STORIA DEL DIRITTO E DELLE ISTITUZIONI / Studi 4 collana a cura di Mario Ascheri A12 246 Giovanni De Donato Simbolismo della crisi Stato-società nell’Occidente contemporaneo Prefazione di Pietro Barcellona Postfazione di Francesca Izzo Copyright © MMXI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, /A–B Roma () ISBN –––– I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio A Sarah e a nostro figlio Sigi in occasione del suo primo compleanno Indice Prefazione di Pietro Barcellona I Considerazioni introduttive II Il paradosso/dilemma o dictum di E.–W. Böckenförde e le sue implicazioni III I riflessi del dictum di E.–W. Böckenförde e di der Gegensatz di Romano Guardini sulla prospettiva cattolica di Joseph Ratzinger IV I “fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale” e “ciò che tiene unito il mondo” nel dialogo/confronto fra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger. Il concetto della c.d. “società post–secolare” e la questione del katéchon V Il katéchon nel simbolismo della crisi Stato–società nell’Occidente contemporaneo Postfazione di Francesca Izzo Bibliografia Prefazione Il manoscritto di Giovanni De Donato è un labirinto che ti spinge continuamente ad andare avanti seguendo il filo che lo attraversa sin dalla prima pagina. Già le caratteristiche formali del libro sono inconsuete. Giovanni De Donato ama riportare per esteso le citazioni degli autori con cui si confronta, da Böckenförde a Romano Guardini a Joseph Ratzinger ad Habermas a Zagrebelsky fino a Guénon. Per certi versi le citazioni riportate nel testo possono sembrare eccessive, ma per altri danno la sensazione di assistere ad una serrata discussione fra gli autori del grande dibattito sulla crisi strutturale dello Stato moderno. I commenti di De Donato illuminano il fuoco dei testi richiamati e segnano via via la continuità del filo della riflessione alla quale ho appena accennato. Anch’io, più che farne una vera e propria prefazione, proverò a ripercorrere le tappe delle argomentazioni che si sono fronteggiate tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio. La domanda inquietante che sottintende la riflessione di De Donato si può così sintetizzare: riescono la ragione moderna e le sue istituzioni politiche — lo Stato e la democrazia liberale — a contenere l’urto per certi versi diabolico del venir meno di ogni giustificazione sostanziale che unisca in un’unica formazione i cittadini di una democrazia statual–razionale? Il processo dissolutivo di ogni comunità statal–nazionale è oggi sotto gli occhi di tutti così com’è sotto gli occhi di tutti la corrosione della legittimazione di ogni principio di autorità. Lo sfrenarsi degli egoismi individuali, la guerra di tutti contro tutti, la violenza e la sopraffazione dei più forti sembrano averla vinta su ogni tentativo laico di fondare un ordine condiviso e accettato dai cosiddetti cittadini. Non a caso le riflessioni di De Donato prendono l’avvio dal progetto hobbesiano che poneva fine alla permanente guerra civile delle religioni costituendo lo Stato Leviatano come macchina impersonale, intesa ad organizzare Pietro Barcellona un dominio politico, finalizzato ad assicurare i diritti e le libertà prestatali degli individui. La guerra di tutti contro tutti, ispirata dall’illimitato desiderio di possesso, veniva neutralizzata dal patto di soggezione che ciascun individuo stringeva con lo Stato, rinunciando alla propria libertà in cambio di leggi e di un ordine politico che restituisse a ciascuno l’esercizio della stessa libertà in un ambito formalmente definito. La grande costruzione hobbesiana di uno Stato artificiale, finalizzato alla pacificazione del conflitto permanente, istituiva, proprio in virtù della sua strutturale vocazione all’ordine, la distinzione moderna fra sfera civile e sfera religiosa. La libertà diventava uno spazio privato da gestire legittimamente all’interno dello spazio pubblico. Come Carlo Galli ha mostrato nel suo ponderoso studio sulla genealogia della politica moderna e sul pensiero di Carl Schmitt, da questa costruzione artificiale dello Stato moderno sono derivate tutte le dispute filosofiche sulla fondazione del diritto pubblico moderno, ma anche gli eventi tragici che hanno accompagnato l’Europa in due guerre mondiali sostanzialmente fratricide. Il libro di Galli mostra in modo egregio come, rispetto al realismo di Hobbes, siano falliti tutti i tentativi di fondare razionalmente il comando della legge statale sul libero consenso di tutti i cittadini. Nessuna mediazione razionale ha impedito fin qui il dispiegarsi di tutti i dispositivi della violenza pubblica e privata quando la lotta fra le “parti” della società è apparsa ingovernabile pacificamente. Come aveva scritto molti anni fa Koselleck, la critica dell’assenza di legittimazione del potere di comando e di ogni autorità meta–sociale mette continuamente in crisi lo Stato di diritto liberale al punto che Stato e crisi diventano parte di una coppia che accompagna la dialettica della modernità. È evidente come questo dibattito sia destinato ad ampliarsi e inasprirsi nell’epoca della globalizzazione quando, sotto la pressione dell’economia globale, gli Stati non riescono neppure a fornire quel minimo di protezione giuridica che garantiva potenziali condizioni di benessere generali. Si assiste così alla spinta verso la creazione di aree più vaste di quelle degli Stati tradizionali, che accentuano la difficoltà di trovare un principio di legittimazione al nuovo ordine economico. Nasce così e si sviluppa un’Europa degli Stati nazionali, ma come oggi si può vedere, la sua origine è minata dalla stessa crisi di legit- Prefazione timazione dei singoli Stati. Allo stesso tempo aumenta la pressione del capitalismo finanziario per mettere sotto scacco le tradizionali autorità–sovranità nazionali o europee. Né gli Stati nazionali né l’Unione europea riescono a governare in modo credibile il succedersi delle crisi distruttive che producono disoccupazione e anomia sociale. Si capisce in questo contesto perché uno studioso tedesco come Böckenförde affermi con tanta decisione che lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso non può garantire. Riesplode in tutta la sua drammaticità il problema del rapporto fra un diritto generale e astratto, come quello moderno, che garantisce la libertà individuale, e l’assenza di un vincolo sostanziale di carattere etico ed ideale che leghi i cittadini di uno Stato o dell’Europa in un vincolo di effettiva solidarietà e reciprocità. È dentro questa prospettiva che si ripropone nella discussione gius–filosofica il tema del rapporto fra Stato laico–secolarizzato e istituzioni religiose che si appellano a vincoli meta–sociali per far valere l’autorità di una qualche legge morale. Si ripropone altresì il tema del rapporto fra scienza e fede, fra religione e politica come un tema ineludibile. Riappare nella letteratura europea il problema di un katéchon che riesca a frenare o ritardare la corsa verso l’abisso del caos e della violenza reciproca senza legge. Verso questa riflessione finale ci conduce il volume di De Donato, che si sforza di mettere in luce i vari tentativi che dal mondo cristiano e dal mondo filosofico laico si sono esperiti per giungere alla conclusione di una qualche complementarietà fra visione laica e fede religiosa. Più che entrare in questa sequenza, che vede fra l’altro lo stesso Papa protagonista di dialoghi con le massime figure dell’intelligenza filosofica laica non prevenute pregiudizialmente nei confronti delle ragioni della fede, mi limito ad aggiungere alcune mie considerazioni sull’impatto che questo dilemma tra lo stare insieme per pura convenienza economica o il vivere la solidarietà tra gli uomini come espressione di un precetto trascendente sia oggi presente più che mai nella rovinosa crisi dell’unione europea. Non so quanti ricordano il prezioso libretto di Maria Zambrano, apparso in Italia quasi subito dopo la seconda guerra mondiale e intitolato profeticamente L’agonia dell’Europa. Maria Zambrano metteva Pietro Barcellona al centro della sua riflessione l’idea che se l’Europa fosse stata soltanto un fatto economico monetario, essa si sarebbe dissolta e nulla sarebbe rimasto più nella memoria collettiva della grande tradizione europea. Il problema che poneva Maria Zambrano, e che oggi si ripropone a livello anche delle istituzioni statali, è quello di come si può legittimare un’unità di donne e uomini, di popoli e nazioni, se l’autorità del principio unificante consiste unicamente nella costruzione di un unico mercato, nella creazione di una moneta unica e nella selezione di una tecnocrazia che sorvegli l’andamento dei conti pubblici nazionali. Come ho cercato più volte di mettere in luce, il mercato non può, per sua stessa natura, offrire quei presupposti della coesione sociale che giustificano lo stare insieme di donne e uomini in un’unica formazione politica. Il mercato, contrariamente a tutto ciò che è stato ideologicamente proclamato sulle sue inaudite virtù di autoregolamentazione, è il vero organizzatore dell’indifferenza sociale. Il contratto di scambio monetario, che si realizza nel mercato, presuppone infatti che i contraenti siano delle pure figure astratte, — venditore, compratore, ecc. —, le cui motivazioni ad agire e i cui interessi particolari non hanno alcun rilievo al fine di realizzare uno scambio di equivalenti, misurati con l’unico valore della moneta trasformata in prezzo delle cose. Nel mercato debbono scomparire le individualità concrete dei contraenti che, per principio, si trovano oggettivamente rappresentati negli effetti automatici del cosiddetto gioco della domanda e dell’offerta. Il mercato è un regolatore anonimo che funziona proprio in quanto neutralizza le specificità concrete che definiscono le qualità umane dei contraenti. Il mercato non ha alcun rapporto con le persone e neppure con i territori che queste abitano, giacché la sua vocazione è di ricondurre l’intero movimento delle cose ai parametri universali del valore di scambio espresso in termini monetari. Nel mercato, nonostante l’evidente differenza di potere, si realizza il miracolo dell’uguaglianza formale tra l’imprenditore e il lavoratore dipendente. Il mercato è una divinità anonima che unisce gli uomini senza farli stare insieme. Come dice Freedman, è una cooperazione universale tra tutti gli abitanti del Paese senza che sia necessaria alcuna conversazione umana né alcun tipo di comprensione reciproca. Prefazione Le culture particolari, le tradizioni e le forme di vita di ciascun gruppo umano sono abbandonate all’indifferenza delle forme giuridico– economiche e relegate ad un’assoluta contingenza senza significato. Più o meno per queste ragioni, Maria Zambrano prevedeva in definitiva la dissoluzione e l’ìnevitabile agonia di un’Europa senza cultura comune, affidata esclusivamente alla moneta unica. Quanto questa induzione sia stata profetica è dimostrato dallo squallido epilogo che sta caratterizzando questa fase della vita della comunità di fronte all’improvvisa esplosione delle rivolte nordafricane e dell’inevitabile problema dell’accoglienza dei nuovi grandi flussi migratori. Ciò che colpisce nell’attuale congiuntura non è tanto la mancanza di ogni disponibilità all’accoglienza solidale di chi fugge dalla propria terra per la fame e per l’oppressione in cerca di un’altra patria, ma la povertà delle ragioni con cui ciascun Paese europeo tende a difendere i propri confini e le proprie politiche senza esprimere alcuna visione comune di fronte al mutamento epocale degli equilibri socio–politici del Mediterraneo. Come molti scrivono, è difficile credere alle guerre umanitarie, fatte in nome dei mitici diritti umani: è anzi evidente che, se da una parte con gli interventi militari si tende a riprodurre condizioni di dominio sulle vecchie colonie africane e sulle loro risorse economico– energetiche, dall’altra si resta assolutamente indifferenti alle tante piccole tragedie umane che si consumano nello specchio d’acqua che una volta era stato il bacino delle grandi tradizioni culturali, filosofiche e religiose della civiltà europea. Questa deprimente visione dell’Europa divisa e conflittuale, che certo non si può correggere con qualche dichiarazione retorica e che non riesce a nascondere il nulla dell’assenza di ogni “unità spirituale”, è il segno di una crisi irreversibile dei tentativi ideologici e velleitari allo stesso tempo di governare un mondo di miliardi di uomini soltanto in nome di una razionalità economica che dovrebbe da sola garantire il senso di co–appartenenza ad una comune condizione umana e a un comune destino. La crisi dell’Europa è, sotto questo profilo, la crisi dell’intero paradigma occidentale con il quale si è cercato di orientare la vita di miliardi di abitanti del pianeta fondando la convivenza sull’unificazione Pietro Barcellona giuridica della circolazione dei capitali e delle merci e sull’estensione generalizzata dei principi del mercato ad ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Stupisce che una riflessione su questo tema dello spirito europeo oggi abbia dimenticato persino il grande dibattito che si è svolto dopo la seconda guerra mondiale sul destino dell’Europa e sul futuro del pianeta rispetto alle forme politiche che hanno caratterizzato il secolo delle guerre ma anche il formarsi degli Stati nazionali europei. Bisognerebbe ricordare oggi le intense riflessioni che si sono sviluppate sul cosiddetto “tramonto dell’Occidente” e che hanno trovato in alcuni scritti di Massimo Cacciari la massima profondità interpretativa dei processi in atto. In quel contesto l’Europa viveva certamente l’intensa emozione di una fine imminente del proprio ruolo mondiale, e il suo presentarsi come terra del tramonto poteva suggerire ancora una visione non economicistica né tecnocratica dello sviluppo di un nuovo spirito europeo che aprisse la strada ad un avvenire del mondo a partire da questo tramonto accettato e trasformato in missione. Gli ultimi testimoni di una società che si estingue e che, tuttavia, nel suo tramontare, non si chiude in un’assurda difesa da fortezza assediata ma si apre all’a–venire di una nuova epoca del mondo. Non è un caso che il tramonto dell’Occidente e dell’Europa si viene declinando insieme alla crisi dello Stato nazionale che, pur senza essere adeguatamente tematizzato, è lo specchio più inquietante della disgregazione atomistica delle società europee e occidentali che non riescono più ad individuare in uno “spirito comune” la legittimazione dei poteri e delle autorità che sono chiamate a governare. Se si pensa che tutte le forme politiche e istituzionali che hanno sin qui caratterizzato la riflessione sul significato della “sfera pubblica” di ogni società, si sono sviluppate nel Mediterraneo e in Europa, si capisce perché la crisi dello Stato e il fallimento della politica non è soltanto una questione “locale” ma universale. Gli uomini non riescono più a sapere perché stanno insieme, perché sono vincolati a comportamenti reciproci e obbediscono a leggi che essi stessi sembrano aver creato. L’originaria idea di libertà, cancellando ogni riferimento ai vincoli e ai legami, e non riuscendo più a pensare a nulla che sia veramente comune, si è sostanzialmente dissolta in una specie di anarco–individualismo Prefazione che ormai corrode ogni idea di trascendimento degli interessi particolari di ciascun individuo, di ciascun partito, di ciascuno Stato e di ciascun gruppo. L’apparente discussione del rapporto fra fede e ragione e fra sentimento religioso e costruzione dello Stato laico–secolarizzato, come espressione della razionalità discorsiva degli esseri umani, in realtà ha nascosto il vero tema del futuro destino del mondo: una progressiva razionalizzazione scientista delle modalità di comportamento degli individui, fino alla scoperta di meccanismi regolativi automatici, o un ritorno in termini nuovi della ricerca di una via dello spirito che permetta agli uomini di scrivere la propria storia nella libertà e nella fede di una trascendenza irraggiungibile ma operante? Si potrebbe dire, tra un’antropologia della riduzione della vita umana a un segmento dell’evoluzione zoologica totalmente assorbita nella dinamica fisica e biologica dell’universo, e un’antropologia che nega in linea di principio la possibilità di esaurire la comprensione dell’uomo nei risultati delle scienze positive che ne descrivono il funzionamento. Se si rilegge in questa prospettiva il confronto tra Ratzinger e Habermas e quello tra Zagrebelsky e Böckenförde, si capisce che al punto in cui siamo arrivati non si può eludere la domanda sul significato della crisi che stiamo attraversando. È una crisi di linguaggio che dipende unicamente dalla nostra coscienza attardata, incapace di trovare le parole adatte a descrivere il funzionamento di un mondo riducibile a quanto ci dicono i neuroscienziati, oppure si tratta di un vero e proprio passaggio d’epoca in cui si consuma un intero progetto di civiltà che tuttavia cancellandosi non impedisce il riemergere dell’inquietudine umana di fronte al mistero del senso della storia? In questa prospettiva le soluzioni pacificanti di Habermas e Zagrebelsky hanno già una risposta nelle dure smentite della realtà. Il mondo del diritto e del mercato sta finendo nelle guerre fratricide, in un grande disordine mondiale e in un dominio incontrollato di pochi gruppi finanziari. Ciò che appare impossibile rispetto alla diagnosi del presente è immaginare un katèchon che possa arrestare definitivamente questo processo. È infatti a partire dalla comprensione della crisi e di ciò che si muove in essa che si può creare un nuovo orientamento culturale che, registrando il tramonto dell’Occidente, non lo viva Simbolismo della crisi Stato–società necessariamente come una perdita, ma come una possibile apertura alla speranza che una qualche salvezza sia ancora possibile. Prof. Pietro Barcellona Università degli Studi di Catania [. . . ] non credo che quel che passa per una trattazione, a riguardo di questi argomenti, sia un beneficio per gli uomini, se non per quei pochi i quali da soli sono capaci di trovare il vero con poche indicazioni date loro Platone, Lettera VII Ma se noi osserviamo da questo punto di vista le risposte all’interrogativo circa l’essenza dell’uomo, vediamo in esse tutt’altra immagine. Non ogni volta il superamento d’una teoria inadeguata ad opera d’una migliore, bensì contraddizioni inconciliabili; [. . . ] una confusione disperata. Di più: ciò che qui si contrappone non sono solo opinioni differenti, bensì princìpi totalmente diversi. La discussione teorica è in realtà una battaglia, e vediamo come questa battaglia viene condotta: per la vita e per la morte, e lungo fronti che corrono attraverso il mondo intero. Questo dovrebbe aprirci gli occhi. Romano Guardini Accettare se stessi. Conosce l’uomo solo chi ha conoscenza di Dio La società “secolare” è per sua natura destinata a ciò che Pascal chiama “distrazione”, e cioè a quel movimento che ha, prima di ogni altra cosa, la funzione anestetica di acquietare la nostra angoscia. Tutta la società, senza eccezione, tende ad essere in certo qual modo “secolare”. Ma una società veramente secolare è quella che non si può accontentare di fughe innocenti da sé stessa. Essa tende sempre più ad aver bisogno e a domandare, con dipendenza insaziabile, soddisfazione in obiettivi ingiusti, cattivi o addirittura criminali Thomas Merton L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione