Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Il secondo pantano Ripartire dalla Costituzione Lupi a difesa del gregge Fine del fattore K Culture e religioni raccontate: La musica della balena azzurra $# ANNO NUMERO 11 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia 1 giugno 2006 e 2,00 Dal bipartitismo imperfetto al bipolarismo conflittuale Il dissesto idrogeologico italiano Garantismo Di fronte al pluralismo religioso Giuda coscienza scomoda la polveriera mediorientale TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X Rocca sommario 4 8 12 13 15 16 18 occa non è un passatempo è utile falla conoscere per presentarla sono disponibili COPIE SAGGIO degli ultimi numeri richiederle specificando la quantità desiderata a Rocca - cas. post. 94 - 06081 Assisi (Pg) oppure e-mail: [email protected] 21 22 24 27 28 31 1 giugno 2006 32 34 37 11 40 43 Ci scrivono i lettori 44 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Valentina Balit Notizie dalla scienza 46 Vignette Il meglio della quindicina 49 Raniero La Valle Resistenza e pace Ripartire dalla Costituzione 50 Maurizio Salvi Polonia Ultracattolica e un po’ antisemita 52 Enrica Piovan Internazionale La polveriera mediorientale 54 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Lupi a difesa del gregge 57 Filippo Gentiloni Politica italiana Fine del fattore K Fiorella Farinelli Inchiesta Gioc La paura dei giovani Romolo Menighetti Parole chiave Garantismo Pietro Greco Ambiente Il dissesto idrogeologico d’Italia Oliviero Motta Terre di vetro Una buona giornata Luciano Bertozzi Afghanistan Il secondo pantano Giannino Piana Etica politica economia Sussidiarietà e solidarietà Giuliano Della Pergola Società Dal bipartismo imperfetto al bipolarismo conflittuale Rosella De Leonibus Cose da grandi Disuguali, diversi, differenti Stefano Cazzato Lezione spezzata Una giornata da soprannumerario 58 58 59 59 60 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Maestri del nostro tempo Ugo Spirito La ricerca come speranza d’assoluto Marco Gallizioli Culture e religioni raccontate La musica della balena azzurra Adriana Zarri Controcorrente La realtà e l’utopia Carlo Molari Teologia Di fronte al pluralismo religioso Rosanna Virgili La voce del dissenso Il frutto dolce o amaro del lavoro Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Giuda coscienza scomoda Giacomo Gambetti Cinema Il tallone d’Achille Il mio miglior nemico Roberto Carusi Teatro Mozart delle marionette Renzo Salvi RF&TV Ulisse Mariano Apa Arte Metropolis Giuliano Della Pergola Mostre Una riproposta dei Macchiaioli Michele De Luca Fotografia Neorealismo Giovanni Ruggeri Siti Internet «.eu» come Europa Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Ciad Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 11 – 1 giugno 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 1 GIUGNO 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 16/05/2006 e spedito da Città di Castello il 19/05/2006 4 Parlate pure tanto... Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Quali accorgimenti dovrebbe adottare la Conferenza Episcopale per esternare le proprie legittime raccomandazioni senza dare l’impressione di voler privilegiare un determinato schieramento politico? In altri termini, come può la gerarchia farsi Chiesa nella Gerusalemme terrena? Innanzitutto è necessario un intervento a trecentosessanta gradi che spazi su tutte le tematiche della dottrina morale e sociale del cristianesimo; ciò al fine di evitare che alla opzione prioritaria verso la famiglia, sulla quale la Cei insiste giustamente, si possa contrapporre con altrettanto fondamento la centralità della società, della economia, della pace o dell’ambiente. Il secondo paletto è dato dalla puntualità e dal rigore delle indicazioni: non pare ad esempio molto coerente un appello generico alla pace non accompagnato dalla condanna senza mezzi termini del teorema della guerra preventiva o della azione bellica volta ad esportare democrazia, che si pone in aperto conflitto con il divieto morale di perseguire un fine lecito tramite un mezzo illecito. Infine quello che può essere considerato il tassello fondamentale, vale a dire il ruolo dei laici ai quali, sulla base degli insegnamenti conciliari, spetta il compito di calare i principi e i valori nella realtà di ogni giorno e quindi la responsabilità nel ricercare le soluzioni concrete facendo leva sul giudizio della propria coscienza. È chiaro che individuare un giusto equilibrio tra il diritto della Chiesa ad esprimere le proprie legittime opinioni e il rischio di invadere le competenze di uno stato sovrano richiede notevole dose di discernimento; se tuttavia le prolusioni fossero esternate dopo avere ascoltato anche le comunità che a vario titolo rappresentano il variegato mondo della laicità, nel senso conciliare del termine, allora ogni ipotetica imputazione di invasione di campo non avrebbe alcuna ragione di essere. In caso contrario il rischio non sarebbe la ricorrente accusa di ingerenza quanto quello di sentirsi dire: «Prego parlate pure, tanto...». Aldo Abenavoli Roma Mi congratulo con voi Mi riferisco alla lettera di Luisa Spranzi pubblicata nel n. 9 di Rocca. Cara Signora, la sua lettera sembra più uno sfogo per la sconfitta elettorale del centro-destra, che un appello ai valori della Cristianità. Se non è accettabile che qualche politico distribuisca gratuitamente insulti e offese agli elettori, a maggior ragione è inammissibile che lo faccia lei. Ma chi è lei per arrogarsi il diritto di offendere, accusare, giudicare? Non bestemmi parlando impropriamente di valori Cristiani e di Spirito Santo. Dalla sua arida lettera non traspare mai un benché minimo senso di umanità (tanto meno di cristianità); al contrario sembra che alberghi in lei l’odio più profondo verso i suoi simili. Un consiglio rilegga e/o si faccia spiegare il Vangelo. Pietro Annovi Torino Cara signora Luisa Spranzi, sono una di quelle «ipocrite donne di chiesa che mentre si proclama credente e praticante si fa sorda agli avvertimenti del Papa» (ma sarà proprio così?). A differenza sua io ho smesso di giudicare le altre persone secondo le mie catego- rie. Le porto solo la mia esperienza personale, credo comune a tante famiglie non ricche di denaro, ma dignitosamente ricche ancora di speranze per i propri figli. Unica nostra ricchezza sono quattro figli (dai 17 agli 8 anni) e una casa di campagna ancora da terminare di pagare. Viviamo nella rossa Emilia e se 17 anni fa non avessimo avuto tutti quei servizi (asili nido, campi estivi, scuole pubbliche qualificate) che mi hanno permesso di mantenere un lavoro stabile, non avremmo potuto realizzare il nostro progetto di maternità e paternità responsabile. Cosa ce ne faremmo ora del bonus bebè senza quelle strutture pubbliche ora tutte privatizzate ed estremamente costose? Cosa ce ne facciamo ora della serietà e dell’impegno di tanti insegnanti pubblici, che per dirne una, non vedono sostituite le loro assenze per malattia, perché i fondi per la scuola sono stati tagliati e si può stare anche un mese parcheggiati senza l’insegnante d’italiano? Si possono fare molte azioni propagandistiche, ci si può riempire la bocca di parole sonanti a favore della famiglia, ma quando manca un progetto di solidarietà sociale lungimirante restano solo gli speccchietti per le allodole e le trovate pubblicitarie. In realtà non so se rallegrarmi del nuovo governo, so di certo che non potevo condividere il sistema etico di quello precedente. Imperniato attorno ai valori del successo, del prestigio per ciò che appare bello e potente, della competitività e della prevaricazione, del dispregio e del dubbio per le intenzioni dell’altro, della continua mistificazione nella lettura dei fatti e delle idee. Avrei voglia di una società più pulita, dove i nostri figli possano realizzare i loro sogni più autentici (non quelli indotti) senza prevaricare gli altri, o dove almeno si possa ancora sognare. Per questo invoco lo Spirito Santo, perché ci dia occhi per vedere al di là delle apparenze e orecchie per sentire le voci che non urlano. Mentre narravo ai bambini del catechismo la «lavanda dei piedi» un bambino di 8 anni mi ha detto: «ma allora Gesù è un capo al contrario!». Sì, è questa l’utopia che vorrei: dei capi che si fanno servi, nella politica e nella chiesa. Marina Galletti Renazzo (Fe) Vi invio queste righe (che spero non siano troppe) dopo la lettura della lettera «Mi congratulo con voi» pubblicata sul n° 9/06. Sono un prete e solitamente non scrivo a riviste, ma stavolta non ho potuto resistere. Onore a voi che, giustamente date spazio a tutte le voci, ma non posso tacere sul contenuto di quella lettera. La ricchezza in sé non è peccato? Mi sembra di ricordare che qualcuno ha detto: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Un sodale di Francesco Caruso? No, Gesù di Nazaret che è (ancora, credo) il Maestro per tutti noi, per la comunità dei credenti. E colui che ha detto (cito a memoria): «È del povero il mantello che tieni custodito nel tuo armadio» è forse un amico di Luxuria? No, è S. Basilio Magno, padre della Chiesa. E colui che ha scritto: «E ora a voi, o ricchi. avete accumulato tesori per gli ultimi giorni»? S. Giacomo apostolo. E un altro pericoloso figuro che ha asserito: «All’interno della comunità cristiana non deve esservi una forma di cep centro educazione permanente 15-30 luglio CORSO QUADRIENNALE DI MUSICOTERAPIA Assisi IL CORSO SI ARTICOLA IN: • uno stage residenziale estivo di due settimane ogni anno • un tirocinio di 250 ore dopo la frequenza del 2° anno REQUISITI DI AMMISSIONE: diploma di scuola secondaria superiore e diploma di Conservatorio o almeno del compimento medio Il CORSO QUADRIENNALE, istituito sin dal 1981, è finalizzato all’acquisizione di competenze musicoterapiche di base, utilizzabili in differenti contesti (educativo-preventivo, riabilitativo, terapeutico e di integrazione sociale). ROCCA 1 GIUGNO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI PER INFORMAZIONI E ISCRIZIONI centro educazione permanente Cittadella - 06081 Assisi (PG) tel./fax 075812288 e-mail: [email protected] sito internet: http://www.cittadella.org I N 5 CI SCRIVONO I LETTORI 6 Enzo Pacini Prato (Fi) Cosa giova alla causa della pace «Al servizio della pace» è il titolo di copertina di «Famiglia Cristiana» n. 19 del 7 maggio 2006 che, a pagina 3 contiene l’articolo «I nostri ragazzi nella via dell’amore» scritto da monsignor Gaetano Bonicelli. Stridenti, con i suoi segni distintivi di religioso cristiano, sono le argomentazioni che il Monsignore fa sulla morte di questi ragazzi che tutti abbiamo pianto. Citare l’esempio di Cristo che, nella sua missione di pace, ha indicato con chiarezza come, con quali mezzi e con quali strumenti, si porta la pace nel mondo non è il caso: è scontato che sono in netto contrasto con quelli che stanno usando anche i nostri soldati. Mi voglio limitare ad un’analisi più laica delle dolorose vicende che quotidianamente, per televisione, vediamo. Tutti siamo d’accordo nel volere la pace (il fine), ma è sul come, cioè con quali mezzi, con quali strumenti che ci si divide. C’è chi crede ci si possa arrivare solo con il dialogo (la Politica) cioè con un mezzo diverso, anzi contrapposto a quello usato da quelli che noi abbiamo definito «terroristi», ma che gli arabi chiamano «resistenti». Chi ritiene lecito usare anche lo strumento bellico per «pacificare» parte dalla presunzione di essere detentore assoluto della verità e della giustizia e che, pertanto, la sua «missione» è portare questi valori in giro per il mondo. Chi, invece, al contrario considera illecito usare lo strumento bellico e vede solo la via del dialogo, parte dal presupposto che ogni uomo, ogni etnia, ogni popolo e ogni religione detiene, nella sua storia, verità e giustizia. Credo non giovi alla causa della pace esaltare questi poveri ragazzi morti in questa che noi italiani ci ostiniamo a definire «missione di pace». Credo non giovi neanche attribuire loro presunte idealità o considerarli portatori di chissà quali valori come fa su «Famiglia Cristiana» il monsignor Gaetano Bonicelli. I nostri soldati morti in giro per il mondo certamente meritano rispetto, ma il sentimento prevalente che io provo è la compassione. Sì, compassione perché, vedendo la folla inferocita accanirsi contro i corpi dei soldati inglesi dell’elicottero abbattuto qualche giorno fa, mi sembra che siano tutti morti invano. Compassione, sia per i soldati a servizio di uno Stato, sia per i civili a servizio di privati come guardie del corpo, perché penso che per molti di loro è solo un lavoro: il lavoro è per vivere non per morire. Compassione anche per i politici che hanno deciso di mandare questi ragazzi in guerra (quando si usano le armi che uccidono è sempre e solo «guerra») perché chi è nella presunzione di avere solo egli la verità e la ragione è un povero uomo in quanto si è precluso ogni possibilità di comprendere la verità e la ragione del suo simile: a torto egli pensa che «il fine giustifica i mezzi». «Il fine è nei mezzi» dal momento che riconosco ogni persona, popolo, etnia o religione, portatore di un fascio di luce di verità e di giustizia, non posso pensare di liberarlo usando le armi che lo possono uccidere. Ogni persona che, nel conflitto armato, muore è un fascio di luce che si spegne. Tanti fasci di luce sono stati spenti negli ultimi anni: non si sa quanti, centinaia di migliaia forse più, non importa a quale popolo appartenevano, non importa quale divisa indossavano e se la divisa non la indossavano proprio, importa solo che il mondo è diventato più buio. Fermiamoci, invertiamo la rotta prima di arrivare al buio totale perché lo scontro tra culture è di nuovo all’orizzonte. Ritroviamo il dialogo rico- novità noscendo anche nell’altro (diverso da noi) la luce della verità, della ragione e della giustizia. La «Storia» ha dimostrato l’infondatezza del motto fascista «La pace riposa sulla forza delle nostre armi». Questa è la pace di colui che si sente superiore agli altri e la sua missione è quella di «esportare» verso altri popoli i suoi valori superiori. Nel 1600 ha esportato la religione Cristiana agli «Indios senza Dio» del Nuovo Mondo; nell’800 ha esportato la civiltà alle tribù di cannibali dell’Africa nera e alle tribù dei selvaggi pellerossa del «Far West»; oggi nel 2000 vuole esportare la libertà e la democrazia ai retrogradi arabi: pare che la Storia non sia stata abbastanza maestra. La pace, la vera pace riposa sulla forza della ragione (della verità per il cristiano) e questa forza è presente in ogni uomo che vive sulla faccia della terra. Cosa giova allora alla causa della pace? Giova riconoscere al fratello (concretamente nei fatti) il diritto di vivere non lasciandolo morire di fame nella nostra più totale indifferenza. Giova trovare il coraggio di mettere in discussione il nostro modello economico sociale che, di fatto, abbiamo imposto a tutto il mondo. Giova tener presente che il primo diritto, sacro e inviolabile, di ogni uomo è il diritto naturale di vivere e quando il nostro «Diritto commerciale» determina morte per fame e miseria dilagante per oltre l’80% delle persone che vivono sulla Terra, non resta che riconoscerne il suo fallimento. Giova tener presente che tutti i cosiddetti «diritti positivi» introdotti dall’uomo non possono che essere strumenti per produrre e distribuire equamente i frutti della Terra per unico scopo: perseguire il diritto naturale di ogni persona cioè nutrirsi, vestirsi ed avere un riparo dalle intemperie. Giuseppe Angelini Il tempo e il rito Alla luce delle Scritture pagg. 344 Leonardo Boff La preghiera semplice di Francesco Un messaggio di pace per il mondo attuale pagg. 128 Giovanni Benassi Dal Presepe al Vangelo pagg. 160 • Carlo Broccardo La fede emarginata Analisi narrativa di Luca 4-9 pagg. 360 • Emanuele Marini Vita corpo e affettività Nella fenomenologia di Michel Henry pagg. 240 Francesca Tuscano (a cura di) Pier Paolo Pasolini Intellettuale del dissenso e sperimentatore linguistico pagg. 264 • Rinaldo Fabris I VANGELI - MARCO Traduzione e commento di Rinaldo Fabris pagg. 392 www.cittadellaeditrice.com ret un giorno disse: «... coloro che hanno il potere si fanno chiamare benefattori» e com’è vero questo! Ma aggiunse subito: «fra voi non sia così» (Lc 22,25). • D. Valli - G. Piccinni (a cura di) Tonino Bello al suo paese I discorsi del decennale (1993-2003) pagg. 112 • Francesco Testaferri Ripensare Gesù L’interpretazione ebraica contemporanea di Gesù Prefazione di C. Dotolo pagg. 224 • • Giovanni Cesare Pagazzi Il polso della verità Memoria e dimenticanza per dire Gesù pagg. 136 • D. Valli - G. Piccinni (a cura di) L’ecclesiologia in don Tonino Bello tra testimonianza, profezia e santità pagg. 168 Fabiola Falappa Il cuore della ragione Dialettiche dell’amore e del perdono in Hegel pagg. 208 ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 povertà tale che a qualcuno siano negati i beni per una vita dignitosa» è forse un seguace dell’esecrabile cattocomunismo? Tutt’altro, è papa Benedetto XVI nell’ultima enciclica. Ma la signora mi dirà: «Se nessuno dev’essere povero allora la ricchezza è cosa buona!» No, signora, cosa buona è la fraternità, la condivisione. Anche perché è proprio la ricchezza in mano a pochi che produce la povertà altrui. E anche volendo essere campanilisti ricordiamo che buona parte dei poveri del mondo sono pure cristiani, quindi due volte nostri fratelli per la fede e l’umanità comuni. Certo un famoso padre della Chiesa, s. Clemente, si domandò se il ricco si sarebbe potuto salvare e, secondo lui, sì, ma a certe condizioni. No, non esponendo il crocifisso in ufficio, ma, come la Chiesa, almeno nel suo magistero recente, ha sempre detto, conservando una finalità sociale per il bene comune. Detto in parole semplici producendo lavoro, occupazione, ecc. Cosa che il capitalismo rampante di questi tempi non fa, perché basato in gran parte su speculazioni finanziarie che non producono un bel nulla (se non per le tasche di chi le fa). Ma la difesa della vita? Vede, signora, da mattina a sera incontro persone che hanno problemi non solo a mettere al mondo i figli ma anche a farceli stare. Quindi problemi di salute, ticket da pagare, bollette, case che non si trovano, sfratti, persone anziane che non hanno assistenza: anche queste sono vite! Un governo che continua a togliere risorse allo stato sociale e ad accrescere le spese in altri settori: grandi opere, spese militari, tanto per fare due esempi è a favore della vita? O la pretesa difesa della vita è un’esca per gonzi, un «do ut des» per far passare sotto silenzio tutte le altre nefandezze che vengono compiute ogni giorno? Sempre il Maestro di Naza- Per informazioni e ordinazioni: Tel. 075.813595 • Fax 075.813719 • E-mail: [email protected] cittadella editrice - assisi Paolino Bertazzo Servigliano (Ap) 7 7 8 ATTUALITÀ Sudan speranze di pace per il Darfur Atene concluso il social forum europeo Napoli se hai voglia di piangere non farlo Spagna schiarita sul lavoro precario Italia a favore di un’amnistia L’accordo di pace firmato il 5 maggio ad Abuja (Nigeria) sul Darfur dovrebbe riportare la calma in questa regione sconvolta dal 2003 da uno dei più violenti conflitti del mondo. Si ricorderanno gli sforzi degli ultimi due anni per la pacificazione della zona meridionale con la decisione di un referendum per l’indipendenza fissato nel 2010. Ma resta il nodo del Darfur (Ovest del Sudan). L’attuale negoziato, condotto dal segretario di Stato aggiunto americano Robert Zoellik, ha riportato un sia pur parziale successo. Si sa che Washington vuole preservare il Sudan dalla questione terroristica, e c’è stato un impegno notevole, anche se l’accordo è stato firmato soltanto da una delle tre milizie ribelli che lottano per una migliore ripartizione delle ricchezze del Paese e contro la pulizia etnica praticata dagli arabi con il consenso del governo di Kartum. L’accordo rischia dunque di non essere recepito da tutto il territorio e, tuttavia, ha aperto la speranza che non continui il brutale massacro (180.000 morti e i quasi 2 milioni e mezzo di persone costrette a fuggire per trovare rifugio). A fronte dei tentativi di pacificazione condotti dall’Unione Africana (Ua), che negli anni scorsi non sortirono alcun risultato e i cui soldati attualmente non riescono a far rispettare il cessate-il-fuoco, l’accordo di Abuja ha inserito una clausola per la quale potrà intervenire una forza dell’Onu per rimpiazzare i soldati dell’Unione. La pace però non sarà raggiunta se la comunità internazionale non continuerà a sostenere il programma alimentare per queste popolazioni stremate dalla violenza, le cui campagne non garantiscono neppure la sopravvivenza. La manifestazione conclusiva del IV Social Forum europeo ha visto sfilare il 6 maggio ad Atene gli 80.000 partecipanti dei movimenti sociali di tutta Europa. Nella loro dichiarazione finale si legge: « Siamo venuti ad Atene, dopo giorni di comuni esperienze di lotta contro la guerra, il neoliberismo, tutte le forme di imperialismo, il colonialismo, il razzismo, la discriminazione e lo sfruttamento, contro ogni rischio di catastrofe ecologica . Qest’anno è stato estremamente significativo per il numero di lotte sociali e campagne che hanno vittoriosamente bloccato progetti neoliberisti come quelli avanzati nel trattato di Costituzione europea, la Direttiva di Eu Ports e il Cpe in Francia». Definito l’ambito dell’impegno del Forum, la dichiarazione passa in rassegna i nodi politici più inquietanti «L’attuale situazione ci offre molte opportunità, ma anche gravi pericoli. L’opposizione e la resistenza alla guerra e all’occupazione dell’Irak hanno reso palese il fallimento della strategia degli Usa e della Gran Bretagna. Il mondo sta affrontando l’incubo di una nuova guerra in Iran. L’arbitraria decisione di tagliare i fondi all’Autorità nazionale palestinese è inaccettabile». E successivamente il testo si sofferma sulla condizione di precariato e di politiche lavorative liberiste in Europa, rifiutandole. Siamo per «un’altra Europa, un’Europa femminista, ecologista, un’Europa aperta, di pace, di giustizia sociale, di vite dignitose, di sovranità e solidarietà alimentare, nel rispetto dei diritti delle minoranze e dell’autodeterminazione delle persone». La dichiarazione si conclude auspicando un migliore coordinamento tra i movimenti dell’Est e dell’Ovest. Settanta ragazzi di due scuole di Napoli, precisamente del rione Scampìa e di un’associazione Rom hanno riportato in scena un classico, «La pace» di Aristofane, irridente commedia contro la guerra. Merita di essere citata come iniziativa teatrale riuscita. Ma non solo: i ragazzi si sono fatti interpreti di una vera e propria provocazione politica. Dalla periferia dell’Antica Atene e dall’Olimpo greco la scena si è trasferita nella degradata e violenta periferia napoletana e a interpretare gli dei e gli eroi sono stati – trascinanti per immediatezza e inventiva – i ragazzi istruiti dallo Stabile partenopeo per la regia di Marco Martinelli. Nell’originale, la vicenda trattava di un cittadino ateniese che, stanco delle guerre con Sparta, decide di salire al cielo su uno «scarabeo stercorario» per ricondurre la dea Pace in terra. La trasposizione della commedia, che in due serate di spettacolo ha raccolto una folla straripante, è riuscita a lanciare a Scampìa il messaggio costruttivo: «se qualche volta hai voglia di piangere, non farlo». Il governo Zapatero ha ottenuto il consenso dei sindacati e dell’imprenditoria per una legge che frena la prassi dei contratti a termine. L’accordo è stato firmato il 9 maggio e dovrebbe entrare in vigore il 1° luglio. La prima disposizione di tale negoziato mira a contrastare la pratica molto diffusa per la quale, invece di un contratto fisso, vengono stipulati successivi contratti a tempo determinato per gli stessi lavoratori impegnati nello stesso lavoro. Il secondo asse della legge riguarda quelle imprese che trasformeranno gli impieghi precari in impiego fisso, entro la fine dell’anno: queste riceveranno un bonifico ( tra gli 800 e i 1200 euro all’anno) sui contributi assicurativi per i lavoratori, per tre anni. Il governo valuta più di un milione e mezzo il numero di impieghi precari che, grazie a questa riforma, dovrebbero convertirsi in impieghi fissi, anche se sottolinea che la riuscita dell’operazione dipenderà «dalla volontà di tutti» e anche se non mancano le critiche di chi auspica un maggiore vigore governativo. In visita al carcere di Arezzo, il cardinale Renato Martino ha rivolto al nuovo Parlamento italiano l’appello perché venga approvato al più presto un provvedimento di clemenza per i carcerati. Ricordiamo che anche papa Giovanni Paolo II lo aveva fatto durante la sua visita in Parlamento, il 14 novembre 2002, quando rilevò: «Senza compromettere la necessaria tutela della sicurezza dei cittadini, merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento». Il «Corriere della Sera» del 14 maggio pubblica una foto, risalente al Natale 2005, in cui si notano il neo presidente Giorgio Napolitano e l’on. Emma Bonino nella marcia per l’amnistia. La sollecitazione è ora condivisa anche dal presidente della Camera Bertinotti. Il mensile «Famiglia oggi» nel numero speciale di maggio (www.famigliaoggi.it) dedica al problema famigliare dei detenuti, che sono quasi sessantamila nel nostro Paese, uno studio documentato e importante, indicando anche il ruolo ineludibile di tutta la società civile. Thailandia la prima donna «bonzo» Difficile tradurre al femminile «bonzo», sacerdote buddista, ma Dhammananda è proprio una sacerdotessa buddista, donna ordinata «bikkunni», dopo otto secoli di assenza del fenomeno nel Sud Est asiatico (nella foto). È la sola in Thailandia abilitata a portare il «civara», l’abito di seta color zafferano, tradizionalmente indossato dai bonzi. Chatrumarn Kabilsingh (è il suo nome laico) è stata presidente e co-fondatrice dell’organizzazione internazionale Sakyadhita (Figlie di Buddha); si è laureata filosofia con una tesi sul femminile del monachesimo; lavora al Ministero della cultura come responsabile degli studi indiani; ha tre figli. Ha percorso un cammino spirituale che l’ha portata gradualmente all’ordinazione, anche se non sono mancate le critiche e persino le minacce dei monaci tradizionalisti. Dimostrando il suo collegamento col buddismo primitivo, Dhammananda si fa apostola del movimento dell’uguaglianza femminile; organizza preghiere e opere di carità. Israele non tirate sassi agli scolari C’è stato un appello il 10 maggio da parte di oltre trenta intellettuali israeliani al premier Ehud Olmert perché intervenga a fermare i coloni che lanciano sassi al passaggio dei bambini palestinesi che vanno a scuola. Succede ogni mattina intorno al villaggio di Umm-Tuba, tra le colline a sud di Hebron, dove sono gli avamposti ebraici di Maon. Ci sarebbe già una scorta israeliana, ma non reagisce agli attacchi; i volontari europei che difendono gli scolari sono anch’essi oggetto di aggressione. Tra i firmatari dell’appello, gli scrittori Amos Oz, David Grossman, Saed Kashua, Meir Shalev, il filosofo Avishal Margalit, il musicista Ehud Banal. Chiedono che l’esercito garantisca ai ragazzi palestinesi di poter raggiungere la scuola: «Il diritto all’educazione- scrivono- è un diritto umano fondamentale che lo Stato d’Israele ha la responsabilità di tutelare. Le autorità devono applicare la legge contro i coloni di Maon» . ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 10 ATTUALITÀ Torino l’avventura del libro continua Bolivia dopo i giacimenti di gas le terre Da un po’ di anni, molti danno per imminente la morte del libro. Tra i temibili nemici, in ordine di tempo: il cinema e la televisione, il computer e internet, infine l’ebook. Ma come l’araba fenice il libro sembra sempre risorgere dalle sue ceneri grazie ad un supporto dimostratosi fino ad oggi imbattibile: la carta. La Fiera del Libro di Torino (4-8 maggio) con i suoi 300 mila visitatori è l’ultima conferma. Una grande kermesse con la presenza di editori, di realtà istituzionali (regioni, Senato, ministeri) e una «contaminazione» con la cultura in senso antropologico grazie a Slow food. Il tema «L’avventura continua» ha fatto da collante ad un fitto programma di appuntamenti. Accanto ai tradizionali spazi dedicati ai ragazzi, agli operatori professionali e all’attualità, si è aperto lo spazio «Oltre» per i giovani dai 14 ai 19 anni, con l’intento di sedurre la fascia di età che sembra essere il buco nero della lettura. Di grande interesse lo spazio «Lingua Madre», dove si sono presentati una quarantina di scrittori delle periferie del mondo. Per il secondo anno consecutivo la Fiera si è dilatata oltre il Lingotto e ha coinvolto con altre iniziative la città di Torino. Anche l’evangelizzazione ha fatto capolino alla Fiera. Oltre allo stand del Progetto culturale della Cei, presente da alcuni anni e dedicato all’evangelizzazione attraverso la cultura, la novità del piccolo stand dei Cappuccini del Piemonte con la presenza di un gruppo di giovani frati, che hanno positivamente intercettato molti visitatori. Insomma, un evento da non perdere. (fr.fe.) Il neo-presidente Evo Morales sta cercando di invertire i processi di privatizzazione della Bolivia. I primi di maggio ha annunciato la nazionalizzazione dei giacimenti di gas e di petrolio. Il suo governo ha dato alle aziende straniere sei mesi di tempo per regolarizzare la loro posizione concludendo nuovi contratti di sfruttamento con la compagnia statale Ypfb. Se non avranno trovato un accordo con lo Stato, appare chiaro che le compagnie straniere se ne dovranno andare. Morales ha anche mandato i soldati – senza negoziati preventivi – a occupare più di una cinquantina di impianti. Atteggiamento giudicato all’estero «troppo ostile» (El Paìs, Spagna). Ma si vedrà in questi mesi come sarà giocata la fase più delicata di questa nazionalizzazione degli idrocarburi che i boliviani hanno voluto, votando per Morales. La Bolivia possiede riserve di gas per oltre 775 miliardi di metri cubi, le seconde nel continente dopo il Venezuela e, dunque, si capisce la preoccupazione dei mercati, a cominciare da quello brasiliano che riceve dalla Bolivia metà dei suo fabbisogno. Il 10 maggio, poi, il governo ha reso noto che provvederà a distribuire tra gli 11 e i 14 milioni di ettari di terra in favore di gruppi indigeni e campesinos. Le terre che verranno confiscate e riassegnate costituiscono il 10 per cento sella superficie coltivabile totale del Paese. Hugo Salvatierra, ministro dello Sviluppo contadino e dell’ambiente boliviano, per prevenire l’opposizione, ha garantito che «il provvedimento non sarà volto a colpire direttamente i coltivatori stranieri». Ecumenismo disponibilità al Patriarcato russo L’audacia diplomatica che contraddistingue il cardinale Kasper, presidente del Consiglio per l’Unità dei cristiani, il quale nel giugno scorso parlava a Bari di un Concilio con gli ortodossi, non viene delusa: si prevede già per il prossimo settembre un mini-concilio cattolico-ortodosso a Belgrado. Intanto, da Mosca il patriarca Alessio II (nella foto) in un’intervista all’Ansa, fa sapere che «ci aspettiamo fatti concreti per risolvere le difficoltà esistenti. Si vuole sperare che proprio per questo motivo il pontificato di Benedetto XVI diventerà celebre e sarà ricordato». E continua: «Le dichiarazioni di Benedetto XVI sulla volontà di sviluppare i rapporti con la Chiesa ortodossa infondono speranza che la situazione cambierà per il meglio». La Chiesa ortodossa e il patriarca ritengono importante «unire le forze» per contrastare l’ondata secolarista, «il culto autoreferenziale del consumismo, il pericolo di uno scontro di civiltà, il laicismo che tende a ricacciare la religione nell’ambito privato». notizie seminari & convegni Rabat. Dopo il nuovo codice di famiglia, che innova in molte parti le regole famigliari in un paese tradizionalmente islamico, in Marocco 50 donne sono state nominate «murshidal», guide della preghiera. Per ora non potranno predicare il venerdì, ma potranno insegnare religione in carcere e nelle moschee, seguire i malati. Viene loro consegnato in particolare un mandato pacifista: contrastare l’Islam radicale e fondamentalista. Strasburgo. Due chiese protestanti francesi, la Chiesa lu- terana e la Chiesa calvinista d’Alzazia e Lorena hanno deciso di unirsi e di condividere molti servizi comuni. L’accordo è stato stipulato il 7 maggio a Strasburgo, presenti un migliaio di fedeli. Velletri. Una «riflessione congiunta sulla conversione religiosa: dalla controversia ad un codice di condotta condiviso» è il tema di un progetto dell’Ufficio per le relazioni e il dialogo interreligioso del Consiglio mondiale delle Chiese (Cec) e del Pontificio Consiglio per il dialogo inter- religioso. Un progetto che è stato lanciato durante un incontro a Velletri (Roma) svoltosi dal 12 al 16 maggio. Roma. Antigone, nota associazione che si occupa delle questioni carcerarie, ha presentato un pacchetto di proposte per il nuovo governo. Tra le priorità chiede il coinvolgimento del Terzo settore nelle scelte politiche del comparto, il rilancio dell’edilizia carceraria, lo snellimento della macchina organizzativa e un freno a quello che definisce «monolitismo professionale». 31 maggio-gennaio. 2007. Orvieto (Tr). Grande mostra «Le stanze delle meraviglie da Simone Martini a Francesco Mochi» nei Palazzi Papali e nella Chiesa di Sant’Agostino. Informazioni: tel.02 433 403; comunicato e immagini su: www:ciponline.it. 31 maggio-3 giugno. Vicenza. Festival biblico promosso dalla Diocesi di Vicenza e dal Centro culturale San Paolo incentrato sul tema «I luoghi delle Scritture». Attraverso conferenze, spettacoli, mostre, meditazioni, giochi e laboratori, danze, teatro e musiche…si proporrà una rivisitazione dei luoghi biblici. Tra i relatori: Enzo Bianchi, Gianfranco Ravasi, Elmar Salmann, Antonio Pitta, Agnese Cini, Lidia Maggi, Cristina Cruciali. Informazioni: 049 663499; 049 655 098, e-mail: [email protected] 18-24 giugno e 19-24 giugno. Stresa (Vb). Settimane estive di formazione a musica, danza, arte, organizzate dal Cirmac (Centro italiano di risveglio musicale Alain Carré), la prima per bambini, la seconda per musicisti, musicoterapisti, educatori. Genitori... Informazioni: Cirmac, via Alfieri 40, 10024 Moncalieri (To), tel. 011 6408531, e-mail: [email protected] 22-24 giugno. Levico Terme (Tn). Seminario di studi del Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato penitenziario (Seac) sul tema «Controllati e controllori». Relazioni di esperti e dibattiti scanditi in quattro tematiche: «Controllo sociale e politiche della giustizia»; «Quanto e come controllati»; «Quanto e come controllori»; «Per una società con meno carcere». Segreteria del Seminario: Apas, vicolo Maddalena 11, 38100 Trento, tel. 0461 239 200, fax 0461238 323; e-mail: [email protected]. 1-2 luglio. Costabissara (Vi)). L’associazione «Presenza donna»organizza a Villa San Carlo un week-end di formazione sul tema: «Potere della croce, impotenza della resurrezione». Relatori don Giuseppe Siviero e Lilia Sebastiani. Informazioni: Centro Studi «Presenza donna», via san Francesco Vecchio, 20, 36100 Vicenza, tel. 0444 323 382, fax 0444 321 782, e-mail: [email protected]. 1-8 luglio. Cogolo di Pejo (Tn). Campo-scuola promosso dall’Associazione nazionale circoli cinematografici italiani sul tema: «Immagini e parole», rapporto tra cinema e letteratura. Relatori: Ernesto Laura, Claudio Villa, Enzo Natta. Informazioni: Anci, via Nomentana 251 - 00161 Roma, tel.06 44 02 273, fax 06 44 02 280. 5-8 luglio. Camogli (Ge). Corso di formazione su «Il conflitto come risorsa», a cura del Centro Psicopedagogico per la pace. Responsabile scientifico Daniele Novara, relatori Paolo Ragusa ed Emanuele Cusimano. Informazioni: Centro Psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti, Via Campagna 83, 29100 Piacenza, tel. fax 0523 498 594, e-mail: [email protected]. 10-15 luglio. Camposampiero (Pd). Corso di Esercizi spirituali per tutti, diretto da don Carlo Molari presso la Casa di spiritualità dei Santuari Antoniani. Tel. 049 930 3003, fax 049 931 6631. 17-22 luglio. Pozzo di Gotto (Me). Settimana biblica sul libro del Qohelet e sul libro di Giona. Lectio divina guidata da Pino Stancari S.J, presso la Fraternità Carmelitana. Informazioni: Carmelitani, via U.Foscolo 54, 98050 Pozzo di Gotto (Me), tel.090 976 2800. 24-28 luglio. Camposampiero (Pd). V Settimana biblicoliturgica sul tema «Tempo e spazio nell’azione liturgica». Relatori: Giorgio Bonaccorso, Renato De Zan, Franco Magnani, Daniele Piazzi, Virginio Sanson. Informazioni: Casa di spiritualità dei Santuari antoniani,35012 Camposampiero (Pd), tel. 049 930 3003. 22-29 luglio. Bagni Froy (Alto Adige). Corso di ecologia a cura di Filippo Calore, Incontri di Shiatsu a cura di Mario Jannello. Informazioni per tutta la vacanza alternativa: www.bagnifroy.cjb.net, tel. 0444 696 706, 333 908 7622. 13-16 agosto. Assisi. Incontro biblico sul tema «Il perché della nostra speranza», su testi di Aggeo, Gioele, Zaccaria e Malachia. Relatori: don Lucio Sembrano, Porzia Quagliarella, Sennen Nuziale, Bruno Baioli. Informazioni:Cittadella cristiana, 06081 Assisi, tel 075813231, fax 075 812445; email:[email protected]. 21-26 agosto.Verbania. Corso di formazione «Valutazione e intervento rivolti ad alunni portatori di disabilità gravi e plurime», rivolto a insegnanti di classe e di sostegno ed educatori, organizzato dal Movimento apostolico Ciechi. Il Corso è della durata di 30 ore e viene rilasciato un attestato di frequenza. Informazioni: Rino Nazari (h.10-13) tel. 02 469 4800. 11 ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ ATTUALITÀ Valentina Balit 12 Il fossile di un serpente con due zampe, scoperto in Argentina in un deposito del tardo Cretaceo (risalente a circa 90 milioni di anni fa) da un gruppo di ricercatori dell’Università brasiliana di San Paolo, riapre il dibattito sull’evoluzione di questa specie. I ritrovamenti degli ultimi anni, spiegano gli autori della scoperta pubblicata sulla rivista Nature, erano avvenuti sempre in zone che in tempi remoti erano state bagnate dal mare. Questo aveva fatto ipotizzare l’origine marina dei serpenti. Il nuovo rinvenimento, proveniente da un deposito geologico di origine terrestre, suggerisce invece che i primi serpenti scavassero la terra e successivamente abbiano perso le zampe. Il fossile, Anche nell’organismo adulto sarebbero presenti cellule staminali con le stesse proprietà di quelle embrionali. La notizia, le cui applicazioni future in campo biomedico sarebbero straordinarie, è stata pubblicata su Nature da un gruppo di ricercatori dell’Università Georg August di Gottinga. I ricercatori tedeschi hanno isolato questo nuovo tipo di cellule nei topi maschi, prelevando dai testicoli le cellule sessuali in uno stadio di sviluppo anteriore alla formazione degli spermatozoi. In alcune specifiche condizioni queste cellule si sono differenziate nei tre tessuti fondamentali che compongono l’embrione. Inoltre alcune di esse sono state iniettate in alcuni embrioni di topo e si è visto che hanno contribuito alla crescita di numerosi organi. Fino ad oggi le cellule staminali cosiddette totipotenti, perché capaci di trasformarsi in qualsiasi altra cellula dell’organismo umano, potevano essere ricavate solo ed esclusivamente da embrioni. Per il momento i ricercatori tedeschi sono riusciti a dimostrare che queste nuove cellule, battezzate staminali multipotenti della linea germinale, sono in grado di differenziarsi in molti altri tipi di cellule, ma non hanno ancora verificato se queste cellule riescono a sopravvivere nell’individuo adulto e per quanto tempo sono in grado di farlo. Inoltre bisognerà capire se anche negli uomini siano presenti cellule analoghe a quelle individuate per il momento nei topi. «Spero vivamente che questa scoperta possa fornire un nuovo metodo per ottenere questo particolare tipo di cellule», commenta il coordinatore dello studio Gerd Hasenfuss, «che tra le altre cose hanno il pregio di non sollevare problemi etici». della quindicina da IL MANIFESTO, 3 maggio da PANORAMA, 4 maggio da L’UNITÀ, 6 maggio da IL CORRIERE DELLA SERA, 7 maggio da FAMIGLIA CRISTIANA, 7 maggio da L’UNITÀ, 8 maggio da IL CORRIERE DELLA SERA, 9 maggio da LA REPUBBLICA, 13 maggio ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Serpenti con le zampe Cellule staminali adulte trovate nei topi il meglio L’eruzione vulcanica di Santorini, in corrispondenza della quale viene collocata la fine della civiltà minoica, sarebbe avvenuta 100 anni prima di quanto finora stimato. La notizia è stata pubblicata in due articoli apparsi sulla rivista Science. Da diverso tempo gli archeologi stavano cercando di individuare con precisione il momento dell’eruzione. La scoperta è stata possibile attraverso il metodo di datazione al radiocarbonio, applicabile ai fossili di natura organica che abbiano un’età dell’ordine delle migliaia di anni. Il gruppo di ricercatori della Cornell University ha analizzato 127 campioni prelevati a Santorini, Creta, Rodi e in Turchia. L’esame di questi campioni, associati a una approfondita analisi statistica, ha permesso di calcolare che l’eruzione ebbe luogo alla fine del XVII secolo a.C., e non, come si pensava finora, cento anni più tardi (intorno al 1500 a.C.). Allo stesso risultato è giunto il secondo gruppo di ricercatori, coordinati dal geologo danese Walter Friedrich, grazie all’esame di un ulivo conservato sotto le ceneri vulcaniche. Gli scienziati hanno potuto stabilire che, al momento dell’eruzione, l’albero era ancora vivo e che l’anello di accrescimento più recente doveva essere, quindi, contemporaneo all’esplosione del vulcano. La datazione al radiocarbonio ha permesso di calcolare che l’eruzione ebbe luogo tra il 1627 e il 1599 a.C. Le nuove scoperte implicano una rilettura dei rapporti culturali che caratterizzarono le civiltà di allora. In particolare, i ricercatori pensavano che le civiltà dell’isola di Creta, di Cipro, e della Grecia avessero avuto molti legami con l’Egitto. Alla luce delle nuove collocazioni temporali, sembra invece che la civiltà egea sia stata più strettamente legata alle regioni di levante come Israele, Palestina, Libano e Siria. venuto alla luce nel nord dell’Argentina, è stato chiamato Najash rionegrina: dal nome ebraico del serpente biblico e dalla regione del Rio Negro, dove è stato effettuato il ritrovamento. Najash rionegrina presenta un ben definito osso sacro che sostiene una pelvi e delle zampe posteriori che sembrano essere perfettamente funzionali. «Questo serpente è importante perché è il primo con un osso sacro. Rappresenta una forma intermedia che non è mai stata scoperta prima di oggi», spiega Hussam Zaher dell’Università di San Paolo in Brasile. I due scopritori del Najash rionegrina non sono i primi a suggerire l’origine terrestre dei serpenti, ma sono i primi a disporre di prove concrete sotto forma di fossili che mettono in luce gli inizi stessi della loro evoluzione. Tracce di questa evoluzione sono del resto restate su alcune specie viventi, dotate di vestigia di gambe posteriori sotto forma di piccoli «artigli». vignette notizie dalla scienza Nuova luce sulla civiltà egea dell’età del Bronzo ATTUALITÀ 13 giornate di spiritualità per presbiteri, diaconi, laici, suore 5-9 giugno nascita e crescita nel conflitto della comunità cristiana con Giancarlo BRUNI, servo di santa Maria e fratello della comunità di Bose Inizio: lunedì 5, ore 18,30; termine: venerdì 9, ore 13 2° laboratorio estivo per coniugi, operatori sociali e pastorali 29 giugno - 2 luglio ... quel legame fragile... animatori: Nella BORRI, psicologa; Giancarlo BRUNI, biblista; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra; Marco NOLI, sociologo 64° corso internazionale di Studi cristiani 20-25 agosto senza i sandali dell’identità? “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è uomo o donna…” (Gal 3, 28-29) domenica 20 ore 21,15 lunedì 21 ore 9 ore 16,30 martedì 22 ore 9 ore 16,30 mercoledì 23 ore 9 ore 16,30 giovedì 24 ore 9 ore 16,30 chi sono io? percorso in prosa e in versi tra identità di popoli e persone – a cura di Roberto CARUSI, regista teatrale esplorare l’identità Eugenio BORGNA, psichiatra; Sergio GIVONE, filosofo – coordina Gianna Galiano, della Cittadella se l’identità cammina con la storia Raniero LA VALLE, giornalista culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? Nacera BENALI, giornalista algerina; Kossi KOMLA-EBRI, scrittore migrante; Rosino GIBELLINI, teologo – coordina Franca CICORIA, della Cittadella crescere con le differenze incontro con Marco PIAZZA, maestro di musica classica dell’India; intervista TV esclusiva a Raimòn PANIKKAR, indiano, filosofo delle religioni – a cura di Renzo SALVI, capoprogetto Rai Educational nelle derive integraliste… vivere la laicita’ Corrado AUGIAS, scrittore; Giannino PIANA, teologo morale – coordina Catiuscia MARINI, sindaco di Todi cos’è di Cesare? cos’è di Dio? Enzo BIANCHI, priore della comunità monastica ecumenica di Bose chi non si mette la maschera?: Il ‘Miserere’ di Georges Rouault - presentazione di Tony BERNARDINI, della Cittadella l’identità feriale Lilia SEBASTIANI, teologa le identità negate interpellano la politica personalità del mondo politico coordina Tonio DELL’OLIO, di ‘Libera International’ «chiunque io sia, tu mi conosci» Rosanna VIRGILI, biblista a piedi nudi… consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio, Enzo BIANCHI Il Corso è proposto dalla Cittadella con la collaborazione della Comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana – sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] ripartire dalla Costituzione Raniero La Valle S iamo stati a un passo dalla tregua istituzionale, che si sarebbe potuta realizzare col voto del centro-destra per Napolitano, come molti volevano. Ciò non è stato possibile perché Berlusconi aveva fatto la campagna elettorale con il «libro nero del comunismo», e ora non poteva votare in Parlamento mandandolo al macero. Egli è prigioniero della sua pubblicità; non padrone di televisioni, ma loro servitore. In questo modo la destra non può più fare politica, ma solo campagna elettorale per avere la rivincita e tornare a governare. Ma questa è la democrazia che divora se stessa. Dunque si è confermato ciò che dicevamo nella nostra ultima rubrica, e cioè che una tregua istituzionale tra i due poli è possibile solo se Berlusconi si ritira, come fece il re a Bari nel 1944 (e non nel 1946, come mi è sfuggito scrivendo), ciò che permise ai partiti di incontrarsi e poi di scrivere insieme la Costituzione. Una occasione straordinaria per la tregua istituzionale è data ora dal prossimo referendum destinato a confermare o respingere la nuova Costituzione detta di Calderoli. Essa, come la legge elettorale, è stata scritta contro la destra e contro la sinistra e, a parte la «devolution», è fatta su misura per Berlusconi, a patto però che vinca le elezioni; perché se le perde, il Primo Ministro onnipotente diventa il suo avversario. Se ad esempio le norme che introducono la dittatura del Premier sul Parlamento, contenute nella nuova Costituzione, fossero già oggi in vigore, nessuna delle cose che la destra minaccia di fare contro Prodi, per farlo cadere, sarebbe possibile, e l’opposizione sarebbe priva di ogni arma e di ogni ruolo politico. Dunque la cosa più logica sarebbe che a votare a favore della controriforma costituzionale fossero lasciati solo la Lega e il gruppo populista che fa capo a Berlusconi, e tutti gli altri votassero contro. Il senso di questa operazione sarebbe di rinnovare il consenso della stragrande maggioranza del Paese alla Costituzione del ’48. Essa non merita il ripudio di cui è stata oggetto da parte della vecchia maggioranza di governo. E non è vero che, come affermano i sostenitori del «sì» nel referendum, il ribaltamento della seconda parte della Costituzione, che determina la figura dello Stato, ne farebbe salvi i principi e i diritti fondamentali stabiliti nella prima. Le due parti della Costituzione sono speculari e necessarie l’una all’altra; sono state pensate insieme e possono vivere solo insieme. Racconta il costituzionalista Enzo Cheli che nel 1946, quando nella Commissione dei 75 incaricata della prima stesura della Carta, si trattava di concepirne il disegno, in un incontro informale tra il suo presidente Ruini e gli on. Dossetti, Cevolotto e Moro, Aldo Moro propose per la prima parte una struttura a piramide rovesciata, avente al primo posto i diritti e i doveri del cittadino nella sua individualità, e poi via via del cittadino in rapporto alla famiglia e alla scuola, quindi in rapporto alla sfera economica e infine in rapporto a quella più ampia del mondo politico; e il Presidente Ruini, accogliendo quello schema, aggiunse che allora la seconda parte doveva cominciare col Parlamento, in corrispondenza al primo articolo proclamante la sovranità popolare, e poi svilupparsi nella definizione degli altri istituti in cui coerentemente doveva concretarsi l’organizzazione statale unitaria della società. E così si fece, in tal modo che la seconda parte risultò attuazione, strumento e garanzia della prima. Ora nella riforma sottoposta al voto referendario questo rapporto viene rotto. Il Parlamento è travolto, la vita della Camera è condizionata a quella del governo, la rappresentanza popolare è smembrata in una maggioranza dotata di tutti i poteri e una minoranza senza diritti, i cui voti nemmeno verrebbero contati nelle votazioni di «sfiducia costruttiva», l’unità nazionale che comporta pari opportunità per tutte le regioni è compromessa e gli istituti di garanzia sono snaturati e mortificati. In particolare il Presidente della Repubblica non avrebbe neanche il potere di salvare la Camera dallo scioglimento che il Primo Ministro potrebbe decretarne in ogni momento mandando a casa i deputati a suo piacimento; verrebbe istituita la figura sovrana e incondizionata del capo del governo, vero padrone «determinante» della politica nazionale e del Paese intero. L’identità dell’Italia e il suo ruolo nel mondo sarebbero decisi da una persona sola, e il popolo non potrebbe influirvi facendo valere le sue radici, la sua civiltà e la sua cultura. La sola tregua istituzionale possibile tra il centro-sinistra e almeno una parte della destra, consiste dunque nel salvare questa Costituzione, e da essa ripartire nel Parlamento e nel Paese. ❑ 15 ROCCA 1 GIUGNO 2006 cittadella convegni RESISTENZA E PACE POLONIA ultracattolica e un po’ antisemita 16 Q neo e politicamente forte, il progetto comunitario ha cambiato profondamente di natura con lo sfondamento ad est e l’ingresso di nazioni desiderose di abbandonare il retaggio del comunismo e del centralismo, e di abbeverarsi di democrazia occidentale e di libertà economiche. Ed in questo senso, l’esperienza polacca è fra le più significative, trattandosi di un paese di grandi dimensioni – ha più della superficie italiana e 39 milioni di abitanti – e che rappresenta in qualche modo sotto il profilo economico l’equivalente in Europa orientale della Francia, disponendo di un comparto agro-zootecnico di grandi potenzialità. In questo ambito la generosità comunitaria non è certo in discussione perché fra il 2007 e il 2013 la Polonia incasserà la non disprezzabile cifra di 60 miliardi di euro a titolo di sostegno del suo sviluppo economico. Ma a differenza di Parigi, Varsavia non è particolarmente entusiasta del progetto di costruzione europea, proponendosi di fatto come il miglior alleato degli Stati Uniti nel vecchio continente. Un paio di prove di questa inclinazione? La prima: Quando si è trattato di acquistare aerei da caccia all’epoca del suo ingresso nella Ue, il Ministero della Difesa polacco non ha scelto un velivolo europeo (tipo Eurofighter o Rafale) ma gli F16 di fabbricazione statunitense. E la seconda: Dopo aver fatto fiamme e fuoco per essere all’appuntamento dell’ampliamento a 25, il governo polacco ha congelato la procedura di ratifica della Costituzione europea per i timori di perdita di sovranità nazionale. Nella Nato a partire dal 1999 e a pieno titolo nella Comunità dal 2004, la Polonia ha sterzato fortemente a destra in occasione delle ultime elezioni legislative di settembre e delle presidenziali di ottobre, grazie anche al discredito che hanno saputo raccogliere gli esponenti del vecchio establishment comunista, che avevano vinto le elezioni nel 2001 ma che poi si sono distinti incredibilmente per episodi di corruzione e di appropriazione di beni statali. Di fatto il destino del paese è ora nelle mani dei fratelli conservatori Lech e Jaroslaw Kaczynski; il primo quale presidente della repubblica, il secondo nelle vesti di leader del Pis, il partito di governo. Dal loro arrivo, e ancora di più dalla formazione della coalizione tripartita che permette ora di esprimere una maggioranza in Parlamento, si è materializzata una vera e propria ondata restauratrice, fatta di epurazioni, scioglimento di organismi sospetti, esonero di diplomatici, e di eliminazione in definitiva di qualsiasi elemento legato al passato comunista del paese, con una impressionante esaltazione del nazionalismo e la sottolineatura di tratti antisemiti. È una Polonia ultracattolica che si riunisce all’ascolto di Radio Maryja, una stazione privata controllata dal padre Redentorista Tadeusz Rydzyk alla cui porta fanno la fila lo stesso presidente Kaczynski, il premier, i ministri, come se si trattasse della radio dello Stato, per rilasciare dichiarazioni trasmesse nello spazio lasciato dalla recita delle orazioni. Oltre alla condanna rituale dell’aborto e dell’omosessualità, è possibile ascoltare discorsi apertamente antisemiti contro «gli uomini venuti dalla Giudea che tentano di sorprenderci prendendoci alle spalle», contro il Congresso ebraico mondiale, «la principale società che ha fatto dell’Olocausto una industria», o infine contro il quotidiano nato da Solidarnosc, Gazeta Wyborcza, bollato di «esempio inabituale di quinta colonna ebrea in Polonia», per il fatto che vari giornalisti, oltre che il direttore, sono ebrei. Amareggiato, Marek Edelman, 85/enne ultimo comandante superstite della rivolta del Ghetto di Varsavia, ha dichiarato al quotidiano francese Liberation che «finché l’economia girerà, come gira, e finché quindi disporrà di denaro da elargire, il governo non avrà problemi». Inoltre, ha aggiunto, «fino a quando continuerà la caccia ai ‘colpevoli’ di ogni genere, disporrà del sostegno popolare. La gente ama che si perseguano ladri, affaristi, traditori, ebrei, omosessuali, tutti potenziali colpevoli delle cose che non vanno». Ma non sono solo rose e fiori in questo nuovo corso, perché parte dell’opinione pubblica comincia a chiedersi cosa sia diventato il partito Legge e Giustizia, visto che in origine aveva promesso di stringere una alleanza con i centristi della Piattaforma civica di Donald Tusk e che invece si trova oggi a guidare una alleanza con un partito populista e di istinto nazista (come Samobroona) ed un altro ultracattolico di destra (Lpr). E questo, per evitare di tornare ad elezioni anticipate e rischiare di pagare con l’elettorato il cambiamento repentino di strategia. Una situazione allarmante che non fa ben sperare nella possibilità che presto l’Europa a 25 possa riprendere il suo cammino di crescita, ma che preoccupa anche per la Polonia in quanto tale, visto che la popolazione attende dopo tanto entusiasmo nazionale ed ideale una formula che permetta una crescita economica omogenea ed una efficace lotta alla disoccupazione che è quasi al 20%. Secondo alcuni, comunque, il fatto che forze che sembravano scomparse durante il regime sovietico siano riemerse ricreando uno scenario di prima della guerra, va imputato ad un fenomeno fisiologico, ad un passaggio obbligato e provvisorio, necessario per far sì che il paese divenga veramente in un futuro forse prossimo una democrazia moderna e partecipata. ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Maurizio Salvi uando all’inizio del 2000 il leader del Partito nazional-liberale Joerg Haider entrò nella coalizione di governo a Vienna, in Europa vi fu una inequivocabile levata di scudi, e per l’Austria scattarono perfino sanzioni comunitarie. Sono passati sei anni, e di fronte ad un fenomeno simile che ha visto a fine aprile l’ingresso nel governo della Polonia di Andrzej Lepper, 52 anni, leader populista del partito Samoobrona (Autodifesa), le reazioni sono state minime, se non addirittura assenti. Tanto per non lasciare adito a dubbi, ricorderemo che Lepper è molto conosciuto nel suo paese per dichiarazioni aggressive e spesso di sapore razzista e antisemita. La stampa di Varsavia, al momento del raggiungimento dell’accordo fra il partito di governo Legge e giustizia (Pis) del premier Kazimierz Marcinkiewicz, la Lega delle famiglie polacche (Lpr) e, appunto, Samoobrona, non ha esitato a scrivere che anni fa Lepper ha lodato persino Hitler per il successo economico della sua politica durante il nazismo. Non a caso il suo arrivo ai vertici del potere ha provocato le dimissioni del Ministro degli Esteri Stefan Meller, un diplomatico e professore universitario nato in Francia, che ha detto, abbandonando il suo incarico, di non poter convivere in un governo «insieme ad un pagliaccio». Per molti osservatori questa assenza di reazioni è un sintomo ulteriore della crisi che attraversa l’Unione europea (Ue) che non sembra ancora avere assorbito i contraccolpi prima dell’ampliamento a 25, e poi del no alla Costituzione europea da parte di Francia e Olanda. «Stanca – ha scritto al riguardo il quotidiano Le Monde (6 maggio 2006) – l’Europa ha perduto perfino la sua capacità di indignazione». Per molto tempo sostanzialmente omoge- Maurizio Salvi 17 INTERNAZIONALE sione internazionale. Questa nuova scelta è forse dettata dalla volontà di mostrare la propria vicinanza al nuovo governo dell’Anp, segnando la differenza con gli altri paesi dell’area. E l’aiuto siriano è andato persino oltre la raccolta di fondi tra la popolazione: pare infatti che i servizi segreti di Damasco abbiano aiutato il trasporto attraverso la Siria di un grosso carico di armi di Hamas ritrovato poi in Giordania. Un sostegno quindi esplicito alla causa palestinese, che oltretutto sottende un tentativo da parte del presidente Assad di raffreddare le crescenti tensioni coi gruppi islamisti in patria, da sempre molto sensibili alla causa palestinese. Enrica Piovan l dito alzato del presidente iraniano Ahmadinejad, il verde delle bandiere di Hamas, qualche mappa geografica dell’Iraq diviso. Stando a come lo ritraggono ogni giorno i media, il Medio Oriente sembra limitato a queste tre immagini: l’Iran, con le sue ambizioni nucleari che fanno innervosire gli Usa, la Palestina con le sorprese elettorali che poco piacciono alla comunità internazionale, e l’Iraq alle prese con la nascita del nuovo governo. Eppure, dietro i riflettori c’è la realtà mobile di molti altri paesi, che salgono alle cronache solo talvolta, per la notizia che fa gioco al tema «scontro tra civiltà» o l’attentato terroristico che fa sussultare turismo ed economia. Eppure la loro quotidianità non è meno critica di quella dei vicini più raccontati. Né tanto meno significativa per comprendere come si sta muovendo l’intera regione. I Libano, paese in bilico ROCCA 1 GIUGNO 2006 La situazione più in bilico nell’area è sicuramente quella del Libano, dove regna un clima di estrema incertezza, dovuto alla difficile relazione con Israele e Siria, alla mancata applicazione della risoluzione Onu sul disarmo militare e alla resistenza interna alle riforme istituzionali. A 16 anni dalla fine della guerra civile, oggi la gente teme che la violenza possa riaccendersi nonostante la normalità apparente del paese. Secondo gli osservatori, questo stato d’animo diffuso è dovuto all’assenza di un’autentica riconciliazione e al fragile sistema politico e interconfessionale ancora vigente. Inoltre ci sono l’influenza e le interferenze esercitate da Siria, Iran, 18 Israele e dai guerriglieri palestinesi. E anche il fatto che ancora non decolla il «dialogo nazionale» tra i leader libanesi dei contrapposti schieramenti filo e anti-siriano. La situazione è tale che, nel 31esimo anniversario dell’inizio della guerra civile, il 13 aprile scorso, i principali leader religiosi e politici hanno ammonito che, con le divisioni attuali, il clima ricorda fin troppo quello del 1975, anno in cui iniziò il conflitto. La questione più spinosa nell’agenda politica libanese rimane oggi l’indagine giudiziaria in corso per l’attentato terroristico dello scorso anno in cui morì l’ex premier Rafiq Hariri. Le linee dell’inchiesta sono ancora confuse e l’unica cosa chiara sembra essere il coinvolgimento della dirigenza siriana come mandante del delitto. Tema caldo è anche la discussione politica tra maggioranza e gruppi ancora legati a Damasco: l’opposizione filo-siriana costituisce infatti l’ostacolo all’applicazione delle risoluzioni Onu che chiedono che il governo ottenga l’effettivo controllo di tutto il territorio nazionale, che siano disarmate le milizie operanti nei confini nazionali e che venga garantito il completo ritiro di forze straniere dal territorio libanese. Il problema è che all’indipendenza formale e al pieno riconoscimento da parte della comunità internazionale di cui gode oggi il Libano, non corrisponde un’unità sostanziale. E il futuro degli equilibri politici si giocherà sulla stabilità delle coalizioni interreligiose sulla soluzione delle questioni istituzionali, ma soprattutto molto dipenderà dagli esiti, attesi per i prossimi mesi, delle indagini Onu, su cui incombe l’ombra della Siria. La posta in gioco è l’indi- pendenza e l’autorevolezza del governo di Beirut. Siria, tra isolamento e relazioni con Iraq Dall’assassinio dell’ex premier libanese Hariri, la Siria vive una condizione di isolamento internazionale, su cui incombe il giudizio di pericolosità affibbiatole dagli Stati Uniti. Uno spiraglio di collaborazione lo sta però trovando con l’Iraq, con cui ha stabilito le basi per una forma duratura di collaborazione politica ed economica, ristabilizzando rapporti su cui pesavano vent’anni di tensioni. Dietro questo riavvicinamento pare comunque che ci siano gli Stati Uniti, che sono i veri responsabili della sicurezza irachena e che vedono nella Siria una pericolosa base di lancio per i gruppi terroristici islamici verso l’Iraq. Damasco si è impegnata in prima persona nel processo di pacificazione iracheno, poiché una maggiore stabilità politica sarebbe una garanzia di sicurezza commerciale. Questo impegno, inoltre, costituisce una chance in più nelle relazioni con gli Stati Uniti, dai quali si spera di ottenere la cancellazione dell’etichetta di paese dell’Asse del male. La presenza incombente degli Usa in veste di garante della sicurezza irachena, tuttavia, continuerà a costituire un ostacolo – voluto – alla creazione di rapporti diplomatici regolari tra Damasco e Bagdad. Nei confronti del vicino palestinese intanto la Siria si sta muovendo nella direzione di un deciso sostegno alla nuova leadership di Hamas. Una strategia che segna un’inversione di rotta rispetto agli ultimi anni, che avevano visto una riduzione del sostegno di Damasco ai gruppi armati palestinesi con l’obiettivo di ridurre la pres- Giordania, l’ombra sulla sicurezza Se c’è una questione che re Abdallah II non si stanca di ripetere ad ogni occasione ufficiale, è quella relativa alla stabilità dell’Iraq: le maggiori questioni di sicurezza che il regno hashemita sta oggi affrontando (attentati fuori e dentro i confini, sequestri, attività investigative e giudiziarie) sono infatti tutte strettamente legate agli avvenimenti che accadono nel vicino Iraq. Da anni, a ritmi sempre più sostenuti, la Corte per la sicurezza dello stato processa e condanna integralisti islamici accusati di reclutare miliziani da inviare in Iraq a sostenere gli insorti, agevolarne l’infiltrazione oltreconfine e, nei casi più gravi, complottare attività terroristiche all’interno del regno stesso. Inoltre, il triplice attentato di novembre ad Amman, quello precedente ad Aqaba, e l’ultimo sventato a danno di un «vitale obiettivo civile» sono stati tutti pianificati (e perpetrati) da iracheni che, con il marchio di Al-Qaida, intendevano far pagare alla Giordania la sua solida alleanza con gli Stati Uniti. Proprio nel rapporto con gli Usa la Giordania vede intanto crescere al suo interno una realtà che contrasta con la determinazione del governo di Amman a continuare a sostenere la politica estera statunitense. I cittadini, che discendono per più della metà dai rifugiati palestinesi, sono infatti contrari alla guerra in Iraq e sono anche ostili verso Israele. Recenti sondaggi lo hanno confermato, evidenziando inoltre come il 57% dei giordani sia favorevole agli attacchi terroristici e che ben il 60% sia simpatizzante del leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden. 19 ROCCA 1 GIUGNO 2006 la polveriera mediorientale Regno Saudita tra globalizzazione e vicini ROCCA 1 GIUGNO 2006 Sotto re Abdallah, che nell’agosto scorso è succeduto al fratellastro Fahd, l’Arabia Saudita guarda alla globalizzazione con sempre maggiore interesse, nella convinzione di non poter più continuare ad essere un’eccezione. Di questo è convinto il sovrano, benché nella società rimanga un certo conservatorismo ostile alla modernizzazione, che appare più come un’occidentalizzazione forzata da Washington. L’entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio, a dicembre, ha segnato un passo importante verso l’ingresso ufficiale nel villaggio planetario. In questa apertura si inserisce anche il legame stretto da poco con la Cina, con tanto di firma di una serie di accordi di cooperazione in vari settori. Qualche cambio di rotta si registra anche all’interno del paese, dove cresce l’attenzione alla promozione di un islam tollerante e i giornali sembrano sempre più interessati alle questioni sociali, anche se trattate ancora con toni moralizzatori. Anche le donne guadagnano traguardi significativi, ottenendo spazi importanti, dai posti nel consiglio di amministrazione della Camera di Commercio di Jedda alla recente autorizzazione ad entrare nelle bi20 blioteche pubbliche. Tra i problemi sociali, la questione femminile resta comunque aperta, visto che molte donne ancora approvano la separazione sessuale in vigore nel paese; l’altra problematica è la disoccupazione giovanile, in un paese in cui uno su 3 ha meno di 15 anni, il 70% meno di 30. Altre preoccupazioni vengono invece dall’esterno. Da una parte c’è la nuova faccia dell’Anp, verso cui Riad si è trovato a correre finanziariamente in soccorso dopo l’iniziale decisione della comunità internazionale di non concedere aiuti al governo di Hamas. I programmi nucleari di Teheran, poi, hanno portato Riad a rispondere con una critica decisa, pur ribadendo la convinzione circa i fini pacifici. Ma è l’Iraq il vero fronte di riscatto per il gigante saudita: secondo un consigliere per la sicurezza del governo di Riad, infatti, l’Arabia Saudita dovrebbe cercare di evitare la frammentazione del vicino iracheno, cercando di evitare ogni ritiro prematuro delle forze Usa e di fare pressioni sull’Iran perché smetta di interferire. Se Riad, che è il maggiore creditore dell’Iraq, iniziasse a sbarazzarsi del debito di 32 miliardi di dollari Usa – questo è il suggerimento – manderebbe un forte messaggio che il regno non sta agendo in base a interessi confessionali, ma negli interessi dell’Iraq e della regione in generale. conclusione Ciascuno con la propria specificità e la propria velocità, i paesi del Medio Oriente si stanno quindi muovendo, anche lontano dai riflettori, con cambiamenti che risultano però interdipendenti e legati alla problematicità della regione cui appartengono: un’area strategica che produce il 35% del petrolio mondiale e detiene il 68% delle riserve. E che proprio per questo costituisce l’arena delle più grandi battaglie globali: dal nodo israelo-palestinese all’operazione in Iraq sfociata in guerra civile, dalla minaccia dell’Iran al conflitto latente tra Libano e Siria. Su quest’area gli Usa stanno da anni proiettando il progetto di un «Grande Medio Oriente» modellato sulla base di interessi di comodo. Ma dimenticano che «i popoli non amano i missionari armati», come scriveva Robespierre. Nessun intento militare sostituirà cioè la forza della politica e della diplomazia. E nella polveriera mediorientale nulla cambierà prima di aver spento la vera miccia: il conflitto israelo-palestinese. Enrica Piovan OLTRE LA CRONACA lupi a difesa del gregge Romolo Menighetti A difendere i diritti umani nel mondo, attraverso il nuovo Consiglio dei Diritti Umani, recentemente varato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ci sono tra gli altri la Russia di Putin (stragi indiscriminate in Cecenia e al teatro Dubrovska di Mosca), la Cina di Hu Jintao (circa 10.000 condanne a morte l’anno, anche per reati minori e di opinione), e la Cuba di Fidel Castro (dove si fucilano pure coloro che cercano di espatriare senza permesso). Di là dai facili commenti, la notizia mette in evidenza la complessità del problema relativo al controllo internazionale sui diritti umani. La violenza è nel Dna dell’umanità, e guardando alla storia pare che nel corso dei millenni e dei secoli sia mutata solo l’efficienza tecnica nell’uccidere e nel conculcare i diritti, non certo la propensione per l’omicidio e il sopruso. Volendo inquadrare il problema entro una cornice di ampio respiro si può affermare che il miglior contesto per prevenire le sopraffazioni sull’uomo e sui suoi diritti è quello democratico, se non altro perché i governi in tale regime debbono discutere e giustificare pubblicamente le politiche che adottano. Infatti, i più terribili crimini della storia recente furono commessi quasi sempre da governi tuttaltro che democratici: la Germania nazista, la Turchia ottomana contro gli armeni, l’Unione Sovietica di Stalin, la Cambogia dei Khmer rossi. Però all’interno di questo quadro si pongono domande di difficile risposta. Fino a che punto si deve cercare di comprendere le motivazioni di chi abusa? Soprattutto, che fare in concreto per difendere nell’immediato le vittime, tenuto conto che la democrazia non si esporta (tanto meno con le armi), ma cresce, negli Stati, per interna e laboriosa maturazione, al più favorita, dall’esterno, da processi di osmosi? Il problema poi, oggi, è reso più complicato dal fatto che dalla fine della Seconda guerra mondiale è cambiato il contesto entro cui si perpetrano gli abusi sui diritti umani. Fino a qualche tempo fa c’erano governi forti che perseguitavano i dissiden- ti. Oggi invece gli Stati più a rischio di violazioni sono, per lo più, quelli politicamente deboli e divisi al loro interno. In tal caso, chi voglia intervenire dall’esterno, si trova di fronte a due opzioni, l’intervento, inteso come diritto, e l’assistenza, intesa come dovere. Nel primo caso si rischia di evocare antichi fantasmi quali la «missione civilizzatrice» dell’Europa, o la passata politica dell’Urss. Nel caso invece di un intervento di assistenza si rischia di cadere nell’errore di considerare valori umani universali quelli legati a culture e a interessi particolari. A fronte di guerre etniche, poi, c’è il pericolo che, con l’intervento esterno, estranei decidano chi tra i contendenti debba prevalere, stabilendo così a priori chi abbia ragione e chi torto. C’è poi il rischio che i cosiddetti «interventi umanitari» abbiano luogo solo verso Stati deboli, in funzione degli interessi di alcuni Stati forti, mentre si sorvola sugli abusi perpetrati entro e da nazioni potenti. Senza contare che i diritti umani possono essere conculcati anche in nome di una lotta al terrorismo, di cui spesso non si riesce a capire quali siano le reali finalità di chi tale lotta intraprende. Comunque, ogni politica di intervento umanitario reca intrinsecamente il germe di una mentalità di tipo coloniale, basata sulla distinzione tra «coloro che raddrizzano i torti» e «coloro i cui torti debbono essere raddrizzati» (Gayatri Spivak). In tal senso, più che a rafforzare il potere di chi «raddrizza i torti» affinché possano intervenire più facilmente, si deve puntare su un mutamento di mentalità nei «raddrizzandi», che faciliti loro l’uscita dalla passività. Può sembrare utopistico, ma qui occorre richiamarsi alla «pedagogia degli oppressi» di Paulo Freire. Questa si concretizza in un modello dialogico capace di farsi strumento di un’azione politica e culturale. Necessariamente tale pedagogia richiede tempo e pazienza. Solo così però si può sperare di avviare il cambiamento che libererà gli oppressi e i loro oppressori da quegli schemi mentali che inducono i primi a subire passivamente l’offesa portata dai secondi ai loro diritti. ❑ 21 ROCCA 1 GIUGNO 2006 INTERNAZIONALE Tutto ciò evidenzia una realtà rimasta a lungo in ombra nella storia della Giordania: il paese che ufficialmente si è sempre dichiarato ‘filo-occidentale’ e la cui crescita economica è stata legata in questi anni agli aiuti statunitensi, ha sviluppato al suo interno una certa ostilità nei confronti della potenza americana e, più in generale, del mondo occidentale. Ed è proprio alla soluzione di questa contradditorietà del fronte interno, che è legato il futuro dei rapporti tra Giordania e Usa. Ma c’è anche un’altra sfida, posta dal vicino palestinese. Forti sono infatti le tensioni tra Amman e la leadership di Hamas, recentemente accusata di pianificare attacchi in Giordania. E sarebbe il primo caso di azioni fuori dai Territori palestinesi. Questa strategia viene vista come il tentativo di aumentare la pressione sul regime hashemita giordano, colpevole di essere stato il più tiepido tra i regimi arabi nei confronti del nuovo governo di Hamas: una mossa che, con il rischio di una maggiore instabilità in un paese in cui molta parte dei cittadini è palestinese e dove Hamas appoggia la Fratellanza Musulmana giordana, costringerebbe il re a sostenere più dichiaratamente il nuovo governo dell’Anp. POLITICA ITALIANA fine del fattore K 22 C scussioni. Ancora una volta preoccupa la spaccatura che divide il paese e che la elezione di Napolitano non ha certamente sanata. come a Cuba? Due, semplificando, le interpretazioni contrapposte. Quella del centrodestra berlusconiano lamenta una presunta occupazione da parte della sinistra di tutte le cariche dello stato. Sarebbe, ha detto qualcuno, come a Cuba. Perciò la destra, più o meno tutta, nel corso dei prossimi anni cercherà di delegittimare continuamente e in tutte le sedi il nuovo governo ed il nuovo assetto istituzionale. Sarà un conflitto duro e continuo. Ad alimentarlo, il ricordo di una vittoria elettorale troppo esigua e discussa. Il governo Prodi non avrà vita facile. L’altra interpretazione, quella della mag- gioranza, insiste sulla fine di quella esclusione che per anni ha bloccato e limitato la vita politica del paese. Napolitano, un comunista – o ex comunista, come preferiscono dire alcuni – al Quirinale significa la definitiva messa in soffitta di quel famigerato «fattore K» che dal dopo guerra ad oggi ha rovinato e inquinato la nostra vita politica, limitandola. un segnale forte In realtà la famigerata «esclusione» era stata già se non eliminata certamente incrinata: si pensi, fra l’altro. ai governi D’Alema e alla lunga presidenza Ingrao alla Camera. Si pensi anche a quanto lontano da Mosca e «socialdemocratico» sia diventato in questi anni il comunismo italiano, anche grazie allo stesso Napolitano. Comunque è vero che la sua salita al Quirinale rappresenta un segnale forte: anche da noi come in buona parte del mondo non ha più senso quella opposizione fra comunismo e democrazia che ha rappresentato uno dei motivi più forti della politica mondiale della seconda metà del secolo, dei suoi scontri e delle sue ambiguità. Ne deve ormai prendere atto lo stesso Vaticano, che è stato uno degli ultimi «palazzi» ad ammettere la fine della esclusione (ne rimaneva qualche elemento nella ostilità vaticana alla candidatura D’Alema). Oggi, sotto la presidenza di Napolitano e con il governo Prodi, anche l’Italia si avvia, come tanti altri paesi, ad una situazione politica guidata da una sinistra democratica, decisamente attenta agli interessi dei più poveri, dei lavoratori, degli immigrati, della pace. Più democratica e anche, lo speriamo, più unita. ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Filippo Gentiloni on la elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale si è concluso un periodo fra i più burrascosi della storia della nostra repubblica. Una conclusione certamente non unitaria, come si poteva sperare e come in qualche momento era sembrato possibile; comunque una conclusione che sembra poter aprire la porta a tempi più sereni. Positiva, prima di tutto, la sottolineatura della continuità con Ciampi. La presidenza Ciampi ha rappresentato una notevole garanzia per la nostra democrazia, nonostante i tempi difficili e le discusse missioni all’estero. La stessa persona di Napolitano e i suoi precedenti inducono a sperare che sarà, come è stato Ciampi, e come egli stesso ripete, «presidente di tutti gli italiani». È proprio su questa promessa e premessa che si sono immediatamente aperte le di- Filippo Gentiloni 23 INCHIESTA GIOC le paure dei giovani 24 S la diffusa convinzione dei politici che i lavoratori dipendenti non siano più, in quanto tali, né di destra né di sinistra, né conservatori né innovatori, insomma un vero niente per chi va cercando voti e consensi – è stato filtrato dalla lente dei giovani. Rappresentati, in modo un po’ riduttivo solo come lavoratori, solo come lavoratori precari, solo come portatori di bisogni di stabilità: e mai anche come cittadini che potrebbero avere bisogni di innovazione civile e politica, di modernità organizzativa ed economica, di nuove culture e di nuovi valori, e perché no, di una rottura dell’antica gerontocrazia che ancora ci affligge. Anche i problemi, davvero molto seri, della precarietà lavorativa sono stati, del resto, interpretati senza fare troppe distinzioni tra quella che deriva dall’emersione di un lavoro un tempo solo nero e irregolare e quella che deriva da un mondo economico che cerca competitività solo attraverso la riduzione del costo del lavoro; tra la precarietà nel lavoro pubblico, che deriva essenzialmente dai blocchi delle assunzioni e dalla rigidità dei regimi di lavoro del personale stabilizzato e quella del lavoro nel privato, connessa anche con le contraddizioni del ciclo economico e con le turbolenze dei mercati; tra la precarietà che dà prima o poi luogo a inserimenti stabili e quella che si riproduce continuamente senza sbocchi positivi. Con l’effetto inevitabile di accendere contrasti di natura ideologica in cui diventa davvero difficile individuare le soluzioni possibili, quelle che possono essere davvero praticate, e in tempi brevi. giovani solidali Ma che cosa pensano i giovani del lavoro? E che cosa ne deriva, in termini di orientamenti valoriali? Elementi interessanti vengono da una recentissima ricerca della Gioc – Gioventù Operaia Cristiana – su un campione di oltre 3000 giovani dai 15 ai 35 anni. Il lavoro, intanto, è al terzo posto nella graduatoria degli interessi (94,7%), subito dopo la famiglia (98%) e le relazioni di amicizia (95,8%), che risultano essere più importanti dell’amore. Lavoro, inoltre, non vuol dire necessariamente carriera: se per i giovanissimi, che ancora del mondo del lavoro sanno poco, i due termini sono frequentemente correlati (81%), tra quelli sopra i 30 anni, più pragmatici e realisti, è solo il 63,5% che attribuisce molta o abbastanza importanza alla carriera. Come rispetto all’istruzione, infine, sono i maschi i più interessati alle ricadute estrinseche del lavoro (la retribuzione, il successo), mentre le ragazze sono più attente ai suoi valori intrinseci (i contenuti del lavoro, la soddisfazione di farlo bene). Le giovani generazioni, comunque, sembrano lontane dal concepire la vita come una giungla in cui è necessario farsi stra- da a tutti i costi, magari a scapito degli altri. Il valore della solidarietà è molto gettonato (75,1%), anche se con una notevole distanza tra i generi: l’83,9% delle donne contro il 66,4% dei maschi. L’attenzione alla solidarietà, inoltre tende a crescere con l’età e con il titolo di studio: significativamente, credono nei valori della solidarietà molto di più i laureati di quelli che non hanno neppure assolto l’obbligo scolastico. Eppure sono proprio questi ultimi che, in quanto più deboli socialmente e nel mercato del lavoro, potrebbero avere più bisogno di una società più solidale: e in verità, con i loro livelli di istruzione così bassi, segnalano di aver già avuto bisogno di sostegni che invece gli sono stati negati. Assai più in basso nella scala dei valori, sono l’impegno sociale (57,2%) e l’impegno religioso (47,8%), mentre si conferma la forte distanza dalla politica, all’ultimo posto con solo il 22,2% degli apprezzamenti. A differenza, dunque, delle numerose interpretazioni secondo cui i giovani sarebbero fortemente autocentrati su se stessi, le proprie convenienze, il proprio benessere, dalla ricerca Gioc affiorano dati in parte diversi. Solidarietà è l’idea per cui una società giusta è quella che tutela le persone deboli e svantaggiate (87,8% di accordo), che mette al centro le persone e garantisce politiche di welfare utili a garantire un’esistenza dignitosa anche a chi ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Fiorella Farinelli aranno gli echi delle rivolte della vicina Francia, ma nel discorso pubblico italiano, pure distratto dai continui artificiosi surriscaldamenti che trascinano via dai problemi veri, sembra tornare al centro il tema del rapporto dei giovani con il lavoro. O meglio, il rapporto obbligato con il precariato professionale, come causa e cifra di un’incertezza generazionale acuta, di natura e impatto quasi esistenziale. E pensare che fino a non molto tempo fa andavano per la maggiore generalizzazioni del tutto diverse. In cui si escludeva che il lavoro – questo valore di un passato fordista irrimediabilmente tramontato – potesse avere ancora, per le generazioni più giovani, un significato identitario. E in cui pareva che fossero di tutt’altro tipo le dimensioni di autoriconoscimento individuale e collettivo. Le mode e i consumi, le culture espressive, la ricerca del benessere e del divertimento, i miti del successo individuale, i ritorni neospiritualisti, le nuove religiosità. Tutto ricacciato sullo sfondo, tutto ridimensionato dall’inquietudine molto concreta di un possibile peggioramento delle proprie condizioni rispetto a quelle dei genitori, di un futuro insidiato da lavori mai stabili, di un’impossibilità di programmare le proprie scelte di vita. Anche nella recente campagna elettorale, il solo approccio visibile ai temi del lavoro – per il resto ampiamente trascurati per 25 solidali ma non ugualitari ROCCA 1 GIUGNO 2006 Giovani solidali, dunque. Ma, nel campo specifico del lavoro, con evidentissimi tratti anche di tipo meritocratico: sono infatti solo poco più di un terzo quelli per cui i livelli retributivi devono tener conto sopratutto della numerosità delle famiglie, o della presenza di familiari invalidi, portatori di handicap, malati. Per la grande maggioranza, il salario non deve rispondere ai principi della solidarietà – all’eguaglianza di tutti in termini di bisogni e di diritti. Al contrario, le retribuzioni devono rispondere alle competenze possedute e alla produttività, ai diversi livelli dei titoli di studio e delle responsabilità professionali. E, in questo ambito, riemergono le variazioni correlate all’ambito sociale di appartenenza: tra i figli degli operai solo il 54,5% aderisce ai principi meritocratici, ben più diffusamente apprezzati (67,2%) dai figli del ceto impiegatizio, degli insegnanti, dei professionisti, degli imprenditori. I ricercatori della Gioc sottolineano la contradditorietà di questi dati con quelli relativi al valore attribuito alla solidarietà, ma forse la spiegazione è altrove. Forse è più attendibile concludere che, secondo i giovani di oggi, dev’essere la comunità, cioè i sistemi di welfare, e non i regimi contrattuali, a farsi carico della protezione dei più deboli. Siamo lontani, quindi, dall’egualitarismo di qualche decennio fa, quando erano il lavoro dipendente e le sue organizzazioni sindacali, a sostenere e praticare – anche nelle rivendicazioni economiche – la necessità di non allargare troppo la forbice retributiva tra i diversi livelli professionali, tra operai ed impiegati, tra mansioni esecutive e mansioni di responsabilità, tra categorie della produzione e categorie dei servizi. Se l’appartenenza a una società unisce, il lavoro invece divide o può dividere. Pesano, con tutta evidenza, le culture sociali prevalse negli ulti26 mi vent’anni, le politiche retributive che hanno enormemente accentuato i divari economici tra i diversi settori di lavoratori, la progressiva accettazione di un mercato del lavoro profondamente segmentato in cui ci sono prestazioni pagate venti o trenta volte meno di altre. garantismo PAROLE CHIAVE precarietà e disoccupazione Pesa, rispetto a tutto ciò, anche la diffusa precarietà del lavoro dei giovani? Si direbbe di sì, visto che il lavoro – la sua mancanza, la sua instabilità – è fonte di grande inquietudine e incertezza. Il futuro lavorativo è al primo posto tra le preoccupazioni dei giovani, il 24,9% indica sopratutto la precarietà, i valori più alti si concentrano tra i più giovani, fino ai 24 anni e tra i 25 e i 29 anni, cioè nelle fasce di età che sperimentano le prime esperienze professionali e le prime difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. Una preoccupazione che, sintomaticamente, è più acuta tra quelli che hanno i livelli di istruzione più alti (36,2% tra i laureati contro il 21,8% di quelli che hanno solo la licenza media), mentre il rapporto si inverte nella paura per la disoccupazione, dove sono i laureati quelli che ne hanno di meno. Un rispecchiamento fedele di quello che sta effettivamente avvenendo nel mercato del lavoro, dove la maggioranza di chi ha solo una qualifica professionale dispone di contratti a tempo indeterminato (61,4%), mentre sono i ragazzi più istruiti a soffrire di più della loro mancanza: hanno un lavoro stabile solo il 30,4% dei diplomati e solo il 39,7% dei laureati. Anche in Francia, del resto, alla testa delle mobilitazioni contro il «contratto di prima assunzione», pure sostenute dai sindacati, non c’erano i giovani operai ma gli studenti delle università e dei licei: quelli che hanno maggior ragione di temere un futuro lavorativo intessuto di instabilità, quelli che percepiscono di più il rischio di lavori incoerenti con il titolo posseduto e lontani dalle aspirazioni maturate nei lunghi percorsi di studio. Una situazione foriera di grandi rischi, perchè la paura – è noto – ingenera spesso più divisioni ed egoismi che unità e autentica solidarietà. Eppure è di una dimensione collettiva che la «generazione dei precari» ha maggiore bisogno. Romolo Menighetti P uò definirsi come teoria delle garanzie giuridiche, politiche e costituzionali mirate a tutelare i cittadini dagli arbìtri e dalle prevaricazioni dei detentori del potere politico. È un concetto strettamente legato all’idea di Stato di diritto. Costatato, come osserva Montesquieu ne L’esprit des lois, che «ogni uomo che detiene un potere è portato ad abusarne» è necessario che «il potere freni il potere». È in conformità con questa idea che egli elaborò la sua celebre teoria della separazione dei poteri. Il garantismo è strettamente collegato al costituzionalismo moderno, che ha tra i suoi valori fondanti, appunto, la limitazione del potere, anche della maggioranza. Agganciare il garantismo alla Costituzione significa sottrarre la tutela dei diritti ai compromessi, alle mediazioni, alle convenienze di chi al momento governa, nonché agli interessi del mercato, per ancorarli, invece, ai valori oggettivi che i padri della Repubblica hanno considerato irrinunciabili per una moderna democrazia. Nella Costituzione italiana sono diversi gli articoli esprimenti i principi del garantismo. Questi, tra l’altro, affermano. All’articolo 13: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa alcuna forma di detenzione, ispezione o perquisizione personale, se non... nei soli casi e nei modi previsti dalla legge… La legge stabilisce i limiti della carcerazione preventiva». All’articolo 24: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado di procedimento... La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». All’articolo 25: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». È dunque nel contesto della legge, quella fondamentale e quelle ordinarie, che è assicurato il garantismo. Alla legge – ma solo alla legge – sono soggetti anche i magistrati, i custodes, pur nella loro indipendenza dal potere esecutivo. Considerandolo, in particolare, in riferi- mento ai procedimenti penali, si può dire che il garantismo è il principio in base al quale il cittadino che si trova in essi coinvolto deve poter disporre di tutti gli strumenti difensivi, necessari ad assicurargli un’efficace tutela. All’opposto del garantismo c’è il giustizialismo, cioè l’eccesso accusatorio da parte della pubblica accusa, tramite l’uso di strumenti di pressione (ad esempio, richieste di carcerazione ingiustificate) tendenti a comprimere le garanzie dell’imputato. Non si può, in astratto, dire che «garantismo» o «giustizialismo» siano di destra o di sinistra. Però la grande battaglia a favore del garantismo fu combattuta dalla Sinistra negli anni Settanta. Si ricordano: le manifestazioni contro la legge Reale che contemplava il fermo di polizia; l’introduzione dell’obbligo dell’avviso di garanzia onde evitare che il cittadino fosse indagato a sua insaputa. Lo stesso Codice di Procedura penale che ha sostituito il rito inquisitorio con il rito accusatorio è frutto delle mobilitazioni di quegli anni. All’epoca, il cittadino che aveva a che fare con la giustizia, di fatto non risultava adeguatamente tutelato da una legislazione ancora in gran parte risalente al fascismo. Le battaglie politiche degli anni Settanta portarono gradualmente ad equilibrarsi i ruoli di accusa e di difesa. Va rilevato però che oggi questo equilibrio è stato alterato ai danni dell’accusa da una serie di leggi che creano non già garanzie difensive a favore del cittadino, ma una serie di strumenti che consentono alla difesa di disporre cavilli di ogni sorta, onde ostacolare il normale corso dei processi penali. Leggi che consentono all’imputato di difendersi non già «nel» processo, ma «dal» processo. Perciò imputati ricchi, con avvocati agguerriti, possono allungare indefinitamente i tempi del processo e sottrarsi così alla giustizia. Pertanto ora si è in presenza di un eccesso di garanzia a favore dell’imputato, a scapito dell’accusa. L’obiettivo di una società civile è invece quello di assicurare, nell’ambito del processo, un giusto punto di equilibrio tra gli strumenti a disposizione della difesa e quelli a disposizione dell’accusa. Fiorella Farinelli 27 ROCCA 1 GIUGNO 2006 INCHIESTA GIOC è più debole: un’opinione che non conosce variazioni significative secondo il genere e l’età, ma solo secondo il titolo di studio, con i laureati più convinti di quelli con la sola licenza media. Spicca, in questo quadro, il basso livello di adesione (19,3%, ma ancora una volta i meno istruiti sono anche i meno generosi) all’affermazione secondo cui «la maggior parte delle persone povere lo sono per colpa loro». AMBIENTE il dissesto idrogeologico d’Italia 28 D verse case costruite in maniera abusiva e in attesa – da un quarto di secolo – di condono. edilizia incontrollata Gli esperti sanno che case abusive (e quindi costruite in modo non controllato) in una zona ad alto rischio di dissesto idrogeologico rendono la tragedia non inattesa, ma del tutto prevedibile. La frana è giunta, dunque, inattesa per una comunità (locale, regionale, nazionale) che non ha voluto vedere. E già perché l’isola d’Ischia non è famosa solo per i suoi meravigliosi paesaggi e per le impareggiabili acque termali. Ma anche per la sua frenetica attività edilizia. Da quando mezzo secolo fa è (ri)diventata famosa e da povera e contadina la sua economia si è trasformata in opulenta e turistica, l’isola è stata interessata da un’espansione edilizia incontrollata, di cui i numeri – aumento tra il 1951 e il 1991 del 222% delle case residenziali e, addirittura, del 752% delle case di villeggiatura; cui bisogna aggiungere oltre 5.000 nuove case costruite dopo il 1994 – pur se ragguardevoli ci danno solo una pallida idea. Ischia vanta uno dei fenomeni di abusivismo più eclatanti e impuniti d’Italia. Dal 1951 a oggi i vani costruiti in maniera illegale sono oltre 140.000. E nei primi tre mesi del 2004 – in attesa dell’ennesimo condono – la polizia municipale nei sei comuni dell’isola ha messo i sigilli a oltre 500 nuovi cantieri fuorilegge. Se la frana è giunta inattesa sotto le pendici del Monte Vezzi, dove persino la Regione e il Comune hanno localizzato un impianto per la compattazione dei rifiuti solidi urbani, è perché una comunità (locale, regionale e nazionale) ha rimosso il pericolo. Ignorandolo, ha cercato di esorcizzarlo. Creando le premesse per il tragico paradosso di una frana inattesa, eppure annunciata. un rischio diffuso Ma la vicenda non riguarda solo la piccola – e non più piccola – isola. Riguarda l’intero paese. Perché è una parte notevole del suo territorio – oltre il 7% della superficie complessiva – a rischio di dissesto idrogeologico. Perché l’abusivismo e, più in generale, l’attacco al territorio sono fenomeni che, sia pure in maniera differenziata, lo investono dalle Alpi a Lampedusa. E perché a tutt’oggi il sistema più usato per gestire il pericolo che discende da questi due fatti è quello di rimuoverlo. Sono i numeri, d’altra parte, che parlano. Negli ultimi 80 anni il territorio italiano ha subìto 5.400 alluvioni e 11.000 frane. Eventi di dissesto idrogeologico che solo negli ultimi 20 anni hanno coinvolto 70.000 persone e prodotto danni superiori a 15 miliardi di danni negli ultimi 20 anni (fonte ufficiale: Apat, agenzia per la protezione dell’ambiente e del territorio). La superficie nazionale soggetta a rischio idrogeologico, dicono le fonti del Ministero dell’Ambiente, e quindi legata a frane e alluvioni è pari 21.505 Km2 (il 7,1% del territorio italiano). Le cinque regioni più a rischio rispetto alla superficie totale sono la Valle d’Aosta (660,2 Km2 pari al 20,2% del territorio regionale), la Campania (2.253 Km2 pari al 16,5% del territorio regionale), l’Emilia Romagna (3.217 Km2 ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Pietro Greco icono che la frana sia scesa inattesa, domenica 30 aprile, dalla collina di Monte Vezzi e si sia abbattuta a valle su alcune ignare case dell’isola d’Ischia, portandosi via la vita di un uomo e delle sue tre figlie. Inattesa è stato l’aggettivo più usato nell’isola per spiegare la tragedia. E chi fino al giorno prima avesse guardato il Monte Vezzi, alto 400 metri, tutta verde e magnificamente arborata, avrebbe trovato la spiegazione del tutto congruente. D’altra parte nessuno, a memoria d’uomo, ricordava che la collina fosse mai stata ferita da movimenti del terreno. E né la presenza di fattori antropici (massicci disboscamenti, incendi, sbancamenti) né la presenza di altri fattori evidenti sembravano annunciare il disastro a occhi inesperti. A occhi inesperti, appunto. Perché gli esperti geologi avevano già classificato il Monte Vezzi come zona ad alto rischio di dissesto idrogeologico, per via di quella sua natura geofisica e della storia di vulcanismo di cui la collina era stata protagonista in passato. E perché lì, sotto le sue pendici, avevano trovato posto di- 29 alluvioni e frane E infatti sono 5.581 (il 68,9% del totale, oltre due su tre) i comuni italiani che ricadono in aree classificate al più alto rischio idrogeologico. Questi comuni sono così suddivisi: il 21,1% ha nel proprio territorio aree franabili; il 15,8% aree alluvionabili e il 32,0% aree a dissesto misto (sia franabili sia alluvionabili). Il rischio alluvioni. Riguarda 7.744 km2, pari al 2,6% del territorio nazionale, ed è concentrato soprattutto in tre grandi aree: Val d’Aosta, Piemonte, Liguria e Lombardia; Emilia Romagna e Toscana; Campania, Calabria e Basilicata. Ne sono avvenute 1.003 negli anni compresi tra il 1991 e il 2001: con una media annua di 91. In pratica, un’alluvione ogni 4 giorni. Il rischio frane. Riguarda 13.760 km2, pari al 4,5% del territorio nazionale. Le cinque regioni più a rischio rispetto alla superficie totale sono la Valle d’Aosta (637 Km2 pari al 19,5% del territorio regionale), la Campania (1.615 Km2 pari al 11,8% del territorio regionale), il Molise (499 km2 pari al 11,2% del territorio regionale), l’Emilia Romagna (2.210 Km2 pari al 10,0% del territorio regionale) e le Marche (934 Km2 pari al 9,6% del territorio regionale). Tra il 1991 e il 2001 si sono registrate in Italia almeno 12.075 fenomeni franosi: con una media annua di 1097. In pratica, 3 frane al giorno. emergenza politica prioritaria ROCCA 1 GIUGNO 2006 L’alto rischio potenziale e l’intensa attività di concreto dissesto si traducono, molto più spesso di quanto si creda, in effetti reali. Che spesso – molto più spesso di quanto non si creda, ha conseguenze dirette sulle persone. Ogni mese in media muoiono almeno 9 persone per frane. Una ogni tre giorni. Anche se il fenomeno rompe il muro dell’attenzione dei mass media piuttosto raramente (la frana del Vajont nel 1963, la frana di Sarno nel 1998), quello tragico di Ischia non è dunque un’eccezione inattesa. È un evento frequente e largamente annunciato. Il rischio frana e, più in generale, il rischio 30 dissesto idrogeologico per la loro imminenza, la loro diffusione e i loro effetti enormi (sia in termini economici sia, soprattutto, in numero di vite umane) costituiscono dunque un’emergenza primaria del nostro paese. Che ci impongono azioni precise e non derogabili: conoscere le aree a rischio e rimuovere i fattori (antropici e naturali) di pericolo. In altre parole, prevenire gli annunciatissimi «eventi inattesi». Il che significa redigere mappe sempre più dettagliate delle aree soggette a dissesto idrogeologico, tener cura degli ambienti naturali non urbanizzati, proibire nel modo più assoluto la loro urbanizzazione (legale e a maggior ragione abusiva). Inutile dire che poco di tutto questo è stato fatto. Che persino in un territorio piccolo, noto e opulento come l’isola d’Ischia, costituito da friabili tufi e depositi piroclastici, è così poco noto da generare fenomeni colpevolmente inattesi. Per minimizzare l’annunciatissimo rischio idrogeologico occorre una grande opera. La prima grande opera di cui ha bisogno il paese. Si tratta di investire – calcola il ministero dell’Ambiente – circa 40 miliardi di euro. È una cifra grande, ma non impossibile. Dal 1991 a oggi, i fondi stanziati sono stati 5,3 miliardi di euro (3,1 grazie alla legge 183 del 1989; 1,5 miliardi grazie al Decreto legge 180 del 1998; 0,7 per deliberazioni del Cipe). Il 12% del necessario. studio e ricerca Se in questi ultimi 15 anni non è mai stato speso molto per la prevenzione del rischio idrogeologico, gli ultimi cinque anni, quelli del governo Berlusconi, sono stati, anche in questo settore, devastanti. Basti ricordare che l’ultima Finanziaria ha tagliato i fondi per la difesa del suolo dai pochissimi 200 milioni di euro ai ridicoli 120 milioni di euro. E che, come rivela Legambiente, la riduzione dei fondi ha avuto come primo effetto quello di penalizzare le attività di studio e ricerca. Proprio quelle attività che dovrebbero impedire di definire inattesa una frana su una collina piroclastica nel paese dei vulcani e del dissesto idrogeologico. Ecco, dunque, un progetto davvero qualificante per i primi cento giorni del prossimo governo di centrosinistra. Investire nell’opera più grande e necessaria: conoscere il territorio e combatterne il dissesto. TERRE DI VETRO buon tempo Oliviero Motta na buona giornata, quella che sta per finire; lo vedi dall’espressione del viso e dal passo soddisfatto col quale esce dall’ufficio. Gianpaolo lo incrocio spesso, ma è difficile vederlo così contento: lavorare per i servizi sociali di un grande comune dell’hinterland metropolitano non è infatti semplice. È impegnativo da un lato per la complessità della rete da tenere insieme e da coordinare e, dall’altro, per la diversificazione dei problemi, talvolta drammatici, a cui si deve tentare di rispondere. E non sono rari i giorni in cui questo mestiere diventa duro: sono di solito le giornate in cui misuri la distanza tra gli strumenti che hai a disposizione e i problemi che devi affrontare. Perché proprio nel mezzo di questa distanza finisci per cozzare contro le attese aggressive o persino violente dei tuoi «utenti». C’è infatti anche questo da mettere in conto, soprattutto oggi che tanto spesso i problemi di ordine economico e sociale si intrecciano strettamente con disagi e deficit di salute mentale. Ma oggi è stata una buona giornata perché tutti gli ingranaggi hanno girato come si deve e niente è andato storto. «Ti ricordi Federico?». Certo, difficile dimenticarsi di lui, con il suo rapidissimo passaggio dalla «normalità» alla strada: nel giro di un stagione ha rotto con la moglie, perso il diritto di entrare in casa «sua» e visto affondare la piccola ditta artigianale a conduzione familiare. Proprio oggi i diversi operatori sociali che si occupano di lui sono riusciti con un buon gioco di squadra a far certificare la sua situazione di emergenza abitativa e a recuperargli un colloquio di lavoro con ottime prospettive di assunzione a tempo indeterminato. Certo, rimane la preoccupazione sulla sua tenuta al lavoro e sui tempi entro i quali finalmente potrà abbandonare la macchina dentro cui dorme da settimane. U Eppure la soddisfazione di Gianpaolo oggi è legittima e fondata: sono stati compiuti due seri passi in avanti verso l’autonomia di Federico e sono stati fatti in tempi accettabili. «Già, ma accettabili per chi?». È tornato serio, Gianpaolo, e riflette sui diversissimi tempi di marcia delle emergenze e degli strumenti a disposizione. «È davvero bello quando riesci a vedere che il tuo lavoro ha un senso, che un progetto di emancipazione e di autonomia personale si definisce e si concretizza. Eppure pensa un attimo a queste persone, come a tante altre che incontriamo: quanto devono aspettare per avere risposte concrete? Pensa ai tempi di attesa per un alloggio pubblico o a quelli per l’inserimento lavorativo di una persona disabile o perché certe situazioni border line di sofferenza familiare vengano prese in carico… A volte mi chiedo se noi saremmo capaci di tanta pazienza, di tanta perseveranza nell’attendere e nello stimolare i tempi lenti e irregolari delle istituzioni». Tutto vero, purtroppo. E mentre ci guardiamo, ci vengono in mente i tanti episodi di esplosione di rabbia e di disperazione per il proprio destino o per quello dei propri cari: pugni sul tavolo e parole grosse, quando va bene, se non sguardi allucinati e taniche di benzina nelle mani tremanti. Sono i tempi del bisogno pressante e dei tentativi di risposta che quasi mai riescono a collimare. E talvolta tutto sembra complottare per non farli coincidere: le risorse sempre più centellinate ai servizi pubblici e privati, ma anche una fisiologica difficoltà a far maturare processi complessi e compartecipati da diverse professionalità e competenze. «A volte sembra di essere mandati in trincea con le pistole ad acqua. Ti ricordi, quelle delle nostre estati da bambini?». Già, quando il tempo sembrava così tanto. E così buono. Pietro Greco 31 ROCCA 1 GIUGNO 2006 AMBIENTE pari al 14,5% del territorio regionale), il Molise (615,7 km2 pari al 13,8% del territorio regionale) e la Toscana (2.709 Km2 pari all’11,8% del territorio regionale). Come si vede: regioni del nord, del sud e del centro. A dimostrazione che il rischio idrogeologico è davvero diffuso in tutto il paese. AFGHANISTAN il secondo pantano È ROCCA 1 GIUGNO 2006 traffici di morte Esiste anche un altro aspetto assurdo da evidenziare, su cui i principali mass media hanno calato un assordante silenzio: «Il narcotraffico è la fonte principale – ha affermato Mario Costa, direttore di Unoc (l’ufficio antidroga dell’Onu) – dell’insta32 bilità e del terrorismo. Se non combattiamo seriamente questo problema rischiamo di vanificare gli sforzi fatti fino ad oggi per creare un Afghanistan nuovo e democratico». È risaputo e lo afferma l’agenzia pacifista Peacereporter: l’eroina che uccide i giovani in Europa ed in Italia è quella ottenuta con l’oppio afghano. I nostri politici della «tolleranza zero» sulla droga dovrebbero spiegarci come mai soldati italiani sono di fatto alleati con i signori della guerra del Paese asiatico e padroni del commercio di oppio, l’unico motore dell’economia afghana. Quando il Mullah Omar governava a Kabul tale produzione era minima, esisteva addirittura il rischio della pena di morte, mentre oggi agiscono alla luce del sole. Il Presidente Karzai, la cui autorità non si spinge molto al di fuori della capitale, nulla può per stroncare questi traffici di morte. La raccolta di oppio nel 2003 è stata pari – secondo Peacereporter – a 3,6 tonnellate (+6% rispetto la 2002) in 28 province sulle 32 che compongono l’Afghanistan. Del resto una famiglia guadagna una fortuna a coltivare il prezioso papavero, ben 4.000 dollari l’anno, non ci si deve stupire se esso è il mezzo di sostentamento del 7% dell’intera popolazione. I contadini guadagnano le briciole del grande traffico, mentre ai signori della guerra vanno cifre da capogiro, la gran parte di un giro d’affari stimabile in 2,3 miliardi di dollari che sono reinvestiti nelle armi e nel pagamento dei combattenti, in una spirale perversa che promette sempre maggiori sofferenze. codice di guerra La recente campagna elettorale è stata un’occasione perduta, si è parlato unicamente di tasse, non di politica internazionale, non dei motivi reali che ci hanno spinto ad essere presenti militarmente nel paese, inviando centinaia di soldati. Del resto è noto che tale presenza è senza ombra di dubbio connessa ad una missione di guerra, tant’è vero che ai militari si applica, come in Iraq, il codice di guerra. Di fronte a questa situazione ben pochi, oltre all’estrema sinistra, parlano di ritiro, da quello che è divenuto il secondo pantano dopo quello iracheno. Ogni settimana aumentano gli attentati, gli attacchi kamikaze e i morti anche fra i soldati occidentali, mentre i civili afghani non li conta nessuno. Ragion per cui anche questa guerra è ben lungi dall’essere vinta. cosa fa l’Italia? Non è inutile ripetere che con i soldi spesi per il conflitto si potevano risolvere gli enormi problemi economici e sociali del- l’Afghanistan, invece nonostante la «liberazione» i suoi abitanti hanno una qualità della vita fra le peggiori del mondo. In un simile contesto che cosa fa l’Italia? Invece di sganciarsi da una situazione incancrenita aumenta la presenza militare. Nei giorni scorsi il gen. Tricarico Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica ha affermato che sei aerei Amx sono pronti a partire a disposizione della Nato nell’ambito della missione Isaf, che presto si espanderà nel sud-ovest in cui sono più forti i guerriglieri talebani. Sarebbe auspicabile, per coerenza, che il nuovo Governo Prodi, oltre a ritirare i soldati da Nassirya, li ritiri anche dall’Afghanistan e si limiti a fare ciò che la popolazione apprezzerebbe maggiormente: un forte contributo a sminare il Paese, uno dei più infestati dal flagello e che costituisce un grave ostacolo a ogni tipo di attività dal gioco dei bambini all’agricoltura ed alla pastorizia. La Valsella è famosa per aver fornito un gran numero di ordigni che hanno martoriato tanti corpi innocenti. Abbiamo il dovere morale di intervenire, per riscattare il nome del nostro Paese. La società civile con l’ospedale di Emergency, in cui gli afghani vengono curati gratis, ha fatto la sua parte, sarebbe ora che anche lo Stato faccia la sua parte voltando pagina. ROCCA 1 GIUGNO 2006 Luciano Bertozzi sufficiente leggere i rapporti di Amnesty International e delle altre organizzazioni analoghe per vedere come in realtà ben poco sia cambiato con il nuovo regime: la condizione delle donne è migliorata soltanto di poco, se non per nulla, il burqa l’emblema stesso dell’esclusione della donna dalla vita politica e sociale è ancora ben lungi dall’essere eliminato e poi non è ammessa la libertà di scelta religiosa, la vicenda di Abdul Rahaman, l’apostata afghano che ha rischiato la condanna a morte per aver abbracciato la fede cattolica, è emblematica. «L’aggravarsi del contesto di illegalità e insicurezza ha reso vani – scrive Amnesty International nel suo rapporto Annuale 2005 – i tentativi di instaurare la pace e la stabilità». La stroncatura dell’Associazione umanitaria si riferisce anche alla condizione delle donne, che «hanno continuato a subire livelli di violenza sistematica e diffusa e discriminazioni sia in ambito pubblico sia privato». Luciano Bertozzi 33 ETICA POLITICA ECONOMIA sussidiarietà e solidarietà L per una chiarificazione dei termini Il principio di «sussidiarietà» ha costitui34 to fin dagli inizi uno dei cardini della cosiddetta «dottrina sociale» della Chiesa: il documento in cui si trova per la prima volta enunciato è l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931). Di fronte al pericolo (non puramente ipotetico) dello statalismo, il Papa rivendica il diritto alla libertà di espressione dei singoli e dei «corpi intermedi» (è questa l’espressione usata) della società, giustificando l’intervento dello Stato (perciò delle istituzioni pubbliche) solo in funzione «sussidiaria» (da subsidium = aiuto: di qui il termine «sussidiarietà»), cioè solo laddove esso è richiesto da evidenti esigenze di «bene comune» (n. 80). Il principio di «sussidiarietà» è qui concepito (ma un’analoga visione si trova anche nei documenti del magistero ecclesiale immediatamente successivo) come il principio fondamentale dell’ordinamento della vita sociale, la quale deve fare anzitutto spazio alla libera iniziativa che si sviluppa dal basso, cioè alle associazioni spontanee dei cittadini, riservando allo Stato un compito di integrazione laddove sono in gioco diritti (o interessi) collettivi non sufficientemente tutelati dall’iniziativa privata. L’affermarsi del fenomeno della socializzazione e lo sviluppo di crescenti forme di interdipendenza, non solo tra i vari settori nei quali si articola la convivenza umana ma soprattutto tra i diversi popoli della terra – in questo consiste la «globalizzazione» – ha reso evidente la necessità di integrare il principio di «sussidiarietà» con quello di «solidarietà» (da solidum, termine di origine giuridica utilizzato per definire la responsabilità collettiva), che acquisisce, a partire dalla Populorum progressio di Paolo VI (1967), un ruolo sempre più centrale, in quanto criterio al quale riferirsi per sanare le sperequazioni sociali esistenti e ripristinare la giustizia tra gli uomini e le nazioni. L’unificazione del mondo, provocata dal progresso tecnologico in tutti gli ambiti della vita, rende trasparente la necessità di riforme strutturali che reclamano l’intervento dei pubblici poteri per dar vita a un ordine mondiale equo. I due principi risultano pertanto entrambi essenziali: si tratta di mediarli correttamente tra loro, riconoscendo al principio di solidarietà il significato di orizzonte ultimo entro cui sviluppare l’azione politica e a quello di sussidiarietà il carattere di strumento necessario per determinare il coinvolgimento responsabile dei vari attori sociali nel processo volto alla ricerca del «bene comune». lo Stato sociale Il principio di solidarietà si è affermato in Occidente, a partire dall’ultimo dopoguerra, grazie allo sviluppo dello Stato sociale (Welfare State). I processi di socializzazione e di interdipendenza ricordati hanno infatti contribuito ad evidenziare i limiti dello «Stato di diritto» di matrice liberale, incentrato sul riconoscimento dei «diritti di libertà», validi in realtà soltanto per coloro che hanno il potere di farli valere, cioè per i soggetti socialmente garantiti. La teoria keynesiana tende a fornire a tali diritti una seria tutela sociale, assicurando a tutti la possibilità di accesso ad alcuni beni fondamentali per lo sviluppo della vita personale e per l’esercizio effettivo della cittadinanza. 35 ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Giannino Piana o stato di complessità, che caratterizza la nostra società, rende sempre meno facile la regolamentazione dei rapporti tra individui, gruppi sociali e istituzioni pubbliche. Le reciproche interferenze e le sovrapposizioni rischiano di creare talora pericolosi cortocircuiti, che finiscono per compromettere l’autonomia dei singoli ambiti e per favorire l’affermarsi di processi conflittuali tra di essi con ripercussioni fortemente negative sullo sviluppo della convivenza civile. È dunque necessario un serio impegno di ridefinizione dei ruoli (e delle competenze) di ciascuna soggettività individuale e collettiva nel quadro di una visione globale (e unitaria) del contesto sociale; ed è soprattutto necessaria la produzione di un modello adeguato di relazioni tra società e Stato, che salvaguardi l’identità di ciascuna delle due entità e crei le condizioni per una loro feconda cooperazione. I due principi di «sussidiarietà» e di «solidarietà», la cui elaborazione originaria va ascritta al magistero sociale della Chiesa (e che sono alla base della nostra Costituzione), possono diventare, se correttamente interpretati, un importante strumento per la determinazione di equilibri (sempre aperti) tra le varie aggregazioni che strutturano il tessuto sociale; equilibri che garantiscano piena espressione alle diverse realtà associative e concorrano a promuovere esperienze di vita collettiva partecipata e solidale. verso una forma nuova di sussidiarietà ROCCA 1 GIUGNO 2006 La difesa e il rafforzamento dello Stato sociale devono costituire la preoccupazione primaria di un’azione politica impegnata a promuovere l’uguaglianza tra i cittadini e a favorire, di conseguenza, il dilatarsi della partecipazione. Ma il perseguimento di questi obiettivi è oggi possibile solo se si procede alla sua riforma; se si innescano cioè dei 36 processi di decentramento sempre più ampi, che favoriscano una più stretta interazione e collaborazione tra istituzioni pubbliche e soggettività sociali. Il principio di sussidiarietà ricupera qui piena attualità. Da esso scaturisce anzitutto l’esigenza di una più equa distribuzione dei poteri tra le diverse istituzioni pubbliche (Stato, regioni, province, comuni, ecc.) – è questa la cosiddetta sussidiarietà «verticale» – con l’adozione di una metodologia dal basso che assegna anzitutto alle istituzioni più piccole il compito di intervenire nella gestione e nel controllo dei servizi, coinvolgendo, man mano, quelle più grandi e favorendo in tal modo l’innesco di forme di partecipazione più dirette e più efficaci. Ma da tale principio scaturisce anche – a questo si allude quando ci si riferisce alla sussidiarietà «orizzontale» – la necessità di una maggiore attenzione alla società civile, alle dinamiche che la connotano e alla libera iniziativa che in essa si sviluppa, per risvegliare le potenzialità (e le energie) che in essa si esprimono e sollecitarne l’impegno a favore dell’interesse generale. La pratica corretta di tale principio è possibile solo a condizione che si eviti il rischio della caduta in derive privatistiche, guidate da logiche meramente economiche o da interessi particolaristici del territorio, e che si dia pieno riconoscimento alla funzione insostituibile dello Stato (e delle istituzioni pubbliche in genere), cui non può essere assegnato un ruolo meramente residuale, ma al quale va riconosciuto il compito di indirizzare i processi individuali e sociali verso obiettivi di bene comune. delicati equilibri Sussidiarietà e solidarietà sono, in definitiva, principi che vanno reciprocamente integrati nel segno di delicati equilibri, che garantiscano, per un verso, la più ampia espressione delle libertà individuali e associative e favoriscano, per altro verso, l’edificazione di assetti di convivenza ispirati alla giustizia, capaci cioè di salvaguardare i diritti di tutti, a partire da quelli di coloro che vivono in situazioni di maggiore debolezza e marginalità. L’armonico sviluppo di una nazione esige infatti il riconoscimento dell’autonomia della società civile, ma comporta anche l’ammissione della necessità della società politica (e perciò dello Stato), che ha il dovere di assicurare a tutti (nessuno escluso) la possibilità di un effettivo esercizio della cittadinanza. Giannino Piana SOCIETÀ dal bipartitismo imperfetto al bipolarismo conflittuale Giuliano Della Pergola N ella patria della moderna democrazia, in Gran Bretagna, da molti secoli si fronteggiano due schieramenti politici, i conservatori (la destra) e i progressisti (la sinistra). Su questo stesso modello gli Stati Uniti organizzarono fin dalle origini della loro vita associata un proprio schema generale di democrazia parlamentare, quello che prevede un doppio schieramento, che è l’opposto di ogni altro modello a partito unico, non preserva le democrazie dal trasformarsi in oligarchie, ma la tutela dal rischio della tirannia. Invece, molti altri paesi acconsentono la pluralità delle voci in campo, non attraverso due schieramenti contrapposti, ma mediante alleanze politiche capaci di dare spazio a tutti. Ed è stato proprio questo il caso storico dell’Italia democratica repubblicana, un paese molto plurimo sul piano ideologico, che dunque per decenni ha visto non due schieramenti l’uno avverso all’altro contrapporsi in Parlamento, ma invece decine di partiti che convergevano o divergevano tra di loro a seconda dei diversi momenti storici (poiché la situazione generale era bloccata dalla frontale divisione tra Dc e Pci, che trascrivevano a livello nazionale lo stesso bipolarismo della Guerra Fredda). Fin tanto che, dopo il 1989, si credette opportuno trapassare dal bipartitismo imperfetto al bipolarismo perfetto, in pratica copiando dal sistema inglese il doppio schieramento della maggioranza contrapposta all’opposizione. Eravamo nella fase storica successiva alla caduta del muro di Berlino, subito dopo lo scioglimento della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista e dopo la liquidazione del Partito Socialista a mezzo dell’operazione Mani Pulite. Un passaggio politico che, assai impropriamente, venne da molti immaginato come un trapasso dalla Prima alla Seconda Repubblica («impropriamente», perché invece non vi fu alcuna modificazione della Costituzione, ma solo un mutamento degli attori del processo politico. La dizione «Seconda Repubblica» farebbe invece pensare ad un profondo cambiamento costituzionale). Avviene però che i cambiamenti della società non seguano i sotterfugi e gli espedienti politici del Parlamento. La società civile presenta sue dinamiche e, per quanto a sua volta, possa essere influenzata dalle leggi repubblicane e dalle posizioni partitiche, riesce sempre a seguire un suo andamento proprio, per molti aspetti indipendente dagli equilibri parlamentari. Così che, a questa relativamente nuova reciprocità di schieramento partitico non fece riscontro un forte cambiamento politico o ideologico, anzi, gran parte del Paese stava a guardare questo nuovo tipo di balletto tra i partiti con un sorriso di scherno. centro destra e centro sinistra I due schieramenti politici (Polo delle Libertà e allora Ulivo, oggi Unione) che dopo mille tergiversazioni emersero, non furono esattamente l’uno di destra e l’altro di sinistra, ma uno di centro destra e l’altro di centro sinistra. Che senso ebbe questo nuovo equilibrio in campo? Non significò solamente che, siccome le elezioni si vincono al centro perché è nel centro che si condensano più numerose le qualità politiche distribuite lungo l’intero corpo elettorale, i due schieramenti politici tesero ad avere un atteggiamento cautelato rispetto al proprio elettorato. Guardinghe furono anche le formazioni politiche principali che presero il campo di quelle scomparse: Forza Italia che guadagnava nei settori di voto lasciati liberi dalla fine della Democrazia Cristiana e da quella del Partito Socialista, e i Democratici di Sinistra, eredi del Partito Comunista Italiano. Ma se questa rimaneva l’ossatura di base del Parlamento repubblicano lungo gli anni Novanta, una miriade di altri partiti, più o meno numerosi, oltre che di liste nominative (Lista Pannella, Lista Di Pietro, Lista Bonino), nacquero, e sia pure obtorto collo 37 ROCCA 1 GIUGNO 2006 ETICA POLITICA ECONOMIA Vengono in tal modo ad affermarsi, accanto ai tradizionali «diritti di libertà», i «diritti sociali», che ricevono un ampio riconoscimento nelle Carte costituzionali nate nell’immediato ultimo dopoguerra – quella italiana assegna ad essi un ruolo di primo piano – e nelle stesse Carte internazionali, a partire da quella delle Nazioni Unite del 1948. L’intervento diretto dello Stato (o, in alcuni casi, degli organismi internazionali) è qui esigito come strumento di perequazione sociale o – come recita la nostra Costituzione all’art. 3 – come fattore indispensabile per «rimuovere gli ostacoli» che impediscono ad alcune categorie di persone – quelle più deboli – di diventare a tutti gli effetti cittadini. Salute, istruzione e lavoro sono infatti diritti essenziali di cui tutti devono poter fruire e che necessitano per questo di un’azione diretta delle istituzioni pubbliche, chiamate a favorirne l’accesso da parte di tutti. Lo «Stato sociale» è una conquista storica irrinunciabile; esso costituisce un punto di non ritorno nel processo di crescita civile della società. Non vi è dubbio, tuttavia, che la sua concreta attuazione (anche nel nostro Paese) è stata contrassegnata da vistosi limiti gestionali, legati soprattutto alla sua conduzione accentrata e all’eccessiva invadenza della «politica» (intesa qui nel significato più deteriore di partitocrazia), nonché da scarso rigore sul piano economico. La burocratizzazione dei servizi, l’incremento del privilegio di alcuni (o di alcune categorie) a scapito di altri e il moltiplicarsi degli sprechi hanno concorso a trasformare lo Stato sociale in «Stato assistenziale», alimentando critiche (talora pretestuose) che tendono alla sua demolizione. Tutto ciò mentre avanza in campo economico una forma di liberismo selvaggio, che fa del mercato «senza regole» il criterio esclusivo di conduzione dei processi sociali; e mentre la funzione dello Stato viene ridotta – si pensi all’idea di «stato minimo» di Nozick, uno dei più prestigiosi consiglieri del Presidente americano Bush – ad interventi di mera beneficenza (non esigiti dunque da ragioni di giustizia) nei confronti di alcune forme estreme di povertà. 38 La prima determina una situazione assurda tra due alleati che hanno una visione diametralmente opposta dello Stato e delle Amministrazioni locali: la Lega, che è fortemente portatrice di un pensiero populista e federalista (con venature razziste), addirittura al limite della secessione istituzionale dal resto dell’Italia, inventando un’etnia «padana» che non è mai esistita, producendo miti propri («le pure acque del Po» raccolte in un’ampolla e venerate come a Napoli si celebra il sangue di san Gennaro che si liquefà), è in favore di un’amministrazione settentrionale in opposizione al sud e al centralismo romano («Roma ladrona»), è sostenuta dalle banche popolari locali del nord est, alquanto liberista e tutta sbilanciata a favore delle aziende produttive lombarde e venete, fortemente radicata nell’arco sub alpino. E… anche alleata di An, un partito ex fascista, per la verità molto emancipato dalla sua originaria matrice, ma pur sempre un partito che raccoglie al sud il suo più ampio consenso elettorale, nazionalista e fiero oppositore di ogni tentativo secessionista, che vede in Roma il motore e il centro non solo dell’apparato amministrativo, ma soprattutto di quello politico generale, ispirato nel suo patrimonio ideologico alle «categorie produttive» di matrice corporativa. Come possano stare insieme due pensieri tanto antitetici sarebbe incomprensibile, se non si pensasse ad una solerte, continua, assidua azione di mediazione del Premier, che distribuisce privilegi e benemerenze ora agli uni ora agli altri, purché non rompano quel patto che, anche privatamente e di fronte ad un notaio, li impegna a condurre a termine collegialmente l’intera legislatura parlamentare. A sinistra all’inverso, le forze riformiste di Margherita e di Ds si misurano con un alleato che invece trae il proprio consenso politico proprio dalla non accettazione della prospettiva riformista. Ecco riemergere a sinistra la classica contrapposizione tra Riformisti e Rivoluzionari. Rifondazione Comunista fu contro la guerra in Serbia come oggi è contro la partecipazione italiana alla guerra in Iraq. Non è a favore di un disimpegno dilazionato dell’Italia dalla politica estera americana, ma a grande voce e mobilitando movimenti pacifisti e giovanili, chiede una radicale rottura con la politica estera fin qui perseguita. E non solo la politica estera, che pure resta il momento di maggiore attrito tra gli alleati a sinistra (fino al punto da immaginare una federazione a sinistra tra Cossutta e Bertinotti), è contraddizione tra i Ds e Rifondazione Comunista. Le contraddizioni toccano molti campi: in tema di lavoro revisione o abrogazione della legge Biagi?), del meridione d’Italia, per il recupero della marginalità sociale, del ruolo della scuola, della gestione del Welfare State, della funzione delle amministrazioni locali, di quello dei movimenti giovanili, dello spazio da lasciare ai centri sociali, eccetera, eccetera. L’invenzione di un formale doppio schieramento politico che superasse la logica delle alleanze tra i partiti, rivelatasi tanto labile per decenni, e ancorata ad un saldo «premio di maggioranza» parlamentare che rinsaldasse ancora di più la forza con cui l’esecutivo può condurre la sua azione di governo, sulla carta poteva sembrare forse ad alcuni un buon correttivo di quello che Giorgio Galli aveva chiamato «il bipartitismo imperfetto». Stingi stringi non s’è trattato che di un’ulteriore operazione istituzionale trasformistica: le forme della politica istituzionale non tematizzavano i mutamenti societari per inseguire, invece, il vuoto fantasma di origine inglese, astratto e puramente nominalistico se applicato all’Italia. La società civile italiana, in un certo senso «indifferente» verso il nuovo vestitino istituzionale che era stato avviato, interamente ha mantenuto le proprie laceranti contraddizioni. Come sempre in questo paese lo jato, la separatezza di fatto, la rottura qualitativa, che esistono tra forme della rappresentanza politica e dinamiche societarie, hanno persistito, sostituendo proprie autonome dinamiche allo schema inter partitico parlamentare. prospettive di evoluzione È propriamente il tipo di democrazia importata da altre esperienze nazionali e poi applicata al caso italiano, che sembrerebbe non potere funzionare adeguatamente. Quasi che ci fosse bisogno, per l’Italia, di un tipo particolare di elaborazione della democrazia, che finora non è stato trovato. Innanzi tutto occorrerà meglio definire le forme della rappresentatività sociale. Fin tanto che si rincorreranno gli equilibri infra-partitici e fin tanto che si cercherà di recuperare consenso ideologico, ricorrendo a candidati mutuati da altre forme di consenso (sport, spettacolo, magistratura…), non si potrà sanare questa separatezza. Ma in tutti i casi non basterebbe ricorrere ad una migliorata forma di rappresentatività politica. Occorrono poi anche nuove regole circa il passaggio dal maggioritario al proporzionale, perché una coalizione durevolmente possa rispettare le regole democratiche senza coartare a proprio favore una soluzione piuttosto che l’altra, solo che non voglia la- sciare all’avversario politico il favore del «premio di maggioranza». E poi sono state dimenticate altre questioni, che invece occorrerà riprendere. Fra le altre, va ripresa e va definita una volta per tutte, la scelta circa le relazioni che debbono regolare reciprocamente il Parlamento ed il Governo, nonché le forme del consenso politico ai livelli più alti (se dunque ci si ispiri al presidenzialismo o cancellierato, o al ritorno alle consultazioni tradizionali, se sia prevista una soglia di sbarramento – a un certo livello –, e poi le forme della creazione dei gruppi parlamentari, quelle relative alla determinazione del Gruppo Misto e del suo ruolo, quella della presenza di Indipendenti dai partiti, con cui si resta alleati ma non interni, infine il ruolo del ricorso ai referendum popolari abrogativi, il cui uso è stato tanto manipolato in questi anni). Nella prospettiva di assegnare alle eventuali soluzioni, non un compito legato all’impellenza e alla stringente attualità, ma invece quello di sviluppare una prospettiva di medio-lungo termine, perché solo con una visione alta della storia si possono produrre modelli politici di rappresentanza che sono stabili e duraturi. Perché «imperfetto» in Italia si direbbe, non solo il bipartitismo del periodo storico successivo al 1948, ma soprattutto il rapporto tra società civile e Parlamento. Azzardare una prospettiva sull’evoluzione del doppio blocco politico che s’è venuto costruendo di recente in Italia non è facile; tuttavia si potrebbe pensare che si possa andare verso la costituzione di due partiti contrapposti, come negli Stati Uniti i Democratici (a sinistra) e i Repubblicani (a destra). Apertamente, già si parla anche in Italia di un partito unico della sinistra nel quale potrebbero confluire Margherita, Ds e altri; e un partito solo a destra che sarebbe il nuovo contenitore della Casa delle Libertà. Addirittura, c’è chi crede che questo processo possa svilupparsi a breve, entro un anno. Dando corpo (alquanto fantasticamente) a questa prospettiva partitica, si potrebbe credere che metodologicamente sarebbe un buon processo quello che, senza ammazzare le differenze, anzi valorizzandole, consentisse a tutti di riconoscersi – senza identità dimezzate e con un più di azione comune – in un processo politico sinteticamente capace di promuovere ad un tempo singolarità, pluralità e associazionismo. Sarebbe questa una forma federale di partito moderno. ROCCA 1 GIUGNO 2006 ROCCA 1 GIUGNO 2006 SOCIETÀ dovettero schierarsi, o con gli uni o con gli altri. Dovevano scegliere uno dei due schieramenti generali, non potevano correre da soli. Così che i due contenitori generali si riempirono di liste e di nomi diversi, molto remoti gli uni dagli altri. Solo apparentemente essi erano due schieramenti compattamente opposti e ben definiti, ma in pratica invece erano due contenitori che davano spazio a realtà politiche autonome e differenti. Ciascuno di questi due schieramenti sottintendeva una violenta conflittualità interna, poiché tra loro dovevano convivere dei partiti non omogenei, imparentati, ma senza mai essersi scelti reciprocamente per davvero. Ad esempio, il partito di Di Pietro, L’Italia dei valori, nasce con Mani Pulite, contro la politica privatistica del Partito Socialista, affondato dai magistrati milanesi, dapprima come un movimento e poi come forza politica, a garanzia dell’azione contro la corruzione politica e istituzionale, e il suo schieramento a sinistra pone immediatamente un problema di convivenza con quella parte dei socialisti che anch’essa sceglie di stare a sinistra. Due formazioni politiche reciprocamente contrapposte, finivano con l’essere schierate tutte e due dalla stessa parte! Ma questo non fu il caso più difficile. Il caso più clamoroso si scopre analizzando i diversi partiti che si vengono a creare dall’eredità della Democrazia Cristiana. Quello che prima era un coacervo di tendenze e di tensioni collettive cucite insieme dalla comune militanza nel partito che fu di De Gasperi e basato sul principio dell’unità politica dei cattolici, produsse una diaspora di posizioni del tutto autonome e violentemente contrapposte. Si sa che tra moderati e progressisti nella stessa area, le acredini possono essere ancora più violente che non tra moderati e progressisti di aree distinte, perché tutti s’assomigliano, ma nella diseguaglianza reciproca. Conflitti interpersonali scoppiarono a ripetizione (il più noto forse fu quello che contrappose Rosy Bindi a Roberto Formigoni). Se la Margherita e poi l’Udeur raccolsero l’eredità delle correnti democristiane di Base, Forze Nuove, Acli, Cisl e cattolici sociali, l’Udr e l’Udc coagularono invece, con ruoli diversi, il consenso di quei cattolici che reclamavano la ricostruzione della vecchia Dc, l’Udr più moderato, l’Udc più clericale; i primi conservatori ma più laici, i secondi conservatori come gli altri, ma più connessi ai movimenti ecclesiali. Le due più forti contraddizioni tuttavia si segnalano una per campo: tra Lega e An a destra, e tra Ds e Rifondazione Comunista a sinistra. Giuliano Della Pergola 39 disuguali diversi differenti ROCCA 1 GIUGNO 2006 Rosella De Leonibus Eccoli, Adamo ed Eva. Nudi e senza vergogna, l’uno di fronte all’altra. Si guardano, ma non si conoscono, nel mistero infinito delle loro differenze. Eppure riescono a percepirsi nel loro essere uomo e donna. Da questa non conoscenza nasce la relazione. Marc Alain Ouaknin 40 desso si sentono deboli, fragili, sentono fortemente le emozioni, sono diventati neo-romantici… Le donne li trovano un po’ infantili, spesso egoisti, troppo mici, o moci, a volte anche machi, ma solo come ostentazione, come teatro. Non li considerano troppo affidabili. Loro stessi si sentono confusi, spesso in ansia, senza un modello positivo a cui rifarsi. Nei film fanno la parte degli insipienti, dei vigliacchi, mentre le donne sono quelle forti, sagge, altruiste. Loro invece, l’altra metà del cielo, hanno alzato la testa, dopo millenni di sudditanza, quando camminavano sempre dietro al loro coniuge, almeno un passo, meglio di più. Da qualche decennio parecchie cose sono cambiate, a scuola sono più brave, sanno star bene anche da sole, si guadagnano da vivere, e si sentono più in gamba e più mature dei loro partner, ai quali chiedono un rapporto alla pari, e loro, gli uomini, che non ci sono ancora abituati, per ora adottano atteggiamenti difensivi, si sentono minacciati nella loro virilità da queste donne del duemila che prendono sempre più spazio. E hanno tanta paura: di non essere buoni mariti, di non essere buoni padri, di non capire, di non essere all’altezza… Anche le donne portano dentro di sé la loro buona dose di infelicità. Sono sovraccariche, trafelate, interiormente insoddisfatte, e forse proprio per questo hanno spesso voglia di rimettere in questione tutte le angolature della loro esistenza. Sentono spesso un certo freddo e un vuoto nella relazione di coppia, e questo le rinvia ad un vuoto interiore, alla paura di non esistere. Si sentono spinte a negoziare ogni cosa, a voler decifrare, interpretare puntigliosamente le parole e i silenzi dei loro uomini, non riescono a fidarsi, e la quotidianità si dissemina di microviolenze verbali, di segnali di ostilità e di squalifica. Vorrebbero una relazione già risolta, e invece fanno entrambi una notevole fatica a reinventare il rapporto su basi nuove, c’è tutto un bricolage di soluzioni che ciascuna coppia si inventa da sola, ma senza mo- A delli è dura, arrivare ad un nuovo equilibrio soltanto per prove ed errori è un gioco difficile, da soli si rischia seriamente di non farcela. maschile e femminile: lavori in corso All’inizio del secolo scorso è stata problematizzata come disuguaglianza. Era vecchia di millenni. Era considerata radicale e immutabile, e perciò era considerata naturale. Era radicata nel pensiero individuale, nelle norme e nel costume sociale. A piccoli e grandi passi è stata affrontata, e tuttavia ancora esiste oggi, negli stipendi, per esempio, o nell’accesso alle carriere, nella rappresentanza politica, nella divisione del lavoro domestico ed educativo… Poi, a partire dalla fine degli anni settanta, l’elaborazione filosofica del movimento delle donne ha rimesso in questione le fondamenta del discorso. Le donne hanno cambiato il proprio sguardo su di sé, hanno conquistato un posto non solo nel mondo, nel lavoro, negli studi, ma, tappa fondamentale, hanno rimesso in discussione l’ordine simbolico della cultura patriarcale, quello per cui il maschile era l’universale. E da qui in poi tutto è davvero diverso. Il sesso non è il genere, e il genere non è il ruolo sociale. E gli stereotipi di genere non corrispondono alla natura, sono invece prodotti culturali. E i generi sono due, e la presunta neutralità ed universalità del maschile è la più subdola delle mistificazioni, perché toglie a metà dell’umanità il posto di soggetto. Rivendicando la diversità radicale del maschile e del femminile, l’individuo universale e neutro della cultura patriarcale lascia il posto ad una nuova visione, che è frutto di un trascendimento logico. L’approccio concettuale del movimento delle donne riconosce soggetti diversi, che si rapportano secondo una formula di alterità, che non sono più comparabili in base al principio di identità, al medesimo. E che su questo principio, in sostanza, erano stati schiacciati e appiattiti entrambi. Si può pensare ad un ap- proccio nuovo, fondato sulla dualità del genere, sulla intersoggettività, non più su un’idea di individuo isolato, decontestualizzato, neutro e astratto. E maschio. E quindi il femminile era l’inesistente, era solo la negazione del maschile. Non più quindi neutro (ne-uter, in latino, né l’uno né l’altro) ma duale, e plurale, «utro» (uter, in latino entrambi, tutt’e due). i generi tra biologia, cultura e storia Oggi, che le diversità radicali non sono più così facilmente leggibili, almeno nei ruoli sociali, e meno ancora nelle forme dei corpi e nel look, oggi, dopo aver colto finalmente che il sesso sta alla natura come il genere sta alla cultura e ai modelli sociali, è la differenza, con le sue tante sfumature tra il bianco e il nero, con la sua distinzione non necessariamente rigida tra i due poli del discorso, la categoria concettuale con la quale si può costruire il discorso tra il fare la differenza La psicologia delle differenza di genere ha fatto intanto qualche passo importante. La dialettica tra il maschile e il femminile non è più letta soltanto all’interno di un modello concettuale dove, a partire dalla constatazione di diverse caratteristiche psico-fisiologiche nei due sessi, il maschile e il femminile venivano definiti come concetti polari, che si escludevano a vicenda. E dove il benessere e l’adattamento sociale erano considerati tanto migliori quanto più fossero collocati sugli estremi del binomio, e dove lo stereotipo di genere si rinforzava a tal punto che diventava sinonimo di norma41 ROCCA 1 GIUGNO 2006 COSE DA GRANDI maschile e il femminile. È la differenza il filo che può legare questi frammenti di consapevolezze nuove, questi cambiamenti così drammatici nei ruoli e nei comportamenti, nei progetti e nelle aspettative. I corpi stessi, i corpi degli uomini e delle donne, così diversi nella struttura, nelle funzioni, così diversi nel sistema nervoso, nel sistema immunitario, nella trasmissione della vita, non possono più essere considerati meramente come natura, ma inscritti invece in un sistema di rappresentazioni sociali e culturali. Il corpo umano sessuato è mediato dalla cultura. E plasmato dalla rappresentazione che ne propongono i modelli mediatici. Il maschile e il femminile non possiamo più definirli fuori dal contesto e dalla storia, dobbiamo rassegnarci a costruirli passo passo, sia al livello individuale che al livello collettivo, sul filo dell’evoluzione storica dei contesti cui apparteniamo. Non è un’epoca facile, piana. Parecchie donne conservano dentro di sé ancora questa immagine di vittima, e di vittima che si deve riscattare dai millenni della schiavitù. E usano forme indirette di violenza – Tu non sei capace di combinare niente di buono! – E gli uomini non sanno più quale è il loro posto. Non hanno ancora trovato un modo di essere al maschile che non comprenda l’alternativa secca tra l’aggressività, la gerarchia, l’azione, da una parte, e dall’altra il dialogo e la condivisione. E non sanno più come gestire la loro virilità, la capacità di fare e decidere e prendersi sulle spalle la responsabilità e la tenuta. Su questa linea di lettura diventa comprensibile come anche a livello sessuale gli uomini si sentano molto penalizzati, ed in tanti lamentino un abbassamento del desiderio e una insoddisfazione sulla qualità della loro performance. costruire l’identità, cercare l’incontro ROCCA 1 GIUGNO 2006 Più tardi anche le relazioni tra i generi si svolgeranno nel teatro sociale, che a sua volta detterà le regole per la distribuzione dei compiti e per l’assunzione dei ruoli all’interno della coppia, e poi strutturerà i ruoli tra genitori e figli, e costruirà le diverse sfumature del rapporto tra genitori e figli a seconda del genere: così a doppia spirale, tra biologia e cultura, tra famiglia e contesto sociale, tra cultura di appartenenza e norme giuridiche, tra storia personale e modelli collettivi, dentro questa complessità di vicende e trame diventiamo uomini e donne. E ancora non abbiamo neanche accennato all’orientamento sessuale… Il passo successivo di questo filo di pensiero sulla differenza di genere può essere questo. Siccome i contesti sociali sono già cambiati e sono lettera in veloce trasformazione, anche le convenzioni che regolano i rapporti uomo/donna cambiano, e quindi non solo sono in totale revisione i ruoli maschile e 42 femminile, ma è in revisione completa anche il processo di costruzione del proprio sé e della propria identità. Ancora il problema della collocazione reciproca di uomini e donne dovrà rimanere aperto. Per le generazioni che ora sono adulte è un plus di sofferenza e di fatica, e sarà un plus di incertezza per i bambini, che hanno modelli di identificazione così contraddittori e indefiniti. La stessa confusione nella costruzione personale e sociale dell’identità e dei ruoli di genere rende il dialogo più difficile. Agli uomini resta ancora in mano tutto intero il compito di riscoprire l’elemento fondante della propria identità, che oggi non è più fare cose straordinarie, ma forse sta nella possibilità di sviluppare un nuovo senso dell’avventura, una capacità di sfida, una abilità di giocare e stare al gioco. E forse potrebbero anche sviluppare l’energia dei sentimenti forti e intensi, che comprendono anche la dolcezza e la sensibilità, ma tenendo stretto anche il recupero della propria essenza biologica, la forza ancestrale della sperimentazione e dell’esplorazione del nuovo, la verticalità, la capacità di andare oltre il già dato. Per le donne il compito evolutivo è già più avanti, già hanno riconosciuto e cominciato a valorizzare le loro abilità nelle relazioni informali, la loro flessibilità mentale, la capacità di approcciare i problemi e le decisioni in modo ampio e contestuale, con uno sguardo di lungo termine, la loro capacità di tenere insieme gli opposti, di mediare a somma positiva, di condividere i processi, di stare con le differenze, di intrecciare legami, di pensare a rete piuttosto che in sequenza, di pensare e vivere nell’intersoggettività. Forse un passaggio utile per la nuova formula della relazione donna/uomo è il recupero dei rapporti intragenere, l’appartenenza forte e articolata a gruppi del proprio sesso, per ritrovare e rinnovare la propria identità e radicarsi nella propria immagine di genere, con tutte le sfumature del caso. Da qui si può riavviare il dialogo con l’Altro sulla base di una maggiore sicurezza, e infine di una migliore disponibilità. Definirsi quindi, e poter procedere verso l’Altro, verso il suo territorio psichico sconosciuto e misterioso pieni di curiosità, disposti ad esplorare senza colonizzare. Rosella De Leonibus (Dalla relazione al Convegno di Assisi sulla comunicazione nella coppia) LEZIONE SPEZZATA una giornata da soprannumerario Stefano Cazzato l buongiorno me lo dà Adele passandomi un biglietto su cui leggo: «Urgente, recarsi al protocollo non oltre le dieci! Visto che sono le nove, chiedo cortesemente a Adele di guardarmi le belve e corro preoccupato, facendomi largo tra facce disorientate, dalla segretaria, la ragioniera Seregni. «professore, la aspettavo, lei risulta soprannumerario per il 2006-2007, deve fare domanda di trasferimento entro domattina. «soprannumerario… domattina…, me lo dice adesso? ma si rende conto che ho solo un giorno? «se non fa il trasferimento, la trasferiscono d’ufficio, vuole andare ad Ostia, ad Acilia, a Latina? «ma ho già fatto domanda di trasferimento a febbraio… «la deve rifare da soprannumerario siglando no dove prima aveva messo sì e… incrociare le dita. Prendo il modello, ritorno in classe, chiedo ai ragazzi un po’ di silenzio che il momento è delicato, ma quelli continuano a sbraitare, e mentre mi concentro su sì e no della domanda, Settini arringa contro gli immigrati che tolgono il posto agli italiani, Marcucci maledice i pacs, Francescotti invoca «’a sedia elettrica» almeno per il cinquanta per cento della popolazione. Quasi quasi è una bella notizia questa della soprannumerarietà, quasi quasi non faccio la domanda così mi trasferiscono d’ufficio... Ostiaaa, Aciliaaaa, Latinaaaa arrivo! Lasciamo perdere… «Allora... no... dove avevo messo... sì... Dove avevo messo... sì? Vai a trovarlo questo sì! I Eccolo! E perché dovrei mettere no? Mi sembra proprio il contrario! Suonata la campanella decido di contattare il sindacato sperando che mi possa chiarire le idee, mi dicono che forse sì, mi possono ricevere per il primo pomeriggio, l’importante è essere puntuali perché siamo assediati – lo può immaginare, vero! professore – da orde di soprannumerari che chiedono di sì e di no. Alle 15 mi riceve il professor Contuzzo, mi fa accomodare in uno sgabuzzino triste con delle tende di organza appese ad una finestrella, sfoglia la domanda con sospetto, si guarda intorno cercando aiuto poi… «la capisco, collega – meridionale come me, vero? E così il sud si svuota dei migliori talenti, una specie di fuga dei cervelli... – quella del soprannumerario è una domanda delicata, non è facile consigliarla, tutti questi sì, tutti questi no, forse è meglio no, forse è meglio sì, è una questione di punti di vista..., di scelte di vita, direi, quanto a me ho lasciato l’insegnamento e mi sono distaccato nel sindacato…, erano i primi anni novanta e... Saluto cordialmente Contuzzo, ringraziandolo per avermi annoverato tra i cervelli, torno a casa, a questo punto solo internet mi può salvare, vado di qua e di là alla ricerca del sì e del no e alla fine mi imbatto in un provvidenziale «Vademecum del docente soprannumerario» dove si chiarisce nei dettagli la questione: SI’. La testa mi scoppia ma non sto più nella pelle, ho toccato il cielo con un sito. La giornata è finita, è stata lunga, sono le tre della notte. Ma domani è un altro giorno: sì o no? 43 ROCCA 1 GIUGNO 2006 COSE DA GRANDI lità, mentre ogni altra articolazione era qualificata come anormale. Un’altra lettura è possibile, nella dialettica tra il maschile e il femminile. Non più poli opposti, ma differenti modalità di relazione col mondo che, con articolazioni diverse, possono essere presenti nella stessa persona, la quale può integrare queste possibilità dentro di sé in relazione alle situazioni e ai contesti, senza doversi bloccare sugli stereotipi. Le caratteristiche considerate maschili o femminili non sono più strettamente collegate ai generi, e neppure ai sessi biologici. Le differenze diventano così importanti da non lasciarsi costringere solo dentro un discorso duale, e sono importanti da leggere anche tra gli individui dello stesso genere. Alla nascita è la conformazione dei genitali che fa dire ai nostri genitori è un maschio, piuttosto che è una femmina, e la biologia è già diversa, come la neurofisiologia e l’assetto ormonale. Ma subito dopo sono il nome, l’abbigliamento, i simboli, i giocattoli, gli stili di gioco, i margini di libertà ed esplorazione, la gestione dell’aggressività, la tipologia dei compiti assegnati, i modelli di identificazione, i modelli di comunicazione, che fanno di un maschio un bambino e di una femmina una bambina. Tutte le pratiche educative e di socializzazione trasmesse direttamente o in modo implicito dalla famiglia, dagli insegnanti, dai media, sono queste le fonti dell’ identità di genere. dall’attualismo al problematicismo ripartire dai limiti dell’esistenzialismo Già negli anni giovanili, comunque, partendo dall’idea di una sostanziale contraddittorietà della filosofia tradizionale, Spirito va indagando il complesso rapporto che lega tra loro la filosofia e la scienza e si interroga sulla natura di un’altra relazione fondamentale, quella tra il pensiero filosofico e la realtà delle cose. Alcune delle conclusioni cui egli giunge in merito a questo ordine di questioni le ritroviamo esposte sia in Scienza e filosofia del ’33 che ne La vita come ricerca di quattro anni dopo. Le riflessioni su scienza, filosofia, realtà, vita e prassi portano Spirito a compiere un attraversamento culturale significativo che, come recita retrospettivamente il titolo di un suo scritto del ’76, va dall’attualismo al problematicismo. L’oggetto privilegiato della sua disamina è infatti quello di una possibile, vera e propria integrazione tra ricerca scientifica e pensiero più squisitamente filosofico. Se prima, con Gentile, credeva possibile spiegare tutto in virtù del concetto di atto (e della infinità creatrice del fare) e finiva per ricondurre l’intera realtà al pensiero quale essenza dell’uomo, a partire dagli anni Trenta, pur senza abbandonarla mai La scienza, lungi dall’essere subordinata alla filosofia e dal ridursi a mero mezzo tecnico e asettico e mantenendo comunque una dimensione essenzialmente filosofica, assume un fondamentale ruolo di riunificatrice dei saperi e delle conoscenze. Essa ne è in grado, secondo Spirito, soprattutto in quanto nemica di quei pregiudizi e di quei preconcetti che, invece, affliggono un certo modo chiuso e acritico di filosofare come pure una certa interpretazione ‘mitologica’ della religione e, in generale, ogni espressione di pensiero che abbia un’impostazione ideologica. Tra i suoi bersagli polemici Spirito trova nell’esistenzialismo – e da qui una serie di dialoghi critici con Nicola Abbagnano, Enzo Paci e altri – forse il termine di confronto più stimolante. Ripartire dai limiti della filosofia esistenzialista, anzi, diventa per lui una missione prioritaria di ogni nuovo pensiero. Seguiamo Spirito nel suo ragionamento polemico, esposto in un articolo del 1943: egli riesce ad apprezzare l’esistenzialismo finché, recuperando ciò che è immanente all’uomo e alla vita, si muove in un’ottica di opposizione anti-intellettualistica alla pretesa di Hegel di risolvere tutto in un sistema chiuso e impe- MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO Ugo Spirito la ricerca come speranza d’assoluto ROCCA 1 GIUGNO 2006 Giuseppe Moscati 44 U no tra i nomi più noti della filosofia italiana novecentesca, l’aretino Ugo Spirito (1896-1979) si presenta già ad una prima lettura come un pensatore che crede tenacemente nella ricerca della verità. È un filosofo, anzi, che per tutto il corso della propria esistenza ricerca una cifra di assoluto che ritiene di rinvenire dapprima nella visione del mondo approntata dall’attualismo di Giovanni Gentile, suo primo maestro preferito a Croce; in un secondo momento in una sorta di ‘immanentismo di sinistra’, la cosiddetta «sinistra attualistica» che egli condivide tra gli altri con Guido Calogero; in una fase successiva della sua produzione, poi, quando acquisisce piena autonomia di pensiero, in quello che ha definito come «problematicismo». Gli esordi teoretici lo vedono impegnato in studi di carattere economico-giuridico, ma anche socio-antropologico; alla laurea in giurisprudenza fa seguire quella in filosofia, conseguita con una tesi sul pragmatismo, per poi dedicarsi all’approfondimento dell’idealismo. Ottiene presto una cattedra «di regime» all’Università di Pisa, quella che addirittura porta il nome di Economia politica e corporativa, ma si trasferisce poco dopo all’Università di Messina per poi raggiungere l’Ateneo di Genova e infine quello di Roma tornando con ben maggior profitto speculativo sui temi del- netrabile. Ma rifiuta l’esistenzialismo quando esso, all’intento di riformare la filosofia dialettica, accompagna il motivo della sua totale dissoluzione per via di elementi romantico-irrazionali: «Allora le acque si intorbidano e la giustapposizione di motivi logici e motivi psicologici dà luogo alle più svariate forme di dogmatismo» in nome di «un concetto risolutivo […] sia questo il concetto di immediato o di fede o di niente o di libertà o di persona o di decisione e simili […] per ricadere pesantemente nel dogma di un sistema» (1) viziato dalla stessa «ingenuità intellettualistica» che si voleva combattere. Dal canto suo la filosofia, mai assoluta eppure al contempo mai relativa, si libera delle vecchie pretese di onnipotenza, fuoriesce dalla secca opposizione di razionalismo (o neoilluminismo) e irrazionalismo (o nuovo dogmatismo) e si fa progressivamente consapevole della necessità di porsi piuttosto come una «aspirazione alla filosofia». È così che, con la sua capacità critica di fondo, la filosofia – ci suggerisce il problematicista Spirito, che inaugura la stagione italiana della filosofia della crisi –, non accetta di rinunciare alla speranza d’assoluto, quindi ricerca, ricerca continuamente, ostinatamente, si fa essa stessa perenne ricerca. E d’altra parte nessuna filosofia avrebbe più ragion d’essere se un giorno raggiungesse, una volta per tutte, una verità ultima e incontrovertibile. Giuseppe Moscati Nota 1 Articolo ripreso in Aa.Vv., L’esistenzialismo in Italia, a cura di B. Maiorca, Paravia, Torino 1993, pp. 105-108. Tra le opere di U. Spirito: La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 1937; Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? [con A. Del Noce], Rusconi, Milano 1968; Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1969; Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977. La Fondazione Ugo Spirito di Roma da anni lavora alla ripubblicazione dell’opera omnia. Sulla filosofia di U. Spirito: ROCCA 1 GIUGNO 2006 la filosofia, della conoscenza e in generale della ricerca. del tutto, Spirito si allontana da questa posizione e si emancipa dall’eredità del neoidealismo per abbracciare una Weltanschauung che si accosti maggiormente alla vita vissuta e alla realtà degli altri. Che si accosti cioè a una prassi plurale e multiforme che ci spinge a considerare quello dell’altro non più come un mondo contrapposto al nostro, bensì vicino e aperto al terreno interindividuale del colloquio, e che quindi ci stimola a vivere la vita come tensione e superamento, ovvero come arte e come amore, secondo l’espressione propria di Spirito. Il problematicismo di cui egli parla ha come sua essenza la scelta di cui dicevamo all’inizio, quella radicale volontà di ricercare l’assoluto pur senza alcuna certezza di poterlo un domani afferrare. L’uomo deve insomma investigare il mondo, anche quello concreto e vicino della propria terrestrità, senza abbandonarsi né a illusioni e chimere né a delusioni e scetticismi, ma allo stesso tempo senza rifugiarsi in spiegazioni fin troppo comode o affidarsi ciecamente ad alcuna forma di intermediazione tra sé e la verità ricercata: vanno ricordati allora alcuni duri interventi del filosofo toscano nei confronti della Chiesa cattolica. A. Negri, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico. Itinerario teoretico di Ugo Spirito, Lacaita, Manduria-Bari-Perugia 1964; S. Felli, L’ipotesi di Ugo Spirito, Bulzoni, Roma 1973; Aa.Vv., Il pensiero di Ugo Spirito. Atti del Convegno internazionale di Roma del 1987, 2 voll., Istituto Enciclopedia Italiana - Fondazione U. Spirito, Acta Enciclopedica, Roma 1989. 45 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE l denso libro di riflessioni pubblicato qualche mese fa dal poeta siriano Adonis (1), dal titolo suggestivo La musica della balena azzurra (2), utilizza la tecnica del frammento lirico in prosa per fare il punto sulla cultura araba, sul mondo islamico più in generale e sull’Occidente. Solo chi vive al crocevia di culture diverse come Adonis è capace di muoversi con tanta intensità e penetrante sagacia lungo i sentieri che corrono sotterranei tra le differenti culture. In virtù di quello che potremmo chiamare una sorta di cosmopolitismo identitario, Adonis, nato in Siria e residente in Francia, riesce a parlare dell’uomo in generale, inteso filosoficamente come essere e come abitante del mondo, e di un uomo in particolare, inteso biograficamente come figlio di una cultura, di un tempo, di una società. Adonis, infatti, tesse le sue idee senza dimenticare di innestare sempre, sull’ordito della riflessione cosmopolita, la trama delle vicende individuali, ponendosi continuamente alla ricerca di quella musica poetica inaudibile creata dalle relazioni umane. Come le balene azzurre, infatti, attraverso un impalpabile canto ad ultrasuoni, riescono a collocarsi nelle vastità dell’oceano e a comunicare tra loro ad elevatissime distanze, così la poesia rende capaci di nuotare nell’oceano delle parole, consentendo una sintonia quasi inavvertibile tra le persone, che la consueta comunicazione verbale impedisce. guerra, scenario predominante ROCCA 1 GIUGNO 2006 Per il poeta siriano, ogni questione di natura storica o socio-antropologica deve nascere da una doppia pessimistica premessa: una di carattere esistenziale, l’altra di tipo filosofico-linguistico. In primo luogo, infatti, occorre riconoscere una verità: «lo scenario che predomina nel teatro della nostra vita è la guerra (3)», una dinamica bellica volta più o meno dichiaratamente alla distruzione dell’essere umano ed estesa dal Tigri all’Atlantico. In secondo luogo, si deve riconoscere che la condizione di belligeran46 za universale fa scaturire una scrittura pubblica incapace di emanciparsi dall’accusa e dal pregiudizio nei confronti di chi la pensa in maniera differente. All’uomo, sia egli occidentale od orientale, che cerca in modo più o meno consapevole libertà, viene quindi proposta una nuova forma di schiavitù, le cui catene sono costituite di parole vincolanti, di tesi azzardate, di falsificazioni continue, volte a trasformare la scrittura in un genere precettistico e il pensiero in una dottrina rigida. In questo contesto, «lo scrittore viene trattato come un peccatore, i suoi scritti sono crimini. Dal Tigri all’Eufrate» (4). Il mondo dei poteri – sembra dire Adonis – pretende che ci si schieri sempre, da una parte o dall’altra, in modo netto e acritico, dimenticando ogni propensione all’autonomia di pensiero, alla ricerca critica, all’individuazione di valori condivisi, primo fra tutti quello insito nello stesso esistere, nel proprio essere persona e parte integrante di un’unica umanità. Morta alle ideologie e ai riferimenti valoriali, la politica, dal Tigri all’Eufrate, seppur in forme diverse, si appropria della fede per creare una sorta di totalitarismo mediatico che toglie linfa al pensiero, annichilendolo, e che cerca di sostituirlo con l’arroganza della prepotenza e della superficialità. Per queste ragioni, Adonis grida che occorre rifiutare ogni visione del mondo volta a giustificare logiche violente in forza del proprio Dio, perché ciò finisce con il rendere «cose» sia l’uomo che Dio stesso; per questo afferma- in una straordinaria sintonia involontaria con R. Panikkar (5) – come sia necessario rifiutare ogni pensiero che massifichi gli individui in categorie, che renda i mille volti e le mille storie individuali, un soggetto unico da disprezzare: i milioni di singoli musulmani diventano, per l’occidente, genericamente i musulmani; i milioni di occidentali, per l’islam diventano prosaicamente gli occidentali. E se accettare l’altro risulta una richiesta inaudita per alcuni, almeno si trovi, sottolinea Adonis, un varco di coscienza in sé, attraversando il quale sia possibile distinguere tra il pensiero di un individuo e l’individuo stesso. Tutto ciò comporta un cambiamento radicale di rotta, a livello culturale e interculturale, in grado di risvegliare quella che suggestivamente Adonis definisce la capacità di «transcreare». transcreare La transcreazione coincide con l’allenamento al punto di vista differente e, metodologicamente, con «il rinnovamento continuo dell’approccio con cui ci accostiamo all’uomo e all’universo» (6). In questo senso, quindi, l’individuo e le società devono tentare di emanciparsi dalle tradizioni che intendono soffocare la predisposizione alla novità propria del pensiero umano, rendendo stanziale ciò che per sua stessa indole è nomade e irrefrenabile. Transcreare, dunque, significa mettersi in viaggio nella foresta intricata delle scritture che compongono il mondo, siano esse quelle che ci parlano in lingue sconosciute di mondi mai avvicinati, siano esse quelle che ci conducono verso l’insondabile del senso, verso il divino stesso. Ma per riconquistare questa libertà di azione – continua Adonis – si deve tornare al poetico, inteso come simbolico, come metaforico, come adattamento, come propulsione verso l’ignoto, come esplorazione dello sconosciuto. Educarsi alla poesia significa, in questo senso, concedersi alla trasgressione, etimologicamente intesa come un procedere oltre se stessi, come la possibilità di varcare le prigioni che una sola lingua, una sola visione del mondo, una sola verità minuscola creano attorno a ciascuno. Scegliere la poesia significa optare per la transcreazione, per una riedificazione del mondo in cui l’attaccamento al passato e alle certezze è visto come uno sterile ancoraggio o come un naufragare nelle secche del senso; significa trovare il coraggio di diventare eretici alle proprie piccole certezze, avendo l’ardire di varcare le colonne d’Ercole della conoscenza. Così facendo, afferma perentoriamente Adonis, «l’essere umano si trasforma da semplice crea- tura che vive nel mondo in un essere che crea perpetuamente il mondo stesso» (7). Ma vivere fino in fondo il potere demistificante della poesia, comporta anche il sapersi mettere sotto accusa culturalmente. È per questo motivo che Adonis stesso, in quanto uomo inserito in una doppia cultura, rivolge un pressante appello sia al mondo arabo e, più in generale, musulmano, sia al mondo occidentale, affinché siano disposti a lasciarsi interrogare su loro stessi, abbandonando le rassicuranti certezze della «scrittura pubblica» e delle litanie ufficiali. Per quanto riguarda la questione medioorientale, poi, in primo luogo, in ambito occidentale, occorre emanciparsi dall’idea di «scontro di civiltà», dietro la quale, per il poeta, si nasconde solo un’ennesima forma della vecchia politica di potenza; mentre, in ambito musulmano, è necessario gridare con fermezza la propria contrarietà al terrorismo, che va condannato «in tutte le sue forme, quali che siano le idee che lo ispirano e da qualunque parte provenga: un individuo, un’organizzazione, uno stato» (8). Da entrambe le posizioni, poi, va riconosciuto lo stato di malattia delle civiltà, in qualunque modo esse si chiamino: giudeocristiana, islamica, buddhista, induista, africana, o tutte le cose insieme. Si tratta di una malattia virale che proviene da un unico ceppo, ma che colpisce in modo differente i popoli e le persone e che – è bene ribadirlo – per Adonis coincide con la riduzione a cosa dell’essere umano (9). L’infermità culturale che attanaglia l’occidente va analizzata all’interno delle società occidentali stesse, con rigore e forza conoscitiva, a partire da una seria revisione deontologica e metodologica da parte degli operatori culturali. Più precisamente, per quanto riguarda le modalità con cui i mezzi di comunicazione di massa e gli studiosi occidentali leggono il mondo arabo e islamico, occorre riconoscere che non è sufficiente una prospettiva solamente politico-economica, ma è necessaria anche una radicale opzione fenomenologica. Tale scelta consiste nel mettersi in ascolto di una civiltà millenaria al- ROCCA 1 GIUGNO 2006 Marco Gallizioli la musica della balena azzurra I 47 disamina irrinunciabile ROCCA 1 GIUGNO 2006 Al mondo islamico, invece, Adonis chiede di porsi in rapporto con il suo fantasma interiore, con quell’occidentalizzazione negata e rifiutata che, tuttavia, è ormai parte integrante degli stessi mondi medio-orientali, perché, tramite la globalizzazione, essa è penetrata in maniera irreversibile. Ma il poeta siriano diviene ancora più radicale quando, interpellando gli arabi e i musulmani, ritiene che sia giunto il momento di denunciare l’emarginazione sociale e culturale in cui ogni dissidenza viene confinata nella gran parte dei paesi a maggioranza religiosa musulmana. Domanda di riconoscere che esiste una guerra interaraba, arabo-islamica, interislamica all’interno di uno stesso stato (Libano, Sudan, Algeria ecc), o tra stati differenti (Iraq-Iran; Iraq-Kuwait; Marocco-Algeria). Spinge a riflettere sui motivi che impediscono di toccare la tradizione e di rivisitare il proprio passato anche in chiave critica; pone la questione della mancanza di libertà, di democrazia, di una libera magistratura, dell’arbitrarietà con cui operano le forze dell’ordine, della disoccupazione, della povertà, dell’analfabetismo, dell’incremento demografico e dei flussi migratori. Questa disamina profonda e irrinunciabile è l’unica via per comprendere i motivi che hanno portato alla nascita di fenomeni organizzati e, insieme, selvaggi quali quello di Al Qaeda, che nessuna guerra portata per vendetta dall’esterno sarà davvero in grado di sconfiggere. «Bin Laden – afferma perentoriamente il poeta – lo si può eliminare solo dall’interno, partendo dalla società a cui appartiene, dalla sua cultura e dai valori a cui è stato educato. Bisogna combattere ed estinguere dall’interno le cause che hanno favorito la nascita del fenomeno Bin Laden, bisogna combattere in nome della democrazia, della libertà, dei diritti umani e per creare istituzioni che tutelino tali diritti, e li consolidino» (11). Se, per molti versi, le riflessioni di Adonis non sono differenti da quelle di tanti commentatori liberi e illuminati, va riconosciuta al poeta siriano un’intuizione che gli appartiene e che lo contraddistingue. Essa consiste nell’aver individuato nella poesia, nel canto sfumato fino quasi al silenzio 48 della balena azzurra, uno strumento ineliminabile se si vuole lottare contro la nuova barbarie che, in forme diverse, attanaglia il mondo. A qualcuno, forse, questo rimedio potrà sembrare inadeguato o troppo romantico, finanche elitario o reazionario. Personalmente, invece, ritengo che Adonis abbia voluto sottolineare come il «poetico» sia la vera peculiarità dell’essere umano, quella particolarità che gli consente di sperare, di vivere, di cogliere la straordinaria ricchezza che si dischiude in uno sguardo altro rispetto al proprio. Il poetico non è, allora, una via di fuga, per sottrarsi al mondo e per rinchiudersi in una sorta di irraggiungibile cittadella delle lettere, ma coincide, al contrario, con l’umano, con l’essere persona, con la capacità di avvertirsi sempre creature, prima ancora che differenti, diversi od opposti. CONTROCORRENTE la realtà e l’utopia Marco Gallizioli Note 1 Il poeta Adonis, il cui vero nome è Ali Ahmad Sai’îd Esber, è nato in Siria nel 1930, da una famiglia contadina. In seguito, si è laureato in filosofia a Damasco, ha vissuto a Beirut e attualmente risiede a Parigi. In italiano, l’editore Guanda ha pubblicato in traduzione le sue più importanti raccolte poetiche: Memoria del vento; Cento poesie d’amore. 2 Adonis, La musica della balena azzurra. La cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, Milano 2005. 3 Adonis, op. cit., p. 13. 4 Ib., p. 15. 5 R. Panikkar chiama in causa il poeta A. Machado per sostenere che occorre abbandonare sia ogni dualismo che ogni monismo e affidarsi ad un «a-dualismo» grazie al quale possiamo dire «tutto il mare in ogni goccia/ tutto il pesce in ogni uovo / tutto nuovo». Cfr. R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003, p. 26. 6 Adonis, op. cit., p. 101. 7 Ib., p. 103. 8 Adonis, op. cit., p. 51. 9 Questa malattia si può chiamare anche fondamentalismo; per comprenderne le cause si legga: G. A. Almond – R. S. Appleby – E. Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, Il Mulino, Bologna 2006 10 Per compiere questa operazione di immersione nel mondo islamico, partendo da una testimonianza chiara e semplice si veda: El Hassan Bib Talal – A. Elkann, Essere musulmano, Bompiani, Milano 2005. 11 Adonis, op. cit., p. 61. Adriana Zarri Q uesta può anche considerarsi la seconda puntata, rispetto alla prima, apparsa nel numero scorso. In quella prima ricordavo che, dopo il ciclo liturgico pasquale e feste successive (Ascensione, Pentecoste, Trinità, Corpus Domini) si rientra nel tempo ordinario e siamo chiamati a meditare appunto sull’ordinarietà del quotidiano: una meditazione che amo e che mi è molto congeniale. Ed ecco scorrere il ritmo consueto della vita, con i suoi fatti sempre eguali e sempre nuovi: il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, il sole, le nuvole e la pioggia; e noi chiamati a riscoprire la straordinarietà dell’ordinario e a coltivare lo stupore di fronte al perenne miracolo del vivere. Ma che cos’è l’eccezionale o straordinario, comunque lo si voglia chiamare? C’è una straordinarietà numerica e statistica: ed è ciò che accade di rado che non succede tutti i giorni. E una straordinarietà ed ordinarietà che potremmo dire ontologica: ed è ciò che è conforme o difforme dalla norma, dalla legge consueta del vivere. Ma qual’è poi questa legge? Non ricadiamo ancora nella statistica? Diverso quindi è l’approccio, se vogliamo toccare il fondo delle cose, toccare il fondo della vita. Siamo ancora nel tempo pasquale e postpasquale: viviamo quindi nel clima della resurrezione; ed è quanto abbiamo meditato la volta scorsa: il mondo che nasce e che rinasce di continuo, che muore e risorge senza sosta; e l’ultimo senso delle cose non è il morire – di cui pure abbiamo esperienza quotidiana – ma il risorgere, di cui pure abbiamo esperienza quotidiana, ma soltanto per fede, non per vissuto materiale ed episodico. La resurrezione è l’eccezione, lo straordinario, il miracolo; ma un miracolo che, per l’uomo di fede, è quotidiano, uno straordinario che si fa ordinario, che entra nei ritmi consueti della vita. L’uomo di fede è l’uomo che vive perennemente nel miracolo: ma un miracolo così quotidiano che si fa ordinario: l’ordinarietà dello straordinario, la legge che più non confligge con la libertà; ma è la libertà stessa che si fa legge: la legge suprema del cristiano che è chiamato ad essere libero. La legge è la pedagogia della libertà: ciò che la difende dall’arbitrio e dal capriccio che sono forme di schiavitù. La libertà e la legge non sono più antitetiche ma son due facce della medesima moneta: una moneta che siam chiamati a spendere, ogni giorno, per comprarci la vita: la vita libera che sperimenta ciò che sembra antitetico ed è invece sintetico: una sintesi – così come dice appunto il termine – di ciò che in apparenza e in superficie sembra – ed è – incompatibile e che invece, in realtà e in profondità, è una cosa sola: una sorta di Giano bifronte che era un unico dio, volto al passato e al futuro, alla possibilità e all’utopia, al realismo e al sogno. Vivere la resurrezione è questo viver le due facce di ciò che fu e che sarà, di ciò che può essere e che è. E il cristiano, che vive il mistero del morire e del risorgere, è un utopista e un realista: uno che crede e vive nella realtà perché vive e crede nell’utopia, nel sogno, nel mistero e nel miracolo. ❑ ROCCA 1 GIUGNO 2006 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE tra come quella islamica, che non può sopportare di essere messa tra parentesi e totalmente trascesa nel dibattito culturale, ma necessita di essere percepita all’interno della curvatura simbolica che essa stessa disegna (10). 49 di fronte al pluralismo religioso ROCCA 1 GIUGNO 2006 Carlo Molari n una conferenza pubblica, sponsorizzata nel 2002 dalla Unione Romana dei Superiori Maggiori, il compianto gesuita Jacques Dupuis disse: «L’argomento della teologia delle religioni è un argomento veramente scottante oggi e resterà al centro della riflessione teologica per molto tempo ancora in questo terzo millennio». Anche per il teologo luterano Wolfang Pannenberg il pluralismo religioso, pur non essendo un fenomeno nuovo, dato che ha caratterizzato diversi periodi della storia umana, ha tuttavia oggi una caratteristica inedita. Egli, riferendosi all’esistenza di molte religioni, osserva: «tale situazione è recepita seriamente all’interno delle discussioni della teologia cristiana e da molti teologi è avvertita come una sfida ai fondamenti di quello che la dottrina cristiana è stata attraverso i secoli» (Pluralismo religioso e rivendicazioni di verità in conflitto fra loro, in Aa.Vv., La teologia delle religioni: un mito?, Cittadella, Assisi 1994, p. 200). Questo spiega perché i problemi posti dal pluralismo religioso abbiano aperto un capitolo nuovo nella riflessione teologica cristiana, non ancora ben articolato e quindi soggetto a molte discussioni. Già altre volte (in particolare nell’estate 1994) ho esaminato il problema del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso. Credo sia opportuno fare il punto sulla situazione attuale partendo da una breve descrizione delle tappe che hanno scandito lo sviluppo della teologia cattolica nel secolo XX. I le tappe principali 1. In un primo momento, negli ambienti 50 Il Concilio Vaticano II 3. Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha valorizzato le acquisizioni di questi teologi e ha impresso un’accelerazione nella riflessione cattolica. Non solo per le esplicite dichiarazioni dei documenti, bensì anche per lo spirito di dialogo e di rispetto nei confronti delle religioni diffuso nel mondo cristiano. Oltre che nelle singole persone anche nelle strutture religiose ha riconosciuto «elementi di verità e di gra- zia… per una nascosta presenza di Dio in mezzo» a loro (Decreto sull’attività missionaria della chiesa, Ad gentes, n. 9). Così che, per l’attività della chiesa, «quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini, o nei riti particolari o nelle culture dei popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell’uomo» (Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 17, ripreso anche nel Decreto Ad gentes n. 9). In modo specifico il Decreto «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane» ha affermato che «la Chiesa Cattolica non rigetta nulla di quanto è vero e santo in quelle religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini… Essa perciò esorta i suoi figli perché con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e la collaborazione con i seguaci della altre religioni…, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi» (Nostra aetate n. 2). Il Concilio ha invitato perciò i cristiani «a conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo, che in essi nascondono… ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, dimostrando tutte le ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» (Decreto Ad Gentes n. 11). Questo invito ebbe traduzione concreta nel Segretariato per i non cristiani (Paolo VI 1964) divenuto poi Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e ora (marzo 2006) inserito nel Consiglio per la Cultura. Ma furono soprattutto alcune clamorose iniziative di Giovanni Paolo II a dare una forte spinta alla trasformazione della sensibilità e del pensiero cattolico. La decisione di convocare ad Assisi i rappresentanti delle diverse religioni (27 ottobre 1986) le giornate di preghiera europea per la pace nei Balcani (9-10 gennaio 1993) e quella internazionale per la pace nel mondo, in occasione della seconda guerra del Golfo (24 gennaio 2002), hanno rappresentato un momento di coagulo per un processo che sta crescendo nei popoli e sta coinvolgendo persone e istituzioni sempre più numerose. Altri gesti del Papa costituiscono icone emblematiche di un dialogo teso a superare contrasti più che secolari. Basti ricordare la visita alla Sinagoga di Roma (13 aprile 1986) o l’incontro con i giovani musulmani nello stadio di Casablanca in Marocco (19 ago- sto1985), il pellegrinaggio a Gerusalemme con la preghiera a Yad Vashem, luogo del ricordo della Shoah e al Muro del pianto (20 e 26 marzo 2000), e la visita alla Moschea degli Omayyadi di Damasco (6 maggio 2001). 4. L’impatto dirompente di queste iniziative ha stimolato la teologia cattolica ad una nuova riflessione sul significato delle religioni e sul loro valore salvifico. È sorta la teologia delle religioni con lo scopo di individuare gli elementi comuni, le ricchezze insite in ogni religione e quindi le sue possibili valenze salvifiche. (Cfr. Boublik V., Teologia delle religioni, Studium, Roma 1973; Horst W. Bürkle Religioni, Teologia delle, in Dizionario Critico di Teologia, Borla/Città nuova, Roma 2005, pp. 1122-1125). verso una teologia delle religioni 5. Sono sorti a questo punto alcuni gravi problemi: il senso della assolutezza e universalità della azione salvifica di Cristo; il senso della missione delle chiese cristiane e infine il valore salvifico delle altre religioni. Nello sviluppo della riflessione la teologia è giunta a considerare le religioni come momenti essenziali di una stessa storia salvifica. Esse costituiscono, nel tempo e nello spazio espressioni diverse dell’azione divina che conduce a salvezza. La riflessione si è evoluta quindi, come teologia del pluralismo religioso. Questo, infatti, risulta essere più risorsa che intralcio. (Dupuis J., Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, (Btc 95) Queriniana, Brescia 1997; Knitter P. F., Introduzione alle teologie delle religioni (GdT 315), Queriniana, Brescia 2003). 6. Ora, secondo l’auspicio di diversi teologi la riflessione dovrebbe acquisire la fisionomia di una teologia interreligiosa del pluralismo, nella quale ogni religione, in dialogo con le altre, si impegna ad elaborare una interpretazione comune della storia della salvezza contribuendo così a delineare un unico orizzonte spirituale per la storia umana. Questo passo, appena avviato, richiederà un confronto esperienziale e culturale tra seguaci delle diverse religioni in modo da pervenire ad una comune formulazione dell’esperienza spirituale e da rendere possibile una fattiva collaborazione per la giustizia, la pace tra i popoli e la salvaguardia del creato. (Cfr. Geffré Cl., Il senso di una teologia interreligiosa, paragrafo del capitolo Verso una teologia delle religioni, in Aa.Vv., Prospettive teologiche per il XXI secolo, (Btc 123) Queriniana, Brescia 2003, p. 368. Sono questi alcuni veloci passaggi di un cammino che non può arrestarsi. (continua). ROCCA 1 GIUGNO 2006 TEOLOGIA attenti ai processi culturali, si sviluppò la teologia della salvezza degli infedeli per mettere a fuoco l’incongruenza di chi, pur affermando la volontà divina di salvare tutti gli uomini, si trovava costretto ad ammettere che la maggior parte dell’umanità era esposta al rischio di una eterna dannazione. Già il Concilio di Trento (1547) aveva prospettato la possibilità della salvezza personale attraverso il «battesimo di desiderio». Ma questa dottrina restava in prospettiva individuale e non riguardava le religioni come tali. Da tempo si moltiplicavano gli stimoli ad allargare gli orizzonti in particolare da parte degli storici delle religioni e dai missionari, che a contatto con ambienti di altre culture religiose, incontravano persone di profonda vita spirituale. Sorsero diversi modelli per spiegare la presenza della grazia divina in azione presso tutti i popoli. Dagli anni ’30 diversi teologi cominciarono a interrogarsi sulle ragioni della possibile salvezza dei non cristiani e dei non credenti. (Cfr. Lombardi R., La salvezza di chi non ha fede, Roma 1949; Damboriena P., La salvación en las religiones no cristianas, Bac, Madrid 1973). 2. Particolare rilevanza ebbe in questo ambito la teoria del compimento, secondo la quale la rivelazione ebraico/cristiana e in particolare il suo vertice, Gesù Cristo, venivano considerati una risposta completa e adeguata alla tensione profonda dell’uomo verso Dio, che si è espressa e continua ad esprimersi anche nelle varie religioni. In questo senso le religioni venivano considerate una «preparazione al vangelo» per i «semi del Verbo che esse contenevano», e il cristianesimo era presentato come la risposta integrale al bisogno religioso dell’uomo. Scriveva, ad esempio, Jean Danielou: «Le religioni naturali testimoniano – ed è ciò che c’è in esse di valido – il movimento dell’uomo verso Dio, il cristianesimo è il movimento di Dio verso l’uomo, che in Gesù Cristo giunge a toccarlo, per condurlo a Lui» (Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1963, p. 131). Anche Yves Congar e Henri De Lubac si sono mossi in questa direzione. Carlo Molari 51 il frutto dolce amaro del lavoro L Rosanna Virgili a letteratura profetica biblica è venata di saggezza. Non solo un elitario e speciale filo diretto col Dio del cielo anima, infatti, la bocca degli uomini, altrettanto speciali, che sono i profeti, ma anche il fiore della umana intelligenza. Per parlare delle cose spirituali i profeti si avvalgono di quella preziosa esperienza materiale dell’uomo, che fa acquistare allo stesso una conoscenza sempre più profonda, fino a fargli sfiorare livelli di scienza divini. È proprio l’occhio profetico, che, a sua volta, anima tutta la Bibbia, a cogliere una trasparenza nell’opera delle mani dell’uomo, nel frutto del suo lavoro, che è l’immagine di un Dio che lavora. Nota a tutti è la figura del Dio artigiano che plasma la creta per creare l’uomo (Gn 2,7); ma vediamo anche un Dio medico, alle prese con le ferite del suo popolo (cf. Es 15,26); un Dio viticoltore che suda per piantare la sua vigna (Is 5,3). In questo «lavorare» di Dio si rivela, appunto, la sua stessa Sapienza. «ero con lui come un architetto» ROCCA 1 GIUGNO 2006 Nel libro dei Proverbi c’è un testo singolare in cui la Sapienza – personificata al femminile – racconta di quando Dio creava il mondo: «quando fissava i cieli, tracciava un cerchio sull’abisso, condensava le nubi in alto, stabiliva al mare i suoi limiti, disponeva le fondamenta della terra». Allora Lei era con Lui: «come un architetto» (Pr 8,27-30). Splendida e curiosa è questa finestra che viene aperta sul lavoro di Dio come creatore: curiosa perché scopriamo che Dio era coadiuvato da un architetto donna; splendida perché ritrae un Dio impegnato nel più affascinante tipo di lavoro – quello di creare il mondo! – per di più fatto in équipe. La creazione ci appare, insomma, il frutto di un’opera di comunio52 ne e non certo il risultato perfetto di un impegno solitario. Fin qui la memoria di un’opera archetipica, quella originaria di Dio; ma i profeti, si sa, guardano sul presente. «a Salomone saggezza e intelligenza» Mentre nella Bibbia cattolica vanno sotto il nome di «libri profetici» solo quelli dei cosiddetti profeti «scrittori» (Isaia, Geremia, Ezechiele, ecc.), nella Bibbia ebraica sono annoverati tra i profeti anche i libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re, distinti dagli altri come «profeti anteriori». In questo primo blocco di volumi profetici, di quel raffinato ingegnere del mondo, che è il Dio creatore, troviamo una sorta di icona nella figura di re Salomone: «Dio concesse a Salomone saggezza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare (...). Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la saggezza di Salomone» (1Re 5,9). In quali opere straordinarie si riversò la saggezza di questo re, così celebrato nel primo libro dei Re? Certamente egli aveva una cultura universale, poiché: «Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci» (1Re 5,13), ma l’opera che lo rese immortale fu un capolavoro dell’architettura mondiale: il Tempio di Gerusalemme. Salomone, insomma, dovette diventare famoso, presso i suoi contemporanei, per gli stessi motivi per cui oggi lo è il nostro Renzo Piano. L’intelligenza, la perizia, le capacità organizzative, la ricercatezza che Salomone spese nella costruzione del Tempio, sono evidenziate con dovizia di particolari in 1Re 5-6. Dopo aver costruito il Tempio il re procedette, inoltre, alla costruzione della sua reggia che, quanto a pregio non fu certo da meno (cf. 1Re 7,1 ss.). le tentazioni del lavoro Ma tutta questa straordinaria opera verrà – ahimè – distrutta. Ce lo racconta il profeta del secondo Libro dei Re: «Il settimo giorno del quinto mese Nabuzaradan, ufficiale del re di Babilonia, bruciò il Tempio, la reggia, e tutte le case di Gerusalemme (...) i Caldei fecero a pezzi le colonne di bronzo che erano nel Tempio (...) quanto al grande bacino e alle basi, tutto opera di Salomone per il Tempio (...) non si poteva calcolare il peso di tutti questi oggetti» (2Re 25,8-9.13.16). Tra i motivi che vogliono spiegare la ragione intima di questo disastro – dato che la ragione evidente fu l’invasione babilonese e la conquista di Gerusalemme – quello che appare più seducente è che Salomone, nel suo ambizioso progetto produttivo, fosse caduto nella tentazione dei Faraoni dell’Egitto, anch’essi formidabili costruttori: quello di istituire il lavoro forzato, per poterlo realizzare. Egli aveva, così, riportato Israele in quella stessa condizione di schiavitù in cui esso versava nel paese di Egitto. Il grande re della pace, insomma, si era fatto ammaliare dalla grandez- za cui un uomo può elevare il proprio nome, attraverso il suo lavoro, tanto che gli sembrava nulla sacrificare, a questo scopo, la libertà e la vita stessa di migliaia e migliaia di persone. Di tutto il suo popolo! Oltre a questa affatto seria spiegazione ce n’è un’altra. Il libro di Ezechiele ci offre una specie di cortometraggio letterario di ciò che accadeva nel Tempio di Salomone, pochi minuti prima che venisse dato alle fiamme: «Sfondai la parete ed ecco apparve una porta, entrai e vidi ogni sorta di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli del popolo di Israele raffigurati intorno alle pareti e settanta anziani della casa di Israele, in piedi davanti ad essi (...). Hai visto, figlio dell’uomo, quello che fanno gli anziani del popolo nelle tenebre, ciascuno nella stanza recondita del proprio idolo? Vanno dicendo: Il Signore non ci vede» (Ez 8,8-12). Attraverso questa specie di «candid camera» profetica si rivela l’anima di coloro che frequentano il Tempio e, allo stesso tempo, governano Gerusalemme: invece di adorare il Signore, nella sua casa, ciascuno in quella casa di Dio, ha ricavato una stanza per sè, per amplificare il suo potere personale. In questa autentica forma di idolatria si rivela la tentazione più radicata dell’opera che l’uomo ha realizzato nel Tempio: quella di fare di quell’opera non un riflesso della grandezza di Dio, ma uno strumento di esaltazione di se stesso. Quando le cose vanno in questo modo, la splendida risorsa umana del lavoro non porta ad una autentica promozione dell’umanità, piuttosto al suo contrario. Infatti, dice, infine, il Signore ad Ezechiele: «Hai visto, figlio dell’uomo? Come se fosse poca cosa per la casa di Giuda commettere simili nefandezze, in questo luogo, hanno riempito il paese di violenze» (Ez 8,17). Alla fine del suo libro Ezechiele diventerà l’ingegnere e l’architetto di un nuovo Tempio, anche se ancora sulla carta. In una autentica visione egli lo descriverà in maniera perfino più precisa di quello di Salomone (cf. Ez 4048). Ma le sue geometrie si confonderanno con quelle naturali e cosmiche che Dio stesso ha tracciato nel paese. In un incantevole intreccio tra sapienza umana e divina, il lavoro dell’uomo sarà un tutt’uno con quelle di Dio e solo allora: «Dividerete questo territorio in eredità fra voi e i forestieri che abitano con voi, i quali hanno generato figli in mezzo a voi. Nelle tribù in cui lo straniero è stabilito, là gli darete la sua parte» (Ez 47, 22-23). Solo allora il lavoro sarà edificio di quella pace che Salomone, con tutta la sua sapienza, aveva mancato. ROCCA 1 GIUGNO 2006 LA VOCE DEL DISSENSO Per realizzare queste mirabili opere Salomone si circondò degli artigiani più abili (cf. 7,14), fece venire cedri dal Libano (cf. 5,20) la cui ceduazione affidò agli esperti taglialegna di Sidone; reclutò ai lavori forzati ben trentamila uomini da tutto Israele (cf. 5,26), mentre coloro che lavoravano per lui, complessivamente, stranieri compresi, erano: «settantamila operai addetti al trasporto del materiale e ottantamila scalpellini a tagliar pietre sui monti, senza contare gli incaricati dei prefetti che erano tremilatrecento, preposti da Salomone al comando delle persone addette ai lavori» (5,27-30). Una gran bella holding! Il testo descrive accuratamente anche la perfetta macchina organizzativa per cui il re faceva estrarre grandi massi di pietra, che venissero, quindi, sgrossati, squadrati e preparati, insieme al legname, per le fondamenta dell’edificio (cf. 5,31-32). Se precisa e particolareggiata è, poi, la descrizione della parte strutturale ed esterna del Tempio (cf. 6,1-13), altrettanto lo sarà quella dell’interno, comprese le porte, il cortile, gli arredi, con la specificazione dei tipi di legno e di metallo utilizzati per la loro realizzazione. «Salomone edificò (il Tempio) in sette anni» (6,38): un tempo pieno per portare a termine il suo capolavoro: una sorta di micro-cosmo in cui rimarrà iscritta tutta la sua saggezza. Qualcosa che rispecchiava la sapienza di Dio, il quale impiegò sette giorni per portare a compimento il suo capolavoro: la creazione del macro-cosmo. Rosanna Virgili 53 Giuda coscienza scomoda ROCCA 1 GIUGNO 2006 Lilia Sebastiani 54 I nsieme al numero di maggio del National Geographic è stato messo in vendita, dopo essere stato annunciato su diversi giornali e anche alla televisione, un libro dal titolo Il Vangelo perduto. Non pochi si sono precipitati a comprarlo, spinti quasi tutti dall’idea semiconsapevole di aver a che fare con la traduzione (e/o l’introduzione storico-filologica, magari) del Vangelo di Giuda, di cui tanto si era parlato nelle ultime settimane. Naturalmente non era vero. La traduzione italiana non è ancora pubblicata, il libro non è altro che il racconto del ritrovamento o, più precisamente, delle laboriose vicende che hanno seguito il primo ritrovamento del codice, avvenuto circa 35 anni fa. Un racconto presentato come un avvincente thriller archeologico-religioso; in realtà, abbastanza avvincente in certe parti, in altre un po’ grigio e prolisso. Ma di questo non si può far carico all’autore (Herbert Krosney, scrittore e regista di documentari televisivi): il fatto è che si tratta di una storia moderna fatta soprattutto di indugi, di attese, di dissimulazioni, di trattative interrotte e riprese; di un trentennio nel corso del quale il Vangelo di Giuda non faceva altro che deteriorarsi tranquillamente ma irreparabilmente, in qualche remota cassetta di sicurezza. Alla base di queste perdite di tempo non vi era, beninteso, il desiderio di rivalutare o ri-condannare Giuda, di mettere la chiesa nei guai oppure di risparmiarglieli: solo ragioni di denaro (tanto) e, in sottordine, un po’ di invidie e conflittualità accademiche. Come si sarà capito, ho comprato il libro anch’io. Forse avrei potuto farne a meno senza gran perdita ma, per decidere questo, ho dovuto leggerlo. Nella mia naïvété poi ero stata anche sfiorata da un dubbio: perché il National Geographic? Ovvero, che c’entra Giuda con la geografia? Appena scoperto che il codice con il Vangelo di Giuda in questi anni è appartenuto alla National Geographic Society, la quale ha anche finanziato il restauro, il dubbio non aveva più ragione d’essere. sensazionalismo para-religioso Leggere il testo, appena si potrà, sarà interessante. Quello che dà fastidio è il ‘caso’ di cronaca: la vampata di interesse artificiale (che poi subito si estingue, è chiaro), la notizia caricata e gonfiata ad arte per diventare giornalisticamente più appetibile anche a gente che nulla sa di vangeli apocrifi e ben poco anche di quelli canonici, di gnosi e di cristianesimo antico, e di quello recente. Perché tanto divorante interesse per i libri che promettono rivelazioni sensazionalistiche su qualche aspetto del cristianesimo, e in particolare della chiesa di Roma? Perché è diventato quasi infallibile il mix di qualcosa che riguarda la vita storica pubblica o privata, vera o presunta, di Gesù + politica + complotto + eretici + templari + (…non indispensabili, ma utili e graditi, i Merovingi o i loro discendenti) + massoni + Opus Dei? Quanti libri usciti negli ultimi due o tre anni includevano nel titolo la parola Codice o, più arcanamente, Codex, nella speranza di emulare il successo di pubblico e di vendite del Codice da Vinci? Quanti si sono interessati al Vangelo di Giuda perché avevano letto con trasporto il Codice da Vinci? E meno male che, almeno questa volta, non c’entrava la Maddalena. Tra parentesi, visto che abbiamo dovuto nominare Il Codice da Vinci, chi scrive considera del tutto fuori luogo l’incomposto allarmismo scatenato nella chiesa cattolica da quel romanzo di Dan Brown, e dal proliferare di confutazioni e anti-Codici, che fornisce al libro un’eccellente pubblicità gratuita e rafforza l’idea del complotto, l’idea che ci sia bisogno di difendersi… Senza contare che l’autore del Codice da Vinci può sempre mettersi al riparo da ogni critica sottolineando di aver scritto un romanzo (ossia un «componimento misto di storia e d’invenzione», secondo il nostro Manzoni, che alla storia ci teneva): un romanzo non ha alcun obbligo di dire la verità e, quando parla di cose che sono o sem- ne, un inno gnostico recepito dalla tradizione giovannea e perciò dalla Grande Chiesa: adattato, ma ancora riconoscibile. Non occorre essere specialisti per essere colpiti dalla differenza di linguaggio rispetto agli altri vangeli, e anche al resto dello stesso IV vangelo, che comunque non manca di qualche venatura gnostica. Eppure sappiamo tutti quale spiritualità profonda contenga il Prologo, e quale inedita comprensione del mistero di Cristo. Quando nella letteratura gnostica si trova un vangelo di Giuda o di Tommaso o di Maria (Maddalena), non vuol dire che il discepolo o la discepola di cui si tratta ne siano autori, ma che la rivelazione contenuta nello scritto si rivolge in primo luogo a un interlocutore privilegiato. un Vangelo gnostico La novità problematica del Vangelo di Giuda non è affatto nuova, in realtà: riguarda sempre il mistero dell’agire di questo discepolo, scelto e chiamato da Gesù come gli altri, che nei confronti del Maestro fa qualcosa di grave e pressoché incomprensibile. Non si può mettere in dubbio che storicamente Giuda abbia in qualche modo facilitato l’arresto di Gesù, che lo abbia «consegnato» (nei vangeli canonici il verbo usato a questo proposito è paradìdomi): un fatto così doloroso e scandaloso non poteva essere inventato nella prima chiesa, non vi era davvero nessun interesse a inventarlo. Ma consegnare non significa ipso facto tradire. E forse Giuda, pur commettendo un tragico sbaglio, era mosso da uno scopo abbastanza nobile, dal suo punto di vista. Forse voleva spingere Gesù a manifestarsi apertamente, in un confronto con i capi del giudaismo? Forse (e qui saremmo abbastanza vicini all’idea di fondo del Vangelo di Giuda) agiva, o credeva di agire, in accordo con Gesù? Certo è molto strano che nei Vangeli Gesù sembri perfettamente consapevole di ciò che Giuda sta per fare, e che tuttavia non faccia nulla, non diciamo per sottrarsi a quanto lo attende, ma nemmeno per salvare Giuda. Dal quarto vangelo sembrerebbe anzi che gli dia la spinta definitiva per agire. Alcune frasi del Vangelo di Giuda, già rese di pubblico dominio, colpiscono l’attenzione; non sconvolgono più di tanto, almeno per chi sappia qualcosa dello gnosticismo. Una, che sembra il culmine della rivalutazione di Giuda, potrebbe essere abbastanza fuorviante per chi ignora il contesto di pensiero in cui la frase prende forma: «Tu sarai al di sopra di tutti loro; perché tu sacrificherai l’uomo che mi riveste». Insomma, di Giuda ci sarebbe effettivamente bisogno per consegnare Gesù, perché la morte di Gesù è sentita come arca- È difficile esprimere in due parole la storia molto sfuggente della Gnosi e la sua dottrina, quasi altrettanto sfuggente e comunque non unitaria. Ricordiamo solo ciò che quasi tutti sanno: gli gnostici, come dice il nome (ghnòsis = conoscenza), fanno consistere la salvezza nella rivelazione esoterica di una sapienza inaccessibile ai più: in questo possono avere qualche punto di contatto con i culti misterici dell’antichità, e si differenziano dal cristianesimo senza specificazioni, che offre una salvezza a tutti. L’idea di fondo, profondamente dualistica, è che ci sia un Dio buono e supremo, che è all’origine delle realtà spirituali ed è quello portato agli uomini da Gesù; ma anche un Dio inferiore, invidioso del primo, creatore dell’universo materiale, compresa ovviamente la corporeità umana. Nel loro disprezzo per il corpo, che consideravano solo uno scomodo e insignificante fardello, gli gnostici potevano predicare in certi casi una continenza assoluta, in altri un totale libertinismo: la differenza era poca. Vedevano in Gesù un Maestro di sublime sapienza, ma non consideravano affatto l’Incarnazione, che per loro sarebbe stata semmai uno scadimento, e alla Resurrezione (corporea!) attribuivano un’importanza del tutto secondaria. Nei loro testi Gesù appare già glorificato, fuori del tempo e della storia. Le correnti più moderate della Gnosi influiscono parecchio anche sul nascente cristianesimo ‘ufficiale’ – ortodosso – che comunque sarà riconosciuto come tale solo a un certo punto: all’inizio ovviamente tutte le varietà di fede cristiana hanno pari dignità e diritto a esistere. Alcuni studiosi sostengono, per esempio, che il Prologo del quarto Vangelo sarebbe, almeno in origi- il lato oscuro della redenzione ROCCA 1 GIUGNO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO brano vere, può sempre sostenere che ogni allusione è casuale. Comunque il Vangelo di Giuda, sia chiaro, non è il Codice da Vinci! Intanto, è ‘vero’: risale al IV secolo, è la traduzione in copto di un originale greco più antico, forse del secolo II. L’originale greco sembra conosciuto da sant’Ireneo di Lione, che ne parla con accenti di condanna nel suo trattato contro le eresie. E si capisce la profonda emozione provata da chi per primo ha esaminato il testo ritrovato, leggendo alla fine (il titolo si trova in fondo) Peuaggèlion Nioùdas, appunto «vangelo di Giuda» in copto. Quel che è falso (e sarebbe da chiedersi come mai non abbiano protestato i serissimi studiosi che hanno lavorato al restauro e alla traduzione del codice) è il battage pubblicitario assurdo e gonfiato che ne ha preceduto la pubblicazione. 55 perché tanto interesse? ROCCA 1 GIUGNO 2006 Il ritrovamento del Vangelo di Giuda è importante per gli studiosi ma, certo, non più di quanto lo fu il ritrovamento dei Rotoli del Mar Morto nel 1947 o (per restare in ambito gnostico) dei testi di Nag Hammadi in Egitto nel 1945: anche se lo studio e la pubblicazione di questi ultimi richiesero tempi lunghissimi, e il pubblico colto non specializzato cominciò a saperne qualcosa solo negli anni Settanta. Il pubblico non colto probabilmente non ne venne neppure a conoscenza, visto che i mass-media, in tanti anni, non dedicarono a quel ritrovamento nemmeno un decimo dell’attenzione accordata in poche settimane al ritrovamento del Vangelo di Giuda. Perché dunque questo nuovo vangelo gnostico dovrebbe sconvolgere l’opinione pubblica più degli altri? Forse proprio perché vi si parla di Giuda. Perché si mette in dubbio per la prima volta in un discorso rivolto a tutti ciò che tutti credono di conoscere: Giuda come losco personaggio intrinsecamente cattivo che tradisce Gesù, o per odio gratuito nei suoi confronti o per vile brama di denaro, oppure per tutt’e due le cose insieme. Molti cristiani si irrigidiscono o si irritano o ‘stanno male’ quando qualcuno tenta di far comprendere che è poco cristiano dare per ovvia, necessaria, scontata la dannazione del dodicesimo discepolo. È una reazione paragonabile a quella scatenata in certe persone e in certi ambienti dallo scuotimento di certezze in ordine all’inferno o all’esistenza personale del diavolo. Perché certe persone hanno bisogno di una negatività ufficiale, riconosciuta, esecrata e sanzionata, e 56 in ultima analisi de-responsabilizzante, per essere dispensate dall’evento più lacerante e più necessario nell’esperienza religiosa: diventare credenti adulti, sviluppare una coscienza morale degna di questo nome e una spiritualità che non sia né consuetudine né bigottismo né auto-rassicurazione. il dramma di Giuda come lieto annuncio Qualcosa di nuovo su Giuda? Sì, ma non le rivelazioni del National Geographic. E tuttavia pensiamo che, se qualcuno ne verrà indotto a rivedere certe acritiche e irriflesse posizioni risalenti all’infanzia, sarà comunque una buona cosa. È urgente riflettere e far riflettere, il più largamente possibile, su Giuda in una prospettiva redenta. Qualcuno, per la verità, lo ha già fatto, soprattutto biblisti e teologi, e basti pensare, anche se non è l’unico, all’ottimo studio di William Klassen, Giuda: traditore o amico di Cristo? del 1996, apparso in Italia nel 1999 (e qui pubblicato da Bompiani: evidentemente le case editrici cattoliche non hanno osato, anche se l’autore è un biblista riconosciuto, che insegna o insegnava all’École Biblique di Gerusalemme). Ma occorre che queste idee interpellino tutti i credenti e non rimangano pascolo riservato di un’élite più consapevole. Il nostro tempo ha bisogno di aperture di cuore, di stimoli a pensare (se sono un po’ scomodi funzionano meglio), di un supplemento di anima. Il vangelo di Giuda è comunque un ‘vangelo’, dunque un lieto annuncio, e insegna – lo stesso forse potevano insegnarlo anche i vangeli canonici, letti con la giusta apertura di cuore e di spirito – che Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa; mentre noi conosciamo pochissimo, limitati come siamo quanto all’ampiezza del raggio visuale del cuore e quanto alla profondità. In questo senso possiamo veramente parlare di vangelo di Giuda. Ma anche di Pietro, di Levi, di Marta, di Zaccheo, di infiniti altri... Non diciamo neppure di Pilato, perché già esiste, ed è ben conosciuto, un testo apocrifo su di lui: gli Acta Pilati, che parlano di una sua conversione e di un suo martirio. E forse – conducendo la nostra logica ‘apocrifa’ sino al culmine, non più apocrifo forse, e non tanto distinguibile dalla spiritualità cristiana – potremmo ipotizzare anche un vangelo di Caifa, senza nessuna ironia. Certo Caifa, corazzato di potere e di dissimulazione ed esperto di maneggi politici dietro le quinte, ci sembra molto più indietro: è infinitamente più difficile la conversione/salvezza di un Caifa che di un Giuda. Ma a un certo punto, lo crediamo, avrà capito qualcosa anche lui. Non necessariamente in questo nostro versante terreno dell’esistenza. Lilia Sebastiani CINEMA Giacomo Gambetti U n albergo di lusso è diretto da Achille De Bellis, ma è di proprietà della moglie Gigliola, a cui è stato donato dal ricco genitore. Achille si comporta da padrone, ma a mano a mano vediamo che è del tutto sottoposto al denaro della moglie e alla volontà del suocero. Il mio miglior nemico, di Carlo Verdone, comincia con l’interrogatorio da parte di Achille (impersonato dallo stesso Verdone) del personale di servizio, per scoprire chi abbia rubato un computer a un cliente. Malgrado i dinieghi, le resistenze, le preghiere, Achille usa la massima severità e licenzia una cameriera la quale, sostenendo la propria innocenza, corre a piangere sulla spalla del figlio Orfeo (Silvio Muccino), anch’egli dipendente dell’albergo. Il giovane Orfeo affronta con modi assai aspri Achille, gli impone di riassumere la madre, non ci riesce, e allora si dedica a una serie di dispetti, non privi di violenza, nei confronti di Achille. Tale comportamento ha il suo culmine quando Orfeo scopre che Achille se la fa con la cognata, e riesce a scattare delle fotografie molto compromettenti. In occasione di una grande festa notturna, nei giardini dell’hotel, per celebrare il venticinquesimo anniversario di matrimonio di Achille, Orfeo si impadronisce del microfono, annuncia a gran voce la storia del tradimento coniugale, distribuisce le fotografie che invano Achille avrebbe voluto comprare, non riuscendo però a corrompere il giovanotto. Da qui una ovvia, totale crisi in tutta la famiglia, Achille viene con ignominia cacciato di casa, ridotto in pratica sul Il tallone d’Achille Il mio miglior nemico lastrico. Nel frattempo Orfeo stringe una relazione sentimentale con la ragazza Cecilia, conosciuta per caso nello scontro fra l’automobile di lei e il suo motociclo: Cecilia – lo sa lo spettatore, ma non ancora Orfeo – è figlia di Achille e della ricca sua consorte. Ciò complica ulteriormente la situazione, e Orfeo, durante la festa suddetta, provocando lo scandalo, si accorge che Cecilia fa parte di quella famiglia. Ma la storia non è ancora finita. Infatti la madre di Orfeo, che si accompagna a un aspirante attore-regista di teatro, confessa al figlio di avere effettivamente rubato il computer di cui lui aveva bisogno. A questa rivelazione Orfeo naturalmente entra in angoscia, tutta la sua campagna contro Achille si rivela sbagliata, a lui non resta che chiedere perdono, vergognandosi naturalmente un bel po’ di tutte le provocazioni. Sulle prime Achille non accetta scuse, caccia di nuovo Orfeo, sembra definitivamente. Ma questi lo segue, lo pedina, non gli lascia pace, anche perché vuole riconquistare Cecilia. Dopo altre peripezie, attraverso un messaggio ricevuto (ovviamente) sul telefono cellulare, Achille apprende che Cecilia è a Istanbul al Grand Café. Achille parte alla ricerca della figlia, come se fosse facile trovare a Istanbul proprio quel Grand Café in cui lei si trova: ma qui la sceneggiatura non sottilizza davvero. Orfeo va anch’egli alla ricerca della ragazza. Nella trama non tutto è chiarissimo, i due un po’ procedono ognuno per proprio conto, un po’ sembrano associati. Fatto sta che, naturalmente, Cecilia viene rintracciata e, ignorando tutto il resto e tutti gli altri personaggi, la storia ha termine con baci e abbracci. Ancora una volta un film italiano mostra nella sceneggiatura – ci scusiamo per l’insistenza – il suo punto debole più evidente. È scarsa l’originalità della trama, che ha esempi non solo numerosi ma anche di buona qualità nel teatro e nel vecchio cinema francesi e in più di un film americano. Sono assai deboli alcune vie d’uscita nei momenti fondamentali, specie nella seconda parte: già si è accennato alla vicenda di Istanbul, che sembra in verità più un pretesto per una parentesi turistica della produzione che una necessità narrativa, in virtù anche della debolezza della soluzione finale. Né Cecilia aveva bisogno di andare a Istanbul né, per chiudere, c’era bisogno di Istanbul. L’altra debolezza del film – e tocchiamo ancora un tasto dolente – è il dilettantismo della maggioranza delle interpretazioni. Escluso Verdone che è efficace e convincente soprattutto nei momenti drammatici (bravo in particolare in tutta la sequenza iniziale), sono assai modesti e improvvisati tutti gli altri, all’infuori forse di Agnese Nano (che è Gigliola), abbastanza professionale. Ma quello che doveva essere, assieme a Verdone, un cardine del film, cioè la presenza di Silvio Muccino, non regge gran che (a prescindere dalle esaltazioni pubblicitarie). Malgrado infatti gli evidenti sforzi di Verdone per costringere il giovane a una consapevolezza seria e compiuta, la recitazione di Muccino sfugge al controllo e alla coerenza della credibilità, sia nelle (abbondanti) situazioni «urlate» sia in quelle (poche) sottovoce. La scuola, in realtà, non si inventa. Verdone non è forse ancora un regista compiuto, è troppo attore convinto di sé per essere un regista del tutto sicuro, anche se come attore ci sembra ormai maturo e preparato su una gamma sempre più ampia di espressioni: ma Muccino ha bisogno di leggere, di vedere, di imparare molto. E di non prestare fede agli elogi frettolosi e facili. ❑ 57 ROCCA 1 GIUGNO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO namente necessaria. Dal punto di vista gnostico, per eliminare l’insipida e gravosa vita terrestre che è un legame, un limite per Gesù, come per ogni altro essere spirituale promesso alla vita divina; dal punto di vista cristiano tradizionalista (è questo un modo di pensare sciaguratamente diffuso ancora oggi) perché Gesù ‘deve’ morire, e lo sa, per fare la volontà di Dio, e occorre che qualcuno funga da tramite, agevoli l’operazione: un individuo oscuro e maledetto, un vero capro espiatorio, che poi si pente – ma nessuno ha mai prestato sufficiente attenzione a questo particolare –; e corona il tutto impiccandosi, e sarà debitamente sprofondato nell’inferno da un Dio immemore di aver voluto lui, in ultima analisi, la morte del Giusto… Sì, è vero che Gesù dice «… Guai a colui dal quale il Figlio dell’Uomo è tradito, meglio sarebbe per lui se non fosse mai nato» ma, a parte il fatto che queste parole potrebbero riflettere l’emozione dell’evangelista e non risalire a Gesù, quel «guai» contiene forse non una minaccia o una condanna, ma la dolorosa constatazione della sofferenza che il discepolo dovrà attraversare. RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Ulisse Mozart delle marionette I ROCCA 1 GIUGNO 2006 l festival Mozart delle marionette si è svolto al Teatro Grassi del Piccolo Teatro di Milano, tra la fine di marzo e la prima metà di aprile, con il patrocinio del Comune di Milano. La manifestazione, che ha visto notevole affluenza di pubblico, è stata organizzata dalla Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli e vi hanno partecipato – oltre agli stessi Colla – altre cinque compagnie di fama internazionale. Tema comune, ovviamente, la messa in scena di alcune tra le più celebri e celebrate opere mozartiane. L’occasione è stata la ricorrenza del duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Mozart. Due i Don Giovanni interpretati dagli attori con la testa di legno. Nel primo (Don Giovanni all’Opera dei Pupi) della compagnia palermitana Figli d’Arte di Cuticchio, lo stesso ideatore e regista Mimmo Cuticchio compare in scena nella animazione a vista dei lignei personaggi: quelli cui s’ispira la musica di Mozart e, in una piazza siciliana, gli «spettatori» che assistono alla storia d’amore e morte, cui il puparo stesso dà la voce facendo commentare in dialetto stretto la narrazione. Non meno dissacrante la seconda messinscena, nella quale il Teatro Nazionale delle Marionette di Praga per un verso si attiene più fedelmente al libretto mozartiano di Lorenzo da Ponte, per un altro svela anch’essa i trucchi del mestiere con divertenti trovate, prima fra tutte la costante visione delle mani 58 dei marionettisti che muovono i fili. Assai più classico, di grande suggestione Il sogno di Scipione, sul libretto del Metastasio ispirato al famoso Somnium Scipionis di Cicerone. È un testo allegorico (mai rappresentato interamente) al quale la sorprendente musica di un sedicenne Mozart dà vita facendo incontrare al protagonista – durante un suo sogno, da cui il titolo – non solo i suoi gloriosi antenati, ma soprattutto la Dea Costanza e la Dea Fortuna con tutte le metafore del caso. La raffinata messa in scena, dovuta alla Compagnia Carlo Colla e Figli e diretta da Eugenio Monti Colla, si rifà allo stile del teatro barocco, traendone spunto per dare corpo alla fantasia. Degli altri spettacoli marionettistici presenti al Festival va ricordato Il flauto magico, in cui il Teatro delle Marionette di Amsterdam ha messo a frutto la propria ventennale esperienza scultorea e scenografica. Tradizione, questa, comune al celeberrimo Teatro delle Marionette di Salisburgo. Chi lo dirige tuttora è la nipote dello scultore che fondò la Compagnia nel 1913. Una lezione la sua messinscena dello spettacolo Le nozze di Figaro, di grande coerenza stilistica. La più «giovane» tra le compagnie (quella fondata a Lindau, in Germania, nel 2000) ha nondimeno testimoniato, mettendo in scena Il ratto dal serraglio, una eleganza espressiva in nulla inferiore a quelle di più antica tradizione. ❑ Q uando Ulisse incontra Darwin… le recensioni vacillano. Soprattutto devono guardarsi attentamente dal metaforizzare, ché l’eccesso è dietro l’angolo, in compagnia del ridicolo: navigatori (l’uno l’altro), ricercatori del vero, uomini «moderni» (ciascun per sé), ora insieme sulle onde dell’etere... Fissiamo allora alcuni punti: Ulisse è – in queste righe – un programma tv, condotto da Alberto Angela, per le serate del sabato di RaiTre. Nell’annata 2006 s’è mosso tra ambito geografico, antropologie, interessi naturalistici e storia, risentendo, di volta in volta, nel suo modo di costruirsi, della specificità di titoli e tematiche. L’argomento Darwin – sabato 13 maggio – ha consentito di focalizzare l’ottica editoriale dell’Ulisse/programma più di quanto non fosse accaduto sino a quella data, consentendo di frequentare tutti, o quasi, gli ambiti di attenzione della serie recente. Il Darwin da raccontare è, in primo luogo, un gran viaggio intorno al mondo – dal 1831 al 1836 – svoltosi in gran parte per mare, la più grande catalogazione di nuove specie tentata sino a quel periodo e l’interpretazione (ardita, in quel momento) della storia naturale in relazione agli ambienti, sino a scrivere una scienza naturale integrata che incide nell’antropologia e nella storia. Di fronte a tanto insieme, l’intento divulgativo ha attraversato, fluido, linguaggi e formati espressivi diversi: la grafica sulle tappe del brigantino Beagle (su cui Darwin era imbarcato) a Bahia, Montevideo e Buenos Aires, e nella Terra del Fuoco, alle Galapagos, e in Nuova Zelanda e Australia; i microdocumentari sulla natura, vista allora e osservabile ora; le animazioni a rifare in video il supercontinente delle origini (Pangea o Gondwana che sia); la ricognizione a fratture, faglie telluriche e vulcani… E, in parallelo, senza supponenze scientiste, è stato delineato l’inizio e lo sviluppo della teoria darwiniana, evitando, per buona scelta, di calarsi nello pseudo/ dibattito contemporaneo (sciatto assai) tra creazionisti ed evoluzionisti. L’esito è informativo e convincente, non senza qualche concessione all’uso della fiction grazie ad uno sceneggiato televisivo sulla vita di Darwin realizzato da una rivista inglese specializzata in tematiche scientifiche. Solo qua e là lo stato di grazia non sorregge, e qualche semplificazione risulta approssimata: vale (è valso: sabato 13) per il racconto sincopato dell’arrivo e dello scorrere dell’umanità, in epoca preistorica, per tutta la lunghezza del continente «americano». A far da congiunzione tra tutte queste modalità, che costituiscono e sostengono il narrare, è la voce del conduttore e, soprattutto, il suo comparire ora in situazioni museali, ora direttamente negli ambienti di cui si parla, per quelli che – usualmente – sono definiti «stand up» (commenti fatti in loco, da fermo, in piedi) ma che, qui, paiono essere dei «walk up», col conduttore sempre in movimento e la telecamera a seguirne o anticiparne il procedere appiedato. Il tutto ad aggregar pubblico e non poco: 2.541.000 spettatori, terzo ascolto in serata tra tutte le reti, ad indicare l’attenzione del pubblico per una televisione non da Fattoria e non pro/ Carrà. ❑ MOSTRE Giuliano Della Pergola Metropolis L a Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino – ovvero, la Gam –, mette a disposizione un ulteriore appuntamento espositivo nella tradizione della Torino europea ed internazionale: «Metropolis. La città nell’immaginario delle avanguardie 19101920», per la precisa ed appassionata cura di Maria Grazia Messina e Maria Mimita Lamberti a cui si debbono anche un utile e importante catalogo – edito benissimo dalla Fondazione Torino Musei-Gam, il cui Presidente, Giovanna Cattaneo Incisa così presenta la rassegna: «Con questa grande mostra (...si sviluppa) un tema fondamentale della contemporaneità: lo spazio urbano della metropoli che si impose ai giovani artisti all’inizio del XX secolo come luogo di incontro, di scambio e di sperimentazione, contribuendo in modo radicale al rinnovamento dei linguaggi e alla crescita di una cultura internazionale nel dibattito poi drammaticamente interrotto dalla Prima guerra mondiale» –. Infatti la mostra, impaginata benissimo con opere di grande caratura e con la dovuta documentazione (in catalogo Lamberti affronta la Milano dei Futuristi, Messina la Parigi «di poeti e pittori» – da Delaunay a Leger, da Picasso a Soffici –, Gaehtgens la Berlino espressionista, Pacelli la New York del circolo Stieglitz), esprime davvero tale congiunzione: l’intimo rapporto tra la novità della Metropoli che lascia alle sue spalle il mito romantico della Comunità ed entra prepotentemente nella temperie delle contraddizioni e delle inquietudini, dove l’anelito al «progetto» è la capacità della razionalità di dannarsi l’anima nella lotta faustiniana con l’impraticabilità storica della convivenza civile (e in mostra valgono su tutti i meravigliosi affondi della Marianne Werefkin e di Ernst Kirchner, e di Sironi e così anche le intriganti sequenze fotografiche, di Alvin Langdon Coburn e di Atget, preparano la documentazione del prossimo inferno a venire) da cui, tra il 1910 e il 1920 presi indicativamente in considerazione, la corsa al calendario della Prima Grande Guerra che precede l’immane catastrofe, della tragedia nella tragedia, della Seconda Guerra Mondiale. L’essere giovani e l’essere nuovi conduce alla militanza dell’Avanguardia (Boccioni e Severini, per esempio) e dunque alla cultura della utopia e della affermazione espressionistica della propria individualità. Il tema della mostra centra la qualità dell’argomento: non si tratta di entrare nella descrizione della «Nuova Città», si tratta di entrare nel significato storico e culturale e filosofico di una cultura del linguaggio che decide l’identità dell’Europa. E dunque il Futurismo e l’Espressionismo, il Dadaismo e le culture annesse, informano un ventaglio di creatività che è l’energia di questa Europa e di questo Mondo dell’Occidente disposto oggi alle sfide della globalizzazione entro cui quell’idea di Avanguardia (se non della annessa «Metropolis») ancora decide una condizione della identità europea. ❑ Una riproposta dei Macchiaioli A riprova dell’ipotesi generale che solo in presenza di importanti eventi politici generali si può produrre una grande arte, alla Biblioteca di via Senato, a Milano, ecco una interessantissima raccolta dei Macchiaioli, il movimento pittorico sorto alla metà dell’800, quando il Risorgimento era già nei fatti, e quando dunque la dialettica tra realtà locale regionale e realtà nazionale di necessità bussava alle porte. Perché se inteso come movimento livornese, maremmano e toscano il movimento dei Macchiaioli metteva in luce tutta la sua dimensione locale, ma se letto anche come movimento verista, impegnato a cogliere e interpretare le relazioni tra le classi sociali, il movimento dei Macchiaioli spiega l’Italia che si stava creando: i soldati a cavallo dipinti dal «carducciano» Giovanni Fattori sono attori sociali di un esercito regolare, nazionale, che combatte contro un nemico, quello austriaco, qualificato sul piano politico e culturale. La classe borghese che vive nelle ville di campagna, così bene illustrata da Silvestro Lega, classe colta, che legge, che impara a suonare il pianoforte, che studia e sa scrivere, si contrappone invece a quella contadina, che abita presso le ville, ma in tuguri, borghi composti da case povere e che è affranta dalla pesantezza della vita nei campi. Un magnifico quadro di Vito D’Ancona (Studio di paese, 1859) fa il paio con Contadinelli al sole, di S. Lega, del 1861. Addirittura si direbbe che il quadro del D’Ancona sia più moderno dell’altro, più vicino alla pittura che poi gli Impressionisti francesi avrebbero meglio sviluppato. Ma questo elegante movimento italiano precede di qualche decennio quello transalpino, ed è proprio il confronto tra le due scuole (sicuramente imparentate tra di loro, ma anche reciprocamente autonome), che apre alla pittura moderna, che fa capire come il movimento risorgimentale fosse stato sì un motto nazionale, ma anche un movimento patriottico portatore dei valori universali della libertà politica e personale. La mostra milanese sottolinea fin nel titolo con il quale attrae un pubblico incuriosito e colto (Dipinti tra le righe del tempo), che si tratta di un’esposizione di quadri, ma anche di una raccolta di cimeli dell’epoca: una cassetta dei colori, libri e lettere, cartoline e fotografie appartenuti ai pittori macchiaioli, che pongono in risalto la quotidianità degli appartenenti a questo movimento. Se il centro spirituale e culturale restava pur sempre Parigi, attrazione per tutti gli intellettuali delle periferie europee, in Italia s’andava formando una nuova classe politica nazionale, e la mostra milanese credo vada letta come l’omaggio fatto alla città che in Italia, più d’ogni altra seppe corrispondere i principi universali dichiarati dalla Rivoluzione francese nella situazione politica nazionale che stava per nascere. Il Risorgimento italiano deve ai Macchiaioli in pittura quello che Rossini prima, e Verdi poi, seppero con la musica esprimere a fondo. Mostra da vedere, ricca, seriamente impostata, che utilizza quadri dei Macchiaioli provenienti da collezioni private, e quindi difficilmente altrimenti visibili. ❑ ROCCA 1 GIUGNO 2006 TEATRO 59 SITI INTERNET FOTOGRAFIA Michele De Luca ROCCA 1 GIUGNO 2006 G 60 allestita al Centro Comunale d’Arte e Cultura Exma’ di Cagliari, un trentennio di storia del nostro paese attraverso l’obiettivo di fotografi come Sellerio, Berengo Gardin, Roiter, Patellani, Pinna, De Biasi, Petrelli e Samugheo; un’analisi dal profondo, e dall’interno, non solo del mondo rappresentato, ma del «movimento» neorealistico stesso, le cui radici vengono ricercate già nel periodo del fascismo, volendone cogliere anche aspetti contraddittori e sfatare «catalogazioni» di comodo, che acriticamente ascrivono in maniera indistinta gli autori alla poetica neorealista, mentre tra loro è possibile rintracciare elementi di diversità culturali e di «intenzioni». Riecheggiano le parole di Calvino, quando scriveva nel Sentiero dei nidi di ragno, «Il Neorealismo non è stata una scuola, ma piuttosto un insieme di voci. Una scoperta delle diverse Italie fino ad allora inedite». Si può comunque azzardare che, tra le ovvie diversità personali di approccio e di risultato esteticocomunicativo (e qui giustamente la mostra invita ad approfondire la ricostruzione storico-critica), un «comune denominatore» può essere indicato laddove la consapevolezza di vivere in un momento di rapida trasformazione ha «imposto» alla fotografia (in bilico sempre tra «documento» e «poesia») di sentirsi particolarmente coinvolta nel cogliere e consegnare alla memoria collettiva anche i segni più intimi dei mutamenti in atto. ❑ «.eu» come Europa R iuscirà l’Europa virtuale a dare più slancio all’Europa reale? La domanda nasce a fronte dei dati che sta facendo registrare, nel suo primo mese di vita, il nuovo dominio «.eu», ossia l’estensione Internet che definisce l’area telematica europea. Le statistiche parlano di oltre un milione e mezzo di siti così registrati, un terzo dei quali ad opera di tedeschi, i cybereuropeisti più convinti. Il dominio «.eu» ha avuto una storia travagliata e il successo che sta riscuotendo pare riscattare le varie traversie che hanno presieduto al suo sorgere. La procedura per la costituzione del dominio europeo ha mosso infatti i suoi primi passi nel 2000, ma solo verso il 2002 si giunse a un qualche accordo tra i governi dei Paesi membri. Infine, dopo 5 anni di lungaggini burocratico-istituzionali (che nel frattempo hanno visto l’Europa comunitaria raggiungere il numero di 25 Paesi membri), l’Icann, l’authority statunitense che presiede a tutte le estensioni di dominio Internet, ha dato il suo assenso finale al nuovo «.eu», affidandone la gestione al consorzio italo-belga-svedese Eurid, formato dal nostro Cnr e dai registri Internet di Belgio e Svezia. Data ufficiale di nascita del nuovo dominio fu dunque il 2 maggio 2005, quando fu registrato e divenne attivo il sito Eurid.eu. Articolato anche l’iter per la registrazione di siti «.eu». Il 7 dicembre scorso, infatti, sono iniziate le procedure per la preassegnazione dei siti ad enti, istituzioni e soggetti che vantavano diritti preesistenti (ad esempio nomi d’aziende o marchi riconosciuti dalla legge), mentre dal 7 aprile scorso tutti i cittadini residenti in uno dei Paesi membri dell’Unione Europea potevano chiedere la registrazione di siti con tale estensione. Interessanti anche i risultati legati a queste due diverse fasi: se infatti nella lunga fase di preregistrazione le richieste erano giunte a quota 117.117, nella sola prima ora dal via libera alla registrazione sono state oltre 300 mila. Quanto alla ripartizione e distribuzione geografica, a tutt’oggi rilevabile, dei siti «made in Europe», la Germania – segnalavamo – è di gran lunga in prima posizione, con oltre 500 mila siti ad estensione «.eu», seguita (sorprendentemente, visto il loro ben noto euroscetticismo) dagli inglesi, le cui registrazioni si attestano sopra quota 300 mila; in terza, egregia posizione l’Olanda. E l’Italia? A tutt’oggi siamo al quarto posto, con circa 100 mila siti «.eu», seguiti da ciprioti e francesi. Interessante notare lo scatto (e scarto) che anche da noi c’è stato tra le due fasi di registrazione: se nella prima fase, infatti, le preregistrazioni italiane erano appena sotto quota 25 mila, in breve tempo i siti «.eu» legati a soggetti italiani si sono quadruplicati, segno dell’apprezzamento che il dominio riscuote anche da noi (dove ad esempio, per quanto riguarda il dominio «.it», il rapporto di presenze in Internet tra aziende e privati è di 3 a 1). Non c’è dubbio: la strada è ancora lunga per il neonato «.eu», se solo si considera che gli storici «.com» e «.net» sono oggi rispettivamente a quota 50 e 7 milioni di presenze. Ma ciò è coerente con lo stile e il ritmo europei. Sempre che, anche in questo caso, non si finisca col preferire (malauguratamente) l’onnipresente made in Usa. ❑ Remo Bodei Una scintilla di fuoco Zanichelli, Bologna 2005 pp. 145 L’autore, professore di storia della filosofia a Pisa e a Los Angeles, non ha bisogno di presentazioni. Partecipa ormai da molti anni al dibattito filosofico internazionale, ha scritto libri importanti e formato generazioni di studenti tra cui anche il sottoscritto. Proprio «ai miei studenti sparsi per il mondo» il libro è dedicato. Si tratta di un invito non scolastico alla filosofia, una specie di manuale alternativo (o di contro manuale) che senza trascurare la prospettiva storica sviluppa temi, problemi, idee, figure decisive del pensiero filosofico. Il suo merito è quello di parlare con chiarezza di filosofia a un pubblico molto più ampio di quello dei filosofi e degli esperti coinvolgendo il lettore con la forza delle ragioni e delle emozioni. Una curiosità: il libro, spaziando dalla civiltà greca a quella indiana, da quella araba a quella cinese, abbandona la tradizionale prospettiva eurocentrica. Il che, in questi tempi di urgenza interculturale, non guasta. Stefano Cazzato Michele Masotto Attraverso il conflitto Il Segno dei Gabrielli Editori, Negarine (Verona) 2005, pp.111 Il libro è uno studio teorico-pratico, corredato da esercizi, teso a guidarci nell’appassionante tematica dei conflitti rendendoci, come dice il sottotitolo, «né squali né pesciolini, ma delfini». Giornalmente, infatti, nelle nostre relazioni ci troviamo ad affrontare sentimenti contrastanti che generano angoscia, tuttavia nel nostro Dna è presente la possibilità di giungere a risultati positivi. Il conflitto, secondo l’Autore, è da elogiare in quanto è motore dell’evoluzione e dello sviluppo e può migliorare la nostra vita facendone accettare i cambiamenti. Però vi sono anche conflittualità distruttive che mirano alla distruzione di uno dei due contendenti. Il libro si propone di approfondire e riordinare contributi sulla tematica, offrendo un percorso, guardando al raggiungimento di un traguardo, perché è molto saggio senza giudicarci impietosamente, imparare a conoscerci e a saper gestire le nostre emozioni. Viene citata la definizione di J.Morineau: il conflitto è uno scacco al sogno. Ma anche l’Autore ha una sua definizione preferita: il conflitto è come un uovo che si rompe! Cambia qualcosa, ma possiamo decidere di utilizzare l’uovo in altro modo, possiamo quindi decidere come vogliamo vivere una relazione e la difficoltà può dare origine al cambiamento. La risoluzione è affidata a un percorso che pone l’accento sul raggiungimento dell’autostima, dell’assertività per valorizzare se stesso e l’altro e della creatività nella soluzione dei problemi. L’Autore, consapevole che nella sfera delle relazioni umane non possono essere date ricette, spera di aver suscitato con il proprio lavoro l’apprendimento di atteggiamenti di vita positivi e utili alla collettività e anche di aver stimolato i lettori a ulteriori ricerche e a porsi domande più approfondite. Chiara Mansi Giuseppe Cassio San Francesco, il Santuario di Terni Edizioni Quattroemme, Perugia 2005, pp. 400 Il volume si articola in otto capitoli che vanno dalla visita di san Francesco alla città di Terni nel 1218 fino ai giorni nostri. Il testo è arricchito da 110 foto a colori e in bianco/nero e da un saggio di Oriana Visani sulla predicazione francescana nel ’500. L’aspetto più prezioso dell’opera sta nella notevole quantità di informazioni bibliografiche, talvolta contraddittorie, di testimonianze orali, di molte carte d’archivio che hanno permesso all’Autore un compendioso esame storico che consente di dar conto degli aspetti cruciali della vicenda dell’edificio e delle opere d’arte conservate al suo interno. Attraverso un’ampia rilettura critica emerge la presenza del Santo nella cittadina umbra e il libro diventa la guida a una chiesa contenitore di storia, arte e fede. L’impegno quasi decennale profuso in questo lavoro è avvalorato dalla speranza che «come nelle visioni dolcissime del passato, questo tempio del popolo continui pur oggi a chiamare a raccolta nuove generazioni credenti». Ernesto Luzi Alberto Maggi Non ancora madonna Maria secondo i Vangeli Cittadella Editrice, Assisi 2004, pp.132 Chi fu realmente Maria? Che sappiamo di lei? Quali furono le difficoltà che, come tutti gli esseri umani, dovette affrontare? L’autore cerca di rispondere a questi interrogativi esami- nando i testi evangelici non come cronache che riguardano la storia ma come teologia che interessa la fede. Sin dalle prime pagine emerge «Una donna che è grande non solo perché è la madre di Gesù, ma perché ne diventa la fedele discepola, e si pone a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati». Questo libro è un viaggio che parte dal matrimonio combinato dalle famiglie degli sposi, a Nazaret tra Maria e Giuseppe con l’inizio dei problemi che aumentano con la nascita di Gesù, con la strage dei bambini, il ritrovamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e l’incomprensione di Giuseppe e Maria che non hanno ancora scoperto la «buona notizia»: «Il Signore non premia i buoni e non castiga i malvagi, ma a tutti, senza distinzioni, comunica il suo amore». Leggendo il libro si comprende come questi avvenimenti siano i semi che germogliando trasformeranno la madre di Gesù in discepola del Cristo. Nelle sinagoghe di Nazaret e di Cafarnao Maria è posta di fronte alla drammatica scelta: seguire la tradizione religiosa dei suoi compaesani o accettare l’annuncio di Gesù che proclama solo la misericordia di Dio? È a Cana che avviene il profondo cambiamento di Maria; trasformatasi in fedele discepola del Messia lo segue volontariamente e fedelmente sul Golgota ponendosi a fianco del giustiziato. «Presso la croce di Gesù, Giovanni non presenta una madre che soffre per il figlio, ma la coraggiosa discepola disposta a fare la stessa fine del suo maestro». «Se ora Maria fa parte della piccola comunità che continua a credere nel Cristo contro ogni evidenza, è perché è stata capace di accogliere la parola di Gesù». Bartolomeo Mainardi 61 ROCCA 1 GIUGNO 2006 Giovanni Ruggeri Neorealismo li elementi tematici e culturali che connotano il grande movimento del cinema italiano attorno alla seconda guerra mondiale, noto come Neorealismo, sono gli stessi che tracciano la fisionomia di una indimenticabile stagione della nostra fotografia, che unitamente alla fiction cinematografica, contribuisce a disegnare il volto, ora dolente ora carico di speranze, dell’Italia di allora. Intento documentario, semplicità ed immediatezza di espressione, la «strada», la «coralità», il premere della storia collettiva rispetto alle vicende individuali, l’emergere di «eroi» popolari nuovi, come i partigiani, le donne che lavorano, i reduci, la povera gente, un atteggiamento critico-costruttivo, l’attenzione rivolta a cogliere il vero volto della «provincia» italiana. Come scriveva Zavattini, il Neorealismo si pone l’obiettivo di «riconoscere l’esistenza e la pena degli uomini, nella loro reale durata, al fine di corrispondere all’appello che ci viene fatto dalle vittime del nostro egoismo; appello che diventa sempre più urgente domanda di solidarietà». Dopo l’epilogo tragico della guerra, la fotografia, come e forse più della letteratura, dà il suo grande ed imprescindibile apporto di verità e di «impegno». Oltre duecento foto, insieme a documenti vari (spezzoni di film, riviste, manifesti, libri) ci fanno ripercorrere nella mostra «NeoRealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960», LIBRI Ciad ROCCA 1 GIUGNO 2006 S tato dell’Africa centro settentrionale, privo di sbocco sul mare, il Ciad è delimitato a nord dalla Libia, a est dal Sudan, a sud dalla Repubblica Centrafricana e a ovest dal Camerun, dalla Nigeria e dal Niger. La storia recente del Paese comincia alla fine del XIX secolo quando i francesi, giunti in quel territorio, abolirono la schiavitù, divenendo così gli eroi della martoriata popolazione del sud. Assunto il controllo del Paese, i francesi fecero del Ciad la colonia più trascurata dell’Africa, concentrando principalmente i loro sforzi nel fertile sud, dove crearono piantagioni di cotone e imposero tasse. Quando nel 1960 il Ciad ottenne l’indipendenza, il Paese era controllato dagli abitanti del sud e ciò infastidì non poco gli abitanti del nord a prevalenza musulmana, che vedevano gli africani neri come schiavi e non certo come leader. Questo periodo di instabilità politica, sommata a una pesante situazione economica e a continue ondate di siccità, si trasformò in un generale malcontento, che degenerò inevitabilmente in una guerra intestina. I partiti dell’opposizione vennero banditi e gli omicidi di massa cominciarono a divenire la norma. Alle proteste seguirono nuove stragi. Tra una repressione militare e un tentativo di colpo di stato, nel 1968 le truppe francesi vennero chiamate in causa per fermare i combattimenti tra le forze governative e i guerriglieri del Frolinat (Fronte di liberazione nazionale), sostenuti dal Sudan e dalla Libia che riven62 dicava una striscia di territorio a nord del Paese, ricca di minerali, la fascia di Aozou. Quando gli arabi dettero vita a una scissione del Frolinat in più gruppi, cominciò ad emergere la figura di un abile e valoroso combattente, Hissène Habré. Dopo aver sconfitto il Frolinat, la Francia instaurò un duplice comando con Habré in qualità di Presidente e Malloum, appartenente a una diversa tribù, come capo di stato. Ma la situazione precipitò e nella lotta per il potere tra Habré e Malloum, persero la vita migliaia di persone. La Francia chiese allora le dimissioni di entrambi i leader e la pace fu restaurata per alcuni mesi. Tuttavia, con la capitale N’Djamena occupata da cinque differenti eserciti, non passò molto tempo che si riprese a combattere. Il nuovo governo filolibico durò soltanto sei mesi, fino a quando nel 1982, le truppe di Habré marciarono nuovamente vittoriose sulla città. Il Frolinat, respinto verso nord, era ancora attivo quando nel 1985 il suo leader fu arrestato dalle autorità libiche per tradimento. Da allora tutti i ribelli si coagularono in una dura battaglia contro la Libia. Con l’appoggio della Francia, le truppe libiche furono respinte e il loro leader Gheddafi, dopo il verdetto della Corte Internazionale di giustizia dell’Aja, firmò un accordo con il quale rinunciava alla fascia di Aozou. Nel 1990 un colpo di stato portò al potere il consigliere militare Idris Déby. Nonostante gli accordi di pace siglati nel 2002 e nel 2003 tra il Ciad e la Libia, sono ancora frequenti i raid di guerriglia tra le rispettive truppe, cosa che fa presagire che il rischio di un conflitto tra i due paesi non sia stato ancora scongiurato. Le elezioni del 2001 sono state vinte da Déby, sebbene un quarto delle schede siano state annullate per irregolarità. Popolazione: una scarsa omogeneità contraddistingue la popolazione del Ciad, dove sono presenti più di duecento etnie su quasi dieci milioni di abitanti. Il contrasto che oppone le popolazioni del nord, formate da berberi, arabi e sudanesi a quelle meridionali, composte essenzialmente dal gruppo etnico dei sara, è ancora molto forte. Da non sottovalutare la presenza nel Paese di numerosi profughi provenienti dal Darfur. Religione: a nord del Paese la popolazione segue principalmente l’islamismo, mentre al sud si è affermato il cristianesimo (si registra anche la presenza di piccole comunità protestanti ed evangeliche). Sono molto praticate inoltre le credenze animiste. Economia: Le indubbie difficoltà ambientali e le ricorrenti siccità minano alla base lo sviluppo del Paese: l’80% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. Secondo l’indice di sviluppo 2005 delle Nazioni Unite, il Ciad si trova al 173° posto tra le 177 nazioni più povere al mondo. Molto importanti sono i depositi di bauxite, oro e uranio, scoperti recentemente nella fascia di Aozou, che però non sono stati ancora sfruttati per insufficienza di infrastrutture. In un Paese dove ancora i tre quarti della forza lavoro sono impiegati nell’agricoltura e nella pastorizia, le speranze per il futuro sono riposte nello sfruttamento dei pozzi petroliferi scoper- FRATERNITÀ Nello Giostra ti nel 2003 presso Doba. La quantità di petrolio è stimata in un miliardo di barili e potrebbe costituire una notevole fonte di benessere per la popolazione. In base a un accordo stipulato con la Banca Mondiale, il governo del Ciad deve investire l’80% dei ricavi nel sociale. Tuttavia, la società civile dubita che il Governo Deby userà quel denaro per aumentare il budget per lo sviluppo, temendo seriamente che quelle somme verranno utilizzate per l’acquisto di armi finalizzate alla difesa del vacillante regime. Situazione politica e relazioni internazionali: la situazione del Ciad sembra essere sull’orlo di un precipizio. I ribelli del Fuc (Fronte unico per il cambiamento) si sono ormai attestai alle porte della capitale e controllano quasi l’80% del Paese. Cominciata nell’ottobre 2005, con la diserzione di alcuni contingenti dell’esercito, fuggiti al confine con il Sudan, la ribellione si è ingrossata, raccogliendo alti ufficiali delle Forze Armate, ex collaboratori di Deby e i vecchi sostenitori di Habré. La politica autoritaria del Presidente, che non ha saputo neanche sfruttare la manna petrolifera, unita alla diffusa corruzione (nel 2005 Transparency International ha assegnato al governo la palma della corruzione mondiale) hanno scontentato non solo la popolazione, ma anche i vertici dello stato. Il potere di Deby è ora garantito da una ristretta cerchia di suoi fedelissimi e dall’appoggio della Francia, che mantiene nel Paese un contingente di 1500 soldati. Nell’aprile 2006 il Governo ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Sudan, accusato di aver fornito basi logistiche, aiuti finanziari e copertura politica ai ribelli del Fuc. ❑ Sono pessime Domenica sera ricevetti una telefonata da una persona che ho seguito da anni. Sapevo, però, che si trovava in carcere a Roma; invece mi chiamava dalla mia città. A suo tempo lui mi fu presentato da un pastore evangelico. Si trattava di un giovane pugliese che risiedeva ad Atene in carcere perché accusato per traffico di droga. Interpellato a suo tempo tramite un missionario che incaricai sul posto mi fu sempre riferito che la povertà costringe spesso a subire vessazioni. Questa stessa persona mi pregò di far avvicinare la sua famiglia che si trovava in Colombia ed io con l’aiuto del Signore riuscii nel programma e, con l’intervento dell’Ambasciata Italiana del posto, a raggiungere lo scopo. Ora la famiglia si trova nella mia città e lui è venuto qui agli arresti domiciliari con problematiche grandi. Non può deambulare e ha bisogno di una carrozzella e di un letto particolare. È vero che la Asl dovrebbe provvedere ed è su questa linea che si sta adoperando una delle figlie, compresa la mia persona. Ma le condizioni dell’amico in parola sono pessime; anche la moglie è ricoverata in ospedale per un intervento. I debiti si accumulano... Vorrei chiedervi, cari Rocchigiani, di manifestare la vostra comprensione e solidarietà verso questa famiglia tanto tribolata. Un vivo ringraziamento per l’attenzione prestata. I.S. È necessario avere Cristo nel cuore Sono sicuro che con la vostra collaborazione e l’appoggio di tutti i nostri amici «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 possiamo dotare i vari villaggi ubicati sulle rive del rio Cayapas di una scuoletta decorosa. Sto visitando numerose comunità in questa zona dell’Ecuador per l’amministrazione della Cresima ai giovani che per due anni hanno frequentato il catechismo; sono stati preparati da catechisti ben formati, saggi, vere guide spirituali. Incontrare questi gruppi e amministrare loro il sacramento della Cresima è un’esperienza ricca e meravigliosa, anche se il cammino per raggiungere le loro comunità risulta spesso difficile e faticoso. Continuiamo ad aiutare la nostra gente con diversi progetti agricoli perché non manchi almeno il loro alimento quotidiano: il riso. Le coltivazioni a ciclo corto sono quelle che più piacciono, perché i raccolti si vedono a breve termine e rispondono alle necessità più immediate. Il problema maggiore di questi tempi riguarda i ragazzi dei rioni più poveri che si raggruppano in bande e lottano tra di loro... Ogni settimana possiamo contare vari morti dall’età di 15 ai 20 anni. La facilità di ottenere droga e armi, la violenza che si attiva dalla vicina Colombia sono le radici di questo difficile problema. Però per seminare dovunque la pace è necessario avere Cristo nel cuore e sarà la sua presenza in noi che irradierà la pace intorno a noi: il vostro lavoro allora sarà orientato ad aiutare perché le persone si scoprino amate da Dio! I diversi progetti che sono iniziati vanno avanti bene; que- st’anno sono aumentati il numero delle scuolette nella zona rurale e i lavori di costruzione dei nuovi laboratori di meccanica, di falegnameria, ma vanno adagio... Che il Signore ripaghi tutto il bene che fate. Mons. E.A. La Ditta è fallita Consigliata dal mio Parroco, del quale allego la presentazione, mi permetto di scrivere a «Fraternità» per chiedere un aiuto. Mio marito, che ha 53 anni, fa il marittimo e ultimamente lavorava in Sicilia; da sette mesi è disoccupato perché la ditta è fallita. Entrambi abbiamo problemi di salute e bisogno di cure mediche. Dobbiamo da pagare cinque mesi di affitto per la casa dove abitiamo e i proprietari minacciano di sfrattarci. Inoltre abbiamo diverse bollette dell’Enel e del gas accumulate... Siamo senza alcun aiuto; solo qualche vicino di casa e il nostro parroco ci offrono un po’ di alimenti. I notri due figli lavorano saltuariamente e avendo entrambi famiglia riescono a stento a sopravvivere dovendo pagare l’affitto e le spese fisse indispensabili... Vivevamo abbastanza serenamente, ma ora siamo disperati. Un aiuto anche piccolo può aiutarci a superare questo momento. Spero tanto che mio marito possa trovare qualcosa da fare per vivere; io sono cardiopatica e non posso fare lavori pesanti... Grazie di cuore. R.G. Sempre grande è la gratitudine dei sofferenti più bisognosi che ricevono un aiuto: ... carissimi, aprendo la vostra lettera l’emozione è stata forte trovando un’offerta di cento euro. Grazie infinite a tutti i benefattori. Questa somma servirà per pagare i medicinali. Il buon Dio è tra voi! D.R. «Da offerte libere» ... grazie di cuore per tutto quello che state facendo per noi. Il vostro dono di 200 euro è arrivato come la divina provvidenza; dovevo pagare un debito per la legna di 180 euro... Vi abbraccio tutti P.R. «Da offerte libere» ... non ho parole per esprimere la gioia e la commozione insieme che con mia madre ho provato nel ricevere mille euro, dono dei generosi amici di «Fraternità». Siete riusciti ad alleviare un po’ il mio disagio economico, le mie sofferenze che non finiscono mai. Mia madre per me è preziosissima, ma ha bisogno ormai sempre di qualcuno per accudirmi. Vi abbraccio con affetto e vi ringrazio ancora tantissimo. F.V. «Non basta» ... subito faremo avere alla cara missionaria Luigia l’offerta di 500 euro per i suoi bambini poveri in Tanzania. Un grazie sentito e riconoscente per la generosità grande dei vostri Rocchigiani. Auguriamo a tutti ogni bene e preghiamo. M.M. «Da offerte libere». Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 1 GIUGNO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede Rocca/foto d’archivio Giuseppe G. Pino