Giampaolo Pansa
Bella ciao
Controstoria della Resistenza
saggi Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07260-1
Prima edizione: febbraio 2014
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
Introduzione
Rivoluzione senza onore
Il desiderio di scrivere questo libro viene da un tempo
per me molto lontano. Era il maggio 1959, avevo ven­
titré anni e mezzo ed ero uno studente dell’Università
di Torino. Stavo per laurearmi in Scienze politiche, con
una tesi di dimensioni mostruose, un mattone di otto­
cento pagine, già consegnata al professor Guido Quaz­
za, l’incaricato di Storia contemporanea. In quell’epo­
ca l’argomento era insolito per i lavori da presentare
all’esame di laurea: la guerra partigiana nella mia pro­
vincia, tra Genova e il Po.
Nello stesso mese, per l’esattezza il giorno 24, si ten­
ne a Genova un convegno sulla storiografia della Resi­
stenza, organizzato dall’Istituto nazionale per la storia
del movimento di liberazione in Italia. Il padre di tutti
gli Istituti della Resistenza fondati o da fondare nel no­
stro paese.
Il convegno aveva la solennità di una funzione reli­
giosa. Affidata a due cardinali della ricerca storica sul
fascismo e l’antifascismo. La relazione sull’antifascismo
sino al 25 luglio 1943 era stata assegnata al cattolico Ga­
briele De Rosa. L’altra l’aveva scritta Roberto Battaglia.
Era l’autore di uno studio imponente, pubblicato da Ei­
naudi nel 1953: Storia della Resistenza italiana, un tomo
di 623 pagine che avevo letto con grande attenzione e
molto scetticismo.
Oggi può sembrare assurdo che a un convegno di
quel rilievo politico e accademico venisse concessa la
parola a uno studente neppure laureato. Ma erano tem­
pi ben più liberali di quelli odierni. E quando alzai la
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mano per intervenire, il presidente del convegno, Fer­
ruccio Parri, uno dei leader della Resistenza, mi disse:
«Parla pure anche tu».
Ne approfittai per dare sfogo alla mia presunzione
giovanile. E lo feci con la grinta di chi non esita a be­
stemmiare in chiesa. Accennerò dopo alla mia requisi­
toria, sparata contro le rievocazioni della Resistenza. A
cominciare da quelle inutili, perché retoriche, faziose
o bugiarde, che nel giro di un decennio erano diventa­
te un’alluvione cartacea in grado di seppellire la verità.
Per adesso ricorderò soltanto che suscitai subito molte
reazioni negative tra il pubblico.
Il più indignato si mostrò Vannuccio Faralli, socia­
lista, il primo sindaco di Genova nel dopoguerra. Era
un signore di 68 anni, ancora di bell’aspetto, la chioma
bianca e la cravatta nera a fiocco dei socialisti ottocente­
schi. Impugnava un prezioso bastone da passeggio e lo
agitò in aria, scandendo: «Ma come? Ai convegni sulla
storia della Resistenza adesso facciamo parlare anche i
giovani fascisti?».
Nel sentirmi dare del fascista, rimasi interdetto e
mi bloccai. Ma dalla presidenza, Parri mi ordinò: «Vai
avanti e di’ quello che ti sembra giusto dire!». Conti­
nuai con la stessa grinta e conclusi, un po’ ansioso, però
non vinto. Quando la prima e unica giornata del con­
vegno finì, mi sentivo con le pive nel sacco. Non mi re­
stava che andare in stazione e prendere il treno per ri­
tornare a casa. Mentre uscivo, Parri mi fermò: «Vieni a
sederti accanto a me».
Parri aveva 69 anni, capelli e baffi candidi, gli occhia­
li alzati sulla fronte, un sorriso mite, quasi paterno. Mi
chiese: «Come ti senti dopo quello che ha detto Van­
nuccio?». Risposi crucciato: «Pensavo di aver detto co­
se utili a chi scrive sulla Resistenza e mi sono preso del
fascista!».
Lui mi replicò, paziente: «Sono assai più anziano e
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credo che tu abbia fatto bene a spiegarci come la pen­
si. Siete voi giovani che dovete tirare i sassi nei vetri.
Così, quando i vetri si rompono, noi vecchi ci rendia­
mo conto che è venuto il momento di sostituirli. Per
ringraziarti, mio caro spaccavetri, ti darò una borsa di
studio. Non illuderti, è poca cosa, ma sono contento di
offrirtela».
Trasse dalla tasca interna della giacca un libretto di
assegni del Credito italiano. E ne firmò uno da venticin­
quemila lire. In quel tempo era l’affitto di un mese per
un buon bilocale, in un quartiere del centro di Torino.
Prima di scrivere Bella ciao ho riletto il testo stenografi­
co del mio intervento, pubblicato per intero sulla rivista
dell’Istituto nazionale della Resistenza. Avevo parlato a
braccio e il mio sproloquio occupava ben sette pagine.
Con la boria tipica dei giovani, avevo contestato le sto­
rie generali della guerra di liberazione pubblicate sino
a quel momento. E il mio bersaglio numero uno era la
storia scritta da Battaglia.
Perché tiravo i sassi soprattutto contro di lui? Lo
compresi meglio in seguito, con più chiarezza che nel
1959. In realtà Battaglia era soltanto un uomo dello
schermo, nel senso che dietro la sua figura, molto ri­
spettabile, si celava una questione assai più grande e
cruciale nella storiografia della Resistenza: il predomi­
nio assoluto dei memorialisti e degli storici comunisti.
A ben guardare, poteva sembrare soltanto il riflesso
di un altro dato di fatto: la prevalenza delle formazioni
comuniste nei venti mesi di guerra civile. Tuttavia non
si trattava di una circostanza dovuta solo a quanto era
accaduto tra il 1943 e il 1945. C’era qualcosa di più.
Il di più consisteva nel fatto che, subito dopo la fine
della guerra civile, il Pci aveva imposto il proprio punto
di vista sul nostro conflitto interno. Lo riassumo così: la
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Resistenza era stata soprattutto comunista, gli altri par­
titi o le altre posizioni politiche avevano recitato un ruo­
lo molto secondario o pressoché inesistente.
Da questo principio, conclamato di continuo e sem­
pre ribadito, negli anni successivi sarebbe derivata una
serie di conseguenze politiche e culturali. La più impor­
tante, che ancora oggi si fa sentire nell’atteggiamento
degli eredi del Partitone rosso, era di un rigore inflessi­
bile: chi attacca il Pci attacca la Resistenza, chi sostiene
che i comunisti volevano imporre una dittatura popo­
lare d’impronta sovietica è soltanto un fascista masche­
rato, chi afferma che pure le Garibaldi avevano i loro
scheletri nell’armadio è un falsario.
Infine chi rievoca i delitti e le violenze compiute do­
po il 25 aprile, quasi sempre da partigiani delle Garibal­
di, è un figuro spregevole che deve essere zittito. Me ne
sono reso conto di persona dopo l’uscita del Sangue dei
vinti nel 2003 e dei miei libri successivi. Gli antagoni­
sti rossi mi hanno dato la caccia. E fior di baroni acca­
demici, gente che si ritiene l’unica titolata a occuparsi
di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando ac­
cusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo
storico. Una colpa ancora più grave perché commessa
da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un
bastian contrario, un dilettante della ricerca storica.
Nel 1959 sbagliavo a prendermela con Battaglia?
Non del tutto. Nato a Roma nel 1913, aveva combattu­
to nelle formazioni di Giustizia e Libertà, le bande del
Partito d’Azione. Era stato un ribelle coraggioso, dap­
prima in Umbria, poi a Roma e infine in Garfagnana, al­
le spalle della Linea gotica dei tedeschi, dove gli Allea­
ti lo avevano lanciato con il paracadute. In seguito era
diventato comunista. E aveva scritto la sua Storia della
Resistenza italiana, che avevo letto e riletto con la mati­
ta in mano e un quaderno per prendere appunti.
Dopo la stesura del manoscritto, Battaglia lo sotto­
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pose al giudizio di una autorità politica in quel momen­
to indiscutibile: Luigi Longo, il comandante delle Bri­
gate d’assalto Garibaldi nell’Italia occupata dai tede­
schi e diventato il numero due del Pci, accanto a Palmi­
ro Togliatti. Oggi nessuno scrittore di storia, ancorché
dilettante o amatoriale, sottoporrebbe mai un suo ma­
noscritto a un big della Casta politica. Se a trattenerlo
non intervenisse l’amor proprio, lo fermerebbe il timo­
re di essere sbeffeggiato.
Ma nel Partitone rosso, e forse non soltanto nel san­
tuario delle Botteghe oscure, si usava così. Longo les­
se il manoscritto di Battaglia, tenendo in mano un lapis
ben più appuntito del mio. E lo giudicò ancora troppo
viziato dalle origini politiche dell’autore, un tempo mi­
litante del Partito d’Azione. Per questo gli domandò di
modificarlo in più di un punto.
Era una richiesta perentoria, come di solito lo erano
quelle dei capipartito di un tempo. Ma non so dire se
Battaglia l’abbia soddisfatta e in quale misura. A rigor
di logica dovrei pensare che qualche correzione l’abbia
apportata. Del resto non si presenta un manoscritto ai
piani alti del Bottegone, e a un dirigente di ferro come
Longo, per poi decidere di non tenere in nessun conto
le richieste di pochi o molti ritocchi.
Ma nella lontanissima giornata di Genova, le mie inge­
nue frecciate verbali non furono rivolte soltanto a Bat­
taglia. Qualcuno oggi sostiene che il Pansa è un autore
arrogante, convinto di saperla sempre più lunga degli
altri. Se è davvero così, debbo riconoscere che a ven­
titré anni e mezzo ero già un borioso formidabile, un
contestatore tutto sommato cortese nella forma, però
furibondo nella sostanza.
Per cominciare sostenni che le storie della Resistenza
pubblicate sino a quel momento erano tutte da riscrivere.
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Poiché risultavano zeppe di errori e basate su fonti debo­
li, per non dire fasulle, o gonfie di propaganda retorica,
e perciò inattendibili. Dunque ritenevo necessaria “una
prima opera di revisione” di quanto si era scritto sino ad
allora.
Nel rileggere il testo del mio intervento, oggi mi col­
pisce l’uso insistito di quel sostantivo e del verbo che ne
deriva: “revisione”, “revisionare”. Nelle polemiche sto­
riografiche di quegli anni non si usava ancora il termine
“revisionista”. Né per indicare un testo meritevole di
scomunica, e meno che mai, al contrario, per affermare
che la storia va sempre riscritta e dunque revisionata.
Adesso l’accusa di revisionismo si spreca per tutti
i testi che non seguono il codice dei Gendarmi della
memoria resistenziale, un’immagine che fa da titolo a
un mio libro del 2007. Qualcuno, come il sottoscritto,
la considera una bandiera da sventolare con orgoglio.
Ma riconosco di essere ancora una mosca bianca. Ho
degli amici preoccupati del mio buon nome che mi
scongiurano di non dichiarare più di essere un revi­
sionista.
Sempre a Genova spiegai a un pubblico sorpreso, ma
tutto sommato tollerante, che la revisione della storio­
grafia resistenziale era indispensabile per sistemare al­
cuni conti che non tornavano. E osai fare qualche esem­
pio che oggi sembra banale. I partigiani erano stati per
davvero così tanti, come sostengono le statistiche uffi­
ciali? Esisteva una storia segreta della Resistenza che i
celebranti si rifiutavano di vedere? Per “storia segreta”
intendevo i contrasti brutali tra bande di diverso orien­
tamento politico, i delitti che ne erano derivati, il pro­
filo vero di certi personaggi e di alcuni eventi troppo
mitizzati.
Poi aggiunsi: «A questa storia segreta appartengono
le pagine meno belle della guerra di liberazione. Per il
partito più forte, il Pci, la guerra partigiana è stata anche
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una rivoluzione. E nessuna rivoluzione è mai all’acqua
di rose. Bisogna fermarsi su questi fatti se vogliamo ave­
re davvero un quadro veritiero e non agiografico della
Resistenza».
Infine azzardai la provocazione più pesante, se tenia­
mo conto che mancava un anno all’inizio dei Sessanta.
Riguardava la necessità di ricorrere alle fonti fasciste.
Dissi: «Gli studi sulla Resistenza sono condotti per il 95
per cento su fonti partigiane o antifasciste e solo per il
5 per cento su fonti della Repubblica sociale e del Par­
tito fascista repubblicano. È una lacuna grave che ac­
centua sempre di più il vizio di fondo dei nostri lavori,
quello di produrre storie a senso unico. Dove i partigia­
ni si muovono da soli sulla scena, combattendo contro
un nemico invisibile che si rivela soltanto per le conse­
guenze che la sua fantomatica presenza produce sull’al­
tra parte». E conclusi: «Quale effetto farebbe una sto­
ria del Risorgimento che ignorasse del tutto le vicende
degli austriaci?».
Le mie sassate contro i vetri non passarono inosser­
vate. Appena dopo la laurea, presa nel luglio 1959, mi
cercarono due storici di sinistra, Luigi Cortesi e Stefa­
no Merli. E mi chiesero di scrivere un articolo sulla sto­
riografia della Resistenza. Dirigevano un trimestrale, la
“Rivista storica del socialismo”, pubblicato a Milano.
Accanto a loro c’era Giovanni Pirelli, autore con Pie­
ro Malvezzi di un libro di culto per la mia generazione:
Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana,
stampato da Einaudi nel 1952.
Giovanni Pirelli era il tipo d’uomo che s’incontra di
rado. Apparteneva alla dinastia dei Pirelli, figlio di Al­
berto e fratello di Leopoldo, ma aveva scelto di restare
fuori dall’ambiente delle grandi imprese. Nato nel 1918,
era stato ufficiale degli alpini e poi aveva fatto il parti­
giano, da comandante e commissario politico nelle Ga­
ribaldi in val Chiavenna e nell’Oltrepò pavese. Socialista
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