Le decisioni che ci riguardano, in Europa, vengono prese dal Consiglio, dalla Commissione, dalla BCE o dal Parlamento europeo? Perché, per risolvere la crisi ucraina, Obama non ha potuto fare altro che chiamare Angela Merkel, invece che l’Alto rappresentante per la politica estera europea? La maggior parte degli italiani e degli europei, e non per loro colpa, non saprebbe rispondere. E forse neanche farsi queste domande. L’Unione europea è stretta tra la mancanza di trasparenza dei meccanismi decisionali e l ’i ncompl etezza del processo di unificazione. I risultati sono la disaffezione dei suoi cittadini, cresciuta negli ultimi anni, e l’incapacità dell’Europa di far valere la propria voce sui temi che oggi veramente contano su scala globale. Rischiamo per q u e s t o di buttare via un’enorme opportunità costruita sull’incredibile intuizione e lavoro dei padri fondatori dell’Unione europea. È così inevitabile? Cosa possiamo fare per prendere un’altra direzione? Se potessimo vivere una giornata “senza Unione”, come se non esistesse, ci renderemmo conto di quanto l’Europa sia importante nel nostro quotidiano, di quante cose consideriamo scontate. Schiacciati nello sterile scontro tra chi vuole distruggere l’Europa e chi la difende acriticamente, non facciamo molti passi avanti. Questo libro vuole uscire dall’alternativa secca bianco o nero, e invece vedere tutti i colori di cui è fatta oggi l’Unione europea. Insomma, una riflessione equilibrata su quali errori sono stati fatti, quali condizioni non sono state realizzate, ciò che di buono esiste e come possiamo utilizzarlo al meglio. Soprattutto, qual è l’Unione europea che vogliamo costruire a misura dell’Italia, e come possiamo cominciare a farlo. ALESSIA MOSCA, nata a Monza nel 1975, è la promotrice della legge 120/2011 sulle quote di genere nei consigli di amministrazione, della legge 238/2010 sul rientro dei talenti in Italia e a gennaio 2014 ha presentato una proposta di legge sullo smart working. Dottorato in Scienza della Politica, è Young Global Leader - WEF (2009), Rising Talent - Women’s Forum for the Economy and Society (2010) e World of Difference Award Winner - TIAW (2014). Deputata del Partito democratico, nella XVII legislatura è capogruppo in Commissione Politiche europee alla Camera. ALESSIA MOSCA L’UNIONE, IN PRATICA Un’Europa a misura d’Italia Proprietà letteraria riservata © Alessia Mosca Prima edizione digitale marzo 2014 L’UNIONE, IN PRATICA Prefazione di Eric Jozsef Per decenni, si è pensato che la marcia in avanti dell’Europa fosse inesorabile. Magari a piccoli passi. Magari con alcuni passi di lato. Ma con l’idea che la pace – in un continente segnato, nel passato, dalle sofferenze delle guerre –, la democrazia – in uno spazio geografico a lungo diviso e sopraffatto dai totalitarismi – e il benessere economico e sociale sviluppati per scardinare il ritorno di vecchi fantasmi, fossero garanzie per continuare ad associare costruzione dell’Unione e progresso. Era il periodo in cui i dirigenti dei Paesi europei pensavano, illusoriamente e ingenuamente, che un bel giorno, dopo una lunga notte serena, i popoli si sarebbero svegliati cittadini di un’Europa una e unita. Ma la notte si è fatta incubo. La storia del mondo è cambiata a una velocità spaventosa (tra fine dei due blocchi, rivoluzione tecnologica, emergere di nuove potenze ed esplosione demografica di più di 200.000 persone per giorno, circa una città come Trieste ogni 24 ore) e i cittadini hanno cominciato a perdere punti di riferimento dando prioritariamente la colpa delle loro angosce a un’Europa incompleta, lenta, burocratica e ancora sottomessa ai diktat dei singoli governi nazionali. La crisi economica iniziata con il crac finanziario del 2008 è stata l’acceleratore di questa sfiducia, perché si era «venduta» l’Europa come una convenienza economica più che come un grande progetto comune. Venuta meno la convenienza immediata e visibile, la prospettiva di questa avventura collettiva straordinaria e unica nelle sue forme di pace, di modello economico, sociale, ambientale, di rispetto delle minoranze e dei diritti civili è stata rimessa in discussione. Pertanto, bisogna ripartire. Urge rilanciare, riformare, ritrovare un orizzonte comune mettendo in evidenza che solo un’Europa forte e unita può essere rimedio e soluzione per i cittadini europei. Solo un’Unione europea decisa e coesa è capace di imporre delle regole a un capitalismo finanziario senza freni. Solo un’Europa unita è in grado di correggere gli squilibri provocati dalla mondializzazione, di suggerire nuove regole, di inventare nuove soluzioni. Nessun singolo Paese, compresa la Germania, può pensare di contare nel mondo di domani. Nel 2050 non ci sarà più nessun Paese europeo nel G20. Mentre insieme siamo, ancora e malgrado la crisi, la prima potenza economica del mondo con un’attenzione al sociale senza paragoni. L’UE rappresenta il 50% delle spese mondiali nel sociale. È questo il modello di civiltà che bisogna difendere, evitando che mere operazioni contabili creino, come in Grecia, sacche di inaccettabile povertà. Per questo bisogna riprendere il cantiere delle proposte, delle riforme, delle speranze. Questo si potrà fare solo ricordando, come scrive Alessia Mosca in questo piccolo testo, sintetico ed efficace, le ragioni della costruzione dell’Unione, evocando le radici del nostro passato comune, mostrando le realizzazioni, le possibilità offerte già oggi ai cittadini e le formidabili potenzialità dell’Europa. L’Europa è, oggi, a un bivio cruciale. È il bivio dell’accelerazione, del salto politico verso una forma di Stati Uniti d’Europa o la progressiva decomposizione del sogno europeo che porterà a un declino per tutti. «Senza Europa politica resta solo l’Europa tecnocratica» scrive Alessia Mosca, che sottolinea giustamente quanto le vicine elezioni europee saranno decisive. Solo i cittadini, in particolare attraverso i loro rappresentanti al Parlamento di Strasburgo, saranno in grado di spingere i capi di Stato e di Governo nazionali a fare il salto per un nuovo cammino comune verso un’Europa più forte, più unita e più equa. «Le dodici stelle [della bandiera europea, ndr] significano per me che si potrebbe vivere meglio su questa terra» concludeva Vaclav Havel nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, «solo se, ogni tanto, si alzasse gli occhi a guardare le stelle.» Introduzione Le decisioni in Europa vengono prese dal Consiglio, dalla Commissione, dalla BCE o dal Parlamento europeo? Perché Obama, per risolvere la crisi ucraina, non ha potuto fare altro che chiamare Angela Merkel invece che l’Alto rappresentante per la Politica estera europea? La maggior parte degli italiani e degli europei, non per colpa loro, non sa rispondere a queste domande. L’Unione europea è stretta tra una mancanza di trasparenza dei meccanismi decisionali e un’incompletezza del processo di unificazione. I risultati sono la disaffezione dei cittadini europei, dimostrata ampiamente negli ultimi anni, e l’incapacità dell’Europa di far valere la propria voce sui temi che oggi veramente contano su scala globale. Credo che siamo sul punto di buttare via un’enorme opportunità costruita sull’incredibile intuizione e sul lavoro dei padri fondatori dell’Unione europea. Io sono profondamente convinta che l’unica via d’uscita possibile sia quella di un’apertura delle istituzioni a noi europei e un completamento del processo di integrazione. In più l’Italia, storicamente il Paese più euro entusiasta, è quasi sempre agli ultimi posti in Europa a livello di europeizzazione, intesa per esempio come utilizzo dei fondi comunitari, mentre è ai primi posti per numero di procedure di infrazione per mancato recepimento di direttive comunitarie. Inoltre, sembra che il nostro Paese subisca decisioni prese altrove, invece che concorrere alla loro formazione a livello europeo. Perché? La nostra classe dirigente, a partire da quella politica, ha investito poco sull’Europa. A parte rari casi, abbiamo avuto rappresentanti poco avvezzi alle dinamiche internazionali e spesso neppure in grado di parlare una lingua straniera. Se non si cambia anche su questo versante, il rischio di essere tagliati fuori sarà sempre più reale. Il semestre europeo di presidenza italiana è dunque un’opportunità per consentirci anche di risalire dal rango di «Paese periferico» a quello di «Paese fondatore» dell’UE. Sono passati 10 anni dal 2003, da quando l’Italia presiedette un altro semestre europeo da non rimpiangere. L’inizio fu pessimo in quanto nella seduta del Parlamento europeo del 2 luglio il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che si insediava nella carica europea, ebbe uno sgradevole scontro con Martin Schulz, allora vicepresidente del gruppo parlamentare socialista. Poi venne la violazione del vincolo sul deficit da parte di Francia e Germania che si autoesentarono dalle sanzioni senza che l’Italia volesse o potesse fare nulla. Per evitare di essere il notaio di decisioni altrui, l’Italia del 2014 dovrebbe focalizzarsi su poche e concrete iniziative politico-economiche connesse alle varie scadenze europee. Negli ultimi anni e soprattutto nel corso degli ultimi mesi – per via del mio ruolo di capogruppo in commissione Politiche europee alla Camera – ho avuto modo di ascoltare molte persone sul tema dell’Europa, la maggior parte delle quali erano accomunate da una qualche forma di aspettativa che è rimasta disattesa. Ho raccolto qualcuna delle loro storie (nelle quali è possibile che ogni lettore ritrovi qualche pezzo della propria, di storia). Se ne ricava in generale che i problemi dell’Europa e della sua relazione con i cittadini si articolano su diversi livelli: l’attuale organizzazione dell’Unione europea, percepita dalle persone come un gruppo di tecnocrati che “assegnano i compiti a casa” agli Stati membri e alle loro popolazioni; la sensazione di un’Unione “zoppicante” per l’eterogeneità normativa che rende complicato sentirci più “cittadini europei”; le difficoltà di comunicazione e comprensione. Se da un lato l’Unione europea ha già messo in atto possibili soluzioni alle nostre richieste che noi non sfruttiamo, dall’altro l’Europa esiste già, è fortissimamente presente nella nostra quotidianità, solo che non lo sappiamo. Vi racconterò nel capitolo 1 qualche esempio di opportunità, che spesso non sfruttiamo perché non le conosciamo, partendo da storie vere. Questo capitolo è anche una sorta di vademecum non esaustivo di informazioni e occasioni da cogliere. Nel capitolo 2 invece sono raccolti esempi concreti di come l’Europa ci renda la vita più facile e più sicura molto più di quanto non immaginiamo. Nel capitolo 3 mi soffermerò poi brevemente su una ricostruzione storica delle nostre radici europee, letta attraverso la mobilità dei confini, fisici e immateriali. I capitoli 4, 5 e 6 delineano le criticità dell’Unione europea e del ruolo dell’Italia nell’UE. Il capitolo 7, infine, individua, sulla base di queste criticità, alcuni spunti di lavoro circoscritti ma simbolici, vicini alle esigenze quotidiane dei cittadini europei. Perché l’Europa è fatta in primis dalle persone che ci vivono e che vogliono viverci bene oggi e meglio domani. E gli italiani, più degli altri, potranno salvare se stessi solo costruendo ponti verso l’Europa e usando questi ponti come trampolini verso il domani. Ogni ponte inizia sempre con un progetto tracciato su una pagina bianca, e io spero di contribuire alla sua costruzione. Ho scritto queste pagine nel tentativo di elaborare sia una diagnosi sia possibili soluzioni, senza pretesa di esaustività su un tema così complesso. Vi chiedo perciò la pazienza di seguire il ragionamento che ho cercato di rendere quanto più scorrevole e semplice possibile. Pur sapendo che, oggi, l’Europa semplice non è. Capitolo 1 Opportunità nascoste Qualsiasi buon intervento parte dall’ascolto se vuole davvero rispondere alle necessità, ai problemi concreti. Una convinzione che vale in modo particolare per la relazione tra l’Unione europea e i cittadini italiani, articolata in tantissimi livelli e ingranaggi che spesso si inceppano. Per tanti mesi ho ascoltato le esperienze, le esigenze, le aspettative di tante persone, che mi hanno dimostrato che uno dei problemi più gravi di questa relazione è la mancanza di informazioni. La stragrande maggioranza dei cittadini italiani non è a conoscenza delle tante opportunità che l’Unione europea mette a disposizione per tanti: imprenditori e imprenditrici, enti locali, studenti, operatori della cultura, per citarne solo alcuni. Vi racconto alcune di queste storie, anche per dare qualche indicazione utile a loro e a chi in loro si riconosce. Lorenzo, liceale metropolitano «Per me l’Europa è un luogo geografico, niente più di questo.» Durante un incontro con alcuni liceali e universitari, in cui abbiamo parlato degli ideali europei, del confronto e dell’integrazione tra culture diverse ma con radici comuni, del grande progetto dell’Europa che ci ha portato sessant’anni di pace dopo due guerre orribili, queste parole di Lorenzo, studente al primo anno di liceo scientifico, mai stato all’estero, ci riportano bruscamente con i piedi per terra. Mi sono chiesta, allora, cos’è accaduto, tra la nascita di quel grande sogno e lo sguardo di questi ragazzi di quattordici, quindici, sedici anni che abitano la realtà oggi? Dove si è rotto qualcosa, dove non è stato fatto, proposto o anche solo raccontato abbastanza? Non si tratta di due dimensioni diverse, una vera e giusta e l’altra no: si tratta, piuttosto, di due sguardi differenti sullo stesso oggetto. La famiglia di Lorenzo non è abbiente, entrambi i genitori lavorano ma le risorse per crescere i tre figli non sono sufficienti a offrire loro esperienze formative più ricche e articolate che integrino l’istruzione pubblica. A maggior ragione se chiedete a un ragazzo di una qualsiasi provincia italiana che cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la sua risposta non sarà dissimile se non ha genitori in grado di offrirgli una vacanza all’estero, o di pagargli un corso estivo in Europa. Il percorso di conoscenza e assimilazione della cittadinanza europea è lasciato tutto alle famiglie, o ad altre agenzie educative/formative private. Questo genera, tra le altre conseguenze, un’asimmetria culturale che si trasforma ben presto in una disuguaglianza di opportunità sociali: crescere sapendo di far parte di una comunità più ampia di quella ristretta nei confini del proprio Stato significa, ad esempio, investire nella conoscenza delle lingue, oltre che acquisire la consapevolezza di poter svolgere un periodo del proprio percorso scolastico in un Paese europeo e, dopo, di avere un orizzonte più ampio all’interno del quale cercare lavoro. Cosa potremmo fare? Innanzitutto, riflettere sull’opportunità di inserire un corso di Storia e istituzioni dell’Unione europea all’interno di ogni ciclo scolastico: dalla scuola materna alla scuola superiore, articolato e costruito in maniera diversa a seconda dell’obiettivo e dell’età degli studenti. In secondo luogo, la conoscenza e l’integrazione, soprattutto a quell’età, si ottengono in maniera più efficace quando è possibile farne esperienze tangibili: perché non utilizzare, allora, programmi europei di scambio fin dalle elementari, che prevedano per alcuni giorni il soggiorno di una classe in un altro Paese europeo, per poi, ad esempio l’anno successivo, offrire ospitalità in quella stessa classe agli alunni di un Paese europeo ancora diverso (programma Comenius).1 Nella vita di tutti i giorni i bambini potrebbero fare esperienza diretta delle differenze e delle somiglianze tra mondi diversi e toccare – in maniera molto più immediata di quanto potrà mai permettere un libro di storia – che cosa significa nel concreto essere tutti abitanti di una stessa casa chiamata Europa. In realtà, qualche risorsa a disposizione delle scuole già c’è, anche se poco conosciuta e, dunque, poco utilizzata. Penso, ad esempio, al progetto promosso dal Europa=Noi,2 dipartimento Politiche europee, che offre a studenti e insegnanti la possibilità di scoprire storia, valori, istituzioni dell’Unione, ma anche di conoscere i programmi europei e, soprattutto, i diritti connessi alla cittadinanza europea. Ci sono, inoltre, diverse iniziative riguardanti l’Europa promosse dal Governo, che permettono ai più giovani di avvicinarsi in maniera creativa e divertente al mondo europeo: un esempio è stato il concorso “La mia Europa è”,3 organizzato dal MIUR in collaborazione con il dipartimento Politiche europee, che invitava gli studenti alla realizzazione del logo e dello slogan per identificare il semestre di presidenza italiana dell’UE. A volte, dunque, le opportunità esistono ma non le conosciamo: sotto questo profilo un maggior coordinamento tra scuole, Regioni e Governo produrrebbe sicuramente risultati significativi. Francesca, universitaria di una piccola città Lo scorso autunno, durante un seminario sull’Unione europea, ho avuto modo di ascoltare le opinioni di circa cinquanta studenti universitari sull’Europa, sulle loro aspettative così come sulle loro delusioni. Durante la nostra chiacchierata sono emerse considerazioni interessanti e racconti di esperienze avute in prima persona. Una di queste riguardava Francesca, una studentessa della provincia piemontese che ha trascorso sei mesi in Erasmus, all’Università di Sciences-Po a Parigi. Quando ha raccontato della sua permanenza in Francia, conclusasi da poco, ho sentito nella sua voce quella stessa emozione, quello stesso entusiasmo, che è facile trovare nei racconti dei ragazzi che hanno avuto l’opportunità di trascorrere un periodo all’estero. Scoprire il mondo è un’esperienza bellissima e formativa in qualunque momento della vita, ma il motivo per cui l’Erasmus porta con sé quell’aura di romanticismo e nostalgia contagiosi è che a vent’anni si assorbe la vita in maniera irripetibile, con una fiducia, una fame di emozioni e una leggerezza che difficilmente si riescono a conservare crescendo, quando si ha a che fare col mondo del lavoro e, in generale, con maggiori responsabilità. Così, quando Francesca condivideva il ricordo di una passeggiata solitaria alla scoperta di Parigi o della prima cena “sociale” con i suoi colleghi Erasmus provenienti da Paesi diversi, io stessa mi ci sono rivista e ho ricordato i momenti passati a Bruxelles, dove l’Europa riuscivi a toccarla, tanto era reale, immersa tra lo stage al Parlamento europeo e le serate con i colleghi, europeisti di ogni angolo dell’Unione. Tutto molto bello, dunque, ma poi? Poi, tornata alla sua università italiana, per Francesca è cominciata l’odissea: esami non riconosciuti, conteggio dei crediti che non torna, via vai tra le segreterie. Mesi all’estero che dovrebbero essere un valore aggiunto si trasformano, così, in una perdita di tempo sulla tabella di marcia verso la laurea. Oltre a Francesca, nel gruppo c’è anche chi lamenta problemi durante e persino prima del soggiorno all’estero: la maggior parte delle università italiane lascia i propri studenti al loro destino sia per quanto riguarda l’alloggio sia per quel che concerne il programma di studio, ad esempio la scelta degli esami da sostenere in Erasmus. L’Unione europea, allora, non dovrebbe limitarsi a offrire l’opportunità dell’Erasmus ma anche monitorare la sua corretta applicazione, incentivando un’omogeneizzazione tra le università dei vari Paesi per evitare problemi di riconoscimento di esami e crediti una volta tornati a casa e semplificando il trasferimento e la sistemazione, magari attraverso una sorta di “agenzia immobiliare europea” che aiuti gli studenti nella ricerca di alloggio. Un altro grande tema emerso è l’insufficienza delle borse di studio. Il fatto è che, soprattutto se si scelgono Paesi europei dove il costo della vita è più elevato, le borse risultano inadeguate e molto spesso coprono a malapena il costo dell’abitazione. Senza considerare un altro grande ostacolo, che a discussione iniziata, sciolto il ghiaccio, mi ha fatto notare un ragazzo appena tornato da Glasgow: «Non si potrebbe assegnare le borse di studio prima della partenza, o almeno durante il soggiorno? Io sono partito a gennaio 2013 e ho ricevuto la prima parte del finanziamento al mio rientro a giugno, e la seconda a ottobre. I miei genitori, con un po’ di sacrifici, sono riusciti ad anticipare tutto, ma con questo sistema, ancora una volta, solo chi ha disponibilità economiche può essere certo di partire!». Io ascolto e prendo appunti. Molti dei loro racconti mi colpiscono perché testimoniano come siano i tanti piccoli dettagli a livello di applicazione che rischiano di svuotare, di fatto, il grande potenziale democratico di programmi come Erasmus: dare a tutti la possibilità di andare all’estero, perfezionare la conoscenza delle lingue, apprendere quanto più possibile da un ambiente diverso per poi tornare a casa con un vantaggio competitivo in più, legato solo all’impegno e alla determinazione individuali e non al censo della propria famiglia. Che cos’è, se non questo, l’Europa? Un “garante” che dà forma concreta ai diritti statuiti nelle costituzioni degli Stati nazionali, eppure spesso disattesi nella loro applicazione pratica. Dobbiamo far sì che il ruolo dell’Unione europea non si limiti a prevedere l’esistenza di una risorsa, quale è Erasmus, ma si estenda al monitoraggio e alla verifica della sua attuazione nella maniera più corretta. Ed equa. Dario, in cerca del primo lavoro La storia di Dario potrebbe davvero appartenere a chiunque di noi. Dario è un giovane siciliano che ha appena terminato il suo corso di laurea in Scienze politiche e vorrebbe fare un’esperienza in Europa per crescere professionalmente e imparare concretamente a “fare”, visto che l’università italiana soffre, soprattutto in alcune facoltà, di un’asimmetria tra l’apprendimento della teoria e la capacità di utilizzo pratico. Ha fatto application per un tirocinio al Parlamento europeo, purtroppo senza fortuna, e non sapeva a chi rivolgersi per tentare strade alternative. Mediamente, ogni anno circa un terzo delle candidature totali ricevute dal Parlamento europeo per i tirocini retribuiti provengono dall’Italia. Non è un dato che sorprende: la borsa di studio per uno stage di 6 mesi ammonta a oltre 1200 euro lordi mensili, e le spese di viaggio (da e per Bruxelles e Strasburgo) sono riconosciute a parte. Cifre del genere nel nostro Paese molto spesso non vengono corrisposte neanche come vero e proprio salario, figuriamoci nel caso di stage o tirocini, il più delle volte non retribuiti affatto. I posti al Parlamento europeo, tuttavia, sono limitati: circa 400 totali. Quali altre opportunità offre l’Europa? Per quanto riguarda i tirocini, è possibile consultare la relativa sezione4 del sito dell’Unione, dove sono elencate tutte le istituzioni che prevedono stage, con le informazioni complete su come accedere alla selezione, quali requisiti sono richiesti, e molte altre informazioni. Per chi, invece, vuole sapere come candidarsi per una posizione lavorativa vera e propria, il sito da consultare si chiama EPSO,5 l’Ufficio del personale dell’Unione. Qui si trovano notizie sulle posizioni attualmente aperte, sui concorsi che si svolgeranno nel prossimo futuro e indicazioni sulla domanda da presentare. Non esistono, tuttavia, solo le istituzioni europee. Se l’obiettivo è fare un’esperienza di apprendistato all’estero, è possibile aggiornarsi sui bandi del Progetto Leonardo:6 qui si trovano moltissime opportunità di tirocinio professionale nei diversi Stati membri dell’Unione, suddivisi in base all’ambito lavorativo e al Paese di residenza. Un altro sito di riferimento dove cercare le posizioni aperte all’interno del proprio ambito professionale e inviare il proprio curriculum, è EURES7 (Servizi europei per l’impiego), utile anche per informarsi sulle condizioni di vita e di lavoro negli altri Paesi europei. È consigliabile, infine, dare uno sguardo anche alla sezione dedicata all’apprendimento permanente, dove è possibile trovare sempre qualche opportunità. Anna, mamma che vuole lavorare Quando prende la parola, durante un incontro con giovani madri lavoratrici, Anna per prima cosa mi dice: «Non avete mai pensato che il termine “conciliazione” presuppone un conflitto?». Il linguaggio non è mai neutro: è la voce di una società. L’uso delle parole racconta moltissimo delle dinamiche, delle credenze e abitudini, delle barriere interne a un ambiente sociale. Così, Anna ha ragione: l’uso della parola “conciliazione” rivela tante cose inerenti il ruolo della donna e la nostra idea diffusa su diritti e pari opportunità. Sul dizionario si legge: «accordo tra parti diverse e in contrasto». In contrasto: una mamma non può essere una lavoratrice, e viceversa. Essendo la conciliazione sempre declinata al femminile (raramente sentiamo parlare di esigenze di conciliazione per i colleghi uomini), ci rendiamo conto di quanto fragili e a rischio siano i risultati conquistati, negli ultimi decenni, nel percorso della parità di genere. Tutto bene, sembra, finché non si decide di diventare mamma o non ci si deve prendere cura, magari, dei genitori anziani. A quel punto si innalza una fortissima resistenza sociale, implicita e non. Non è certo una dicotomia recente, quella tra ambito di vita pubblico, predominio maschile, e spazio privato, racchiuso dentro le quattro mura della dimora, regno femminile. Il conflitto nasce qui. Le donne reclamano a gran voce il diritto di poter avere una famiglia senza dover rinunciare al lavoro (come, del resto, fanno gli uomini da diversi millenni…), ma il sistema in cui siamo immersi continua a mandare chiari messaggi ostativi: le riunioni alle otto di sera, una rigidità totale nell’organizzazione del lavoro, pochissima disponibilità nella concessione del part-time, assenza – o, almeno, totale insufficienza – di servizi alla famiglia, pubblici e privati. Senza contare gli infiniti dibattiti su come dovrebbe modellarsi il ruolo di madre, sulla sua presenza a casa e sul tempo da trascorrere con i figli. Dibattiti tanto appassionati che verrebbe da chiedersi come mai nessuno dei censori delle madri lavoratrici abbia mai detto una parola quando tanti uomini riescono a stare con i loro figli il sabato e la domenica, e durante la settimana solo dopo le nove di sera. Cosa può fare l’Europa per le giovani mamme che non hanno intenzione di abbandonare il loro lavoro? Qui la risposta è più complicata: chiaramente l’intervento dell’Unione non può avvenire in maniera diretta (tanto per fare un esempio, fornendo dei voucher baby sitter alle madri lavoratrici) ma deve necessariamente muoversi lungo due direzioni: la prima è quella del Fondo sociale europeo, attraverso il quale vengono finanziati progetti finalizzati all’aumento dell’occupazione femminile o a una più efficace conciliazione; la seconda, invece, è la strada – più lunga, e storicamente poco considerata, ma anche l’unica in grado di produrre effetti profondi e duraturi – dell’intervento sull’educazione e sulla formazione. Una strada che le donne hanno ben presente. Me lo dimostra l’intervento di Elena, una giovanissima ricercatrice universitaria in Scienze sociali: «È vero che servono le leggi sulle quote, le leggi sui congedi di paternità, le leggi sul part-time, ma è altrettanto importante che non si perda di vista il nodo centrale, la cultura individuale e collettiva. Ciò che imparano i nostri bambini, ora, è completamente lasciato alle singole famiglie, e a me sembra assurdo. Così come è giusto che a scuola si insegni a tutti la matematica, perché non solo il figlio di un professore sappia far di conto, allo stesso modo è assolutamente necessario inserire un programma di educazione di genere, ovviamente differenziato per gradi di istruzione, che educhi tutti i bambini e le bambine alla conoscenza e al rispetto gli uni delle altre». Elena ha ragione e anche se noi, in Italia, sembriamo faticare nella comprensione e nella messa in atto di queste indicazioni, a livello europeo si è già un bel pezzo avanti: l’EIGE (European Institute for Gender Equality) ha dato vita a un progetto sulla Formazione di genere,8 sulla base del quale è stata fatta una breve scheda sulle risorse,9 strumenti e metodi usati a supporto del mainstream di genere sia a livello internazionale sia dai singoli Stati membri dell’Unione (tutte le pubblicazioni relative a questo progetto e ad altri portati avanti dall’EIGE sono consultabili in rete).10 Oltre alla formazione, tuttavia, l’Unione europea contempla misure di genere anche nell’ambito del lavoro. Lo racconto ad Anna, architetto che dopo la sua prima gravidanza si è ritrovata elegantemente accompagnata alla porta del grande studio in cui lavorava. Per le donne è ancora difficilissimo rivendicare il diritto alla maternità senza dover temere per il proprio posto di lavoro. Tra i diritti sociali garantiti a tutti i cittadini europei nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è espressamente indicata la conciliazione tra vita familiare e vita professionale e, tuttavia, anche in Europa c’è ancora moltissimo da fare sotto questo profilo. Le tutele sono largamente insufficienti e, soprattutto sul piano della cultura condivisa, è necessario avviare un lavoro profondo e capillare. Il mio consiglio, però, è di cominciare a sfruttare al massimo quello che è già sul piatto, senza mai smettere di lottare per chiedere di più, per ottenere ciò che è giusto. Una buona idea, allora, è quella di informarsi, anche presso la Camera di Commercio di riferimento del proprio territorio, o le ramificazioni territoriali delle associazioni di categoria, sui finanziamenti dell’UE per l’imprenditoria femminile, che spesso sono significativi. In una sezione11 dedicata del sito della Commissione europea si possono passare in rassegna tutte le iniziative, le opportunità di consulenza e assistenza attivate in questo settore, mentre sul Portale è dell’imprenditoria femminile12 possibile entrare in contatto con tante associazioni, di categoria e non, che si occupano di promuovere e sostenere i progetti d’impresa al femminile, fornendo gli strumenti e le informazioni disponibili per potersi muovere nel mondo dei finanziamenti europei e delle procedure da affrontare per presentare domanda di accesso. Giovanni, imprenditore alle prime armi Un po’ perché vengo da una realtà territoriale all’avanguardia nell’ambito della produzione tecnologica in Italia, un po’ per curiosità, sono sempre stata affascinata dal mondo dell’innovazione in ogni sua declinazione: innovazione tecnologica, imprenditoriale, dei processi produttivi. Quando abbiamo organizzato un incontro con innovatori e imprenditori, dunque, ero molto curiosa di ascoltarli, e le opinioni emerse sono state molto interessanti. Nel corso di un focus group abbiamo chiesto loro di raccontarci le associazioni verbali collegate ai due concetti di “Europa” e “innovazione”. Nel primo caso, è emersa in maniera molto forte l’idea dell’opportunità: opportunità di finanziamenti, di nuovi mercati, di una vision economica differente da quella diffusa nel nostro Paese, di condivisione di capitali e di idee al di fuori dei confini nazionali. Ma è stata citata di frequente anche l’immagine di una scarsa accessibilità dell’Europa, con la sua burocrazia elefantiaca e la complessità dei suoi vincoli, che trasmette un’idea di spreco e inefficienza accomunando – nella visione del gruppo – l’Europa alla politica italiana. In sostanza, dunque, è apparsa chiara la percezione di distanza e “scollamento” tra le potenzialità dell’Unione europea e la sua effettiva azione concreta. Per quanto riguarda l’innovazione, nonostante il concetto sia di norma strettamente collegato alla tecnologia, il termine è stato inteso in senso molto ampio, inclusivo di quelle attività tecnologiche, culturali, organizzative, sociali, finanziarie, comunicative che sfociano nell’introduzione sul mercato di un prodotto o di un servizio nuovo e migliore, finendo per coincidere con l’idea di impresa. «Per me» racconta Giovanni, trent’anni compiuti da poco e imprenditore di una piccola ditta artigianale di mobili in Brianza, «innovare significa fare in un modo diverso e più “evoluto” cose già esistenti. È strettamente connesso alla ricerca, al cambiamento volto a semplificare e a rendere, ad esempio, più comodi gli oggetti, più fruibili gli spazi, più agevoli le relazioni.» Innovazione come progresso, dunque, a sua volta inteso come miglioramento della vita delle persone. Un’altra associazione emersa da più parti è quella tra innovazione e necessità: l’idea che a questo punto o l’Italia, e l’Europa in una prospettiva più vasta, innovano profondamente, o si muore. Che l’innovazione sia il motore della crescita, del resto, è una convinzione ormai condivisa da tutti, non solo nei Paesi avanzati: non c’è sviluppo senza innovazione e non c’è innovazione senza ricerca scientifica. Consolidare la leadership europea a livello della ricerca e dell’innovazione nel prossimo decennio è, dunque, r i t e n u t a una strada obbligata e imprescindibile al fine di posizionare nella corsa della competitività globale l’industria europea, in particolare le piccole e medie imprese, che hanno un ruolo primario per la creazione della crescita economica e dell’occupazione. Le richieste che questo piccolo gruppo di imprenditori e innovatori farebbe all’Unione europea, dunque, sono diverse e spaziano dall’esigenza, molto diffusa, di semplificazione e “sburocratizzazione” fino all’armonizzazione sia normativa che formativa, dal sostegno (non solo economico ma anche di consulenza nel processo di avvio) alle start up al ruolo della scuola e dell’educazione, in modo particolare in tema di formazione all’imprenditorialità e di maggiore integrazione tra il mondo scolastico e quello professionale. Una delle mancanze maggiormente lamentate è il gap informativo tra le azioni delle istituzioni e le conoscenze dei cittadini: in sostanza, sembra che molte opportunità per le imprese innovative siano in realtà già previste e messe a disposizione dall’Unione europea, ma che la loro comunicazione sia talmente inefficace da renderle inaccessibili ai potenziali beneficiari. Pochi sanno infatti che c’è un’intera area web della Commissione europea, il Portale europeo per le Piccole e medie imprese,13 dove è possibile non solo scoprire come ottenere finanziamenti14 per la propria PMI ma anche scoprire informazioni – nella sezione dedicata all’educazione all’imprenditorialità15 – sulle opportunità di formazione per i giovani imprenditori. Ad esempio il programma Erasmus per giovani imprenditori,16 che aiuta gli aspiranti imprenditori europei ad acquisire le competenze necessarie per avviare e/o gestire con successo una piccola impresa in Europa, scambiando conoscenze e idee di business con imprenditori già affermati, dai quali poter essere ospitati, e con i quali collaborare per un periodo da 1 a 6 mesi. Nell’area dedicata alle Politiche e ai programmi dell’Unione europea a sostegno degli imprenditori e dei lavoratori autonomi,17 inoltre, viene illustrata in maniera complessiva la visione dell’UE relativamente all’imprenditorialità, basata sulla strategia Europa 2020 e articolata attraverso diversi strumenti, tra i quali i finanziamenti del Fondo sociale europeo,18 lo strumento europeo di microfinanza Progress19 e il Fondo europeo di sviluppo regionale.20 Per farsi un’idea di cosa è possibile realizzare grazie all’aiuto del Fondo sociale europeo è presente, inoltre, una mappa,21 dove sono inseriti una serie di esempi di progetti già messi in atto e cofinanziati dal Fondo, divisi per argomenti e settori d’impresa. Gaia, ricercatrice ostinata Gaia è la conoscente di una mia collaboratrice, la quale ci ha messe in contatto spinta dal desiderio di aiutare l’amica in un momento complicato. Ventotto anni, secondo anno di dottorato in Sociologia, arrivato dopo oltre un anno di tentativi poco fortunati, tanta voglia di fare, moltissime idee e altrettanta paura di cosa l’aspetterà nel prossimo futuro. Gaia ha bisogno di un consiglio e mi dice di aver pensato a me un po’ perché sa che anch’io, per un certo periodo, ho seguito la strada della ricerca, un po’ perché l’amica le ha raccontato delle mie esperienze di studio e di lavoro in diversi Paesi europei. La sua attenzione è tutta rivolta là, oltre i confini del nostro Paese. «Ho scelto questa strada di pancia, per passione pura. In tanti vedono la ricerca come una sorta di “piano B”, io ho sempre voluto fare questo. Mi affascina ed entusiasma l’opportunità di comprendere e interpretare la nostra società, le dinamiche che la muovono, le ragioni di tanti fenomeni. Il fatto è che persino la ricerca nell’ambito delle cosiddette hard sciences, come la fisica o la medicina, soffre nel nostro Paese di uno scarso riconoscimento, che si traduce in una perenne insufficienza di fondi. Figuriamoci le scienze cosiddette soft, come la sociologia, appunto.» Mi racconta che quando ha comunicato ai genitori di voler perseguire questa scelta, loro l’hanno appoggiata e sostenuta, anche economicamente. Poi, per fortuna, è riuscita a vincere il concorso per entrare in una scuola di dottorato e il punteggio conseguito le ha permesso di ottenere una borsa di studio che, pur non permettendole di essere autonoma, perlomeno le consente di non pesare completamente sulle spalle dei suoi. L’ansia che l’accompagna durante tutte le giornate, e che purtroppo condivide con la maggior parte dei suoi coetanei, è il pensiero di cosa ne sarà di lei dopo quei tre anni, quando avrà in mano un titolo prestigioso ma difficilmente potrà vivere del suo lavoro. Che le cose debbano cambiare, anche su questo versante, nel nostro Paese, è fuor di dubbio. Viviamo nell’era della conoscenza. In Italia pochi se ne sono accorti, ma ormai i due terzi della ricchezza prodotta nel mondo è ad alto contenuto di conoscenza aggiunto. Per oltre tre secoli l’Europa ha avuto il monopolio pressoché assoluto nella produzione di nuova conoscenza scientifica e di innovazione tecnologica ad essa legata. Per oltre settant’anni ha diviso la partnership mondiale con gli Stati Uniti. Ora fatica a tenere il passo non solo con i Paesi di più antica industrializzazione come USA e Giappone, ma anche e soprattutto con i Paesi emergenti. L’Europa laurea meno giovani di altre aree del mondo e investe in ricerca meno di altre grandi aree geografiche. Non a caso gli unici Paesi europei che sono fuori dalla crisi e riescono a competere nel mondo della globalizzazione – Germania, Svizzera, Paesi scandinavi – sono quelli che investono nell’alta formazione, nell’industria e nei servizi creativi, nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico. Nel 2013 due europarlamentari italiani, Amalia Sartori e Luigi Berlinguer, hanno lanciato il manifesto programmatico «Una Maastricht per la ricerca» che pone l’obiettivo dell’innovazione come priorità assoluta per creare nuovi posti di lavoro, con il superamento della frammentazione delle politiche degli Stati, che porta ad avere 28 diverse e spesso divergenti politiche sulla ricerca.La necessità che l’Europa riscopra il suo rapporto privilegiato con la scienza e con l’innovazione è una questione sia culturale sia politica. È anche quello che ci siamo detti all’incontro con i giovani imprenditori e startupper: in Italia o si innova o si muore. Altro che “fuga dei cervelli”, dunque: non solo dobbiamo lavorare per essere in grado di tenere e valorizzare talenti come Gaia ma dobbiamo creare un ambiente talmente semplice, agile, facile e ospitale da attrarre le eccellenze di tutto il mondo. Fatto salvo questo punto fermo, per il quale lavoro da quasi dieci anni e da cui non intendo arretrare, io quel pomeriggio, davanti a Gaia, dovevo dare una risposta concreta alla sua richiesta di un consiglio. Le suggerisco di guardarsi intorno e di leggere tutto ciò che sull’argomento del suo progetto di ricerca avevano già prodotto i centri di ricerca d’Europa. «Trova i contatti, scrivi loro delle email, chiedi di poter parlare con i direttori degli studi che ti interessano, fai un periodo di ricerca all’estero.» È una cosa in cui credo fortemente: la contaminazione, la conoscenza di altri metodi di lavoro, il confronto con altri approcci sono sempre una ricchezza immensa, soprattutto per un ricercatore. L’Unione europea è una realtà che dovrebbe significare esattamente questo: la possibilità di aprire la mente al di là delle nostre esperienze quotidiane, dell’organizzazione e del sistema in cui siamo nati e vissuti. E dopo? Dopo le strade sono molteplici. Una possibilità è EURAXESS,22 un portale pensato specificatamente per i ricercatori europei che cercano lavoro fuori dal Paese di residenza, dove si forniscono, oltre a luoghi di connessione domandaofferta di lavoro, informazioni utili anche per il trasferimento in un altro Paese europeo. Fermo restando, dunque, che considero la possibilità di viaggiare e di confrontarsi con altri mondi un vantaggio personale ancor prima che professionale, oggi a Gaia e a tutti i (tanti) giovani ricercatori come lei consiglierei di fare un giro sul sito di Horizon 2020.23 Solo il 5% degli investimenti in ricerca nell’Unione europea è gestito a livello centrale, dalla Commissione di Bruxelles. Il 95% è gestito dagli Stati. Fino al 2013 a disciplinare la politica europea in merito a ricerca e innovazione erano il VII Programma quadro, il Programma quadro per la competitività e l’innovazione (CIP) e l’Istituto europeo per l’innovazione e la tecnologia (EIT). Dal 1° gennaio 2014 c’è un solo programma, dal nome per certo più evocativo: Horizon 2020, appunto. Quando ho incontrato Gaia, nell’autunno del 2013, ancora Horizon 2020 non esisteva in senso tecnico ma, ovviamente, era già molto conosciuto nell’ambiente di chi si occupa di Europa. La sua portata, in effetti, è straordinaria: 80 miliardi di finanziamenti nell’ambito della ricerca da destinare a progetti meritevoli nel corso di sette anni. Mai un simile progetto europeo era stato tanto ambizioso. Sul sito è possibile consultare la procedura24 con la quale fare richiesta di finanziamento, o esaminare l’elenco delle aree considerate,25 per trovare i bandi promossi all’interno del proprio settore di interesse. Molto spesso i centri di ricerca – soprattutto all’interno delle università meno grandi – non si attivano per monitorare i bandi europei: è opportuno, dunque, che chi è interessato si documenti in prima persona sulle tante e importanti possibilità che Horizon 2020 offre, per ottenere finanziamenti destinabili al proprio centro di ricerca o alla propria università, e per poter trasformare una passione in lavoro, senza necessariamente doversi trasferire in un altro Paese europeo. Guido, un regista e tante idee Qualche mese fa, durante un convegno proprio sul tema dei finanziamenti europei, ho conosciuto Guido, 28 anni, di professione regista, con una formazione al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e, mi è parso molto talentuoso. Sono stata colpita subito dal suo entusiasmo e dalla sua determinazione, e alla fine dell’incontro mi sono fermata a parlare con lui che, prima di andare via, mi ha regalato un dvd con un paio di suoi corti. Anche se il mio giudizio non è quello di un esperto, da normale spettatrice posso dire che mi sono piaciuti davvero molto. Cosa può fare l’Europa per i ragazzi come Guido, dotati di tante idee ma senza nessuno a cui rivolgersi per poterle mettere in pratica? Una prima risposta ha il nome di Europa creativa: il programma di bilancio 2014-2020 a favore dei settori culturali e creativi. Evidentemente, a differenza di qualche esponente politico italiano, per la Commissione europea con la cultura si mangia, infatti ha presentato una strategia finalizzata a esprimere pienamente il potenziale dei settori della cultura e delle professioni creative dell’UE per stimolare occupazione e crescita. La strategia, delineata in un documento intitolato «Promuovere la cultura e le professioni creative per la crescita e l’occupazione nell’UE», prevede una serie di iniziative politiche e di modernizzazione del quadro normativo. Nei prossimi sette anni il programma offrirà finanziamenti per progetti transnazionali, grazie ai quali 250.000 artisti e professionisti della cultura potranno raggiungere nuovi pubblici all’estero. Il programma investirà inoltre fortemente nell’industria cinematografica europea, sostenendo 2000 sale cinematografiche e centinaia di film. A Europa creativa, che disporrà di un bilancio complessivo di 1 miliardo e 46 milioni di euro, non potranno rivolgersi i singoli professionisti ma sarà necessario avere l’intermediazione di un’organizzazione culturale nazionale (sia essa un teatro, un festival, una casa di distribuzione cinematografica o altro), oppure rivolgersi al desk Europa creativa delle diverse nazioni, Italia compresa.26 Una pecca rilevante del programma è quella di non prevedere, tra le possibili finalità idonee alla richiesta dei fondi, la conservazione e il recupero di beni culturali e artistici che – come appare evidente – per il nostro Paese sarebbe, invece, una grande opportunità, data la vastità di produzione artistica che ha arricchito l’Italia nel corso dei millenni, ma la cui manutenzione e valorizzazione hanno spesso costi faticosamente sostenibili. Nella guida del programma27 è possibile consultare tutte le aree finanziate con le rispettive scadenze per la presentazione dei progetti. Cliccando sulle singole voci si verrà reindirizzati a una pagina che contiene tutte le spiegazioni e le procedure su come fare domanda e quali requisiti è necessario soddisfare. Guido, e come lui i tanti professionisti della cultura, hanno la possibilità, attivandosi, di prendere contatto con i referenti nazionali di Europa creativa, per cercare un partner a cui proporre il proprio progetto e, attraverso questo, presentare domanda per i finanziamenti. È vero: spesso l’Europa è oscura e lontana ma a volte, invece, le opportunità non mancano, e i possibili benefici sono reali e concretissimi. Basta un po’ di curiosità, tanta determinazione e, ovviamente, l’idea giusta. 1. http://eacea.ec.europa.eu/llp/comenius/comenius 2. http://www.politicheeuropee.it/attivita/17123/eu noi 3. http://www.governo.it/Presidenza/Comunicati/de d=74329 4. http://europa.eu/about-eu/working-euinstitutions/traineeships/index_it.htm 5. http://europa.eu/epso/index_it.htm 6. http://www.programmaleonardo.net/llp/home.asp 7. http://www.yourfirsteuresjob.eu/it/areacandidati 8. http://eige.europa.eu/sites/default/files/documen 9. http://eige.europa.eu/sites/default/files/documen 10. http://bookshop.europa.eu/it/print/istitutoeuropeo-per-l-uguaglianza-digenere/;pgid=y8dIS7GUWMdSR0EAlMEUUsW RWk=? CatalogCategoryID=6e2ep2IxbqUAAAEnyIRL_Y 11. http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/prom en-trepreneurship/women/index_it.htm 12. http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/prom entrepreneurship/women/portal/index_en.htm 13. http://ec.europa.eu/smallbusiness/index_it.htm 14. http://ec.europa.eu/smallbusiness/faq/index_it.htm#theme-2 15. http://ec.europa.eu/smallbusiness/tags/educating-forentrepreneurship/index_it.htm 16. http://www.erasmusentrepreneurs.eu/index.php?lan=it 17. http://ec.europa.eu/social/main.jsp? catId=952 18. http://ec.europa.eu/esf/home.jsp?langId=it 19. http://ec.europa.eu/social/main.jsp? catId=836 20. http://ec.europa.eu/regional_policy/thefunds/reg 21. http://ec.europa.eu/esf/main.jsp?catId=46 22. http://ec.europa.eu/euraxess/ 23. http://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en horizon-2020 24. http://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en get-funding 25. http://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en your-area 26. http://ec.europa.eu/culture/creativeeurope/creative-europe-desks_en.htm 27. http://ec.europa.eu/culture/creativeeurope/calls/index_en.htm Capitolo 2 Una giornata di vantaggi ignoti Sono in molti ad accusare l’Unione di essere una gabbia rigida di regole e norme spesso eccessive, che soffocano il mercato e i cittadini. Sicuramente è vero, lo abbiamo detto, ma affiancare a 28 sistemi nazionali diversi un sistema unico per semplificare le cose è un processo complicato. Ed è tanto più complicato in un Paese come l’Italia dove il mancato rispetto delle regole si accompagna alla produzione di tante di quelle norme che è come se non ce ne fosse una, perché in una selva caotica nessuno si sa più orientare. Per questo la Commissione europea ha sposato l’idea britannico-tedesca di accompagnare alla nascita di ogni nuova normativa l’abolizione di una vecchia. In realtà burocrazia e regolamentazione sono molto diverse e la necessità di semplificare non deve essere una scusa per abolire le regole. I regolamenti sulla salute e sulla sicurezza, per esempio, possono effettivamente essere onerosi per gli imprenditori, ma sono anche un modo per scongiurare incidenti evitabili e rischi legati al lavoro. Semplificare significa innanzitutto ammodernare la Pubblica amministrazione, creare procedure semplici e sicure per ovviare alle complessità burocratiche, ottimizzare processi, risorse, pratiche che oggi si perdono nei meandri della burocrazia. Se la burocrazia è troppa, le regole possono servire per semplificare la vita dei cittadini. Questo in Europa accade già: tutti i giorni, usufruendo di un certo servizio o beneficiando di un determinato prodotto, noi utilizziamo una semplificazione o un’agevolazione rese possibile dall’intervento dell’Unione europea. Si tratta di vantaggi ignorati e invisibili in quanto scontati, considerati quasi produzioni naturali dello sviluppo del mercato, e nei quali tuttavia l’Europa ha svolto un ruolo fondamentale. Abbiamo provato a immaginare, nella giornata di un qualunque cittadino europeo, alcuni momenti e occasioni in cui direttive e norme che provengono dall’Europa ci consentono di viaggiare, comunicare, curarci, spostarci, consumare, andare in vacanza, tutelare la salute. In modo normale, come in una giornata normale. UNA GIORNATA EUROPEA ore 7.00 Giovanna, operatrice finanziaria, si sveglia nella sua casa di Bergamo. Mentre si prepara la colazione con caffè, corn flakes e spremuta d’arancia, accende pc e smartphone per collegarsi con le borse del mondo. Deve uscire presto di casa per prendere il treno che la porta a Milano, dove lavora. G Gli italiani hanno approfittato 63 milioni di volte negli ultimi dieci anni della cosiddetta portabilità del numero telefonico del cellulare, ossia la possibilità di cambiare operatore mantenendo il proprio numero di telefono. Ogni anno sono circa 10 milioni i numeri di telefono cellulare italiani che sono passati da un operatore all’altro. La portabilità è stata introdotta in Europa con la direttiva Servizio universale in materia di telecomunicazioni. Dopo il successo ottenuto con la telefonia mobile, il diritto alla portabilità è stato esteso anche a quella fissa. O Si chiamano MVNO e oltre 5 milioni di italiani li usano tutti i giorni per telefonare e navigare con gli smartphone. Grazie alla normativa Ue 2002/19 la liberalizzazione del mercato viene rafforzata ulteriormente con l’introduzione del Mobile Virtual Network Operator ovvero gli operatori virtuali di telefonia. Questi sono i servizi offerti ad esempio da Coop Voce, Erg Mobile, Fastweb Mobile e Poste Mobile. In Italia coprono il 5,4% del mercato, mentre in Spagna superano già il 12%. D Rivoluzione nel settore delle telecomunicazioni europeo per abbattere i costi extra del roaming internazionale. Già nel 2007 è stata stabilita l’Eurotariffa, ovvero il costo massimo al minuto delle chiamate in roaming intracomunitario che gli operatori erano obbligati a offrire agli utenti. Da luglio 2012 l’Eurotariffa è stata aggiornata e prevede un calo progressivo anno dopo anno, consentendo ai clienti del vecchio continente di chiamare, inviare messaggi e connettersi a internet in mobilità, risparmiando sensibilmente. Da luglio 2014 gli operatori dovranno rimodulare i costi in base agli standard europei. RASFF, L’ANTI-VIRUS UE CHE PROTEGGE IL CIBO IN TAVOLA Sicurezza alimentare tutelata grazie all’UE e al RASFF, questo non è altro che un efficace strumento informatico che semplifica il flusso transfrontaliero di informazioni tra le autorità nazionali preposte alla sicurezza alimentare. Grazie al RASFF (Europe’s Rapid Alert System for Food and Feed), attivo 24 ore su 24, le autorità competenti in tutta l’Unione europea sono in grado di scambiare in tempo reale informazioni, rintracciare rapidamente prodotti a rischio e ritirarli dal mercato. Nel 2012 quasi il 50% delle notifiche ha riguardato il respingimento alle frontiere della UE di alimenti e mangimi che presentavano rischi per la sicurezza alimentare. Sempre nel 2012 gli allarmi hanno raggiunto un totale di 8797, in diminuzione del 3,9% rispetto al 2011. Si tratta di un vero e proprio “antivirus”, in costante aggiornamento, che protegge la nostra salute e disincentiva l’immissione nel mercato di prodotti irregolari che finirebbero sulle nostre tavole. T Il treno ritarda? Il rimborso è d’obbligo. L’Europa tutela i viaggiatori grazie all’applicazione del Regolamento (CE) relativo proprio ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario. È stato deciso che un eventuale ritardo compreso tra i 60 e 119 minuti verrà risarcito con un corrispettivo pari almeno al 25% del costo del biglietto. L’indennizzo sale al 50% se vengono superati i 120 minuti di ritardo. Il rimborso dovrà essere erogato in denaro se la cifra è superiore a una certa soglia, ed entro un mese dalla presentazione della domanda. Il consumatore può inoltre scegliere se proseguire o rinunciare al viaggio se l’arrivo prevede almeno un’ora di ritardo, senza perdere alcun diritto al relativo rimborso. Dunque è possibile chiedere un rimborso integrale del biglietto per la parte del viaggio non effettuata e anche per le parti già effettuate quando il viaggio non risulti più utile ai fini del programma originario del passeggero. Questo regolamento impone inoltre alle imprese ferroviarie e alle stazioni di garantire la sicurezza personale dei viaggiatori sia sui treni che nelle stazioni oltre alle norme minime di qualità del servizio. ore 11.00 Lorenzo, pubblicitario, deve lasciare la sua casa a Genova per un improvviso viaggio di lavoro in Francia. Dopo qualche giorno nell’agenzia di Parigi dovrà raggiungere la Guadalupa per supervisionare la registrazione di uno spot. Contrariamente al solito, non è contento di partire. Ha una gamba ingessata e in viaggio dovrà cavarsela da solo. P Problemi di overbooking? Il bagaglio è stato danneggiato? Il Regolamento dell’Unione Europea n. 261/2004 entrato in vigore nel 2005 tutela e garantisce i diritti dei cittadini europei in ogni fase del viaggio. Ad esempio quando si compra un biglietto non è possibile vedersi applicare una tariffa più elevata in base alla nazionalità o al luogo di acquisto. È possibile far valere i propri diritti in qualsiasi aeroporto UE e con le compagnie di un Paese dell’Unione, e anche con quelle islandesi, norvegesi e svizzere. Nel caso in cui sia negato l’imbarco per via di cancellazioni e overbooking si ha diritto a essere trasportati alla destinazione finale, al rimborso del biglietto o a una compensazione. Il diritto al rimborso è garantito anche se il bagaglio è stato smarrito, danneggiato o consegnato in ritardo. Non è previsto se il volo viene cancellato causa maltempo, sciopero, motivi di sicurezza. Resta però l’obbligo di assistenza del passeggero. V La possibilità di fare un viaggio in aereo non è negata a nessuno. I passeggeri a mobilità ridotta hanno diritto a poter viaggiare in aereo come chiunque altro. Lo dice l’Unione europea che ha redatto il Regolamento (CE) n. 1107/2006: anche le persone con una mobilità ridotta dovuta a disabilità, all’età o a un altro fattore devono avere le stesse possibilità degli altri cittadini. Possono avvalersi dell’assistenza gratuita nella fase di imbarco e sbarco, durante il volo e all’interno dell’aeroporto prima e dopo il volo. In alcuni casi si può richiedere la presenza di un accompagnatore. L’imbarco può essere negato solo per motivi di comprovata sicurezza o per dimensioni insufficienti dell’aeromobile. TEAM, EUROPEA LA TESSERA SANITARIA Si chiama TEAM, dal 2004 garantisce l’assistenza sanitaria dei cittadini europei in viaggio in uno degli Stati dell’Unione e si trova sul retro della Tessera sanitaria nazionale. La Tessera europea di assicurazione e malattia, utilizzabile in 32 Paesi, ovvero i 28 dell’Unione europea e i 4 dell’EFTA, consente ai cittadini europei di poter ricevere assistenza sanitaria presso ospedali o studi convenzionati con il sistema sanitario pubblico, presente negli Stati dell’Unione europea ma anche in Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. Il tutto, semplicemente esibendola. La sua utilità è stata riconosciuta al punto di creare una app per smartphone disponibile nelle varie lingue dei Paesi UE. UE: Cieli più protetti in Europa grazie all’elenco delle compagnie aeree soggette al divieto di volo nello spazio comunitario. Prima dell’arrivo della lista nera europea, un vettore soggetto al divieto di volare in un Paese comunitario era libero di volare in un altro. Dal marzo 2006 la situazione è diversa. Sulla base del regolamento (CE) n. 2111/2005, la Commissione europea ha delegato il Comitato per la sicurezza aerea, composto dagli esperti degli Stati membri, a stilare l’elenco degli operatori che non rispettavano gli standard di sicurezza. Per questi vettori sussiste un divieto operativo assoluto al volo nei cieli europei. Grazie a questa iniziativa della Commissione, i cittadini europei possono inoltre consultare online un registro costantemente aggiornato delle compagnie a rischio. V Se si viaggia, o si soggiorna, in uno Stato in cui non è presente l’ambasciata né il consolato del Paese di appartenenza, l’Europa ti viene in soccorso. È infatti possibile ricevere tutela consolare da parte di ambasciate o consolati di qualsiasi altro Stato membro dell’UE. Sono diverse le situazioni in cui si può avere bisogno di un aiuto di questo tipo, dalle situazioni di crisi fino allo smarrimento o furto dei titoli di viaggio. In questo caso specifico, previa autorizzazione dello Stato in questione, viene rilasciato un documento di viaggio provvisorio (DVP), di sola andata verso il Paese di origine, verso quello in cui si vive o, in casi eccezionali, verso un’altra destinazione, come stabilito dalla Decisione 96/409/PESC. Il Paese dell’UE che rilascia il DVP riscuoterà dal richiedente gli oneri e le tasse che sarebbero normalmente dovute per il rilascio di un passaporto per motivi d’urgenza, ma sono previsti dei fondi base messi a disposizione dal Paese membro di appartenenza. Per consentire di fare ritorno nel luogo di provenienza, il DVP copre il tempo minimo necessario per effettuare il viaggio di rientro. ore 15.00 Luigi, autista di autobus per conto di un tour operator, in teoria vive a Ivrea ma è sempre in giro per l’Europa e non riuscirebbe a fare un’altra vita. Gli manca il cibo di casa, visto che mangia sempre nei ristoranti lungo le tappe del viaggio di turno. Dopo un turno di riposo di due giorni sta di nuovo partendo. L’UE Garantire la sicurezza sulle strade vuol dire anche organizzare l’orario di lavoro degli autotrasportatori. La direttiva 2002/15/CE, entrata in vigore in Italia il 1° gennaio 2008, si rivolge proprio a questa categoria con una mirata organizzazione degli orari di lavoro. La durata della settimana lavorativa è di 48 ore, sommando le ore di guida effettiva e le altre operazioni di autotrasporto (carico, scarico, supervisione, salita e discesa passeggeri, pulizia, manutenzione tecnica del veicolo). È possibile estendere fino a 60 ore la durata della settimana, se nell’arco dei quattro mesi la media rimane comunque inferiore alle 48 ore. Con il regolamento CE n. 561/2006, è stato poi fissato a 56 ore il limite massimo della guida settimanale e a 90 ore per quello bisettimanale. Il regolamento, fondamentalmente, impone dei riposi obbligatori e un numero massimo di ore alla guida per garantire la sicurezza e l’incolumità sia degli autotrasportatori, sia degli altri utenti della strada. S Filiera certa di provenienza di tutte le carni. Dal 13 dicembre 2014, con le novità introdotte dal Regolamento 1169/2011, i consumatori avranno un’informazione completa dei prodotti alimentari e potranno scegliere in modo consapevole cosa portare sulle loro tavole. Il testo consolida e aggiorna l’etichettatura generica di prodotti alimentari e quella nutrizionale migliorando sensibilmente la tracciabilità della merce. Al pari di quanto già avviene per la carne bovina, sarà obbligatorio indicare in etichetta il Paese d’origine o il luogo di provenienza anche delle carni ovine, suine e caprine. Tale indicazione diventerà obbligatoria anche per le carni utilizzate come ingrediente. Lo stesso criterio, dal 1° gennaio 2014, vale anche per le carni macinate. Il regolamento prevede una maggiore trasparenza di qualsiasi ingrediente o coadiuvante che provochi allergie: ora dovrà figurare nell’elenco degli ingredienti con un riferimento chiaro alla denominazione della sostanza in questione. Inoltre questo dovrà essere evidenziato attraverso un tipo di carattere chiaramente distinto dagli altri, per esempio per dimensioni, stile o colore di fondo. ore 17.00 Angelo, studente universitario di Bergamo, sta preparando i bagagli per la sua nuova avventura: un periodo di 10 mesi all’Università belga di Gand. Ha deciso di andare in auto con un amico, dividendo le spese. Anche perché prima di iniziare i corsi intende prendersi un periodo di vacanza in Costa Azzurra. E Erasmus+, istituito dal Regolamento n. 1288/2013/UE, avrà un budget di circa 16 miliardi di euro e sosterrà per 7 anni, dal 2014 al 2020, le attività di mobilità in Europa e cooperazione per oltre 4 milioni di persone. L’accordo sul nuovo programma europeo a supporto di istruzione e formazione riunisce attività precedentemente oggetto di una serie di programmi separati con l’introduzione dello sport. Saranno finanziate opportunità di studio, formazione, insegnamento e volontariato internazionali. Il programma è destinato a studenti universitari e delle scuole professionali, ma anche formatori, insegnanti, tirocinanti e giovani lavoratori. Secondo le prime proiezioni, il numero di persone che riceverà una borsa di studio dall’UE sarà quasi il doppio rispetto al passato, moltiplicando così le opportunità di formazione e di lavoro per i giovani europei. R Per la tua macchina scegli l’officina che preferisci e mantieni la garanzia. L’intenzione del regolamento è quella di “aprire il mercato”, aumentando il numero delle strutture autorizzate a intervenire sulle autovetture ancora in garanzia. Il proprietario della macchina ha una maggiore possibilità di scelta tra le varie officine e, quindi, di risparmio. Non c’è più l’obbligo di rivolgersi ai concessionari ufficiali della casa costruttrice del veicolo, sia per i periodici tagliandi sia per le riparazioni ancora in garanzia. Ora tutti i tagliandi di verifica previsti dal libretto di manutenzione e le riparazioni ordinarie possono essere eseguiti anche presso autoriparatori indipendenti. Infine il regolamento insiste sulla necessità di rendere accessibili, ai riparatori indipendenti, sia i pezzi di ricambio originali delle autovetture, sia i dati tecnici delle stesse. In questo modo viene garantito a tutti la possibilità di avere il servizio migliore per la propria macchina. S Migliora la balneabilità delle acque in Europa. Secondo il rapporto annuale dell’Agenzia europea dell’ambiente, il 94% delle zone di balneazione nell’Unione europea soddisfa i requisiti minimi di qualità dell’acqua, con un aumento del 2% rispetto al rapporto del 2012, con l’eccellenza raggiunta nel 78% delle zone. L’Italia è in regola e con valori eccellenti: è sopra la media UE l’85% delle nostre acque. Questi i risultati dopo la Direttiva sulle acque di balneazione (2006/7/CE) che ha avuto l’obiettivo di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente e di proteggere la salute. Il metodo usato è stato quello di monitoraggio, classificazione e gestione della qualità delle acque di balneazione garantendo al contempo una tempestiva informazione al pubblico. ore 19.00 Laura, infermiera in un ospedale di Torino, torna a casa dopo il turno di lavoro. Vive in un moderno quartiere popolare in periferia con una madre anziana, il marito impiegato e due figli adolescenti. I conti non tornano mai e risparmiare è una scienza. L’E Nuove lampadine: lei si accende e tu risparmi. Dal settembre 2012 le vecchie lampadine a incandescenza, quelle da 25 a 45 watt (W), sono state tolte dal mercato grazie all’applicazione del Regolamento (CE) n. 244/2009. L’Europa ha favorito il passaggio alle lampade a risparmio energetico: in questo modo si può ridurre il consumo totale di elettricità di una casa del 1015%. È stato calcolato un risparmio complessivo per l’Europa di 40 miliardi di kilowatt/ora all’anno, pari, ad esempio, al consumo annuo di un Paese come la Romania. Ogni singola lampadina a basso consumo da 23W, in un periodo di 6 anni, farà risparmiare 100 euro circa rispetto a quelle a incandescenza tradizionali da 80W. Il vantaggio è doppio se si pensa che il loro ciclo di vita è di almeno 6-10 anni rispetto agli 1-2 anni di quelle tradizionali. C Bollette più leggere e ambiente tutelato con le nuove regole per l’edilizia in Europa. Infatti, la mancata efficienza dei nostri edifici ci costa il 40% del consumo totale di energia nell’Unione europea. Questa è una delle priorità nell’ambito degli obiettivi dell’efficienza energetica fissati per il 2020. Viene così definita una metodologia di calcolo della prestazione energetica e fissati i requisiti minimi da rispettare per i nuovi edifici e per quelli già esistenti. È stato introdotto un sistema di certificazione energetica per comunicare ai consumatori sia le informazioni chiare e dettagliate sul consumo energetico degli edifici, sia le raccomandazioni per il miglioramento in funzione dei costi. In Italia questo impegno si è tradotto in misure destinate ad agevolare gli investimenti nel settore, migliorare i controlli ed evitare le sanzioni per la mancata osservanza delle prescrizioni. Capitolo 3 Una sfida lunga millenni Vantaggi e opportunità. Ma anche confronto, tolleranza, scambio tra culture. Questa è l’Europa di ieri e di oggi. L’Europa è, e sarà, se saprà cogliere le opportunità del XXI secolo senza drammi né spinte ideologiche. Perché tanto l’eurofobìa sorda alla ragione quanto un’eurofilìa cieca ai problemi darebbero frutti sterili, e il terreno del conflitto si sta dimostrando sostanzialmente improduttivo. Più di tante parole, per sperimentare che l’integrazione vuol dire apertura mentale e tolleranza, è utile vivere un’esperienza nel centro delle istituzioni europee. Così è capitato a me. Uno stage al Parlamento europeo durante gli anni dell’università, per puro caso. La vita insieme a tanti ragazzi di tutte le nazionalità possibili, allegri, pieni di speranze e progetti per il futuro, pur in una città grigia e solo apparentemente noiosa. E poi, capendo ogni giorno di più cosa accadeva in quella città e in quei palazzi di vetro specchiato, la voglia crescente di far parte di quel mondo dinamico, integrato, talmente abituato ad accogliere persone di Paesi e lingue tanto diverse da non farci quasi più caso. Un mondo che magari conferma qualche stereotipo nazionale (è vero che i tedeschi e gli olandesi sono un po’ rigidi, ed è vero che i greci e gli spagnoli, come gli italiani, sono un po’ confusionari e disorganizzati) ma dove poi si smussano le differenze e si capiscono i vantaggi dell’imparare qualcosa dagli altri. E da ultimo, ma non meno importante, si apprezza quanto dall’Italia diamo per scontato. Un mondo quello di Bruxelles forse anche un po’ finto, è vero, che non riflette i popoli che rappresenta, ancora molto divisi e poco integrati. Ma lì il cuore europeo batte davvero. E non è necessario viverci per sentirsene parte. Basta, come è capitato a me, entrare in contatto col virus europeista per restarne contaminati, anche tornando nel proprio Paese. Ma al di là del fascino di un macrocosmo in cui 28 e più nazionalità si incontrano e si confrontano, cosa in quelle istituzioni si produce e, soprattutto, qual è la ricaduta su tutto il resto del popolo europeo? Perché nella mancata risposta a questo interrogativo c’è la debolezza dell’Europa di oggi. Quel microcosmo che resta micro e che non fa abbastanza, o che sembra fare troppo e nel modo sbagliato, che non comunica bene quello che fa, e non attrae alleati alla sua causa, che resta un fatto ma non ancora una prospettiva, un orizzonte ineludibile e indispensabile. Ineludibile, perché siamo dentro una mescolanza, un’integrazione di cui spesso neppure percepiamo la profondità ma che tocca tutti, fino al cittadino del più isolato comune di frontiera. Indispensabile, perché non c’è più alcun ambito della nostra vita che non sia influenzato da dinamiche globali, e solo un attore globale può avere la scala e la forza per condizionare tali dinamiche. In fondo era soltanto ieri quando si parlava del sogno realizzato di un’Europa finalmente unita, sullo sfondo di divisioni e di nuovi incubi nazionalisti. Ma perché, allora, oggi è così tanto messo in discussione? Al punto che, tra quanti si candidano a entrare nel prossimo Parlamento europeo, c’è anche chi fa della dissoluzione dell’UE la sua battaglia. Ma dissolvere che cosa? Guardavo, di recente, un video circolante in rete: un’unica immagine, la mappa geografica europea, che nel cambiamento velocissimo di forme e colori illustra i mutevoli aggregati di confederazioni e imperi, l’avvicendarsi degli Stati nel corso di decine di secoli. Insomma, una sintetica storia animata.28 Nell’Europa così rappresentata i confini sono costantemente mobili: alcuni si spostano, altri mutano, altri si trasformano, altri nascono di nuovo. Quello che per noi oggi è il cuore dell’Europa occidentale era la parte dell’Impero romano che estendeva il suo dominio su tutte le sponde, europea, africana e asiatica del mare nostrum, mentre l’impero di Carlo Magno aveva il suo asse commerciale nella valle del Reno e nei porti del Mare del Nord come nota lo storico Alessandro Barbero,29 «uno spazio politico ed economico unitario, che andava da Amburgo a Benevento, da Vienna a Barcellona, e in cui già emergevano gli orizzonti nazionali e regionali destinati a dominare l’Europa millennio».30 del secondo Sia quello romano che quello carolingio erano imperi aperti e “porosi”, il cui dominio sui territori era esercitato attraverso un ordinamento composito, eterogeneo: un’entità plurale, dai confini non definiti che non cancellava ma assorbiva al suo interno l’identità delle popolazioni, pur controllandole e privandole della loro sovranità. Ma l’impero si concepisce come una totalità che non ha “vicini”, non stabilisce relazioni di cooperazione: dal limes romano alla cortina di ferro, le linee di divisione che hanno segnato la storia del continente appaiono nel video come cicatrici che demarcano invisibili muri. Eppure le comunicazioni e gli scambi interni allo spazio europeo sono stati, per secoli, molto maggiori di quelli con l’esterno. Non è un caso che sistemi economici, forme di governo e codici culturali caratteristici dello spazio europeo, pur nella loro varietà, mostrino tratti comuni. È proprio nell’epoca di Carlo Magno che il nome Europa comincia a comparire nelle citazioni degli storiografi antichi per descrivere un mondo che a distanza di oltre mille anni mantiene alcune costanti: un’Europa in cui la Francia e la Germania sono centrali, in cui l’Italia del nord è più sviluppata del Mezzogiorno, la Catalogna più ricca del resto della Spagna, mentre la Gran Bretagna resta in qualche misura isolata ed estranea. Un’Europa nordica e continentale, latino-germanica nel suo mix culturale ma guardinga verso le regioni mediterranee, e quasi estranea a quelle greco-slave dell’Est. Non è affatto un caso che ancora oggi il cuore e il cervello dell’Unione battano a Bruxelles, a Strasburgo, a Maastricht, nel cuore dell’antico Paese franco. Nel video citato l’effetto lasciato da uno sguardo così lungo sul passato è spiazzante. La variabilità dei confini in fondo è inscritta anche nell’Unione attuale: dentro o fuori l’Europa, dentro o fuori Schengen, dentro o fuori l’area Euro. Fra gli Stati europei intercorrono attualmente 30.000 km di frontiere internazionali. Circa 12.500 km sono stati tracciati fra il 1990 e il 1993, quando molti nuovi Stati nacquero dal venir meno di Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia. Nel conto bisogna però comprendere l’abolizione dei circa 1500 km di cortina di ferro che dalla fine della Seconda guerra mondiale tenevano separati i due Stati tedeschi, e l’eliminazione dei 150 km di Muro con cui le autorità della Germania Est avevano separato Berlino Ovest dal retroterra circostante. È storia nota, ma è bene ricordare che, nel 1946, Churchill, mentre invitava alla riconciliazione franco-tedesca, si appellava a un europeismo finalizzato al superamento della guerra, evocando il sentimento di appartenenza a una patria comune europea. Con Yalta, quando l’Europa salvata dal terrore hitleriano veniva dissolta e smembrata in due blocchi dalle superpotenze USA e URSS, la nuova cornice bipolare che obbligava a una scelta – al di là o al di qua della cortina di ferro – determinò una divisione geopolitica ma anche ideologica togliendo spazio all’idea di riconoscersi in una comunità sovranazionale. Gli sforzi compiuti verso un’integrazione degli Stati europei erano, allora, guardati con forte sospetto soprattutto dai partiti comunisti nazionali, che vedevano in questa strada un’adesione implicita all’atlantismo e alla politica di potenza degli Stati Uniti. Oggi le difficoltà di definire non solo la natura dell’Unione, ma anche i suoi potenziali confini sono maggiori che nell’era della Guerra fredda. Con la caduta del Muro di Berlino il problema si è complicato senza però che le istituzioni l’abbiano risolto. Lo stesso aggettivo “europeo” si presta a interpretazioni diverse, a seconda che si metta in rilievo il dato fisico (la Russia e la Turchia sono divise tra Europa e Asia) o la struttura economica, la tradizione giuridica o la posizione geopolitica di un Paese. Le istituzioni europee si limitano ad affermare genericamente che «l’Unione è aperta a tutti gli Stati europei che rispettano i suoi valori e si impegnano a promuoverli congiuntamente». Senza chiarire come questo criterio possa guidare l’eventuale inclusione della Turchia e delle repubbliche exsovietiche, in particolare di quelle caucasiche. Le recenti vicende travagliate dell’Ucraina rimandano alla storica questione dei confini orientali, dove l’appartenenza o meno all’Europa della Russia e dell’intero mondo slavo resta ancora irrisolta. L’Europa di oggi corre il rischio di una “nuova cortina di ferro” (la definizione è stata usata al vertice europeo di Bruxelles nel 2009), una divisione tra Est e Ovest questa volta dettata dalle differenze economiche all’interno dell’Unione, con un Est che ha il piede sul burrone di un’economia di mercato in crisi, e cerca un baluardo nell’Euro, e un Ovest che cammina sul filo del rasoio del protezionismo politico e commerciale. Per certi versi l’integrazione europea ha permesso di reinterpretare le frontiere fra gli Stati, modificando il ruolo delle zone di frontiera. Gli accordi di Schengen, che non costituiscono un’abolizione dei confini bensì una separazione delle funzioni amministrative delle frontiere da un sistema cooperativo di sicurezza, hanno consentito di relativizzarli. Ma il principio dell’autodeterminazione dei popoli31 – per altro non ancora riconosciuto da Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro – non ha, intanto, un suo posto al tavolo di Bruxelles. Secondo i trattati se dovesse nascere un nuovo Stato in Europa dovrebbe affrontare l’intero processo di adesione per assicurarsi l’approvazione unanime di tutti i membri attuali dell’UE. Ho fatto questa lunga digressione sui confini perché, se ciò che manca oggi più di tutto è un demos europeo, è da lì che si deve partire per indagarne le cause. I nuovi confini sono simboli dell’indipendenza e fanno parte del presente del mondo democratico e dell’Europa stessa. Da fronti di contesa – spesso occasione e fulcro di conflitti per il possesso esclusivo delle risorse economiche e sociali – i confini sono diventati poli di attrazione per cooperazioni economiche, ecologiche, turistiche, politiche, culturali. Costruire una cittadinanza europea oltre i confini è la grande sfida contemporanea: individuare un demos europeo, creando un senso d’identità e di unione tra i suoi cittadini ed eliminando le discriminazioni senza annullare le differenze. Con le sue mille contraddizioni, passate e presenti, l’Europa è dunque simbolo della società contemporanea che fa fatica a costruire quella “cultura del confine” dove la differenza si incontra con le esigenze complesse delle sue comunità. Una complessità che nel tempo si è espressa in diverse visioni dell’Europa. Dal modello di integrazione politica che intendeva migliorare i rapporti economici e sociali attraverso la cooperazione delle associazioni di categoria, riunite in una camera parlamentare, a quella dell’Europa “delle patrie”32 che tiene conto soprattutto degli interessi nazionali. Dall’idea di un’Europa federale, con un approccio comunitario in base al quale l’Unione non è composta solo da Stati membri, ma anche da cittadini, e persegue l’interesse generale di tutte le comunità. A quella del “patriottismo costituzionale”, che riconosce e costituisce l’identità politica sulla base dei valori etico-politici, dei princìpi e delle regole sanciti dalla legge fondamentale, la Costituzione (che tuttavia oggi non c’è ancora). Da quella cosmopolita,33 che presuppone senza cancellarla l’Europa delle Nazioni. All’integrazione funzionalista della CECA e della CEE, basata sull’idea che gli Stati iniziassero a cedere porzioni della propria sovranità a beneficio di istituzioni indipendenti e sopranazionali in settori economici cruciali, come il comparto del carbone e dell’acciaio, per espandere l’integrazione con un effetto “a cascata”. A quella, universalistica, per cui un nuovo legame condiviso passa dall’adesione ai diritti e doveri che discendono dalla lealtà al territorio di appartenenza, all’adesione ai diritti e doveri umani universali, legati alla nostra comune esistenza sulla terra.34 Se i vecchi modelli del dentro e del fuori non sono più validi, occorre comunque ripensare a categorie sganciate dalla chiave interpretativa nazionale. La scommessa europea sta nel tentativo di fondare un nuovo tipo di comunità politica senza ricorrere ai concetti classici di nazione e territorio. Nel cambiare logica con un approccio che non è schiacciato né sullo StatoNazione, ma nemmeno sulla globalizzazione indifferenziata e sconfinata, per immaginare una cittadinanza slegata sia dalla comunità nazionale sia da un cosmopolitismo astratto, tracciando nuove demarcazioni che devono rimanere fluide.35 La sfida di costruire una convivenza e una nuova fiducia civica è una sfida quotidiana. Senza negare i conflitti esistenti ma senza rinunciare ad abbattere i muri, fisici e immateriali, costruiti secondo una logica fondata sulla distanza e sulla paura anziché sull’appeal della differenza. Perché la varietà è ricchezza, opportunità: valorizzare le rispettive identità in un contesto associativo più ampio potrebbe essere l’alternativa europea ai nazionalismi e ai fondamentalismi, che portano, come anche la storia recente ci insegna, scontri, guerra, distruzione e povertà. Si cita sempre, parlando di Unione europea, il grande valore che ha avuto nella storia un esperimento istituzionale capace di garantire la pace. Ma, si dice, la pace è troppo e troppo poco oggi per giustificare l’ideale europeista. È un valore troppo astratto, troppo distante, troppo scontato per chi non ha sperimentato la guerra. Troppo poco, invece, se si pensa ai venti di guerra che spirano sull’Europa e alla scarsa capacità dell’UE di intervenire nei conflitti. Ma il demos europeo affonda le sue radici proprio nella volontà di perpetuare quel sogno di pace. D’altra parte, il pensiero federalista nasce proprio come alternativa a una divisione dell’umanità in Stati sovrani che causa guerre, e vede nell’unica autorità di uno Stato federale che li unisce politicamente la speranza di vivere in pace. L’idea di creare una federazione fra gli Stati d’Europa è, dunque, vecchia quasi quanto la nascita degli Stati stessi. Già nel XVIII secolo giuristi e filosofi concepivano modelli costituzionali di vasta portata a garanzia dell’equilibrio e della pace tra le potenze europee: che fosse una libera federazione per assicurare la pace, una lega permanente, una coalizione temporanea e revocabile o una comunità di Stati soggetta a un diritto comune sul cui rispetto vigilasse un “senato europeo”, si trattava comunque di forme embrionali di Unione. I grandi sogni nascono spesso dalla paura. Il Manifesto di Ventotene ,36 punto più alto della visione europea, fu elaborato nel periodo buio della guerra, all’apice di una tragedia mondiale per indicare una via d’uscita, un orizzonte nuovo, una strada da percorrere dopo i conflitti armati tra Stati e le spinte totalitarie. Nel Manifesto, scritto durante la prigionia fascista da Altiero Spinelli, insieme a Eugenio Colorni e a Carlo Rosselli, si ritiene necessaria la creazione di un’Europa unita in ogni ambito, da quello economico a quello sociale, culturale e politico. Una federazione europea che doveva surrogare l’istituzione dello Stato- Nazione, scardinandone i limiti con una visione di respiro internazionale. Dopo allora, nel corso degli anni successivi il processo di unificazione europea ha conosciuto nelle sue tappe che si intrecciavano con la storia mondiale qualche stallo, molti ostacoli, tante deviazioni. Ma anche molte occasioni perse. Già negli anni Cinquanta, alla nascita della CEE, Altiero Spinelli sottolineava come la conservazione della sovranità nazionale avrebbe impedito un qualsiasi progetto federalista, tradendo il sogno originario che voleva abbattere i muri statuali. E a distanza di altri anni ancora, nonostante la Dichiarazione solenne sull’Unione europea al Consiglio europeo di Stoccarda del 1983, la proposta avanzata da Spinelli insieme ad altri deputati riuniti nel Club del coccodrillo – allargare i poteri della Commissione e del Parlamento europeo – fu approvata a larga maggioranza, dal Parlamento europeo nel 1984 ma mai applicata, e ben presto cadde nell’oblio.37 In tal modo, si perdeva anche l’occasione per dare un nuovo slancio alla funzione di cooperazione politica dell’Unione europea. Gli europeisti più convinti, tra cui mi inserisco, richiamano quella idea quando evocano gli Stati Uniti d’Europa. Ma che senso ha parlarne oggi? Qual è il contenuto concreto di quella visione in un mondo che è radicalmente cambiato e che ancora sta cambiando a grandissima velocità? Da un punto di vista valoriale prima che istituzionale quell’unione di Stati d’Europa è l’unità specifica dell’identità europea, quel filo rosso tessuto in una trama di differenze. Così come la democrazia è una costruzione in fieri, non un fatto compiuto, così l’Europa unita è un processo che non si è mai fermato e da cui non si può tornare indietro, ma che semmai richiede svolte nel cammino per andare avanti. E anche se i “fantasmi del passato” di un’Europa lontana sembrano tornare con prepotenza vent’anni dopo, la Storia non torna mai alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca. La compattezza geopolitica dell’Europa, la sua possibile identità costituzionale e valoriale appaiono tuttavia decisivi ai fini di qualunque processo di consolidamento e coesione. Il problema del “confine dell’identità politica”, che ha costituito il punto di forza nella difesa, da parte degli Stati nazionali, dei loro confini territoriali, appare ineludibile nella prospettiva di un salto di qualità del processo di integrazione europea. Tuttavia, per portare a compimento il processo di unificazione europea avviato nel 1950 con la Dichiarazione Schuman,38 che proponeva di dar vita alla CECA come primo passo per la creazione della federazione europea, l’Europa deve sciogliere l’equivoco originario, e sancire che il ridimensionamento dello Stato nazionale costituisce un necessario presupposto alla pacificazione del continente. Europa sì o Europa no? Dalla firma del Trattato di Lisbona del 2007, passando per le tappe di Maastricht e Nizza, siamo stati talmente sommersi di parole che sembra ormai quasi impossibile avere un’opinione netta. Ma la contrapposizione favorevoli-contrari non rappresenta più un’alternativa utile: sembra piuttosto una scelta forzata. L’Europa è. Punto. È – lo si voglia o meno – dentro ciascun Paese dall’Atlantico ai Balcani, così come ciascun Paese del gruppo dei 28 è dentro l’Europa. Oggi, o fa un passo in più, ma decisivo, sulla via dell’integrazione reale, oppure esce dalla Storia e sprofonda nel caos. Allora, “Europa se”, piuttosto. L’Europa sarà , se i suoi rappresentanti e le sue istituzioni riusciranno a procedere verso la creazione di una solida unione politica, che in prospettiva altro non può essere che gli Stati Uniti d’Europa. Un federalismo che demandi al centro solo il “macro” necessario: la rappresentanza a livello internazionale, una vera politica monetaria, il mantenimento di diritti fondamentali e doveri condivisi, la creazione di un sistema valoriale finalmente comune. Lasciando ai singoli Stati la gestione del “micro” indispensabile. Un federalismo che consenta all’Europa di svolgere il ruolo di ponte solido che unisce culture comuni anziché di muro improbabile verso il resto del mondo, quello di contenitore familiare anziché di super-Stato straniero e ostile, di confine che allarga anziché di limite che chiude gli orizzonti. Perché solo attraverso una “fusione di orizzonti”,39 si può ottenere la conoscenza reciproca come crescita: orizzonti cognitivi, che vengono tracciati e allargati accumulando esperienze di vita. Come fanno i giovani europei spostandosi tra Parigi e Barcellona per “spaesarsi” e ritrovarsi, conoscersi e ri-conoscersi nei propri coetanei. Solo così si potrà innescare la coscienza di un demos europeo che condivide, storia, valori, modelli, interessi. La vocazione alla pace da cui nasce l’Europa unita, la sua propensione a costruire le fondamenta di una cooperazione vasta si deve esprimere in un modello di sviluppo sostenibile sul piano dei rapporti intergenerazionali, nella volontà di difendere e migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei suoi cittadini senza ipotecare il futuro dei giovani, senza tenere “in panchina” le donne. In estrema sintesi, quello che vorrei trasmettere è la necessità di colmare i vuoti dell’integrazione ancora imperfetta con una dose di sano pragmatismo. Non un pragmatismo sterile, l’assolutizzazione del fare. Al contrario un’attitudine a guardare in faccia l’Europa nelle sue molteplici contraddizioni e al tempo stesso nella tenacia della sua missione. Lo stesso pragmatismo ragionevole che attraversa le storie personali con cui ho aperto questo libro. 28. http://video.corriere.it/confini-d-europa1000-anni-5-minuti/94272272-f0ba-11df9e3d-00144f02aabc 29. http://video.corriere.it/confini-d-europa- 1000-anni-5-minuti/94272272-f0ba-11df9e3d-00144f02aabc 30. http://studiumanistici.unipv.it/semec/RECENSIO 31. Principio supremo e irrinunciabile del diritto internazionale, che produce effetti giuridici inderogabili per tutta la Comunità degli Stati e non può essere derogato mediante convenzione internazionale. Sancisce il diritto di un popolo sottoposto a dominazione straniera a ottenere l’indipendenza, associarsi a un altro Stato o comunque a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Viene ratificato da leggi interne (in Italia la n. 881/1977) e vale come legge dello Stato che prevale sul diritto interno. 32. L’espressione indica la concezione del processo di integrazione europea espressa da De Gaulle, che vedeva la preminenza in ambito comunitario degli organismi emanati dagli Stati rispetto agli altri organismi comuni. 33. Ulrich Beck e Edgar Grande, L’Europa cosmopolita. Società e politica nella seconda modernità, Carocci, Roma 2006. 34. Jeremy Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori, Milano 2004. 35. I confini “sdrammatizzati” di cui parla Jeremy Rifkin in Il sogno europeo, cit. 36. http://www.altierospinelli.org/manifesto/it/manif 37. Il Trattato di istituzione dell’Unione europea, comunemente noto come Progetto Spinelli, di cui il 14 febbraio del 2014 si è celebrato il trentennale, aprì la strada alla riforma dei Trattati di Roma e ha ispirato una parte importante delle innovazioni oggi contenute nel Trattato di Lisbona, anche se alcune essenziali proposte del Parlamento europeo non hanno ancora trovato adeguata collocazione nel sistema europeo. 38. http://europa.eu/about-eu/basicinformation/symbols/europe-day/schumandeclaration/index_it.htm 39. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo , tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983. Capitolo 4 Luoghi (non) comuni L’Italia è stata, all’inizio della costruzione unitaria, uno degli Stati più europeisti d’Europa, e dopo l’introduzione dell’Euro nel 2002 ha mantenuto più degli altri il suo sostegno all’Unione “nonostante tutto”. Oggi la stagione dell’entusiasmo sembra alle spalle, sostituita dall’avvento della delusione. Oltre 20 anni dopo la loro nascita, le istituzioni dell’UE hanno visto la fiducia di cui godevano erosa da forze centrifughe che hanno creato un’opinione pubblica frammentata. L’Europa sembra aver perduto la sua immagine di “luogo comune” per apparire a molti un nemico, un controllore rigido e oppressivo, responsabile dei mali nostrani. Un atteggiamento alimentato dal crollo di immagine delle istituzioni nazionali, anzitutto dello Stato, il cui livello di credibilità è sceso assai più di quello dell’Europa. Secondo l’ultimo rapporto di Eurobarometro, condotto nella primavera del 2013, nella graduatoria che misura il senso di appartenenza europea dei Paesi membri, gli italiani si collocano al 23esimo posto sui 28 dell’Unione allargata: è la conferma di un declino o un momento di stallo nella storia dell’Unione? O non, piuttosto, un segnale di insoddisfazione verso “questa” Europa? Anche negli altri Paesi membri dalla prima ora si assiste a una sensibile perdita di fiducia nell’UE. Ma analogamente a quelli dell’area mediterranea – la più colpita dalla crisi economica e da tagli sulla spesa pubblica particolarmente pesanti imposti dal governo dell’Unione – in Italia l’attaccamento all’Europa si attesta al 34%: 20 punti in meno rispetto a dieci anni fa, 15 rispetto al 2010.40 Intanto, l’Europa della mobilità nei viaggi, nello studio, nel lavoro, nel commercio è sempre più una realtà. La libertà di movimento è il più apprezzato tra i diritti derivanti dalla cittadinanza europea. Ogni anno i cittadini europei compiono più di un miliardo di spostamenti nell’Unione e sono sempre più numerosi quelli che esercitano il diritto di vivere in uno Stato membro UE diverso dal proprio: da 11,9 milioni nel 2009, i cittadini che vivono in uno Stato dell’Unione diverso da quello di origine erano passati a 12,3 milioni nel 2010. Dati ancora più significativi se si tiene conto dei cittadini UE che circolano liberamente all’interno dell’Unione per brevi periodi di tempo.41 Dal suo avvio nel 1987 a oggi oltre 3 milioni di studenti europei hanno partecipato al programma Erasmus. Il 54% degli ex studenti Erasmus ritiene che questa esperienza sia stata utile per ottenere il primo lavoro. E dall’inizio di quest’anno ha preso il via il nuovo programma Erasmus+, che nei prossimi sette anni aiuterà 4 milioni di giovani a studiare all’estero con lo stanziamento di 16 miliardi di euro entro il 2020, oltre il 40% in più rispetto a quanto era stato stanziato tra il 2007 e il 2013. Si prevede che il numero di persone che riceverà una borsa di studio dall’UE sarà quasi il doppio rispetto al passato. Sul fronte del lavoro, la Commissione europea ha varato Your First Eures Job, un’iniziativa per aiutare da una parte i giovani tra i 18 e i 30 anni che desiderano lavorare in un altro Paese dell’UE, e dall’altra le imprese che intendono assumere. Oltre ai servizi di assistenza, informazione e consulenza sui mercati del lavoro dei vari Paesi europei, l’iniziativa prevede un sostegno finanziario, erogato prima della partenza per sostenere le spese di viaggio per il colloquio di lavoro, e di un primo trasferimento nel nuovo Paese, e un’indennità per supportare la formazione del lavoratore al datore di lavoro, qualora sia un’impresa con un massimo di 250 dipendenti. Ma quanti tra gli italiani conoscono queste opportunità? Un sondaggio darebbe risultati clamorosamente negativi. È l’accessibilità dell’Unione – nella conoscenza delle occasioni offerte e delle risorse disponibili, dei programmi e delle iniziative promosse, delle istituzioni comunitarie con i loro complessi meccanismi di funzionamento – ad apparire ancora straniera: lontana, difficile, non scontata. L’“Eurocratese”42 è la neolingua delle élite europee, incomprensibile e misterica, che – con non poche ragioni – si ritiene un ostacolo che impedisce ai cittadini di partecipare e rendersi consapevoli dei processi decisionali. Ma al di là della lingua tecnica, che può essere funzionale al lavoro complesso di 28 delegazioni diverse, manca totalmente una strategia comunicativa dell’UE, che volenti o nolenti, è diventata parte integrante dell’essenza stessa della democrazia. Un eurocratese incomprensibile ai più, che dimostra come l’Europa non abbia ancora imparato a raccontare se stessa. Basta leggere i trattati, destinati a una platea di accademici e di funzionari che parlano tra di loro più che alle società in cui vivono gli elettori. In effetti, a maggior ragione oggi – quando quello europeo non sembra più costituire un “sogno”, e sarebbe necessario rappresentare la “realtà delle cose” – per i non addetti ai lavori la lingua della UE è inutilmente complicata. Per orientarsi tra molte procedure e troppe carte occorre, allora, un’Europa che usi una “lingua parlata” chiara e non l’eurocratese della burocrazia. In questione, naturalmente, non è solo il linguaggio ma anche il riconoscimento delle istituzioni da cui questo linguaggio viene generato, la legittimazione dell’autorità che ne istituisce regole e codici. Sebbene l’Unione europea giochi un ruolo su più piani nella vita della gente, notevoli problemi condizionano la percezione della sua legittimità, e in molti Paesi, tra cui l’Italia, si tratta di una realtà vista come ancora lontana, se non aliena. È il principio di autorità riconosciuto e condiviso che fonda l’adesione e l’appartenenza a un progetto, legittima la partecipazione e garantisce una rappresentatività reale. Senza la riconoscibilità delle sue forme di governo l’Unione rischia di esprimere solo l’autorità astratta di anonime élite tecno-finanziarie. E qualsiasi progetto storico, in assenza di un’autorità riconosciuta, non genera libertà ma la nega. I Parlamenti nazionali, secondo un’opinione diffusa, sono stati i grandi perdenti dell’integrazione europea, in quanto possono solo mettere un timbro a decisioni già prese a Bruxelles. Il tema dell’erosione della sovranità degli Stati nazionali a favore delle istituzioni comunitarie coinvolte nei processi normativi dell’Unione configura, in realtà, un punto molto discusso nel dibattito sul processo di integrazione. Come membro della Camera dei deputati ho potuto riscontrare molto da vicino q