64 — in scena «South – North», un’«Opera Futura» di Fanny & Alexander la pari della scenografia, dei testi e di tutto il resto. South – North si potrebbe concepire come una sorta di opera in due atti in cui «South» e «North» rappresentano le due regioni dove arriva Dorothy nell’epopea quasi mitologica che compie: ma noi le consideriamo due regioni interiori, il proprio sud e il proprio nord. Partendo dal Mago di Oz e volendo essere filologici il viaggio a sud nel racconto di F. L. Baum parte dalla Città di Smeraldo, da Emerald City, dopo che il mago è stato smascherato e solo Dorothy non ha ricevuto nulla in seguito alla sua richiesta di tornare a casa nel Kansas, perché il mago se ne è andato senza di lei col suo pallone aereostatico. Dorothy è costretta ad andare a Sud a cercare Glinda, la strega buona, per farsi aiutare. Il nostro viaggio a sud, «Away to the South», comincia invece con la richiea musica è sempre stata un elemento portante degli spettacoli sta di Dorothy al mago: Oz è qui un’icona, un ritratto in 3D che di Fanny & Alexander. Con Dorothy. Sconcerto per Oz (cfr. viene dalla mondanità della storia, è il mezzo busto di un attoVMeD n. 18, pp. 66-67) però l’elemento sonoro assume una nuore che impersona Hitler. In questo caso diventa quava, più pregnante preminenza. Da qui prende le mosse South si subito un’immagine silente e quasi dormien– North, un progetto inedito che debutterà a settemte: la sovrapposizione stereoscopica del bre al Teatro Comunale di Ferrara. Ne parliamo 3D ne trasforma l’espressione degli occon Luigi De Angelis, fondatore e anima delchi per cui, quando c’è molta luce, la compagnia – insieme a Chiara Lagani sembra che abbia gli occhi aper– oltre che regista del nuovo spettacolo. ti, e mano a mano che la luce si Circa due anni fa la Regiospegne gli occhi si chiudone Emilia Romagna, a parno. È quindi una richiesta a tire da un’idea di Giordano un mago dormiente, che Montecchi, ha promosso non dà risposta. Queil progetto «Opera Fusta sorta di preghiera tura Laboratori per un al mago, che è invocaNuovo Teatro Musita dalla prima Dorocale»: questa iniziathy, incarnata da Fiotiva intendeva coinrenza Menni, è quelvolgere alcuni teatri la di non sentire più il molto attivi nel nocuore. La richiesta si stro territorio – che si riferisce al cuore peroccupano principalché le due regioni somente d’opera in terno collegate alla rimini tradizionali – e chiesta del boscaiolo metterli in contatto di latta di poter avere con artisti provenienti un cuore (Sud) e a queldal mondo della prosa, la dello spaventapasseri per cercare di far incrodi poter avere un cervelciare questi due mondi. lo (Nord). South, caratterizAnche lo stesso titolo nazato da questo sonno di Oz, sce da quest’idea, che si proè un lavoro sul buio assoluto: pone di rivitalizzare dall’inc’è uno sprofondamento in sesterno lo spettacolo operistico, santacinque minuti di oscurità donon a partire dal repertorio classive tutto parte da questa invocazione al co bensì da creazioni nate completamago di non sentire più il proprio cuore, mente ex novo. Montecchi aveva visto Doh. Fioren con tutto quello che la parola cuore semantirothy a Ferrara, e ne era rimasto molto colpito, za Menni in Sout camente e simbolicamente si porta con sé. È anche perché aveva compreso il disegno di uno spettacouno spostamento dell’asse del linguaggio, da una lingua di palo al limite fra teatro e opera, con un libretto e con una partiturole e di superficie si passa a un’altra esclusivamente creata dal ra musicale che univa composizioni già esistenti in una sorta di ritmo e inserita in questo buio assoluto. Come se fosse una notcollage. In questo contesto si inserisce South – North, nuova tapte interiore, che riverbera il ricordo di alcune notti africane, dopa del nostro «Progetto Oz», che stiamo sviluppando da ormai ve non c’è l’elettricità e, in assenza di luna, la gente riempie fisicatre anni, e che si concluderà con West l’anno prossimo. L’elemenmente gli spazi bui. to più interessante sta nel fatto che si tratta di una vera e propria Il sottotitolo è importante: «Opera in due atti per voci, percuscommissione: una struttura importante come il Teatro Comusioni, harmonic whirlies (dei tubi di plastica brevettati da una nale di Ferrara ci ha messo a disposizione la sua équipe e un budmusicista australiana che, se suonati facendoli roteare, creano get piuttosto ampio, che deve comprendere un organico di cirvari armonici), hang (uno strumento a percussione svizzero reca venticinque persone tra attori, musicisti e altri collaboratori. centissimo, che non avrà nemmeno dieci anE soprattutto ci ha dato la possibilità di provani), pedonium (strumento utopico inventato da re in teatro per quasi un mese. Fanny & Alexander), vento e rumori»: in queNoi mettiamo sempre allo stesso livello tutti sta notte interiore lo spettatore diventa lui stesgli elementi di cui si compone un nostro spetFerrara – Teatro Comunale so Dorothy, fa lui il viaggio e compie un attratacolo, la musica dunque è una forma che sta al23 e 24 settembre, ore 20.00 A Ferrara debutta la nuova tappa del «Progetto Oz» in scena L ne solo l’ombra dei baffi... L’arrivo di questa Dorothy, interpreversamento di varie regioni psichiche, tutte nel buio e tutte esetata da Chiara Lagani, che è l’autrice della drammaturgia, è speguite tramite una complessa partitura sonora e musicale. Lavoculare rispetto a quello di South. Qui in realtà è il palco che divenriamo con quattro percussionisti – un ensemble di Parma che si chiama Nextime – e tra le tante suggestioni abbiamo scelto Psapta protagonista: la prima visione che si ha (e che potrebbe essere pha di Iannis Xenakis e vari altri brani, tra cui anche le canzoni anche una trappola creata da Oz per Dorothy) è quella di un paldi John Dowland, un compositore del Seicento che è il massimo co disassato, cioè di un pavimento con assi che fuoriescono, foresponente di una musica tutta «del cuore», eseguita dall’ensemse il tetto sfondato della stessa casa di Dorothy, cascata dal Kanble vocale Melodi Cantores. Dopo la richiesta di Dorothy al masas nel meraviglioso mondo di Oz. Questo pavimento è in realgo c’è un progressivo spappolamento sonoro realizzato tramite tà uno strumento musicale, che misura dieci metri per cinque: il procedimento di un compositore americano, Alvin Lucier, un l’abbiamo chiamato pedonium, ed è un palco-trabocchetto, infatpioniere delle ricerche sulle sonorità in relazione all’architettura, ti Dorothy scoprirà che lo può suonare. Anche in questo caso che alla fine degli anni sessanta ha progettato una composizione comunque il pedonium è uno strumento che rispecchia un aspetintitolata I Am Sitting in a Room (la si è potuta vedere quest’anno to della psiche, potrebbe essere un’estensione del proprio coral Festival di Santarcangelo): lui legge al microfono un testo in po. North è un viaggio che parte dal respiro (invece che dal sofcui dichiara quello che avverrà durante la performance. Quanfio del vento): qui si esprime il lungo lavoro fatto da Chiara con do finisce di leggere se ne va, ma questa sua lettuRoberta Guidi, specializzata nel canto funzionara live è registrata da un altro microfono, che le, un canto cioè che lavora sull’origine e sulla rimanda, e un altro microfono ancora la qualità del suono, sulla consapevolezcapta nuovamente il messaggio. Piaza del proprio suono tramite l’autoano piano le risonanze della stanscolto. Nel libro di Baum l’inconza prendono il sopravvento ritro con la strega del Nord che spetto alla comprensibilidà la sua benedizione a Dotà del testo, e ciò che resta è rothy è all’inizio del viagsoltanto la compressione gio verso la città di Smeritmica della parola. Ma raldo, non appena atteril fatto straordinario è rati. In North Dorothyche esclusivamente Chiara Lagani, secongrazie al ritmo si condo un percorso optinua a comprendere posto dunque rispetil senso del discorso. to a quello di South, La stessa cosa prochiederà la perdita viamo a farla noi: del controllo, cioè la dopo le ultime paroperdita del cervelle pronunciate al milo, giunta di fronte crofono da Fiorenal mago alla fine del za Menni parte il disviaggio. E scoprisolvimento progresrà che Oz è uno specsivo e direi spiraliforchio, una lente aname delle sue ultime pamorfica deformante, role, parallelo a un totale traumatica ma necessasprofondamento nel buio. ria. Il percorso in North iniQuesto procedimento è un zia dal soffio e dal tocco delpo’ lo specchio di quello che le corde vocali. È dunque un avviene nello spettacolo, peraltro viaggio infero, ma all’interché l’attraversamento di quelle reno delle proprie cavità: qui l’operagioni psichiche non è altro che la trazione di sprofondamento avviene a duzione in lingua ritmica e musicale di ciò partire dall’autoascolto e dalla trasformah. Chiara t r che lei aveva precedentemente chiesto al mazione dell’emissione sonora del soffio in canto, o N L agani in go. Sono i residui ritmici e psichici della sua richiesta. poi passa per una maggiore consapevolezza del giarParallelamente a questo primo strato viene generato nel buio da dino-pavimento irto attorno a sé, che è rappresentato dal pedodelle macchine anche un forte vento, che di fatto è all’origine di nium, e dalla possibilità di sviluppare una lingua sinestetica, pertutto il viaggio e trasporta lo spettatore di regione in regione coché il pedonium quando viene suonato genera anche una lingua me il ciclone di Dorothy. C’è poi una parte di rumoristica quadei colori. Sono sessantaquattro tasti-assi suonabili collegati a si cinematografica, anch’essa prodotta nel buio assoluto da Fioun’interfaccia midi che genera una specie di grande campionarenza Menni e da due attori, Davide Sacco e Mauro Milone, che tore. Il compositore Mirto Baliani ha creato i contenuti per quesono un po’ i caronti di questo viaggio. La sonorità di questi rusto strumento: al pedonium si potrebbero applicare tutte le sonomori è quasi tattile, e crea un senso di disorientamento. L’inconrità che si vogliono, ma noi abbiamo scelto quelle peculiari al petro con la strega per Dorothy non è altro che aver trovato la stredonium stesso, come il cigolio delle assi, un suono quindi realistiga dentro di sé, dopo una discesa agli inferi traumatica, incuboco, che poi viene processato, rimodellato e trasformato e quelle tica, ed è accompagnato dalle canzoni di Dowland, mentre si ridelle cavità di un corpo femminile, registrando un ventaglio di sale nella fievole luce del mondo superiore. Questo, detto molto suoni preverbali assieme a Roberta Guidi. sinteticamente, è South. North invece si sviluppa in maniera difQuesta lunga intervista, concessa «in anteprima» e dal sapoferente: non abbiamo più l’icona del mago, perché il viaggio nel re esoterico e affascinante, delinea i contorni di un lavoro che olsud ha probabilmente creato la consapevolezza del fatto che antrepassa i generi teatrali, e conferma la profondità della ricerche Oz il terribile è qualcosa da trovare dentro di sé. Di Oz rimaca di uno dei gruppi di punta delle scene (non solo) italiane. (l.m.) ◼ in scena in scena — 65 66 — dintorni «Drammaturgia contemporanea e rapporto con le scuole» Laura Barbiani traccia le linee programmatiche dello Stabile del Veneto I n un momento delicato per il Teatro Stabile del Veneto, in cui è dintorni / teatro probabile il ricambio alla direzione artistica dopo il doppio mandato di Luca De Fusco, incontriamo Laura Barbiani, presidente dell’istituzione, non per chiederle indiscrezioni o esclusive, ma per capire quali sono le linee programmatiche del nostro teatro pubblico, annunciate da un importante documento stilato dal Consiglio di Amministrazione. La badante di Cesare Lievi Prima ancora che i giornali si occupassero della questione legata alla direzione artistica, il Cda stava già lavorando per individuare le linee di indirizzo per i prossimi anni. Questa è una prerogativa del Consiglio, come lo è del resto il nominare il direttore. Per mesi dunque abbiamo preparato questo documento, molto sintetico ma altrettanto chiaro nella sua suddivisione per punti. Il primo di questi, come è ovvio, riguarda la produzione: gli Stabili, per statuto, devono produrre grande teatro, cioè spettacoli di alta qualità e riconosciuti a livello nazionale e internazionale. Quest’obiettivo primario sin dalla nostra nascita è sempre stato perseguito con vigore, riservando particolare attenzione ai classici di area veneta, primi fra tutti Gozzi e soprattutto Goldoni, di cui è stata allestita un’innumerevole serie di commedie. In questo senso dunque l’obiettivo è mantenere la continuità, naturalmente cercando sempre di migliorare. In questa direzione si colloca anche il progetto, nato nel 2006, di dedicare spazio ad autori del nostro territorio che hanno vissuto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo successi- teatro vo. L’altr’anno è stato il turno di Giacinto Gallina, in un doppio testo commissionato a Stefano Pagin, e quest’anno invece sarà la volta di Tramonto di Renato Simoni, curato da un regista di casa da noi come Damiano Michieletto. Il secondo punto di questa sorta di documento programmatico riguarda i cartelloni, che unanimemente ci sono sembrati troppo omogenei, per quanto ben strutturati. L’auspicio comune è quello di non dare vita a stagioni prevalentemente caratterizzate da scambi fra teatri. Se pure questi scambi garantiscono tournée lunghe e sicure allo stesso tempo precludono la possibilità di intercettare le molte proposte pregevoli che stanno al di fuori. In linea con questa volontà di cambiamento sta anche l’inclinazione a puntare sulla storia contemporanea e su scelte registiche innovative. Non si può continuare a ragionare dicendo: «Il mio pubblico è abituato a un certo tipo di teatro». Il pubblico – che ci ha premiati nonostante un anno di drammatica e generalizzata crisi – non è «abituato», bensì affezionato, e dunque in grado di accettare un’offerta diversificata e meno convenzionale. A onor del vero bisogna dire che i nostri due teatri – il Goldoni e il Verdi – non posseggono una seconda sala, come moltissime altre istituzioni analoghe. Questo, per quanto riguarda la diversificazione delle proposte, è un grosso handicap, perché non tutti gli spettacoli sono collocabili in uno spazio da ottocento posti. Comunque sia, bisogna operare uno scarto rispetto all’omogeneità di cui parlavo prima, e affrontare coraggiosamente le nuove sfide. E ora arriviamo a parlare di uno degli elementi per me cruciali per il futuro del nostro Teatro: la drammaturgia contemporanea. È un tema al quale sono particolarmente sensibile, perché sono un’appassionata e perché ritengo che un teatro che non guarda con attenzione, che non supporta, che non si nutre del contemporaneo dimostra di essere un soggetto malato. Non voglio evidentemente affermare che vadano espunti dalla programmazione classici come Shakespeare o Goldoni. Il punto è un altro: un Teatro Stabile ha il dovere di prendere in considerazione quello che viene prodotto oggi, nel momento preciso in cui lo stesso teatro vive. Per uscire dagli equivoci vorrei ribadire che per «drammaturgia contemporanea» intendo parlare di ciò che è scritto oggi, da gente in carne e ossa che patisce i nostri stessi problemi e le nostre stesse contraddizioni. E qui vorrei aprire una parentesi. Due anni fa, incuriosita da questo tema, ho fatto una mia personale ricerca su quanta drammaturgia contemporanea, negli ultimi tempi, avessero davvero prodotto gli Stabili italiani, pubblici e privati che fossero. Mi aspettavo una percentuale che non andasse oltre il venti per cento. Con mia grande sorpresa ho invece scoperto che si oltrepassava la percentuale del cinquanta. Il problema è che per queste produzioni l’investimento è il più delle volte bassissimo, si tratta di due o tre repliche in sale mi- dintorni — 67 rei mettere in contatto con i drammaturghi del nostro territonori che accontentano l’autore – che finalmente si vede rapprerio, e successivamente con registi professionisti. L’idea è svisentato – e la cerchia dei suoi amici. Si risparmia sugli attori, sulluppare, attraverso le competenze di questi artisti, un percorle scenografie, sulla comunicazione. In questo modo gli spetso che conduca – all’inizio all’interno delle aule scolastiche – a tacoli «contemporanei» resteranno sempre dei fratelli minouno o più testi inediti, che poi dovranno avere un vero e prori rispetto a quelli «normali». Non penso che questa sia la straprio trattamento teatrale, coinvolgendo strada facendo attori, da giusta. E per cambiare rotta avrei il desiderio di organizzare scenografi, datori luce e così via. La speranza è mettere in conun grande convegno, cui invitare i rappresentanti di tutti i teatatto gli allievi con una modalità di scrittura che loro ignorano tri italiani, sia statali che privati. Al centro del convegno vorrei – e che è ben differente dal vuotare silenziosamente la propria ci fosse questa semplice e provocatoria domanda: come distrianima in un quaderno – e il cui esito finale è il palcoscenico. Per buiamo la drammaturgia contemporanea? Perché non attiviadimostrare che non sono solo parole, per questa iniziativa in mo un sistema di collegamento – in questo senso sì funzioneCda abbiamo deliberato un budget tra i 100.000 e i 150.000 eurebbero magnificamente gli scambi – per cui questi testi posro. Dove troverò questo denaro ancora non lo so, ma è un imsano finalmente girare, affrontare piazze nuove, avere lo status di rappresentazioni normali? Credo sia necessario stabilire una prasLa base de tuto di Giacinto Gallina, regia di Stefano Pagin si grazie alla quale i teatri nazionali possano parlarsi, confrontarsi e mettere in comune quanto di meglio hanno realizzato. Perché la distribuzione è uno snodo fondamentale. Soltanto attraverso una circolazione capillare dei migliori risultati ottenuti da ciascuno potremo dire di aver costruito una rete a supporto dei nuovi autori e dei nuovi testi. Il resto, a mio parere, è soltanto un contentino dato a qualcuno e negato a qualcun altro. Anche se non è certamente sufficiente, sono comunque felice che nella nostra prossima programmazione trovino spazio Morso di luna nuova di Erri De Luca, diretto da Giancarlo Sepe, e La badante di Cesare Lievi: entrambi sono esempi di un teatro contemporaneo di alto livello, che sono certa entusiasmerà il nostro pubblico. Ma resto convinta che sia il lavoro coMorso di Luna nuova di Erri De Luca, regia di Giancarlo Sepe (foto di Fabio Bortot e Alvise Nicoletti) mune di tutti ciò che potrà finalmente dare dignità, come accade negli altri paesi europei, ai mipegno che ci siamo presi e che intendiamo rispettare. E per rigliori ingegni delle nostre scene. allacciarmi a quanto detto prima, anche gli esiti finali dei laboA questo discorso se ne collega un altro che considero altretratori scolastici, dopo il «saggio» in cui si commuovono amitanto cruciale. Con una delibera del Cda abbiamo deciso che il ci e parenti, dovrebbero essere messi in circolo per incontrare nostro Stabile dovrà intrecciare un rapporto molto stretto con due o tre piazze di pubblico vero, che non conosce gli antefatle scuole. Per non creare fraintendimenti, non intendo occuti e valuta il lavoro per quello che è. E a corollario di quest’azioparmi in prima persona di formazione, che non rientra tra le fine destinata agli studenti, vorrei inoltre creare delle borse di nalità primarie di un Teatro Stabile. Il nostro ingresso negli ististudio per inviare i più motivati all’estero, a fare conoscenza tuti – per il momento uno a Vicenza, uno a Padova e uno a Vesul campo di cosa vuol dire fare teatro: al loro ritorno avrannezia – ha invece l’obiettivo di mettere in contatto con la conno sedimentato, attraverso gli spettacoli visti, il senso e le mocreta realtà teatrale chi sia davvero interessato a conoscerla, a tivazioni di quest’arte, divenendo di sicuro la base di un pubcominciare dagli insegnanti, che sono un tassello fondamenblico nuovo se non i protagonisti del teatro di domani. (l.m.) ◼ tale. Una volta costituito un gruppo davvero convinto, lo vor- dintorni / teatro teatro 68 — dintorni cinema Parte la lxvi Mostra del Cinema Dal 2 al 12 ottobre un susseguirsi di inediti e classici artistica ed etica, pur a fronte della crescente (enorme) perdita di peso delle forme espressive che si sono proposti di nobilitare. Il loro è stato uno stimolo importante, che ci ha spinto a riprendere il lavoro proprio dal punto di arrivo di Venezia 2008. Tenendoci alla larga dagli effetti di novità e d’attualità, volevamo considerare il cinema come cultura del contemporaneo: dovevamo provarci. Dietro al programma della LXVI Mostra, c’è stata dunque la volontà di intendere la cultura come una serie di bat- L a l xvi Mostr a del Cinema si pro- dintorni / cinema spetta estremamente interessante da molteplici punti di vista, a cominciare dalle tante sezioni in cui è suddivisa e dall’intersezione tra pellicole italiane e artisti provenienti davvero da tutto il mondo. Per presentarla ai lettori niente ci è sembrato più efficace che pubblicare uno stralcio dell’incisivo e poetico intervento del direttore artistico Marco Müller, che l’ha disegnata e rifinita nei minimi particolari. La versione integrale del testo è consultabile on line al sito www.labiennale.org. Marco Müller; nella pellicola le attrici della Mostra «Sono ancora molti i cineasti che seguitano a battersi per serbare al loro lavoro il massimo di dignità taglie d’ordine estetico e morale, i problemi d’ordine morale come qualcosa che coinvolge profondamente il mondo delle scelte personali e dell’immaginario, e l’immaginario come un universo in rapporto con lo stile. Problematizzare la pertinenza e i confini del cinema contem- Tutti i film in concorso al Lido I film sono riportati secondo l’ordine cronologico della rassegna e oltre al titolo e al regista indicano anche gli interpreti principali. • Jessica Hausner, Lourdes, Austria, 99’ Sylvie Testud, Léa Seydoux, Bruno Todeschini 4 settembre 17.00 – Sala Grande; 5 settembre 13.30 – PalaBiennale • Giuseppe Tornatore, Baarìa, Italia, 150’ Francesco Scianna, Margareth Madè, Raoul Bova, Enrico Lo Verso, Michele Placido, Vincenzo Salemme, Monica Bellucci, Laura Chiatti 2 settembre 19.00 – Sala Grande; 20.00 – PalaBiennale • Werner Herzog, Bad Lieutnant: Port of Call New Orleans, Usa, 121’ Nicolas Cage, Eva Mendes, Val Kilmer, Michael Shannon 4 settembre 19.15 – Sala Grande; 20.30 – PalaBiennale • Todd Solondz, Life During Wartime, Usa, 96’ Ciarán Hinds, Shirley Henderson, Allison Janney, Charlotte Rampling, Ally Sheedy, Michael Kenneth Williams 3 settembre 19.45 – Sala Grande; 20.30 – PalaBiennale • Yonfan, Lei Wangzi (Prince of Tears), Taiwan-Hong Kong, Cina, 120’ Chih-Wei Fan, Terri Kwan, Joseph Chang, Kenneth Tsang, Zhu Xuan 4 settembre 22:00 – Sala Grande; 22:40 – PalaBiennale • John Hillcoat, The Road, Usa, 112’ Charlize Theron, Viggo Mortensen, Guy Pearce, Robert Duvall 3 settembre 22.00 – Sala Grande; 22.15 – PalaBiennale • Patrice Chéreau, Persécution, Francia, 100’ Romain Duris, Charlotte Gainsbourg, Jean Hugues Anglade, Alex Descas 5 settembre, 19.30 – Sala Grande; 20.30 – PalaBiennale • Claire Denis, White Material, Francia, 100’ Isabelle Huppert, Nicolas Duvauchelle, Isaach De Bankolé 5 settembre, 19.45 – Sala Grande; 6 settembre, 20.30 – PalaBiennale • Pou-Soi Cheang, Yingoi (Accident), Cina-Hong Kong, 89’ Louis Koo, Richie Jen, Michelle Ye 5 settembre, 22.00 – Sala Grande; 22.20 – PalaBiennale • Shinya Tsukamoto, Tetsuo the Bullet Man, Giappone, 80’ Eric Bossick, Akiko Monou, Shinya Tsukamoto 5 settembre 24.00 – Sala Grande; 11 settembre 22.15 – PalaBiennale • Michael Moore, Capitalism: a Love Story, Usa, 120’ (documentario) 6 settembre 22.00 – Sala Grande; 22.20 – PalaBiennale dintorni — 69 cinema cultura del contemporaneo corrispondono situazioni diverse tra loro: la punta, l’occipite del presente (ma è un presente che ci scivola di continuo tra le dita); la libertà nei confronti di un passato al quale non è più necessario riallacciarsi e che non c’è più nemmeno bisogno di criticare; una nuova partenza, a partire da un certo (quale?) evento fondante ma fuori dai legami con la tradizione; la volontà di parlare nello specifico, in modo competente, tecnico-scientifico. Situazioni mai riunite in una pratica comune, perché, a datare dalla fine dell’episodio postmoderno, i cineasti hanno fatto fatica a rimettersi dal trauma inconfesso che rappresenta, nonostante tutto, la rinuncia al voler cercare un’origine, rifarsi a una tradizione. Eppure, ogni fantasia di ripresa e reinvenzione di un passato considerato • Vimukthi Jayasundara, Ahasin Wetei (Between Two Worlds), Sri Lanka, 80’ Thusitha Laknath, Kaushalya Fernando, Huang Lu 7 settembre 15.00 – Sala Grande; 18.00 – PalaBiennale • Jacques Rivette, 36 Vues du pic Saint Loup, Francia, 84’ Jane Birkin, Sergio Castellitto, André Marcon, Jacques Bonnaffé 7 settembre 19.00 – Sala Grande; 20.30 – PalaBiennale • Samuel Maoz, Levanon (Lebanon), Israele, 92’ Yoav Donat, Itay Tiran, Oshri Cohen 8 settembre 17.00 – Sala Grande; 9 settembre 13.00 – PalaBiennale • Francesca Comencini, Lo spazio bianco, Italia, 96’ Margherita Buy, Guido Caprino, Salvatore Cantalupo 8 settembre, 21.30 – Sala Grande; 22.10 – PalaBiennale come scrigno di insospettate gioie possiede qualcosa di salutare, per lo meno come sberleffo allo stato di melanconia permanente in cui versano tutti i nostalgici che, dalla fine degli anni ottanta, piangono la morte del cinema. (Una delle prove che il cinema non è morto? Il fatto che sia sempre possibile, e spesso anche divertente, provarsi a rifare ciò che è già stato fatto. Il risultato non sarà comunque identico). Al cinema i cambiamenti sono sovente stati meno bruschi che altrove, tanto dentro alla macchina industriale che fuori di essa (persino nel cinema sperimentale o di poesia). C’è da chiedersi come mai non esista un altro settore della produzione culturale do- ve il pubblico non specialista sappia accettare così di buon grado di frequentare le opere del passato assieme alle “novità” del presente (per questo, alla Mostra, restiamo ancorati alle nostre programmazioni retrospettive, alle “riscoperte” ancora possibili nel corpo del cinema italiano di ieri, che quest’anno ancora la continuazione della monografia «Questi fantasmi» consentirà). Una risposta possibile: perché c’è qualcosa che, nel cinema, non cambia, perché si possono vedere nello stesso giorno un film di Jacques Tourneur e uno di Abbas Kiarostami, uno di Elia Kazan e uno di Johnnie To, senza mai avere la sensazione netta di che il viaggio che ci porta lontano sia quello negli stili, invece che nel tempo. È per questa ragione che il programma della Mostra 2009 intende testimoniare della vitalità dell’utilizzo di pedali diversi, della miscela di alto e basso, dell’unione tra l’esercizio rigoroso del raziocinio e il pieno abbandono dei sensi, della frequentazione dell’ironia serbando un profondo senso di pietas». ◼ Marco Müller • Shirin Neshat, Zanan Bedoone Mardan (Women Without Men), Germania, 95’ Pegah Ferydoni, Shabnam Tolouei, Orsi Tóth 9 settembre 17.00 – Sala Grande; 10 settembre 13.00 – PalaBiennale • Fatih Akin, Soul Kitchen, Germania, 99’ Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Uenel, Anna Bederke, Pheline Roggan 10 settembre, 19.30 – Sala Grande; 20.30 – PalaBiennale • Michele Placido, Il grande sogno, Italia, 101’ Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Luca Argentero, Laura Morante, Silvio Orlando 9 settembre 19.30 – Sala Grande ; 20.30 – PalaBiennale • Giuseppe Capotondi, La doppia ora, Italia, 95’ Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Giorgio Colangeli 10 settembre, 22.00 – Sala Grande; 22.20 – PalaBiennale • George Romero, Survival of the Dead, Usa, 90’ Alan Van Sprang, Kenneth Walsh, Devon Bostick, Kathleen Munroe 9 settembre 22.00 – Sala Grande; 22.20 – PalaBiennale • Jaco van Dormael, Mr. Nobody, Francia, 148’ Jared Leto, Diane Kruger, Sarah Polley 11 settembre 17.00 – Sala Grande; 12 settembre, 12.45 – PalaBiennale • Ahmed Maher, Al Mosafer (The Traveller), Egitto, 125’ Omar Sharif, Cyrine AbdelNour, Khaled El Nabawy 10 settembre 16.45 – Sala Grande; 11 settembre 13.30 – PalaBiennale • Tom Ford, A Singleman, Usa, 99’ Colin Firth, Julianne Moore, Matthew Goode 11 settembre 19.45 – Sala Grande; 20.30 – PalaBiennale dintorni / cinema poraneo può, forse, non bastare. Sotto quel nome, coesistono pratiche che condividono uno spazio culturale e sociale, ma sono diverse al punto che la loro “contemporaneità” va continuamente ridiscussa: non è categoria o periodizzazione, e nemmeno uno stile che può coesistere accanto al moderno. (La modernità, persino la “modernità necessaria”, non può che essere, per definizione, effimera e transitoria. Conduce verso qualcosa di diverso – per esempio, un’altra modernità. Anche quest’anno, uno dei risultati provvisori del nostro lavoro è che la “fine della modernità”, la fine dei grandi racconti e della riflessività, va cercata soprattutto presso i cineasti che vengono da paesi dove la modernità, almeno per come noi l’intendiamo, aveva messo decenni a penetrare). Il cinema è ormai anche altro dal cinema: un insieme di idee, forze, proprietà, capacità, miti, storie che attraversa i film (quelli prodotti dall’industria come quelli realizzati fuori da essa) e che attraversa la nostra storia, dentro i film e al di là di essi. Al cinema come 70 — dintorni danza Da Pechino alla Francia, «Marco Polo» sbarca a San Marco Prodotto da Pierre Cardin lo spettacolo dell’étoile Marie Claude Pietragalla D di Letizia Michielon dintorni / danza opo l’entusiasmo suscitato alle ultime olimpia- di di Pechino e durante la tournée francese al Palais de Congres, ove è stata applaudita da oltre trentamila spettatori, la commedia musicale Marco Polo, prodotta da Pierre Cardin e organizzata da Atri Eventi, Comune e Venezia Spettacoli, è stata rappresentata in Piazza San Marco in prima assoluta italiana lo scorso 12 luglio, riscuotendo un caloroso successo. Il Marco Polo immaginato da Marie Claude Pietragalla – etoile dell’Opera di Parigi e direttrice del Ballet de Marseille – appare all’inizio dello spettacolo come un uomo solo, bendato per le ferite, imprigionato a una tavola di legno, scosso dai sussulti e dal desiderio di prendere un volo che sembra impossibile. La salvezza è affidata all’immagine di una donna, la Dama Bianca, grazie alla quale egli intuisce, come dal fondo della propria coscienza, il riflesso di un sogno, una speranza di libertà e di forza. L’emozione che riesce a destare Julien Derouault, vigoroso protagonista dello show, nasce proprio dall’impasto tra la fragilità dolente di questo eroe, simbolo dell’uomo di tutti i tempi, e l’energia vorticosa che il suo impulso vitale scatena: le bende diventano poco per volta una corazza invincibile, le fratture fonte di amore prorompente. Il suo è dunque un viaggio di formazione, che attraversa culture e tradizioni di ogni tempo insieme a misteriosi territori dello spirito. Dalla veneziana città d’acque, sorta di placenta originaria, Marco viene trasportato infatti oniricamente nel deserto della Cina; scampato a un naufragio, si imbatte nel popolo degli spiriti della Terra e affronta in duello il Gran Khan, mettendo alla prova le proprie qualità di atleta e guerriero. Nel secondo atto appare invece uno scenario futurista: l’energia ritmica pulsante e lo scontro Julien Derouault in Marco Polo con la modernità spezzano le sue ultime paure, e, ormai uomo maturo, è pronto per affrontare l’incontro con la Dama Bianca (Marie Claude Pietragalla). Il passo a due conclude liricamente lo spettacolo siglando con un notturno romantico l’incalzante climax della seconda parte. Lo show di Pietragalla-Derouault mira alla fusione di diversi linguaggi artistici (musica, danza, teatro, arti figurative), in un crocevia di culture che unisce idealmente Occidente e Oriente. All’interno dello stesso linguaggio si ricerca inoltre la massima varietà stilistica, avvicinando danze rituali, il virtuosismo dell’hip hop e delle arti marziali a spunti di danza classica e moderna; arie della tradizione operistica italiana, suggestive melodie cantate in persiano e mandarino a elaborazioni elettroniche; simboli scenici essenziali e animazioni video all’effetto live prodotto da grandi vasche laterali, in cui scorrono cascate d’acque intarsiate da giochi di luce. Mentre Marco Polo lotta per realizzare il sogno che porta in sé, la Dama Bianca appare come un angelo alato, una guida: figura, forse, dell’anima candida dell’eroe. Straordinario l’atletismo e la fantasia gestuale dei protagonisti, oltre che dell’intera compagnia di ballo. In scena appare un autentico teatro del corpo, plastico riflesso di un’avventura iridescente, al confine tra realtà e immaginazione. In mezzo al pubblico – quasi duemila presenze – si scorge seduto nelle prime file lo stesso Pierre Cardin, accompagnato dal nipote Rodrigo Basilicati. Come Marco Polo, anche il celebre stilista si lancia in sempre nuove sfide, guardando al futuro. Uno dei prossimi traguardi è rappresentato dal Palazzo della Luce, avveniristica costruzione che lo stilista veneto amerebbe vedere realizzata in Europa, magari nella nostra regione. Pensato per illuminare la notte come un faro pulsante, il progetto, che utilizza fonti di energia alternativa, si profila come ecologico a emissione zero. Dopo la costruzione, che richiederà quattro anni, una parte dell’enorme città-palazzo, capace di ospitare al proprio interno negozi, hotel, giardini, università e sale congresso, verrebbe acquistata dallo stesso Cardin per dare vita al primo ateneo mondiale della moda. Una versatilità, quella dello stilista veneziano – unico tra i suoi colleghi a essere stato ammesso tra gli immortali dell’Accademia di Francia – che non cessa di stupire, spaziando nei campi più diversi della cultura. Il segreto di Cardin è quello di usare la creatività per produrre creatività, innescando un circolo virtuoso ove opportunità di lavoro e sperimentazioni si intersecano generando preziose sinergie e nuova linfa vitale sia nel mondo dell’imprenditoria che in quello dell’arte. Esempio raro di una lungimiranza che crede nella cultura come fonte di bellezza e riesce al tempo stesso a valorizzarne le potenzialità produttive. ◼