOBRE 2015 MC 55 Cronologia (essenziale) 1929 - 1930 - Una spedizione raggiunge il fiume Catrimani e incontra un gruppo di Yanomami. Ne fa parte il benedettino Alcuino Meyer. 1948 - I missionari della Consolata arrivano a Roraima in sostituzione dei Benedettini. 1953 - Primo viaggio di padre Riccardo Silvestri (Imc) tra gli indios isolati del fiume Apiaú. 1960 - Primo viaggio di Bindo Meldolesi (Imc) tra gli indios del fiume Apiaú. 1965, ottobre - I padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri fondano la missione sulla sponda sinistra del fiume Catrimani. 1966, marzo - Il primo aereo Cesna 170 atterra sulla pista della missione, appena terminata. 1967, dicembre - Viene creata la Funai (Fundação Nacional do Índio) in sostituzione dello Spi (Serviço de Proteção aos Índios). 1968, gennaio - All’equipe missionaria di Catrimani si aggrega fratel Carlo Zacquini. 1968, novembre - Massacro della spedizione di padre Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri-Atroaris. 1972 - Viene fondato il Conselho indigenista missionario (Cimi), un’organizzazione che si rivelerà fondamentale per la difesa dei popoli indigeni del Brasile. 1974 - Inizia la costruzione della Perimetral Norte (Br210). Prime invasioni di lavoratori e macchine. Si lavorerà per poco più di tre anni. Poi il progetto verrà sospeso per mancanza di fondi. 1974 - Prima epidemia di morbillo. 1977 - Seconda epidemia di morbillo. 1987, agosto - I missionari sono espulsi dalla Missione Catrimani. Vi torneranno soltanto un anno e mezzo più tardi (novembre 1988). 1988, ottobre - Viene emanata la nuova Costituzione brasiliana contenente anche il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni. 1989, marzo - I missionari iniziano il progetto di etnoalfabetizzazione. 1992, maggio - Esce il decreto presidenziale con il quale viene finalmente omologata la Terra indigena yanomami. 2015, agosto - Cinque anni dopo la sua uscita in Francia, anche in Brasile, esce la biografia di Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni leader riconosciuto degli Yanomami. (a cura di Paolo Moiola) © AfMC / Silvano Sabatini 56 MC OTTOBRE 2015 In basso: indios con padre Meldolesi. Pagina seguente, in alto: una struttura della Missione Catrimani (con il logo); in basso, Davi Kopenawa, sciamano yanomami, sfoglia la copia di Missioni Consolata (del novembre 2014) con l’articolo a lui dedicato. Copertina finale del dossier: donne yanomami nella foresta. Breve glossario yanomami Urihi - Terra-foresta. Per gli Yanomami la foresta è viva, popolata da un’infinità di esseri viventi: umani, animali, spiriti ecc. Yano - La casa comunitaria, una costruzione circolare unica, di pali e paglia, condivisa fra i parenti. Possiede al centro un’area destinata alle funzioni rituali e socio-politiche, e non esistono pareti divisorie che separino gli spazi occupati dalle diverse famiglie. È l’ambito privilegiato delle relazioni sociali, ma anche metafora del cosmo. Spesso è chiamata «maloca», che però è un termine tupí-guarani. hUtUkana - La piantagione dove sono coltivati prevalentemente banani, piante di manioca, canna da zucchero, papaie, tabacco, cotone, piante curative e magiche ecc. Wakatha U - Nome yanomami di una specie di armadillo e, con l’aggiunta del suffisso «u», del fiume Catrimani, sulla cui sponda sinistra, all’altezza della rapida del Cujubim, è stata fondata la Missione Catrimani. XapUri - Il termine si riferisce sia agli spiriti ausiliari invocati durante le sessioni sciamaniche che agli sciamani stessi che viaggiano nel tempo e nello spazio, visitando altre dimensioni. napë - In contesti diversi, assume significati differenti: puó indicare un nemico, ma anche uno straniero, un non-Yanomami o un bianco. Plurale: napëpë. XaWara - Epidemia. Per gli Yanomami le gravi epidemie che hanno decimato la popolazione a partire dal contatto con i bianchi sono attribuite ai fumi prodotti dalle sostanze e dai macchinari usati dai bianchi e dai cercatori d’oro in particolare. Xori - Cognato. La relazione fra due cognati promuove alleanza, amicizia e facilità di scambio. Sin dal principio, i missionari sono stati classificati con questo termine. nohimaYoU - La parola «nohi» significa amico. Il verbo nohimayou si riferisce all’abilità di suscitare nell’altra persona un sentimento di amicizia. Gli Yanomami usano quest’espressione per descrivere anche l’atteggiamento dei missionari del Catrimani. Garimpeiros (port.) - Cercatori d’oro che invadono illegalmente la Terra indigena. Gli Yanomami li denominano anche con i termini: «napë wareri pë», spiriti pecari stranieri, o «urihi wapo pë», mangiatori di terra, poiché devastano il suolo e scavano buche per estrarre i minerali. (a cura di Corrado Dalmonego) DOSSIER MC L’INCONTRO GLI AUTORI • Stefano Camerlengo - Superiore generale dei missionari della Consolata. • Corrado Dalmonego - Missionario della Consolata, dal 2002 al A CATRIMANI © Daniele Romeo / 2015 • I missionari della Consolata (dall’ottobre 1965): Bindo Meldolesi, Giovanni Calleri, Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Guglielmo Damioli, Tullio Martinelli, Silvano Sabatini, Adalberto Lopes Buriticá, Laurindo Lazzaretti, Gianfranco Graziola, Francesco Bruno, Antonio Costardi, Ch. Gitari Denis Mwenda, Carlos Eduardo Alarcon Mesa, Andrés Ribeiro, Corrado Dalmonego*, Rosalino Dall’Agnese*. • Le missionarie della Consolata (dal marzo 1990): Auristela Stinghen, Clotildes Orso, Maria da Silva Ferriera, Florênça Lindey Águida (diocesana), Rosa Aurea Longo, Severa Riva, Felicita Muthoni, Blanca Yolanda Mancera Lombata, Noeli Domingos Bueno, José Iris Dos Santos, Mary Agnes Njeri Mwangi, Felicidade Maria D. Lurdes, Noemi del Valle Mamani, Geltrudes Dolsan*, Inés Arciniegas Tasco*. (*) Presenza attuale (settembre 2015). BIBLIOGRAFIA (ESSENZIALE) • Ernesta Cerulli - Silvano Sabatini (a cura di), Il ventre dell’Universo, Sellerio Editore, Palermo 1986. • Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968 (non tradotto in italiano). • Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, Il Saggiatore, Milano 2014. • Guglielmo Damioli - Giovanni Saffirio, Yanomami, indios dell’Amazzonia, Edizioni il Capitello, Torino 1996. • Achille da Ros - Silvano Sabatini (a cura di), Ritorno alla maloca. Autobiografia di un indio makuxí, Emi, Bologna 1972. • Davi Kopenawa - Bruce Albert, A queda do céu. Palavras de um xamá yanomami, Companhia das Letras, agosto 2015. • Aldo Mongiano, Roraima. Tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010. • Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apiaú, Torino 1967. • Silvano Sabatini - Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011. 2003 è stato a Catrimani. Dopo gli studi a São Paulo, nel 2008 è rientrato nella équipe di Catrimani. Negli ultimi anni ha perfezionato nelle università brasiliane le conoscenze antropologiche apprese sul campo. • Guglielmo Damioli - Ha lavorato alla Missione Catrimani dal 1981 al 2000. Lasciata Catrimani, con Rosi Soares, missionaria laica, si è stabilito nella cittadina di Bujaru, sulle rive del Rio Guamá, davanti alla città di Belém (Pará). La coppia lavora con un’associazione di piccoli agricoltori, cercando di coniugare sviluppo sociale e economico con la preservazione dell’Amazzonia. Nel 2014 un loro progetto ha vinto il «Premio Odm Brasil». • Laurindo Lazzaretti - Brasiliano, è stato nella Missione Catrimani per dieci anni (2001-2011). Oggi, assieme alla moglie Gilmara, antropologa, lavora per il Conselho indigenista missionário (Cimi) tra i popoli indigeni della Vale do Javari. • Carlo Miglietta (Co.Ro.) - Medico (internista e geriatra), è un noto biblista. Ha pubblicato una decina di libri. Nel 1970 ha fondato il Gruppo missionario giovanile (Gmg) e dal 2000 è segretario del Co.Ro., la onlus di solidarietà con i popoli indigeni brasiliani. Si è recato più volte a Roraima. • Daniele Romeo - Fotoreporter, è stato a Catrimani nel gennaio 2015 con il videomaker Yuri Lavecchia. Da quel viaggio è nato un documentario su Catrimani (www.tribeslife.org) e una mostra fotografica (www.yanomami.org). • Silvia Zaccaria - Antropologa, ha scritto numerosi libri, alcuni in collaborazione con padre Silvano Sabatini. • Paolo Moiola - Giornalista, è redattore MC. È stato a Roraima nel 2014. PER CHI VOGLIA CONTRIBUIRE • Tramite Missioni Consolata Onlus (info a pag. 83), specificando la causale: «Missione Catrimani» (referente: Corrado Dalmonego) e/o «Centro di documentazione indigena» di Boa Vista (referente: Carlo Zacquini). • Missioni Consolata e archivio fotografico: la rivista ha pubblicato parecchie decine di articoli sugli Yanomami. Una parte di essi sono reperibili anche sul sito. L’archivio fotografico (AfMC) che si sta (faticosamente) digitalizzando raccoglie immagini di grande valore storico e antropologico. SITOGRAFIA (ESSENZIALE) • pib.socioambiental.org • www.cimi.org.br • www.rivistamissioniconsolata.it • www.survival.it © Daniele Romeo / 2015 © Daniele Romeo / 2015 MISSÃO 50 anos 1965-2015 OSSIER FINE TurchIA di ENRICO CASALE GLI INTeressI DI IsTAMbuL IN AfrIcA e MeDIO OrIeNTe IL RITORNO DELL’ IMPERO? «N eottomanesimo», così è definito il recente fenomeno dell’inedito protagonismo della Turchia in politica estera. A partire dagli inizi degli anni Duemila, infatti, Ankara ha iniziato a tessere intensi rapporti politici, economici e culturali in aree in cui non era presente (a volte neanche con propri diplomatici). Questa espansione ha ricordato a molti la vasta influenza che l’impero ottomano esercitò nei secoli passati nei suoi domini non solo in Asia centrale e in Medio Oriente, ma anche in Africa. Alcuni analisti vi hanno scorto una volontà di dominio regionale, altri l’hanno letta come una necessità economica, altri ancora come un modo per esportare l’islam. Ma di che cosa si tratta realmente? E quali effetti ha avuto? Origini e fondamenti La nuova politica economica turca nasce nel 2002 quando Ahmet Davutoğlu, fino ad allora, un anonimo professore dell’Università di Beykent a Istanbul, dà alle stampe un corposo volume dal titolo «Profondità strategica». Il volume teorizza un allargamento degli orizzonti della politica estera turca verso altre regioni sulla base degli interessi economici e strategici di Ankara. È una © AFP / Aykut Unlupinar La Turchia ha intrapreso un allargamento dei propri orizzonti. In particolare ha espanso la sua influenza in Medio Oriente e Africa. Non senza intrecci con le primavere arabe. Per interessi economici, religiosi o puramente geopolitici? OTTOBRE 2015 MC 59 TURCHIA © AFP / Orhan Karsli condo meeting Turchia - Africa, a Malabo, Guinea Equatoriale, 21/9/14. # A destra: il presidente Erdogan con Hassan Sheikh Mohamud, presidente della Somalia, a Mogadiscio, 25/1/15. # Sotto: visitatori al meeting Turchia Africa di Malabo. # Pagina seguente: viaggio inaugurale della Turkish Airlines a Mogadiscio, prima compagnia non africana a tornare in Somalia, 6/4/12. © AFP \ Mohamed Abdiwhab # Pagina precedente: Erdogan al se- nuova visione del ruolo della Turchia nel mondo che stravolge gli schemi adottati fino ad allora dai politici della penisola anatolica. «A partire da Mustafa Kemal Atatürk - spiega Eugenio Dacrema, esperto di politica mediorientale, ricercatore presso l’Università di Trento -, la classe politica turca ha sempre guardato Stati Uniti, Europa e Nato come uniche sponde di interesse. I rapporti con i vicini sono stati per molto tempo conflittuali, quando non erano un ignorarsi a vicenda. Con il nuovo trend dettato dall’opera di Davutoğlu, la visione si amplia. La Turchia dovrebbe diventare un nuovo attore egemo- 60 MC OTTOBRE 2015 nico in una regione più vasta e, pur non tagliando i rapporti con Europa e Usa, le relazioni con l’Occidente dovrebbero passare in secondo piano. Le direttrici dell’espansione della Turchia quindi si indirizzano verso l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa (soprattutto il Nord Africa). Davutoğlu viene progressivamente coinvolto in questa politica. Da semplice teorizzatore, ne diventa protagonista, prima come ministro degli Esteri e poi come premier (carica che ricopre attualmente). Così, le sue tesi diventano la dottrina ufficiale dell’Akp, il partito al governo, e del suo leader Recep Tayyip Erdoğan». Quello della Turchia è un espansionismo prevalentemente economico e politico. I politici di Ankara non hanno mai accennato a un ruolo delle forze armate in questa strategia. Ma ciò è comprensibile, se si considerano le cattive relazioni tra l’Akp e le forze armate turche, depositarie dell’eredità laica di Atatürk. Molto di questo entusiasmo deriva dal successo economico degli anni Duemila quando la Turchia sembrava essere in grado di attrarre nella sua sfera i paesi del Medio Oriente e di trasformarli in mercati per i propri prodotti. «In realtà - aggiunge Dacrema -, l’economia turca si è rivelata molto fragile. Il sistema si è basato sul credito facile volto al consumo e su un’industria nascente, ma che produce beni di basso valore aggiunto, che fanno fatica a competere sui medio-alti livelli tecnologici. Ciò ha aumentato la ricchezza, ma si è trattato di una bolla. La Turchia ha vissuto la stessa crisi della Grecia ed è rimasta a galla solo perché ha potuto svalutare la moneta (40% nell’ultimo anno)». Ma per tutti gli anni Duemila, è l’economia a far da traino alla politica estera turca. In questo senso va letta la creazione di accordi di libero scambio con i paesi limitrofi (Libano, Siria e Giordania) accompagnati dalla liberalizzazione dei visti. Così come l’intesa con • Geopolitica | Economia | Africa | Ong • MC ARTICOLI Relazioni tra Somalia e Turchia: ne parla monsignor Giorgio Bertin Amici nei secoli uello tra Somalia e Turchia è un rapporto che affonda le radici nei secoli. A partire dal XVI e fino al XIX secolo l’Impero Ottomano corse più volte in soccorso dei somali, in particolare per contrastare le mire egemoniche del Portogallo e, poi, quelle del Regno Unito. Ma è nel 2011 che questo rapporto antico riprende vita. In quell’anno, la Somalia vive una violenta crisi umanitaria che ucciderà 260 mila persone falciate dalla carestia e dalla guerra civile. Il paese del Corno d’Africa è allo stremo e le immagini di quella tragedia arrivano in Turchia. L’allora premier Recep Tayyip Erdogan (oggi presidente) ne rimane colpito e, nell’agosto di quell’anno, decide di recarsi a Mogadiscio. Sarà il primo capo di stato non africano a visitare il paese dal 1991, cioè dalla destituzione del presidente Siad Barre. Da allora il rapporto tra i due paesi si fa sempre più stretto. La Turchia sostiene il Governo di transizione guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud e si offre di ricostruire alcune infrastrutture andate distrutte durante il conflitto: l’aeroporto e il porto di Mogadiscio, un ospedale, una moschea, campi per i rifugiati, reti di acqua potabile e servizi di raccolta rifiuti. Riorganizza alcune scuole e offre borse di studio nelle università turche. Riapre anche l’ambasciata a Mogadiscio e la Turkish Airlines inaugura una linea diretta Istanbul-Mogadiscio. Ma quanto è avvertita questa presenza turca in Somalia? Ne abbiamo parlato con mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, profondo conoscitore della Somalia. «L’influenza turca in Somalia - spiega - è forte. Per accorgersene è sufficiente atterrare all’aeroporto dove non solo si è accolti da un nuovo terminal costruito dai turchi, ma l’intero scalo passeggeri è di- Q l’Iran che, per anni, diventa un partner strategico per Ankara. Le Primavere arabe Sarebbe limitante, però, vedere il «Neottomanesimo» solo in chiave economica. La nuova politica turca si è nutrita anche di una visione politica che si è rivelata «attraente» per molti paesi arabi. Da anni, la Turchia si presenta come un paese musulmano nel quale un partito islamico governa secondo i principi della democrazia. Questa impostazione è diventata un modello di riferimento per quelle nazioni che, uscite retto proprio dai turchi attraverso personale turco e somalo. In città poi alcune strade sono state rifatte da imprese di Ankara. Il vecchio ospedale Degfer è stato completamente ricostruito con fondi turchi. Si potrebbe continuare... ». Quella turca è un’influenza solo politica ed economica? «Certamente è influenza politica ed economica, ma anche culturale. Le borse di studio offerte a somali e gibutini avranno un grande peso nella formazione delle future classi dirigenti somale». Quale ruolo gioca la comune fede nell’islam sunnita? «Questi crescenti rapporti tra Turchia e Somalia sono rafforzati anche dall’islam sunnita che entrambi professano. L’islam resta un canale privilegiato che la Turchia utilizza, forse anche alla ricerca di un nuovo modello che ricalchi l’influenza dell’antico Impero Ottomano». Anche a Gibuti si avverte questa presenza turca? «Sì, anche a Gibuti l’influenza turca è in crescita: da più di un anno c’è una ambasciata, borse di studio sono offerte ai giovani gibutini, imprese turche sono all’opera in diverse parti del paese (per esempio una di esse ha rifatto la strada del Gran Barrà, circa 30 km). Prodotti turchi si trovano nel mercato locale. Nel cuore della città di Gibuti è in costruzione un centro culturale e religioso. L’attenzione verso Gibuti è dimostrata anche dalla recente visita di Erdogan che è stato ricevuto dal presidente gibutino Ismail Omar Guelleh». Enrico Casale dalle rivolte arabe, stavano cercando nuovi assetti politico costituzionali. «Va detto - osserva Valeria Talbot, ricercatrice dell’Ispi, esperta in Medio Oriente e Nord Africa - che i rapporti politici con i paesi del Medio Oriente e il Nord Africa hanno subìto diverse fasi. Dopo la Primavera araba, la Turchia era certamente un modello politico da imitare. Il successo delle visite di Erdoğan in Egitto e di Davutoğlu in Tunisia ne sono la dimostrazione più lampante. La successiva apertura alla Fratellanza musulmana ha però creato tensioni con i paesi del Golfo e con lo stesso Egitto. Solo da qualche mese i rapporti con Riad sono nuovamente migliorati e si sono registrate convergenze sul dossier siriano». È proprio in questo legame con la Fratellanza che molti hanno visto il limite della politica del presidente turco. «Erdoğan cercava di prendere sotto la propria protezione la Fratellanza musulmana internazionale - osserva Dacrema -. Voleva diventare cioè un modello per gli altri paesi. Un progetto ostacolato tanto dalla Fratellanza egiziana, che da sempre ha un ruolo di guida dell’organizOTTOBRE 2015 MC 61 zazione, sia dalla tunisina Ennahda che, nonostante la buona accoglienza dei politici turchi, si è sempre dimostrata piuttosto fredda rispetto all’idea di una guida turca della Fratellanza. Qui giocano anche un po’ i rapporti non sempre facili tra il mondo turco e quello arabo. È un po’ come se la Cdu/Csu tedesca in passato avesse voluto imporre un suo ruolo guida ai partiti democristiani europei: i valori in comune c’erano, ma poi ogni Dc ha sempre lavorato in modo autonomo nel suo paese». A ciò si è aggiunto un sostanziale fallimento della penetrazione economica nel Nord Africa e in Medio Oriente. Inizialmente pareva che la Turchia potesse rubare il mercato agli imprenditori occidentali. In realtà, non è avvenuto. Le imprese turche sono di piccole dimensioni e realizzano beni con basso valore aggiunto. Questo, insieme alla scarsa conoscenza delle dinamiche economiche dei paesi arabi, ha fatto sì che la Turchia non sia riuscita a scardinare i decennali rapporti che le aziende europee intrattenevano con i sistemi locali. E, complice la crisi globale che ha interessato anche il sistema economico turco, la penetrazione sui mercati arabi è sostanzialmente fallita. L’Africa a portata di mano La Turchia però è andata al di là del Medio Oriente e del Nord Africa, spingendosi anche nell’Africa subsahariana. «Il dinamismo 62 MC OTTOBRE 2015 © AFP / Phil Moore TURCHIA turco nell’Africa subsahariana osservano Marco Cardoni e Andrea Marino, due funzionari diplomatici del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, in una recente analisi pubblicata per l’Ispi - si caratterizza per un approccio multidimensionale che si concretizza in un intenso sforzo diplomatico senza precedenti. Ankara ha proceduto ad ampliare la rete diplomatica, aprendo 19 ambasciate in Africa dal maggio 2009 al 2014. Oggi in tutto il continente ne possiede 35, di cui 30 nella regione subsahariana». La rete diplomatica ha supportato anche un impegno crescente negli investimenti diretti e, in particolar modo, nel campo della cooperazione allo sviluppo. «I numeri parlano chiaro - sostengono Cardoni e Marino -: il totale degli aiuti nella regione, sommando quelli governativi a quelli delle Ong, è passato dai 28 milioni di dollari nel 2006 ai 425 nel 2011». In questo settore il punto di riferimento è l’Agenzia ministeriale per la cooperazione e lo sviluppo che opera in 37 paesi africani e ha tre sedi: Addis Abeba, Dakar e Khartoum. Ciò ha comportato un impegno nella costruzione o ricostruzione di infrastrutture (porti, aeroporti, strade, scuole, ospedali), ma anche un’assistenza capillare attraverso la cooperazione e il volontariato. L’impegno turco però non si è realizzato solo attraverso il rafforzamento dei rapporti bilaterali, ma anche mediante una sempre più ampia partecipazione a missioni internazionali. Attualmente, Ankara partecipa a cinque missioni di pace nel Continente: Monusco nella Repubblica Democratica del Congo, Unamid in Darfur (Sudan), Unmiss nel Sud Sudan, Unoci in Costa d’Avorio e Unmil in Liberia. Due simboli della penetrazione turca sono le Turkish Airlines e Hizmet, il movimento fondato dal predicatore musulmano Fethullah Gülen. Le linee aeree hanno aperto numerose rotte verso l’Africa. Oggi la Turkish ha 39 destinazioni in 26 paesi tra i quali quelli più importanti politicamente e interessanti sotto il profilo economico: Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Ruanda, Nigeria. Ma anche destinazioni non coperte da nessun vettore non africano come la Somalia e l’Eritrea. L’organizzazione di Gülen, che vanta più di 10 milioni di seguaci e ha creato un impero mediatico e culturale, pur non essendo sempre in sintonia con l’Akp ha aperto una rete di scuole in Africa che hanno contribuito ad avvicinare la società africana a quella turca. Non solo ma ha favorito l’incontro tra imprenditori africani e turchi. Tutti questi fattori hanno portato a un forte incremento dell’interscambio commerciale (dai 742 milioni di dollari del 2000 ai 7 miliardi nel 2013) e a un aumento dell’influenza politica (libera da fardelli coloniali che appesantiscono i concorrenti). Ma questa influenza è destinata a durare? «Oggi l’Africa concede molti spazi alla Turchia - concludono Cardoni e Marino -, ma Pechino, Washington e Bruxelles hanno dalla loro la possibilità di far valere sul medio-lungo periodo una dimensione economica complessiva maggiore». Enrico Casale COREA DEL SUD Testo di DIEGO CAZZOLATO Foto di MArCOS COELhO L o scorso 20 giugno, anche noi qui in Corea abbiamo celebrato solennemente la festa della nostra Conso- lata. La pioggia cadeva a dirotto quel giorno, ma in realtà è stata una vera e propria benedizione perché da oltre un mese il paese stava soffrendo una siccità terribile, che ha già distrutto molte coltivazioni e non ha nemmeno permesso a molti contadini di piantare il riso. Inoltre pensavamo che la paura del Mers (Middle East respiratory syndrome), del virus che ha contagiato molte persone, uccidendone quasi 30, e costringendone migliaia a sottostare alla quarantena, frenasse la gente dal partecipare. Invece, all’ora stabilita, alle 15, ci siamo ritrovati 200 persone nel salone sotterraneo della nostra casa centrale di Yokkok. La festa della nostra tenerissima Madre è sempre una bella festa, con la gente che partecipa attenta e commossa. Ma quest’anno c’era un motivo particolare che ha colpito ancor di più l’attenzione dei nostri amici e fedeli coreani: lo «svelamento» e la benedizione di un nuovo quadro della Consolata, dipinto in perfetto stile coreano. I nostri amici e fedeli coreani, al vedere il nuovo quadro, sono tutti usciti in un grande «oh!» di meraviglia, e davvero a loro piace molto: ce lo hanno detto in tutti i modi possibili. • Consolata | Missione | Arte | Inculturazione • MC ARTICOLI LA CONSOLATA SI È FATTA COREANA Un po’ di storia Fin dall’inizio della nostra presenza in Corea, ci siamo prodigati per fare conoscere la nostra Consolata, quella originale, intendo. Poi, dopo diversi anni, ha cominciato a far capolino in comunità l’idea di averne, prima o poi, una versione «coreana». Si era fatto allora qualche timido tentativo, ma senza grandi risultati. Qualche anno fa, in un’altra festa della Consolata, avevamo addirittura lanciato una campagna di brain storming tra i nostri amici, affinché ci dessero idee e suggerimenti su come sarebbe dovuta essere la versione coreana della Consolata, ma anche in quell’occasione i risultati erano stati piut- OTTOBRE 2015 MC 63 COREA DEL SUD tosto scarsi. La cosa, poco a poco, era finita nel serbatoio dei «sogni irrealizzati». Fino all’anno scorso, quando il nostro missionario coreano Han Pedro, durante un’eucaristia celebrata in uno dei santuari dei Martiri a Seoul, ha avuto la buona sorte di conoscere personalmente la signora Shim Sunhwa Caterina: pittrice il cui nome è già molto noto nel paese e la cui arte molto apprezzata nella Chiesa cattolica. Da quell’incontro provvidenziale e dal susseguente rapporto di amicizia che ne è nato, il nostro desiderio di avere una Consolata coreana ha ripreso forza e vigore. Abbiamo così chiesto alla signora Caterina se poteva cimentarsi nell’impresa. E ha detto di sì. Hanno fatto seguito vari incontri, tra Caterina, padre Han Pedro e il nostro superiore padre Pedro Louro, per presentare e far apprezzare all’artista il quadro della Consolata nei suoi dettagli, e per rivedere e correggere diverse volte, poi, le bozze di dipinto che la signora Caterina andava presentando. Nel frattempo, altri tasselli del mosaico sono andati provvidenzialmente al loro posto: per esempio una corposa donazione 64 MC OTTOBRE 2015 da parte di una coppia di amici, e la riflessione in comunità su come fare, una volta che fosse stato pronto il nuovo quadro, per intronizzarlo solennemente all’entrata della casa di Yokkok, e per la riproduzione dell’immagine in vari formati e materiali. Alla fine siamo arrivati alla bozza che ci soddisfaceva, e l’artista si è messa d’impegno a «scrivere» l’icona della Consolata nella sua versione coreana. Le parole dell’autrice «Ho cercato di immergermi nei simboli dell’immagine della Madre Consolata, e ho cercato di esprimere la stessa simbologia con lo stile proprio delle immagini coreane. Il volto della Vergine l’ho reso con i lineamenti teneri e leggermente arrotondati dei volti coreani, mentre lo sguardo dolce della madre si fissa sul figlio Gesù. I capelli di Maria Consolata stretti da una bella spilla tradizionale, dal colore oro, indicano in lei la Madre celeste. Il colore del vestito tradizionale coreano della Santissima Madre, salvando il senso simbolico della santità, è di un azzurro oceano profondo, mentre la sua verginità è resa dalle parti in rosso. Il riflesso dorato dell’anello esprime la sua fedeltà eterna, mentre la pietra di giada simboleggia la sua maternità. Gesù è stato rappresentato in atteggiamento regale, simboleggiato dalla tunica verde che ricopre l’indumento intimo e viene coperta a sua volta da un mantello rosso. Un cordoncino tradizionale rosso ne completa l’abbigliamento». A mo’ di conclusione I missionari della Consolata sono arrivati in Corea ben 27 anni fa, nel 1988. Abbiamo potuto sperimentare sulla nostra carne come i tempi per ogni cosa, in Corea, dall’imparare la lingua, all’assuefarsi a cibo e cultura, sono molto lunghi. Anche i tempi per «mettere radici» in Corea, dunque, sono stati molto lunghi. Ma, con l’aiuto della grazia del Signore, crediamo proprio di averle messe, e abbastanza profonde. Il quadro della Consolata «coreana» ne diventa per noi un po’ il simbolo e una bella evidenza. Dopo tanti anni in Corea, finalmente la Consolata è diventata pienamente coreana. Ora tocca alla Corea raccoglierne il messaggio, e l’invito a diventare sempre più «missionaria». Diego Cazzolato Cooperando... www.missioniconsolataonlus.it MCO Fondazione Missioni Consolata Onlus Testo di Chiara Giovetti TTIP «C SOGNO O INCUBO ? on il Ttip vogliamo aiutare i cittadini e le imprese, grandi e piccole, attraverso le seguenti azioni: apertura degli Usa alle imprese dell’Ue; riduzione degli oneri amministrativi per le imprese esportatrici; definizione di norme per rendere più agevole ed equo esportare, importare e investire». Così la Commissione Europea, nella guida Il Ttip visto da vicino, riassume gli obiettivi dell’accordo che dal 2013 è oggetto delle negoziazioni fra la stessa Commissione e il governo statunitense. Si tratterebbe, in sostanza, non solo di eliminare i dazi doganali, che peraltro sono già molto ridotti (circa al 3%) per la maggior parte dei beni, ma soprattutto di ridurre le cosiddette barriere non tariffarie, cioè tutto quell’insieme di norme, standard e regolamenti che di fatto impediscono l’ingresso delle merci in un mercato. Ma la riduzione di tali barriere avrebbe conseguenze devastanti, controbattono i detrattori del Ttip. Un esempio? È grazie agli standard Ue, più elevati rispetto a quelli Usa, che la carne dei bovini americani, allevati con ormoni, non ha potuto, fino a ora, arrivare sulle tavole europee. Tale uso, infatti, è consentito negli Usa e vietato in Europa. Lo stesso vale poi per gli organismi geneticamente modificati e per i prodotti alimentari trattati con pesticidi banditi nel vecchio continente ma non negli Stati Uniti (se ne contano ben 82). Altro tema caldo del trattato è il meccanismo di arbitrato internazionale per risolvere eventuali controversie in materia di investimenti, il cosiddetto Isds, Investor-State Dispute Settlement, che prevede il ricorso a un tribunale indipendente nel quale gli arbitri - si legge sul sito del Parlamento europeo - non sono giudici a tempo pieno, ma avvocati © European Union 2015 - source EP Qualcuno ne parla come di una «Nato economica», pensata per rafforzare le relazioni commerciali nel blocco Usa-Ue, che da solo conta 850 milioni di persone e rappresenta il 40% del Pil mondiale. Altri lo dipingono come il peggiore dei mali: consegnerebbe le nostre economie alle multinazionali e cancellerebbe anni di lotte per i diritti di consumatori e lavoratori. A che punto siamo e che cosa sappiamo sul Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Cooperando… Tutto in gran segreto Prima ancora che il Ttip nei suoi contenuti, comunque, a scatenare la polemica è stata la segretezza delle trattative, affidate a un gruppo di negoziatori guidati, per l’Ue, dallo spagnolo Ignacio Garcia Bercero, capo della Direzione Generale del Commercio e, per gli Stati Uniti, da Dan Mullaney, rappresentante commerciale aggiunto degli Usa per l’Europa e il Medio Oriente. Dal luglio 2013 al luglio 2015 si sono svolti dieci round di negoziati, ma i dettagli dell’accordo sono rimasti per lo più segreti. In più, quando la Commissione ha deciso, lo scorso gennaio, di rendere pubblica una parte dei documenti, lo ha fatto in modo ambiguo: lo scorso agosto, infatti, il giornale britannico The Independent, rivelava che ai parlamentari europei è possibile prendere visione dei documenti riservati solo in un’apposita sala di lettura sorvegliata, alla quale non si può accedere con dispositivi elettronici come cellulari e tablet. La vicenda ha anche assunto contorni da spy story quando Wikileaks ha messo una sorta di taglia sul Ttip, lanciando una raccolta fondi per centomila euro da consegnare come premio a chi sia in grado di fornire informazioni e documenti segreti riguardanti i negoziati. Il dato certo, per il momento, è che c’è un vero e proprio abisso fra gli scenari inquietanti di «macdonaldizzazione» dell’Europa tratteggiati dai movimenti contrari, come la campagna Stop-Ttip, e le rassicuranti e un po’ asettiche infografiche della Commissione europea che cercano di smontare i «falsi miti sul trattato». I numeri del Ttip Secondo uno studio indipendente citato dalla Commissione, il Ttip dovrebbe portare un incremento annuo di 120 miliardi di euro all’economia europea e di 95 miliardi a quella statunitense entro il 2027, facendo espandere di mezzo punto percentuale il Pil del vecchio continente e dello 0,4% quello a stelle e strisce. Per le famiglie europee tutto questo si tradurrebbe in un guadagno di cinquecento euro all’anno. Le esportazioni dall’Europa agli Usa aumenterebbero di quasi un terzo per un totale di 187 miliardi di euro. I benefici, continua lo studio, interesserebbero quasi tutti i beni e servizi, ma toccherebbero in particolare i settori del metallo, dei cibi lavorati, dei prodotti chimici, e dei mezzi e attrezzature di trasporto. A vivere un vero e proprio boom sarebbe il settore automobilistico: l’export di veicoli europei crescerebbe infatti del 149%. Si creerebbero quindi decine di migliaia di nuovi posti di lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico, e le ricadute sul commercio planetario indurrebbero un incremento del Pil mondiale di ulteriori cento milioni di euro. Un’occasione da non perdere, insistono i promotori dell’accordo, forti dei numeri riportati nello studio. Che cosa dicono i critici Lo studio citato dalla Commissione è tutto meno che indipendente, oppongono i detrattori: il # Pagina precedente: europarlamentari contrari al trattato. In queste pagine e seguente: manifestazioni in varie città europee contro il Ttip. © http //stop-ttip-italia.net/ specializzati in diritto commerciale. Per capire come funziona in concreto l’Isds, basti pensare ai due casi «Vattenfall contro Germania». Nel primo caso, la Vattenfall, azienda svedese del settore energetico e costruttrice della centrale a carbone di Amburgo, fece ricorso contro i parametri che la città tedesca nel 2009 voleva imporre per legge allo scopo di migliorare la qualità delle acque che la centrale a carbone della compagnia svedese riversava nel fiume Elba. Nel secondo caso, il ricorso della Vattenfall fu invece contro l’abbandono del nucleare deciso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel 2011 dopo il disastro di Fukushima: l’azienda svedese gestiva infatti due centrali atomiche nel Nord del paese. In entrambi i casi il colosso svedese sostenne che le decisioni tedesche generavano aumenti dei costi o perdite, in violazione del Trattato energetico europeo, che protegge gli investimenti nel settore energetico, e chiese compensazioni per 1,4 miliardi di Euro nel primo caso e per 3,7 nel secondo. • Trattati | Economia | Commercio | Relazioni internazionali • MC RUBRICHE suo autore è, infatti, il britannico Cepr, Centre for Economic Policy Research, che dedica una pagina del suo sito web ai ringraziamenti nei confronti dei suoi finanziatori, fra i quali figurano tutte le banche centrali europee e i colossi bancari mondiali, da Citibank e JP Morgan alle italiane Intesa San Paolo e Unicredit. E questo è ancora il meno: la Commissione, infatti, sostiene che a beneficiare del Ttip saranno in primis i cittadini europei, ma allora - si chiede il centro di ricerca canadese Global Research - perché nei 597 incontri a porte chiuse con le parti interessate, la Commissione si è confrontata nell’88% dei casi con i lobbisti del mondo del business, e solo nel 9% dei casi con gruppi che si occupano di temi di pubblico interesse come l’ambiente o i diritti dei consumatori e dei lavoratori? E, se il Ttip ha come obiettivo di aiutare «le imprese, grandi e piccole», perché la Direzione generale Ue del Commercio, fra il 2012 e il 2014 - cioè nelle fasi preparatorie e nei primi cicli di negoziati - ha avuto la stragrande maggioranza degli incontri con sei raggruppamenti di lobby fra cui Efpia (European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations - Federazione europea di Industrie e associazioni farmaceutiche), che rappresenta, fra gli altri, GlaxoSmithKline, Pfizer, Novartis, Sanofi e Roche, e FoodDrinkEurope, il più grande gruppo di pressione dell’industria alimentare europea, che dà voce agli interessi di Nestlé, Coca Cola e Unilever? Dal canto loro, le associazioni di categoria come l’Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie imprese (Uapme) - di cui fanno parte, ad esempio, Confartigianato e Cna - vedono di buon occhio il trattato ma insistono sulla necessità di salvaguardare gli standard di qualità europei e di essere maggiormente coinvolte nel processo negoziale. I segnali preoccupanti riguardanti il grande peso dei poteri forti, in effetti, non mancano, se è vero come riporta il quotidiano inglese The Guardian - che all’inizio di quest’anno alcuni alti funzionari Ue avrebbero insabbiato uno studio che avrebbe contribuito a identificare e mettere al bando trentuno pesticidi contenenti sostanze che alterano la funzionalità del sistema endocrino. L’insabbiamento sarebbe avvenuto in seguito a pressioni esercitate da funzionari del commercio statunitensi, e anche da colossi della chimica come Bayer e Basf. Questo nonostante diversi studi scientifici associno le sostanze contenute in quei pesticidi a un aumento delle mutazioni genitali, dell’infertilità maschile, delle anomalie del feto e della riduzione del quoziente intellettivo, e stimino in 150 miliardi di euro i costi sanitari connessi ai danni provocati. Le raccomandazioni del Parlamento europeo In questa ridda di voci, fughe di notizie, smentite e precisazioni, un punto fermo che chiarisce almeno un po’ che cosa c’è sui tavoli negoziali, è la risoluzione © Jess Hurd/NoTT P © http://ttip2015.eu/blog-detail/blog/-73.html adottata lo scorso 8 luglio dal Parlamento europeo. Essa contiene una serie di raccomandazioni, tra cui una riguardante il meccanismo dell’arbitrato internazionale che propone un sistema alternativo nel quale «i possibili casi siano trattati in modo trasparente da giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti durante udienze pubbliche». Vi è poi la richiesta dell’europarlamento ai negoziatori di escludere dal trattato ambiti nei quali le legislazioni Ue e Usa sono molto diverse: «I servizi sanitari pubblici, gli Ogm, l’impiego di ormoni nel settore bovino, il regolamento Reach [relativo alle sostanze chimiche, ndr] e la sua attuazione, e la clonazione degli animali a scopo di allevamento». Altre raccomandazioni riguardano la protezione dei dati personali dei cittadini europei, la tutela delle indicazioni geografiche, la garanzia della tracciabilità ed etichettatura, il rispetto della normativa sul lavoro. I critici del Ttip hanno accolto con disappunto anche questa risoluzione perché colpevole, a loro dire, di essere troppo vaga e di costituire di fatto un avallo al trattato. «Se il Ttip sarà un accordo misto (cioè con competenze condivise fra Unione europea e Stati membri, ndr)», ha dichiarato il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, «e ne sono certo, i Parlamenti nazionali e quello europeo dovranno sottoporlo ad atOTTOBRE 2015 MC 67 Cooperando… ULRIKE SCHMIDT / CAMPACT - Namensnennung - keine kommerzielle Nutzung tenta verifica, secondo il proprio ordinamento». Il commissario europeo per il commercio, Cecilia Malmström, ha affermato che l’impegno è quello di concludere entro il 2015: l’anno prossimo infatti terminerà il secondo mandato di Barack Obama e gli Stati Uniti avranno una nuova amministrazione che potrebbe ridefinire le priorità statunitensi. In più Washington sta negoziando anche un secondo trattato, il Tpp, con undici Stati del Pacifico. I risvolti per i paesi in via di sviluppo Gli analisti concordano nel dire che attualmente è ancora presto per immaginare quali potranno essere le ripercussioni dell’eventuale accordo Usa-Ue per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, alcune considerazioni preliminari sono emerse, anche di segno positivo: ad esempio quelle che sottolineano come l’esistenza di un blocco nordatlantico con regole unificate permetterebbe ai produttori dei paesi terzi di adeguare i loro prodotti a un solo standard per l’esportazione verso Europa e Stati Uniti, e non più a due, con un possibile calo dei costi di produzione. Ma c’è anche chi è più cauto e invita a fare studi più approfonditi: lo scorso febbraio, la commissione sviluppo del Parlamento europeo chiedeva ai negoziatori di Bruxelles di considerare il rischio di una «possibile deviazione degli scambi e degli investimenti per alcuni paesi in via di sviluppo». Il direttore di Oxfam Germania, Marion Lieser, chiarisce il punto: «Se l’Unione europea e gli Stati Uniti aprono ulteriormente i loro mercati, le importazioni da paesi terzi, fra cui quelli in via di sviluppo, potrebbero diminuire. Prendiamo il caso della Florida, stato della costa orientale statunitense produttore di frutta esotica: se aumentasse il flusso di questi prodotti dalla Florida verso l’Europa è ai lettori e amici che hanno firmato il 68 MC OTTOBRE 2015 Per l’approfondimento: Alberto Zoratti - Monica Di Sisto Marco Bersani, Nelle mani dei mercanti, Perché il TTIP va fermato, Emi, Bologna 2015. plausibile che simili frutti provenienti dai paesi in via di sviluppo perdano parte della loro quota di mercato». Solo a negoziati conclusi sarà possibile azzardare previsioni più precise. Chiara Giovetti AMICO.RIV NICONSOLA TA.IT H .04 \\ 69 EDITORIALE \\ 70 VOCE DI PIETRO \\ 72 BIBBIA ON THE ROAD \\ 74 PROGETTO MESSICO \\ 76 AMICOMONDO ai lottato con tutte le tue forze e risorse. Non eri solo, ma non avevi con te niente che ti desse sicurezza, nessun rifugio, nessuna ricetta magica. Eri esposto alla contingenza vertiginosa della vita, all’assenza di garanzia. Hai scacciato demoni di ogni tipo: strambi, spaventosi, insensati. Hai unto di olio molti infermi, e li guarivi con lo stupore di avere ricevuto davvero potere sugli spiriti immondi. Hai incontrato molti che desideravano rinascere, e molti altri che invece rifiutavano (cfr. Mc 6, 7-13.30-34). Hai fatto molto, e vorresti fare ancora. Ma vieni ora. Vieni con me. In disparte, in un luogo deserto. Riposati un po’. Qui non hai più nemmeno il tempo per nutrirti, per introdurre in te la luce necessaria a trovare la guarigione che vi ho posto. Vieni in un luogo solitario. Sali su questa piccola barca, e attraversiamo le acque profonde del tuo mare solcandone con calma la superficie. Non temere: questo pezzo di legno, per quanto precario, ti proteggerà dall’abisso, perché Io sono con te. Tu starai con me e potrai osservare su quali creature splendide e lucenti sei sospeso, ma anche su quali mostri spaventosi e su quale mistero irriducibile ti muovi. Lo so che tu desideri arrivare dall’altra parte e trovare riposo sull’altra sponda, distante da queste acque. Temi di venirne inghiottito, di perderti in esse. Ma non puoi riposare di là: appena sbarcato troverai molte cose nuove da fare. Molte pecore senza pastore. Troverai innumerevoli incrinature nell’architettura del mondo che ti chiederanno di essere accolte, un po’ raddrizzate forse, giusto il minimo per evitare il crollo dell’edificio, ma tant’è: sarai di nuovo preso dalla lotta. Lo so che vorresti attraversare il mare in fretta, ma il tuo deserto e il tuo riposo non sono là. È qua, su questa barchetta al pelo dell’acqua, il deserto. È in quel «vieni», in quello «stai con me», il tuo riposo. Quando sbarcheremo, allora sarai pronto per «dare loro da mangiare». Buon mese missionario da amico. Luca Lorusso INDICE Caro amico ISTAMISSIO Chiamati a vivere di missione Voce di Pietro C ari fratelli e sorelle, la Giornata Missionaria Mondiale 2015 avviene sullo sfondo dell’Anno della Vita Consacrata [...]. Infatti, se ogni battezzato è chiamato a rendere testimonianza al Signore Gesù annunciando la fede ricevuta in dono, questo vale in modo particolare per la persona consacrata [...]. La sequela di Gesù, che ha determinato il sorgere della vita consacrata nella Chiesa, risponde alla chiamata a prendere la croce e andare dietro a Lui, ad imitare la sua dedicazione al Padre e i suoi gesti di servizio e di amore, a perdere la vita per ritrovarla. E poiché tutta l’esistenza di Cristo ha carattere missionario, gli uoIl Messaggio del Santo Padre Francesco per l’89^ Giornata Missionaria Mondiale, che si celebra domenica 18 ottobre 2015. Leonora Giovanazzi/Flickr.com di Papa Francesco mini e le donne che lo seguono più da vicino assumono pienamente questo medesimo carattere. La dimensione missionaria, appartenendo alla natura stessa della Chiesa, è intrinseca anche ad ogni forma di vita consacrata, e non può essere trascurata senza lasciare un vuoto che sfigura il carisma. La missione [...] fa parte della «grammatica» della fede, è qualcosa di imprescindibile per chi si pone in ascolto della voce dello Spirito che sussurra «vieni» e «vai». Chi segue Cristo non può che diventare missionario, e sa che Gesù «cammina con lui, parla con lui, respira con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario» (EG, 266). a missione è passione per Gesù Cristo e nello stesso tempo è passione per la gente. Quando sostiamo in preghiera davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo la grandezza del suo amore che ci dà dignità e ci sostiene; e nello stesso momento percepiamo che quell’amore che parte dal suo cuore trafitto si estende a tutto il popolo di Dio e all’umanità intera; e proprio così sentiamo anche che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più L I O ricambiarti (cfr. Lc 14,13-14) [...] (EG, 48). Ciò dev’essere chiaro specialmente alle persone che abbracciano la vita consacrata missionaria: con il voto di povertà si sceglie di seguire Cristo in questa sua preferenza, non ideologicamente, ma come Lui identificandosi con i poveri, vivendo come loro nella precarietà dell’esistenza quotidiana e nella rinuncia all’esercizio di ogni potere per diventare fratelli e sorelle degli ultimi, portando loro la testimonianza della gioia del Vangelo e l’espressione della carità di Dio. er vivere la testimonianza cristiana e i segni dell’amore del Padre tra i piccoli e i poveri, i consacrati sono chiamati a promuovere nel servizio della missione la presenza dei fedeli laici. Già il Concilio Ecumenico Vaticano II affermava: «I laici cooperino all’opera evangelizzatrice della Chiesa, partecipando come testimoni e come vivi strumenti della sua missione salvifica» (AG, 41). È necessario che i consacrati missionari si aprano sempre più coraggiosamente nei confronti di quanti sono disposti a collaborare con loro, anche per un tempo limitato, per un’esperienza sul campo. Sono fratelli e sorelle che desiderano condividere la vocazione missionaria insita nel Battesimo [...]. Le Istituzioni e le Opere missionarie della Chiesa [...] hanno bisogno dei carismi e dell’impegno missionario dei consacrati, ma anche i consacrati hanno bisogno di una struttura di servizio, espressione della sollecitudine del Vescovo di Roma per garantire la koinonia, così che la collaborazione e la sinergia siano parte integrante della testimonianza missionaria. Gesù ha posto l’unità dei discepoli come condizione perché il mondo creda (cfr. Gv 17,21) [...]. L’Opera Missionaria del Successore di Pietro ha un orizzonte apostolico universale. Per questo ha bisogno anche dei tanti carismi della vita consacrata [...]. ari fratelli e sorelle, la passione del missionario è il Vangelo. San Paolo poteva affermare: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). Il Vangelo è sorgente di gioia, di liberazione e di salvezza per ogni uomo. [...] La missione dei servitori della Parola – vescovi, sacerdoti, religiosi e laici – è quella di mettere tutti, nessuno escluso, in rapporto personale con Cristo. Nell’immenso campo dell’azione missionaria della Chiesa, ogni battezzato è chiamato a vivere al meglio il suo impegno, secondo la sua personale situazione. [...]. entre affido a Maria, Madre della Chiesa e modello di missionarietà, tutti coloro che, ad gentes o nel proprio territorio, in ogni stato di vita cooperano all’annuncio del Vangelo, di cuore invio a ciascuno la Benedizione Apostolica. Dal Vaticano, 24 maggio 2015 Solennità di Pentecoste Francesco P C M OTTOBRE 2015 amico 71 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT vicino al suo popolo amato (EG, 268) e a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Nel comando di Gesù: «andate» sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa. In essa tutti sono chiamati ad annunciare il Vangelo con la testimonianza della vita [...]. l cinquantesimo anniversario del Decreto conciliare Ad gentes ci invita a rileggere e meditare questo documento che suscitò un forte slancio missionario negli Istituti di vita consacrata. Nelle comunità contemplative riprese luce ed eloquenza la figura di santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni, quale ispiratrice dell’intimo legame della vita contemplativa con la missione. Per molte congregazioni religiose di vita attiva l’anelito missionario scaturito dal Concilio Vaticano II si attuò con una straordinaria apertura alla missione ad gentes, spesso accompagnata dall’accoglienza di fratelli e sorelle provenienti dalle terre e dalle culture incontrate nell’evangelizzazione, tanto che oggi si può parlare di una diffusa interculturalità nella vita consacrata. Proprio per questo è urgente riproporre l’ideale della missione nel suo centro: Gesù Cristo, e nella sua esigenza: il dono totale di sé all’annuncio del Vangelo. Non vi possono essere compromessi su questo: chi, con la grazia di Dio, accoglie la missione, è chiamato a vivere di missione. Per queste persone, l’annuncio di Cristo, nelle molteplici periferie del mondo, diventa il modo di vivere la sequela di Lui e ricompensa di tante fatiche e privazioni. [...] Mi rivolgo soprattutto ai giovani [...]: non lasciatevi rubare il sogno di una missione vera, di una sequela di Gesù che implichi il dono totale di sé. Nel segreto della vostra coscienza, domandatevi quale sia la ragione per cui avete scelto la vita religiosa missionaria e misurate la disponibilità ad accettarla per quello che è: un dono d’amore al servizio dell’annuncio del Vangelo, ricordando che, prima di essere un bisogno per coloro che non lo conoscono, l’annuncio del Vangelo è una necessità per chi ama il Maestro. ggi, la missione è posta di fronte alla sfida di rispettare il bisogno di tutti i popoli di ripartire dalle proprie radici e di salvaguardare i valori delle rispettive culture. Si tratta di conoscere e rispettare altre tradizioni e sistemi filosofici e riconoscere ad ogni popolo e cultura il diritto di farsi aiutare dalla propria tradizione nell’intelligenza del mistero di Dio e nell’accoglienza del Vangelo di Gesù, che è luce per le culture e forza trasformante delle medesime. All’interno di questa complessa dinamica, ci poniamo l’interrogativo: «Chi sono i destinatari privilegiati dell’annuncio evangelico?». La risposta è chiara e la troviamo nel Vangelo stesso: i poveri, i piccoli e gli infermi, coloro che sono spesso disprezzati e dimenticati, coloro che non hanno da purolipan/Flickr.com Bibbia on the road Gesù propone una revisione cristologica della cultura e delle tradizioni dei singoli e di ciascun popolo. Il contrasto con le autorità religiose del suo tempo mostra tutta la difficoltà di accogliere la nuova prospettiva. di Antonio Magnante La Parola che supera le tradizioni D opo Nicodemo e la Samaritana, parliamo ora delle autorità giudaiche e della loro reazione all’insegnamento di Gesù, sempre secondo il Vangelo di Giovanni. LA LEGGE AL SERVIZIO DEL SALVATORE Nel Giudaismo l’insegnamento era intimamente connesso alla Legge, che si riteneva dettata direttamente da Dio. I maestri di Israele avevano il solo compito di far conoscere quanto Dio stesso aveva rivelato a Mosè allo scopo di favorire le relazioni tra gli individui e Dio e tra i singoli e il loro prossimo. Nella comunità di Qumran, che viveva nei pressi del Mar Morto, il maestro di giustizia aveva il compito di svelare le cose nascoste nella Legge. Di conseguenza egli era totalmente al suo servizio. Anche Gesù come i farisei e i rabbini vede nella Legge la rivelazione della volontà di Dio, 72 amico OTTOBRE 2015 ma rifiuta, a differenza loro, di considerarla come una realtà assoluta. Per lui anche la Legge deve essere al servizio della sua missione di inviato del Padre: con la sua venuta la Legge perde centralità. Il nuovo centro della rivelazione è Gesù stesso. Mentre i rabbini del suo tempo insegnano che la Legge va studiata e osservata, Gesù insegna che va ascoltata e osservata la sua Parola, quale realizzazione della Legge. D’ora in poi l’accesso alla volontà del Padre si ottiene non con la Legge, ma con la Parola di Gesù. Egli cambia la funzione della Legge e la sostituisce con la sua persona. Nel Vangelo di Giovanni l’insegnamento di Gesù è menzionato nel contesto della festa dei Tabernacoli (Gv 7-8) e consiste fondamentalmente in una autorivelazione. Mentre Gesù rivela se stesso, rivela il Padre. Non vi è dubbio che in questo Vangelo «insegnare» e «par- lare» siano verbi di rivelazione. Nella maggior parte dei casi, il loro oggetto è la stessa persona di Gesù, il quale non intende spiegare la Legge, tanto meno rivelarne i risvolti sconosciuti. Un’altra annotazione di rilievo è che nel quarto Vangelo Gesù insegna esclusivamente nel tempio (Gv 7,14-35; 8,20.28) o nella sinagoga. Gesù sceglie il tempio perché proprio in esso gli scribi si radunano per discutere le problematiche della Legge. Quando al capitolo 7,14 l’evangelista dice che Gesù sale al tempio, molto probabilmente intende dire che Gesù si pone sullo stesso piano degli scribi, e come loro impartisce il suo insegnamento. UN’IMPRESA DIFFICILE La reazione alla Parola di Gesù è violenta. Le autorità non accettano la sua dottrina, la ritengono fuorviante. Per loro Gesù è un falso profeta e addirittura segnato» riguardo le cose del Padre portando una nuova rivelazione, che non si trova nella Legge di Mosè. Coloro che vogliono credere in lui devono avere il coraggio di considerare la Legge, e tutte le tradizioni antiche, al servizio della nuova rivelazione. OLTRE CULTURE E TRADIZIONI L’evento Cristo supera culture e tradizioni e impone una scelta radicale: o con lui o contro di lui. Ciò che appartiene alla nostra storia personale deve essere solo ed esclusivamente al servizio della nuova rivelazione. Né la Legge di Mosè né le differenti culture e tradizioni dei vari popoli possono avere un posto d’onore nella vita dei credenti. Tale posto spetta solo a Cristo, il Verbo Incarnato. Culture e tradizioni diverse possono vivere insieme a condizione che venga accolta in tutti la radicale trasformazione operata da Cristo Gesù. L’affermazione di Paolo rimane sempre attuale: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (cf. Gal 2,20). Antonio Magnante AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT LO SCHIAFFO DEL SOLDATO suoi discepoli e la sua dottrina» (Gv 18,19). Le autorità giudaiche si ostinano a credere che Gesù sia un impostore. Alla domanda di Anna, Gesù risponde: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho detto nulla di nascosto» (Gv 18,20). Lui sa bene, infatti, che esse hanno già deciso la sentenza di morte, e sa di conseguenza che non c’è bisogno di esporre ancora una volta la sua dottrina. In questa sezione del quarto Vangelo (Gv 18,19-24) si può notare un dialogo tra Gesù e Anna che è strutturato in maniera concentrica: Anna (v. 19), Gesù (v. 20-21), lo schiaffo del soldato (v. 22), Gesù (v. 23), Anna (v. 24). Bisogna notare che il verbo «parlare» (verbo di rivelazione) ricorre tre volte nel versetto 22 e una volta nel versetto 23. Da questa struttura emerge che lo schiaffo del soldato, che si trova al centro, quindi nella posizione più rilevante, viene inferto per punire il parlare rivelare di Gesù, rigettando brutalmente il suo insegnamento. Durante il suo ministero pubblico, Gesù ha «parlato» e «inJoséde Madrazo, Jesús en casa de Anás,1803, Museo del Prado un indemoniato (cf. Gv 7,20). Essi credono che il suo insegnamento stia allontanando la gente dalla sacra Legge di Mosè (Gv 7,47). Essi rifiutano la dottrina di Gesù, perché essa imporrebbe loro una radicale trasformazione personale e una rivisitazione della Legge stessa. In Gv 7,38 Gesù proclama: «Chi crede in me, come dice la Scrittura: “fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”». Non vi è alcun dubbio che solo la fede può guidare le persone a riconoscere Gesù come il rivelatore del Padre, e il suo insegnamento come proveniente da Dio, e, infine, ad accettare di diventare per sé e per gli altri fonti di acqua zampillante. La venuta di Gesù svela che la Legge ha lo scopo di preparare gli animi ad accoglierlo. Coloro che ritengono invece la Legge di Mosè intangibile, non essendo disposti a una trasformazione, considerano Gesù un traviatore di folle da togliere di mezzo. I Farisei oppongono Mosè a Gesù quando affermano: «Noi sappiamo, infatti, che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia» (Gv 9,29). Essi credono che Dio abbia parlato faccia a faccia con Mosè, in più credono di essere loro i suoi legittimi discepoli. Di Gesù essi ignorano la provenienza, e ritengono che il suo insegnamento non sia ortodosso. Per loro il nazareno non può essere un autentico maestro, anche per il fatto che non ha frequentato la scuola di nessun rabbino famoso, e pochi sono disposti a credere all’affermazione di Gesù che sostiene che il suo unico e vero Maestro è Dio stesso (Gv 7,16; 8,28). Lo stesso tema dell’accoglienza dell’insegnamento di Gesù ricorre nel momento cruciale della vita del salvatore, quando Anna, suocero del sommo sacerdote, lo interroga «circa i OTTOBRE 2015 amico 73 Progetto Messico Testo e foto di Alessandro Conti Un mattone per la missione arissimi amici, mi auguro che stiate bene e sempre con la speranza viva nel cuore. Sono padre Alessandro Conti, nativo di Lecco, Missionario della Consolata in Messico, e vi scrivo per chiedervi un appoggio per la nostra missione. Il nostro Istituto è giunto in Messico nel 2008, con una prima presenza nella periferia di Guadalajara, la seconda città del paese per numero di abitanti, circa sette milioni di persone considerando tutta la zona metropolitana. Attualmente i missionari della Consolata contano nel paese tre comunità: una parrocchia nello stato del Chiapas, una comunità formativa a Guadalajara e un’altra comunità ai margini di Guadalajara, in zona rurale. Quest’ultima è la comunità cui si riferisce il progetto. Le due comunità di Guadalajara non reggono parrocchie allo scopo di essere più presenti tra «i lontani». In questi anni infatti la nostra missione si è realizzata soprattutto attraverso la presenza semplice, l’accoglienza, l’ascolto e l’accompagnamento personale di quanti incontriamo. Inoltre, con l’aiuto di un’équipe di psicologi, psicoterapeuti, e altri professionisti, stiamo cercando di attuare anche qui lo spirito e la pratica della Fundación para la Reconciliación, esperienza molto feconda nata in Colombia da un nostro confratello, padre Leonel Narváez e in via di diffusione in diversi paesi dell’America Latina. C UNA CASA PER ESSERE PRESENTI All’arrivo nel 2008, la nostra prima comunità ha vissuto per cinque anni in una casa di campagna, prestataci da una famiglia amica, poco fuori dal 74 amico OTTOBRE 2015 villaggio di San Antonio de Juanacaxtle che si trova all’estrema periferia di Guadalajara, in zona rurale. La casa aveva problemi seri nella struttura, nell’impianto elettrico, nell’approvvigionamento di gas e acqua. Dopo un sopralluogo di alcuni esperti nel 2013, la comunità l’ha dovuta lasciare per il pericolo di un crollo. Ora vive in un’altra casa, anch’essa prestataci da una persona del villaggio. Nel frattempo però abbiamo ricevuto in dono un terreno per costruire una casa meno isolata, e la gente di San Antonio ha promesso di aiutarci a realizzarla. Il costo è di circa 75.000 euro. Già il nostro Istituto ci sta appoggiando con una quota importante. Noi abbiamo realizzato lotterie, e altre iniziative, tra cui una campagna presso la parrocchia italiana Madonna della Rovinata di Lecco. Ciò che chiediamo ai lettori di Amico è un aiuto per raccogliere ciò che manca. Pensavamo di far partecipi le persone con l’acquisto simbolico di mattoni. Ogni offerta di 2 euro ne rappresenta uno. Il sogno è di poterne raccogliere 5.000. Il contributo di ciascuno sarà importante: pochi o molti che siano i mattoni donati, sarà un gran regalo. ACCOMPAGNANDO OGNI FASE DI VITA In accordo con la gente del villaggio, abbiamo deciso di utilizzare il terreno che ci è stato donato, non solo per la casa dei missionari, ma anche per costruire un salone multi-funzionale per attività con adolescenti e giovani, che in questi villaggi hanno pochi spazi in cui socializzare in modo sano, e sono quindi spesso facili prede di droga e alcool. Il salone verrà costruito grazie all’aiuto di una Ong del Canada. La nostra gente ci ha chiesto inoltre di poterlo utilizzare anche come sala funeraria quando vi fosse la necessità. Dovete sapere infatti che qui, quando una persona muore, la famiglia, i parenti e le persone del villaggio (per lo meno due o tre rappresentanti per famiglia) vegliano tutta la notte il defunto, poi per nove giorni dopo il funerale, alla sera, il villaggio partecipa alla preghiera del rosario, e la famiglia offre sempre bevande e cibo. Dato che San Antonio conta circa 1500 abitanti, Ecco il nuovo progetto: Amico Messico Un mattone per la missione dedicato alla creazione di spazi e strutture per i missionari e le attività pastorali. Sostieni anche tu quest’iniziativa. Versa un contributo tramite il bollettino allegato alla rivista, specificando la seguente causale: AMICO. Progetto Messico, un mattone per la missione. Per altre info visita il nostro sito: amico.rivistamissioniconsolata.it TITOLO PROGETTO Un mattone per la missione. OBIETTIVI A LUNGO TERMINE Offrire al territorio spazi e strutture utili per attività pastorali e sociali. si radunano dalle 50 alle 200 persone per volta, e non tutte le famiglie hanno lo spazio per accoglierle. È per questo che è nata l’idea di questa ulteriore funzione del salone. IL NOSTRO SOGNO Con l’aiuto della gente già abbiamo iniziato a costruire il muro di recinzione e tra poco inizieremo a costruire anche un deposito per l’acqua. Qui generalmente da ottobre a giugno non piove. Le persone del villaggio ci stanno aiutando economicamente con una raccolta di offerte settimanali volontarie, ma il costo è alto, e quindi i lavori vanno a rilento. Il nostro sogno è che da qui a un anno possiamo realizzare il pozzo e la recinzione grazie all’aiuto del villaggio, il salone multi-uso grazie alla Ong canadese di cui ho scritto sopra, e la casa per i missionari grazie anche a voi. Che il Signore vi benedica e vi sorrida. Buon mese missionario vissuto in pienezza e in profondità, riscoprendo l’amore «matto» di un Dio che non si stanca di volerci bene nonostante le nostre debolezze, lentezze e la nostra miopia d’amore. Alessandro Conti IMC Messico OBIETTIVI A BREVE TERMINE Costruzione della casa dei missionari. 1 mattone 2 Euro contributo richiesto: 10.000 Euro RESPONSABILE Padre Alessandro Conti, Imc MISIONEROS DE LA CONSOLATA C/Camino Juanacaxtle, 220-San Antonio Juanacaxtle, 45880, Municipio Juanacatlan, Jalisco, México. Tel. 005213311525159. Mail di p. Alessandro: [email protected] OTTOBRE 2015 amico 75 Le sfide del mondo attuale amicomondo i prepara un cartellone con articoli e foto che riportano notizie attuali di situazioni di ingiustizia, sfruttamento, povertà, migrazione, problematiche ambientali… Si chiede ai presenti di darne una lettura e di rispondere alle seguenti domande: * Quali problematiche vive il mondo oggi? * Quali sentimenti e emozioni suscitano in noi queste situazioni? * Quali sfide provocano? S Marco Monetti/Flickr.com LA PAROLA DI DIO A fianco del cartellone si apre una Bibbia e si legge il seguente brano del Vangelo di Luca: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra e quanto vorrei che fosse acceso! Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc. 12,49.54-57). RIFLETTIAMO INSIEME Una famosa frase del teologo evangelico Karl Barth dice che il cristiano dovrebbe avere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale, per leggere l’una 76 amico OTTOBRE 2015 di Deborah Corti Ecco la terza e ultima scheda sull’Evangelii Gaudium, pensata per animare gruppi di giovani allo scopo di approfondire l’esortazione apostolica di papa Francesco che tanti considerano il «manifesto politico» di papa Bergoglio. alla luce dell’altro e viceversa. Abbiamo infatti bisogno della luce delle Scritture, per comprendere il significato degli avvenimenti; ma abbiamo anche bisogno di illuminare le pagine della Bibbia con le concrete esperienze di vita, che ci permettono di far scaturire significati sempre nuovi. Per questo, secondo un’altra frase famosa, questa volta del papa Gregorio Magno, la Bibbia cresce con chi la legge; non nel senso che vi aggiungiamo pagine, ma che gli avvenimenti della storia permettono una comprensione sempre più viva della Parola di Dio. Dio infatti ha parlato negli eventi narrati nella Bibbia, ma continua a parlare anche oggi. L’EVANGELII GAUDIUM Nn. 51-75: «Esorto tutte le comunità ad avere una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi. È opportuno chiarire ciò che può essere frutto del Regno e anche ciò che nuoce al progetto di Dio» (n. 51). «Dobbiamo dire “no ad un’eco- riconoscere ciò che semina lo Spirito Santo. Significherebbe non avere fiducia nella sua azione libera e generosa» (n. 68). TESTIMONE DI VITA - Servo di Dio Giorgio La Pira (Pozzallo, 9 gennaio 1904 - Firenze, 5 novembre 1977). Terziario domenicano, fu un politico di primo piano negli anni della Costituzione e della nascita della Repubblica. Credeva nella responsabilità di ciascun credente di fronte ai problemi storico sociali e coerentemente impegnò tutta la propria vita a servizio dello stato e dei cittadini, come esponente della Democrazia Cristiana, sindaco di Firenze e deputato. Fautore del dialogo e della mediazione anche quando essa si presentava non facile, La Pira si schierò sempre dalla parte dei meno fortunati, cercando una feconda integrazione fra Vangelo e vita. Per saperne di più: www.giorgiolapira.org NELLA NOSTRA FAMIGLIA Suor Eugenia Bonetti, Missionaria della Consolata (nata a Bubbiano, nel milanese, nel 1939), ha vissuto in Africa per 24 anni, dal 1993 impegnata in un centro Caritas di Torino dove ha conosciuto il mondo della notte e della strada e dove ha incontrato il volto, le storie e le sofferenze, la disperazione e la schiavitù di tante UK in Holy See/Flickr.com donne portate in Italia e vittime della prostituzione. Dal 2000 lavora a Roma come responsabile dell’Ufficio «Tratta donne e minori» dell’Usmi (Unione Superiore Maggiori d’Italia). Si ritiene la voce di chi non ha voce, alle nuove schiave e vittime della tratta per sfruttamento lavorativo e sessuale. Per saperne di più: www.usminazionale.it A LIVELLO LOCALE I Gruppi di Acquisto Solidali (Gas) nascono da una riflessione sulla necessità di un cambiamento profondo del nostro stile di vita. Come tutte le esperienze di consumo critico, anche questa vuole immettere una «domanda di eticità» nel mercato, per indirizzarlo verso un’economia che metta al centro le persone e le relazioni. Per saperne di più: www.retegas.org INTERROGHIAMOCI 1. Quali aspetti positivi e opportunità riconosciamo nelle sfide del mondo attuale? 2. Come mi provocano le esperienze di vita e di fede dei testimoni? 3. Quali conversioni dobbiamo attuare alla luce del Vangelo: quali modi di pensare, atteggiamenti da maturare, compor- OTTOBRE 2015 amico 77 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT nomia dell’esclusione e della inequità”. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada. Non si può tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole» (n. 53). «Dobbiamo dire “no alla nuova idolatria del denaro”. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. Si riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo» (n. 55). «Dobbiamo dire “no all’inequità che genera violenza”. Fino a quando non eliminiamo l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale». (n. 59) «L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone e che snatura i vincoli familiari». (n. 67) «Uno sguardo di fede sulla realtà non può dimenticare di CONCLUSIONE Non dobbiamo aver paura di fare come i profeti della Bibbia, che si pongono in situazioni conflittuali pur di verificare le scelte politiche ed economiche alla luce della Parola di Dio. DONO Viene consegnato un biglietto su cui è scritta la seguente provocazione di papa Francesco: «Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura». Deborah Corti PREGHIAMO INSIEME Oxfam talia/Flickr.com tamenti da assumere? 4. Che cosa possiamo fare concretamente per annunciare il Vangelo nella nostra attuale situazione e nelle nostre comunità? Quali iniziative proporre? Non dire: perdona i nostri debiti se non sei disposto a perdonare gli altri. Non dire: non ci indurre in tentazione se continui a vivere nell’ambiguità. Non dire: liberaci dal male se non ti opponi alle opere malvagie. Non dire: amen se non prendi sul serio le parole del Padre nostro. Progetto Scuola Tanzania Il progetto lanciato nel marzo scorso, Amico scuola Mafinga per il Tanzania, dedicato all’avvio di una scuola secondaria dei missionari della Consolata in una zona in cui c’è assenza di scuole secondarie, ha ancora bisogno del vostro contributo: manca poco per la sua conclusione. Versa un’offerta a MCOnlus specificando la seguente causale: AMICO. Progetto scuola Mafinga Tanzania, per offrire, attraverso l’acquisto di libri di testo, l’opportu- nità di studi di livello secondario a ragazzi che non possono permettersi di spostarsi in altre aree. RESPONSABILE: padre Kwajaba Vedastus - [email protected]. Seminari ya Consolata, PO Box 297, Mafinga - Tanzania. 78 amico OTTOBRE 2015 Oxfam talia/Flickr.com Non dire: Padre, se ogni giorno non ti comporti da figlio. Non dire: nostro se vivi soltanto del tuo egoismo. Non dire: che sei nei cieli se pensi solo alle cose terrene. Non dire: venga il tuo regno se lo confondi con il successo materiale. Non dire: sia fatta la tua volontà se non l’accetti anche quando è dolorosa. Non dire: dacci oggi il nostro pane quotidiano se non ti preoccupi della gente che ha fame. 4 chiacchiere con « i Perdenti» a cura di Mario Bandera 8. ANTÔNIO CONSELHEIRO DI CANUDOS Nella diocesi di Paulo Afonso, nello stato della Bahia in Brasile, sorge la cittadina di Canudos; il nome di una località che agli italiani dice ben poco, ma che in Brasile ha invece un significato molto profondo in quanto città di Antonio Conselheiro (1830-1897), il carismatico fondatore di una originale comunità di vita imperniata sulla condivisione dei beni, sull’uguaglianza dei membri e sulla fratellanza reciproca che andava oltre le condizioni sociali ed economiche e il colore della pelle di ciascuno. La comunità si organizzò stabilmente nel 1893 fondando il villaggio di Canudos in quella che era una fazenda vicino alla cittadina di Monte Santo. Fu il tentativo di costruire un’alternativa possibile a una concezione di stato che, sostenuto dai grandi latifondisti, si basava sulla supina sottomissione dei neri, degli indios, dei meticci e dei braccianti senza terra. La comunità di Canudos, fin dal suo inizio, fu considerata dalle autorità politiche e militari dell’appena nata Repubblica brasiliana come un «bubbone» da estirpare a qualunque costo per evitare che le idee egualitarie che essa propugnava si propagassero a macchia d’olio. Canudos venne abbattuta a cannonate dall’esercito nell’ottobre 1896. I suoi abitanti furono tutti sterminati, comprese le donne e i bambini. Una comunità profetica che ricercava l’ideale evangelico di vita non «poteva» sussistere nel territorio dei latifondisti. La sua radicalità era uno scandalo troppo evidente, perciò «doveva» essere distrutta. Da quell’eccidio nacque la leggenda di Canudos, il cui spirito aleggia ancora oggi nel vento che accarezza i mandacarù (i cactus selvatici) nella calura quotidiana che caratterizza il sertão del Nordeste brasiliano. Con il suo carismatico fondatore abbiamo voluto rievocare non solo le giornate di allora ma anche gli ideali di libertà che attraversano ogni epoca. Antonio Conselheiro come ti venne l’idea di fondare Canudos? Ai miei tempi il sertão brasiliano, zona arida caratterizzata da periodi di forte siccità dove dovevi spaccarti la schiena per ricavare dalla terra quanto necessario per vivere, era un territorio in cui vagavano molti ex schiavi africani liberati, indigeni (indios) che avevano perso completamente la loro identità e la loro terra a causa dell’incontro-scontro con i latifondisti e coloni che avevano portato anche nuove malattie e un alcolismo devastante, e fuoriusciti bianchi in fuga dalla legge o dai debiti con padroni esosi e usurai. Questi disperati vivevano in condizioni di grande miseria senza che nessuno si curasse di loro. Ero convinto che i principi di giustizia e fraternità del Vangelo e l’esempio della comunità degli Atti degli Apostoli potessero essere le basi per costruire con loro un mondo dove tutti potessero avere uguale dignità. OTTOBRE 2015 MC 79 I Perdenti # Pagina precedente: l’attore Adoniran Barbosa ha interpretato Antonio Conselheiro in un film di Lima Barreto del 1953. Nel web si trova in portoghese il film «Guerra de Canudos», girato nel 1997 da Sérgio Rezende. In alto, da sinistra: il villaggio di Canudos, una delle case e il piccolo gruppo dei superstiti dell’ultima battaglia (dall’Arquivo Histórico do Museu da República [do Brasil]). In basso a destra: la statua di Conselheiro davanti al Museo storico di Canudos, dove sono raccolte le testimonianze di quei tragici eventi. Se non vado errato, in quei tempi nel sertão brasiliano si muovevano molte figure carismatiche. È vero, predicatori del Vangelo ce n’erano in abbondanza, ma il personaggio che più di ogni altro ha incarnato l’anima nordestina, è stato Padre Cicero (Romão Batista, 1844-1934, zelantissimo sacerdote considerato santo dai nordestini, anche se morto ufficialmente scomunicato. Oggi il vescovo della diocesi di Crato nel Cearà ne ha avviato il processo di riabilitazione, ndr), che percorse il sertão in lungo e in largo, a piedi o in groppa a umili somarelli per migliaia di chilometri sotto il sole cocente per predicare, confessare e celebrare l’Eucarestia in posti dove nessun sacerdote aveva messo mai piede. Per noi, abitanti del sertão, è stato un sacerdote santo e capace di miracoli e accorrevamo da ogni parte per ascoltarlo, confessarci e mettere a posto la coscienza. E tu come ti collocasti in questa realtà? Considerando la violenza imperante ai miei tempi in quella zona, ebbi l’idea di creare una comunità in cui si vivesse radicalmente l’ideale evangelico, cominciai così ad accogliere gli ex schiavi (circa l’80% della comunità) e gli indigeni sbandati. Ma c’erano anche bianchi nella tua comunità? Certamente. C’erano marinai che si erano ammutinati sulle loro navi, in fuga dalla dura disciplina che regnava a bordo e che, una volta a terra, avevano trovato rifugio nel sertão. Così c’era anche chi, avendo problemi con la legge, non poteva più rimanere nelle città e si rifugiava nell’interno disabitato, nella caatinga autentico cuore del sertão (caatinga, lett. foresta grigia, è l'unico bioma esclusivamente brasiliano e si trova solo negli stati del Nordeste, ndr). Erano tutti accomunati da uno stato di povertà e di esclusione sociale. Non per questo erano tutti pacifici e inermi. Tra loro c’era anche gente dura, abituata a combattere per sopravvivere. Dal 1877 il Nordeste fu colpito da una delle sue tipiche devastanti siccità aggravando gli effetti di una crisi economica e sociale già molto grave. Si, migliaia di persone (banditi, flagellanti, miserabili senza terra) vagavano affamate senza alcun aiuto dal governo, contando solo sull’aiuto divino. Ma la miseria è una pessima consigliera, così molti, ritenendo che «rubare per ammazzare la fame» non fosse peccato, assaltavano le grandi fazendas e i piccoli proprietari. In più, a partire dal 1888, quando in Brasile fu ufficialmente abolita la schiavitù, molti ex schiavi, tutti di origine africana, si ritrovarono allo sbando senza nessuna risorsa e, quel che è peggio, senza una terra su cui vivere. Vedendo questa gente vagabondare senza meta nel sertão, cominciai a radunarla in un nuovo piccolo villaggio chiamato appunto Canudos, in un territorio disabitato, dove ognuno riceveva un pezzo di terra da coltivare e metteva poi a disposizione dell’intera collettività i prodotti ricavati dal suo lavoro. Ciò permetteva loro di guardare con speranza al futuro. 80 MC OTTOBRE 2015 Canudos divenne quindi un punto di riferimento importante per molti disperati. Alla fine del 1800, Canudos poteva contare su un totale di circa 30mila abitanti. Il movimento popolare che avevamo avviato ispirandoci al Vangelo, crebbe rigogliosamente. Eravamo ben organizzati, quasi una «comune» religiosa. Canudos era diventata la seconda città della Bahia, dopo Salvador. Le autorità politiche e anche religiose, però, cominciarono ben presto a preoccuparsi di una presenza così scomoda e autonoma che di fatto non riconosceva il governo centrale, non pagava le tasse, si autogestiva collettivamente e aveva leggi proprie. Erano gli anni in cui il Brasile si era appena staccato definitivamente dalla monarchia portoghese per diventare una Repubblica a tutti gli effetti. Il Brasile era diventato indipendente dal Portogallo nel 1822 e si era dato una monarchia costituzionale, ma l’imperatore Pietro II era della stessa famiglia del monarca del Portogallo. Negli anni era cresciuto un forte movimento repubblicano che aveva contagiato anche l’esercito, il quale nel 1889 depose l’imperatore con un golpe militare. C’era quindi, in quegli anni, un clima politico sociale caratterizzato da una cronica instabilità istituzionale, la nuova Repubblica cercava di rafforzarsi e Canudos era fuori dal sistema, anzi a qualcuno sembrava una roccaforte di restaurazione monarchica. Tu, Antonio, eri favorevole alla nuova Repubblica o eri un nostalgico dell’impero? Fuori dal mondo come eravamo là nel sertão, la questione non ci toccava molto. Non avevo certo molte simpatie per i repubblicani i quali avevano separato - per me in un modo anticristiano - Chiesa e Stato, ma non ho mai pensato di fomentare una restaurazione. Purtroppo è anche vero che la Repubblica non fece molto per farsi amare dai poveri, anche se erano stati i repubblicani a far abolire la schiavitù. Ma gli ex schiavi erano stati abbandonati a se stessi e uno dei primi atti della Repubblica era stato un pesante aumento delle tasse sia sulla terra che su tutti i prodotti. E, come al solito, chi ci rimetteva di più erano i più poveri, non i ricchi. Il tuo progetto poteva sembrare a molti la realizzazione di un sogno, ma le autorità brasiliane non erano certamente disposte a lasciare una zona franca nel bel mezzo del sertão. Purtroppo era cosi! Accusandoci di essere ribelli e monarchici, tra il 1896 e il 1897 mandarono ben quattro spedizioni militari contro di noi. La resistenza di Canudos fu straordinaria. C’è da dire che, oltre al coraggio della • Brasile | Canudos | Utopie | Libertà | Sertão • MC RUBRICHE comunità, potevamo contare su uomini valorosi dall’invidiabile acume tattico e una profonda conoscenza della natura aspra e impervia del sertão nel quale i soldati, provenienti dalle città della costa, erano impreparati a sopravvivere. Respingemmo facilmente le prime due spedizioni e anche la terza, ma con perdite pesantissime. Ma il vostro desiderio di vivere in pace e armonia, liberi da ogni legge eccetto quella di Dio, non poteva durare… Sì, e in più l’esercito repubblicano si era sentito umiliato da straccioni come noi. Così l’ultima spedizione fu organizzata con molta cura dallo stesso ministro della guerra, il maresciallo Carlos Machado Bittencourt. Furono messi in campo circa 4.000 soldati con le armi più moderne del tempo. L’attacco cominciò a settembre. La mia gente era provata da fame e denutrizione, male armata, senza scorta di munizioni e demoralizzata dalla mia morte avvenuta il 22 settembre 1897 a seguito di molti giorni di penitenza, preghiera e digiuno per la pace. Dopo un terrificante bombardamento durato diversi giorni che incendiò le case e rase al suolo Canudos, la maggioranza dei superstiti si arrese il 5 ottobre, ma i soldati sterminarono ugualmente uomini, donne e bambini tra terribili violenze. Di circa 30mila persone della comunità, ufficialmente ci furono solo 150 superstiti. Di essi le donne giovani furono vendute nei bordelli di Bahia. Il mio corpo fu riesumato e la mia testa tagliata e fatta esaminare dagli scienziati per provare che ero stato un matto fanatico. Messa poi nel Museo della Scuola di Medicina di Salvador, un incendio, più pietoso degli uomini, la consumò nel 1905. L’unica relazione sulla «guerra di Canudos» ci è pervenuta tramite gli scritti di Euclides da Cunha, corrispondente del giornale O Estado de São Paulo, che era stato inviato nel sertão brasiliano al seguito dell’esercito (embedded, si direbbe oggi). Con il passare del tempo i luoghi della battaglia di Canudos caddero nel dimenticatoio dell’imbarazzo collettivo e la caatinga ebbe il sopravvento. Ma la memoria storica dell’esperienza di Antonio Conselheiro e della sua comunità non è mai scomparsa e si è tramandata nei racconti della gente semplice e umile del sertão fino a quando è stata recuperata tra le pieghe della storia e le è stata ridata la sua importanza, grazie anche a libri e film (purtroppo non tradotti in italiano, ndr). Si può dire che lo spirito di Canudos scorre ancora oggi come un fiume carsico sotto la crosta dura e solida dell’arida terra del sertão, dove i nordestini imparano fin dalla nascita che devono misurarsi con le asprezze della natura e con i cataclismi sociali che i potenti di turno ciclicamente rovesciano loro addosso. Questa gente speciale ha bisogno di esempi di libertà e figure eccezionali per continuare a sperare, Canudos e Antonio Conselheiro proprio per l’ansia di libertà che incarnano, indicano ancora oggi la strada da percorrere. Don Mario Bandera, Missio Novara Persone che conosco Personaggi e luoghi con gli occhi di Gianni Minà IL PAPA DEL SUD U P E IL RISVEGLIO DI UN CONTINENTE no degli eventi più importanti negli equilibri internazionali di questi ultimi anni è stato certamente il riavvicinamento fra gli Stati Uniti d’America e la Rivoluzione cubana. Un atto di coraggio del presidente nordamericano Obama, possibile però solo ora che il primo presidente nero degli Stati Uniti è arrivato all’ultima parte del suo secondo mandato alla guida del paese più poderoso del mondo. Possibile soprattutto grazie alla mediazione di un papa speciale (in visita proprio a Cuba e Stati Uniti dal 19 al 28 settembre), che non ha avuto dubbi sull’esigenza di parlare seriamente di pace, e non rimanere prigioniero, anche lui, delle troppe belle parole che circolano in un mondo abituato ormai a non essere conseguente. Quello che tuttavia non hanno voluto considerare i media occidentali, specie quelli italiani, è che questo inatteso cambio nella politica degli Stati Uniti riguardo all’isola della Revolución è avvenuto perché tutta l’America Latina sta con Cuba, perfino le nazioni come Colombia e Messico dilaniate dalla violenza e da sempre molto vicine agli interessi del governo di Washington. In America Latina, in questo momento, ci sono almeno dieci paesi che hanno governi di centrosinistra o addirittura di sinistra dichiarata, come la Bolivia indigena del presidente Evo Morales, quello che ha fatto dono a papa Francesco, nella sua visita di luglio a La Paz, di un crocefisso guarnito di falce e martello, o l’Ecuador del presidente Rafael Correa, laureato in economia e con un master e un dottorato negli Stati Uniti e un altro master conseguito all’Università cattolica di Lovanio in Belgio. Queste sono prove inconfutabili del riscatto di un continente che solo vent’anni fa aveva al potere feroci dittature militari e ora fa incetta di conquiste democratiche (per esempio, nel campo dei diritti nel lavoro e nella sanità) le quali, al contrario, incominciano a essere negate a molti proprio nei paesi dell’Occidente. Ancora un esempio: chi violenta la natura è punibile, nelle nuove Costituzioni di Bolivia ed Ecuador, con le stesse pene inflitte a chi offende un essere umano. Questa non è forse modernità? Non è forse etica? Questa rubrica Giornalista, scrittore, documentarista, presentatore e autore televisivo, Gianni Minà è una firma e un volto amato e conosciutissimo, non soltanto in Italia. Appassionato di calcio, musica e America Latina, nel corso della sua lunga e prestigiosa carriera ha incontrato migliaia di persone e personaggi. Proprio da questa circostanza è nata «Persone che conosco», la rubrica che da oggi lui firmerà per noi. Siamo consapevoli che non tutti concorderanno con le sue opinioni e i suoi giudizi, ma confidiamo che il libero e civile dibattito costituirà un arricchimento. A Gianni vada il mio personale benvenuto assieme al ringraziamento del direttore e della redazione. Paolo Moiola 82 MC OTTOBRE 2015 iaccia o non piaccia, tutto questo è stato ed è possibile anche per la resistenza, nel tempo, di un paese come Cuba, o grazie al coraggio di un leader d’avanguardia come Hugo Chávez, il defunto presidente del Venezuela che, proprio per la svolta impressa non solo nel suo paese ma anche in buona parte delle altre terre di Simón Bolívar (1783-1830), ha anticipato il cambio che ora si vive nel continente. Al cospetto di questa trasformazione l’informazione occidentale fa a gara a chi, pateticamente, è più capace di irridere le speranze e i tentativi di liberazione dell’America Latina. Gli interessi degli ex padroni o di quelli che furono i conquistadores non si discutono. Nel frattempo, il Brasile, che dalla presidenza di Lula Da Silva fino a Dilma Rousseff ha condiviso quella svolta politica, è diventato la settima potenza economica del mondo. Un fatto che, come hanno dimostrato le intercettazioni (ovviamente illegali) della Nsa statunitense (insieme alla Cia, i servizi segreti Usa, ndr) ai danni della Petrobras brasiliana, disturba le strategie commerciali del governo di Washington. Un paese, il Brasile, che un tempo era considerato solo «la terra del samba e del calcio», oggi, insieme a Sudafrica, Russia, India e Cina (in pratica, metà dell’umanità), è parte dei Brics, il gruppo principale tra i cosiddetti paesi emergenti. Alla fine di settembre (dal 28 al 30) si sono riuniti a Quito, in Ecuador, alcuni fra gli intellettuali e i pensatori più prestigiosi del continente latinoamericano. Una specie di proseguimento di quello che nel 2001 fu il Forum di Porto Alegre e che, insieme all’insurrezione zapatista in Messico, venti anni fa (era il 1994), ha il merito, ormai riconosciuto, di aver fatto risvegliare la coscienza di un continente per tanto tempo schiacciato. L’Encuentro latinoamericano progresista (Elap) è un appuntamento organizzato, per il secondo anno, dal Movimiento Alianza Pais (il partito che sostiene il governo ecudoriano) e voluto con forza dal presidente Correa, che continua il discorso portato avanti per anni da Cuba e ribadito da Hugo Chávez. Come si può capire, completamente assente era l’informazione italiana. Per questi media il mondo nasce e muore in Occidente, pur essendo ormai chiaro che quello di oggi e di domani è un mondo multipolare e che le istituzioni occidentali (come la Ue) politicamente ed eticamente spesso non rappresentano più nessuno. Forse non è un caso che questo vuoto di attenzione e di conoscenza sia in questi ultimi anni coperto solo da papa Francesco che, quando lo scorso luglio andò in visita in Ecuador (oltre che in Bolivia e Paraguay), davanti a una folla di un milione di persone, affermò: «I poveri sono il debito più grande che ancora abbiamo con l’America Latina». Un credo, come l’avversione alle guerre, che, in questo momento, è ribadito con sincerità solo da una parte della Chiesa cattolica, quella più vicina al papa venuto dal Sud. Gianni Minà I MISSIONARI DELLA CONSOLATA MENSILE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA FONDATO NEL 1899 già «La Consolata» (1899-1928) e «Missioni Consolata Onlus» COSA FANNO a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI CONSOLATA, offre servizi di prima mano sulle attività dei missionari e le realtà di questo nostro mondo. Tutti coloro che, con contributi in denaro, collaborano ai nostri progetti RICEVONO MENSILMENTE LA RIVISTA PIÙ IL CALENDARIO e godono anche di qualche vantaggio fiscale. A RIVISTA NON È INVIATA IN ABBONAMENTO, MA IN OMAGGIO. Sono però graditi - e indispensabili per la sopravvivenza della rivista stessa - contributi liberali per le spese di produzione, stampa e spedizione. Per chi desidera solo ricevere la rivista, si suggerisce un contributo annuo di Euro 30 (deducibile, come spiegato sotto). L L COME CONTRIBUIRE Il 5 per MILLE a Missioni Consolata Onlus Semplice, diretto, efficace. Non richiede esborsi in denaro! Basta indicare sulla vostra dichiarazione dei redditi, modello 730 o modello unico, il nostro codice fiscale: 97615590011 DONAZIONI Per donazioni online vedi: www.rivistamissioniconsolata.it www.missioniconsolataonlus.it MiSSioni ConSolata onlUS Intestare sempre e solo a Corso Ferrucci 14 - 10138 torino CONTO CORRENTE POSTALE (CCP) numero 33.40.51.35 Codice IBAN IT35 T 07601 01000 000033405135 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Il CC Postale è sempre allegato alle riviste. 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Ai fini fiscali, per godere dei benefici, occorre conservare per 5 anni la ricevuta del CCP o del bonifico bancario, che dimostri il versamento effettuato. PER INFORMAZIONI: Tel. 011/4.400.400 - Fax: 011/4.400.411 E-mail: [email protected] EREDITÀ E LEGATI PER INFORMAZIONI L’ISTITUTO MISSIONARI DI MARIA SS. CONSOLATA, con sede a Torino in C.so Ferrucci 14, può ricevere eredità e/o legati. Istituto Missionari di Maria SS.Consolata Ufficio Legale Corso Ferrucci, 14 - 10138 TORINO Tel. 011/4.400.400 MESSE Per la celebrazione di sante Messe: si usi il conto corrente postale numero 18377101, intestato a «Istituto Missioni Consolata» e NON quello allegato intestato a «Missioni Consolata Onlus». Le offerte per sante Messe non sono deducibili. Per dimostrare l’impegno alla cura del Cliente e per ridurre gli impatti ambientali associati alle proprie attività, la G. 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Contribuzione 5 per mille: CF 97615590011 Direzione, redazione e amministrazione: Associata alla FEDERAZIONE STAMPA MISSIONARIA ITALIANA Associata all’USPI OTTOBRE 2015 MC 83 Per un ottobre missionario con EMI ANTONIO BARGIGGIA «Ho scoperto di saper amare» Vita e martirio di un volontario tra gli ultimi d’Africa Presentazione di L Con un intervento del A cura di Il nuovo libro del Premio Nobel per la Pace Il grido dei cristiani perseguitati dall’ISIS in Medio Oriente La toccante testimonianza di un martire tra gli ultimi d’Africa Il vescovo del Sahara in Italia. Incontri con mons. Claude Rault mm rcorr as utta co e m crive a un gi rno d m Chri ian de Ch gé: “D o non hi de l imposs bile: ce o d na! Domenica 4 ottobre, Castelfranco V.to (TV) Casa dei Padri Bianchi Giovedì 8 ottobre, Torino Missionari della Consolata Lunedì 5 ottobre, Modena Centro Missionario Diocesano Venerdì 9 ottobre, Riva del Garda (TN) Casa dei Missionari Verbiti Martedì 6 ottobre, Bologna Parr. SS. Bartolomeo e Gaetano Sabato 10 - Domenica 11 ottobre Treviglio (BG) - Casa dei Padri Bianchi Mercoledì 7 ottobre, Milano Centro Pime Martedì 13 ottobre, Roma Pontificio Ist. di Studi Arabi e d’Islamistica Il calendario completo degli eventi disponibile su www.emi.it OFFERTA SPECIALE SOLO PER I LETTORI DI MISSIONI CONSOLATA S C O N T O 1 0 % E SPEDIZIONE GRATUITA Acquista anche su Il deserto è la mia cattedrale €12,00 € 10,80 Allego la ricevuta di pagamento tramite: Tutti i volumi € 47,00 € 42,30 Bollettino Postale su CCP n. 11657400 intestato a Servizio Missionario Bonifico bancario (IBAN IT73 L053 8702 4050 MC-102015 TAGLIANDO DI RICHIESTA Compila e spedisci in busta chiusa, affrancando come lettera, a: SERMIS-EMI Editrice Missionaria Italiana - Via di Corticella 179/4 - 40128 Bologna Sì desidero ricevere i volumi sotto elencati con spedizione gratuita nelle seguenti quantità (in cifre): Il mio Dio sovversivo €13,00 €11,70 Più forti del terrore €13,00 € 11,70 Ho scoperto di saper amare €9,00 € 8,10 0000 0969 802 CC intestato a SERMIS s.c.r.l.). 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