Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Il secondo pantano Ripartire dalla Costituzione
Lupi a difesa del gregge Fine del fattore K
Culture e religioni raccontate: La musica della balena azzurra
$#
ANNO
NUMERO
11
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
1 giugno 2006
e 2,00
Dal bipartitismo imperfetto al bipolarismo conflittuale
Il dissesto idrogeologico italiano Garantismo
Di fronte al pluralismo religioso Giuda coscienza scomoda
la polveriera
mediorientale
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
Rocca
sommario
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1 giugno
2006
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Ci scrivono i lettori
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Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Valentina Balit
Notizie dalla scienza
46
Vignette
Il meglio della quindicina
49
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Ripartire dalla Costituzione
50
Maurizio Salvi
Polonia
Ultracattolica e un po’ antisemita
52
Enrica Piovan
Internazionale
La polveriera mediorientale
54
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Lupi a difesa del gregge
57
Filippo Gentiloni
Politica italiana
Fine del fattore K
Fiorella Farinelli
Inchiesta Gioc
La paura dei giovani
Romolo Menighetti
Parole chiave
Garantismo
Pietro Greco
Ambiente
Il dissesto idrogeologico d’Italia
Oliviero Motta
Terre di vetro
Una buona giornata
Luciano Bertozzi
Afghanistan
Il secondo pantano
Giannino Piana
Etica politica economia
Sussidiarietà e solidarietà
Giuliano Della Pergola
Società
Dal bipartismo imperfetto
al bipolarismo conflittuale
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Disuguali, diversi, differenti
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Una giornata da soprannumerario
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58
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59
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Giuseppe Moscati
Maestri del nostro tempo
Ugo Spirito
La ricerca come speranza d’assoluto
Marco Gallizioli
Culture e religioni raccontate
La musica della balena azzurra
Adriana Zarri
Controcorrente
La realtà e l’utopia
Carlo Molari
Teologia
Di fronte al pluralismo religioso
Rosanna Virgili
La voce del dissenso
Il frutto dolce o amaro del lavoro
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Giuda coscienza scomoda
Giacomo Gambetti
Cinema
Il tallone d’Achille
Il mio miglior nemico
Roberto Carusi
Teatro
Mozart delle marionette
Renzo Salvi
RF&TV
Ulisse
Mariano Apa
Arte
Metropolis
Giuliano Della Pergola
Mostre
Una riproposta dei Macchiaioli
Michele De Luca
Fotografia
Neorealismo
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
«.eu» come Europa
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Ciad
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 11 – 1 giugno 2006
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ANNO
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Editore: Pro Civitate Christiana
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono
riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati
non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 16/05/2006 e spedito da
Città di Castello il 19/05/2006
4
Parlate pure
tanto...
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Quali accorgimenti dovrebbe adottare la Conferenza
Episcopale per esternare le
proprie legittime raccomandazioni senza dare l’impressione di voler privilegiare un
determinato schieramento
politico? In altri termini,
come può la gerarchia farsi
Chiesa nella Gerusalemme
terrena?
Innanzitutto è necessario
un intervento a trecentosessanta gradi che spazi su tutte le tematiche della dottrina morale e sociale del cristianesimo; ciò al fine di evitare che alla opzione prioritaria verso la famiglia, sulla
quale la Cei insiste giustamente, si possa contrapporre con altrettanto fondamento la centralità della
società, della economia, della pace o dell’ambiente.
Il secondo paletto è dato
dalla puntualità e dal rigore delle indicazioni: non
pare ad esempio molto coerente un appello generico
alla pace non accompagnato dalla condanna senza
mezzi termini del teorema
della guerra preventiva o
della azione bellica volta ad
esportare democrazia, che
si pone in aperto conflitto
con il divieto morale di perseguire un fine lecito tramite un mezzo illecito.
Infine quello che può essere
considerato il tassello fondamentale, vale a dire il ruolo
dei laici ai quali, sulla base
degli insegnamenti conciliari, spetta il compito di calare i principi e i valori nella
realtà di ogni giorno e quindi la responsabilità nel ricercare le soluzioni concrete facendo leva sul giudizio della
propria coscienza.
È chiaro che individuare un
giusto equilibrio tra il diritto della Chiesa ad esprimere le proprie legittime opinioni e il rischio di invadere le competenze di uno stato sovrano richiede notevole dose di discernimento; se
tuttavia le prolusioni fossero esternate dopo avere
ascoltato anche le comunità che a vario titolo rappresentano il variegato mondo
della laicità, nel senso conciliare del termine, allora
ogni ipotetica imputazione
di invasione di campo non
avrebbe alcuna ragione di
essere. In caso contrario il
rischio non sarebbe la ricorrente accusa di ingerenza
quanto quello di sentirsi
dire: «Prego parlate pure,
tanto...».
Aldo Abenavoli
Roma
Mi congratulo
con voi
Mi riferisco alla lettera di
Luisa Spranzi pubblicata
nel n. 9 di Rocca.
Cara Signora,
la sua lettera sembra più
uno sfogo per la sconfitta
elettorale del centro-destra,
che un appello ai valori della Cristianità.
Se non è accettabile che
qualche politico distribuisca gratuitamente insulti e
offese agli elettori, a maggior ragione è inammissibile che lo faccia lei.
Ma chi è lei per arrogarsi il
diritto di offendere, accusare, giudicare? Non bestemmi parlando impropriamente di valori Cristiani e
di Spirito Santo.
Dalla sua arida lettera non
traspare mai un benché minimo senso di umanità (tanto meno di cristianità); al
contrario sembra che alberghi in lei l’odio più profondo verso i suoi simili.
Un consiglio rilegga e/o si
faccia spiegare il Vangelo.
Pietro Annovi
Torino
Cara signora Luisa Spranzi, sono una di quelle «ipocrite donne di chiesa che
mentre si proclama credente e praticante si fa sorda
agli avvertimenti del Papa»
(ma sarà proprio così?).
A differenza sua io ho smesso di giudicare le altre persone secondo le mie catego-
rie.
Le porto solo la mia esperienza personale, credo comune a tante famiglie non
ricche di denaro, ma dignitosamente ricche ancora di
speranze per i propri figli.
Unica nostra ricchezza sono
quattro figli (dai 17 agli 8
anni) e una casa di campagna ancora da terminare di
pagare.
Viviamo nella rossa Emilia
e se 17 anni fa non avessimo avuto tutti quei servizi
(asili nido, campi estivi,
scuole pubbliche qualificate) che mi hanno permesso
di mantenere un lavoro stabile, non avremmo potuto
realizzare il nostro progetto
di maternità e paternità responsabile.
Cosa ce ne faremmo ora del
bonus bebè senza quelle
strutture pubbliche ora tutte privatizzate ed estremamente costose? Cosa ce ne
facciamo ora della serietà e
dell’impegno di tanti insegnanti pubblici, che per dirne una, non vedono sostituite le loro assenze per malattia, perché i fondi per la
scuola sono stati tagliati e si
può stare anche un mese
parcheggiati senza l’insegnante d’italiano?
Si possono fare molte azioni propagandistiche, ci si
può riempire la bocca di
parole sonanti a favore della famiglia, ma quando
manca un progetto di solidarietà sociale lungimirante restano solo gli speccchietti per le allodole e le trovate pubblicitarie.
In realtà non so se rallegrarmi del nuovo governo, so di
certo che non potevo condividere il sistema etico di
quello precedente. Imperniato attorno ai valori del
successo, del prestigio per
ciò che appare bello e potente, della competitività e della prevaricazione, del dispregio e del dubbio per le intenzioni dell’altro, della continua mistificazione nella lettura dei fatti e delle idee.
Avrei voglia di una società
più pulita, dove i nostri figli
possano realizzare i loro sogni più autentici (non quelli
indotti) senza prevaricare gli
altri, o dove almeno si possa ancora sognare.
Per questo invoco lo Spirito
Santo, perché ci dia occhi
per vedere al di là delle apparenze e orecchie per sentire le voci che non urlano.
Mentre narravo ai bambini
del catechismo la «lavanda
dei piedi» un bambino di 8
anni mi ha detto: «ma allora Gesù è un capo al contrario!».
Sì, è questa l’utopia che vorrei: dei capi che si fanno servi, nella politica e nella chiesa.
Marina Galletti
Renazzo (Fe)
Vi invio queste righe (che
spero non siano troppe)
dopo la lettura della lettera
«Mi congratulo con voi»
pubblicata sul n° 9/06. Sono
un prete e solitamente non
scrivo a riviste, ma stavolta
non ho potuto resistere.
Onore a voi che, giustamente date spazio a tutte le voci,
ma non posso tacere sul
contenuto di quella lettera.
La ricchezza in sé non è peccato? Mi sembra di ricordare che qualcuno ha detto: «È
più facile che un cammello
passi per la cruna di un ago
che un ricco entri nel regno
dei cieli». Un sodale di Francesco Caruso? No, Gesù di
Nazaret che è (ancora, credo) il Maestro per tutti noi,
per la comunità dei credenti. E colui che ha detto (cito
a memoria): «È del povero
il mantello che tieni custodito nel tuo armadio» è forse un amico di Luxuria? No,
è S. Basilio Magno, padre
della Chiesa. E colui che ha
scritto: «E ora a voi, o ricchi. avete accumulato tesori per gli ultimi giorni»? S.
Giacomo apostolo. E un altro pericoloso figuro che ha
asserito: «All’interno della
comunità cristiana non
deve esservi una forma di
cep
centro
educazione
permanente
15-30 luglio
CORSO QUADRIENNALE
DI MUSICOTERAPIA
Assisi
IL CORSO SI ARTICOLA IN:
• uno stage residenziale estivo di due settimane ogni anno
• un tirocinio di 250 ore dopo la frequenza del 2° anno
REQUISITI DI AMMISSIONE:
diploma di scuola secondaria superiore e diploma di Conservatorio o almeno del compimento medio
Il CORSO QUADRIENNALE, istituito sin dal 1981, è finalizzato all’acquisizione di competenze musicoterapiche di
base, utilizzabili in differenti contesti (educativo-preventivo, riabilitativo, terapeutico e di integrazione sociale).
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
PER INFORMAZIONI E ISCRIZIONI
centro educazione permanente
Cittadella - 06081 Assisi (PG) tel./fax 075812288
e-mail: [email protected]
sito internet: http://www.cittadella.org I
N
5
CI SCRIVONO I LETTORI
6
Enzo Pacini
Prato (Fi)
Cosa giova
alla causa della pace
«Al servizio della pace» è il
titolo di copertina di «Famiglia Cristiana» n. 19 del 7
maggio 2006 che, a pagina 3
contiene l’articolo «I nostri
ragazzi nella via dell’amore»
scritto da monsignor Gaetano Bonicelli.
Stridenti, con i suoi segni distintivi di religioso cristiano,
sono le argomentazioni che il
Monsignore fa sulla morte di
questi ragazzi che tutti abbiamo pianto. Citare l’esempio di
Cristo che, nella sua missione di pace, ha indicato con
chiarezza come, con quali
mezzi e con quali strumenti,
si porta la pace nel mondo
non è il caso: è scontato che
sono in netto contrasto con
quelli che stanno usando anche i nostri soldati. Mi voglio
limitare ad un’analisi più laica delle dolorose vicende che
quotidianamente, per televisione, vediamo.
Tutti siamo d’accordo nel volere la pace (il fine), ma è sul
come, cioè con quali mezzi,
con quali strumenti che ci si
divide. C’è chi crede ci si possa arrivare solo con il dialogo (la Politica) cioè con un
mezzo diverso, anzi contrapposto a quello usato da quelli che noi abbiamo definito
«terroristi», ma che gli arabi
chiamano «resistenti». Chi
ritiene lecito usare anche lo
strumento bellico per «pacificare» parte dalla presunzione di essere detentore assoluto della verità e della giustizia e che, pertanto, la sua
«missione» è portare questi
valori in giro per il mondo.
Chi, invece, al contrario considera illecito usare lo strumento bellico e vede solo la
via del dialogo, parte dal presupposto che ogni uomo,
ogni etnia, ogni popolo e ogni
religione detiene, nella sua
storia, verità e giustizia.
Credo non giovi alla causa
della pace esaltare questi poveri ragazzi morti in questa
che noi italiani ci ostiniamo
a definire «missione di pace».
Credo non giovi neanche attribuire loro presunte idealità o considerarli portatori di
chissà quali valori come fa su
«Famiglia Cristiana» il monsignor Gaetano Bonicelli.
I nostri soldati morti in giro
per il mondo certamente meritano rispetto, ma il sentimento prevalente che io provo è la compassione. Sì, compassione perché, vedendo la
folla inferocita accanirsi contro i corpi dei soldati inglesi
dell’elicottero abbattuto qualche giorno fa, mi sembra che
siano tutti morti invano. Compassione, sia per i soldati a
servizio di uno Stato, sia per i
civili a servizio di privati come
guardie del corpo, perché penso che per molti di loro è solo
un lavoro: il lavoro è per vivere non per morire. Compassione anche per i politici che
hanno deciso di mandare questi ragazzi in guerra (quando
si usano le armi che uccidono è sempre e solo «guerra»)
perché chi è nella presunzione di avere solo egli la verità e
la ragione è un povero uomo
in quanto si è precluso ogni
possibilità di comprendere la
verità e la ragione del suo simile: a torto egli pensa che «il
fine giustifica i mezzi».
«Il fine è nei mezzi» dal momento che riconosco ogni
persona, popolo, etnia o religione, portatore di un fascio
di luce di verità e di giustizia,
non posso pensare di liberarlo usando le armi che lo possono uccidere. Ogni persona
che, nel conflitto armato,
muore è un fascio di luce che
si spegne. Tanti fasci di luce
sono stati spenti negli ultimi
anni: non si sa quanti, centinaia di migliaia forse più, non
importa a quale popolo appartenevano, non importa quale
divisa indossavano e se la divisa non la indossavano proprio, importa solo che il mondo è diventato più buio.
Fermiamoci, invertiamo la
rotta prima di arrivare al buio
totale perché lo scontro tra
culture è di nuovo all’orizzonte. Ritroviamo il dialogo rico-
novità
noscendo anche nell’altro
(diverso da noi) la luce della
verità, della ragione e della
giustizia. La «Storia» ha dimostrato l’infondatezza del
motto fascista «La pace riposa sulla forza delle nostre
armi». Questa è la pace di
colui che si sente superiore
agli altri e la sua missione è
quella di «esportare» verso
altri popoli i suoi valori superiori.
Nel 1600 ha esportato la religione Cristiana agli «Indios senza Dio» del Nuovo
Mondo; nell’800 ha esportato la civiltà alle tribù di cannibali dell’Africa nera e alle
tribù dei selvaggi pellerossa del «Far West»; oggi nel
2000 vuole esportare la libertà e la democrazia ai retrogradi arabi: pare che la
Storia non sia stata abbastanza maestra.
La pace, la vera pace riposa
sulla forza della ragione (della verità per il cristiano) e
questa forza è presente in
ogni uomo che vive sulla faccia della terra. Cosa giova allora alla causa della pace?
Giova riconoscere al fratello
(concretamente nei fatti) il
diritto di vivere non lasciandolo morire di fame nella nostra più totale indifferenza.
Giova trovare il coraggio di
mettere in discussione il nostro modello economico sociale che, di fatto, abbiamo
imposto a tutto il mondo.
Giova tener presente che il
primo diritto, sacro e inviolabile, di ogni uomo è il diritto naturale di vivere e
quando il nostro «Diritto
commerciale» determina
morte per fame e miseria
dilagante per oltre l’80% delle persone che vivono sulla
Terra, non resta che riconoscerne il suo fallimento.
Giova tener presente che tutti i cosiddetti «diritti positivi» introdotti dall’uomo non
possono che essere strumenti per produrre e distribuire
equamente i frutti della Terra per unico scopo: perseguire il diritto naturale di ogni
persona cioè nutrirsi, vestirsi ed avere un riparo dalle intemperie.
Giuseppe Angelini
Il tempo e il rito
Alla luce delle Scritture
pagg. 344
Leonardo Boff
La preghiera semplice
di Francesco
Un messaggio di pace per il
mondo attuale
pagg. 128
Giovanni Benassi
Dal Presepe
al Vangelo
pagg. 160
•
Carlo Broccardo
La fede emarginata
Analisi narrativa di Luca 4-9
pagg. 360
•
Emanuele Marini
Vita corpo e affettività
Nella fenomenologia
di Michel Henry
pagg. 240
Francesca Tuscano (a cura di)
Pier Paolo Pasolini
Intellettuale del dissenso
e sperimentatore linguistico
pagg. 264
•
Rinaldo Fabris
I VANGELI - MARCO
Traduzione e commento
di Rinaldo Fabris
pagg. 392
www.cittadellaeditrice.com
ret un giorno disse: «... coloro
che hanno il potere si fanno
chiamare benefattori» e com’è
vero questo! Ma aggiunse subito: «fra voi non sia così» (Lc
22,25).
•
D. Valli - G. Piccinni (a cura di)
Tonino Bello al suo paese
I discorsi del decennale
(1993-2003)
pagg. 112
•
Francesco Testaferri
Ripensare Gesù
L’interpretazione ebraica
contemporanea di Gesù
Prefazione di C. Dotolo
pagg. 224
•
•
Giovanni Cesare Pagazzi
Il polso della verità
Memoria e dimenticanza per
dire Gesù
pagg. 136
•
D. Valli - G. Piccinni (a cura di)
L’ecclesiologia in
don Tonino Bello
tra testimonianza, profezia
e santità
pagg. 168
Fabiola Falappa
Il cuore della ragione
Dialettiche dell’amore
e del perdono in Hegel
pagg. 208
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
povertà tale che a qualcuno
siano negati i beni per una
vita dignitosa» è forse un
seguace dell’esecrabile cattocomunismo? Tutt’altro, è
papa Benedetto XVI nell’ultima enciclica.
Ma la signora mi dirà: «Se
nessuno dev’essere povero
allora la ricchezza è cosa
buona!» No, signora, cosa
buona è la fraternità, la condivisione. Anche perché è
proprio la ricchezza in
mano a pochi che produce
la povertà altrui. E anche
volendo essere campanilisti
ricordiamo che buona parte dei poveri del mondo
sono pure cristiani, quindi
due volte nostri fratelli per
la fede e l’umanità comuni.
Certo un famoso padre della Chiesa, s. Clemente, si
domandò se il ricco si sarebbe potuto salvare e, secondo lui, sì, ma a certe condizioni. No, non esponendo il
crocifisso in ufficio, ma,
come la Chiesa, almeno nel
suo magistero recente, ha
sempre detto, conservando
una finalità sociale per il
bene comune. Detto in parole semplici producendo
lavoro, occupazione, ecc.
Cosa che il capitalismo rampante di questi tempi non fa,
perché basato in gran parte
su speculazioni finanziarie
che non producono un bel
nulla (se non per le tasche
di chi le fa).
Ma la difesa della vita? Vede,
signora, da mattina a sera
incontro persone che hanno
problemi non solo a mettere al mondo i figli ma anche
a farceli stare. Quindi problemi di salute, ticket da pagare, bollette, case che non si
trovano, sfratti, persone anziane che non hanno assistenza: anche queste sono
vite! Un governo che continua a togliere risorse allo stato sociale e ad accrescere le
spese in altri settori: grandi
opere, spese militari, tanto
per fare due esempi è a favore della vita? O la pretesa difesa della vita è un’esca per
gonzi, un «do ut des» per far
passare sotto silenzio tutte le
altre nefandezze che vengono compiute ogni giorno?
Sempre il Maestro di Naza-
Per informazioni e ordinazioni: Tel. 075.813595 • Fax 075.813719 • E-mail: [email protected]
cittadella editrice - assisi
Paolino Bertazzo
Servigliano (Ap)
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7
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ATTUALITÀ
Sudan
speranze
di pace
per il Darfur
Atene
concluso
il social forum
europeo
Napoli
se hai
voglia di piangere
non farlo
Spagna
schiarita
sul lavoro
precario
Italia
a favore
di
un’amnistia
L’accordo di pace firmato il 5
maggio ad Abuja (Nigeria) sul
Darfur dovrebbe riportare la
calma in questa regione sconvolta dal 2003 da uno dei più
violenti conflitti del mondo. Si
ricorderanno gli sforzi degli
ultimi due anni per la pacificazione della zona meridionale con la decisione di un referendum per l’indipendenza
fissato nel 2010. Ma resta il
nodo del Darfur (Ovest del
Sudan).
L’attuale negoziato, condotto
dal segretario di Stato aggiunto americano Robert Zoellik,
ha riportato un sia pur parziale successo. Si sa che Washington vuole preservare il Sudan
dalla questione terroristica, e
c’è stato un impegno notevole, anche se l’accordo è stato
firmato soltanto da una delle
tre milizie ribelli che lottano
per una migliore ripartizione
delle ricchezze del Paese e
contro la pulizia etnica praticata dagli arabi con il consenso del governo di Kartum.
L’accordo rischia dunque di
non essere recepito da tutto il
territorio e, tuttavia, ha aperto la speranza che non continui il brutale massacro
(180.000 morti e i quasi 2 milioni e mezzo di persone costrette a fuggire per trovare
rifugio).
A fronte dei tentativi di pacificazione condotti dall’Unione
Africana (Ua), che negli anni
scorsi non sortirono alcun risultato e i cui soldati attualmente non riescono a far rispettare il cessate-il-fuoco, l’accordo di Abuja ha inserito una
clausola per la quale potrà intervenire una forza dell’Onu per
rimpiazzare i soldati dell’Unione. La pace però non sarà raggiunta se la comunità internazionale non continuerà a sostenere il programma alimentare
per queste popolazioni stremate dalla violenza, le cui campagne non garantiscono neppure
la sopravvivenza.
La manifestazione conclusiva
del IV Social Forum europeo
ha visto sfilare il 6 maggio ad
Atene gli 80.000 partecipanti
dei movimenti sociali di tutta
Europa. Nella loro dichiarazione finale si legge: « Siamo
venuti ad Atene, dopo giorni
di comuni esperienze di lotta
contro la guerra, il neoliberismo, tutte le forme di imperialismo, il colonialismo, il
razzismo, la discriminazione
e lo sfruttamento, contro ogni
rischio di catastrofe ecologica . Qest’anno è stato estremamente significativo per il numero di lotte sociali e campagne che hanno vittoriosamente bloccato progetti neoliberisti come quelli avanzati nel
trattato di Costituzione europea, la Direttiva di Eu Ports e
il Cpe in Francia».
Definito l’ambito dell’impegno del Forum, la dichiarazione passa in rassegna i nodi
politici più inquietanti «L’attuale situazione ci offre molte opportunità, ma anche gravi pericoli. L’opposizione e la
resistenza alla guerra e all’occupazione dell’Irak hanno
reso palese il fallimento della
strategia degli Usa e della
Gran Bretagna. Il mondo sta
affrontando l’incubo di una
nuova guerra in Iran. L’arbitraria decisione di tagliare i
fondi all’Autorità nazionale
palestinese è inaccettabile». E
successivamente il testo si sofferma sulla condizione di precariato e di politiche lavorative liberiste in Europa, rifiutandole. Siamo per «un’altra
Europa, un’Europa femminista, ecologista, un’Europa
aperta, di pace, di giustizia
sociale, di vite dignitose, di
sovranità e solidarietà alimentare, nel rispetto dei diritti
delle minoranze e dell’autodeterminazione delle persone».
La dichiarazione si conclude
auspicando un migliore coordinamento tra i movimenti
dell’Est e dell’Ovest.
Settanta ragazzi di due scuole di Napoli, precisamente del
rione Scampìa e di un’associazione Rom hanno riportato in
scena un classico, «La pace»
di Aristofane, irridente commedia contro la guerra.
Merita di essere citata come
iniziativa teatrale riuscita. Ma
non solo: i ragazzi si sono fatti
interpreti di una vera e propria
provocazione politica. Dalla
periferia dell’Antica Atene e
dall’Olimpo greco la scena si è
trasferita nella degradata e violenta periferia napoletana e a
interpretare gli dei e gli eroi
sono stati – trascinanti per
immediatezza e inventiva – i
ragazzi istruiti dallo Stabile
partenopeo per la regia di Marco Martinelli. Nell’originale, la
vicenda trattava di un cittadino ateniese che, stanco delle
guerre con Sparta, decide di
salire al cielo su uno «scarabeo stercorario» per ricondurre la dea Pace in terra. La trasposizione della commedia,
che in due serate di spettacolo
ha raccolto una folla straripante, è riuscita a lanciare a Scampìa il messaggio costruttivo:
«se qualche volta hai voglia di
piangere, non farlo».
Il governo Zapatero ha ottenuto il consenso dei sindacati e dell’imprenditoria per una
legge che frena la prassi dei
contratti a termine. L’accordo
è stato firmato il 9 maggio e
dovrebbe entrare in vigore il
1° luglio. La prima disposizione di tale negoziato mira a
contrastare la pratica molto
diffusa per la quale, invece di
un contratto fisso, vengono
stipulati successivi contratti a
tempo determinato per gli
stessi lavoratori impegnati
nello stesso lavoro.
Il secondo asse della legge riguarda quelle imprese che trasformeranno gli impieghi precari in impiego fisso, entro la
fine dell’anno: queste riceveranno un bonifico ( tra gli 800 e i
1200 euro all’anno) sui contributi assicurativi per i lavoratori, per tre anni. Il governo valuta più di un milione e mezzo il
numero di impieghi precari
che, grazie a questa riforma,
dovrebbero convertirsi in impieghi fissi, anche se sottolinea
che la riuscita dell’operazione
dipenderà «dalla volontà di tutti» e anche se non mancano le
critiche di chi auspica un maggiore vigore governativo.
In visita al carcere di Arezzo, il
cardinale Renato Martino ha
rivolto al nuovo Parlamento italiano l’appello perché venga
approvato al più presto un
provvedimento di clemenza per
i carcerati. Ricordiamo che
anche papa Giovanni Paolo II
lo aveva fatto durante la sua
visita in Parlamento, il 14 novembre 2002, quando rilevò:
«Senza compromettere la necessaria tutela della sicurezza
dei cittadini, merita attenzione
la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento». Il «Corriere
della Sera» del 14 maggio pubblica una foto, risalente al Natale 2005, in cui si notano il neo
presidente Giorgio Napolitano
e l’on. Emma Bonino nella
marcia per l’amnistia. La sollecitazione è ora condivisa anche
dal presidente della Camera
Bertinotti. Il mensile «Famiglia
oggi» nel numero speciale di
maggio (www.famigliaoggi.it)
dedica al problema famigliare
dei detenuti, che sono quasi
sessantamila nel nostro Paese,
uno studio documentato e importante, indicando anche il
ruolo ineludibile di tutta la società civile.
Thailandia
la prima
donna
«bonzo»
Difficile tradurre al femminile «bonzo», sacerdote buddista, ma Dhammananda è proprio una sacerdotessa buddista, donna ordinata «bikkunni», dopo otto secoli di assenza del fenomeno nel Sud Est
asiatico (nella foto). È la sola
in Thailandia abilitata a portare il «civara», l’abito di seta
color zafferano, tradizionalmente indossato dai bonzi.
Chatrumarn Kabilsingh (è il
suo nome laico) è stata presidente e co-fondatrice dell’organizzazione internazionale Sakyadhita (Figlie di Buddha); si
è laureata filosofia con una tesi
sul femminile del monachesimo; lavora al Ministero della
cultura come responsabile degli studi indiani; ha tre figli.
Ha percorso un cammino spirituale che l’ha portata gradualmente all’ordinazione,
anche se non sono mancate le
critiche e persino le minacce
dei monaci tradizionalisti. Dimostrando il suo collegamento col buddismo primitivo,
Dhammananda si fa apostola
del movimento dell’uguaglianza femminile; organizza
preghiere e opere di carità.
Israele
non tirate sassi agli scolari
C’è stato un appello il 10 maggio da parte di oltre trenta intellettuali israeliani al premier Ehud Olmert perché intervenga a
fermare i coloni che lanciano sassi al passaggio dei bambini
palestinesi che vanno a scuola. Succede ogni mattina intorno
al villaggio di Umm-Tuba, tra le colline a sud di Hebron, dove
sono gli avamposti ebraici di Maon. Ci sarebbe già una scorta
israeliana, ma non reagisce agli attacchi; i volontari europei
che difendono gli scolari sono anch’essi oggetto di aggressione. Tra i firmatari dell’appello, gli scrittori Amos Oz, David
Grossman, Saed Kashua, Meir Shalev, il filosofo Avishal Margalit, il musicista Ehud Banal. Chiedono che l’esercito garantisca ai ragazzi palestinesi di poter raggiungere la scuola: «Il
diritto all’educazione- scrivono- è un diritto umano fondamentale che lo Stato d’Israele ha la responsabilità di tutelare. Le
autorità devono applicare la legge contro i coloni di Maon» .
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
10
ATTUALITÀ
Torino
l’avventura
del libro
continua
Bolivia
dopo
i giacimenti di gas
le terre
Da un po’ di anni, molti danno per imminente la morte
del libro. Tra i temibili nemici, in ordine di tempo: il cinema e la televisione, il computer e internet, infine l’ebook. Ma come l’araba fenice il libro sembra sempre risorgere dalle sue ceneri grazie ad un supporto dimostratosi fino ad oggi imbattibile:
la carta.
La Fiera del Libro di Torino
(4-8 maggio) con i suoi 300
mila visitatori è l’ultima conferma. Una grande kermesse
con la presenza di editori, di
realtà istituzionali (regioni,
Senato, ministeri) e una
«contaminazione» con la cultura in senso antropologico
grazie a Slow food.
Il tema «L’avventura continua» ha fatto da collante ad
un fitto programma di appuntamenti. Accanto ai tradizionali spazi dedicati ai ragazzi, agli operatori professionali e all’attualità, si è
aperto lo spazio «Oltre» per i
giovani dai 14 ai 19 anni, con
l’intento di sedurre la fascia
di età che sembra essere il
buco nero della lettura. Di
grande interesse lo spazio
«Lingua Madre», dove si sono
presentati una quarantina di
scrittori delle periferie del
mondo.
Per il secondo anno consecutivo la Fiera si è dilatata oltre
il Lingotto e ha coinvolto con
altre iniziative la città di Torino.
Anche l’evangelizzazione ha
fatto capolino alla Fiera. Oltre allo stand del Progetto culturale della Cei, presente da
alcuni anni e dedicato all’evangelizzazione attraverso
la cultura, la novità del piccolo stand dei Cappuccini del
Piemonte con la presenza di
un gruppo di giovani frati,
che hanno positivamente intercettato molti visitatori.
Insomma, un evento da non
perdere. (fr.fe.)
Il neo-presidente Evo Morales sta cercando di invertire i
processi di privatizzazione
della Bolivia. I primi di maggio ha annunciato la nazionalizzazione dei giacimenti
di gas e di petrolio. Il suo governo ha dato alle aziende
straniere sei mesi di tempo
per regolarizzare la loro posizione concludendo nuovi
contratti di sfruttamento con
la compagnia statale Ypfb. Se
non avranno trovato un accordo con lo Stato, appare
chiaro che le compagnie straniere se ne dovranno andare.
Morales ha anche mandato i
soldati – senza negoziati preventivi – a occupare più di
una cinquantina di impianti.
Atteggiamento giudicato all’estero «troppo ostile» (El
Paìs, Spagna). Ma si vedrà in
questi mesi come sarà giocata la fase più delicata di questa nazionalizzazione degli
idrocarburi che i boliviani
hanno voluto, votando per
Morales.
La Bolivia possiede riserve
di gas per oltre 775 miliardi
di metri cubi, le seconde nel
continente dopo il Venezuela e, dunque, si capisce la
preoccupazione dei mercati,
a cominciare da quello brasiliano che riceve dalla Bolivia metà dei suo fabbisogno.
Il 10 maggio, poi, il governo
ha reso noto che provvederà
a distribuire tra gli 11 e i 14
milioni di ettari di terra in
favore di gruppi indigeni e
campesinos. Le terre che verranno confiscate e riassegnate costituiscono il 10 per cento sella superficie coltivabile totale del Paese. Hugo Salvatierra, ministro dello Sviluppo contadino e dell’ambiente boliviano, per prevenire l’opposizione, ha garantito che «il provvedimento
non sarà volto a colpire direttamente i coltivatori stranieri».
Ecumenismo
disponibilità
al Patriarcato
russo
L’audacia diplomatica che
contraddistingue il cardinale
Kasper, presidente del Consiglio per l’Unità dei cristiani,
il quale nel giugno scorso parlava a Bari di un Concilio con
gli ortodossi, non viene delusa: si prevede già per il prossimo settembre un mini-concilio cattolico-ortodosso a Belgrado. Intanto, da Mosca il
patriarca Alessio II (nella foto)
in un’intervista all’Ansa, fa sapere che «ci aspettiamo fatti
concreti per risolvere le difficoltà esistenti. Si vuole sperare che proprio per questo
motivo il pontificato di Benedetto XVI diventerà celebre e
sarà ricordato». E continua:
«Le dichiarazioni di Benedetto XVI sulla volontà di sviluppare i rapporti con la Chiesa
ortodossa infondono speranza che la situazione cambierà
per il meglio». La Chiesa ortodossa e il patriarca ritengono importante «unire le forze»
per contrastare l’ondata secolarista, «il culto autoreferenziale del consumismo, il pericolo di uno scontro di civiltà,
il laicismo che tende a ricacciare la religione nell’ambito
privato».
notizie
seminari
&
convegni
Rabat. Dopo il nuovo codice
di famiglia, che innova in molte parti le regole famigliari in
un paese tradizionalmente
islamico, in Marocco 50 donne sono state nominate «murshidal», guide della preghiera.
Per ora non potranno predicare il venerdì, ma potranno
insegnare religione in carcere e nelle moschee, seguire i
malati. Viene loro consegnato in particolare un mandato
pacifista: contrastare l’Islam
radicale e fondamentalista.
Strasburgo. Due chiese protestanti francesi, la Chiesa lu-
terana e la Chiesa calvinista
d’Alzazia e Lorena hanno deciso di unirsi e di condividere
molti servizi comuni. L’accordo è stato stipulato il 7 maggio a Strasburgo, presenti un
migliaio di fedeli.
Velletri. Una «riflessione congiunta sulla conversione religiosa: dalla controversia ad
un codice di condotta condiviso» è il tema di un progetto
dell’Ufficio per le relazioni e
il dialogo interreligioso del
Consiglio mondiale delle
Chiese (Cec) e del Pontificio
Consiglio per il dialogo inter-
religioso. Un progetto che è
stato lanciato durante un incontro a Velletri (Roma) svoltosi dal 12 al 16 maggio.
Roma. Antigone, nota associazione che si occupa delle questioni carcerarie, ha presentato un pacchetto di proposte per
il nuovo governo. Tra le priorità chiede il coinvolgimento
del Terzo settore nelle scelte
politiche del comparto, il rilancio dell’edilizia carceraria, lo
snellimento della macchina organizzativa e un freno a quello che definisce «monolitismo
professionale».
31 maggio-gennaio. 2007.
Orvieto (Tr). Grande mostra
«Le stanze delle meraviglie da
Simone Martini a Francesco
Mochi» nei Palazzi Papali e
nella Chiesa di Sant’Agostino.
Informazioni: tel.02 433 403;
comunicato e immagini su:
www:ciponline.it.
31 maggio-3 giugno. Vicenza. Festival biblico promosso
dalla Diocesi di Vicenza e dal
Centro culturale San Paolo incentrato sul tema «I luoghi delle Scritture». Attraverso conferenze, spettacoli, mostre,
meditazioni, giochi e laboratori, danze, teatro e musiche…si
proporrà una rivisitazione dei
luoghi biblici. Tra i relatori:
Enzo Bianchi, Gianfranco Ravasi, Elmar Salmann, Antonio
Pitta, Agnese Cini, Lidia Maggi, Cristina Cruciali. Informazioni: 049 663499; 049 655 098,
e-mail: [email protected]
18-24 giugno e 19-24 giugno. Stresa (Vb). Settimane
estive di formazione a musica, danza, arte, organizzate
dal Cirmac (Centro italiano di
risveglio musicale Alain Carré), la prima per bambini, la
seconda per musicisti, musicoterapisti, educatori. Genitori... Informazioni: Cirmac, via
Alfieri 40, 10024 Moncalieri
(To), tel. 011 6408531, e-mail:
[email protected]
22-24 giugno. Levico Terme
(Tn). Seminario di studi del Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato penitenziario (Seac) sul tema «Controllati e controllori». Relazioni di
esperti e dibattiti scanditi in
quattro tematiche: «Controllo
sociale e politiche della giustizia»; «Quanto e come controllati»; «Quanto e come controllori»; «Per una società con
meno carcere». Segreteria del
Seminario: Apas, vicolo Maddalena 11, 38100 Trento, tel.
0461 239 200, fax 0461238 323;
e-mail: [email protected].
1-2 luglio. Costabissara
(Vi)). L’associazione «Presenza donna»organizza a Villa
San Carlo un week-end di formazione sul tema: «Potere
della croce, impotenza della
resurrezione». Relatori don
Giuseppe Siviero e Lilia Sebastiani. Informazioni: Centro
Studi «Presenza donna», via
san Francesco Vecchio, 20,
36100 Vicenza, tel. 0444 323
382, fax 0444 321 782, e-mail:
[email protected].
1-8 luglio. Cogolo di Pejo
(Tn). Campo-scuola promosso
dall’Associazione nazionale circoli cinematografici italiani sul
tema: «Immagini e parole»,
rapporto tra cinema e letteratura. Relatori: Ernesto Laura,
Claudio Villa, Enzo Natta. Informazioni: Anci, via Nomentana 251 - 00161 Roma, tel.06
44 02 273, fax 06 44 02 280.
5-8 luglio. Camogli (Ge).
Corso di formazione su «Il
conflitto come risorsa», a cura
del Centro Psicopedagogico
per la pace. Responsabile
scientifico Daniele Novara, relatori Paolo Ragusa ed Emanuele Cusimano. Informazioni: Centro Psicopedagogico
per la pace e la gestione dei
conflitti, Via Campagna 83,
29100 Piacenza, tel. fax 0523
498 594, e-mail: [email protected].
10-15 luglio. Camposampiero (Pd). Corso di Esercizi spirituali per tutti, diretto da don
Carlo Molari presso la Casa di
spiritualità dei Santuari Antoniani. Tel. 049 930 3003, fax
049 931 6631.
17-22 luglio. Pozzo di Gotto
(Me). Settimana biblica sul libro del Qohelet e sul libro di
Giona. Lectio divina guidata
da Pino Stancari S.J, presso
la Fraternità Carmelitana. Informazioni: Carmelitani, via
U.Foscolo 54, 98050 Pozzo di
Gotto (Me), tel.090 976 2800.
24-28 luglio. Camposampiero (Pd). V Settimana biblicoliturgica sul tema «Tempo e
spazio nell’azione liturgica».
Relatori: Giorgio Bonaccorso,
Renato De Zan, Franco Magnani, Daniele Piazzi, Virginio
Sanson. Informazioni: Casa di
spiritualità dei Santuari antoniani,35012 Camposampiero
(Pd), tel. 049 930 3003.
22-29 luglio. Bagni Froy
(Alto Adige). Corso di ecologia a cura di Filippo Calore,
Incontri di Shiatsu a cura di
Mario Jannello. Informazioni
per tutta la vacanza alternativa: www.bagnifroy.cjb.net, tel.
0444 696 706, 333 908 7622.
13-16 agosto. Assisi. Incontro biblico sul tema «Il perché
della nostra speranza», su testi di Aggeo, Gioele, Zaccaria
e Malachia. Relatori: don Lucio Sembrano, Porzia Quagliarella, Sennen Nuziale, Bruno
Baioli. Informazioni:Cittadella
cristiana, 06081 Assisi, tel
075813231, fax 075 812445; email:[email protected].
21-26 agosto.Verbania. Corso di formazione «Valutazione e intervento rivolti ad alunni portatori di disabilità gravi
e plurime», rivolto a insegnanti di classe e di sostegno ed
educatori, organizzato dal
Movimento apostolico Ciechi.
Il Corso è della durata di 30
ore e viene rilasciato un attestato di frequenza. Informazioni: Rino Nazari (h.10-13)
tel. 02 469 4800.
11
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
ATTUALITÀ
Valentina
Balit
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Il fossile di un serpente con due zampe, scoperto in Argentina in un deposito del tardo
Cretaceo (risalente a circa 90 milioni di anni
fa) da un gruppo di ricercatori dell’Università brasiliana di San Paolo, riapre il dibattito sull’evoluzione di questa specie.
I ritrovamenti degli ultimi anni, spiegano
gli autori della scoperta pubblicata sulla rivista Nature, erano avvenuti sempre in zone
che in tempi remoti erano state bagnate dal
mare. Questo aveva fatto ipotizzare l’origine marina dei serpenti. Il nuovo rinvenimento, proveniente da un deposito geologico di
origine terrestre, suggerisce invece che i primi serpenti scavassero la terra e successivamente abbiano perso le zampe. Il fossile,
Anche nell’organismo adulto sarebbero presenti cellule staminali con le stesse proprietà di quelle embrionali. La notizia, le cui
applicazioni future in campo biomedico
sarebbero straordinarie, è stata pubblicata
su Nature da un gruppo di ricercatori dell’Università Georg August di Gottinga. I ricercatori tedeschi hanno isolato questo nuovo tipo di cellule nei topi maschi, prelevando dai testicoli le cellule sessuali in uno stadio di sviluppo anteriore alla formazione
degli spermatozoi. In alcune specifiche condizioni queste cellule si sono differenziate
nei tre tessuti fondamentali che compongono l’embrione. Inoltre alcune di esse sono
state iniettate in alcuni embrioni di topo e
si è visto che hanno contribuito alla crescita di numerosi organi. Fino ad oggi le cellule staminali cosiddette totipotenti, perché
capaci di trasformarsi in qualsiasi altra cellula dell’organismo umano, potevano essere ricavate solo ed esclusivamente da embrioni. Per il momento i ricercatori tedeschi
sono riusciti a dimostrare che queste nuove
cellule, battezzate staminali multipotenti
della linea germinale, sono in grado di differenziarsi in molti altri tipi di cellule, ma non
hanno ancora verificato se queste cellule
riescono a sopravvivere nell’individuo adulto
e per quanto tempo sono in grado di farlo.
Inoltre bisognerà capire se anche negli uomini siano presenti cellule analoghe a quelle individuate per il momento nei topi. «Spero vivamente che questa scoperta possa fornire un nuovo metodo per ottenere questo
particolare tipo di cellule», commenta il
coordinatore dello studio Gerd Hasenfuss,
«che tra le altre cose hanno il pregio di non
sollevare problemi etici».
della quindicina
da IL MANIFESTO, 3 maggio
da PANORAMA, 4 maggio
da L’UNITÀ, 6 maggio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 7 maggio
da FAMIGLIA CRISTIANA, 7 maggio
da L’UNITÀ, 8 maggio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 9 maggio
da LA REPUBBLICA, 13 maggio
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Serpenti con le zampe
Cellule staminali adulte
trovate nei topi
il meglio
L’eruzione vulcanica di Santorini, in corrispondenza della quale viene collocata la fine
della civiltà minoica, sarebbe avvenuta 100
anni prima di quanto finora stimato. La notizia è stata pubblicata in due articoli apparsi sulla rivista Science. Da diverso tempo gli archeologi stavano cercando di individuare con precisione il momento dell’eruzione. La scoperta è stata possibile attraverso il metodo di datazione al radiocarbonio,
applicabile ai fossili di natura organica che
abbiano un’età dell’ordine delle migliaia di
anni. Il gruppo di ricercatori della Cornell
University ha analizzato 127 campioni prelevati a Santorini, Creta, Rodi e in Turchia.
L’esame di questi campioni, associati a una
approfondita analisi statistica, ha permesso di calcolare che l’eruzione ebbe luogo alla
fine del XVII secolo a.C., e non, come si pensava finora, cento anni più tardi (intorno al
1500 a.C.).
Allo stesso risultato è giunto il secondo gruppo di ricercatori, coordinati dal geologo
danese Walter Friedrich, grazie all’esame di
un ulivo conservato sotto le ceneri vulcaniche. Gli scienziati hanno potuto stabilire
che, al momento dell’eruzione, l’albero era
ancora vivo e che l’anello di accrescimento
più recente doveva essere, quindi, contemporaneo all’esplosione del vulcano. La datazione al radiocarbonio ha permesso di
calcolare che l’eruzione ebbe luogo tra il
1627 e il 1599 a.C. Le nuove scoperte implicano una rilettura dei rapporti culturali che
caratterizzarono le civiltà di allora. In particolare, i ricercatori pensavano che le civiltà dell’isola di Creta, di Cipro, e della Grecia
avessero avuto molti legami con l’Egitto. Alla
luce delle nuove collocazioni temporali,
sembra invece che la civiltà egea sia stata
più strettamente legata alle regioni di levante come Israele, Palestina, Libano e Siria.
venuto alla luce nel nord dell’Argentina, è
stato chiamato Najash rionegrina: dal nome
ebraico del serpente biblico e dalla regione
del Rio Negro, dove è stato effettuato il ritrovamento. Najash rionegrina presenta un
ben definito osso sacro che sostiene una
pelvi e delle zampe posteriori che sembrano essere perfettamente funzionali. «Questo serpente è importante perché è il primo
con un osso sacro. Rappresenta una forma
intermedia che non è mai stata scoperta prima di oggi», spiega Hussam Zaher dell’Università di San Paolo in Brasile. I due scopritori del Najash rionegrina non sono i primi a
suggerire l’origine terrestre dei serpenti, ma
sono i primi a disporre di prove concrete sotto
forma di fossili che mettono in luce gli inizi
stessi della loro evoluzione. Tracce di questa
evoluzione sono del resto restate su alcune
specie viventi, dotate di vestigia di gambe posteriori sotto forma di piccoli «artigli».
vignette
notizie
dalla
scienza
Nuova luce sulla civiltà
egea dell’età del Bronzo
ATTUALITÀ
13
giornate di spiritualità per presbiteri, diaconi, laici, suore
5-9 giugno
nascita e crescita nel conflitto della comunità
cristiana
con Giancarlo BRUNI, servo di santa Maria e fratello della comunità di Bose
Inizio: lunedì 5, ore 18,30; termine: venerdì 9, ore 13
2° laboratorio estivo per coniugi, operatori sociali e pastorali 29 giugno - 2 luglio
... quel legame fragile...
animatori: Nella BORRI, psicologa; Giancarlo BRUNI, biblista; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra; Marco NOLI, sociologo
64° corso internazionale di Studi cristiani
20-25 agosto
senza i sandali dell’identità?
“Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è uomo o donna…” (Gal 3, 28-29)
domenica 20
ore 21,15
lunedì 21
ore 9
ore 16,30
martedì 22
ore 9
ore 16,30
mercoledì 23
ore 9
ore 16,30
giovedì 24
ore 9
ore 16,30
chi sono io? percorso in prosa e in versi tra identità di popoli e persone – a cura di Roberto
CARUSI, regista teatrale
esplorare l’identità
Eugenio BORGNA, psichiatra; Sergio GIVONE, filosofo – coordina Gianna Galiano, della Cittadella
se l’identità cammina con la storia
Raniero LA VALLE, giornalista
culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile?
Nacera BENALI, giornalista algerina; Kossi KOMLA-EBRI, scrittore migrante; Rosino GIBELLINI, teologo – coordina Franca CICORIA, della Cittadella
crescere con le differenze incontro con Marco PIAZZA, maestro di musica classica dell’India; intervista TV esclusiva a Raimòn PANIKKAR, indiano, filosofo delle religioni – a cura di Renzo SALVI, capoprogetto Rai Educational
nelle derive integraliste… vivere la laicita’ Corrado AUGIAS, scrittore; Giannino PIANA, teologo
morale – coordina Catiuscia MARINI, sindaco di Todi
cos’è di Cesare? cos’è di Dio? Enzo BIANCHI, priore della comunità monastica ecumenica di Bose
chi non si mette la maschera?: Il ‘Miserere’ di Georges Rouault - presentazione di Tony BERNARDINI,
della Cittadella
l’identità feriale Lilia SEBASTIANI, teologa
le identità negate interpellano la politica personalità del mondo politico
coordina Tonio DELL’OLIO, di ‘Libera International’
«chiunque io sia, tu mi conosci» Rosanna VIRGILI, biblista
a piedi nudi… consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio, Enzo BIANCHI
Il Corso è proposto dalla Cittadella con la collaborazione della Comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana – sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
ripartire dalla Costituzione
Raniero
La Valle
S
iamo stati a un passo dalla tregua istituzionale, che si sarebbe potuta realizzare col voto del centro-destra per
Napolitano, come molti volevano. Ciò
non è stato possibile perché Berlusconi aveva fatto la campagna elettorale
con il «libro nero del comunismo», e ora non
poteva votare in Parlamento mandandolo al
macero. Egli è prigioniero della sua pubblicità; non padrone di televisioni, ma loro servitore. In questo modo la destra non può più
fare politica, ma solo campagna elettorale
per avere la rivincita e tornare a governare.
Ma questa è la democrazia che divora se stessa. Dunque si è confermato ciò che dicevamo nella nostra ultima rubrica, e cioè che
una tregua istituzionale tra i due poli è possibile solo se Berlusconi si ritira, come fece
il re a Bari nel 1944 (e non nel 1946, come
mi è sfuggito scrivendo), ciò che permise ai
partiti di incontrarsi e poi di scrivere insieme la Costituzione.
Una occasione straordinaria per la tregua
istituzionale è data ora dal prossimo referendum destinato a confermare o respingere la nuova Costituzione detta di Calderoli.
Essa, come la legge elettorale, è stata scritta
contro la destra e contro la sinistra e, a parte
la «devolution», è fatta su misura per Berlusconi, a patto però che vinca le elezioni; perché se le perde, il Primo Ministro onnipotente diventa il suo avversario. Se ad esempio le norme che introducono la dittatura
del Premier sul Parlamento, contenute nella
nuova Costituzione, fossero già oggi in vigore, nessuna delle cose che la destra minaccia di fare contro Prodi, per farlo cadere,
sarebbe possibile, e l’opposizione sarebbe
priva di ogni arma e di ogni ruolo politico.
Dunque la cosa più logica sarebbe che a votare a favore della controriforma costituzionale fossero lasciati solo la Lega e il gruppo
populista che fa capo a Berlusconi, e tutti gli
altri votassero contro.
Il senso di questa operazione sarebbe di rinnovare il consenso della stragrande maggioranza del Paese alla Costituzione del ’48. Essa
non merita il ripudio di cui è stata oggetto
da parte della vecchia maggioranza di governo. E non è vero che, come affermano i
sostenitori del «sì» nel referendum, il ribaltamento della seconda parte della Costituzione, che determina la figura dello Stato,
ne farebbe salvi i principi e i diritti fondamentali stabiliti nella prima. Le due parti
della Costituzione sono speculari e necessarie l’una all’altra; sono state pensate insieme
e possono vivere solo insieme. Racconta il
costituzionalista Enzo Cheli che nel 1946,
quando nella Commissione dei 75 incaricata della prima stesura della Carta, si trattava
di concepirne il disegno, in un incontro informale tra il suo presidente Ruini e gli on.
Dossetti, Cevolotto e Moro, Aldo Moro propose per la prima parte una struttura a piramide rovesciata, avente al primo posto i diritti e i doveri del cittadino nella sua individualità, e poi via via del cittadino in rapporto alla famiglia e alla scuola, quindi in rapporto alla sfera economica e infine in rapporto a quella più ampia del mondo politico; e il Presidente Ruini, accogliendo quello
schema, aggiunse che allora la seconda parte doveva cominciare col Parlamento, in corrispondenza al primo articolo proclamante
la sovranità popolare, e poi svilupparsi nella
definizione degli altri istituti in cui coerentemente doveva concretarsi l’organizzazione statale unitaria della società. E così si fece,
in tal modo che la seconda parte risultò attuazione, strumento e garanzia della prima.
Ora nella riforma sottoposta al voto referendario questo rapporto viene rotto. Il Parlamento è travolto, la vita della Camera è condizionata a quella del governo, la rappresentanza popolare è smembrata in una maggioranza dotata di tutti i poteri e una minoranza senza diritti, i cui voti nemmeno verrebbero contati nelle votazioni di «sfiducia costruttiva», l’unità nazionale che comporta
pari opportunità per tutte le regioni è compromessa e gli istituti di garanzia sono snaturati e mortificati. In particolare il Presidente della Repubblica non avrebbe neanche il potere di salvare la Camera dallo scioglimento che il Primo Ministro potrebbe
decretarne in ogni momento mandando a
casa i deputati a suo piacimento; verrebbe
istituita la figura sovrana e incondizionata
del capo del governo, vero padrone «determinante» della politica nazionale e del Paese intero. L’identità dell’Italia e il suo ruolo
nel mondo sarebbero decisi da una persona
sola, e il popolo non potrebbe influirvi facendo valere le sue radici, la sua civiltà e la
sua cultura. La sola tregua istituzionale possibile tra il centro-sinistra e almeno una parte della destra, consiste dunque nel salvare
questa Costituzione, e da essa ripartire nel
Parlamento e nel Paese.
❑
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ROCCA 1 GIUGNO 2006
cittadella convegni
RESISTENZA E PACE
POLONIA
ultracattolica
e un po’ antisemita
16
Q
neo e politicamente forte, il progetto comunitario ha cambiato profondamente di
natura con lo sfondamento ad est e l’ingresso di nazioni desiderose di abbandonare il retaggio del comunismo e del centralismo, e di abbeverarsi di democrazia
occidentale e di libertà economiche.
Ed in questo senso, l’esperienza polacca è
fra le più significative, trattandosi di un
paese di grandi dimensioni – ha più della
superficie italiana e 39 milioni di abitanti –
e che rappresenta in qualche modo sotto il
profilo economico l’equivalente in Europa
orientale della Francia, disponendo di un
comparto agro-zootecnico di grandi potenzialità. In questo ambito la generosità comunitaria non è certo in discussione perché fra il 2007 e il 2013 la Polonia incasserà la non disprezzabile cifra di 60 miliardi
di euro a titolo di sostegno del suo sviluppo
economico. Ma a differenza di Parigi, Varsavia non è particolarmente entusiasta del
progetto di costruzione europea, proponendosi di fatto come il miglior alleato degli
Stati Uniti nel vecchio continente. Un paio
di prove di questa inclinazione? La prima:
Quando si è trattato di acquistare aerei da
caccia all’epoca del suo ingresso nella Ue,
il Ministero della Difesa polacco non ha
scelto un velivolo europeo (tipo Eurofighter
o Rafale) ma gli F16 di fabbricazione statunitense. E la seconda: Dopo aver fatto
fiamme e fuoco per essere all’appuntamento dell’ampliamento a 25, il governo polacco ha congelato la procedura di ratifica della
Costituzione europea per i timori di perdita di sovranità nazionale.
Nella Nato a partire dal 1999 e a pieno titolo nella Comunità dal 2004, la Polonia
ha sterzato fortemente a destra in occasione delle ultime elezioni legislative di
settembre e delle presidenziali di ottobre,
grazie anche al discredito che hanno saputo raccogliere gli esponenti del vecchio
establishment comunista, che avevano vinto le elezioni nel 2001 ma che poi si sono
distinti incredibilmente per episodi di corruzione e di appropriazione di beni statali. Di fatto il destino del paese è ora nelle
mani dei fratelli conservatori Lech e Jaroslaw Kaczynski; il primo quale presidente
della repubblica, il secondo nelle vesti di
leader del Pis, il partito di governo.
Dal loro arrivo, e ancora di più dalla formazione della coalizione tripartita che permette ora di esprimere una maggioranza
in Parlamento, si è materializzata una vera
e propria ondata restauratrice, fatta di epurazioni, scioglimento di organismi sospetti, esonero di diplomatici, e di eliminazione in definitiva di qualsiasi elemento legato al passato comunista del paese, con una
impressionante esaltazione del nazionalismo e la sottolineatura di tratti antisemiti.
È una Polonia ultracattolica che si riunisce all’ascolto di Radio Maryja, una stazione privata controllata dal padre Redentorista Tadeusz Rydzyk alla cui porta fanno
la fila lo stesso presidente Kaczynski, il
premier, i ministri, come se si trattasse
della radio dello Stato, per rilasciare dichiarazioni trasmesse nello spazio lasciato dalla recita delle orazioni. Oltre alla condanna rituale dell’aborto e dell’omosessualità, è possibile ascoltare discorsi apertamente antisemiti contro «gli uomini venuti dalla Giudea che tentano di sorprenderci prendendoci alle spalle», contro il Congresso ebraico mondiale, «la principale
società che ha fatto dell’Olocausto una industria», o infine contro il quotidiano nato
da Solidarnosc, Gazeta Wyborcza, bollato
di «esempio inabituale di quinta colonna
ebrea in Polonia», per il fatto che vari giornalisti, oltre che il direttore, sono ebrei.
Amareggiato, Marek Edelman, 85/enne ultimo comandante superstite della rivolta
del Ghetto di Varsavia, ha dichiarato al
quotidiano francese Liberation che «finché
l’economia girerà, come gira, e finché quindi disporrà di denaro da elargire, il governo non avrà problemi». Inoltre, ha aggiunto, «fino a quando continuerà la caccia ai
‘colpevoli’ di ogni genere, disporrà del sostegno popolare. La gente ama che si perseguano ladri, affaristi, traditori, ebrei,
omosessuali, tutti potenziali colpevoli delle cose che non vanno».
Ma non sono solo rose e fiori in questo nuovo corso, perché parte dell’opinione pubblica comincia a chiedersi cosa sia diventato
il partito Legge e Giustizia, visto che in origine aveva promesso di stringere una alleanza con i centristi della Piattaforma civica
di Donald Tusk e che invece si trova oggi a
guidare una alleanza con un partito populista e di istinto nazista (come Samobroona)
ed un altro ultracattolico di destra (Lpr). E
questo, per evitare di tornare ad elezioni
anticipate e rischiare di pagare con l’elettorato il cambiamento repentino di strategia.
Una situazione allarmante che non fa ben
sperare nella possibilità che presto l’Europa a 25 possa riprendere il suo cammino
di crescita, ma che preoccupa anche per la
Polonia in quanto tale, visto che la popolazione attende dopo tanto entusiasmo nazionale ed ideale una formula che permetta una crescita economica omogenea ed
una efficace lotta alla disoccupazione che
è quasi al 20%.
Secondo alcuni, comunque, il fatto che forze che sembravano scomparse durante il
regime sovietico siano riemerse ricreando
uno scenario di prima della guerra, va imputato ad un fenomeno fisiologico, ad un
passaggio obbligato e provvisorio, necessario per far sì che il paese divenga veramente in un futuro forse prossimo una
democrazia moderna e partecipata.
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Maurizio
Salvi
uando all’inizio del 2000 il leader
del Partito nazional-liberale Joerg
Haider entrò nella coalizione di
governo a Vienna, in Europa vi fu
una inequivocabile levata di scudi, e per l’Austria scattarono perfino sanzioni comunitarie. Sono
passati sei anni, e di fronte ad un fenomeno simile che ha visto a fine aprile l’ingresso nel governo della Polonia di Andrzej Lepper, 52 anni, leader populista del partito Samoobrona (Autodifesa), le reazioni sono
state minime, se non addirittura assenti.
Tanto per non lasciare adito a dubbi, ricorderemo che Lepper è molto conosciuto nel suo paese per dichiarazioni aggressive e spesso di sapore razzista e antisemita. La stampa di Varsavia, al momento del
raggiungimento dell’accordo fra il partito
di governo Legge e giustizia (Pis) del premier Kazimierz Marcinkiewicz, la Lega
delle famiglie polacche (Lpr) e, appunto,
Samoobrona, non ha esitato a scrivere che
anni fa Lepper ha lodato persino Hitler per
il successo economico della sua politica
durante il nazismo. Non a caso il suo arrivo ai vertici del potere ha provocato le dimissioni del Ministro degli Esteri Stefan
Meller, un diplomatico e professore universitario nato in Francia, che ha detto,
abbandonando il suo incarico, di non poter convivere in un governo «insieme ad
un pagliaccio».
Per molti osservatori questa assenza di
reazioni è un sintomo ulteriore della crisi
che attraversa l’Unione europea (Ue) che
non sembra ancora avere assorbito i contraccolpi prima dell’ampliamento a 25, e
poi del no alla Costituzione europea da
parte di Francia e Olanda. «Stanca – ha
scritto al riguardo il quotidiano Le Monde
(6 maggio 2006) – l’Europa ha perduto
perfino la sua capacità di indignazione».
Per molto tempo sostanzialmente omoge-
Maurizio Salvi
17
INTERNAZIONALE
sione internazionale. Questa nuova scelta
è forse dettata dalla volontà di mostrare la
propria vicinanza al nuovo governo dell’Anp, segnando la differenza con gli altri
paesi dell’area. E l’aiuto siriano è andato
persino oltre la raccolta di fondi tra la popolazione: pare infatti che i servizi segreti
di Damasco abbiano aiutato il trasporto
attraverso la Siria di un grosso carico di
armi di Hamas ritrovato poi in Giordania.
Un sostegno quindi esplicito alla causa
palestinese, che oltretutto sottende un tentativo da parte del presidente Assad di raffreddare le crescenti tensioni coi gruppi
islamisti in patria, da sempre molto sensibili alla causa palestinese.
Enrica
Piovan
l dito alzato del presidente iraniano
Ahmadinejad, il verde delle bandiere
di Hamas, qualche mappa geografica
dell’Iraq diviso. Stando a come lo ritraggono ogni giorno i media, il Medio Oriente sembra limitato a queste
tre immagini: l’Iran, con le sue ambizioni
nucleari che fanno innervosire gli Usa, la
Palestina con le sorprese elettorali che
poco piacciono alla comunità internazionale, e l’Iraq alle prese con la nascita del
nuovo governo.
Eppure, dietro i riflettori c’è la realtà mobile di molti altri paesi, che salgono alle
cronache solo talvolta, per la notizia che
fa gioco al tema «scontro tra civiltà» o l’attentato terroristico che fa sussultare turismo ed economia. Eppure la loro quotidianità non è meno critica di quella dei
vicini più raccontati. Né tanto meno significativa per comprendere come si sta muovendo l’intera regione.
I
Libano, paese in bilico
ROCCA 1 GIUGNO 2006
La situazione più in bilico nell’area è sicuramente quella del Libano, dove regna un
clima di estrema incertezza, dovuto alla
difficile relazione con Israele e Siria, alla
mancata applicazione della risoluzione
Onu sul disarmo militare e alla resistenza
interna alle riforme istituzionali.
A 16 anni dalla fine della guerra civile, oggi
la gente teme che la violenza possa riaccendersi nonostante la normalità apparente del paese. Secondo gli osservatori, questo stato d’animo diffuso è dovuto all’assenza di un’autentica riconciliazione e al
fragile sistema politico e interconfessionale
ancora vigente. Inoltre ci sono l’influenza
e le interferenze esercitate da Siria, Iran,
18
Israele e dai guerriglieri palestinesi. E anche il fatto che ancora non decolla il «dialogo nazionale» tra i leader libanesi dei contrapposti schieramenti filo e anti-siriano.
La situazione è tale che, nel 31esimo anniversario dell’inizio della guerra civile, il 13
aprile scorso, i principali leader religiosi e
politici hanno ammonito che, con le divisioni attuali, il clima ricorda fin troppo
quello del 1975, anno in cui iniziò il conflitto.
La questione più spinosa nell’agenda politica libanese rimane oggi l’indagine giudiziaria in corso per l’attentato terroristico dello scorso anno in cui morì l’ex premier Rafiq Hariri. Le linee dell’inchiesta
sono ancora confuse e l’unica cosa chiara sembra essere il coinvolgimento della
dirigenza siriana come mandante del delitto.
Tema caldo è anche la discussione politica tra maggioranza e gruppi ancora legati
a Damasco: l’opposizione filo-siriana costituisce infatti l’ostacolo all’applicazione
delle risoluzioni Onu che chiedono che il
governo ottenga l’effettivo controllo di tutto il territorio nazionale, che siano disarmate le milizie operanti nei confini nazionali e che venga garantito il completo ritiro
di forze straniere dal territorio libanese.
Il problema è che all’indipendenza formale e al pieno riconoscimento da parte della
comunità internazionale di cui gode oggi
il Libano, non corrisponde un’unità sostanziale. E il futuro degli equilibri politici si
giocherà sulla stabilità delle coalizioni interreligiose sulla soluzione delle questioni
istituzionali, ma soprattutto molto dipenderà dagli esiti, attesi per i prossimi mesi,
delle indagini Onu, su cui incombe l’ombra della Siria. La posta in gioco è l’indi-
pendenza e l’autorevolezza del governo di
Beirut.
Siria, tra isolamento e relazioni con Iraq
Dall’assassinio dell’ex premier libanese
Hariri, la Siria vive una condizione di isolamento internazionale, su cui incombe il
giudizio di pericolosità affibbiatole dagli
Stati Uniti. Uno spiraglio di collaborazione lo sta però trovando con l’Iraq, con cui
ha stabilito le basi per una forma duratura di collaborazione politica ed economica, ristabilizzando rapporti su cui pesavano vent’anni di tensioni. Dietro questo riavvicinamento pare comunque che ci siano
gli Stati Uniti, che sono i veri responsabili
della sicurezza irachena e che vedono nella Siria una pericolosa base di lancio per i
gruppi terroristici islamici verso l’Iraq.
Damasco si è impegnata in prima persona
nel processo di pacificazione iracheno, poiché una maggiore stabilità politica sarebbe una garanzia di sicurezza commerciale.
Questo impegno, inoltre, costituisce una
chance in più nelle relazioni con gli Stati
Uniti, dai quali si spera di ottenere la cancellazione dell’etichetta di paese dell’Asse
del male. La presenza incombente degli Usa
in veste di garante della sicurezza irachena, tuttavia, continuerà a costituire un ostacolo – voluto – alla creazione di rapporti
diplomatici regolari tra Damasco e Bagdad.
Nei confronti del vicino palestinese intanto la Siria si sta muovendo nella direzione
di un deciso sostegno alla nuova leadership di Hamas. Una strategia che segna
un’inversione di rotta rispetto agli ultimi
anni, che avevano visto una riduzione del
sostegno di Damasco ai gruppi armati palestinesi con l’obiettivo di ridurre la pres-
Giordania, l’ombra sulla sicurezza
Se c’è una questione che re Abdallah II
non si stanca di ripetere ad ogni occasione ufficiale, è quella relativa alla stabilità
dell’Iraq: le maggiori questioni di sicurezza che il regno hashemita sta oggi affrontando (attentati fuori e dentro i confini,
sequestri, attività investigative e giudiziarie) sono infatti tutte strettamente legate
agli avvenimenti che accadono nel vicino
Iraq.
Da anni, a ritmi sempre più sostenuti, la
Corte per la sicurezza dello stato processa e condanna integralisti islamici accusati di reclutare miliziani da inviare in
Iraq a sostenere gli insorti, agevolarne l’infiltrazione oltreconfine e, nei casi più gravi, complottare attività terroristiche all’interno del regno stesso. Inoltre, il triplice
attentato di novembre ad Amman, quello
precedente ad Aqaba, e l’ultimo sventato
a danno di un «vitale obiettivo civile» sono
stati tutti pianificati (e perpetrati) da iracheni che, con il marchio di Al-Qaida, intendevano far pagare alla Giordania la sua
solida alleanza con gli Stati Uniti.
Proprio nel rapporto con gli Usa la Giordania vede intanto crescere al suo interno
una realtà che contrasta con la determinazione del governo di Amman a continuare
a sostenere la politica estera statunitense.
I cittadini, che discendono per più della
metà dai rifugiati palestinesi, sono infatti
contrari alla guerra in Iraq e sono anche
ostili verso Israele. Recenti sondaggi lo
hanno confermato, evidenziando inoltre
come il 57% dei giordani sia favorevole agli
attacchi terroristici e che ben il 60% sia
simpatizzante del leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden.
19
ROCCA 1 GIUGNO 2006
la polveriera
mediorientale
Regno Saudita
tra globalizzazione e vicini
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Sotto re Abdallah, che nell’agosto scorso è
succeduto al fratellastro Fahd, l’Arabia
Saudita guarda alla globalizzazione con
sempre maggiore interesse, nella convinzione di non poter più continuare ad essere un’eccezione. Di questo è convinto il
sovrano, benché nella società rimanga un
certo conservatorismo ostile alla modernizzazione, che appare più come un’occidentalizzazione forzata da Washington. L’entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio, a dicembre, ha segnato un passo
importante verso l’ingresso ufficiale nel villaggio planetario. In questa apertura si inserisce anche il legame stretto da poco con
la Cina, con tanto di firma di una serie di
accordi di cooperazione in vari settori.
Qualche cambio di rotta si registra anche
all’interno del paese, dove cresce l’attenzione alla promozione di un islam tollerante e i giornali sembrano sempre più
interessati alle questioni sociali, anche se
trattate ancora con toni moralizzatori.
Anche le donne guadagnano traguardi significativi, ottenendo spazi importanti, dai
posti nel consiglio di amministrazione della Camera di Commercio di Jedda alla
recente autorizzazione ad entrare nelle bi20
blioteche pubbliche. Tra i problemi sociali, la questione femminile resta comunque
aperta, visto che molte donne ancora approvano la separazione sessuale in vigore
nel paese; l’altra problematica è la disoccupazione giovanile, in un paese in cui uno
su 3 ha meno di 15 anni, il 70% meno di 30.
Altre preoccupazioni vengono invece dall’esterno. Da una parte c’è la nuova faccia
dell’Anp, verso cui Riad si è trovato a correre finanziariamente in soccorso dopo
l’iniziale decisione della comunità internazionale di non concedere aiuti al governo
di Hamas. I programmi nucleari di Teheran, poi, hanno portato Riad a rispondere
con una critica decisa, pur ribadendo la
convinzione circa i fini pacifici. Ma è l’Iraq
il vero fronte di riscatto per il gigante saudita: secondo un consigliere per la sicurezza del governo di Riad, infatti, l’Arabia
Saudita dovrebbe cercare di evitare la
frammentazione del vicino iracheno, cercando di evitare ogni ritiro prematuro delle forze Usa e di fare pressioni sull’Iran
perché smetta di interferire. Se Riad, che
è il maggiore creditore dell’Iraq, iniziasse
a sbarazzarsi del debito di 32 miliardi di
dollari Usa – questo è il suggerimento –
manderebbe un forte messaggio che il regno non sta agendo in base a interessi confessionali, ma negli interessi dell’Iraq e
della regione in generale.
conclusione
Ciascuno con la propria specificità e la
propria velocità, i paesi del Medio Oriente
si stanno quindi muovendo, anche lontano dai riflettori, con cambiamenti che risultano però interdipendenti e legati alla
problematicità della regione cui appartengono: un’area strategica che produce il 35%
del petrolio mondiale e detiene il 68% delle riserve. E che proprio per questo costituisce l’arena delle più grandi battaglie globali: dal nodo israelo-palestinese all’operazione in Iraq sfociata in guerra civile,
dalla minaccia dell’Iran al conflitto latente tra Libano e Siria.
Su quest’area gli Usa stanno da anni proiettando il progetto di un «Grande Medio
Oriente» modellato sulla base di interessi
di comodo. Ma dimenticano che «i popoli
non amano i missionari armati», come scriveva Robespierre. Nessun intento militare
sostituirà cioè la forza della politica e della
diplomazia. E nella polveriera mediorientale nulla cambierà prima di aver spento la
vera miccia: il conflitto israelo-palestinese.
Enrica Piovan
OLTRE LA CRONACA
lupi a difesa del gregge
Romolo
Menighetti
A
difendere i diritti umani nel mondo, attraverso il nuovo Consiglio
dei Diritti Umani, recentemente
varato dall’Assemblea generale
delle Nazioni Unite, ci sono tra
gli altri la Russia di Putin (stragi
indiscriminate in Cecenia e al teatro Dubrovska di Mosca), la Cina di Hu Jintao
(circa 10.000 condanne a morte l’anno,
anche per reati minori e di opinione), e la
Cuba di Fidel Castro (dove si fucilano pure
coloro che cercano di espatriare senza permesso).
Di là dai facili commenti, la notizia mette
in evidenza la complessità del problema
relativo al controllo internazionale sui diritti umani.
La violenza è nel Dna dell’umanità, e guardando alla storia pare che nel corso dei
millenni e dei secoli sia mutata solo l’efficienza tecnica nell’uccidere e nel conculcare i diritti, non certo la propensione per
l’omicidio e il sopruso.
Volendo inquadrare il problema entro una
cornice di ampio respiro si può affermare
che il miglior contesto per prevenire le sopraffazioni sull’uomo e sui suoi diritti è
quello democratico, se non altro perché i
governi in tale regime debbono discutere
e giustificare pubblicamente le politiche che
adottano. Infatti, i più terribili crimini della storia recente furono commessi quasi
sempre da governi tuttaltro che democratici: la Germania nazista, la Turchia ottomana contro gli armeni, l’Unione Sovietica di
Stalin, la Cambogia dei Khmer rossi.
Però all’interno di questo quadro si pongono domande di difficile risposta. Fino a
che punto si deve cercare di comprendere
le motivazioni di chi abusa? Soprattutto,
che fare in concreto per difendere nell’immediato le vittime, tenuto conto che la democrazia non si esporta (tanto meno con
le armi), ma cresce, negli Stati, per interna e laboriosa maturazione, al più favorita, dall’esterno, da processi di osmosi?
Il problema poi, oggi, è reso più complicato dal fatto che dalla fine della Seconda
guerra mondiale è cambiato il contesto
entro cui si perpetrano gli abusi sui diritti
umani. Fino a qualche tempo fa c’erano
governi forti che perseguitavano i dissiden-
ti. Oggi invece gli Stati più a rischio di violazioni sono, per lo più, quelli politicamente deboli e divisi al loro interno. In tal caso,
chi voglia intervenire dall’esterno, si trova
di fronte a due opzioni, l’intervento, inteso come diritto, e l’assistenza, intesa come
dovere. Nel primo caso si rischia di evocare antichi fantasmi quali la «missione civilizzatrice» dell’Europa, o la passata politica dell’Urss. Nel caso invece di un intervento di assistenza si rischia di cadere nell’errore di considerare valori umani universali quelli legati a culture e a interessi
particolari.
A fronte di guerre etniche, poi, c’è il pericolo che, con l’intervento esterno, estranei
decidano chi tra i contendenti debba prevalere, stabilendo così a priori chi abbia
ragione e chi torto. C’è poi il rischio che i
cosiddetti «interventi umanitari» abbiano
luogo solo verso Stati deboli, in funzione
degli interessi di alcuni Stati forti, mentre
si sorvola sugli abusi perpetrati entro e da
nazioni potenti. Senza contare che i diritti
umani possono essere conculcati anche in
nome di una lotta al terrorismo, di cui spesso non si riesce a capire quali siano le reali
finalità di chi tale lotta intraprende.
Comunque, ogni politica di intervento
umanitario reca intrinsecamente il germe
di una mentalità di tipo coloniale, basata
sulla distinzione tra «coloro che raddrizzano i torti» e «coloro i cui torti debbono
essere raddrizzati» (Gayatri Spivak). In tal
senso, più che a rafforzare il potere di chi
«raddrizza i torti» affinché possano intervenire più facilmente, si deve puntare su
un mutamento di mentalità nei «raddrizzandi», che faciliti loro l’uscita dalla passività.
Può sembrare utopistico, ma qui occorre
richiamarsi alla «pedagogia degli oppressi» di Paulo Freire. Questa si concretizza
in un modello dialogico capace di farsi
strumento di un’azione politica e culturale. Necessariamente tale pedagogia richiede tempo e pazienza. Solo così però si può
sperare di avviare il cambiamento che libererà gli oppressi e i loro oppressori da
quegli schemi mentali che inducono i primi a subire passivamente l’offesa portata
dai secondi ai loro diritti.
❑
21
ROCCA 1 GIUGNO 2006
INTERNAZIONALE
Tutto ciò evidenzia una realtà rimasta a
lungo in ombra nella storia della Giordania: il paese che ufficialmente si è sempre
dichiarato ‘filo-occidentale’ e la cui crescita economica è stata legata in questi anni
agli aiuti statunitensi, ha sviluppato al suo
interno una certa ostilità nei confronti della potenza americana e, più in generale,
del mondo occidentale. Ed è proprio alla
soluzione di questa contradditorietà del
fronte interno, che è legato il futuro dei
rapporti tra Giordania e Usa.
Ma c’è anche un’altra sfida, posta dal vicino palestinese. Forti sono infatti le tensioni tra Amman e la leadership di Hamas,
recentemente accusata di pianificare attacchi in Giordania. E sarebbe il primo caso
di azioni fuori dai Territori palestinesi.
Questa strategia viene vista come il tentativo di aumentare la pressione sul regime
hashemita giordano, colpevole di essere
stato il più tiepido tra i regimi arabi nei
confronti del nuovo governo di Hamas: una
mossa che, con il rischio di una maggiore
instabilità in un paese in cui molta parte
dei cittadini è palestinese e dove Hamas
appoggia la Fratellanza Musulmana giordana, costringerebbe il re a sostenere più
dichiaratamente il nuovo governo dell’Anp.
POLITICA ITALIANA
fine
del fattore
K
22
C
scussioni. Ancora una volta preoccupa la
spaccatura che divide il paese e che la elezione di Napolitano non ha certamente
sanata.
come a Cuba?
Due, semplificando, le interpretazioni contrapposte. Quella del centrodestra berlusconiano lamenta una presunta occupazione da parte della sinistra di tutte le cariche dello stato. Sarebbe, ha detto qualcuno, come a Cuba. Perciò la destra, più o
meno tutta, nel corso dei prossimi anni
cercherà di delegittimare continuamente
e in tutte le sedi il nuovo governo ed il nuovo assetto istituzionale. Sarà un conflitto
duro e continuo. Ad alimentarlo, il ricordo di una vittoria elettorale troppo esigua
e discussa. Il governo Prodi non avrà vita
facile.
L’altra interpretazione, quella della mag-
gioranza, insiste sulla fine di quella esclusione che per anni ha bloccato e limitato
la vita politica del paese. Napolitano, un
comunista – o ex comunista, come preferiscono dire alcuni – al Quirinale significa
la definitiva messa in soffitta di quel famigerato «fattore K» che dal dopo guerra ad
oggi ha rovinato e inquinato la nostra vita
politica, limitandola.
un segnale forte
In realtà la famigerata «esclusione» era
stata già se non eliminata certamente incrinata: si pensi, fra l’altro. ai governi
D’Alema e alla lunga presidenza Ingrao alla
Camera. Si pensi anche a quanto lontano
da Mosca e «socialdemocratico» sia diventato in questi anni il comunismo italiano,
anche grazie allo stesso Napolitano. Comunque è vero che la sua salita al Quirinale rappresenta un segnale forte: anche
da noi come in buona parte del mondo non
ha più senso quella opposizione fra comunismo e democrazia che ha rappresentato
uno dei motivi più forti della politica mondiale della seconda metà del secolo, dei
suoi scontri e delle sue ambiguità.
Ne deve ormai prendere atto lo stesso Vaticano, che è stato uno degli ultimi «palazzi» ad ammettere la fine della esclusione (ne rimaneva qualche elemento nella ostilità vaticana alla candidatura D’Alema).
Oggi, sotto la presidenza di Napolitano e
con il governo Prodi, anche l’Italia si avvia, come tanti altri paesi, ad una situazione politica guidata da una sinistra democratica, decisamente attenta agli interessi dei più poveri, dei lavoratori, degli
immigrati, della pace. Più democratica e
anche, lo speriamo, più unita.
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Filippo
Gentiloni
on la elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale si è concluso un
periodo fra i più burrascosi della
storia della nostra repubblica. Una
conclusione certamente non unitaria, come si poteva sperare e
come in qualche momento era sembrato
possibile; comunque una conclusione che
sembra poter aprire la porta a tempi più
sereni.
Positiva, prima di tutto, la sottolineatura
della continuità con Ciampi. La presidenza Ciampi ha rappresentato una notevole
garanzia per la nostra democrazia, nonostante i tempi difficili e le discusse missioni all’estero. La stessa persona di Napolitano e i suoi precedenti inducono a sperare che sarà, come è stato Ciampi, e come
egli stesso ripete, «presidente di tutti gli
italiani».
È proprio su questa promessa e premessa
che si sono immediatamente aperte le di-
Filippo Gentiloni
23
INCHIESTA GIOC
le paure
dei
giovani
24
S
la diffusa convinzione dei politici che i lavoratori dipendenti non siano più, in
quanto tali, né di destra né di sinistra, né
conservatori né innovatori, insomma un
vero niente per chi va cercando voti e consensi – è stato filtrato dalla lente dei giovani. Rappresentati, in modo un po’ riduttivo solo come lavoratori, solo come lavoratori precari, solo come portatori di
bisogni di stabilità: e mai anche come cittadini che potrebbero avere bisogni di
innovazione civile e politica, di modernità organizzativa ed economica, di nuove
culture e di nuovi valori, e perché no, di
una rottura dell’antica gerontocrazia che
ancora ci affligge.
Anche i problemi, davvero molto seri, della precarietà lavorativa sono stati, del resto, interpretati senza fare troppe distinzioni tra quella che deriva dall’emersione
di un lavoro un tempo solo nero e irregolare e quella che deriva da un mondo economico che cerca competitività solo attraverso la riduzione del costo del lavoro;
tra la precarietà nel lavoro pubblico, che
deriva essenzialmente dai blocchi delle assunzioni e dalla rigidità dei regimi di lavoro del personale stabilizzato e quella del
lavoro nel privato, connessa anche con le
contraddizioni del ciclo economico e con
le turbolenze dei mercati; tra la precarietà che dà prima o poi luogo a inserimenti
stabili e quella che si riproduce continuamente senza sbocchi positivi. Con l’effetto inevitabile di accendere contrasti di
natura ideologica in cui diventa davvero
difficile individuare le soluzioni possibili, quelle che possono essere davvero praticate, e in tempi brevi.
giovani solidali
Ma che cosa pensano i giovani del lavoro? E che cosa ne deriva, in termini di
orientamenti valoriali? Elementi interessanti vengono da una recentissima ricerca della Gioc – Gioventù Operaia Cristiana – su un campione di oltre 3000 giovani dai 15 ai 35 anni. Il lavoro, intanto, è
al terzo posto nella graduatoria degli interessi (94,7%), subito dopo la famiglia
(98%) e le relazioni di amicizia (95,8%),
che risultano essere più importanti dell’amore. Lavoro, inoltre, non vuol dire necessariamente carriera: se per i giovanissimi, che ancora del mondo del lavoro
sanno poco, i due termini sono frequentemente correlati (81%), tra quelli sopra
i 30 anni, più pragmatici e realisti, è solo
il 63,5% che attribuisce molta o abbastanza importanza alla carriera. Come rispetto all’istruzione, infine, sono i maschi i
più interessati alle ricadute estrinseche
del lavoro (la retribuzione, il successo),
mentre le ragazze sono più attente ai suoi
valori intrinseci (i contenuti del lavoro,
la soddisfazione di farlo bene).
Le giovani generazioni, comunque, sembrano lontane dal concepire la vita come
una giungla in cui è necessario farsi stra-
da a tutti i costi, magari a scapito degli
altri. Il valore della solidarietà è molto gettonato (75,1%), anche se con una notevole distanza tra i generi: l’83,9% delle donne contro il 66,4% dei maschi. L’attenzione alla solidarietà, inoltre tende a crescere con l’età e con il titolo di studio: significativamente, credono nei valori della solidarietà molto di più i laureati di quelli
che non hanno neppure assolto l’obbligo
scolastico. Eppure sono proprio questi
ultimi che, in quanto più deboli socialmente e nel mercato del lavoro, potrebbero avere più bisogno di una società più
solidale: e in verità, con i loro livelli di
istruzione così bassi, segnalano di aver già
avuto bisogno di sostegni che invece gli
sono stati negati.
Assai più in basso nella scala dei valori,
sono l’impegno sociale (57,2%) e l’impegno religioso (47,8%), mentre si conferma la forte distanza dalla politica, all’ultimo posto con solo il 22,2% degli apprezzamenti.
A differenza, dunque, delle numerose interpretazioni secondo cui i giovani sarebbero fortemente autocentrati su se stessi,
le proprie convenienze, il proprio benessere, dalla ricerca Gioc affiorano dati in
parte diversi. Solidarietà è l’idea per cui
una società giusta è quella che tutela le
persone deboli e svantaggiate (87,8% di
accordo), che mette al centro le persone e
garantisce politiche di welfare utili a garantire un’esistenza dignitosa anche a chi
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Fiorella
Farinelli
aranno gli echi delle rivolte della
vicina Francia, ma nel discorso
pubblico italiano, pure distratto
dai continui artificiosi surriscaldamenti che trascinano via dai problemi veri, sembra tornare al centro il tema del rapporto dei giovani con il
lavoro. O meglio, il rapporto obbligato
con il precariato professionale, come causa e cifra di un’incertezza generazionale
acuta, di natura e impatto quasi esistenziale. E pensare che fino a non molto tempo fa andavano per la maggiore generalizzazioni del tutto diverse. In cui si escludeva che il lavoro – questo valore di un
passato fordista irrimediabilmente tramontato – potesse avere ancora, per le
generazioni più giovani, un significato
identitario. E in cui pareva che fossero di
tutt’altro tipo le dimensioni di autoriconoscimento individuale e collettivo. Le
mode e i consumi, le culture espressive,
la ricerca del benessere e del divertimento, i miti del successo individuale, i ritorni neospiritualisti, le nuove religiosità.
Tutto ricacciato sullo sfondo, tutto ridimensionato dall’inquietudine molto concreta di un possibile peggioramento delle
proprie condizioni rispetto a quelle dei
genitori, di un futuro insidiato da lavori
mai stabili, di un’impossibilità di programmare le proprie scelte di vita.
Anche nella recente campagna elettorale,
il solo approccio visibile ai temi del lavoro – per il resto ampiamente trascurati per
25
solidali ma non ugualitari
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Giovani solidali, dunque. Ma, nel campo specifico del lavoro, con evidentissimi tratti anche di tipo meritocratico:
sono infatti solo poco più di un terzo
quelli per cui i livelli retributivi devono
tener conto sopratutto della numerosità delle famiglie, o della presenza di familiari invalidi, portatori di handicap,
malati. Per la grande maggioranza, il
salario non deve rispondere ai principi
della solidarietà – all’eguaglianza di tutti
in termini di bisogni e di diritti. Al contrario, le retribuzioni devono rispondere alle competenze possedute e alla produttività, ai diversi livelli dei titoli di
studio e delle responsabilità professionali. E, in questo ambito, riemergono le
variazioni correlate all’ambito sociale di
appartenenza: tra i figli degli operai solo
il 54,5% aderisce ai principi meritocratici, ben più diffusamente apprezzati
(67,2%) dai figli del ceto impiegatizio,
degli insegnanti, dei professionisti, degli imprenditori.
I ricercatori della Gioc sottolineano la
contradditorietà di questi dati con quelli
relativi al valore attribuito alla solidarietà, ma forse la spiegazione è altrove. Forse è più attendibile concludere che, secondo i giovani di oggi, dev’essere la comunità, cioè i sistemi di welfare, e non i
regimi contrattuali, a farsi carico della
protezione dei più deboli. Siamo lontani, quindi, dall’egualitarismo di qualche
decennio fa, quando erano il lavoro dipendente e le sue organizzazioni sindacali, a sostenere e praticare – anche nelle rivendicazioni economiche – la necessità di non allargare troppo la forbice retributiva tra i diversi livelli professionali, tra operai ed impiegati, tra mansioni
esecutive e mansioni di responsabilità,
tra categorie della produzione e categorie dei servizi. Se l’appartenenza a una
società unisce, il lavoro invece divide o
può dividere. Pesano, con tutta evidenza, le culture sociali prevalse negli ulti26
mi vent’anni, le politiche retributive che
hanno enormemente accentuato i divari
economici tra i diversi settori di lavoratori, la progressiva accettazione di un
mercato del lavoro profondamente segmentato in cui ci sono prestazioni pagate venti o trenta volte meno di altre.
garantismo
PAROLE CHIAVE
precarietà e disoccupazione
Pesa, rispetto a tutto ciò, anche la diffusa precarietà del lavoro dei giovani? Si
direbbe di sì, visto che il lavoro – la sua
mancanza, la sua instabilità – è fonte di
grande inquietudine e incertezza. Il futuro lavorativo è al primo posto tra le preoccupazioni dei giovani, il 24,9% indica
sopratutto la precarietà, i valori più alti
si concentrano tra i più giovani, fino ai
24 anni e tra i 25 e i 29 anni, cioè nelle
fasce di età che sperimentano le prime
esperienze professionali e le prime difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro.
Una preoccupazione che, sintomaticamente, è più acuta tra quelli che hanno i
livelli di istruzione più alti (36,2% tra i
laureati contro il 21,8% di quelli che hanno solo la licenza media), mentre il rapporto si inverte nella paura per la disoccupazione, dove sono i laureati quelli che
ne hanno di meno. Un rispecchiamento
fedele di quello che sta effettivamente avvenendo nel mercato del lavoro, dove la
maggioranza di chi ha solo una qualifica
professionale dispone di contratti a tempo indeterminato (61,4%), mentre sono i
ragazzi più istruiti a soffrire di più della
loro mancanza: hanno un lavoro stabile
solo il 30,4% dei diplomati e solo il 39,7%
dei laureati. Anche in Francia, del resto,
alla testa delle mobilitazioni contro il
«contratto di prima assunzione», pure
sostenute dai sindacati, non c’erano i giovani operai ma gli studenti delle università e dei licei: quelli che hanno maggior
ragione di temere un futuro lavorativo
intessuto di instabilità, quelli che percepiscono di più il rischio di lavori incoerenti con il titolo posseduto e lontani dalle aspirazioni maturate nei lunghi percorsi di studio. Una situazione foriera di
grandi rischi, perchè la paura – è noto –
ingenera spesso più divisioni ed egoismi
che unità e autentica solidarietà. Eppure
è di una dimensione collettiva che la «generazione dei precari» ha maggiore bisogno.
Romolo
Menighetti
P
uò definirsi come teoria delle garanzie giuridiche, politiche e costituzionali mirate a tutelare i cittadini dagli arbìtri e dalle prevaricazioni dei detentori del potere politico. È un concetto strettamente
legato all’idea di Stato di diritto.
Costatato, come osserva Montesquieu ne
L’esprit des lois, che «ogni uomo che detiene un potere è portato ad abusarne» è
necessario che «il potere freni il potere».
È in conformità con questa idea che egli
elaborò la sua celebre teoria della separazione dei poteri.
Il garantismo è strettamente collegato al
costituzionalismo moderno, che ha tra i
suoi valori fondanti, appunto, la limitazione del potere, anche della maggioranza.
Agganciare il garantismo alla Costituzione significa sottrarre la tutela dei diritti ai
compromessi, alle mediazioni, alle convenienze di chi al momento governa, nonché agli interessi del mercato, per ancorarli, invece, ai valori oggettivi che i padri
della Repubblica hanno considerato irrinunciabili per una moderna democrazia.
Nella Costituzione italiana sono diversi gli
articoli esprimenti i principi del garantismo.
Questi, tra l’altro, affermano. All’articolo 13:
«La libertà personale è inviolabile. Non è
ammessa alcuna forma di detenzione, ispezione o perquisizione personale, se non...
nei soli casi e nei modi previsti dalla legge… La legge stabilisce i limiti della carcerazione preventiva». All’articolo 24: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado di procedimento... La legge determina
le condizioni e i modi per la riparazione
degli errori giudiziari». All’articolo 25: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può
essere punito se non in forza di una legge
che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso. Nessuno può essere sottoposto
a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». È dunque nel contesto della legge, quella fondamentale e quelle ordinarie, che è assicurato il garantismo. Alla
legge – ma solo alla legge – sono soggetti
anche i magistrati, i custodes, pur nella loro
indipendenza dal potere esecutivo.
Considerandolo, in particolare, in riferi-
mento ai procedimenti penali, si può dire
che il garantismo è il principio in base al
quale il cittadino che si trova in essi coinvolto deve poter disporre di tutti gli strumenti difensivi, necessari ad assicurargli
un’efficace tutela.
All’opposto del garantismo c’è il giustizialismo, cioè l’eccesso accusatorio da parte
della pubblica accusa, tramite l’uso di strumenti di pressione (ad esempio, richieste
di carcerazione ingiustificate) tendenti a
comprimere le garanzie dell’imputato.
Non si può, in astratto, dire che «garantismo» o «giustizialismo» siano di destra o
di sinistra. Però la grande battaglia a favore del garantismo fu combattuta dalla Sinistra negli anni Settanta. Si ricordano: le
manifestazioni contro la legge Reale che
contemplava il fermo di polizia; l’introduzione dell’obbligo dell’avviso di garanzia
onde evitare che il cittadino fosse indagato a sua insaputa. Lo stesso Codice di Procedura penale che ha sostituito il rito inquisitorio con il rito accusatorio è frutto
delle mobilitazioni di quegli anni. All’epoca, il cittadino che aveva a che fare con la
giustizia, di fatto non risultava adeguatamente tutelato da una legislazione ancora
in gran parte risalente al fascismo. Le battaglie politiche degli anni Settanta portarono gradualmente ad equilibrarsi i ruoli
di accusa e di difesa.
Va rilevato però che oggi questo equilibrio
è stato alterato ai danni dell’accusa da una
serie di leggi che creano non già garanzie
difensive a favore del cittadino, ma una serie di strumenti che consentono alla difesa di disporre cavilli di ogni sorta, onde
ostacolare il normale corso dei processi
penali. Leggi che consentono all’imputato
di difendersi non già «nel» processo, ma
«dal» processo. Perciò imputati ricchi, con
avvocati agguerriti, possono allungare indefinitamente i tempi del processo e sottrarsi così alla giustizia. Pertanto ora si è
in presenza di un eccesso di garanzia a favore dell’imputato, a scapito dell’accusa.
L’obiettivo di una società civile è invece
quello di assicurare, nell’ambito del processo, un giusto punto di equilibrio tra gli
strumenti a disposizione della difesa e
quelli a disposizione dell’accusa.
Fiorella Farinelli
27
ROCCA 1 GIUGNO 2006
INCHIESTA
GIOC
è più debole: un’opinione che non conosce variazioni significative secondo il genere e l’età, ma solo secondo il titolo di
studio, con i laureati più convinti di quelli con la sola licenza media. Spicca, in
questo quadro, il basso livello di adesione (19,3%, ma ancora una volta i meno
istruiti sono anche i meno generosi) all’affermazione secondo cui «la maggior
parte delle persone povere lo sono per
colpa loro».
AMBIENTE
il dissesto
idrogeologico
d’Italia
28
D
verse case costruite in maniera abusiva e
in attesa – da un quarto di secolo – di condono.
edilizia incontrollata
Gli esperti sanno che case abusive (e quindi costruite in modo non controllato) in
una zona ad alto rischio di dissesto idrogeologico rendono la tragedia non inattesa, ma del tutto prevedibile.
La frana è giunta, dunque, inattesa per una
comunità (locale, regionale, nazionale) che
non ha voluto vedere. E già perché l’isola
d’Ischia non è famosa solo per i suoi meravigliosi paesaggi e per le impareggiabili
acque termali. Ma anche per la sua frenetica attività edilizia. Da quando mezzo secolo fa è (ri)diventata famosa e da povera
e contadina la sua economia si è trasformata in opulenta e turistica, l’isola è stata
interessata da un’espansione edilizia incontrollata, di cui i numeri – aumento tra
il 1951 e il 1991 del 222% delle case residenziali e, addirittura, del 752% delle case
di villeggiatura; cui bisogna aggiungere
oltre 5.000 nuove case costruite dopo il
1994 – pur se ragguardevoli ci danno solo
una pallida idea. Ischia vanta uno dei fenomeni di abusivismo più eclatanti e impuniti d’Italia. Dal 1951 a oggi i vani costruiti in maniera illegale sono oltre
140.000. E nei primi tre mesi del 2004 – in
attesa dell’ennesimo condono – la polizia
municipale nei sei comuni dell’isola ha
messo i sigilli a oltre 500 nuovi cantieri
fuorilegge.
Se la frana è giunta inattesa sotto le pendici del Monte Vezzi, dove persino la Regione e il Comune hanno localizzato un
impianto per la compattazione dei rifiuti
solidi urbani, è perché una comunità (locale, regionale e nazionale) ha rimosso il
pericolo. Ignorandolo, ha cercato di esorcizzarlo. Creando le premesse per il tragico paradosso di una frana inattesa, eppure annunciata.
un rischio diffuso
Ma la vicenda non riguarda solo la piccola – e non più piccola – isola. Riguarda l’intero paese. Perché è una parte notevole del
suo territorio – oltre il 7% della superficie
complessiva – a rischio di dissesto idrogeologico. Perché l’abusivismo e, più in generale, l’attacco al territorio sono fenomeni che, sia pure in maniera differenziata,
lo investono dalle Alpi a Lampedusa. E
perché a tutt’oggi il sistema più usato per
gestire il pericolo che discende da questi
due fatti è quello di rimuoverlo.
Sono i numeri, d’altra parte, che parlano.
Negli ultimi 80 anni il territorio italiano
ha subìto 5.400 alluvioni e 11.000 frane.
Eventi di dissesto idrogeologico che solo
negli ultimi 20 anni hanno coinvolto
70.000 persone e prodotto danni superiori
a 15 miliardi di danni negli ultimi 20 anni
(fonte ufficiale: Apat, agenzia per la protezione dell’ambiente e del territorio).
La superficie nazionale soggetta a rischio
idrogeologico, dicono le fonti del Ministero dell’Ambiente, e quindi legata a frane e
alluvioni è pari 21.505 Km2 (il 7,1% del
territorio italiano). Le cinque regioni più
a rischio rispetto alla superficie totale sono
la Valle d’Aosta (660,2 Km2 pari al 20,2%
del territorio regionale), la Campania
(2.253 Km2 pari al 16,5% del territorio regionale), l’Emilia Romagna (3.217 Km2
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Pietro
Greco
icono che la frana sia scesa inattesa, domenica 30 aprile, dalla
collina di Monte Vezzi e si sia
abbattuta a valle su alcune ignare case dell’isola d’Ischia, portandosi via la vita di un uomo e delle sue tre figlie. Inattesa è stato l’aggettivo
più usato nell’isola per spiegare la tragedia. E chi fino al giorno prima avesse guardato il Monte Vezzi, alto 400 metri, tutta
verde e magnificamente arborata, avrebbe trovato la spiegazione del tutto congruente. D’altra parte nessuno, a memoria
d’uomo, ricordava che la collina fosse mai
stata ferita da movimenti del terreno. E né
la presenza di fattori antropici (massicci disboscamenti, incendi, sbancamenti) né la
presenza di altri fattori evidenti sembravano annunciare il disastro a occhi inesperti.
A occhi inesperti, appunto.
Perché gli esperti geologi avevano già classificato il Monte Vezzi come zona ad alto
rischio di dissesto idrogeologico, per via
di quella sua natura geofisica e della storia di vulcanismo di cui la collina era stata
protagonista in passato. E perché lì, sotto
le sue pendici, avevano trovato posto di-
29
alluvioni e frane
E infatti sono 5.581 (il 68,9% del totale,
oltre due su tre) i comuni italiani che ricadono in aree classificate al più alto rischio
idrogeologico. Questi comuni sono così
suddivisi: il 21,1% ha nel proprio territorio aree franabili; il 15,8% aree alluvionabili e il 32,0% aree a dissesto misto (sia
franabili sia alluvionabili).
Il rischio alluvioni. Riguarda 7.744 km2,
pari al 2,6% del territorio nazionale, ed è
concentrato soprattutto in tre grandi aree:
Val d’Aosta, Piemonte, Liguria e Lombardia; Emilia Romagna e Toscana; Campania, Calabria e Basilicata. Ne sono avvenute 1.003 negli anni compresi tra il 1991
e il 2001: con una media annua di 91. In
pratica, un’alluvione ogni 4 giorni.
Il rischio frane. Riguarda 13.760 km2, pari
al 4,5% del territorio nazionale. Le cinque
regioni più a rischio rispetto alla superficie totale sono la Valle d’Aosta (637 Km2
pari al 19,5% del territorio regionale), la
Campania (1.615 Km2 pari al 11,8% del
territorio regionale), il Molise (499 km2
pari al 11,2% del territorio regionale),
l’Emilia Romagna (2.210 Km2 pari al 10,0%
del territorio regionale) e le Marche (934
Km2 pari al 9,6% del territorio regionale).
Tra il 1991 e il 2001 si sono registrate in
Italia almeno 12.075 fenomeni franosi: con
una media annua di 1097. In pratica, 3 frane al giorno.
emergenza politica prioritaria
ROCCA 1 GIUGNO 2006
L’alto rischio potenziale e l’intensa attività
di concreto dissesto si traducono, molto
più spesso di quanto si creda, in effetti reali. Che spesso – molto più spesso di quanto non si creda, ha conseguenze dirette
sulle persone. Ogni mese in media muoiono almeno 9 persone per frane. Una ogni
tre giorni. Anche se il fenomeno rompe il
muro dell’attenzione dei mass media piuttosto raramente (la frana del Vajont nel
1963, la frana di Sarno nel 1998), quello
tragico di Ischia non è dunque un’eccezione inattesa. È un evento frequente e largamente annunciato.
Il rischio frana e, più in generale, il rischio
30
dissesto idrogeologico per la loro imminenza, la loro diffusione e i loro effetti enormi
(sia in termini economici sia, soprattutto,
in numero di vite umane) costituiscono
dunque un’emergenza primaria del nostro
paese.
Che ci impongono azioni precise e non
derogabili: conoscere le aree a rischio e
rimuovere i fattori (antropici e naturali)
di pericolo. In altre parole, prevenire gli
annunciatissimi «eventi inattesi». Il che
significa redigere mappe sempre più dettagliate delle aree soggette a dissesto idrogeologico, tener cura degli ambienti naturali non urbanizzati, proibire nel modo più
assoluto la loro urbanizzazione (legale e a
maggior ragione abusiva).
Inutile dire che poco di tutto questo è stato fatto. Che persino in un territorio piccolo, noto e opulento come l’isola d’Ischia,
costituito da friabili tufi e depositi piroclastici, è così poco noto da generare fenomeni colpevolmente inattesi.
Per minimizzare l’annunciatissimo rischio
idrogeologico occorre una grande opera.
La prima grande opera di cui ha bisogno il
paese. Si tratta di investire – calcola il ministero dell’Ambiente – circa 40 miliardi
di euro. È una cifra grande, ma non impossibile. Dal 1991 a oggi, i fondi stanziati
sono stati 5,3 miliardi di euro (3,1 grazie
alla legge 183 del 1989; 1,5 miliardi grazie
al Decreto legge 180 del 1998; 0,7 per deliberazioni del Cipe). Il 12% del necessario.
studio e ricerca
Se in questi ultimi 15 anni non è mai stato
speso molto per la prevenzione del rischio
idrogeologico, gli ultimi cinque anni, quelli
del governo Berlusconi, sono stati, anche
in questo settore, devastanti. Basti ricordare che l’ultima Finanziaria ha tagliato i
fondi per la difesa del suolo dai pochissimi 200 milioni di euro ai ridicoli 120 milioni di euro. E che, come rivela Legambiente, la riduzione dei fondi ha avuto
come primo effetto quello di penalizzare
le attività di studio e ricerca. Proprio quelle attività che dovrebbero impedire di definire inattesa una frana su una collina piroclastica nel paese dei vulcani e del dissesto idrogeologico.
Ecco, dunque, un progetto davvero qualificante per i primi cento giorni del prossimo governo di centrosinistra. Investire
nell’opera più grande e necessaria: conoscere il territorio e combatterne il dissesto.
TERRE DI VETRO
buon tempo
Oliviero
Motta
na buona giornata, quella che sta
per finire; lo vedi dall’espressione del viso e dal passo soddisfatto col quale esce dall’ufficio.
Gianpaolo lo incrocio spesso, ma
è difficile vederlo così contento:
lavorare per i servizi sociali di un grande
comune dell’hinterland metropolitano non
è infatti semplice. È impegnativo da un lato
per la complessità della rete da tenere insieme e da coordinare e, dall’altro, per la
diversificazione dei problemi, talvolta
drammatici, a cui si deve tentare di rispondere. E non sono rari i giorni in cui questo
mestiere diventa duro: sono di solito le giornate in cui misuri la distanza tra gli strumenti che hai a disposizione e i problemi
che devi affrontare. Perché proprio nel mezzo di questa distanza finisci per cozzare contro le attese aggressive o persino violente
dei tuoi «utenti». C’è infatti anche questo
da mettere in conto, soprattutto oggi che
tanto spesso i problemi di ordine economico e sociale si intrecciano strettamente con
disagi e deficit di salute mentale.
Ma oggi è stata una buona giornata perché tutti gli ingranaggi hanno girato come
si deve e niente è andato storto. «Ti ricordi
Federico?». Certo, difficile dimenticarsi di
lui, con il suo rapidissimo passaggio dalla
«normalità» alla strada: nel giro di un stagione ha rotto con la moglie, perso il diritto di entrare in casa «sua» e visto affondare la piccola ditta artigianale a conduzione familiare. Proprio oggi i diversi operatori sociali che si occupano di lui sono riusciti con un buon gioco di squadra a far
certificare la sua situazione di emergenza
abitativa e a recuperargli un colloquio di
lavoro con ottime prospettive di assunzione a tempo indeterminato. Certo, rimane
la preoccupazione sulla sua tenuta al lavoro e sui tempi entro i quali finalmente
potrà abbandonare la macchina dentro cui
dorme da settimane.
U
Eppure la soddisfazione di Gianpaolo oggi
è legittima e fondata: sono stati compiuti
due seri passi in avanti verso l’autonomia
di Federico e sono stati fatti in tempi accettabili.
«Già, ma accettabili per chi?». È tornato
serio, Gianpaolo, e riflette sui diversissimi
tempi di marcia delle emergenze e degli
strumenti a disposizione. «È davvero bello
quando riesci a vedere che il tuo lavoro ha
un senso, che un progetto di emancipazione e di autonomia personale si definisce e
si concretizza. Eppure pensa un attimo a
queste persone, come a tante altre che incontriamo: quanto devono aspettare per
avere risposte concrete? Pensa ai tempi di
attesa per un alloggio pubblico o a quelli
per l’inserimento lavorativo di una persona
disabile o perché certe situazioni border line
di sofferenza familiare vengano prese in carico… A volte mi chiedo se noi saremmo
capaci di tanta pazienza, di tanta perseveranza nell’attendere e nello stimolare i tempi
lenti e irregolari delle istituzioni».
Tutto vero, purtroppo. E mentre ci guardiamo, ci vengono in mente i tanti episodi
di esplosione di rabbia e di disperazione
per il proprio destino o per quello dei propri cari: pugni sul tavolo e parole grosse,
quando va bene, se non sguardi allucinati
e taniche di benzina nelle mani tremanti.
Sono i tempi del bisogno pressante e dei
tentativi di risposta che quasi mai riescono a collimare.
E talvolta tutto sembra complottare per non
farli coincidere: le risorse sempre più centellinate ai servizi pubblici e privati, ma anche una fisiologica difficoltà a far maturare
processi complessi e compartecipati da diverse professionalità e competenze.
«A volte sembra di essere mandati in trincea con le pistole ad acqua. Ti ricordi, quelle delle nostre estati da bambini?». Già,
quando il tempo sembrava così tanto. E così
buono.
Pietro Greco
31
ROCCA 1 GIUGNO 2006
AMBIENTE
pari al 14,5% del territorio regionale), il
Molise (615,7 km2 pari al 13,8% del territorio regionale) e la Toscana (2.709 Km2
pari all’11,8% del territorio regionale).
Come si vede: regioni del nord, del sud e
del centro. A dimostrazione che il rischio
idrogeologico è davvero diffuso in tutto il
paese.
AFGHANISTAN
il secondo
pantano
È
ROCCA 1 GIUGNO 2006
traffici di morte
Esiste anche un altro aspetto assurdo da
evidenziare, su cui i principali mass media hanno calato un assordante silenzio:
«Il narcotraffico è la fonte principale – ha
affermato Mario Costa, direttore di Unoc
(l’ufficio antidroga dell’Onu) – dell’insta32
bilità e del terrorismo. Se non combattiamo seriamente questo problema rischiamo di vanificare gli sforzi fatti fino ad oggi
per creare un Afghanistan nuovo e democratico». È risaputo e lo afferma l’agenzia
pacifista Peacereporter: l’eroina che uccide i giovani in Europa ed in Italia è quella
ottenuta con l’oppio afghano. I nostri politici della «tolleranza zero» sulla droga dovrebbero spiegarci come mai soldati italiani sono di fatto alleati con i signori della guerra del Paese asiatico e padroni del
commercio di oppio, l’unico motore dell’economia afghana. Quando il Mullah
Omar governava a Kabul tale produzione
era minima, esisteva addirittura il rischio
della pena di morte, mentre oggi agiscono
alla luce del sole.
Il Presidente Karzai, la cui autorità non si
spinge molto al di fuori della capitale, nulla può per stroncare questi traffici di morte. La raccolta di oppio nel 2003 è stata
pari – secondo Peacereporter – a 3,6 tonnellate (+6% rispetto la 2002) in 28 province sulle 32 che compongono l’Afghanistan. Del resto una famiglia guadagna una
fortuna a coltivare il prezioso papavero,
ben 4.000 dollari l’anno, non ci si deve stupire se esso è il mezzo di sostentamento
del 7% dell’intera popolazione. I contadini guadagnano le briciole del grande traffico, mentre ai signori della guerra vanno
cifre da capogiro, la gran parte di un giro
d’affari stimabile in 2,3 miliardi di dollari
che sono reinvestiti nelle armi e nel pagamento dei combattenti, in una spirale perversa che promette sempre maggiori sofferenze.
codice di guerra
La recente campagna elettorale è stata
un’occasione perduta, si è parlato unicamente di tasse, non di politica internazionale, non dei motivi reali che ci hanno
spinto ad essere presenti militarmente nel
paese, inviando centinaia di soldati. Del
resto è noto che tale presenza è senza
ombra di dubbio connessa ad una missione di guerra, tant’è vero che ai militari si
applica, come in Iraq, il codice di guerra.
Di fronte a questa situazione ben pochi,
oltre all’estrema sinistra, parlano di ritiro,
da quello che è divenuto il secondo pantano dopo quello iracheno. Ogni settimana
aumentano gli attentati, gli attacchi kamikaze e i morti anche fra i soldati occidentali, mentre i civili afghani non li conta nessuno. Ragion per cui anche questa
guerra è ben lungi dall’essere vinta.
cosa fa l’Italia?
Non è inutile ripetere che con i soldi spesi
per il conflitto si potevano risolvere gli
enormi problemi economici e sociali del-
l’Afghanistan, invece nonostante la «liberazione» i suoi abitanti hanno una qualità
della vita fra le peggiori del mondo.
In un simile contesto che cosa fa l’Italia?
Invece di sganciarsi da una situazione incancrenita aumenta la presenza militare.
Nei giorni scorsi il gen. Tricarico Capo di
Stato Maggiore dell’Aeronautica ha affermato che sei aerei Amx sono pronti a partire a disposizione della Nato nell’ambito
della missione Isaf, che presto si espanderà nel sud-ovest in cui sono più forti i guerriglieri talebani. Sarebbe auspicabile, per
coerenza, che il nuovo Governo Prodi, oltre a ritirare i soldati da Nassirya, li ritiri
anche dall’Afghanistan e si limiti a fare ciò
che la popolazione apprezzerebbe maggiormente: un forte contributo a sminare
il Paese, uno dei più infestati dal flagello e
che costituisce un grave ostacolo a ogni
tipo di attività dal gioco dei bambini all’agricoltura ed alla pastorizia. La Valsella
è famosa per aver fornito un gran numero
di ordigni che hanno martoriato tanti corpi innocenti. Abbiamo il dovere morale di
intervenire, per riscattare il nome del nostro Paese. La società civile con l’ospedale
di Emergency, in cui gli afghani vengono
curati gratis, ha fatto la sua parte, sarebbe
ora che anche lo Stato faccia la sua parte
voltando pagina.
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Luciano
Bertozzi
sufficiente leggere i rapporti di
Amnesty International e delle altre organizzazioni analoghe per
vedere come in realtà ben poco sia
cambiato con il nuovo regime: la
condizione delle donne è migliorata soltanto di poco, se non per nulla, il
burqa l’emblema stesso dell’esclusione
della donna dalla vita politica e sociale è
ancora ben lungi dall’essere eliminato e poi
non è ammessa la libertà di scelta religiosa, la vicenda di Abdul Rahaman, l’apostata afghano che ha rischiato la condanna a
morte per aver abbracciato la fede cattolica, è emblematica. «L’aggravarsi del contesto di illegalità e insicurezza ha reso vani –
scrive Amnesty International nel suo rapporto Annuale 2005 – i tentativi di instaurare la pace e la stabilità». La stroncatura
dell’Associazione umanitaria si riferisce
anche alla condizione delle donne, che
«hanno continuato a subire livelli di violenza sistematica e diffusa e discriminazioni
sia in ambito pubblico sia privato».
Luciano Bertozzi
33
ETICA POLITICA ECONOMIA
sussidiarietà
e solidarietà
L
per una chiarificazione dei termini
Il principio di «sussidiarietà» ha costitui34
to fin dagli inizi uno dei cardini della cosiddetta «dottrina sociale» della Chiesa: il
documento in cui si trova per la prima volta
enunciato è l’enciclica Quadragesimo anno
di Pio XI (1931). Di fronte al pericolo (non
puramente ipotetico) dello statalismo, il
Papa rivendica il diritto alla libertà di
espressione dei singoli e dei «corpi intermedi» (è questa l’espressione usata) della
società, giustificando l’intervento dello
Stato (perciò delle istituzioni pubbliche)
solo in funzione «sussidiaria» (da subsidium = aiuto: di qui il termine «sussidiarietà»), cioè solo laddove esso è richiesto
da evidenti esigenze di «bene comune» (n.
80). Il principio di «sussidiarietà» è qui
concepito (ma un’analoga visione si trova
anche nei documenti del magistero ecclesiale immediatamente successivo) come il
principio fondamentale dell’ordinamento
della vita sociale, la quale deve fare anzitutto spazio alla libera iniziativa che si sviluppa dal basso, cioè alle associazioni
spontanee dei cittadini, riservando allo
Stato un compito di integrazione laddove
sono in gioco diritti (o interessi) collettivi
non sufficientemente tutelati dall’iniziativa privata.
L’affermarsi del fenomeno della socializzazione e lo sviluppo di crescenti forme di
interdipendenza, non solo tra i vari settori
nei quali si articola la convivenza umana
ma soprattutto tra i diversi popoli della
terra – in questo consiste la «globalizzazione» – ha reso evidente la necessità di
integrare il principio di «sussidiarietà» con
quello di «solidarietà» (da solidum, termine di origine giuridica utilizzato per definire la responsabilità collettiva), che acquisisce, a partire dalla Populorum progressio di
Paolo VI (1967), un ruolo sempre più centrale, in quanto criterio al quale riferirsi per
sanare le sperequazioni sociali esistenti e
ripristinare la giustizia tra gli uomini e le
nazioni. L’unificazione del mondo, provocata dal progresso tecnologico in tutti gli
ambiti della vita, rende trasparente la necessità di riforme strutturali che reclamano l’intervento dei pubblici poteri per dar
vita a un ordine mondiale equo.
I due principi risultano pertanto entrambi
essenziali: si tratta di mediarli correttamente tra loro, riconoscendo al principio
di solidarietà il significato di orizzonte ultimo entro cui sviluppare l’azione politica
e a quello di sussidiarietà il carattere di
strumento necessario per determinare il
coinvolgimento responsabile dei vari attori sociali nel processo volto alla ricerca del
«bene comune».
lo Stato sociale
Il principio di solidarietà si è affermato in
Occidente, a partire dall’ultimo dopoguerra, grazie allo sviluppo dello Stato sociale
(Welfare State). I processi di socializzazione e di interdipendenza ricordati hanno
infatti contribuito ad evidenziare i limiti
dello «Stato di diritto» di matrice liberale,
incentrato sul riconoscimento dei «diritti
di libertà», validi in realtà soltanto per coloro che hanno il potere di farli valere, cioè
per i soggetti socialmente garantiti. La teoria keynesiana tende a fornire a tali diritti una seria tutela sociale, assicurando a
tutti la possibilità di accesso ad alcuni beni
fondamentali per lo sviluppo della vita personale e per l’esercizio effettivo della cittadinanza.
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ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Giannino
Piana
o stato di complessità, che caratterizza la nostra società, rende
sempre meno facile la regolamentazione dei rapporti tra individui,
gruppi sociali e istituzioni pubbliche. Le reciproche interferenze e
le sovrapposizioni rischiano di creare talora pericolosi cortocircuiti, che finiscono
per compromettere l’autonomia dei singoli
ambiti e per favorire l’affermarsi di processi conflittuali tra di essi con ripercussioni fortemente negative sullo sviluppo
della convivenza civile.
È dunque necessario un serio impegno di
ridefinizione dei ruoli (e delle competenze) di ciascuna soggettività individuale e
collettiva nel quadro di una visione globale (e unitaria) del contesto sociale; ed è
soprattutto necessaria la produzione di un
modello adeguato di relazioni tra società
e Stato, che salvaguardi l’identità di ciascuna delle due entità e crei le condizioni
per una loro feconda cooperazione.
I due principi di «sussidiarietà» e di «solidarietà», la cui elaborazione originaria va
ascritta al magistero sociale della Chiesa
(e che sono alla base della nostra Costituzione), possono diventare, se correttamente interpretati, un importante strumento
per la determinazione di equilibri (sempre
aperti) tra le varie aggregazioni che strutturano il tessuto sociale; equilibri che garantiscano piena espressione alle diverse
realtà associative e concorrano a promuovere esperienze di vita collettiva partecipata e solidale.
verso una forma nuova di sussidiarietà
ROCCA 1 GIUGNO 2006
La difesa e il rafforzamento dello Stato sociale devono costituire la preoccupazione
primaria di un’azione politica impegnata a
promuovere l’uguaglianza tra i cittadini e a
favorire, di conseguenza, il dilatarsi della
partecipazione. Ma il perseguimento di questi obiettivi è oggi possibile solo se si procede alla sua riforma; se si innescano cioè dei
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processi di decentramento sempre più
ampi, che favoriscano una più stretta interazione e collaborazione tra istituzioni pubbliche e soggettività sociali.
Il principio di sussidiarietà ricupera qui piena attualità. Da esso scaturisce anzitutto
l’esigenza di una più equa distribuzione dei
poteri tra le diverse istituzioni pubbliche
(Stato, regioni, province, comuni, ecc.) – è
questa la cosiddetta sussidiarietà «verticale» – con l’adozione di una metodologia dal
basso che assegna anzitutto alle istituzioni
più piccole il compito di intervenire nella
gestione e nel controllo dei servizi, coinvolgendo, man mano, quelle più grandi e favorendo in tal modo l’innesco di forme di
partecipazione più dirette e più efficaci. Ma
da tale principio scaturisce anche – a questo si allude quando ci si riferisce alla sussidiarietà «orizzontale» – la necessità di una
maggiore attenzione alla società civile, alle
dinamiche che la connotano e alla libera
iniziativa che in essa si sviluppa, per risvegliare le potenzialità (e le energie) che in
essa si esprimono e sollecitarne l’impegno
a favore dell’interesse generale.
La pratica corretta di tale principio è possibile solo a condizione che si eviti il rischio
della caduta in derive privatistiche, guidate
da logiche meramente economiche o da
interessi particolaristici del territorio, e che
si dia pieno riconoscimento alla funzione
insostituibile dello Stato (e delle istituzioni
pubbliche in genere), cui non può essere
assegnato un ruolo meramente residuale,
ma al quale va riconosciuto il compito di
indirizzare i processi individuali e sociali
verso obiettivi di bene comune.
delicati equilibri
Sussidiarietà e solidarietà sono, in definitiva, principi che vanno reciprocamente integrati nel segno di delicati equilibri, che
garantiscano, per un verso, la più ampia
espressione delle libertà individuali e associative e favoriscano, per altro verso, l’edificazione di assetti di convivenza ispirati alla
giustizia, capaci cioè di salvaguardare i diritti di tutti, a partire da quelli di coloro che
vivono in situazioni di maggiore debolezza
e marginalità. L’armonico sviluppo di una
nazione esige infatti il riconoscimento dell’autonomia della società civile, ma comporta anche l’ammissione della necessità della
società politica (e perciò dello Stato), che
ha il dovere di assicurare a tutti (nessuno
escluso) la possibilità di un effettivo esercizio della cittadinanza.
Giannino Piana
SOCIETÀ
dal bipartitismo imperfetto
al bipolarismo conflittuale
Giuliano
Della Pergola
N
ella patria della moderna democrazia, in Gran Bretagna, da molti secoli si fronteggiano due schieramenti politici, i conservatori (la
destra) e i progressisti (la sinistra).
Su questo stesso modello gli Stati
Uniti organizzarono fin dalle origini della
loro vita associata un proprio schema generale di democrazia parlamentare, quello che
prevede un doppio schieramento, che è l’opposto di ogni altro modello a partito unico,
non preserva le democrazie dal trasformarsi in oligarchie, ma la tutela dal rischio della
tirannia.
Invece, molti altri paesi acconsentono la pluralità delle voci in campo, non attraverso due
schieramenti contrapposti, ma mediante alleanze politiche capaci di dare spazio a tutti. Ed è stato proprio questo il caso storico
dell’Italia democratica repubblicana, un paese molto plurimo sul piano ideologico, che
dunque per decenni ha visto non due schieramenti l’uno avverso all’altro contrapporsi
in Parlamento, ma invece decine di partiti
che convergevano o divergevano tra di loro
a seconda dei diversi momenti storici (poiché la situazione generale era bloccata dalla
frontale divisione tra Dc e Pci, che trascrivevano a livello nazionale lo stesso bipolarismo della Guerra Fredda).
Fin tanto che, dopo il 1989, si credette opportuno trapassare dal bipartitismo imperfetto al bipolarismo perfetto, in pratica copiando dal sistema inglese il doppio schieramento della maggioranza contrapposta
all’opposizione. Eravamo nella fase storica
successiva alla caduta del muro di Berlino,
subito dopo lo scioglimento della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista e dopo
la liquidazione del Partito Socialista a mezzo dell’operazione Mani Pulite. Un passaggio politico che, assai impropriamente, venne da molti immaginato come un trapasso
dalla Prima alla Seconda Repubblica («impropriamente», perché invece non vi fu alcuna modificazione della Costituzione, ma
solo un mutamento degli attori del processo
politico. La dizione «Seconda Repubblica»
farebbe invece pensare ad un profondo cambiamento costituzionale).
Avviene però che i cambiamenti della società non seguano i sotterfugi e gli espedienti
politici del Parlamento. La società civile presenta sue dinamiche e, per quanto a sua volta, possa essere influenzata dalle leggi repubblicane e dalle posizioni partitiche, riesce
sempre a seguire un suo andamento proprio,
per molti aspetti indipendente dagli equilibri parlamentari.
Così che, a questa relativamente nuova reciprocità di schieramento partitico non fece
riscontro un forte cambiamento politico o
ideologico, anzi, gran parte del Paese stava
a guardare questo nuovo tipo di balletto tra
i partiti con un sorriso di scherno.
centro destra e centro sinistra
I due schieramenti politici (Polo delle Libertà e allora Ulivo, oggi Unione) che dopo mille tergiversazioni emersero, non furono esattamente l’uno di destra e l’altro di sinistra,
ma uno di centro destra e l’altro di centro
sinistra. Che senso ebbe questo nuovo equilibrio in campo? Non significò solamente
che, siccome le elezioni si vincono al centro
perché è nel centro che si condensano più
numerose le qualità politiche distribuite lungo l’intero corpo elettorale, i due schieramenti politici tesero ad avere un atteggiamento
cautelato rispetto al proprio elettorato. Guardinghe furono anche le formazioni politiche
principali che presero il campo di quelle
scomparse: Forza Italia che guadagnava nei
settori di voto lasciati liberi dalla fine della
Democrazia Cristiana e da quella del Partito
Socialista, e i Democratici di Sinistra, eredi
del Partito Comunista Italiano.
Ma se questa rimaneva l’ossatura di base del
Parlamento repubblicano lungo gli anni
Novanta, una miriade di altri partiti, più o
meno numerosi, oltre che di liste nominative (Lista Pannella, Lista Di Pietro, Lista Bonino), nacquero, e sia pure obtorto collo
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ROCCA 1 GIUGNO 2006
ETICA
POLITICA
ECONOMIA
Vengono in tal modo ad affermarsi, accanto
ai tradizionali «diritti di libertà», i «diritti
sociali», che ricevono un ampio riconoscimento nelle Carte costituzionali nate nell’immediato ultimo dopoguerra – quella italiana assegna ad essi un ruolo di primo piano –
e nelle stesse Carte internazionali, a partire
da quella delle Nazioni Unite del 1948. L’intervento diretto dello Stato (o, in alcuni casi,
degli organismi internazionali) è qui esigito
come strumento di perequazione sociale o –
come recita la nostra Costituzione all’art. 3
– come fattore indispensabile per «rimuovere gli ostacoli» che impediscono ad alcune categorie di persone – quelle più deboli –
di diventare a tutti gli effetti cittadini. Salute, istruzione e lavoro sono infatti diritti essenziali di cui tutti devono poter fruire e che
necessitano per questo di un’azione diretta
delle istituzioni pubbliche, chiamate a favorirne l’accesso da parte di tutti.
Lo «Stato sociale» è una conquista storica
irrinunciabile; esso costituisce un punto di
non ritorno nel processo di crescita civile
della società. Non vi è dubbio, tuttavia, che
la sua concreta attuazione (anche nel nostro Paese) è stata contrassegnata da vistosi limiti gestionali, legati soprattutto alla sua
conduzione accentrata e all’eccessiva invadenza della «politica» (intesa qui nel significato più deteriore di partitocrazia), nonché da scarso rigore sul piano economico.
La burocratizzazione dei servizi, l’incremento del privilegio di alcuni (o di alcune
categorie) a scapito di altri e il moltiplicarsi degli sprechi hanno concorso a trasformare lo Stato sociale in «Stato assistenziale», alimentando critiche (talora pretestuose) che tendono alla sua demolizione. Tutto ciò mentre avanza in campo economico
una forma di liberismo selvaggio, che fa del
mercato «senza regole» il criterio esclusivo
di conduzione dei processi sociali; e mentre la funzione dello Stato viene ridotta – si
pensi all’idea di «stato minimo» di Nozick,
uno dei più prestigiosi consiglieri del Presidente americano Bush – ad interventi di
mera beneficenza (non esigiti dunque da
ragioni di giustizia) nei confronti di alcune
forme estreme di povertà.
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La prima determina una situazione assurda
tra due alleati che hanno una visione diametralmente opposta dello Stato e delle
Amministrazioni locali: la Lega, che è fortemente portatrice di un pensiero populista e
federalista (con venature razziste), addirittura al limite della secessione istituzionale
dal resto dell’Italia, inventando un’etnia «padana» che non è mai esistita, producendo
miti propri («le pure acque del Po» raccolte
in un’ampolla e venerate come a Napoli si
celebra il sangue di san Gennaro che si liquefà), è in favore di un’amministrazione settentrionale in opposizione al sud e al centralismo romano («Roma ladrona»), è sostenuta dalle banche popolari locali del nord
est, alquanto liberista e tutta sbilanciata a
favore delle aziende produttive lombarde e
venete, fortemente radicata nell’arco sub alpino. E… anche alleata di An, un partito ex
fascista, per la verità molto emancipato dalla sua originaria matrice, ma pur sempre un
partito che raccoglie al sud il suo più ampio
consenso elettorale, nazionalista e fiero oppositore di ogni tentativo secessionista, che
vede in Roma il motore e il centro non solo
dell’apparato amministrativo, ma soprattutto di quello politico generale, ispirato nel suo
patrimonio ideologico alle «categorie produttive» di matrice corporativa.
Come possano stare insieme due pensieri
tanto antitetici sarebbe incomprensibile, se
non si pensasse ad una solerte, continua,
assidua azione di mediazione del Premier,
che distribuisce privilegi e benemerenze ora
agli uni ora agli altri, purché non rompano
quel patto che, anche privatamente e di fronte ad un notaio, li impegna a condurre a termine collegialmente l’intera legislatura parlamentare.
A sinistra all’inverso, le forze riformiste di
Margherita e di Ds si misurano con un alleato che invece trae il proprio consenso politico proprio dalla non accettazione della prospettiva riformista. Ecco riemergere a sinistra la classica contrapposizione tra Riformisti e Rivoluzionari.
Rifondazione Comunista fu contro la guerra in Serbia come oggi è contro la partecipazione italiana alla guerra in Iraq. Non è a
favore di un disimpegno dilazionato dell’Italia dalla politica estera americana, ma a grande voce e mobilitando movimenti pacifisti e
giovanili, chiede una radicale rottura con la
politica estera fin qui perseguita. E non solo
la politica estera, che pure resta il momento
di maggiore attrito tra gli alleati a sinistra
(fino al punto da immaginare una federazione a sinistra tra Cossutta e Bertinotti), è
contraddizione tra i Ds e Rifondazione Comunista. Le contraddizioni toccano molti
campi: in tema di lavoro revisione o abrogazione della legge Biagi?), del meridione d’Italia, per il recupero della marginalità sociale,
del ruolo della scuola, della gestione del
Welfare State, della funzione delle amministrazioni locali, di quello dei movimenti giovanili, dello spazio da lasciare ai centri sociali, eccetera, eccetera.
L’invenzione di un formale doppio schieramento politico che superasse la logica delle
alleanze tra i partiti, rivelatasi tanto labile
per decenni, e ancorata ad un saldo «premio di maggioranza» parlamentare che rinsaldasse ancora di più la forza con cui l’esecutivo può condurre la sua azione di governo, sulla carta poteva sembrare forse ad alcuni un buon correttivo di quello che Giorgio Galli aveva chiamato «il bipartitismo
imperfetto». Stingi stringi non s’è trattato che
di un’ulteriore operazione istituzionale trasformistica: le forme della politica istituzionale non tematizzavano i mutamenti societari per inseguire, invece, il vuoto fantasma
di origine inglese, astratto e puramente nominalistico se applicato all’Italia. La società
civile italiana, in un certo senso «indifferente» verso il nuovo vestitino istituzionale che
era stato avviato, interamente ha mantenuto le proprie laceranti contraddizioni. Come
sempre in questo paese lo jato, la separatezza di fatto, la rottura qualitativa, che esistono tra forme della rappresentanza politica e
dinamiche societarie, hanno persistito, sostituendo proprie autonome dinamiche allo
schema inter partitico parlamentare.
prospettive di evoluzione
È propriamente il tipo di democrazia importata da altre esperienze nazionali e poi applicata al caso italiano, che sembrerebbe non
potere funzionare adeguatamente. Quasi che
ci fosse bisogno, per l’Italia, di un tipo particolare di elaborazione della democrazia, che
finora non è stato trovato.
Innanzi tutto occorrerà meglio definire le
forme della rappresentatività sociale. Fin
tanto che si rincorreranno gli equilibri infra-partitici e fin tanto che si cercherà di recuperare consenso ideologico, ricorrendo a
candidati mutuati da altre forme di consenso (sport, spettacolo, magistratura…), non
si potrà sanare questa separatezza. Ma in
tutti i casi non basterebbe ricorrere ad una
migliorata forma di rappresentatività politica. Occorrono poi anche nuove regole circa
il passaggio dal maggioritario al proporzionale, perché una coalizione durevolmente
possa rispettare le regole democratiche senza coartare a proprio favore una soluzione
piuttosto che l’altra, solo che non voglia la-
sciare all’avversario politico il favore del
«premio di maggioranza».
E poi sono state dimenticate altre questioni, che invece occorrerà riprendere.
Fra le altre, va ripresa e va definita una volta per tutte, la scelta circa le relazioni che
debbono regolare reciprocamente il Parlamento ed il Governo, nonché le forme del
consenso politico ai livelli più alti (se dunque ci si ispiri al presidenzialismo o cancellierato, o al ritorno alle consultazioni tradizionali, se sia prevista una soglia di sbarramento – a un certo livello –, e poi le forme della creazione dei gruppi parlamentari, quelle relative alla determinazione del
Gruppo Misto e del suo ruolo, quella della
presenza di Indipendenti dai partiti, con cui
si resta alleati ma non interni, infine il ruolo del ricorso ai referendum popolari abrogativi, il cui uso è stato tanto manipolato in
questi anni).
Nella prospettiva di assegnare alle eventuali
soluzioni, non un compito legato all’impellenza e alla stringente attualità, ma invece
quello di sviluppare una prospettiva di medio-lungo termine, perché solo con una visione alta della storia si possono produrre
modelli politici di rappresentanza che sono
stabili e duraturi.
Perché «imperfetto» in Italia si direbbe, non
solo il bipartitismo del periodo storico successivo al 1948, ma soprattutto il rapporto
tra società civile e Parlamento.
Azzardare una prospettiva sull’evoluzione
del doppio blocco politico che s’è venuto
costruendo di recente in Italia non è facile;
tuttavia si potrebbe pensare che si possa
andare verso la costituzione di due partiti
contrapposti, come negli Stati Uniti i Democratici (a sinistra) e i Repubblicani (a destra).
Apertamente, già si parla anche in Italia di
un partito unico della sinistra nel quale potrebbero confluire Margherita, Ds e altri; e
un partito solo a destra che sarebbe il nuovo contenitore della Casa delle Libertà. Addirittura, c’è chi crede che questo processo
possa svilupparsi a breve, entro un anno.
Dando corpo (alquanto fantasticamente) a
questa prospettiva partitica, si potrebbe credere che metodologicamente sarebbe un
buon processo quello che, senza ammazzare le differenze, anzi valorizzandole, consentisse a tutti di riconoscersi – senza identità dimezzate e con un più di azione comune – in un processo politico sinteticamente capace di promuovere ad un tempo
singolarità, pluralità e associazionismo.
Sarebbe questa una forma federale di partito moderno.
ROCCA 1 GIUGNO 2006
ROCCA 1 GIUGNO 2006
SOCIETÀ
dovettero schierarsi, o con gli uni o con gli
altri. Dovevano scegliere uno dei due schieramenti generali, non potevano correre da
soli.
Così che i due contenitori generali si riempirono di liste e di nomi diversi, molto remoti
gli uni dagli altri. Solo apparentemente essi
erano due schieramenti compattamente opposti e ben definiti, ma in pratica invece erano due contenitori che davano spazio a realtà politiche autonome e differenti. Ciascuno
di questi due schieramenti sottintendeva una
violenta conflittualità interna, poiché tra loro
dovevano convivere dei partiti non omogenei, imparentati, ma senza mai essersi scelti
reciprocamente per davvero.
Ad esempio, il partito di Di Pietro, L’Italia
dei valori, nasce con Mani Pulite, contro la
politica privatistica del Partito Socialista,
affondato dai magistrati milanesi, dapprima
come un movimento e poi come forza politica, a garanzia dell’azione contro la corruzione politica e istituzionale, e il suo schieramento a sinistra pone immediatamente un
problema di convivenza con quella parte dei
socialisti che anch’essa sceglie di stare a sinistra. Due formazioni politiche reciprocamente contrapposte, finivano con l’essere
schierate tutte e due dalla stessa parte!
Ma questo non fu il caso più difficile. Il caso
più clamoroso si scopre analizzando i diversi
partiti che si vengono a creare dall’eredità
della Democrazia Cristiana. Quello che prima era un coacervo di tendenze e di tensioni
collettive cucite insieme dalla comune militanza nel partito che fu di De Gasperi e basato sul principio dell’unità politica dei cattolici, produsse una diaspora di posizioni del tutto
autonome e violentemente contrapposte. Si
sa che tra moderati e progressisti nella stessa
area, le acredini possono essere ancora più
violente che non tra moderati e progressisti
di aree distinte, perché tutti s’assomigliano,
ma nella diseguaglianza reciproca. Conflitti
interpersonali scoppiarono a ripetizione (il
più noto forse fu quello che contrappose Rosy
Bindi a Roberto Formigoni).
Se la Margherita e poi l’Udeur raccolsero
l’eredità delle correnti democristiane di Base,
Forze Nuove, Acli, Cisl e cattolici sociali,
l’Udr e l’Udc coagularono invece, con ruoli
diversi, il consenso di quei cattolici che reclamavano la ricostruzione della vecchia Dc,
l’Udr più moderato, l’Udc più clericale; i primi conservatori ma più laici, i secondi conservatori come gli altri, ma più connessi ai
movimenti ecclesiali.
Le due più forti contraddizioni tuttavia si
segnalano una per campo: tra Lega e An a
destra, e tra Ds e Rifondazione Comunista a
sinistra.
Giuliano Della Pergola
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disuguali diversi differenti
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Rosella
De Leonibus
Eccoli, Adamo ed
Eva. Nudi e senza
vergogna, l’uno di
fronte all’altra. Si
guardano, ma non si
conoscono, nel mistero infinito delle
loro differenze. Eppure riescono a percepirsi nel loro essere uomo e donna. Da
questa non conoscenza nasce la relazione.
Marc Alain Ouaknin
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desso si sentono deboli, fragili,
sentono fortemente le emozioni,
sono diventati neo-romantici…
Le donne li trovano un po’ infantili, spesso egoisti, troppo mici, o
moci, a volte anche machi, ma solo
come ostentazione, come teatro. Non li
considerano troppo affidabili. Loro stessi
si sentono confusi, spesso in ansia, senza
un modello positivo a cui rifarsi. Nei film
fanno la parte degli insipienti, dei vigliacchi, mentre le donne sono quelle forti, sagge, altruiste. Loro invece, l’altra metà del
cielo, hanno alzato la testa, dopo millenni
di sudditanza, quando camminavano sempre dietro al loro coniuge, almeno un passo, meglio di più.
Da qualche decennio parecchie cose sono
cambiate, a scuola sono più brave, sanno
star bene anche da sole, si guadagnano da
vivere, e si sentono più in gamba e più mature dei loro partner, ai quali chiedono un
rapporto alla pari, e loro, gli uomini, che
non ci sono ancora abituati, per ora adottano atteggiamenti difensivi, si sentono minacciati nella loro virilità da queste donne
del duemila che prendono sempre più spazio. E hanno tanta paura: di non essere
buoni mariti, di non essere buoni padri, di
non capire, di non essere all’altezza… Anche le donne portano dentro di sé la loro
buona dose di infelicità. Sono sovraccariche, trafelate, interiormente insoddisfatte,
e forse proprio per questo hanno spesso
voglia di rimettere in questione tutte le angolature della loro esistenza. Sentono spesso un certo freddo e un vuoto nella relazione di coppia, e questo le rinvia ad un vuoto
interiore, alla paura di non esistere. Si sentono spinte a negoziare ogni cosa, a voler
decifrare, interpretare puntigliosamente le
parole e i silenzi dei loro uomini, non riescono a fidarsi, e la quotidianità si dissemina di microviolenze verbali, di segnali di
ostilità e di squalifica.
Vorrebbero una relazione già risolta, e invece fanno entrambi una notevole fatica a
reinventare il rapporto su basi nuove, c’è
tutto un bricolage di soluzioni che ciascuna coppia si inventa da sola, ma senza mo-
A
delli è dura, arrivare ad un nuovo equilibrio soltanto per prove ed errori è un gioco
difficile, da soli si rischia seriamente di non
farcela.
maschile e femminile: lavori in corso
All’inizio del secolo scorso è stata problematizzata come disuguaglianza. Era vecchia di millenni. Era considerata radicale e
immutabile, e perciò era considerata naturale. Era radicata nel pensiero individuale,
nelle norme e nel costume sociale. A piccoli e grandi passi è stata affrontata, e tuttavia ancora esiste oggi, negli stipendi, per
esempio, o nell’accesso alle carriere, nella
rappresentanza politica, nella divisione del
lavoro domestico ed educativo…
Poi, a partire dalla fine degli anni settanta, l’elaborazione filosofica del movimento delle donne ha rimesso in questione le
fondamenta del discorso. Le donne hanno
cambiato il proprio sguardo su di sé, hanno conquistato un posto non solo nel mondo, nel lavoro, negli studi, ma, tappa fondamentale, hanno rimesso in discussione
l’ordine simbolico della cultura patriarcale, quello per cui il maschile era l’universale. E da qui in poi tutto è davvero diverso. Il sesso non è il genere, e il genere non
è il ruolo sociale. E gli stereotipi di genere
non corrispondono alla natura, sono invece prodotti culturali. E i generi sono due,
e la presunta neutralità ed universalità del
maschile è la più subdola delle mistificazioni, perché toglie a metà dell’umanità il
posto di soggetto.
Rivendicando la diversità radicale del maschile e del femminile, l’individuo universale e neutro della cultura patriarcale lascia il posto ad una nuova visione, che è
frutto di un trascendimento logico.
L’approccio concettuale del movimento
delle donne riconosce soggetti diversi,
che si rapportano secondo una formula
di alterità, che non sono più comparabili in base al principio di identità, al medesimo. E che su questo principio, in sostanza, erano stati schiacciati e appiattiti entrambi. Si può pensare ad un ap-
proccio nuovo, fondato sulla dualità del
genere, sulla intersoggettività, non più su
un’idea di individuo isolato, decontestualizzato, neutro e astratto. E maschio. E
quindi il femminile era l’inesistente, era
solo la negazione del maschile. Non più
quindi neutro (ne-uter, in latino, né l’uno
né l’altro) ma duale, e plurale, «utro» (uter,
in latino entrambi, tutt’e due).
i generi tra biologia, cultura e storia
Oggi, che le diversità radicali non sono più
così facilmente leggibili, almeno nei ruoli
sociali, e meno ancora nelle forme dei corpi e nel look, oggi, dopo aver colto finalmente che il sesso sta alla natura come il
genere sta alla cultura e ai modelli sociali,
è la differenza, con le sue tante sfumature
tra il bianco e il nero, con la sua distinzione
non necessariamente rigida tra i due poli
del discorso, la categoria concettuale con
la quale si può costruire il discorso tra il
fare la differenza
La psicologia delle differenza di genere ha
fatto intanto qualche passo importante. La
dialettica tra il maschile e il femminile non
è più letta soltanto all’interno di un modello concettuale dove, a partire dalla constatazione di diverse caratteristiche psico-fisiologiche nei due sessi, il maschile e il femminile venivano definiti come concetti polari, che si escludevano a vicenda. E dove il
benessere e l’adattamento sociale erano
considerati tanto migliori quanto più fossero collocati sugli estremi del binomio, e
dove lo stereotipo di genere si rinforzava a
tal punto che diventava sinonimo di norma41
ROCCA 1 GIUGNO 2006
COSE DA GRANDI
maschile e il femminile. È la differenza il
filo che può legare questi frammenti di consapevolezze nuove, questi cambiamenti così
drammatici nei ruoli e nei comportamenti,
nei progetti e nelle aspettative.
I corpi stessi, i corpi degli uomini e delle
donne, così diversi nella struttura, nelle funzioni, così diversi nel sistema nervoso, nel
sistema immunitario, nella trasmissione
della vita, non possono più essere considerati meramente come natura, ma inscritti
invece in un sistema di rappresentazioni
sociali e culturali. Il corpo umano sessuato
è mediato dalla cultura. E plasmato dalla
rappresentazione che ne propongono i
modelli mediatici. Il maschile e il femminile non possiamo più definirli fuori dal contesto e dalla storia, dobbiamo rassegnarci
a costruirli passo passo, sia al livello individuale che al livello collettivo, sul filo dell’evoluzione storica dei contesti cui apparteniamo.
Non è un’epoca facile, piana. Parecchie donne conservano dentro di sé ancora questa
immagine di vittima, e di vittima che si deve
riscattare dai millenni della schiavitù. E
usano forme indirette di violenza – Tu non
sei capace di combinare niente di buono! –
E gli uomini non sanno più quale è il loro
posto. Non hanno ancora trovato un modo
di essere al maschile che non comprenda
l’alternativa secca tra l’aggressività, la gerarchia, l’azione, da una parte, e dall’altra il
dialogo e la condivisione.
E non sanno più come gestire la loro virilità, la capacità di fare e decidere e prendersi
sulle spalle la responsabilità e la tenuta. Su
questa linea di lettura diventa comprensibile come anche a livello sessuale gli uomini si sentano molto penalizzati, ed in tanti
lamentino un abbassamento del desiderio
e una insoddisfazione sulla qualità della loro
performance.
costruire l’identità, cercare l’incontro
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Più tardi anche le relazioni tra i generi si svolgeranno nel teatro sociale, che a sua volta
detterà le regole per la distribuzione dei compiti e per l’assunzione dei ruoli all’interno
della coppia, e poi strutturerà i ruoli tra genitori e figli, e costruirà le diverse sfumature del rapporto tra genitori e figli a seconda
del genere: così a doppia spirale, tra biologia e cultura, tra famiglia e contesto sociale,
tra cultura di appartenenza e norme giuridiche, tra storia personale e modelli collettivi,
dentro questa complessità di vicende e trame diventiamo uomini e donne. E ancora
non abbiamo neanche accennato all’orientamento sessuale…
Il passo successivo di questo filo di pensiero
sulla differenza di genere può essere questo.
Siccome i contesti sociali sono già cambiati
e sono lettera in veloce trasformazione, anche le convenzioni che regolano i rapporti
uomo/donna cambiano, e quindi non solo
sono in totale revisione i ruoli maschile e
42
femminile, ma è in revisione completa anche il processo di costruzione del proprio sé
e della propria identità.
Ancora il problema della collocazione reciproca di uomini e donne dovrà rimanere
aperto. Per le generazioni che ora sono adulte
è un plus di sofferenza e di fatica, e sarà un
plus di incertezza per i bambini, che hanno
modelli di identificazione così contraddittori e indefiniti. La stessa confusione nella costruzione personale e sociale dell’identità e
dei ruoli di genere rende il dialogo più difficile.
Agli uomini resta ancora in mano tutto intero il compito di riscoprire l’elemento fondante della propria identità, che oggi non è più
fare cose straordinarie, ma forse sta nella
possibilità di sviluppare un nuovo senso dell’avventura, una capacità di sfida, una abilità di giocare e stare al gioco. E forse potrebbero anche sviluppare l’energia dei sentimenti forti e intensi, che comprendono anche la
dolcezza e la sensibilità, ma tenendo stretto
anche il recupero della propria essenza biologica, la forza ancestrale della sperimentazione e dell’esplorazione del nuovo, la verticalità, la capacità di andare oltre il già dato.
Per le donne il compito evolutivo è già più
avanti, già hanno riconosciuto e cominciato
a valorizzare le loro abilità nelle relazioni
informali, la loro flessibilità mentale, la capacità di approcciare i problemi e le decisioni in modo ampio e contestuale, con uno
sguardo di lungo termine, la loro capacità
di tenere insieme gli opposti, di mediare a
somma positiva, di condividere i processi,
di stare con le differenze, di intrecciare legami, di pensare a rete piuttosto che in sequenza, di pensare e vivere nell’intersoggettività.
Forse un passaggio utile per la nuova formula della relazione donna/uomo è il recupero dei rapporti intragenere, l’appartenenza forte e articolata a gruppi del proprio sesso, per ritrovare e rinnovare la propria identità e radicarsi nella propria immagine di
genere, con tutte le sfumature del caso. Da
qui si può riavviare il dialogo con l’Altro sulla base di una maggiore sicurezza, e infine
di una migliore disponibilità. Definirsi quindi, e poter procedere verso l’Altro, verso il
suo territorio psichico sconosciuto e misterioso pieni di curiosità, disposti ad esplorare senza colonizzare.
Rosella De Leonibus
(Dalla relazione al Convegno di Assisi sulla
comunicazione nella coppia)
LEZIONE SPEZZATA
una giornata
da
soprannumerario
Stefano
Cazzato
l buongiorno me lo dà Adele passandomi un biglietto su cui leggo:
«Urgente, recarsi al protocollo non
oltre le dieci!
Visto che sono le nove, chiedo cortesemente a Adele di guardarmi le belve e corro preoccupato, facendomi largo
tra facce disorientate, dalla segretaria, la
ragioniera Seregni.
«professore, la aspettavo, lei risulta soprannumerario per il 2006-2007, deve fare domanda di trasferimento entro domattina.
«soprannumerario… domattina…, me lo dice
adesso? ma si rende conto che ho solo un
giorno?
«se non fa il trasferimento, la trasferiscono d’ufficio, vuole andare ad Ostia, ad Acilia, a Latina?
«ma ho già fatto domanda di trasferimento a febbraio…
«la deve rifare da soprannumerario siglando no dove prima aveva messo sì e… incrociare le dita.
Prendo il modello, ritorno in classe, chiedo ai ragazzi un po’ di silenzio che il momento è delicato, ma quelli continuano a
sbraitare, e mentre mi concentro su sì e
no della domanda, Settini arringa contro
gli immigrati che tolgono il posto agli italiani, Marcucci maledice i pacs, Francescotti invoca «’a sedia elettrica» almeno per
il cinquanta per cento della popolazione.
Quasi quasi è una bella notizia questa della soprannumerarietà, quasi quasi non faccio la domanda così mi trasferiscono d’ufficio... Ostiaaa, Aciliaaaa, Latinaaaa arrivo! Lasciamo perdere…
«Allora... no... dove avevo messo... sì... Dove
avevo messo... sì? Vai a trovarlo questo sì!
I
Eccolo! E perché dovrei mettere no? Mi
sembra proprio il contrario!
Suonata la campanella decido di contattare il sindacato sperando che mi possa chiarire le idee, mi dicono che forse sì, mi possono ricevere per il primo pomeriggio, l’importante è essere puntuali perché siamo
assediati – lo può immaginare, vero! professore – da orde di soprannumerari che
chiedono di sì e di no. Alle 15 mi riceve il
professor Contuzzo, mi fa accomodare in
uno sgabuzzino triste con delle tende di
organza appese ad una finestrella, sfoglia
la domanda con sospetto, si guarda intorno cercando aiuto poi…
«la capisco, collega – meridionale come
me, vero? E così il sud si svuota dei migliori talenti, una specie di fuga dei cervelli... – quella del soprannumerario è una domanda delicata, non è facile consigliarla,
tutti questi sì, tutti questi no, forse è meglio no, forse è meglio sì, è una questione
di punti di vista..., di scelte di vita, direi,
quanto a me ho lasciato l’insegnamento e
mi sono distaccato nel sindacato…, erano i
primi anni novanta e...
Saluto cordialmente Contuzzo, ringraziandolo per avermi annoverato tra i cervelli, torno a casa, a questo punto solo
internet mi può salvare, vado di qua e di
là alla ricerca del sì e del no e alla fine mi
imbatto in un provvidenziale «Vademecum del docente soprannumerario»
dove si chiarisce nei dettagli la questione: SI’. La testa mi scoppia ma non sto
più nella pelle, ho toccato il cielo con un
sito. La giornata è finita, è stata lunga,
sono le tre della notte. Ma domani è un
altro giorno: sì o no?
43
ROCCA 1 GIUGNO 2006
COSE
DA
GRANDI
lità, mentre ogni altra articolazione era qualificata come anormale.
Un’altra lettura è possibile, nella dialettica tra il maschile e il femminile.
Non più poli opposti, ma differenti modalità di relazione col mondo che, con articolazioni diverse, possono essere presenti nella
stessa persona, la quale può integrare queste possibilità dentro di sé in relazione alle
situazioni e ai contesti, senza doversi bloccare sugli stereotipi. Le caratteristiche considerate maschili o femminili non sono più
strettamente collegate ai generi, e neppure
ai sessi biologici. Le differenze diventano
così importanti da non lasciarsi costringere solo dentro un discorso duale, e sono importanti da leggere anche tra gli individui
dello stesso genere.
Alla nascita è la conformazione dei genitali
che fa dire ai nostri genitori è un maschio,
piuttosto che è una femmina, e la biologia è
già diversa, come la neurofisiologia e l’assetto ormonale. Ma subito dopo sono il
nome, l’abbigliamento, i simboli, i giocattoli, gli stili di gioco, i margini di libertà ed
esplorazione, la gestione dell’aggressività,
la tipologia dei compiti assegnati, i modelli
di identificazione, i modelli di comunicazione, che fanno di un maschio un bambino e di una femmina una bambina. Tutte le
pratiche educative e di socializzazione trasmesse direttamente o in modo implicito
dalla famiglia, dagli insegnanti, dai media,
sono queste le fonti dell’ identità di genere.
dall’attualismo al problematicismo
ripartire dai limiti dell’esistenzialismo
Già negli anni giovanili, comunque, partendo dall’idea di una sostanziale contraddittorietà della filosofia tradizionale, Spirito va indagando il complesso rapporto
che lega tra loro la filosofia e la scienza e
si interroga sulla natura di un’altra relazione fondamentale, quella tra il pensiero
filosofico e la realtà delle cose. Alcune delle conclusioni cui egli giunge in merito a
questo ordine di questioni le ritroviamo
esposte sia in Scienza e filosofia del ’33 che
ne La vita come ricerca di quattro anni
dopo.
Le riflessioni su scienza, filosofia, realtà,
vita e prassi portano Spirito a compiere un
attraversamento culturale significativo
che, come recita retrospettivamente il titolo di un suo scritto del ’76, va dall’attualismo al problematicismo. L’oggetto privilegiato della sua disamina è infatti quello
di una possibile, vera e propria integrazione tra ricerca scientifica e pensiero più
squisitamente filosofico.
Se prima, con Gentile, credeva possibile
spiegare tutto in virtù del concetto di atto
(e della infinità creatrice del fare) e finiva
per ricondurre l’intera realtà al pensiero
quale essenza dell’uomo, a partire dagli
anni Trenta, pur senza abbandonarla mai
La scienza, lungi dall’essere subordinata
alla filosofia e dal ridursi a mero mezzo
tecnico e asettico e mantenendo comunque una dimensione essenzialmente filosofica, assume un fondamentale ruolo di
riunificatrice dei saperi e delle conoscenze. Essa ne è in grado, secondo Spirito,
soprattutto in quanto nemica di quei pregiudizi e di quei preconcetti che, invece,
affliggono un certo modo chiuso e acritico di filosofare come pure una certa interpretazione ‘mitologica’ della religione e, in
generale, ogni espressione di pensiero che
abbia un’impostazione ideologica.
Tra i suoi bersagli polemici Spirito trova
nell’esistenzialismo – e da qui una serie di
dialoghi critici con Nicola Abbagnano,
Enzo Paci e altri – forse il termine di confronto più stimolante. Ripartire dai limiti
della filosofia esistenzialista, anzi, diventa
per lui una missione prioritaria di ogni
nuovo pensiero. Seguiamo Spirito nel suo
ragionamento polemico, esposto in un articolo del 1943: egli riesce ad apprezzare
l’esistenzialismo finché, recuperando ciò
che è immanente all’uomo e alla vita, si
muove in un’ottica di opposizione anti-intellettualistica alla pretesa di Hegel di risolvere tutto in un sistema chiuso e impe-
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Ugo
Spirito
la ricerca come speranza d’assoluto
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Giuseppe
Moscati
44
U
no tra i nomi più noti della filosofia italiana novecentesca, l’aretino
Ugo Spirito (1896-1979) si presenta già ad una prima lettura come
un pensatore che crede tenacemente nella ricerca della verità. È
un filosofo, anzi, che per tutto il corso della propria esistenza ricerca una cifra di
assoluto che ritiene di rinvenire dapprima
nella visione del mondo approntata dall’attualismo di Giovanni Gentile, suo primo
maestro preferito a Croce; in un secondo
momento in una sorta di ‘immanentismo
di sinistra’, la cosiddetta «sinistra attualistica» che egli condivide tra gli altri con
Guido Calogero; in una fase successiva
della sua produzione, poi, quando acquisisce piena autonomia di pensiero, in quello che ha definito come «problematicismo».
Gli esordi teoretici lo vedono impegnato
in studi di carattere economico-giuridico,
ma anche socio-antropologico; alla laurea
in giurisprudenza fa seguire quella in filosofia, conseguita con una tesi sul pragmatismo, per poi dedicarsi all’approfondimento dell’idealismo. Ottiene presto una cattedra «di regime» all’Università di Pisa,
quella che addirittura porta il nome di Economia politica e corporativa, ma si trasferisce poco dopo all’Università di Messina
per poi raggiungere l’Ateneo di Genova e
infine quello di Roma tornando con ben
maggior profitto speculativo sui temi del-
netrabile. Ma rifiuta l’esistenzialismo
quando esso, all’intento di riformare la filosofia dialettica, accompagna il motivo
della sua totale dissoluzione per via di elementi romantico-irrazionali: «Allora le
acque si intorbidano e la giustapposizione
di motivi logici e motivi psicologici dà luogo alle più svariate forme di dogmatismo»
in nome di «un concetto risolutivo […] sia
questo il concetto di immediato o di fede
o di niente o di libertà o di persona o di
decisione e simili […] per ricadere pesantemente nel dogma di un sistema» (1) viziato dalla stessa «ingenuità intellettualistica» che si voleva combattere.
Dal canto suo la filosofia, mai assoluta
eppure al contempo mai relativa, si libera
delle vecchie pretese di onnipotenza, fuoriesce dalla secca opposizione di razionalismo (o neoilluminismo) e irrazionalismo
(o nuovo dogmatismo) e si fa progressivamente consapevole della necessità di porsi piuttosto come una «aspirazione alla filosofia».
È così che, con la sua capacità critica di
fondo, la filosofia – ci suggerisce il problematicista Spirito, che inaugura la stagione italiana della filosofia della crisi –, non
accetta di rinunciare alla speranza d’assoluto, quindi ricerca, ricerca continuamente, ostinatamente, si fa essa stessa perenne ricerca. E d’altra parte nessuna filosofia avrebbe più ragion d’essere se un giorno raggiungesse, una volta per tutte, una
verità ultima e incontrovertibile.
Giuseppe Moscati
Nota
1 Articolo ripreso in Aa.Vv., L’esistenzialismo
in Italia, a cura di B. Maiorca, Paravia, Torino
1993, pp. 105-108.
Tra le opere di U. Spirito:
La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 1937; Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? [con A.
Del Noce], Rusconi, Milano 1968; Giovanni
Gentile, Sansoni, Firenze 1969; Memorie di un
incosciente, Rusconi, Milano 1977. La Fondazione Ugo Spirito di Roma da anni lavora alla
ripubblicazione dell’opera omnia.
Sulla filosofia di U. Spirito:
ROCCA 1 GIUGNO 2006
la filosofia, della conoscenza e in generale
della ricerca.
del tutto, Spirito si allontana da questa
posizione e si emancipa dall’eredità del
neoidealismo per abbracciare una Weltanschauung che si accosti maggiormente alla
vita vissuta e alla realtà degli altri. Che si
accosti cioè a una prassi plurale e multiforme che ci spinge a considerare quello
dell’altro non più come un mondo contrapposto al nostro, bensì vicino e aperto al
terreno interindividuale del colloquio, e
che quindi ci stimola a vivere la vita come
tensione e superamento, ovvero come arte
e come amore, secondo l’espressione propria di Spirito.
Il problematicismo di cui egli parla ha come
sua essenza la scelta di cui dicevamo all’inizio, quella radicale volontà di ricercare l’assoluto pur senza alcuna certezza di poterlo
un domani afferrare. L’uomo deve insomma investigare il mondo, anche quello concreto e vicino della propria terrestrità, senza abbandonarsi né a illusioni e chimere
né a delusioni e scetticismi, ma allo stesso
tempo senza rifugiarsi in spiegazioni fin
troppo comode o affidarsi ciecamente ad
alcuna forma di intermediazione tra sé e la
verità ricercata: vanno ricordati allora alcuni duri interventi del filosofo toscano nei
confronti della Chiesa cattolica.
A. Negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico. Itinerario teoretico di Ugo
Spirito, Lacaita, Manduria-Bari-Perugia 1964;
S. Felli, L’ipotesi di Ugo Spirito, Bulzoni, Roma
1973; Aa.Vv., Il pensiero di Ugo Spirito. Atti del
Convegno internazionale di Roma del 1987, 2
voll., Istituto Enciclopedia Italiana - Fondazione U. Spirito, Acta Enciclopedica, Roma 1989.
45
CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE
l denso libro di riflessioni pubblicato
qualche mese fa dal poeta siriano Adonis (1), dal titolo suggestivo La musica della balena azzurra (2), utilizza la
tecnica del frammento lirico in prosa
per fare il punto sulla cultura
araba, sul mondo islamico più in generale
e sull’Occidente. Solo chi vive al crocevia
di culture diverse come Adonis è capace di
muoversi con tanta intensità e penetrante
sagacia lungo i sentieri che corrono sotterranei tra le differenti culture. In virtù
di quello che potremmo chiamare una sorta di cosmopolitismo identitario, Adonis,
nato in Siria e residente in Francia, riesce
a parlare dell’uomo in generale, inteso
filosoficamente come essere e come abitante del mondo, e di un uomo in particolare, inteso biograficamente come figlio di
una cultura, di un tempo, di una società.
Adonis, infatti, tesse le sue idee senza dimenticare di innestare sempre, sull’ordito
della riflessione cosmopolita, la trama delle
vicende individuali, ponendosi continuamente alla ricerca di quella musica poetica inaudibile creata dalle relazioni umane. Come le balene azzurre, infatti, attraverso un impalpabile canto ad ultrasuoni,
riescono a collocarsi nelle vastità dell’oceano e a comunicare tra loro ad elevatissime
distanze, così la poesia rende capaci di
nuotare nell’oceano delle parole, consentendo una sintonia quasi inavvertibile tra
le persone, che la consueta comunicazione verbale impedisce.
guerra, scenario predominante
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Per il poeta siriano, ogni questione di natura storica o socio-antropologica deve nascere da una doppia pessimistica premessa:
una di carattere esistenziale, l’altra di tipo
filosofico-linguistico. In primo luogo, infatti, occorre riconoscere una verità: «lo scenario che predomina nel teatro della nostra
vita è la guerra (3)», una dinamica bellica
volta più o meno dichiaratamente alla distruzione dell’essere umano ed estesa dal
Tigri all’Atlantico. In secondo luogo, si deve
riconoscere che la condizione di belligeran46
za universale fa scaturire una scrittura pubblica incapace di emanciparsi dall’accusa e
dal pregiudizio nei confronti di chi la pensa in maniera differente. All’uomo, sia egli
occidentale od orientale, che cerca in modo
più o meno consapevole libertà, viene quindi proposta una nuova forma di schiavitù,
le cui catene sono costituite di parole vincolanti, di tesi azzardate, di falsificazioni
continue, volte a trasformare la scrittura in
un genere precettistico e il pensiero in una
dottrina rigida. In questo contesto, «lo scrittore viene trattato come un peccatore, i suoi
scritti sono crimini. Dal Tigri all’Eufrate»
(4). Il mondo dei poteri – sembra dire Adonis – pretende che ci si schieri sempre, da
una parte o dall’altra, in modo netto e acritico, dimenticando ogni propensione all’autonomia di pensiero, alla ricerca critica, all’individuazione di valori condivisi, primo
fra tutti quello insito nello stesso esistere,
nel proprio essere persona e parte integrante di un’unica umanità.
Morta alle ideologie e ai riferimenti valoriali, la politica, dal Tigri all’Eufrate, seppur in forme diverse, si appropria della
fede per creare una sorta di totalitarismo
mediatico che toglie linfa al pensiero, annichilendolo, e che cerca di sostituirlo con
l’arroganza della prepotenza e della superficialità. Per queste ragioni, Adonis grida
che occorre rifiutare ogni visione del mondo volta a giustificare logiche violente in
forza del proprio Dio, perché ciò finisce
con il rendere «cose» sia l’uomo che Dio
stesso; per questo afferma- in una straordinaria sintonia involontaria con R. Panikkar (5) – come sia necessario rifiutare
ogni pensiero che massifichi gli individui
in categorie, che renda i mille volti e le
mille storie individuali, un soggetto unico
da disprezzare: i milioni di singoli musulmani diventano, per l’occidente, genericamente i musulmani; i milioni di occidentali, per l’islam diventano prosaicamente
gli occidentali. E se accettare l’altro risulta una richiesta inaudita per alcuni, almeno si trovi, sottolinea Adonis, un varco di
coscienza in sé, attraversando il quale sia
possibile distinguere tra il pensiero di un
individuo e l’individuo stesso.
Tutto ciò comporta un cambiamento radicale di rotta, a livello culturale e interculturale, in grado di risvegliare quella che
suggestivamente Adonis definisce la capacità di «transcreare».
transcreare
La transcreazione coincide con l’allenamento al punto di vista differente e, metodologicamente, con «il rinnovamento continuo dell’approccio con cui ci accostiamo
all’uomo e all’universo» (6). In questo senso, quindi, l’individuo e le società devono
tentare di emanciparsi dalle tradizioni che
intendono soffocare la predisposizione alla
novità propria del pensiero umano, rendendo stanziale ciò che per sua stessa indole è nomade e irrefrenabile. Transcreare, dunque, significa mettersi in viaggio
nella foresta intricata delle scritture che
compongono il mondo, siano esse quelle
che ci parlano in lingue sconosciute di
mondi mai avvicinati, siano esse quelle che
ci conducono verso l’insondabile del senso, verso il divino stesso. Ma per riconquistare questa libertà di azione – continua
Adonis – si deve tornare al poetico, inteso
come simbolico, come metaforico, come
adattamento, come propulsione verso
l’ignoto, come esplorazione dello sconosciuto. Educarsi alla poesia significa, in
questo senso, concedersi alla trasgressione, etimologicamente intesa come un procedere oltre se stessi, come la possibilità
di varcare le prigioni che una sola lingua,
una sola visione del mondo, una sola verità minuscola creano attorno a ciascuno.
Scegliere la poesia significa optare per la
transcreazione, per una riedificazione del
mondo in cui l’attaccamento al passato e
alle certezze è visto come uno sterile ancoraggio o come un naufragare nelle secche del senso; significa trovare il coraggio
di diventare eretici alle proprie piccole certezze, avendo l’ardire di varcare le colonne d’Ercole della conoscenza. Così facendo, afferma perentoriamente Adonis, «l’essere umano si trasforma da semplice crea-
tura che vive nel mondo in un essere che
crea perpetuamente il mondo stesso» (7).
Ma vivere fino in fondo il potere demistificante della poesia, comporta anche il sapersi mettere sotto accusa culturalmente.
È per questo motivo che Adonis stesso, in
quanto uomo inserito in una doppia cultura, rivolge un pressante appello sia al
mondo arabo e, più in generale, musulmano, sia al mondo occidentale, affinché siano disposti a lasciarsi interrogare su loro
stessi, abbandonando le rassicuranti certezze della «scrittura pubblica» e delle litanie ufficiali.
Per quanto riguarda la questione medioorientale, poi, in primo luogo, in ambito occidentale, occorre emanciparsi dall’idea di
«scontro di civiltà», dietro la quale, per il
poeta, si nasconde solo un’ennesima forma
della vecchia politica di potenza; mentre,
in ambito musulmano, è necessario gridare con fermezza la propria contrarietà al
terrorismo, che va condannato «in tutte le
sue forme, quali che siano le idee che lo ispirano e da qualunque parte provenga: un
individuo, un’organizzazione, uno stato»
(8). Da entrambe le posizioni, poi, va riconosciuto lo stato di malattia delle civiltà, in
qualunque modo esse si chiamino: giudeocristiana, islamica, buddhista, induista, africana, o tutte le cose insieme. Si tratta di
una malattia virale che proviene da un unico ceppo, ma che colpisce in modo differente i popoli e le persone e che – è bene
ribadirlo – per Adonis coincide con la riduzione a cosa dell’essere umano (9). L’infermità culturale che attanaglia l’occidente va
analizzata all’interno delle società occidentali stesse, con rigore e forza conoscitiva, a
partire da una seria revisione deontologica
e metodologica da parte degli operatori culturali. Più precisamente, per quanto riguarda le modalità con cui i mezzi di comunicazione di massa e gli studiosi occidentali
leggono il mondo arabo e islamico, occorre
riconoscere che non è sufficiente una prospettiva solamente politico-economica, ma
è necessaria anche una radicale opzione fenomenologica. Tale scelta consiste nel mettersi in ascolto di una civiltà millenaria al-
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Marco
Gallizioli
la musica della balena azzurra
I
47
disamina irrinunciabile
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Al mondo islamico, invece, Adonis chiede
di porsi in rapporto con il suo fantasma interiore, con quell’occidentalizzazione negata e rifiutata che, tuttavia, è ormai parte integrante degli stessi mondi medio-orientali, perché, tramite la globalizzazione, essa
è penetrata in maniera irreversibile. Ma il
poeta siriano diviene ancora più radicale
quando, interpellando gli arabi e i musulmani, ritiene che sia giunto il momento di
denunciare l’emarginazione sociale e culturale in cui ogni dissidenza viene confinata nella gran parte dei paesi a maggioranza
religiosa musulmana. Domanda di riconoscere che esiste una guerra interaraba, arabo-islamica, interislamica all’interno di uno
stesso stato (Libano, Sudan, Algeria ecc), o
tra stati differenti (Iraq-Iran; Iraq-Kuwait;
Marocco-Algeria). Spinge a riflettere sui
motivi che impediscono di toccare la tradizione e di rivisitare il proprio passato anche in chiave critica; pone la questione della mancanza di libertà, di democrazia, di
una libera magistratura, dell’arbitrarietà
con cui operano le forze dell’ordine, della
disoccupazione, della povertà, dell’analfabetismo, dell’incremento demografico e dei
flussi migratori.
Questa disamina profonda e irrinunciabile
è l’unica via per comprendere i motivi che
hanno portato alla nascita di fenomeni organizzati e, insieme, selvaggi quali quello
di Al Qaeda, che nessuna guerra portata per
vendetta dall’esterno sarà davvero in grado
di sconfiggere. «Bin Laden – afferma perentoriamente il poeta – lo si può eliminare solo
dall’interno, partendo dalla società a cui
appartiene, dalla sua cultura e dai valori a
cui è stato educato. Bisogna combattere ed
estinguere dall’interno le cause che hanno
favorito la nascita del fenomeno Bin Laden,
bisogna combattere in nome della democrazia, della libertà, dei diritti umani e per
creare istituzioni che tutelino tali diritti, e
li consolidino» (11).
Se, per molti versi, le riflessioni di Adonis
non sono differenti da quelle di tanti commentatori liberi e illuminati, va riconosciuta al poeta siriano un’intuizione che gli appartiene e che lo contraddistingue. Essa
consiste nell’aver individuato nella poesia,
nel canto sfumato fino quasi al silenzio
48
della balena azzurra, uno strumento ineliminabile se si vuole lottare contro la nuova barbarie che, in forme diverse, attanaglia il mondo. A qualcuno, forse, questo
rimedio potrà sembrare inadeguato o troppo romantico, finanche elitario o reazionario. Personalmente, invece, ritengo che
Adonis abbia voluto sottolineare come il
«poetico» sia la vera peculiarità dell’essere umano, quella particolarità che gli consente di sperare, di vivere, di cogliere la
straordinaria ricchezza che si dischiude in
uno sguardo altro rispetto al proprio. Il
poetico non è, allora, una via di fuga, per
sottrarsi al mondo e per rinchiudersi in una
sorta di irraggiungibile cittadella delle lettere, ma coincide, al contrario, con l’umano, con l’essere persona, con la capacità di
avvertirsi sempre creature, prima ancora
che differenti, diversi od opposti.
CONTROCORRENTE
la realtà e l’utopia
Marco Gallizioli
Note
1 Il poeta Adonis, il cui vero nome è Ali Ahmad Sai’îd Esber, è nato in Siria nel 1930, da
una famiglia contadina. In seguito, si è laureato in filosofia a Damasco, ha vissuto a Beirut e
attualmente risiede a Parigi. In italiano, l’editore Guanda ha pubblicato in traduzione le sue
più importanti raccolte poetiche: Memoria del
vento; Cento poesie d’amore.
2 Adonis, La musica della balena azzurra. La
cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, Milano 2005.
3 Adonis, op. cit., p. 13.
4 Ib., p. 15.
5 R. Panikkar chiama in causa il poeta A. Machado per sostenere che occorre abbandonare
sia ogni dualismo che ogni monismo e affidarsi ad un «a-dualismo» grazie al quale possiamo dire «tutto il mare in ogni goccia/ tutto il
pesce in ogni uovo / tutto nuovo». Cfr. R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003, p. 26.
6 Adonis, op. cit., p. 101.
7 Ib., p. 103.
8 Adonis, op. cit., p. 51.
9 Questa malattia si può chiamare anche fondamentalismo; per comprenderne le cause si
legga: G. A. Almond – R. S. Appleby – E. Sivan,
Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi
sulla scena mondiale, Il Mulino, Bologna 2006
10 Per compiere questa operazione di immersione nel mondo islamico, partendo da una testimonianza chiara e semplice si veda: El Hassan Bib Talal – A. Elkann, Essere musulmano,
Bompiani, Milano 2005.
11 Adonis, op. cit., p. 61.
Adriana
Zarri
Q
uesta può anche considerarsi la
seconda puntata, rispetto alla
prima, apparsa nel numero
scorso. In quella prima ricordavo che, dopo il ciclo liturgico
pasquale e feste successive
(Ascensione, Pentecoste, Trinità, Corpus Domini) si rientra nel tempo
ordinario e siamo chiamati a meditare
appunto sull’ordinarietà del quotidiano:
una meditazione che amo e che mi è
molto congeniale. Ed ecco scorrere il ritmo consueto della vita, con i suoi fatti
sempre eguali e sempre nuovi: il giorno
e la notte, l’estate e l’inverno, il sole, le
nuvole e la pioggia; e noi chiamati a riscoprire la straordinarietà dell’ordinario
e a coltivare lo stupore di fronte al perenne miracolo del vivere.
Ma che cos’è l’eccezionale o straordinario, comunque lo si voglia chiamare? C’è
una straordinarietà numerica e statistica:
ed è ciò che accade di rado che non succede tutti i giorni. E una straordinarietà
ed ordinarietà che potremmo dire
ontologica: ed è ciò che è conforme o
difforme dalla norma, dalla legge consueta del vivere. Ma qual’è poi questa legge?
Non ricadiamo ancora nella statistica? Diverso quindi è l’approccio, se vogliamo
toccare il fondo delle cose, toccare il fondo della vita.
Siamo ancora nel tempo pasquale e
postpasquale: viviamo quindi nel clima
della resurrezione; ed è quanto abbiamo
meditato la volta scorsa: il mondo che nasce e che rinasce di continuo, che muore
e risorge senza sosta; e l’ultimo senso delle cose non è il morire – di cui pure abbiamo esperienza quotidiana – ma il risorgere, di cui pure abbiamo esperienza
quotidiana, ma soltanto per fede, non per
vissuto materiale ed episodico.
La resurrezione è l’eccezione, lo straordinario, il miracolo; ma un miracolo che,
per l’uomo di fede, è quotidiano, uno
straordinario che si fa ordinario, che
entra nei ritmi consueti della vita.
L’uomo di fede è l’uomo che vive perennemente nel miracolo: ma un miracolo
così quotidiano che si fa ordinario:
l’ordinarietà dello straordinario, la legge che più non confligge con la libertà;
ma è la libertà stessa che si fa legge: la
legge suprema del cristiano che è chiamato ad essere libero. La legge è la pedagogia della libertà: ciò che la difende
dall’arbitrio e dal capriccio che sono forme di schiavitù.
La libertà e la legge non sono più
antitetiche ma son due facce della medesima moneta: una moneta che siam
chiamati a spendere, ogni giorno, per
comprarci la vita: la vita libera che sperimenta ciò che sembra antitetico ed è
invece sintetico: una sintesi – così come
dice appunto il termine – di ciò che in
apparenza e in superficie sembra – ed è
– incompatibile e che invece, in realtà e
in profondità, è una cosa sola: una sorta
di Giano bifronte che era un unico dio,
volto al passato e al futuro, alla possibilità e all’utopia, al realismo e al sogno.
Vivere la resurrezione è questo viver le
due facce di ciò che fu e che sarà, di ciò
che può essere e che è. E il cristiano, che
vive il mistero del morire e del risorgere,
è un utopista e un realista: uno che crede e vive nella realtà perché vive e crede
nell’utopia, nel sogno, nel mistero e nel
miracolo.
❑
ROCCA 1 GIUGNO 2006
CULTURE
E
RELIGIONI
RACCONTATE
tra come quella islamica, che non può sopportare di essere messa tra parentesi e totalmente trascesa nel dibattito culturale, ma
necessita di essere percepita all’interno della
curvatura simbolica che essa stessa disegna
(10).
49
di fronte
al pluralismo
religioso
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Carlo
Molari
n una conferenza pubblica, sponsorizzata nel 2002 dalla Unione Romana dei Superiori Maggiori, il compianto gesuita Jacques Dupuis disse: «L’argomento della teologia delle religioni
è un argomento veramente scottante
oggi e resterà al centro della riflessione
teologica per molto tempo ancora in questo terzo millennio». Anche per il teologo
luterano Wolfang Pannenberg il pluralismo religioso, pur non essendo un fenomeno nuovo, dato che ha caratterizzato
diversi periodi della storia umana, ha tuttavia oggi una caratteristica inedita. Egli,
riferendosi all’esistenza di molte religioni, osserva: «tale situazione è recepita seriamente all’interno delle discussioni della teologia cristiana e da molti teologi è
avvertita come una sfida ai fondamenti di
quello che la dottrina cristiana è stata attraverso i secoli» (Pluralismo religioso e rivendicazioni di verità in conflitto fra loro,
in Aa.Vv., La teologia delle religioni: un
mito?, Cittadella, Assisi 1994, p. 200).
Questo spiega perché i problemi posti dal
pluralismo religioso abbiano aperto un
capitolo nuovo nella riflessione teologica
cristiana, non ancora ben articolato e quindi soggetto a molte discussioni.
Già altre volte (in particolare nell’estate 1994)
ho esaminato il problema del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso. Credo sia
opportuno fare il punto sulla situazione attuale partendo da una breve descrizione delle
tappe che hanno scandito lo sviluppo della
teologia cattolica nel secolo XX.
I
le tappe principali
1. In un primo momento, negli ambienti
50
Il Concilio Vaticano II
3. Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha
valorizzato le acquisizioni di questi teologi e ha impresso un’accelerazione nella riflessione cattolica. Non solo per le esplicite dichiarazioni dei documenti, bensì anche per lo spirito di dialogo e di rispetto
nei confronti delle religioni diffuso nel
mondo cristiano. Oltre che nelle singole
persone anche nelle strutture religiose ha
riconosciuto «elementi di verità e di gra-
zia… per una nascosta presenza di Dio in
mezzo» a loro (Decreto sull’attività missionaria della chiesa, Ad gentes, n. 9). Così che,
per l’attività della chiesa, «quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini, o nei riti particolari o nelle
culture dei popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio, la confusione del
demonio e la felicità dell’uomo» (Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 17, ripreso anche nel Decreto Ad
gentes n. 9). In modo specifico il Decreto
«sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane» ha affermato che «la
Chiesa Cattolica non rigetta nulla di quanto è vero e santo in quelle religioni. Essa
considera con sincero rispetto quei modi
di agire e di vivere, quei precetti e quelle
dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e
propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina
tutti gli uomini… Essa perciò esorta i suoi
figli perché con prudenza e carità, per
mezzo del dialogo e la collaborazione con
i seguaci della altre religioni…, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che
si trovano in essi» (Nostra aetate n. 2).
Il Concilio ha invitato perciò i cristiani «a
conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a
rispettare quei germi del Verbo, che in essi
nascondono… ed improntare le relazioni con
essi ad un dialogo sincero e comprensivo,
dimostrando tutte le ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» (Decreto Ad Gentes n. 11).
Questo invito ebbe traduzione concreta nel
Segretariato per i non cristiani (Paolo VI
1964) divenuto poi Pontificio Consiglio per
il dialogo interreligioso e ora (marzo 2006)
inserito nel Consiglio per la Cultura. Ma
furono soprattutto alcune clamorose iniziative di Giovanni Paolo II a dare una forte
spinta alla trasformazione della sensibilità
e del pensiero cattolico. La decisione di convocare ad Assisi i rappresentanti delle diverse religioni (27 ottobre 1986) le giornate
di preghiera europea per la pace nei Balcani (9-10 gennaio 1993) e quella internazionale per la pace nel mondo, in occasione
della seconda guerra del Golfo (24 gennaio
2002), hanno rappresentato un momento
di coagulo per un processo che sta crescendo nei popoli e sta coinvolgendo persone e
istituzioni sempre più numerose. Altri gesti del Papa costituiscono icone emblematiche di un dialogo teso a superare contrasti più che secolari. Basti ricordare la visita
alla Sinagoga di Roma (13 aprile 1986) o
l’incontro con i giovani musulmani nello
stadio di Casablanca in Marocco (19 ago-
sto1985), il pellegrinaggio a Gerusalemme
con la preghiera a Yad Vashem, luogo del
ricordo della Shoah e al Muro del pianto
(20 e 26 marzo 2000), e la visita alla Moschea degli Omayyadi di Damasco (6 maggio 2001).
4. L’impatto dirompente di queste iniziative ha stimolato la teologia cattolica ad una
nuova riflessione sul significato delle religioni e sul loro valore salvifico. È sorta la
teologia delle religioni con lo scopo di individuare gli elementi comuni, le ricchezze
insite in ogni religione e quindi le sue possibili valenze salvifiche. (Cfr. Boublik V.,
Teologia delle religioni, Studium, Roma 1973;
Horst W. Bürkle Religioni, Teologia delle, in
Dizionario Critico di Teologia, Borla/Città
nuova, Roma 2005, pp. 1122-1125).
verso una teologia delle religioni
5. Sono sorti a questo punto alcuni gravi
problemi: il senso della assolutezza e universalità della azione salvifica di Cristo; il
senso della missione delle chiese cristiane
e infine il valore salvifico delle altre religioni. Nello sviluppo della riflessione la teologia è giunta a considerare le religioni come
momenti essenziali di una stessa storia salvifica. Esse costituiscono, nel tempo e nello spazio espressioni diverse dell’azione divina che conduce a salvezza. La riflessione
si è evoluta quindi, come teologia del pluralismo religioso. Questo, infatti, risulta essere più risorsa che intralcio. (Dupuis J., Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, (Btc 95) Queriniana, Brescia 1997;
Knitter P. F., Introduzione alle teologie delle
religioni (GdT 315), Queriniana, Brescia
2003).
6. Ora, secondo l’auspicio di diversi teologi
la riflessione dovrebbe acquisire la fisionomia di una teologia interreligiosa del pluralismo, nella quale ogni religione, in dialogo
con le altre, si impegna ad elaborare una
interpretazione comune della storia della
salvezza contribuendo così a delineare un
unico orizzonte spirituale per la storia umana. Questo passo, appena avviato, richiederà un confronto esperienziale e culturale tra
seguaci delle diverse religioni in modo da
pervenire ad una comune formulazione dell’esperienza spirituale e da rendere possibile una fattiva collaborazione per la giustizia, la pace tra i popoli e la salvaguardia del
creato. (Cfr. Geffré Cl., Il senso di una teologia interreligiosa, paragrafo del capitolo Verso una teologia delle religioni, in Aa.Vv., Prospettive teologiche per il XXI secolo, (Btc 123)
Queriniana, Brescia 2003, p. 368.
Sono questi alcuni veloci passaggi di un cammino che non può arrestarsi. (continua).
ROCCA 1 GIUGNO 2006
TEOLOGIA
attenti ai processi culturali, si sviluppò la
teologia della salvezza degli infedeli per
mettere a fuoco l’incongruenza di chi, pur
affermando la volontà divina di salvare
tutti gli uomini, si trovava costretto ad
ammettere che la maggior parte dell’umanità era esposta al rischio di una eterna
dannazione. Già il Concilio di Trento
(1547) aveva prospettato la possibilità
della salvezza personale attraverso il «battesimo di desiderio». Ma questa dottrina
restava in prospettiva individuale e non
riguardava le religioni come tali. Da tempo si moltiplicavano gli stimoli ad allargare gli orizzonti in particolare da parte
degli storici delle religioni e dai missionari, che a contatto con ambienti di altre
culture religiose, incontravano persone di
profonda vita spirituale. Sorsero diversi
modelli per spiegare la presenza della grazia divina in azione presso tutti i popoli.
Dagli anni ’30 diversi teologi cominciarono a interrogarsi sulle ragioni della possibile salvezza dei non cristiani e dei non
credenti. (Cfr. Lombardi R., La salvezza
di chi non ha fede, Roma 1949; Damboriena P., La salvación en las religiones no
cristianas, Bac, Madrid 1973).
2. Particolare rilevanza ebbe in questo ambito la teoria del compimento, secondo la
quale la rivelazione ebraico/cristiana e in
particolare il suo vertice, Gesù Cristo, venivano considerati una risposta completa e
adeguata alla tensione profonda dell’uomo
verso Dio, che si è espressa e continua ad
esprimersi anche nelle varie religioni. In
questo senso le religioni venivano considerate una «preparazione al vangelo» per i
«semi del Verbo che esse contenevano», e il
cristianesimo era presentato come la risposta integrale al bisogno religioso dell’uomo.
Scriveva, ad esempio, Jean Danielou: «Le
religioni naturali testimoniano – ed è ciò
che c’è in esse di valido – il movimento dell’uomo verso Dio, il cristianesimo è il movimento di Dio verso l’uomo, che in Gesù
Cristo giunge a toccarlo, per condurlo a Lui»
(Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1963, p. 131). Anche Yves Congar e Henri De Lubac si sono mossi in questa direzione.
Carlo Molari
51
il frutto dolce amaro
del lavoro
L
Rosanna
Virgili
a letteratura profetica biblica è
venata di saggezza. Non solo un elitario e speciale filo diretto col Dio
del cielo anima, infatti, la bocca
degli uomini, altrettanto speciali,
che sono i profeti, ma anche il fiore
della umana intelligenza.
Per parlare delle cose spirituali i profeti si
avvalgono di quella preziosa esperienza
materiale dell’uomo, che fa acquistare allo
stesso una conoscenza sempre più profonda, fino a fargli sfiorare livelli di scienza divini.
È proprio l’occhio profetico, che, a sua volta, anima tutta la Bibbia, a cogliere una trasparenza nell’opera delle mani dell’uomo, nel
frutto del suo lavoro, che è l’immagine di un
Dio che lavora. Nota a tutti è la figura del
Dio artigiano che plasma la creta per creare
l’uomo (Gn 2,7); ma vediamo anche un Dio
medico, alle prese con le ferite del suo popolo (cf. Es 15,26); un Dio viticoltore che suda
per piantare la sua vigna (Is 5,3). In questo
«lavorare» di Dio si rivela, appunto, la sua
stessa Sapienza.
«ero con lui come un architetto»
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Nel libro dei Proverbi c’è un testo singolare in cui la Sapienza – personificata al femminile – racconta di quando Dio creava il
mondo: «quando fissava i cieli, tracciava
un cerchio sull’abisso, condensava le nubi
in alto, stabiliva al mare i suoi limiti, disponeva le fondamenta della terra». Allora Lei era con Lui: «come un architetto»
(Pr 8,27-30). Splendida e curiosa è questa
finestra che viene aperta sul lavoro di Dio
come creatore: curiosa perché scopriamo
che Dio era coadiuvato da un architetto
donna; splendida perché ritrae un Dio impegnato nel più affascinante tipo di lavoro
– quello di creare il mondo! – per di più
fatto in équipe. La creazione ci appare, insomma, il frutto di un’opera di comunio52
ne e non certo il risultato perfetto di un
impegno solitario.
Fin qui la memoria di un’opera archetipica,
quella originaria di Dio; ma i profeti, si sa,
guardano sul presente.
«a Salomone saggezza e intelligenza»
Mentre nella Bibbia cattolica vanno sotto il
nome di «libri profetici» solo quelli dei cosiddetti profeti «scrittori» (Isaia, Geremia,
Ezechiele, ecc.), nella Bibbia ebraica sono
annoverati tra i profeti anche i libri di Giosuè,
Giudici, Samuele e Re, distinti dagli altri
come «profeti anteriori».
In questo primo blocco di volumi profetici,
di quel raffinato ingegnere del mondo, che è
il Dio creatore, troviamo una sorta di icona
nella figura di re Salomone: «Dio concesse a
Salomone saggezza e intelligenza molto
grandi e una mente vasta come la sabbia che
è sulla spiaggia del mare (...). Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la saggezza di
Salomone» (1Re 5,9).
In quali opere straordinarie si riversò la saggezza di questo re, così celebrato nel primo
libro dei Re? Certamente egli aveva una cultura universale, poiché: «Parlò di piante, dal
cedro del Libano all’issopo che sbuca dal
muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci» (1Re 5,13), ma l’opera che lo
rese immortale fu un capolavoro dell’architettura mondiale: il Tempio di Gerusalemme.
Salomone, insomma, dovette diventare famoso, presso i suoi contemporanei, per gli
stessi motivi per cui oggi lo è il nostro Renzo
Piano.
L’intelligenza, la perizia, le capacità
organizzative, la ricercatezza che Salomone
spese nella costruzione del Tempio, sono
evidenziate con dovizia di particolari in 1Re
5-6. Dopo aver costruito il Tempio il re procedette, inoltre, alla costruzione della sua
reggia che, quanto a pregio non fu certo da
meno (cf. 1Re 7,1 ss.).
le tentazioni del lavoro
Ma tutta questa straordinaria opera verrà –
ahimè – distrutta. Ce lo racconta il profeta
del secondo Libro dei Re: «Il settimo giorno
del quinto mese Nabuzaradan, ufficiale del
re di Babilonia, bruciò il Tempio, la reggia, e
tutte le case di Gerusalemme (...) i Caldei fecero a pezzi le colonne di bronzo che erano
nel Tempio (...) quanto al grande bacino e alle
basi, tutto opera di Salomone per il Tempio
(...) non si poteva calcolare il peso di tutti
questi oggetti» (2Re 25,8-9.13.16).
Tra i motivi che vogliono spiegare la ragione
intima di questo disastro – dato che la ragione evidente fu l’invasione babilonese e la conquista di Gerusalemme – quello che appare
più seducente è che Salomone, nel suo ambizioso progetto produttivo, fosse caduto nella
tentazione dei Faraoni dell’Egitto, anch’essi
formidabili costruttori: quello di istituire il
lavoro forzato, per poterlo realizzare. Egli
aveva, così, riportato Israele in quella stessa
condizione di schiavitù in cui esso versava nel
paese di Egitto. Il grande re della pace, insomma, si era fatto ammaliare dalla grandez-
za cui un uomo può elevare il proprio nome,
attraverso il suo lavoro, tanto che gli sembrava nulla sacrificare, a questo scopo, la libertà
e la vita stessa di migliaia e migliaia di persone. Di tutto il suo popolo!
Oltre a questa affatto seria spiegazione ce n’è
un’altra. Il libro di Ezechiele ci offre una specie di cortometraggio letterario di ciò che accadeva nel Tempio di Salomone, pochi minuti prima che venisse dato alle fiamme:
«Sfondai la parete ed ecco apparve una porta, entrai e vidi ogni sorta di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli del popolo di
Israele raffigurati intorno alle pareti e settanta anziani della casa di Israele, in piedi davanti ad essi (...). Hai visto, figlio dell’uomo,
quello che fanno gli anziani del popolo nelle
tenebre, ciascuno nella stanza recondita del
proprio idolo? Vanno dicendo: Il Signore non
ci vede» (Ez 8,8-12).
Attraverso questa specie di «candid camera»
profetica si rivela l’anima di coloro che frequentano il Tempio e, allo stesso tempo, governano Gerusalemme: invece di adorare il
Signore, nella sua casa, ciascuno in quella casa
di Dio, ha ricavato una stanza per sè, per
amplificare il suo potere personale. In questa
autentica forma di idolatria si rivela la tentazione più radicata dell’opera che l’uomo ha
realizzato nel Tempio: quella di fare di quell’opera non un riflesso della grandezza di Dio,
ma uno strumento di esaltazione di se stesso.
Quando le cose vanno in questo modo, la
splendida risorsa umana del lavoro non porta ad una autentica promozione dell’umanità, piuttosto al suo contrario. Infatti, dice, infine, il Signore ad Ezechiele:
«Hai visto, figlio dell’uomo? Come se fosse
poca cosa per la casa di Giuda commettere
simili nefandezze, in questo luogo, hanno
riempito il paese di violenze» (Ez 8,17).
Alla fine del suo libro Ezechiele diventerà l’ingegnere e l’architetto di un nuovo Tempio,
anche se ancora sulla carta. In una autentica
visione egli lo descriverà in maniera perfino
più precisa di quello di Salomone (cf. Ez 4048). Ma le sue geometrie si confonderanno
con quelle naturali e cosmiche che Dio stesso
ha tracciato nel paese. In un incantevole intreccio tra sapienza umana e divina, il lavoro
dell’uomo sarà un tutt’uno con quelle di Dio
e solo allora: «Dividerete questo territorio in
eredità fra voi e i forestieri che abitano con
voi, i quali hanno generato figli in mezzo a
voi. Nelle tribù in cui lo straniero è stabilito,
là gli darete la sua parte» (Ez 47, 22-23). Solo
allora il lavoro sarà edificio di quella pace che
Salomone, con tutta la sua sapienza, aveva
mancato.
ROCCA 1 GIUGNO 2006
LA VOCE DEL DISSENSO
Per realizzare queste mirabili opere Salomone si circondò degli artigiani più abili (cf. 7,14),
fece venire cedri dal Libano (cf. 5,20) la cui
ceduazione affidò agli esperti taglialegna di
Sidone; reclutò ai lavori forzati ben trentamila uomini da tutto Israele (cf. 5,26), mentre coloro che lavoravano per lui, complessivamente, stranieri compresi, erano: «settantamila operai addetti al trasporto del materiale e ottantamila scalpellini a tagliar pietre
sui monti, senza contare gli incaricati dei prefetti che erano tremilatrecento, preposti da
Salomone al comando delle persone addette
ai lavori» (5,27-30). Una gran bella holding!
Il testo descrive accuratamente anche la perfetta macchina organizzativa per cui il re faceva estrarre grandi massi di pietra, che venissero, quindi, sgrossati, squadrati e preparati, insieme al legname, per le fondamenta
dell’edificio (cf. 5,31-32). Se precisa e particolareggiata è, poi, la descrizione della parte
strutturale ed esterna del Tempio (cf. 6,1-13),
altrettanto lo sarà quella dell’interno, comprese le porte, il cortile, gli arredi, con la specificazione dei tipi di legno e di metallo utilizzati
per la loro realizzazione.
«Salomone edificò (il Tempio) in sette anni»
(6,38): un tempo pieno per portare a termine
il suo capolavoro: una sorta di micro-cosmo
in cui rimarrà iscritta tutta la sua saggezza.
Qualcosa che rispecchiava la sapienza di Dio,
il quale impiegò sette giorni per portare a
compimento il suo capolavoro: la creazione
del macro-cosmo.
Rosanna Virgili
53
Giuda
coscienza scomoda
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Lilia
Sebastiani
54
I
nsieme al numero di maggio del National Geographic è stato messo in vendita, dopo essere stato annunciato su
diversi giornali e anche alla televisione, un libro dal titolo Il Vangelo perduto. Non pochi si sono precipitati a
comprarlo, spinti quasi tutti dall’idea semiconsapevole di aver a che fare con la traduzione (e/o l’introduzione storico-filologica, magari) del Vangelo di Giuda, di cui
tanto si era parlato nelle ultime settimane.
Naturalmente non era vero. La traduzione italiana non è ancora pubblicata, il libro non è altro che il racconto del ritrovamento o, più precisamente, delle laboriose vicende che hanno seguito il primo
ritrovamento del codice, avvenuto circa
35 anni fa. Un racconto presentato come
un avvincente thriller archeologico-religioso; in realtà, abbastanza avvincente in
certe parti, in altre un po’ grigio e prolisso. Ma di questo non si può far carico all’autore (Herbert Krosney, scrittore e regista di documentari televisivi): il fatto è
che si tratta di una storia moderna fatta
soprattutto di indugi, di attese, di dissimulazioni, di trattative interrotte e riprese; di un trentennio nel corso del quale il
Vangelo di Giuda non faceva altro che
deteriorarsi tranquillamente ma irreparabilmente, in qualche remota cassetta di
sicurezza. Alla base di queste perdite di
tempo non vi era, beninteso, il desiderio
di rivalutare o ri-condannare Giuda, di
mettere la chiesa nei guai oppure di risparmiarglieli: solo ragioni di denaro (tanto) e, in sottordine, un po’ di invidie e conflittualità accademiche.
Come si sarà capito, ho comprato il libro
anch’io. Forse avrei potuto farne a meno
senza gran perdita ma, per decidere questo, ho dovuto leggerlo. Nella mia naïvété
poi ero stata anche sfiorata da un dubbio:
perché il National Geographic? Ovvero, che
c’entra Giuda con la geografia? Appena
scoperto che il codice con il Vangelo di
Giuda in questi anni è appartenuto alla
National Geographic Society, la quale ha
anche finanziato il restauro, il dubbio non
aveva più ragione d’essere.
sensazionalismo para-religioso
Leggere il testo, appena si potrà, sarà interessante. Quello che dà fastidio è il ‘caso’
di cronaca: la vampata di interesse artificiale (che poi subito si estingue, è chiaro),
la notizia caricata e gonfiata ad arte per
diventare giornalisticamente più appetibile
anche a gente che nulla sa di vangeli
apocrifi e ben poco anche di quelli canonici, di gnosi e di cristianesimo antico, e
di quello recente.
Perché tanto divorante interesse per i libri
che promettono rivelazioni sensazionalistiche su qualche aspetto del cristianesimo, e
in particolare della chiesa di Roma? Perché
è diventato quasi infallibile il mix di qualcosa che riguarda la vita storica pubblica o
privata, vera o presunta, di Gesù + politica
+ complotto + eretici + templari + (…non
indispensabili, ma utili e graditi, i Merovingi
o i loro discendenti) + massoni + Opus Dei?
Quanti libri usciti negli ultimi due o tre anni
includevano nel titolo la parola Codice o,
più arcanamente, Codex, nella speranza di
emulare il successo di pubblico e di vendite
del Codice da Vinci? Quanti si sono interessati al Vangelo di Giuda perché avevano letto con trasporto il Codice da Vinci?
E meno male che, almeno questa volta, non
c’entrava la Maddalena.
Tra parentesi, visto che abbiamo dovuto
nominare Il Codice da Vinci, chi scrive considera del tutto fuori luogo l’incomposto
allarmismo scatenato nella chiesa cattolica da quel romanzo di Dan Brown, e dal
proliferare di confutazioni e anti-Codici,
che fornisce al libro un’eccellente pubblicità gratuita e rafforza l’idea del complotto, l’idea che ci sia bisogno di difendersi…
Senza contare che l’autore del Codice da
Vinci può sempre mettersi al riparo da ogni
critica sottolineando di aver scritto un romanzo (ossia un «componimento misto di
storia e d’invenzione», secondo il nostro
Manzoni, che alla storia ci teneva): un romanzo non ha alcun obbligo di dire la verità e, quando parla di cose che sono o sem-
ne, un inno gnostico recepito dalla tradizione giovannea e perciò dalla Grande
Chiesa: adattato, ma ancora riconoscibile.
Non occorre essere specialisti per essere
colpiti dalla differenza di linguaggio rispetto agli altri vangeli, e anche al resto dello
stesso IV vangelo, che comunque non manca di qualche venatura gnostica. Eppure
sappiamo tutti quale spiritualità profonda
contenga il Prologo, e quale inedita comprensione del mistero di Cristo.
Quando nella letteratura gnostica si trova
un vangelo di Giuda o di Tommaso o di
Maria (Maddalena), non vuol dire che il
discepolo o la discepola di cui si tratta ne
siano autori, ma che la rivelazione contenuta nello scritto si rivolge in primo luogo
a un interlocutore privilegiato.
un Vangelo gnostico
La novità problematica del Vangelo di Giuda non è affatto nuova, in realtà: riguarda
sempre il mistero dell’agire di questo discepolo, scelto e chiamato da Gesù come
gli altri, che nei confronti del Maestro fa
qualcosa di grave e pressoché incomprensibile. Non si può mettere in dubbio che
storicamente Giuda abbia in qualche modo
facilitato l’arresto di Gesù, che lo abbia
«consegnato» (nei vangeli canonici il verbo usato a questo proposito è paradìdomi):
un fatto così doloroso e scandaloso non
poteva essere inventato nella prima chiesa, non vi era davvero nessun interesse a
inventarlo. Ma consegnare non significa
ipso facto tradire. E forse Giuda, pur commettendo un tragico sbaglio, era mosso da
uno scopo abbastanza nobile, dal suo punto di vista. Forse voleva spingere Gesù a
manifestarsi apertamente, in un confronto con i capi del giudaismo? Forse (e qui
saremmo abbastanza vicini all’idea di fondo del Vangelo di Giuda) agiva, o credeva
di agire, in accordo con Gesù? Certo è
molto strano che nei Vangeli Gesù sembri
perfettamente consapevole di ciò che Giuda sta per fare, e che tuttavia non faccia
nulla, non diciamo per sottrarsi a quanto
lo attende, ma nemmeno per salvare Giuda. Dal quarto vangelo sembrerebbe anzi
che gli dia la spinta definitiva per agire.
Alcune frasi del Vangelo di Giuda, già rese
di pubblico dominio, colpiscono l’attenzione; non sconvolgono più di tanto, almeno
per chi sappia qualcosa dello gnosticismo.
Una, che sembra il culmine della rivalutazione di Giuda, potrebbe essere abbastanza fuorviante per chi ignora il contesto di
pensiero in cui la frase prende forma: «Tu
sarai al di sopra di tutti loro; perché tu sacrificherai l’uomo che mi riveste».
Insomma, di Giuda ci sarebbe effettivamente bisogno per consegnare Gesù, perché la morte di Gesù è sentita come arca-
È difficile esprimere in due parole la storia molto sfuggente della Gnosi e la sua
dottrina, quasi altrettanto sfuggente e comunque non unitaria. Ricordiamo solo ciò
che quasi tutti sanno: gli gnostici, come
dice il nome (ghnòsis = conoscenza), fanno consistere la salvezza nella rivelazione
esoterica di una sapienza inaccessibile ai
più: in questo possono avere qualche punto di contatto con i culti misterici dell’antichità, e si differenziano dal cristianesimo senza specificazioni, che offre una salvezza a tutti. L’idea di fondo, profondamente dualistica, è che ci sia un Dio buono e
supremo, che è all’origine delle realtà spirituali ed è quello portato agli uomini da
Gesù; ma anche un Dio inferiore, invidioso del primo, creatore dell’universo materiale, compresa ovviamente la corporeità
umana.
Nel loro disprezzo per il corpo, che consideravano solo uno scomodo e insignificante fardello, gli gnostici potevano predicare
in certi casi una continenza assoluta, in
altri un totale libertinismo: la differenza
era poca. Vedevano in Gesù un Maestro di
sublime sapienza, ma non consideravano
affatto l’Incarnazione, che per loro sarebbe stata semmai uno scadimento, e alla
Resurrezione (corporea!) attribuivano
un’importanza del tutto secondaria. Nei
loro testi Gesù appare già glorificato, fuori del tempo e della storia.
Le correnti più moderate della Gnosi influiscono parecchio anche sul nascente
cristianesimo ‘ufficiale’ – ortodosso – che
comunque sarà riconosciuto come tale solo
a un certo punto: all’inizio ovviamente tutte le varietà di fede cristiana hanno pari
dignità e diritto a esistere. Alcuni studiosi
sostengono, per esempio, che il Prologo del
quarto Vangelo sarebbe, almeno in origi-
il lato oscuro della redenzione
ROCCA 1 GIUGNO 2006
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
brano vere, può sempre sostenere che ogni
allusione è casuale.
Comunque il Vangelo di Giuda, sia chiaro,
non è il Codice da Vinci!
Intanto, è ‘vero’: risale al IV secolo, è la traduzione in copto di un originale greco più
antico, forse del secolo II. L’originale greco
sembra conosciuto da sant’Ireneo di Lione,
che ne parla con accenti di condanna nel
suo trattato contro le eresie. E si capisce la
profonda emozione provata da chi per primo ha esaminato il testo ritrovato, leggendo alla fine (il titolo si trova in fondo) Peuaggèlion Nioùdas, appunto «vangelo di Giuda» in copto. Quel che è falso (e sarebbe da
chiedersi come mai non abbiano protestato i serissimi studiosi che hanno lavorato al
restauro e alla traduzione del codice) è il
battage pubblicitario assurdo e gonfiato che
ne ha preceduto la pubblicazione.
55
perché tanto interesse?
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Il ritrovamento del Vangelo di Giuda è importante per gli studiosi ma, certo, non più
di quanto lo fu il ritrovamento dei Rotoli del
Mar Morto nel 1947 o (per restare in ambito
gnostico) dei testi di Nag Hammadi in Egitto nel 1945: anche se lo studio e la pubblicazione di questi ultimi richiesero tempi lunghissimi, e il pubblico colto non specializzato cominciò a saperne qualcosa solo negli
anni Settanta. Il pubblico non colto probabilmente non ne venne neppure a conoscenza, visto che i mass-media, in tanti anni, non
dedicarono a quel ritrovamento nemmeno
un decimo dell’attenzione accordata in poche settimane al ritrovamento del Vangelo
di Giuda. Perché dunque questo nuovo vangelo gnostico dovrebbe sconvolgere l’opinione pubblica più degli altri?
Forse proprio perché vi si parla di Giuda.
Perché si mette in dubbio per la prima volta in un discorso rivolto a tutti ciò che tutti
credono di conoscere: Giuda come losco
personaggio intrinsecamente cattivo che
tradisce Gesù, o per odio gratuito nei suoi
confronti o per vile brama di denaro, oppure per tutt’e due le cose insieme. Molti cristiani si irrigidiscono o si irritano o ‘stanno
male’ quando qualcuno tenta di far comprendere che è poco cristiano dare per ovvia, necessaria, scontata la dannazione del
dodicesimo discepolo. È una reazione paragonabile a quella scatenata in certe persone e in certi ambienti dallo scuotimento
di certezze in ordine all’inferno o all’esistenza personale del diavolo. Perché certe persone hanno bisogno di una negatività ufficiale, riconosciuta, esecrata e sanzionata, e
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in ultima analisi de-responsabilizzante, per
essere dispensate dall’evento più lacerante
e più necessario nell’esperienza religiosa:
diventare credenti adulti, sviluppare una
coscienza morale degna di questo nome e
una spiritualità che non sia né consuetudine né bigottismo né auto-rassicurazione.
il dramma di Giuda come lieto annuncio
Qualcosa di nuovo su Giuda? Sì, ma non le
rivelazioni del National Geographic. E tuttavia pensiamo che, se qualcuno ne verrà
indotto a rivedere certe acritiche e irriflesse posizioni risalenti all’infanzia, sarà comunque una buona cosa. È urgente riflettere e far riflettere, il più largamente possibile, su Giuda in una prospettiva redenta.
Qualcuno, per la verità, lo ha già fatto, soprattutto biblisti e teologi, e basti pensare,
anche se non è l’unico, all’ottimo studio di
William Klassen, Giuda: traditore o amico
di Cristo? del 1996, apparso in Italia nel 1999
(e qui pubblicato da Bompiani: evidentemente le case editrici cattoliche non hanno
osato, anche se l’autore è un biblista riconosciuto, che insegna o insegnava all’École
Biblique di Gerusalemme). Ma occorre che
queste idee interpellino tutti i credenti e non
rimangano pascolo riservato di un’élite più
consapevole. Il nostro tempo ha bisogno di
aperture di cuore, di stimoli a pensare (se
sono un po’ scomodi funzionano meglio),
di un supplemento di anima.
Il vangelo di Giuda è comunque un ‘vangelo’, dunque un lieto annuncio, e insegna – lo
stesso forse potevano insegnarlo anche i vangeli canonici, letti con la giusta apertura di
cuore e di spirito – che Dio è più grande del
nostro cuore e conosce ogni cosa; mentre noi
conosciamo pochissimo, limitati come siamo quanto all’ampiezza del raggio visuale
del cuore e quanto alla profondità.
In questo senso possiamo veramente parlare di vangelo di Giuda. Ma anche di Pietro, di Levi, di Marta, di Zaccheo, di infiniti altri... Non diciamo neppure di Pilato,
perché già esiste, ed è ben conosciuto, un
testo apocrifo su di lui: gli Acta Pilati, che
parlano di una sua conversione e di un suo
martirio. E forse – conducendo la nostra
logica ‘apocrifa’ sino al culmine, non più
apocrifo forse, e non tanto distinguibile
dalla spiritualità cristiana – potremmo ipotizzare anche un vangelo di Caifa, senza
nessuna ironia. Certo Caifa, corazzato di
potere e di dissimulazione ed esperto di
maneggi politici dietro le quinte, ci sembra molto più indietro: è infinitamente più
difficile la conversione/salvezza di un Caifa che di un Giuda. Ma a un certo punto,
lo crediamo, avrà capito qualcosa anche
lui. Non necessariamente in questo nostro
versante terreno dell’esistenza.
Lilia Sebastiani
CINEMA
Giacomo Gambetti
U
n albergo di lusso è
diretto da Achille
De Bellis, ma è di
proprietà della moglie Gigliola, a cui è stato donato
dal ricco genitore. Achille
si comporta da padrone,
ma a mano a mano vediamo che è del tutto sottoposto al denaro della moglie
e alla volontà del suocero.
Il mio miglior nemico, di
Carlo Verdone, comincia
con l’interrogatorio da parte di Achille (impersonato
dallo stesso Verdone) del
personale di servizio, per
scoprire chi abbia rubato
un computer a un cliente.
Malgrado i dinieghi, le resistenze, le preghiere,
Achille usa la massima severità e licenzia una cameriera la quale, sostenendo
la propria innocenza, corre a piangere sulla spalla
del figlio Orfeo (Silvio
Muccino), anch’egli dipendente dell’albergo.
Il giovane Orfeo affronta
con modi assai aspri Achille, gli impone di riassumere la madre, non ci riesce,
e allora si dedica a una serie di dispetti, non privi di
violenza, nei confronti di
Achille. Tale comportamento ha il suo culmine
quando Orfeo scopre che
Achille se la fa con la cognata, e riesce a scattare
delle fotografie molto
compromettenti. In occasione di una grande festa
notturna, nei giardini dell’hotel, per celebrare il venticinquesimo anniversario
di matrimonio di Achille,
Orfeo si impadronisce del
microfono, annuncia a
gran voce la storia del tradimento coniugale, distribuisce le fotografie che invano Achille avrebbe voluto comprare, non riuscendo però a corrompere il
giovanotto. Da qui una ovvia, totale crisi in tutta la
famiglia, Achille viene con
ignominia cacciato di
casa, ridotto in pratica sul
Il tallone d’Achille
Il mio miglior nemico
lastrico.
Nel frattempo Orfeo stringe una relazione sentimentale con la ragazza Cecilia,
conosciuta per caso nello
scontro fra l’automobile di
lei e il suo motociclo: Cecilia – lo sa lo spettatore, ma
non ancora Orfeo – è figlia
di Achille e della ricca sua
consorte. Ciò complica ulteriormente la situazione,
e Orfeo, durante la festa
suddetta, provocando lo
scandalo, si accorge che
Cecilia fa parte di quella
famiglia.
Ma la storia non è ancora
finita. Infatti la madre di
Orfeo, che si accompagna
a un aspirante attore-regista di teatro, confessa al figlio di avere effettivamente rubato il computer di cui
lui aveva bisogno. A questa
rivelazione Orfeo naturalmente entra in angoscia,
tutta la sua campagna contro Achille si rivela sbagliata, a lui non resta che chiedere perdono, vergognandosi naturalmente un bel
po’ di tutte le provocazioni. Sulle prime Achille non
accetta scuse, caccia di
nuovo Orfeo, sembra definitivamente. Ma questi lo
segue, lo pedina, non gli
lascia pace, anche perché
vuole riconquistare Cecilia.
Dopo altre peripezie, attraverso un messaggio ricevuto (ovviamente) sul telefono cellulare, Achille apprende che Cecilia è a
Istanbul al Grand Café.
Achille parte alla ricerca
della figlia, come se fosse
facile trovare a Istanbul
proprio quel Grand Café in
cui lei si trova: ma qui la
sceneggiatura non sottilizza davvero. Orfeo va anch’egli alla ricerca della ragazza. Nella trama non tutto è chiarissimo, i due un
po’ procedono ognuno per
proprio conto, un po’ sembrano associati. Fatto sta
che, naturalmente, Cecilia
viene rintracciata e, ignorando tutto il resto e tutti
gli altri personaggi, la storia ha termine con baci e
abbracci.
Ancora una volta un film
italiano mostra nella sceneggiatura – ci scusiamo
per l’insistenza – il suo
punto debole più evidente.
È scarsa l’originalità della
trama, che ha esempi non
solo numerosi ma anche di
buona qualità nel teatro e
nel vecchio cinema francesi e in più di un film americano. Sono assai deboli
alcune vie d’uscita nei momenti fondamentali, specie nella seconda parte: già
si è accennato alla vicenda
di Istanbul, che sembra in
verità più un pretesto per
una parentesi turistica della produzione che una necessità narrativa, in virtù
anche della debolezza della soluzione finale. Né Cecilia aveva bisogno di andare a Istanbul né, per chiudere, c’era bisogno di Istanbul.
L’altra debolezza del film –
e tocchiamo ancora un tasto dolente – è il dilettantismo della maggioranza delle interpretazioni. Escluso
Verdone che è efficace e
convincente soprattutto nei
momenti drammatici (bravo in particolare in tutta la
sequenza iniziale), sono assai modesti e improvvisati
tutti gli altri, all’infuori forse di Agnese Nano (che è
Gigliola), abbastanza professionale. Ma quello che
doveva essere, assieme a
Verdone, un cardine del
film, cioè la presenza di Silvio Muccino, non regge
gran che (a prescindere dalle esaltazioni pubblicitarie).
Malgrado infatti gli evidenti sforzi di Verdone per
costringere il giovane a
una consapevolezza seria
e compiuta, la recitazione
di Muccino sfugge al controllo e alla coerenza della
credibilità, sia nelle (abbondanti) situazioni «urlate» sia in quelle (poche)
sottovoce. La scuola, in
realtà, non si inventa. Verdone non è forse ancora
un regista compiuto, è
troppo attore convinto di
sé per essere un regista del
tutto sicuro, anche se
come attore ci sembra ormai maturo e preparato su
una gamma sempre più
ampia di espressioni: ma
Muccino ha bisogno di leggere, di vedere, di imparare molto. E di non prestare fede agli elogi frettolosi
e facili.
❑
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ROCCA 1 GIUGNO 2006
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
namente necessaria. Dal punto di vista
gnostico, per eliminare l’insipida e gravosa vita terrestre che è un legame, un limite
per Gesù, come per ogni altro essere spirituale promesso alla vita divina; dal punto
di vista cristiano tradizionalista (è questo
un modo di pensare sciaguratamente diffuso ancora oggi) perché Gesù ‘deve’ morire, e lo sa, per fare la volontà di Dio, e
occorre che qualcuno funga da tramite,
agevoli l’operazione: un individuo oscuro
e maledetto, un vero capro espiatorio, che
poi si pente – ma nessuno ha mai prestato
sufficiente attenzione a questo particolare
–; e corona il tutto impiccandosi, e sarà
debitamente sprofondato nell’inferno da
un Dio immemore di aver voluto lui, in
ultima analisi, la morte del Giusto…
Sì, è vero che Gesù dice «… Guai a colui dal
quale il Figlio dell’Uomo è tradito, meglio
sarebbe per lui se non fosse mai nato» ma,
a parte il fatto che queste parole potrebbero riflettere l’emozione dell’evangelista e
non risalire a Gesù, quel «guai» contiene
forse non una minaccia o una condanna,
ma la dolorosa constatazione della sofferenza che il discepolo dovrà attraversare.
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Ulisse
Mozart delle marionette
I
ROCCA 1 GIUGNO 2006
l festival Mozart delle
marionette si è svolto al
Teatro Grassi del Piccolo Teatro di Milano, tra la
fine di marzo e la prima
metà di aprile, con il patrocinio del Comune di
Milano. La manifestazione, che ha visto notevole
affluenza di pubblico, è
stata organizzata dalla
Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli e vi
hanno partecipato – oltre
agli stessi Colla – altre cinque compagnie di fama internazionale.
Tema comune, ovviamente, la messa in scena di alcune tra le più celebri e
celebrate opere mozartiane. L’occasione è stata la
ricorrenza del duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Mozart.
Due i Don Giovanni interpretati dagli attori con la
testa di legno. Nel primo
(Don Giovanni all’Opera
dei Pupi) della compagnia
palermitana Figli d’Arte di
Cuticchio, lo stesso ideatore e regista Mimmo Cuticchio compare in scena nella animazione a vista dei
lignei personaggi: quelli
cui s’ispira la musica di
Mozart e, in una piazza siciliana, gli «spettatori» che
assistono alla storia
d’amore e morte, cui il
puparo stesso dà la voce
facendo commentare in
dialetto stretto la narrazione.
Non meno dissacrante la
seconda messinscena, nella quale il Teatro Nazionale delle Marionette di Praga per un verso si attiene
più fedelmente al libretto
mozartiano di Lorenzo da
Ponte, per un altro svela
anch’essa i trucchi del mestiere con divertenti trovate, prima fra tutte la costante visione delle mani
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dei marionettisti che muovono i fili.
Assai più classico, di grande suggestione Il sogno di
Scipione, sul libretto del
Metastasio ispirato al famoso Somnium Scipionis
di Cicerone. È un testo allegorico (mai rappresentato interamente) al quale la
sorprendente musica di
un sedicenne Mozart dà
vita facendo incontrare al
protagonista – durante un
suo sogno, da cui il titolo
– non solo i suoi gloriosi
antenati, ma soprattutto la
Dea Costanza e la Dea Fortuna con tutte le metafore
del caso. La raffinata messa in scena, dovuta alla
Compagnia Carlo Colla e
Figli e diretta da Eugenio
Monti Colla, si rifà allo stile del teatro barocco, traendone spunto per dare
corpo alla fantasia.
Degli altri spettacoli marionettistici presenti al Festival va ricordato Il flauto magico, in cui il Teatro
delle Marionette di Amsterdam ha messo a frutto
la propria ventennale
esperienza scultorea e scenografica. Tradizione,
questa, comune al celeberrimo Teatro delle Marionette di Salisburgo. Chi lo
dirige tuttora è la nipote
dello scultore che fondò la
Compagnia nel 1913. Una
lezione la sua messinscena dello spettacolo Le nozze di Figaro, di grande coerenza stilistica. La più
«giovane» tra le compagnie (quella fondata a Lindau, in Germania, nel
2000) ha nondimeno testimoniato, mettendo in scena Il ratto dal serraglio, una
eleganza espressiva in nulla inferiore a quelle di più
antica tradizione.
❑
Q
uando Ulisse incontra Darwin… le recensioni vacillano.
Soprattutto devono guardarsi attentamente dal metaforizzare, ché l’eccesso è dietro
l’angolo, in compagnia del ridicolo: navigatori (l’uno l’altro), ricercatori del vero, uomini «moderni» (ciascun per
sé), ora insieme sulle onde
dell’etere... Fissiamo allora
alcuni punti: Ulisse è – in
queste righe – un programma tv, condotto da Alberto
Angela, per le serate del sabato di RaiTre. Nell’annata
2006 s’è mosso tra ambito
geografico, antropologie,
interessi naturalistici e storia, risentendo, di volta in
volta, nel suo modo di costruirsi, della specificità di
titoli e tematiche.
L’argomento Darwin – sabato 13 maggio – ha consentito
di focalizzare l’ottica editoriale dell’Ulisse/programma
più di quanto non fosse accaduto sino a quella data,
consentendo di frequentare
tutti, o quasi, gli ambiti di
attenzione della serie recente. Il Darwin da raccontare è,
in primo luogo, un gran viaggio intorno al mondo – dal
1831 al 1836 – svoltosi in
gran parte per mare, la più
grande catalogazione di nuove specie tentata sino a quel
periodo e l’interpretazione
(ardita, in quel momento)
della storia naturale in relazione agli ambienti, sino a
scrivere una scienza naturale integrata che incide nell’antropologia e nella storia.
Di fronte a tanto insieme, l’intento divulgativo ha attraversato, fluido, linguaggi e formati espressivi diversi: la grafica sulle tappe del brigantino Beagle (su cui Darwin era
imbarcato) a Bahia, Montevideo e Buenos Aires, e nella
Terra del Fuoco, alle Galapagos, e in Nuova Zelanda e
Australia; i microdocumentari sulla natura, vista allora
e osservabile ora; le animazioni a rifare in video il supercontinente delle origini
(Pangea o Gondwana che
sia); la ricognizione a fratture, faglie telluriche e vulcani… E, in parallelo, senza
supponenze scientiste, è stato delineato l’inizio e lo sviluppo della teoria darwiniana, evitando, per buona scelta, di calarsi nello pseudo/
dibattito contemporaneo
(sciatto assai) tra creazionisti ed evoluzionisti.
L’esito è informativo e convincente, non senza qualche
concessione all’uso della fiction grazie ad uno sceneggiato televisivo sulla vita di
Darwin realizzato da una
rivista inglese specializzata
in tematiche scientifiche.
Solo qua e là lo stato di grazia non sorregge, e qualche
semplificazione risulta approssimata: vale (è valso:
sabato 13) per il racconto
sincopato dell’arrivo e dello
scorrere dell’umanità, in
epoca preistorica, per tutta
la lunghezza del continente
«americano».
A far da congiunzione tra
tutte queste modalità, che
costituiscono e sostengono
il narrare, è la voce del conduttore e, soprattutto, il suo
comparire ora in situazioni
museali, ora direttamente
negli ambienti di cui si parla, per quelli che – usualmente – sono definiti «stand
up» (commenti fatti in loco,
da fermo, in piedi) ma che,
qui, paiono essere dei «walk
up», col conduttore sempre
in movimento e la telecamera a seguirne o anticiparne
il procedere appiedato.
Il tutto ad aggregar pubblico e non poco: 2.541.000
spettatori, terzo ascolto in
serata tra tutte le reti, ad indicare l’attenzione del pubblico per una televisione
non da Fattoria e non pro/
Carrà.
❑
MOSTRE
Giuliano Della Pergola
Metropolis
L
a Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino – ovvero, la Gam –, mette a disposizione un ulteriore appuntamento espositivo nella tradizione della Torino europea ed internazionale: «Metropolis. La
città nell’immaginario delle avanguardie 19101920», per la precisa ed appassionata cura di Maria
Grazia Messina e Maria
Mimita Lamberti a cui si
debbono anche un utile e
importante catalogo – edito benissimo dalla Fondazione Torino Musei-Gam,
il cui Presidente, Giovanna Cattaneo Incisa così
presenta la rassegna: «Con
questa grande mostra (...si
sviluppa) un tema fondamentale della contemporaneità: lo spazio urbano della metropoli che si impose
ai giovani artisti all’inizio
del XX secolo come luogo
di incontro, di scambio e
di sperimentazione, contribuendo in modo radicale al rinnovamento dei linguaggi e alla crescita di
una cultura internazionale nel dibattito poi drammaticamente interrotto
dalla Prima guerra mondiale» –.
Infatti la mostra, impaginata benissimo con opere
di grande caratura e con la
dovuta documentazione
(in catalogo Lamberti affronta la Milano dei Futuristi, Messina la Parigi «di
poeti e pittori» – da Delaunay a Leger, da Picasso a
Soffici –, Gaehtgens la Berlino espressionista, Pacelli la New York del circolo
Stieglitz), esprime davvero
tale congiunzione: l’intimo
rapporto tra la novità della Metropoli che lascia alle
sue spalle il mito romantico della Comunità ed entra prepotentemente nella
temperie delle contraddizioni e delle inquietudini,
dove l’anelito al «progetto»
è la capacità della razionalità di dannarsi l’anima nella lotta faustiniana con
l’impraticabilità storica
della convivenza civile (e in
mostra valgono su tutti i
meravigliosi affondi della
Marianne Werefkin e di
Ernst Kirchner, e di Sironi
e così anche le intriganti
sequenze fotografiche, di
Alvin Langdon Coburn e di
Atget, preparano la documentazione del prossimo
inferno a venire) da cui, tra
il 1910 e il 1920 presi indicativamente in considerazione, la corsa al calendario della Prima Grande
Guerra che precede l’immane catastrofe, della tragedia nella tragedia, della
Seconda Guerra Mondiale.
L’essere giovani e l’essere
nuovi conduce alla militanza dell’Avanguardia (Boccioni e Severini, per esempio) e dunque alla cultura
della utopia e della affermazione espressionistica
della propria individualità.
Il tema della mostra centra
la qualità dell’argomento:
non si tratta di entrare nella descrizione della «Nuova Città», si tratta di entrare nel significato storico e
culturale e filosofico di una
cultura del linguaggio che
decide l’identità dell’Europa. E dunque il Futurismo
e l’Espressionismo, il Dadaismo e le culture annesse, informano un ventaglio
di creatività che è l’energia
di questa Europa e di questo Mondo dell’Occidente
disposto oggi alle sfide della globalizzazione entro
cui quell’idea di Avanguardia (se non della annessa
«Metropolis») ancora decide una condizione della
identità europea.
❑
Una riproposta dei Macchiaioli
A
riprova dell’ipotesi
generale che solo in
presenza di importanti eventi politici generali si può produrre una grande arte, alla Biblioteca di via
Senato, a Milano, ecco una
interessantissima raccolta
dei Macchiaioli, il movimento pittorico sorto alla
metà dell’800, quando il
Risorgimento era già nei
fatti, e quando dunque la
dialettica tra realtà locale
regionale e realtà nazionale di necessità bussava alle
porte. Perché se inteso
come movimento livornese,
maremmano e toscano il
movimento dei Macchiaioli metteva in luce tutta la
sua dimensione locale, ma
se letto anche come movimento verista, impegnato a
cogliere e interpretare le
relazioni tra le classi sociali, il movimento dei Macchiaioli spiega l’Italia che si
stava creando: i soldati a
cavallo dipinti dal «carducciano» Giovanni Fattori
sono attori sociali di un
esercito regolare, nazionale, che combatte contro un
nemico, quello austriaco,
qualificato sul piano politico e culturale. La classe
borghese che vive nelle ville di campagna, così bene
illustrata da Silvestro Lega,
classe colta, che legge, che
impara a suonare il pianoforte, che studia e sa scrivere, si contrappone invece
a quella contadina, che abita presso le ville, ma in tuguri, borghi composti da
case povere e che è affranta
dalla pesantezza della vita
nei campi.
Un magnifico quadro di
Vito D’Ancona (Studio di
paese, 1859) fa il paio con
Contadinelli al sole, di S.
Lega, del 1861. Addirittura
si direbbe che il quadro del
D’Ancona sia più moderno
dell’altro, più vicino alla pittura che poi gli Impressionisti francesi avrebbero
meglio sviluppato. Ma questo elegante movimento italiano precede di qualche
decennio quello transalpino, ed è proprio il confronto tra le due scuole (sicuramente imparentate tra di
loro, ma anche reciprocamente autonome), che apre
alla pittura moderna, che fa
capire come il movimento
risorgimentale fosse stato sì
un motto nazionale, ma anche un movimento patriottico portatore dei valori
universali della libertà politica e personale.
La mostra milanese sottolinea fin nel titolo con il
quale attrae un pubblico
incuriosito e colto (Dipinti
tra le righe del tempo), che
si tratta di un’esposizione
di quadri, ma anche di una
raccolta di cimeli dell’epoca: una cassetta dei colori,
libri e lettere, cartoline e
fotografie appartenuti ai
pittori macchiaioli, che
pongono in risalto la quotidianità degli appartenenti a questo movimento. Se
il centro spirituale e culturale restava pur sempre
Parigi, attrazione per tutti
gli intellettuali delle periferie europee, in Italia s’andava formando una nuova
classe politica nazionale, e
la mostra milanese credo
vada letta come l’omaggio
fatto alla città che in Italia,
più d’ogni altra seppe corrispondere i principi universali dichiarati dalla Rivoluzione francese nella situazione politica nazionale che stava per nascere. Il
Risorgimento italiano deve
ai Macchiaioli in pittura
quello che Rossini prima, e
Verdi poi, seppero con la
musica esprimere a fondo.
Mostra da vedere, ricca, seriamente impostata, che utilizza quadri dei Macchiaioli provenienti da collezioni
private, e quindi difficilmente altrimenti visibili.
❑
ROCCA 1 GIUGNO 2006
TEATRO
59
SITI INTERNET
FOTOGRAFIA
Michele De Luca
ROCCA 1 GIUGNO 2006
G
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allestita al Centro Comunale d’Arte e Cultura Exma’ di
Cagliari, un trentennio di
storia del nostro paese attraverso l’obiettivo di fotografi come Sellerio, Berengo Gardin, Roiter, Patellani, Pinna, De Biasi, Petrelli
e Samugheo; un’analisi dal
profondo, e dall’interno,
non solo del mondo rappresentato, ma del «movimento» neorealistico stesso, le
cui radici vengono ricercate già nel periodo del fascismo, volendone cogliere
anche aspetti contraddittori e sfatare «catalogazioni»
di comodo, che acriticamente ascrivono in maniera indistinta gli autori alla
poetica neorealista, mentre
tra loro è possibile rintracciare elementi di diversità
culturali e di «intenzioni».
Riecheggiano le parole di
Calvino, quando scriveva
nel Sentiero dei nidi di ragno, «Il Neorealismo non è
stata una scuola, ma piuttosto un insieme di voci.
Una scoperta delle diverse
Italie fino ad allora inedite». Si può comunque azzardare che, tra le ovvie diversità personali di approccio e di risultato esteticocomunicativo (e qui giustamente la mostra invita ad
approfondire la ricostruzione storico-critica), un «comune denominatore» può
essere indicato laddove la
consapevolezza di vivere in
un momento di rapida
trasformazione ha «imposto» alla fotografia (in bilico sempre tra «documento»
e «poesia») di sentirsi particolarmente coinvolta nel
cogliere e consegnare alla
memoria collettiva anche i
segni più intimi dei mutamenti in atto.
❑
«.eu» come Europa
R
iuscirà l’Europa virtuale a dare più slancio all’Europa reale?
La domanda nasce a fronte dei dati che sta facendo
registrare, nel suo primo
mese di vita, il nuovo dominio «.eu», ossia l’estensione Internet che definisce l’area telematica europea. Le statistiche parlano
di oltre un milione e mezzo di siti così registrati, un
terzo dei quali ad opera di
tedeschi, i cybereuropeisti
più convinti.
Il dominio «.eu» ha avuto
una storia travagliata e il
successo che sta riscuotendo pare riscattare le varie
traversie che hanno presieduto al suo sorgere. La procedura per la costituzione
del dominio europeo ha
mosso infatti i suoi primi
passi nel 2000, ma solo verso il 2002 si giunse a un
qualche accordo tra i governi dei Paesi membri. Infine, dopo 5 anni di lungaggini burocratico-istituzionali (che nel frattempo hanno visto l’Europa comunitaria raggiungere il numero di 25 Paesi membri),
l’Icann, l’authority statunitense che presiede a tutte le
estensioni di dominio Internet, ha dato il suo assenso
finale al nuovo «.eu», affidandone la gestione al consorzio italo-belga-svedese
Eurid, formato dal nostro
Cnr e dai registri Internet
di Belgio e Svezia. Data ufficiale di nascita del nuovo
dominio fu dunque il 2
maggio 2005, quando fu registrato e divenne attivo il
sito Eurid.eu.
Articolato anche l’iter per
la registrazione di siti
«.eu». Il 7 dicembre scorso, infatti, sono iniziate le
procedure per la preassegnazione dei siti ad enti,
istituzioni e soggetti che
vantavano diritti preesistenti (ad esempio nomi
d’aziende o marchi riconosciuti dalla legge), mentre
dal 7 aprile scorso tutti i
cittadini residenti in uno
dei Paesi membri dell’Unione Europea potevano chiedere la registrazione di siti
con tale estensione. Interessanti anche i risultati legati a queste due diverse fasi:
se infatti nella lunga fase di
preregistrazione le richieste erano giunte a quota
117.117, nella sola prima
ora dal via libera alla registrazione sono state oltre
300 mila.
Quanto alla ripartizione e
distribuzione geografica, a
tutt’oggi rilevabile, dei siti
«made in Europe», la Germania – segnalavamo – è di
gran lunga in prima posizione, con oltre 500 mila siti ad
estensione «.eu», seguita
(sorprendentemente, visto il
loro ben noto euroscetticismo) dagli inglesi, le cui registrazioni si attestano sopra quota 300 mila; in terza, egregia posizione l’Olanda. E l’Italia? A tutt’oggi siamo al quarto posto, con circa 100 mila siti «.eu», seguiti
da ciprioti e francesi. Interessante notare lo scatto (e
scarto) che anche da noi c’è
stato tra le due fasi di registrazione: se nella prima
fase, infatti, le preregistrazioni italiane erano appena
sotto quota 25 mila, in breve tempo i siti «.eu» legati a
soggetti italiani si sono quadruplicati, segno dell’apprezzamento che il dominio
riscuote anche da noi (dove
ad esempio, per quanto riguarda il dominio «.it», il
rapporto di presenze in Internet tra aziende e privati
è di 3 a 1).
Non c’è dubbio: la strada è
ancora lunga per il neonato «.eu», se solo si considera che gli storici «.com»
e «.net» sono oggi rispettivamente a quota 50 e 7 milioni di presenze. Ma ciò è
coerente con lo stile e il ritmo europei. Sempre che,
anche in questo caso, non
si finisca col preferire (malauguratamente) l’onnipresente made in Usa.
❑
Remo Bodei
Una scintilla di fuoco
Zanichelli, Bologna 2005
pp. 145
L’autore, professore di storia della filosofia a Pisa e a
Los Angeles, non ha bisogno di presentazioni. Partecipa ormai da molti anni
al dibattito filosofico internazionale, ha scritto libri
importanti e formato generazioni di studenti tra cui
anche il sottoscritto. Proprio «ai miei studenti sparsi per il mondo» il libro è
dedicato. Si tratta di un
invito non scolastico alla
filosofia, una specie di manuale alternativo (o di contro manuale) che senza trascurare la prospettiva storica sviluppa temi, problemi, idee, figure decisive del
pensiero filosofico. Il suo
merito è quello di parlare
con chiarezza di filosofia a
un pubblico molto più ampio di quello dei filosofi e
degli esperti coinvolgendo
il lettore con la forza delle
ragioni e delle emozioni.
Una curiosità: il libro, spaziando dalla civiltà greca a
quella indiana, da quella
araba a quella cinese, abbandona la tradizionale
prospettiva eurocentrica. Il
che, in questi tempi di urgenza interculturale, non
guasta.
Stefano Cazzato
Michele Masotto
Attraverso il conflitto
Il Segno dei Gabrielli Editori, Negarine (Verona)
2005, pp.111
Il libro è uno studio teorico-pratico, corredato da
esercizi, teso a guidarci nell’appassionante tematica
dei conflitti rendendoci,
come dice il sottotitolo, «né
squali né pesciolini, ma delfini». Giornalmente, infatti,
nelle nostre relazioni ci troviamo ad affrontare sentimenti contrastanti che generano angoscia, tuttavia
nel nostro Dna è presente
la possibilità di giungere a
risultati positivi. Il conflitto, secondo l’Autore, è da
elogiare in quanto è motore dell’evoluzione e dello
sviluppo e può migliorare la
nostra vita facendone accettare i cambiamenti. Però
vi sono anche conflittualità distruttive che mirano
alla distruzione di uno dei
due contendenti. Il libro si
propone di approfondire e
riordinare contributi sulla
tematica, offrendo un percorso, guardando al raggiungimento di un traguardo, perché è molto saggio
senza giudicarci impietosamente, imparare a conoscerci e a saper gestire le
nostre emozioni. Viene citata la definizione di
J.Morineau: il conflitto è
uno scacco al sogno. Ma
anche l’Autore ha una sua
definizione preferita: il
conflitto è come un uovo
che si rompe! Cambia
qualcosa, ma possiamo
decidere di utilizzare l’uovo in altro modo, possiamo
quindi decidere come vogliamo vivere una relazione e la difficoltà può dare
origine al cambiamento.
La risoluzione è affidata a
un percorso che pone l’accento sul raggiungimento
dell’autostima, dell’assertività per valorizzare se stesso e l’altro e della creatività nella soluzione dei problemi. L’Autore, consapevole che nella sfera delle
relazioni umane non possono essere date ricette,
spera di aver suscitato con
il proprio lavoro l’apprendimento di atteggiamenti
di vita positivi e utili alla
collettività e anche di aver
stimolato i lettori a ulteriori ricerche e a porsi domande più approfondite.
Chiara Mansi
Giuseppe Cassio
San Francesco, il Santuario di Terni
Edizioni Quattroemme,
Perugia 2005, pp. 400
Il volume si articola in otto
capitoli che vanno dalla visita di san Francesco alla
città di Terni nel 1218 fino
ai giorni nostri. Il testo è
arricchito da 110 foto a colori e in bianco/nero e da
un saggio di Oriana Visani
sulla predicazione francescana nel ’500.
L’aspetto più prezioso dell’opera sta nella notevole
quantità di informazioni bibliografiche, talvolta contraddittorie, di testimonianze orali, di molte carte d’archivio che hanno permesso
all’Autore un compendioso
esame storico che consente di dar conto degli aspetti
cruciali della vicenda dell’edificio e delle opere d’arte conservate al suo interno. Attraverso un’ampia rilettura critica emerge la
presenza del Santo nella cittadina umbra e il libro diventa la guida a una chiesa
contenitore di storia, arte e
fede. L’impegno quasi decennale profuso in questo
lavoro è avvalorato dalla
speranza che «come nelle
visioni dolcissime del passato, questo tempio del popolo continui pur oggi a
chiamare a raccolta nuove
generazioni credenti».
Ernesto Luzi
Alberto Maggi
Non ancora madonna
Maria secondo i Vangeli
Cittadella Editrice, Assisi
2004, pp.132
Chi fu realmente Maria?
Che sappiamo di lei? Quali
furono le difficoltà che,
come tutti gli esseri umani,
dovette affrontare? L’autore cerca di rispondere a
questi interrogativi esami-
nando i testi evangelici non
come cronache che riguardano la storia ma come teologia che interessa la fede.
Sin dalle prime pagine emerge «Una donna che è grande
non solo perché è la madre
di Gesù, ma perché ne diventa la fedele discepola, e si
pone a fianco del giustiziato
contro chi lo ha crocifisso,
schierandosi così per sempre
a favore degli oppressi, dei
poveri, dei disprezzati».
Questo libro è un viaggio che
parte dal matrimonio combinato dalle famiglie degli sposi, a Nazaret tra Maria e Giuseppe con l’inizio dei problemi che aumentano con la nascita di Gesù, con la strage
dei bambini, il ritrovamento
di Gesù nel tempio di Gerusalemme e l’incomprensione
di Giuseppe e Maria che non
hanno ancora scoperto la
«buona notizia»: «Il Signore
non premia i buoni e non castiga i malvagi, ma a tutti,
senza distinzioni, comunica
il suo amore». Leggendo il libro si comprende come questi avvenimenti siano i semi
che germogliando trasformeranno la madre di Gesù in
discepola del Cristo.
Nelle sinagoghe di Nazaret
e di Cafarnao Maria è posta
di fronte alla drammatica
scelta: seguire la tradizione
religiosa dei suoi compaesani o accettare l’annuncio di
Gesù che proclama solo la
misericordia di Dio?
È a Cana che avviene il profondo cambiamento di Maria; trasformatasi in fedele
discepola del Messia lo segue volontariamente e fedelmente sul Golgota ponendosi a fianco del giustiziato.
«Presso la croce di Gesù,
Giovanni non presenta una
madre che soffre per il figlio, ma la coraggiosa discepola disposta a fare la stessa fine del suo maestro».
«Se ora Maria fa parte della
piccola comunità che continua a credere nel Cristo
contro ogni evidenza, è perché è stata capace di accogliere la parola di Gesù».
Bartolomeo Mainardi
61
ROCCA 1 GIUGNO 2006
Giovanni Ruggeri
Neorealismo
li elementi tematici
e culturali che connotano il grande
movimento del cinema italiano attorno alla seconda
guerra mondiale, noto
come Neorealismo, sono
gli stessi che tracciano la
fisionomia di una indimenticabile stagione della nostra fotografia, che unitamente alla fiction cinematografica, contribuisce a
disegnare il volto, ora dolente ora carico di speranze, dell’Italia di allora. Intento documentario, semplicità ed immediatezza di
espressione, la «strada», la
«coralità», il premere della
storia collettiva rispetto alle
vicende individuali, l’emergere di «eroi» popolari nuovi, come i partigiani, le donne che lavorano, i reduci,
la povera gente, un atteggiamento critico-costruttivo, l’attenzione rivolta a
cogliere il vero volto della
«provincia» italiana.
Come scriveva Zavattini, il
Neorealismo si pone
l’obiettivo di «riconoscere
l’esistenza e la pena degli
uomini, nella loro reale
durata, al fine di corrispondere all’appello che ci
viene fatto dalle vittime del
nostro egoismo; appello
che diventa sempre più urgente domanda di solidarietà». Dopo l’epilogo tragico della guerra, la fotografia, come e forse più
della letteratura, dà il suo
grande ed imprescindibile
apporto di verità e di «impegno».
Oltre duecento foto, insieme a documenti vari (spezzoni di film, riviste, manifesti, libri) ci fanno ripercorrere nella mostra «NeoRealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960»,
LIBRI
Ciad
ROCCA 1 GIUGNO 2006
S
tato dell’Africa centro
settentrionale, privo
di sbocco sul mare, il
Ciad è delimitato a nord
dalla Libia, a est dal Sudan,
a sud dalla Repubblica
Centrafricana e a ovest dal
Camerun, dalla Nigeria e
dal Niger. La storia recente del Paese comincia alla
fine del XIX secolo quando i francesi, giunti in quel
territorio, abolirono la
schiavitù, divenendo così
gli eroi della martoriata
popolazione del sud. Assunto il controllo del Paese, i francesi fecero del
Ciad la colonia più trascurata dell’Africa, concentrando principalmente i
loro sforzi nel fertile sud,
dove crearono piantagioni
di cotone e imposero tasse. Quando nel 1960 il Ciad
ottenne l’indipendenza, il
Paese era controllato dagli
abitanti del sud e ciò infastidì non poco gli abitanti
del nord a prevalenza musulmana, che vedevano gli
africani neri come schiavi
e non certo come leader.
Questo periodo di instabilità politica, sommata a
una pesante situazione
economica e a continue
ondate di siccità, si trasformò in un generale malcontento, che degenerò inevitabilmente in una guerra
intestina.
I partiti dell’opposizione
vennero banditi e gli omicidi di massa cominciarono a divenire la norma. Alle
proteste seguirono nuove
stragi. Tra una repressione
militare e un tentativo di
colpo di stato, nel 1968 le
truppe francesi vennero
chiamate in causa per fermare i combattimenti tra
le forze governative e i
guerriglieri del Frolinat
(Fronte di liberazione nazionale), sostenuti dal Sudan e dalla Libia che riven62
dicava una striscia di territorio a nord del Paese, ricca
di minerali, la fascia di Aozou. Quando gli arabi dettero vita a una scissione del
Frolinat in più gruppi, cominciò ad emergere la figura di un abile e valoroso
combattente, Hissène Habré. Dopo aver sconfitto il
Frolinat, la Francia instaurò un duplice comando con
Habré in qualità di Presidente e Malloum, appartenente
a una diversa tribù, come
capo di stato. Ma la situazione precipitò e nella lotta per
il potere tra Habré e Malloum, persero la vita migliaia di persone. La Francia
chiese allora le dimissioni di
entrambi i leader e la pace
fu restaurata per alcuni
mesi. Tuttavia, con la capitale N’Djamena occupata da
cinque differenti eserciti,
non passò molto tempo che
si riprese a combattere.
Il nuovo governo filolibico
durò soltanto sei mesi, fino
a quando nel 1982, le truppe di Habré marciarono
nuovamente vittoriose sulla
città. Il Frolinat, respinto verso nord, era ancora attivo
quando nel 1985 il suo leader fu arrestato dalle autorità libiche per tradimento.
Da allora tutti i ribelli si coagularono in una dura battaglia contro la Libia. Con
l’appoggio della Francia, le
truppe libiche furono respinte e il loro leader Gheddafi, dopo il verdetto della
Corte Internazionale di giustizia dell’Aja, firmò un accordo con il quale rinunciava alla fascia di Aozou. Nel
1990 un colpo di stato portò
al potere il consigliere militare Idris Déby. Nonostante
gli accordi di pace siglati nel
2002 e nel 2003 tra il Ciad e
la Libia, sono ancora frequenti i raid di guerriglia tra
le rispettive truppe, cosa che
fa presagire che il rischio di
un conflitto tra i due paesi
non sia stato ancora scongiurato. Le elezioni del 2001
sono state vinte da Déby,
sebbene un quarto delle
schede siano state annullate per irregolarità.
Popolazione: una scarsa
omogeneità contraddistingue la popolazione del Ciad,
dove sono presenti più di
duecento etnie su quasi dieci milioni di abitanti. Il contrasto che oppone le popolazioni del nord, formate da
berberi, arabi e sudanesi a
quelle meridionali, composte essenzialmente dal gruppo etnico dei sara, è ancora
molto forte. Da non sottovalutare la presenza nel Paese di numerosi profughi
provenienti dal Darfur.
Religione: a nord del Paese la popolazione segue
principalmente l’islamismo,
mentre al sud si è affermato il cristianesimo (si registra anche la presenza di
piccole comunità protestanti ed evangeliche). Sono
molto praticate inoltre le
credenze animiste.
Economia: Le indubbie difficoltà ambientali e le ricorrenti siccità minano alla
base lo sviluppo del Paese:
l’80% della popolazione vive
ancora sotto la soglia di povertà. Secondo l’indice di
sviluppo 2005 delle Nazioni Unite, il Ciad si trova al
173° posto tra le 177 nazioni più povere al mondo.
Molto importanti sono i
depositi di bauxite, oro e
uranio, scoperti recentemente nella fascia di Aozou,
che però non sono stati ancora sfruttati per insufficienza di infrastrutture. In
un Paese dove ancora i tre
quarti della forza lavoro
sono impiegati nell’agricoltura e nella pastorizia, le
speranze per il futuro sono
riposte nello sfruttamento
dei pozzi petroliferi scoper-
FRATERNITÀ
Nello Giostra
ti nel 2003 presso Doba. La
quantità di petrolio è stimata in un miliardo di barili e potrebbe costituire
una notevole fonte di benessere per la popolazione. In base a un accordo
stipulato con la Banca
Mondiale, il governo del
Ciad deve investire l’80%
dei ricavi nel sociale. Tuttavia, la società civile dubita che il Governo Deby
userà quel denaro per aumentare il budget per lo
sviluppo, temendo seriamente che quelle somme
verranno utilizzate per
l’acquisto di armi finalizzate alla difesa del vacillante regime.
Situazione politica e relazioni internazionali: la
situazione del Ciad sembra essere sull’orlo di un
precipizio. I ribelli del Fuc
(Fronte unico per il cambiamento) si sono ormai
attestai alle porte della capitale e controllano quasi
l’80% del Paese. Cominciata nell’ottobre 2005, con la
diserzione di alcuni contingenti dell’esercito, fuggiti al confine con il Sudan, la ribellione si è ingrossata, raccogliendo alti
ufficiali delle Forze Armate, ex collaboratori di Deby
e i vecchi sostenitori di
Habré. La politica autoritaria del Presidente, che
non ha saputo neanche
sfruttare la manna petrolifera, unita alla diffusa
corruzione (nel 2005 Transparency International ha
assegnato al governo la
palma della corruzione
mondiale) hanno scontentato non solo la popolazione, ma anche i vertici dello stato. Il potere di Deby
è ora garantito da una ristretta cerchia di suoi fedelissimi e dall’appoggio
della Francia, che mantiene nel Paese un contingente di 1500 soldati. Nell’aprile 2006 il Governo ha
annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche
con il Sudan, accusato di
aver fornito basi logistiche, aiuti finanziari e copertura politica ai ribelli
del Fuc.
❑
Sono pessime
Domenica sera ricevetti una
telefonata da una persona
che ho seguito da anni. Sapevo, però, che si trovava in
carcere a Roma; invece mi
chiamava dalla mia città. A
suo tempo lui mi fu presentato da un pastore evangelico. Si trattava di un giovane pugliese che risiedeva ad
Atene in carcere perché accusato per traffico di droga.
Interpellato a suo tempo
tramite un missionario che
incaricai sul posto mi fu
sempre riferito che la povertà costringe spesso a subire
vessazioni. Questa stessa
persona mi pregò di far avvicinare la sua famiglia che
si trovava in Colombia ed io
con l’aiuto del Signore riuscii nel programma e, con
l’intervento dell’Ambasciata
Italiana del posto, a raggiungere lo scopo. Ora la famiglia si trova nella mia città e lui è venuto qui agli arresti domiciliari con problematiche grandi. Non può
deambulare e ha bisogno di
una carrozzella e di un letto particolare. È vero che la
Asl dovrebbe provvedere ed
è su questa linea che si sta
adoperando una delle figlie,
compresa la mia persona.
Ma le condizioni dell’amico
in parola sono pessime; anche la moglie è ricoverata in
ospedale per un intervento.
I debiti si accumulano...
Vorrei chiedervi, cari Rocchigiani, di manifestare la
vostra comprensione e solidarietà verso questa famiglia tanto tribolata. Un vivo
ringraziamento per l’attenzione prestata. I.S.
È necessario avere Cristo
nel cuore
Sono sicuro che con la vostra collaborazione e l’appoggio di tutti i nostri amici
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
possiamo dotare i vari villaggi ubicati sulle rive del rio
Cayapas di una scuoletta decorosa. Sto visitando numerose comunità in questa
zona dell’Ecuador per l’amministrazione della Cresima
ai giovani che per due anni
hanno frequentato il catechismo; sono stati preparati da catechisti ben formati,
saggi, vere guide spirituali.
Incontrare questi gruppi e
amministrare loro il sacramento della Cresima è
un’esperienza ricca e meravigliosa, anche se il cammino per raggiungere le loro
comunità risulta spesso difficile e faticoso. Continuiamo ad aiutare la nostra gente con diversi progetti agricoli perché non manchi almeno il loro alimento quotidiano: il riso. Le coltivazioni a ciclo corto sono quelle
che più piacciono, perché i
raccolti si vedono a breve
termine e rispondono alle
necessità più immediate. Il
problema maggiore di questi tempi riguarda i ragazzi
dei rioni più poveri che si
raggruppano in bande e lottano tra di loro... Ogni settimana possiamo contare vari
morti dall’età di 15 ai 20
anni. La facilità di ottenere
droga e armi, la violenza che
si attiva dalla vicina Colombia sono le radici di questo
difficile problema. Però per
seminare dovunque la pace
è necessario avere Cristo nel
cuore e sarà la sua presenza
in noi che irradierà la pace
intorno a noi: il vostro lavoro allora sarà orientato ad
aiutare perché le persone si
scoprino amate da Dio! I diversi progetti che sono iniziati vanno avanti bene; que-
st’anno sono aumentati il
numero delle scuolette nella zona rurale e i lavori di
costruzione dei nuovi laboratori di meccanica, di falegnameria, ma vanno adagio... Che il Signore ripaghi
tutto il bene che fate. Mons.
E.A.
La Ditta è fallita
Consigliata dal mio Parroco, del quale allego la presentazione, mi permetto di
scrivere a «Fraternità» per
chiedere un aiuto. Mio marito, che ha 53 anni, fa il
marittimo e ultimamente
lavorava in Sicilia; da sette
mesi è disoccupato perché
la ditta è fallita. Entrambi
abbiamo problemi di salute e bisogno di cure mediche. Dobbiamo da pagare
cinque mesi di affitto per la
casa dove abitiamo e i proprietari minacciano di
sfrattarci. Inoltre abbiamo
diverse bollette dell’Enel e
del gas accumulate... Siamo senza alcun aiuto; solo
qualche vicino di casa e il
nostro parroco ci offrono
un po’ di alimenti. I notri
due figli lavorano saltuariamente e avendo entrambi
famiglia riescono a stento
a sopravvivere dovendo pagare l’affitto e le spese fisse
indispensabili... Vivevamo
abbastanza serenamente,
ma ora siamo disperati. Un
aiuto anche piccolo può
aiutarci a superare questo
momento. Spero tanto che
mio marito possa trovare
qualcosa da fare per vivere; io sono cardiopatica e
non posso fare lavori pesanti... Grazie di cuore.
R.G.
Sempre grande è la gratitudine dei sofferenti più bisognosi che ricevono un aiuto:
... carissimi, aprendo la vostra lettera l’emozione è stata forte trovando un’offerta
di cento euro. Grazie infinite a tutti i benefattori. Questa somma servirà per pagare i medicinali. Il buon
Dio è tra voi! D.R. «Da offerte libere»
... grazie di cuore per tutto
quello che state facendo per
noi. Il vostro dono di 200
euro è arrivato come la divina provvidenza; dovevo pagare un debito per la legna
di 180 euro... Vi abbraccio
tutti P.R. «Da offerte libere»
... non ho parole per esprimere la gioia e la commozione insieme che con mia
madre ho provato nel ricevere mille euro, dono dei
generosi amici di «Fraternità». Siete riusciti ad alleviare un po’ il mio disagio economico, le mie sofferenze
che non finiscono mai. Mia
madre per me è preziosissima, ma ha bisogno ormai
sempre di qualcuno per accudirmi. Vi abbraccio con
affetto e vi ringrazio ancora
tantissimo. F.V. «Non basta»
... subito faremo avere alla
cara missionaria Luigia l’offerta di 500 euro per i suoi
bambini poveri in Tanzania.
Un grazie sentito e riconoscente per la generosità
grande dei vostri Rocchigiani. Auguriamo a tutti ogni
bene e preghiamo. M.M.
«Da offerte libere».
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana –
06081 Assisi.
63
ROCCA 1 GIUGNO 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
Rocca/foto
d’archivio
Giuseppe G. Pino
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N°11 – 1 Giugno - Rocca - Pro Civitate Christiana