I t i n e r a r i
Testo e foto di Bruno Manunza
La città
La città sorge nella piana che si affaccia sul golfo omonimo; oltre ad essere il
capoluogo di provincia, Oristano vanta una giovane vocazione turistico balneare,
notevoli specialità enogastronomiche ed una importante produzione vinicola.
Basti per tutti il nome della Vernaccia: il vino DOC caratteristico della zona.
Il cuore della città comprende la piazza Roma, con la bella torre di San Cristoforo
detta anche Porta Manna o anche torre Mariano II, dal nome del giudice di
Arborea Mariano II, padre di Eleonora di Arborea. Egli la fece costruire nel 1291
insieme al sistema murario di difesa. Da qui seguendo la via Dritta, oggi chiamata Corso Umberto (la passeggiata degli Oristanesi) si raggiunge piazza Eleonora
d’Arborea, chiamata una volta piazza di Città, con al centro il Monumento alla
giudicessa. Sulla piazza si affaccia il Palazzo del Municipio.
Poco distante si trovano la chiesa di San Francesco, la cattedrale della Beata
Vergine Assunta e il Seminario Arcivescovile dell’Immacolata.
Piazza Eleonora di
Arborea
L’Antiquarium Arborense.
ORISTANO
E DINTORNI
Fenicotteri rosa
(Phoenicopterus
ruber), nello stagno di
Sale e Porcu
L
a città di Oristano occupa una posto d’onore nella storia sarda. Divenuta importante attorno al 1000, quando le autorità politiche e religiose di Tharros si trasferirono qui alla ricerca di lidi più tranquilli e sicuri, il centro divenne sede e capitale del Giudicato di Arborea. La statua del suo Giudice più famoso Eleonora, che
si battè ostinatamente contro gli aragonesi per l’autonomia della Sardegna, occupa la piazza centrale della città.
L’occupazione aragonese, seguita alla sconfitta nella battaglia di Sanluri, fece scivolare
l’economia e lo sviluppo della zona in una profonda depressione durata fino ai primi anni del ‘900 quando la
bonifica di Terralba e Arborea dal 1919, e quella del Tirso dal 1931, determinarono lo sviluppo di ampie aree
agricole, cui si sono affiancate attività industriali e di produzione ittica.
Eleonora
Barche di pescatori
ormeggiate nel piccolo
porticciolo di Marceddì
58
Eleonora di Arborea è stato uno dei principali personaggi femminili della storia d’Italia. Nata nel 1347 ad
Oristano da Timbora de Roccaberti e Mariano IV, giudice di Arborea, il cui dominio si estendeva su un terzo
della Sardegna fino a Sassari, Eleonora visse in un periodo di continue ribellioni. Sposò il genovese
Brancaleone Doria, assicurando in questo modo la pace con la Repubblica di Genova e un alleanza contro il
dominio degli Aragona. Morto il padre nella grande pestilenza del 1376 ed uccisi dagli aragonesi il fratello
Ugone III con l’unica figlia Benedetta, Eleonora assunse la podestà del giudicato in nome del figlio minorenne divenendo la giudicessa. Ella combattè due lunghe guerre contro gli aragonesi, fino a quando nel 1404 morì
prematuramente di peste. In sostanza la morte le risparmiò l’onta della sconfitta, quando nel 1409, con la battaglia di Sanluri, il giudicato d’Arborea e la Sardegna intera iniziò la sua caduta fino alla fine dell’indipendenza. È conosciuta come grande legislatrice: perfezionò il codice di leggi civili e penali noto come la Carta de
Logu. La Carta, scritta in logudorese, trattava il diritto penale, i reati e le pene relative; l’ordinamento amministrativo dei giudicati e dei villaggi; i più importanti diritti ed obblighi civili delle popolazioni. Il grande valore
attribuito al suo lavoro fece si che il codice venne esteso durante il dominio aragonese, spagnolo e piemontese a quasi tutta la Sardegna e restò in vigore fino al 1827. Viene considerata come una delle opere giuridiche
più importanti del medioevo.
Dalla via Dritta, da una piccola traversa, si raggiunge la piazzetta Corrias dove,
nello storico palazzo Parpaglia, si trova l’Antiquarium Arborense, il grande museo
archeologico sorto nel 1938 con l’acquisizione della collezione da parte dell’avvocato Efisio Pischedda. È dislocato in tre sale: la prima ospita reperti preistorici
e nuragici, materiale di origine fenicio-punica e ceramiche etrusche, greche e
romane; nella seconda sono presenti tre importanti retabli, elaborate pale d’altare provenienti da diverse chiese oristanesi; la terza sala è interamente dedicata al
periodo dei giudicati.
Le coste e gli stagni: un ambiente
ricchissimo
Uscendo da Oristano, sulla provinciale 1, si passa davanti al santuario della
Madonna del Rimedio; la strada attraversa il Sinis e raggiunge Cabras, arrivando
fino a Torregrande, il porto turistico di Oristano. Cabras costituisce il punto di partenza per un itinerario ecologico all’interno della penisola del Sinis, situata a
nord di Oristano fino alle pendici del Montiferru.
Il Sinis è uno scrigno verde che contiene un vasto campionario di ambienti ed ecosistemi, con zone umide di
grandissimo valore; tra queste annoveriamo le lagune di Mistras, e Cabras, gli stagni di Mar’e Pauli, Paili e’ Sali,
Sale e’ Porcu. In queste aree acquatiche, ricche di canneti e vegetazione palustre, nidificano un gran numero
di uccelli come aironi e garzette mentre svernano colonie numerosissime di fenicotteri rosa.
A Cabras le attività principali sono l’agricoltura e la pesca. Nella zona ci sono oltre duemila ettari di peschiera che riforniscono molti mercati della Sardegna. Ricco di zone umide è anche il tratto di costa a sud di
Oristano, dove si trovano gli stagni di Santa Giusta, S’Ena Arrubia e Marceddì. Quest’ultimo è, dopo quello di
Cabras, il più vasto della Sardegna: è rinomato per le arselle e per la pregiata produzione ittica. Poco più a
sud dello stagno di Marceddì si trova la Costa Verde, un tratto di litorale molto caratteristico per le enormi dune
sabbiose dell’entroterra.
Dune a Torre dei
Corsari, a pochi chilometri da Oristano. Uno
dei luoghi più caratteristici della Sardegna
Informazioni sul
Museo Archeologico
Antiquarium
Arborense.
Indirizzo: palazzo
Parpaglia, piazza
Corrias.
Orari di apertura:
(inverno) 9-14 e 15-20
Il martedì 9-14 15-23
(estate) 16-20 la domenica
Ingresso:
3 intero
1.50 ridotto
1 per le scuole
59
C U L T U R A
E
S T O R I A
N
ei primi decenni del 1300, i catalani iniziarono la conquista del Regno di Sardegna,
del quale erano stati infeudati da Papa Bonifacio VIII. L’occupazione dei territori
controllati dai pisani fu abbastanza semplice, dato che fu sostenuta anche dagli altri
regni sardi, i quali mantennero la loro indipendenza, ma dovettero sottoporsi in condizione di vassallaggio verso i catalani. Lo status di sottoposti non era vissuto con
serenità dai regni isolani, che erano stati per secoli dei reami sovrani e perfetti, ricchi
ed in forte espansione, prima della macchinazione politica dell’ambiguo Bonifacio VIII.
L’unico capace di sostenere la rivolta contro i catalani fu Mariano IV, Re del Giudicato d’Arborea. Iniziò così
una lunga guerra tra quest’ultimo e Pietro IV d’Aragona, che fu sconfitto in più riprese e costretto, con l’armistizio del novembre 1354, a riconoscere l’indipendenza del Regno d’Arborea, oltre a promettere di non intraprendere nessuna azione vendicativa contro i sardi che avevano sostenuto Mariano IV. I cittadini della roccaforte algherese furono risparmiati dalle ritorsioni di Pietro IV, ma dovettero abbandonare il borgo, per essere
sostituiti con cittadini catalani fedeli, provenienti principalmente da Tarragona.
Da quel lontano novembre la cittadina iniziò ad assumere un carattere prettamente catalano, lontano dai
canoni del resto dell’isola, anche quando tutta la Sardegna cadde sotto il dominio spagnolo. Alghero era catalana non solo giuridicamente, ma nelle architetture, nella lingua, nelle tradizioni, nel cuore, tanto da meritare il nomignolo di “Barcellonetta”. Nel 1412 i cittadini ebbero un importante ruolo nella resistenza contro gli
attacchi di Guglielmo III, il Visconte di Narbona; da questo avvenimento nacque la famosa usanza di bruciare un fantoccio con le sembianze di soldato francese e di cantare una famosa canzone popolare, inno alla
sconfitta di Guglielmo e dei sassaresi traditori che lo avevano aiutato.
ALGHERO
c
LA
ATALANA
Testo e foto di Gian Luca Dedola
I lavori della Cattedrale
furono iniziati nel ‘500,
LE MURA DEL POPOLO
ma per essere conclusi
La posizione strategica di Alghero, che permetteva di resistere a qualsiasi assedio, fu il motivo per il quale furono innalzate le imponenti fortificazioni. Inoltre, nel 1500 la città era lo scalo più importante dell’isola, nonché
centro di commercio dei numerosi prodotti provenienti dalle campagne circostanti. In conseguenza al suo
ruolo, divenuto sempre più di primo piano, si costruì la Cattedrale e la chiesa di San Francesco, mentre nel
1503 si fregiava del titolo ufficiale di Città Reale. Nelle cronache di quegli anni si evidenzia la vivacità dei
commerci, la lussureggiante agiatezza delle classi più abbienti; ogni giorno in città si riversavano persone da
tutto il circondario e la Piazza Civica era il centro attorno al quale ruotava questo vortice di benessere. Gli
algheresi e gli altri isolani s’incontravano durante il giorno, ma la notte “i sardi” dovevano abbandonare il centro, oppure rischiare di passare la notte in carcere. Alcune testimonianze narrano che si rischiasse di essere
scaraventati giù dalle mura, se ci si tratteneva in città dopo la chiusura dei cancelli, sebbene queste estreme
misure furono realmente attuate nei periodi di guerra. In quegli anni si consolidò la divisione tra algheresi e
sardi, almeno concettualmente, che fino a pochi decenni fa dava la convinzione, a molti abitanti del borgo, di
non appartenere al resto dell’isola. In realtà, seppure si mantenesse il dialetto e forse i costumi, le epidemie di
peste del ‘300 e del ‘600, oltre a quella più recente di colera (‘800), avevano falcidiato gran parte dell’originaria popolazione di catalani, che venne lentamente rimpiazzata dagli abitanti del circondario.
dovettero aspettare
l’arrivo dei Savoia. La
messa in algherese,
che viene recitata in
determinate occasione,
è un attimo realmente
coinvolgente, non solo
per i cittadini, ma per
chiunque vi partecipi.
Negli ultimi anni il
campanile è stato
aperto al pubblico,
divenendo il più bel
punto panoramico sull’intera città.
I CATALANI DI OGGI
Mentre assaggio un delizioso liquore all’arancio, Doloretta Caneglias, catalana certificata, mi racconta
com’era Alghero a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, ancora abitata dalle famiglie nobili spagnole,
anche se la ricchezza di molte di queste risiedeva solo nel titolo e nella loro dignità, senza possedere però
nemmeno i soldi per comperare il pane. Dall’altra c’erano anche persone come Donna Renata, Donna
Antioga, Donna Olimpia, così benestanti che alcune di loro dovevano mettere i soldi nel balcone a cambiare aria, almeno ogni tanto, per evitare che ammuffissero. Alghero aveva seguito la decadenza dell’Impero
Spagnolo, già dagli inizi del 1700, eppure la lingua e l’identità algherese resisteva, le persone che venivano
da fuori dovevano imparare il dialetto per integrarsi; i “sardi” introdussero alcuni termini, ma non cambiarono la lingua ufficiale.
Agli inizi degli anni ’60, del secolo appena trascorso, anche la storica resistenza della lingua iniziò a vacillare, venne inaugurata la mondovisione e la cultura del Rock 'n' roll invase il mondo, venivano diffuse immagini di un lontano benessere, le persone sentivano il bisogno di seguire uno stile, nascevano i “trend”, le mode
globali; inoltre la scuola italiana premeva per la difesa della lingua ufficiale della neonata Repubblica.
“Quando ero all’asilo, mi racconta Francesco Ballone, la suora aveva richiamato mia madre perché mi aveva
sentito parlare in algherese, come se avessi commesso un’azione gravissima”. In effetti la parlata locale si era
conservata soprattutto tra le persone con una scarsa istruzione scolastica e il suo uso, di conseguenza, significava mancanza di cultura; ovviamente non era il caso di Francesco e di tante altre persone come lui, attaccate a quella lingua musicale dei nonni che riempiva le vie del Centro Storico. L’ignoranza era molto più evidente in chi sosteneva quelle tesi di censura, attualmente ribaltate dalla corsa, a livello planetario, alla con61
C U L T U R A
La Torre dell’Esperò
Reial è la più grande
del sistema di fortificazione innalzato durante
il governo iberico.
Viene comunemente
chiamata Torre di
Sulis, in memoria del
famoso burocrate fedele ai Savoia.
E
S T O R I A
servazione delle lingue minori. L’algherese deriva direttamente dal catalano, una lingua romanza riconosciuta; attualmente tra gli studiosi della lingua si dibatte, con la divisione in diverse correnti di pensiero, l’opportunità di insegnare un dialetto più vicino alla lingua madre, oppure di preservare l’algherese nella sua naturale evoluzione correntemente parlata.
Don Nughes, un sacerdote annoverabile trai massimi esperti di Algherese, nella sua Escola de Alguerés
“Pasqual Canu”, da oltre vent’anni insegna il suo dialetto a chiunque voglia impararlo, residente o meno in
città. “L’algherese sembrava una lingua destinata a scomparire, mi spiega, ma proprio negli ultimi anni si è
avuta una riscoperta di questo lato dell’identità cittadina”. Don Nughes mi trasmette chiaramente il suo senso
d’intendere “essere algherese”, che non è così strettamente legato all’origine catalana: “Gli algheresi erano tutti
quelli che venivano ad abitare in città, che si dovevano integrare in una realtà nella quale si parlava solo
questo dialetto. Con l’espandersi di Alghero le cose
cambiarono, arrivavano sempre più forestieri che riuscivano a sopravvivere in comunità, senza dover per
forza abbandonare il loro dialetto, la necessità d’integrarsi veniva meno”.
Il discorso si conclude con una considerazione sulla
conservazione della lingua: “Se devo decidere tra
conservare la mia lingua o introdurne una nuova,
seppure sia la lingua madre, preferisco la prima ipotesi, legata alla mia storia ed alla mia cultura”.
Insomma, non si tratta solo di etichetta.
Francesco mi fa notare come molti catalani vengano
a visitare Alghero convinti che tutti i cittadini parlino
la loro lingua, rimanendo delusi nel costatare che,
nonostante tutti li capiscano, la stragrande maggioranza non è in grado di affrontare una conversazione. Sembra che queste situazioni siano state create
dalle false attese pubblicizzate dall’industria del folklore, esaltando la singolare caratteristica del borgo,
ma ovviando la concreta descrizione della realtà linguistica locale.
“È come andare a Hong Kong ed aspettarsi che tutti
parlino un inglese perfetto”. Con questa simpatica
battuta, un brillante barista del borgo riassume il suo
pensiero su queste aspettative, e continua “Io ci ho
fatto scalo mentre andavo in Thailandia e con quella
convinzione, per poco non perdo la coincidenza,
cercavo l’imbarco Twenty (venti) e mica lo sapevo
che quelli lo pronunciavano Zuenzy. In questo Bar
vengono molti ragazzi catalani, entrano ed inizia a
parlare a tutta birra, e prima che tu li abbia inquadrati o ti sia abituato a quella sorta di algherese accelerato, ti chiedono se parli inglese, ti sembra normale”?
recita il rosario in italiano, alcuni, tanti, moltissimi rispondono in catalano. Ormai è quasi inesistente la convinzione che un cittadino di Alghero non sia sardo, alcuni giovani studenti ai quali ho rivolto questa domanda mi hanno guardato come se fossi un po’ picchiatello.
Forse la cultura di questo popolo è destinata a sparire, oppure a mutare in qualcos’altro di poco conforme
all’originale; ci sono persone che ritengono ci sia una strumentalizzazione dei loro costumi, tante altre che
non si preoccupano nemmeno di queste discussioni: vogliamo chiamarli catalani?
Probabilmente è utile solo a noi, per cercare di inquadrare un popolo ideale, disperso nelle vie della nuova
città, cresciuta velocemente sulla spinta del turismo balneare; ma quando le campane della Cattedrale suonano per la messa, quando il mercato apre ancor prima del sorgere del sole, quando le tiepide serate primaverili rinfrescano il lungomare, gli algheresi lasciano le loro case ed in gesti senza tempo, perpetuano con naturalezza la loro identità.
La banchina nella foto
è una delle più vecchie
di Alghero, insieme a
quelle che costeggiano
i bastioni ed un tempo,
erano riservate quasi
esclusivamente ai
pescherecci.
Attualmente il porto di
Alghero è uno degli
scali turistici più grandi
dell’isola.
Nella pagina accanto:
Il mercatino del mercoledì fa rivivere antiche
scene popolari, quando i mercanti di tutto il
circondario si riversavano in città per la
vendita dei loro prodotti.
La chiesa di San
L’IDENTITA’ RITROVATA
Attualmente si sta facendo molto per conservare e
divulgare le tradizioni del borgo catalano, non solo
linguistiche o culinarie, visto l’antica tradizione
gastronomica di Alghero, ma anche sociali e religiose, sebbene quest’ultime fossero ben consolidate
nelle coscienze dei cittadini. La Settimana Santa
Algherese è uno degli esempi più eclatanti delle tradizioni tramandate dai catalani, ogni anno sono centinaia i fedeli che si accodano con le fiaccole alla
lunga processione, mentre sono migliaia quelli che la
osservano lungo il suo percorso. Quando il corteo si
snoda tra la folla raccolta ai lati delle strade, è un attimo d’intensa religiosità e riflessione e mentre il prete
62
Francesco, con il campanile leggermente più
Doloretta e Don Nughes. Don Nughes, grazie alla
basso di quello della
sua scuola di algherese ed alla rivista dell’Alguer,
Cattedrale, è stata
da oltre vent’anni cerca di diffondere la coscienza
costruita nella metà
di un’identità algherese, storica, linguistica e popo-
del XIV secolo. Può
lare. Per la conservazione del dialetto, la sua spe-
essere considerata la
ranza risiede negli ambienti familiari; quindi che
Cattedrale affettiva
persone come Doloretta Caneglias, algherese DOC,
degli abitanti del cen-
parli ai suoi nipoti nella stessa lingua che ha impa-
tro storico.
rato dai genitori. “Il bilinguismo è accettato per
l’inglese, il francese e le altre parlate estere, spiega
il prelato, eppure raramente il nostro dialetto viene
così ben accolto”.
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66
L’
SARDEGNA
11 Aprile 2005, quindici giorni dopo la Pasqua, si celebra la 486ª Sagra di S.Antioco
Martire patrono dell’Isola. È festa antichissima “ignorandosene il principio” che per alcuni
studiosi risale al momento in cui i primi fedeli, attirati dalla fama del Santo, cominciarono
a visitare il luogo in cui egli morì e dove in seguito fu ritrovato il suo corpo. La testimonianza più antica della celebrazione della festa si trova in una disposizione del 29 settembre 1520 emanata dall’arcivescovo di Cagliari, dove si ordina che: ”Tutti coloro che andranno
a S.Antioco in Aprile come in Agosto, a celebrare gli uffici divini, partecipino alle distribuzioni
come si trovassero in sede...”.
Secondo la tradizione, Antioco nacque attorno al 95 – 96 d.C. in Mauritania, allora annessa all’Impero di
Roma. Governatore di questa regione pare fosse lo stesso padre di Antioco, di cui non si conosce il nome, ma
che di certo era di religione pagana, al contrario della moglie Rosa e dell’altro fratello Platano. Padre Tommaso
Napoli nel suo libretto “Vita, Invenzione e Miracoli del glorioso Martire S.Antioco detto volgarmente
Sulcitano” pubblicato a Cagliari nella Reale Stamperia nel 1784 descrive riccamente le opere del Santo:
“Piamente e cristianamente educato il nostro Antioco applicossi dopo i primi studi a quello della medicina,
che gli servì di mezzo opportuno per facilitargli la conversione d’un gran numero d’infedeli…Sparsasi perciò
ben presto la fama del disinteresse, della carità, e dei prodigi del cristiano medico, era incredibile il concorso di ogni genere di persone che a lui ricorrevano per sollievo, e costretto vedeasi chiamato da più parti a
scorrere or in questa or in quella contrada, qual fatica però egli con piacere addossatasi”.
L’Imperatore Adriano, che si trovava verso l’anno di Cristo 126 in quelle regioni d’Africa, fece comparire
Antioco al suo cospetto e lo accusò, nella sua qualità di medico e scienziato, di aver prestato il suo nome ad
una setta nemica dell’impero, di aver negato il culto degli dei per adorare un uomo crocifisso. Decide di mandare il santo in esilio: “onde fatto tosto il rescritto, ed intimatoglielo, fu Antioco consegnato ad un cavaliere,
o capitano chiamato Ciriaco, affinché al luogo il menasse del suo destino. Imbarcati sopra una nave, dopo
sofferte alcune furiose tempeste calmate colle orazioni del santo, approdarono alle spiagge dell’isola di Sulcis,
e trovatala deserta, ivi lo lasciarono in abbandono”.
La leggenda vuole che qui, raccolto in preghiera nella sua grotta, Antioco muore mentre attende di venir prelevato dalle guardie romane che dovevano condurlo a Karales. Subito dopo la sua morte, che la tradizione
fissa attorno all’anno 127, la fama delle sue opere si sparse nel Sulcis e poi in tutta
la Sardegna.
Nel luogo del ”martirio“ del santo moro sulcitano (si tratta di un ipogeo punico
monocellulare che fa parte di un complesso catacombale di notevolissime dimensioni ancora in gran parte inesplorato), sorse il primo nucleo di una delle cattedrali più antiche della Sardegna, il cui primo impianto, unito al cimitero catacombale, risale al V secolo. Una lapide, anche questa databile allo stesso periodo rinvenuta nel 1615 sulla tomba che si suppone quella del santo cristiano, attesta la
storicità del personaggio. L’iscrizione è da ritenersi, verosimilmente, il documento più antico che riguarda Antioco; in questa è detto santo – BEATI SCI ANTHIOCI - e vescovo – PONTIFICIS XRI -. Le strutture originarie della chiesa sono tipiche dell’architettura bizantina. La cupola è l’elemento architettonico più importante e presenta come quella di S. Saturno di Cagliari, le scuffie agli angoli del
quadrato su cui imposta, particolare costruttivo del IV-V secolo.
Il 13 luglio 1102 la chiesa di S. Antioco in Sulcis, donata nel 1089 dal Giudice
Costantino ai monaci Vittorini di Marsiglia, veniva riconsacrata dal vescovo
Gregorio dopo alcune ristrutturazioni e modifiche. Nel 1124 un altro Giudice di
Cagliari, Mariano Torchitorio, donava al Santo l’isola sulcitana che da quel
momento prenderà il nome di Isola di Sant’Antioco.
Importantissima, per il valore storico e letterario, è la donazione fatta l’11 giugno
1216 dalla Giudicessa Benedetta di Lacon Massa e da suo figlio Guglielmo,
Giudice della Provincia di Cagliari, a favore del Vescovo di Sulcis Bandino e dei
suoi successori. La donazione è redatta in un coltissimo volgare sardo (l’originale
è conservata presso l’Archivio di Stato di Torino) e testimonia del ruolo non subalterno della lingua sarda nei
confronti del latino cancelleresco fin dal XIII secolo. Ecco una breve parte iniziale del testo: “Ego Benedita de
Lacono, Donna de Logu, cun fillu miu Doniguellu Guillelmu, pro uoluntade de Deus, Podestandu parte de
Caralis, fazu custa carta pro beni quillat fatu a su Donnu miu Santu Antiogu de isola de Sulki: dau illoi a sa
iscla de Finugu, e a iscla de Logos, e a Cortinas: a iscla Masonis: a iscla Maiori qui est inter aquas a Corru de
ponti, qui sunt custas isclas da y su ponti inoghi in qui intrant ayntru de isola de Santu Antiogu, et sunt da in
chi de sa Clesia de Santu Speradu, de ponti fini a sa terra firma. Custas isclas imoi dau cum omnia causa cantu
si appartenint a pusti custas isclas quindi fazat su Donnu su Piscubu miu de Sulchis, Maystru Bandinu su qui
li at a plaguiri a uoluntade sua, segundu faguit de sas ateras causas de su Piscobadu suu, qui sunt in balia sua:
a issu, et a totus sos Piscobus cantu ant esseri pusti issu in su Piscobadu de Sulchis: bollant pasquiri cun pegulia issoru: bollant fayri imoi silua, o fayri chircas, o piascari, o fayri veruna atera causa, qui torrit a proi a Santu
Antiogu, et a su Piscobadu de Sulchis”.....”. (”Io Benedetta di Laconi, Signora del Luogo, insieme a mio figlio
Donnichellu Guglielmo, per volontà di Dio, governando la regione di Cagliari, faccio questo scritto per il bene
che ha fatto al mio Signore, S.Antioco dell’isola di Sulcis: gli dono le terre di Finugu, le terre di Logos, e quelle
di Cortinas; le terre di Masonis e quelle di Maiori che sono fra le acque a Corru de ponti. Queste terre vanno
dal ponte in qua ed entrano dentro l’isola di Sant’Antioco, e vanno dalla chiesa di Santu Speradu, dal ponte fino
alla terra ferma. Queste terre ora dono con le loro pertinenze e con tutto ciò contengono, perchè il Signor
Vescovo mio di Sulcis, Maestro Bandino, ne faccia ciò che gli piacerà secondo la sua volontà, come fa per le
altre cose del suo Vescovado che sono in suo possesso: le dono a lui e a tutti i vescovi che ci saranno dopo di
lui nel Vescovado di Sulcis: che vi facciano pascolare
il loro bestiame, che facciano legna, questue, peschino o facciano qualsiasi altra cosa che torni a vantaggio di S.Antioco e del Vescovado di Sulcis.“).
Durante la processione
dedicata al santo.
Foto storica della
Sagra di Sant’Antioco.
”Sa Festa Manna“
La festa principale era quella che cadeva il lunedì,
quindici giorni dopo la Pasqua. Il Vidal ricorda la
festa di novembre che ricorda la sua morte, la festa
d’agosto in ricordo della Dedicazione della chiesa ed
infine quella che si festeggia in quaresima e ricorda
la seconda e ultima consacrazione della chiesa fatta
da Pietro, vescovo sulcitano.
Dal giovedì precedente, il Capitolo della Cattedrale
di Iglesias cominciava a preparare per il lungo viaggio a Sulcis la grande e pesante statua di
Sant’Antioco che durante l’anno stazionava nell’ap67
F E S T E
Le zone archeologiche
dell’isola di
Sant’Antico e i famosi
tophet.
68
E
F O L K L O R E
posita cappella in Cattedrale, il cui altare una bolla
di Gregorio XIII del 1584 aveva reso “privilegiato”.
Il simulacro, veniva rivestito con la toga rossa delle
occasioni più celebri e collocato su un carro, trainato da un possente giogo di buoi, i migliori del Sulcis,
parati a festa ed ornati di fiori e condotto fuori da
Iglesias, accompagnato dai membri del Capitolo sino
alla chiesa di San Sebastiano. I processionanti erano
preceduti e seguiti dalla cavalleria, che li scortava
fino al sepolcro del Santo, nell’isola di Sulcis. Dopo
aver sostato a Barega, il cocchio giungeva la sera a
Barbusi, dove si fermava fino all’alba. La notte, trascorsa a Barbusi illuminata da centinaia di fuochi,
era caratterizzata da grandi cene, seguite da balli e
da canti. La mattina seguente il corteo processionale
si rimetteva in cammino e, attraverso Coederra e San
Giovanni Suergiu, raggiungeva il ponte di Santa
Caterina che immetteva nell’isola di Sant’Antioco. I
festeggiamenti si protraevano per quattro giorni dal
sabato a tutto il lunedì. È da ricordare la memorabile
festa del 4 maggio 1615, che a detta dell’Esquirro
superò per la sua importanza i confini della
Sardegna, protraendosi per quattro giorni: “E benché
ogni anno si celebri in maniera solenne e completa,
il quattro di maggio dell’anno 1615, però, si festeggiò più solennemente che mai. Il 18 di marzo di
quello stesso anno, infatti, fu ritrovato il Santo Corpo.
L’Arcivescovo di Cagliari Mons. Desquivel fece preparare per il Papa Paolo V una relazione dettagliata
sul ritrovamento del corpo di S.Antioco, conservata
nell’Archivio Segreto del Vaticano; altra copia,
accompagnata da un reliquiario d’argento che conteneva un osso della gamba del Santo, venne inviata al
re di Spagna Filippo III e l’originale si trova ancora
nella Biblioteca Nacional de Madrid. La notizia si
divulgò rapidamente mentre come ogni anno per la festa del dopo Pasqua, si stava provvedendo a rimettere in
sesto i ponti e le case dell’Isola. Già dal giovedì cominciarono a convergere verso Iglesias folle sempre più
numerose di fedeli. Chi era a piedi e chi a cavallo; tutti allegramente devoti, trasportavano la statua del Santo
e l’urna rivestita di velluto carminio dove era il corpo. Su un’altra portantina era trasportata la testa custodita
in un reliquario d’argento finemente cesellato, con bassorilievi di angeli ed altri fregi “muy curiosos”, che
aveva fatto fare a sue spese Don Francesco Desquivel.
Il sabato giunsero a Sulcis e, tra festose scariche a salve di fucileria, entrarono nella chiesa con un tale fervore che pareva di essere in mezzo a un “giudizio universale”, tanta era l’affluenza di gente. Lo zelo e la devozione dell’immensa folla era tale che moltissimi seguivano le sante reliquie andando in ginocchio per la strada accidentata e invocando il Santo. Alla festa, intervennero moltissimi aristocratici ed un numero esorbitante di cavalieri della nobiltà cagliaritana, abbigliati di stupendi e ricchissimi costumi. Il lunedì, dopo i vespri,
Frà Tommaso Pitzalis dell’Ordine dei Predicatori di Cagliari, tenne un infuocato e straordinario sermone su
S.Antioco che mandò in visibilio i fedeli. Subito dopo, tra salve di fucileria, si formò una grandiosa processione che, partita dal piazzale antistante la chiesa, trasportava su una portantina la statua del Santo, su un’altra
che seguiva erano, invece, la cassa con il corpo e l’urna con la testa. La folla era così incontenibile che chi
non aveva trovato posto nella piazza gremiva il tetto della chiesa; mentre lungo il tragitto del corteo erano disseminati numerosi archibugieri che, al passaggio della statua del Santo, sparavano a salve, secondo un ordine
prestabilito. La processione si concluse tra la musica delle trombe e dei tamburi. E con essa si concluse anche
la festa, la più grande e magnifica di tutti i tempi, per il numero dei partecipanti (vi accorsero gran numero di
forestieri, Castigliani, Aragonesi, Portoghesi, Italiani e Francesi) e per l’abbondanza di merci e di alimenti,
messi a disposizione e offerti all’acquisto, nelle rivendite. Il concorso della gente fu enorme, e l’Esquirro tiene
ad affermare con la sua puntigliosa precisione che il numero dei cavalli fu di 4125, che le “tracas” (i carri
coperti) furono 3000, i carri scoperti 1000, i carrettieri 4000, i barcaioli 150, senza contare la gente intervenuta a piedi che raggiungeva all’incirca il numero di 3000.
”Fura Santus“
Verso la metà del 1800, con la fine delle invasioni barbaresche, si pensò che fosse giunto il momento di riportare a su monimentu, all’altare della catacomba, le reliquie del Santo. L’Amministrazione della città di
Sant’Antioco inoltra al Capitolo e al Vescovo di Iglesias la richiesta per ottenere indietro le reliquie da Iglesias.
Ne seguì una lunga e difficile controversia tra i due comuni, con la reciproca accusa di ”fura Santus“. Nel
1853, le autorità di Sant’Antioco predisposero un piano per riconquistare, con l’astuzia, le reliquie del Santo.
Al momento della partenza, al grido di ”Su santu est su nostu e s’Arrelichia puru“, circondarono la statua del
Santo nel punto dove sorgeva ”sa cruxi de is reliquias“. Scrive Alberto La Marmora, che era allora comandante militare della Sardegna nel suo Itinerario:
Nel 1851, allorchè io avevo il comando militare dell’Isola gli abitanti di Sant’Antioco si opposero a che le reliquie del Santo ritornassero ad Iglesias. Fecero tumulto, per cui io mandai con tutta fretta il vapore con truppa
e con il Giudice istruttore: ma se nella forma avevano torto, turbando l’ordine pubblico, nel fondo avevano
ragione, perché nel 1615 allorchè furono trovate le reliquie si specificò che le medesime sarebbero traslocate
in Iglesias per timore della profanazione dei Saraceni, fino a che Sant’Antioco resterebbe disabitato, ora poi
questo villaggio è molto popolato e può garantire dagli insulti le reliquie e dall’altra parte, dopo la conquista
d’Algeri, non vi è più da temere le invasioni barbaresche. Fu intentata una lite, ed al momento che io scrivo è
stata decisa in favore dei popolani, di modo che le reliquie del Santo ora riposano colà, né si fa più quello
splendido accompagnamento dal Capitolo e dal municipio di Iglesias.
Nel 1852, dopo una definitiva sentenza emessa dal Tribunale di Genova sollecitata dal Vescovo Giovanni
Battista Montixi, i resti del corpo del Santo venivano riaffidati alla città di Sant’Antioco, ed è qui che si tiene
ogni anno, quindici giorni dopo la Pasqua, la festa di S.Antioco, ”Martyr Apostolicus et Patronus totius Regni
Sardiniae“.
Elenco delle chiese sarde dedicate a Sant’Antioco
S.Antioco di Sant’Antioco (CA)
S.Antioco di Bisarcio Ozieri (SS)
S.Antioco di Mogoro (OR)
S.Antioco di Atzara (NU)
S.Platano e S.Antioco di Villaspeciosa (CA)
S.Antioco di Muravera (CA)
S.Antioco di Villamar (CA)
S.Antioco di Sanluri (CA)
S.Antioco di Villasor (CA)
S.Antioco di Ulassai (NU)
S.Antioco di Gavoi (NU)
S.Antioco di Orgosolo (NU)
S.Antioco di Scano Montiferro (OR)
S.Antioco di Palmas Arborea (OR)
Festa
Festa
Festa
Festa
a Bonaria di Cagliari
a Girasole
a Neoneli
di Zeppara (OR)
Simulacro a Dolianova
Simulacro a Iglesias
Veduta del paese di
Sant’Antioco
69
F E S T E
E
F O L K L O R E
L
e origini della Cavalcata risalgono al 1899 quando Umberto I e Margherita di
Savoia, giunti in città per una visita ufficiale, assistettero ad una sfilata di costumi
tradizionali della Sardegna e ad un’esibizione di cavalieri. La festa da quella volta
non fu più ripetuta e solo nel 1951, i soci del Rotary Club Sassari, in coincidenza
di un convegno, organizzarono per gli iscritti provenienti da tutto il mondo una sfilata in costume, in qualche modo molto simile a quella originariamente offerta ai
reali. Da allora è stata ripetuta tutti gli anni nel giorno dell’Ascensione fino a quando, a
causa della soppressione di alcune festività infrasettimanali, è stata definitivamente fissata per la terza domenica di maggio (eccezionalmente spostata quest’anno al 2 giugno).
La sfilata è imponente, grazie ai numerosi gruppi provenienti da ogni angolo della Sardegna che percorrono
le vie della città in uno sfavillio di colori: i rossi della Barbagia, gli azzurri del Sulcis, i verdi del Campidano
e i neri della Gallura. I costumi in genere sono molto vistosi, impreziositi da ricami e da gioielli di ispirazione ispano-moresca, spesso anche in contrasto con la povertà dei paesi di origine. Assai diversi uno dall’altro,
per vari elementi caratteristici, i costumi hanno motivi ricorrenti: in quelli femminili il capo è coperto da un
velo, una cuffia o uno scialle; le gonne sono lunghe e plissettate, il grembiule è ricamato. Più uniforme il
costume maschile, con berretto o ”berritta“, corsetto, gonnellino e mastruca in orbace nero, che è un tessuto
di lana non sgrassata e tessuto a mano. Tra le attrazioni di sicuro impatto vi sono i gioielli, meravigliosi manufatti orafi, nel passato indossati per ornare la sola veste festiva. Altri protagonisti sono i cavalieri, anch’essi in
costume tradizionale, che nel corso della sfilata non rinunciano a mostrare la propria abilità. Il percorso può
essere cambiato, solitamente ciò avviene a causa dei lavori stradali, ma, malgrado deviazioni obbligate, esso
si snoda per le vie del centro concludendosi, in tarda mattinata, nell’immensa piazza d’Italia (un ettaro esatto). Essa viene comunemente definita il ”salotto“ di Sassari, sia per la sua bellezza sia per la sua centralissima
collocazione.
Nel pomeriggio, all’Ippodromo comunale, i cavalieri che hanno partecipato alla sfilata e, che per ragioni di
sicurezza hanno dovuto rinunciare alle corse sfrenate, si affrontano in gare ippiche e si esibiscono in pariglie
ed esercizi equestri. La sera fa da contorno alla
manifestazione un’altra importante espressione del
folclore sardo: la rassegna di danze e canti isolani.
La Cavalcata è sentita dai sardi come un ”appuntamento di Primavera“, un incontro all’insegna della
celebrazione dell’unità del popolo isolano.
Nella pagina accanto:
Cavalieri protagonisti
di una sfrenata corsa
alle pariglias.
In questa pagina:
Il vestito delle vedove
di Ossi.
Tipo di legatura del
fazzoletto del nord
Sardegna.
Cavaliere di Bonorva.
Testo e foto di Pasquale Capone
CAVALCATA
SARDA
LA
71
c u l t u r a
e
s t o r i a
Testo e foto di Enrico Olla
PARCO ARCHEOLOGICO
IL
PRANU
MUTTEDU
DI
Pochi passi più a nord dalla Tomba II, a breve distanza l’una dall’altra, si trovano la Tomba I e un’altra sepoltura megalitica del tipo a circolo, a completamento di quello che è il disegno ingegnosamente creato da chi
un tempo faceva di quest’area un luogo di culto; se infatti riportassimo sulla carta le circonferenze che si otterrebbero legando tra di loro i menhir e i circoli megalitici, otterremmo una straordinaria stilizzazione del sole
con i suoi raggi, che l’antico popolo di pastori locali adorava e rispettava.
Il complesso megalitico rende bene l’idea di quello che l’uomo arcaico fosse in grado di creare, costruire e
pensare, con a disposizione quei pochi materiali e conoscenze che aveva. Il grande ingegno di questi antichi
uomini lo si può ammirare anche nell’altra parte del
parco archeologico, più estesa e maggiormente sviluppata nella campagna dell’altopiano, dove è alta la
concentrazione delle caratteristiche Domus de Janas,
”le case delle fate“. Si tratta di tombe scavate nella
roccia arenaria, composte da uno o più ambienti, talvolta preceduti da un’anticella dove nelle camere
funerarie, accanto agli inumati, erano deposti oggetti di corredo che accompagnavano il defunto nell’aldilà.
Secondo la leggenda, le piccole tombe ipogeiche
sarebbero le casine delle Janas, quelle fatine minuscole e bellissime, dotate di una voce deliziosa.
Queste ”streghe“ scavavano da sole le loro abitazioni e avevano delle mammelle lunghissime che gettavano dietro le spalle per allattare i bambini che portavano dentro ceste legate alla schiena.
Ma la seconda parte del parco presenta anche altre
sepolture megalitiche a circolo come la Tomba III, la
tomba V e la curiosa Tomba IV, caratterizzata e sovra-
Domus de Janas nel
parco di Pranu
Muttedu, Goni
La Tomba I, sepoltura
megalitica del tipo a
circolo di Pranu
Muttedu
I
n territorio di Goni (CA), nella parte più settentrionale del Gerrei, tra alberi secolari di querce e roveri, sorge uno dei siti più suggestivi della Sardegna dove il tempo
parco archeologico
pare essersi fermato al IV millennio a.C. per portare sino a noi la testimonianza
delle prime civiltà che l’abitarono.
Lungo i tornanti che da S. Basilio conducono verso Goni (61 Km da Cagliari) si ha
già la sensazione di trovarsi in una delle zone della Sardegna più selvaggia e silenziosa, quasi si avverte che si sta per giungere in un luogo magico, un tempo teatro di riti
sacri e divinatori, in cui l’uomo adorava la natura e tutto ciò che questa potesse offrirgli per vivere.
Una volta varcato il cancello dell’area archeologica, la prima sensazione è quella di trovarsi in una sughereta ben curata, coi sentieri delimitati e l’erba verdissima ai lati. Dopo i primi passi all’interno del parco, sulla
destra appaiono una ventina di menhir la cui altezza varia da poco più di mezzo metro a tre metri, allineati
lungo l’asse Est-Ovest con presumibili riferimenti astrali
Gli scavi diretti da Enrico Atzeni negli anni
e temporali, riconducibili al culto degli antenati.
Proseguendo lungo il sentiero, sulla sinistra, a pochi
metri dall’asse dei menhir, si apre un grande circolo
’80 hanno portato alla luce numerosissimi
all’interno del quale, ai piedi di due grandi querce, si staglia la prima tomba (in realtà la seconda per ordine di
manufatti di diversa tipologia e fattura,
denominazione). La Tomba II costituiva il centro di tutta
l’area sacra; scolpita in diversi blocchi di arenaria è forconservati al Museo Archeologico di
mata da un padiglione d’ingresso, da un’anticella a
forma semicircolare e dal nucleo tombale vero e proprio.
Cagliari e appartenenti alla cultura che
Del padiglione d’ingresso è visibile il portello interno
sagomato a rincasso, manufatto finemente scolpito che
prende il nome da San Michele Ozieri
testimonia l’elevato grado di abilità raggiunto nella fabbricazione degli utensili e nella lavorazione della pietra da parte di quelle comunità stanziali di ”Cultura di
Ozieri“, risalenti al neolitico recente (3200-2800 a.C.). Gli scavi diretti da Enrico Atzeni negli anni ’80 hanno
portato alla luce numerosissimi manufatti di diversa tipologia e fattura, conservati al Museo Archeologico di
Cagliari e appartenenti alla cultura che prende il nome da San Michele Ozieri, sito dove fu riconosciuta per
la prima volta.
Allineamento di menhir all’ingresso del
72
73
La Tomba II
all’interno del
grande circolo.
stata da un trittico di menhir disposti evidentemente secondo un ordine familiare, che vede al centro il capoDomus de Janas nel
parco di Pranu
famiglia col menhir più alto, alla sua sinistra la donna, simboleggiata da un menhir leggermente più basso e
Muttedu, Goni.
tozzo e infine il piccolo rappresentato dal menhir più basso sulla destra.
Tutta l’area del parco, che per la sua importanza archeologica viene visitato ogni anno da studiosi e turisti proUna Domus de Janas
venienti da tutte le parti del mondo, gode di una rete di sentieri e di una segnaletica che rendono la ricerca
all'interno del parco
dei monumenti presenti molto facile e appassionante allo stesso tempo; le tombe e i menhir, infatti, sono spesarcheologico di Pranu
so nascosti tra la vegetazione di macchia mediterranea e le querce secolari che spesso distano tra loro anche
Muttedu.
diverse centinaia di metri, rendendo la loro scoperta quasi una mini avventura alla Indiana Jones!
Per quel che riguarda i servizi offerti al visitatore, all’interno del parco si trova l’unità introduttiva agli scavi, dotata di strumentazione multimediale in grado di orientare gli utenti alla visita dei monumenti sotto il profiall’interno delle camere funerarie,
lo archeologico, storico e culturale. Inoltre, i visitatori che intendono approfondire la visita anche da un
accanto agli inumati, erano deposti
punto di vista naturalistico e paesaggistico (nei pressi
del parco si possono visitare il grazioso centro abitaoggetti di corredo che accompagnavano
to di Goni e le sponde del Lago Mulargia), possono
fruire del servizio di ristorazione e gustare i prodotti
il defunto nell’aldilà
della cucina locale.
La Tomba IV,
La Triade.
75
A M B I E N T E
Testo e foto di Pasquale Capone
LE “NOSTRE
ORCHIDEE
SELVATICHE”
C
he sia grande o piccola, l’orchidea ha sempre un portamento altero.
Nella pagina accanto:
Orchidea provinciale
Tutti conosciamo le orchidee esotiche, provenienti da lontanissimi angoli della
(Orchis provincialis)
terra, ma forse in pochi sanno che anche in Sardegna crescono generi e specie di
Orchidacee che sono propri ed esclusivi del nostro territorio; esemplari che non
Orchidea tridentata
sono certamente né meno belli né meno singolari di quelli esotici. Le orchidee
nostrane sono di forma e colori svariati, spesso molto belle anche se di piccole
(Orchis tridentata)
dimensioni. Il fatto che queste piante siano piuttosto rare e che diano luogo a numerosi
ibridi, sono elementi che fanno della ricerca delle orchidee selvatiche una vera e propria “caccia” agli esemplari meno comuni.
Le orchidee o Orchidacee sono
piante altamente specializzate, Le orchidee in poche settimane escono dalla terra,
hanno una struttura trimera, ma a
causa di una più elevata specializ- mettono foglie e fiori e scompaiono; la vita delle
zazione delle parti floreali, la simmetria è diventata bilaterale con parti aeree è molto breve
un’asse verticale che rende la parte
destra del fiore l’esatta immagine
speculare della parte sinistra. Nelle orchidee, in realtà si ha un perfetto adattamento alla fecondazione da
parte degli insetti. Questo adattamento è sottolineato in modo spettacolare dalla specializzazione di
uno dei tre petali, differente dagli altri per dimensione, forma, colore e talvolta anche per struttura.
Questo petalo, detto labello, costituisce un caratterechiave delle orchidee. Il labello serve per accogliere
più efficacemente gli insetti impollinatori, e, per ottimizzare il risultato riproduttivo, si è in parte modificato rinforzandosi e girandosi di 180° verso il basso,
dall’ovario fino al peduncolo floreale, al momento in
cui il fiore sboccia.
Le orchidee in poche settimane escono dalla terra,
mettono foglie e fiori e scompaiono; la vita delle
parti aeree è molto breve. Quando arriva la primavera (ma anche durante un inverno molto dolce) la
piantina si ingrandisce, spunta il germoglio dal terreno e le foglie si sviluppano all’aperto. Frattanto,
interrato, il tubercolo comincia a divenire più scuro
e a svuotarsi del suo contenuto per nutrire le piante
e permetterne il ciclo evolutivo. La pianta cresce,
mentre sotto terra i due tubercoli hanno mantenuto
le stesse dimensioni. La loro somiglianza coi testicoli (orchis, in greco), giustifica il nome di un genere
intero. Una volta che i fiori sono stati fecondati, la
pianta scolora rapidamente. Gli ovari si gonfiano e,
aprendosi, lasciano sfuggire nugoli di minuscoli semi
che il vento trasporta e diffonde ovunque.
Come individuare per la prima volta un’orchidea
nell’immensa profusione di forme vegetali?
L’orchidea predilige sempre degli habitat con terreni
poveri; mal sopporta i bruschi cambiamenti ed esige
quindi un ambiente stabile ed equilibrato; come
pianta erbacea ricerca in genere habitat aperti. Gli
incolti sassosi, la macchia rada e diffusa, i pascoli
magri e abbondanti, i pendii ghiaiosi e calcarei, le
zone siccitose, i detriti di falde erbosi sono in gran
lunga i siti più ricchi di orchidee. Gli ambienti più
ombreggiati come la macchia fitta, le siepi, e i boschi
radi possono sostenere le specie prative, ma queste
sono di “passaggio” e man mano che l’ombra si
79
A M B I E N T E
A destra:
due immagini
dell’Orchidea farfallarossa
(Orchis papilionacea)
In basso:
Orchidea purpurea
(Orchis purpurea)
80
addensa, le scaccia progressivamente costringendole a una sopravvivenza esclusivamente sotterranea e ad una
inevitabile scomparsa. Malgrado la predilezione di ambienti rispetto ad altri, le orchidee si possono facilmente individuare sia lungo le coste che nei centri montani. Il periodo migliore per osservarle è tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.
La loro presenza è comunque seriamente minacciata. I fattori che ne potrebbero determinare la definitiva estinzione sono diversi. Tra questi annoveriamo la distruzione dei loro habitat naturali; l’uso sconsiderato di erbicidi e tutti gli altri agenti chimici che colpiscono gli alleati del ciclo biologico e l’abbandono di diverse attività rurali tradizionali come il taglio dei prati, il pascolo estensivo, la transumanza e lo sfruttamento dei canneti che in passato hanno permesso la sopravvivenza di alcuni equilibri “semi-naturali”
Altro nemico, non meno pericoloso, è l’uomo. Sebbene lo spirito ecologista sia maggiormente diffuso rispetto al passato, è ancora troppo comune l’abitudine,
assai dannosa, di recidere i fiori e le radici di qualsiasi pianta risulti bella o profumata, senza minimamente pensare che in un gesto, apparentemente indolore,
è racchiuso un atto violento contro la natura. La
sopravvivenza delle orchidee dipende dall’educazione e dalla sensibilizzazione del pubblico, dei gitanti,
dei turisti e dei visitatori dei luoghi naturali. Così
all’escursionista come al botanico, principiante o
esperto, consigliamo di scattare piuttosto delle foto,
invece che dedicarsi ad allestire raccolte o alimentare gli erbari per puro interesse personale.
I t i n e r a r i
S
ELLA
DEL
LA
DIAVOLO
Testo e foto di Enrico Olla
A
pochi passi dal centro di Cagliari esiste un luogo mitico e ricco di fascino. La zona,
circa tre chilometri quadrati, di notevole interesse naturalistico e archeologico,
racchiude un mix di verde, roccia e mare cristallino, un piccolo paradiso tra la
città e la spiaggia del Poetto.
La leggenda racconta che il Diavolo, attratto dal fascino e dalla bellezza del Golfo
di Cagliari se ne impossessò; allora Dio mandò i suoi angeli prediletti, guidati
dall’Arcangelo Michele, a scacciare Lucifero, ma quest’ultimo nella sua fuga precipitosa perse la sua sella che cadde in mare pietrificandosi. Da quel momento il promontorio fu chiamato Sella del
Diavolo e il golfo, preso in custodia dagli angeli, fu appunto nominato Golfo degli Angeli. Ed effettivamente
anche nella realtà, la forma che appare tuttora a chi guarda il promontorio dal Poetto o dai colli cagliaritani
è proprio quella di un’enorme sella che si staglia sul mare.
La Sella del Diavolo, come tutto il promontorio di S. Elia
del quale fa parte, è costituita da rocce sedimentarie di
la forma che appare tuttora a chi guarda età miocenica, quindi geologicamente piuttosto giovani.
All’interno di questo tipo di rocce carsificabili si sono
il promontorio dal Poetto o dai colli caglia- formate diverse piccole grotte, che sono state abitate dall’uomo sin dal VI millennio a.C. Questo vero e proprio
ritani è proprio quella di un’enorme sella monumento naturale è facilmente raggiungibile dal centro cittadino in pochi minuti di automobile, percorrendo
che si staglia sul mare il viale Poetto e immettendosi nel viale Calamosca sino
a raggiungere l’omonima spiaggetta e albergo sul mare.
Proprio dalla strada dietro l’albergo parte il sentiero tracciato che si snoda, salendo dolcemente, tra la macchia mediterranea e le specie floreali spontanee come il
bellissimo Iris dal colore viola; a metà percorso troviamo vari punti panoramici a picco sul mare, nel versante ovest del promontorio; proseguendo invece sul tracciato principale e continuando a salire per quache decina di metri si giunge sul pianoro sommitale, in prossimità del punto più elevato del promontorio (135
m.s.l.m.). Qui esisteva nel periodo punico un luogo di culto, di cui non rimane più traccia, dedicato alla Dea
Astarte mentre è tuttora visibile una cisterna romana dalla classica forma a sezione tronco-conica con un diametro di 5 metri; l’imboccatura è protetta da una grata metallica e a fianco ad essa è visibile il sistema di
vasche e canalette costruito sulla roccia per far confluire l’acqua piovana. Poche decine di metri più a valle
della cisterna romana, in direzione ovest è presente, nascosta dalla vegetazione, una cisterna punica, di forma
allungata, dalle dimensioni notevoli: 27 metri di lunghezza per 4,5 metri di profondità. Al periodo romano
risalirebbe il martirio di S.Elia, che sarebbe stato ucciso in questi luoghi, secondo la tradizione, durante le persecuzioni di Diocleziano; l’intero promontorio e la torre semidiroccata, presente sulla sua sommità, portano
ancora oggi il nome del martire. Nell’XI secolo tutta l’area venne affidata ai monaci Vittorini che costruirono
un vero e proprio monastero, di cui son visibili i resti, e si presero cura di saline, peschiere e aree coltivabili
delle zone circostanti; la torre presente è da considerarsi, invece, come facente parte del sistema di difesa ed
avvistamento creato dagli spagnoli nel XVI secolo; tuttavia sembrerebbe che già durante il periodo pisano
fosse presente un’altra torre con funzione di segnalazione, detta “della Lanterna”, anch’essa semidiroccata,
raggiungibile tramite una ripida discesa tra le rocce. In seguito, la medesima torre, venne denominata anche
“torre del Pouhet”, cioè del pozzetto, poiché situata nei pressi della cisterna romana. L’intera zona sarebbe
poi stata denominata “Pouhet”, da cui il nome di “Poetto”, attribuito alla grande spiaggia dei cagliaritani. Le
torri costiere continuarono ad essere usate anche in epoca sabauda, sin quando un Regio Decreto del 1867
82
stabilì che non dovevano più essere considerate posti fortificati. Durante la seconda guerra mondiale vennero
realizzati un fortino e altre costruzioni, tuttora ben visibili, per i quali, con ogni probabilità, vennero riutilizzate le pietre dei resti della chiesetta di S.Elia, della quale, purtroppo, oggi si può appena apprezzare il perimetro.
Una volta giunti nel punto più alto del promontorio, si può godere verso ovest di un ampio panorama che dalla
baia di Calamosca, con il suo faro, prosegue verso le alture dell’iglesiente che diradano sino a Capo di Pula,
per poi volgere lo sguardo verso levante e verso nord
e perderci nell’orizzonte infinito del mare a sud. A
nord si può vedere la città di Cagliari che dai colli di
S.Michele e Monte Urpinu culmina con la parte più
alta nello storico scorcio di Castello con la sua
Cattedrale, per poi scivolare gradatamente verso la
marina e il trafficato porto. Spaziando più verso est è
facile notare come il Capoluogo sia supportato da un
hinterland vastissimo che va da Pirri sino ad arrivare
alla litoranea per Villasimius ai piedi delle montagne
del Sarrabus. Di queste si scorgono, soprattutto nelle
giornate più limpide, le punte del Serpeddì e dei
Sette Fratelli e tra esse il pianoro di Burcei. In mezzo
si protrae verso il mare la parte finale del Campidano
e si stende ad arco la lunghissima striscia di sabbia
del Poetto, che racchiude dietro di sé le saline e il
grande stagno di Molentargius, altro esempio miracoloso di paradiso ai piedi dei palazzi cittadini,
popolato da svariate specie di uccelli, tra cui il maestoso ed elegante fenicottero rosa. Il suo volo coreografico è spesso visibile sopra il promontorio della
Il promontorio della
Sella del Diavolo
con la guglia e la
torre
Il mare color
smeraldo a piedi
della Sella del
Diavolo
Cagliari vista dalla
cima del promontorio
della Sella del Diavolo
Un bellissimo Iris,
molto diffuso tra la
macchia mediterranea
Il fortino della seconda guerra mondiale e
la torre spagnola
84
Sella. Ma per gli occhi di chi sale in cima a questa postazione privilegiata sul golfo di Cagliari, lo spettacolo
forse più sorprendente è dato da ciò che è possibile vedere abbassando lo sguardo proprio ai piedi del costone orientale della Sella; da nord verso sud si ha una vista mozzafiato dapprima sul porticciolo di Marina
Piccola e i primi tratti della spiaggia del Poetto, poi sulle falesie che si stagliano in un mare color smeraldo del
quale, nelle giornate di calma piatta, si può scorgere il fondale ora sabbioso ora roccioso. Il costone a picco
sul mare termina con delle spiaggette di sabbia bianca finissima, raggiungibili solo via mare, così come la
grotta dei Colombi, nei pressi della fantastica insenatura di Cala Fighera; il nome della cavità, che probabilmente è il più grande antro naturale presente in
città, trae origine dai colombi e dai piccioni che
ancor oggi, in gran quantità, nidificano al suo interno. Essendo accessibile solo via mare, con l’ausilio
di una piccola imbarcazione, la grotta era frequentata dai pescatori e dai cacciatori della zona. Ma com’
è noto, da una delle leggende cagliaritane, essa fin
dal 1800 è stata evitata a lungo perché considerata il
nascondiglio di uno spettro maligno chiamato Dais,
un uomo che, secondo avvenimenti realmente accaduti e documentati dalla cronaca, venne assassinato
misteriosamente da brutti personaggi che poi abbandonarono il corpo sanguinante all’ingresso della
cavità. Come detto prima, tutto il promontorio di
S.Elia e la Sella del Diavolo sono stati, dai tempi più
remoti sino all’ultima guerra mondiale, postazioni
strategiche militari, utili per l’avvistamento delle flotte che giungevano dal mare.
F E S T E
E
F O L K L O R E
Testo e foto di Simone Repetto
LA
FESTA DI
SAN GIOVANNI
ni, suggestivi, poetici. Lo scambio della “promessa” fra innamorati e l’elezione dei “Compari di San Giovanni
Processione a mare.
Battista”. Così, le coppie “allacciavano” le loro braccia destre, la donna passava tra le mani unite il rosario,
Grande Cristo di
simbolo di fede, mentre l’uomo, con la sinistra, deponeva un pizzico di grano, simbolo di fertilità, in seno alla
Bogliasco.
sua bella. Simile il rito dei compari, consumato fra i giovani che volevano rendere indissolubile l’amicizia che
li univa. Ed insieme, si attendeva il sorgere del sole, magari di fronte ad un fuoco crepitante, affinché potesse
San Pietro portato in
sorgere una nuova e più lucente alba negli occhi di chi l’osservava. Cinque giorni dopo, il 29 giugno
processione.
Carloforte festeggia nuovamente, questa volta il suo patrono: San Pietro Apostolo. Anticamente, si aspettava
questa data per compiere il primo tuffo nelle splendide acque, suggellando, di fatto l’apertura della stagione
balneare. Ma il fervore cristiano della ricorrenza viene prima di tutto, a partire dai preliminari. Le vie dove
passerà la processione, vengono addobbate a festa,
tra bandierine e luminarie, così pure i traghetti e le
la statua del santo viene portata a
barche che prenderanno parte al corteo marino.
Dopo la celebrazione liturgica, la statua del santo
spalla dai pescatori, mentre suona
viene portata a spalla dai pescatori, mentre suona la
banda musicale e sfilano imponenti i “Cristi”, enorla banda musicale e sfilano impomi crocifissi trasportati a piedi dai fedeli di alcune
arciconfraternite giunte dalla Provincia di Genova. Il
nenti i “Cristi”
corteo prosegue il suo incedere a mare, con la suggestiva processione di barche di ogni grandezza,
tutte in fila dietro al peschereccio ospitante San Pietro, salutato anche dai traghetti con ripetuti fischi di tromba. La festa si conclude in bellezza al calar della notte, quando la rada portuale viene illuminata da un esilarante spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio, visibile a distanza.
ANNUNCIA L’ESTATE ISOLANA
C
Statua di San Pietro
86
ome consuetudine, l’estate a Carloforte si apre con la festa di San Giovanni Battista, il
24 giugno. È un appuntamento atteso, che si rinnova da secoli, anche se il fervore di
un tempo è quasi un ricordo. Ma all’imbrunire del giorno precedente, il tema ricorrente è sempre lo stesso: “Alla sera che si và per erba, che si fa compare e comare,
Carolina, che ti pare? Qual’è il dolce che piace a tè?”. E via dicendo, cantando il resto
dello stornello, accompagnati dal suono del “ferro” (la chitarra), del tamburello o della
fisarmonica, mentre diventano protagonisti i legami personali, i costumi tradizionali e un’erba dagli odori intensissimi, tipici della macchia mediterranea. Si tratta della mentuccia o pulegio (Mentha
pulegium), nota ai carlofortini come erba di San Giovanni, che proprio a giugno và in fioritura e sprigiona tutti
i suoi effluvi, puntando dritto al cuore di chi li respira. Da qualche lustro, il Gruppo Folk locale organizza una
serata a tema, radunando un corteo che, partendo dalla centralissima piazza Repubblica, raggiunge il piccolo anfiteatro di piazza Camogli, nella parte alta della cittadina. Qui, si dà il via a balli in costume tabarkino,
canti tradizionali con il gruppo “Casciandra” e ad una commedia dialettale, nel mentre le ragazze dell’organizzazione distribuiscono mazzetti delle odorose erbe, ma anche canestrelli e un buon moscato. Questo è ciò
che resta oggi dell’ancestrale rito, vecchio quanto la colonizzazione isolana e ricordato con nostalgia dagli
anziani che lo vissero in gioventù, partendo dai profondi significati morali, mirati a consacrare gli amori e le
amicizie, la fratellanza e la solidarietà reciproca, la fedeltà e l’affetto. Anche i luoghi del rito erano diversi.
Dalle campagne, numerose comitive si radunavano al crepuscolo, vagando qua e là alla ricerca della magica
erba, nel mentre si udivano stornelli di circostanza, semplici ma intensi, che preannunciavano momenti solen87
ITINERARI
D I
F
R A N C E S C O
M
U N T O N I
Arbatax, Rocce Rosse
ITINERARIO
IN KAJAK SULLA COSTA
OGLIASTRINA
TORRE DI BARISARDO-PORTO FRAILIS
O
gliastra, paese aspro e avvolgente, da
ammirare in ogni suo piccolo dettaglio; luoghi sempre nuovi da scoprire, terra dalla eterogenea e variegata bellezza
dove profumi, colori ed ospitalità hanno toni
più vivaci che altrove. Quale luogo migliore
per affrontare, ad esempio, una lunga passeggiata a piedi, in bicicletta, a cavallo o in
arrampicata nelle varie e incontaminate
vette? Oppure montare su un kajak, la mia
passione, e navigare per mare alla scoperta
della bellissima costa, ricca di spiagge, a tratti sabbiose a tratti frastagliate e di graziose
calette?
Questo mezzo mi ha dato e mi da molte soddisfazioni, mi ha fatto conoscere più intimamente il mare e tutto ciò che gli è connesso.
Geograficamente devo dire di essere molto
fortunato per avere a disposizione una dei litorali più belli di tutta l’Isola da cui poter proporvi una suggestiva e salutare escursione.
Prendo visione di un buon bollettino meteo,
avviso la Guardia Costiera di Arbatax della
mia presenza in mare per il week end e una
> Tempo di
percorrenza:
un week-end.
> periodo
consigliato:
giugno ottobre
> miglia marine:
tredici (circa)
88
volta ottenuto l’Ok inizio la mia avventura.
Ho deciso di pagaiare nel tratto di costa che
parte dalla “Torre di Barisardo” fino alla
spiaggia di Porto Frailis ad Arbatax (Tortolì)
dove si passerà la notte nel campeggio Telis
per poi ripartire il giorno dopo verso il luogo
di partenza. Percorrendo la statale 125 detta
“orientale sarda” giungiamo al paese di
Barisardo dove, a circa 5 km dall’abitato, si
snoda una strada che ci conduce fino alla
marina; qui una fitta pineta incornicia le due
belle spiagge divise a loro volta dalla stupenda Torre. Sono arrivato alla spiaggia prestissimo e nell’occasione ho potuto godere di una
magnifica alba; il momento è magico. Faccio
una buona colazione e al chiosco “Sa Tracca”
acquisto un’abbondante scorta di panini e
bevande e riparto. Supero la spiaggia e giungo presso le falesie scure di origine vulcanica:
questo è il promontorio di “Punta su Mastixi”.
La scogliera si estende tra la “Punta Niedda”
e la zona di “Trastu” per circa 3 km con altezza tra i 25/30 Mt s.l.m. con conformazione a
tratti selvaggia e a tratti desolata.
Il promontorio è il risultato di colate laviche
provenienti da un piccolo monte vulcanico
dell’entroterra. Da qui a poco incontreremo
l’incantevole spiaggia di “Cea” nota anche
come spiaggia “Is Scoglius Arrubius” (scogli
rossi). Qui si elevano dal mare, a circa 200 Mt
dalla riva, due bellissimi faraglioni di porfido
rosso alti circa 15 Mt.
La tentazione di sostare per qualche minuto
sulla spiaggia è forte ma decido di continuare; la curiosità di vedere cosa c’è più a nord è
tanta.
Fiancheggio moltissime cale e anfratti molto
suggestivi fino alla spiaggia di “Musculeddu”
presso il “Lido di Orrì”. Le acque trasparenti,
la candida sabbia e i suoi graziosi scogli di
granito grigio rallentano la mia pagaiata: ecco
la spiaggia di “Orri”, ben organizzata nei
periodi estivi; numerosi chioschi dislocati
lungo la costa forniscono fresche bevande,
ottimi panini e piccoli pranzi. A nord intravedo la torre saracena di San Gemiliano che
raggiungerò dopo qualche miglio ancora.
Decido quindi di fare una sosta. Un bagno mi
dà la carica per ripartire verso Porto Frailis
dove il grazioso campeggio Telis ci ospiterà
per la notte. Ormeggiato il Kajak, ho tutto il
tempo per godere della quiete della baia, resa
ancor più suggestiva dal fascio di luce che dal
faro militare di Capo Bellavista si staglia sul
tratto di mare. Al mattino, dopo colazione,
smonto la tenda, metto in acqua il kajak e mi
preparo per il rientro; la strada è lunga ma vi
sono luoghi ancora inesplorati da visitare e
posti visti frettolosamente da rivedere.
Malgrado le diverse miglia percorse garantisco che la fatica è stata ampiamente ripagata.
I praticanti di kajak conoscono bene l’effetto
positivo che un’escursione come questa può
infondere sul fisico e sulla mente a chi invece
il kajak non lo conosce per nulla spero di
avere trasmesso un po’ della mia passione.
Campeggio Telis
tel. 0782/667140-667261
Numero Guardia Costiera di Arbatax
tel. 0782/667878
Punto di ristoro Sa Tracca
tel. 328/5816375-340/3256745
89
Gastronomia
D I
M
A R I N A
D
E S S Ì
B
E R L I N G U E R
il fascino della pasta:
ospitalità bulteina da gustare
“U
1
Legge 04-07-1967
N° 580 Gazzetta ufficiale n° 189 del 2907-1907
2
Molimentos: deriva
da Molimentu log.
mucchio di pietre;
spesso siti dove si
uccidevano le pecore.
Recapiti agriturismo:
Tel. 079. 795718
Cell. 340.2554364 340.02296890
3
Pellizzas: pelliccette
o piccole pelli, forse
per la consistenza
della pasta simile
alla pelle.
4
Ghisadu: riferimen-
to all’intingolo, al
tipo di cottura in
umido.
90
na contrada che si chiamava
Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e
aveva si un’oca a denajo e un papero per
giunta. Et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano gratuggiato, sopra la
quale stavano genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e lavori e cuocerli in
brodo di capponi e poi li gittavan quindi giù,
e chi più ne pigliava più se n’aveva”
Decameron VIII 3.
E chi di noi leggendo questa celebre illusione
del Boccaccio non ha avuto l’acquolina in
bocca sognando per un attimo la concretizzazione di una montagna così gustosa ed appetitosa? L’immaginario collettivo segnato da
secoli di carestie, indigenza e sottoalimentazione, ancora oggi nei nostri paesi dell’abbondanza e del consumo, spalanca occhi
disincantati ma affascinati dinnanzi alla fantastica ma “succosa” descrizione del mitico
paese di Bengodi.
E proprio da questa “montagna” di pasta,
vorrei partire con una semplice riflessione, e
cioè, che mentre lo sviluppo del mercato
cerca di piegare alle sue leggi la produzione
ed il consumo alimentare dei popoli, la pasta
rappresenta l’alimento ancora oggi onnipresente in tutte le classi sociali e che, pur prodotta a tonnellate, rimane il cibo per eccellenza che la fantasia e la creatività personale dei
cuochi rielabora in mille variazioni e in mille
piacevoli bontà gastronomiche, che non vengono mai a noia.
In semplici combinazioni soddisfa i più poveri e in più complesse interpretazioni e straordinari abbinamenti, lusinga e coccola il palato raffinato dei più abbienti.
Tanto importante è quindi la pasta, tanto
importante il suo cammino che facendo riferimento a Prezzolini nel suo Maccheroni & C.
del 1957, parla non solo di diffusione italiana
ma mondiale, un mondo essenzialmente
popolare e perciò molto vasto che copre
anche la Cina, il Giappone, e la maggior parte
del Sud Est asiatico.
E tale è la sua importanza, che ne è stata data
una vera e propria definizione legale “Per
pasta alimentare si intende il risultato di una
catena di operazioni tecniche (su scala domestica artigianale o industriale) applicata ad
una miscela di farina di grano tenero o semola di grano duro con acqua o altra sostanza
più o meno liquida e che permetta di ottenere un impasto che sarà quindi ritagliato in
forme regolari che saranno cotte con calore
umido. La serie delle operazioni tecniche
comprende la miscela degli ingredienti, la
lavorazione dell’impasto, la frammentazione
dello stesso, il modellaggio, l’eventuale essiccazione e l’eventuale conservazione.
La pasta così ottenuta viene sottoposta a cot1
tura in acqua bollente.”
La storia della pasta è molto varia, in Italia
viene consumata come piatto a se, mentre in
molti altri paesi viene essenzialmente proposta come contorno, spesso con delle verdure
e al pari di una di esse. Nei secoli XIII e XIV, la
Sicilia ma soprattutto la Sardegna, polo chiave delle vie commerciale del Mediterraneo,
considerate veri e propri granai, elaboravano
moltissimi tipi di pasta, sia fresca che secca,
che venivano acquistate da Genova, e poi
esportate in tutto il Mediterraneo. I nomi di
queste paste sono di ispirazione catalana; si
legge di fideus, di maccarons o macharons e
anche obra de pasta . Per quanto riguarda
quest’ultima terminologia, pare anche, che in
questo modo venissero individuate intere
partite di merci che contenevano anche altri
generi alimentari a base di cerali.
Sempre in Sardegna, come anche in Sicilia e
in Puglia, il ruolo delle donne nella confezione dei vari tipi di pasta è stato ed è molto
importante: le abili mani femminili esperte
sia nella tradizione della pasta secca di grano
duro che in quella di pasta fresca di grano
tenero, hanno creato originali e innumerevoli
formati da quelli semplici a quelli imbottiti e
rifiniti come merletti.
Certo, la pasta fresca esercita un fascino indiscutibile, eseguita in aziende artigianali o
“fatta in casa”, “fatta a mano”, con forme
regolari a testimonianza dell’alta professionalità dell’esecutrice ma anche con una certa
irregolarità a testimonianza dell’originalità
del formato, sia che fosse steso e ritagliato,
sia lavorato pezzo per pezzo con le dita o rollato sul tavolo o passato su una superficie
rigata o bucato con un ferretto.
Proprio sulla strada Ozieri-Pattada al VII km
dal bivio Buddusò-Bultei, in località Sa
Fraigada, l’agriturismo Molimentos 2, rappresenta una piacevolissima sorpresa. L’azienda
sorge in una delle più suggestive località della
Sardegna, circondata da lecci e castagni a
pochi km da I Tassi e da Sa Fraigada e qui
dalle abili mani di Pina, Margherita e Tonina,
nascono le stupende Pellizzas3 dalla grossa
forma ovaleggiante realizzate al momento e
condite con un ottimo sugo di pecora e cinghiale.
Sas pellizzas
Ingredienti: 1 kg di farina sarda, 2 uova intere, sale fino, acqua, pecorino.
La ricetta: Disporre la farina a fontana nella spianatoia, unire lentamente l’acqua leggermente intiepidita,
versando a piccole dosi con la mano sinistra, mentre con la destra rapidamente si riunisce la restante farina intorno alla massa più morbida fino ad esaurimento dell’acqua e fino a che la farina risulti bene intrisa. Si procede allora, con entrambe le mani alla lavorazione vera e propria della pasta, pigiandola e estendendola fino a che diventa liscia e dura.
È importantissimo dosare bene l’acqua perché la pasta non si ammorbidisca eccessivamente ma rimanga
sostenuta. A fattura ultimata coprire l’impasto con un telo.
Intanto si fa bollire l’acqua precedentemente salata, in un tegame largo e non troppo alto.
Dalla pasta si staccano dei pezzetti che con le mani inumidite, schiacciandoli tra pollice ed indice in
dischetti sottili e leggermente concavi, vengono buttati nell’acqua che bolle. Se la pasta è stata eseguita
bene, la prima e l’ultima pellizza si cuociono contemporaneamente.
Le pellizzas in otto dieci minuti, lisce e callose al punto giusto, sono pronte per essere scolate e condite.
Sugo per sas pellizzas: Questo tipo di pasta nasceva come piatto semplice e povero e anche il condimento si basava su tipi di carne di cui si disponeva in casa, di conseguenza, cinghiale e pecora venivano uti4
lizzati per un tipo di ghisaddu molto gustoso.
La ricetta: Soffriggere lentamente in olio d’oliva un trito di abbondante cipolla, sedano, carota e pezzetti
di lardo non salato. Unire circa 400 gr di cinghiale e 400 di pecora tagliati a dadolata irregolare e privati
del grasso. Dopo 15 minuti bagnare con un bicchiere di vino rosso (a Molimentos si usa quello della casa)
che si lascia evaporare sollevando la fiamma;proseguire la cottura a fuoco lento e a tegame coperto, per
circa un’ora. A questo punto si uniscono i pomodori tagliati a pezzi, preferibilmente freschi, sodi, senza
semi. Si prosegue la cottura, sempre a fuoco lento, rimestando bene con un mestolo di legno per un’altra
ora.
Il formaggio usato per condire la pasta è un pecorino dolce, sempre della casa.
Le proprietarie del locale ricordano un sugo essenzialmente estivo, eseguito con moltissime cipolle affettate sottili, pomodori a pezzi, olio d’oliva e pecorino mescolato a ricotta affumicata sempre grattata.
91
cultura e storia
D I
G
I U L I A
F
O N N E S U
UNA PASSEGGIATA PER IL CASTELLO CON IL NASO ALL’INSÙ
ALLA SCOPERTA DELLE “NOBILI ORIGINI” DELLA
CITTÀ DI CAGLIARI
I
l nostro itinerario si svolge nel quartiere
storico di Castello, antica roccaforte della
città, dove si stabilirono le più antiche e
nobili famiglie.
Un po’ di storia ci aiuterà a capire meglio
come si viveva in questo bellissimo quartiere
ai tempi di dame e cavalieri… Per diversi
secoli, a partire dall’inizio del Quattrocento, il
ceto nobiliare della Sardegna svolse un ruolo
importante in campo politico e sociale.
Questa posizione privilegiata è ancora oggi
testimoniata da palazzi e da ville costruite in
epoche diverse, abitazioni che non si distinguono però per sfarzo e lussi, ma spesso solo
per il portale sormontato da uno stemma, lo
scalone in marmo, le eleganti finestre e gli
elaborati balconi in ferro battuto, i fregi e
festoni che adornano i prospetti. Date le
modeste condizioni economiche dell’isola,
anche la nobiltà non godeva infatti di grandi
ricchezze.
All’inizio del sec. XIV il re d’Aragona Giacomo
II creò il Regno di Sardegna, strappando l’isola all’egemonia di Pisa; venne quindi instaurato un sistema feudale, e i nobili spagnoli e i
sardi che appoggiarono il re furono ricompensati con terreni e feudi.
I pisani furono quindi costretti ad abbandonare il Castello e i nobili catalani, maiorchini,
valenzani e aragonesi si stabilirono sulle strade principali che attraversano la roccaforte sede del viceré e dell’apparato politico e
amministrativo - in tutta la sua lunghezza: la
via dei Marinai (l’attuale via Canelles), la via
dei Mercanti (via la Marmora), la via
Comunale (via dei Genovesi) e la via
dell’Elefante (via corte d’Appello).
Le case pisane erano costituite da un piano
terra in muratura con dei portici sui quali si
aprivano le botteghe di commercianti e arti-
Cagliari, Bastioni
San Remy
92
giani, e da uno o due piani superiori, con ballatoi in legno, dove abitavano i padroni delle
botteghe. Questi edifici furono distrutti dagli
incendi, tuttavia la struttura urbanistica del
Castello ricalca ancora oggi quella del periodo pisano.
A Cagliari le testimonianze di architettura
civile quattro - cinquecentesca sono rare: è
possibile vedere esempi di finestre gotico catalane in alcuni palazzi della via La
Marmora o della via dei Genovesi.
Nel secolo XVI emergono alcuni gruppi familiari: gli Aymerich, i Brondo, gli Zapata; queste famiglie di uomini intraprendenti e abili
nel commercio dispongono di denaro contante e concedono prestiti alla Corona. In breve
tempo i nuovi nobili accrescono i loro titoli,
raggiungono una posizione di rilievo e la
manifestano esteriormente. Gli Aymerich
sono gli unici a Cagliari ad avere una chiesa
di famiglia, la Speranza, attigua alla
Cattedrale, sulla cui facciata spicca il loro
stemma. I Brondo ristrutturano la vecchia
casa che si affaccia sulla piazzetta la Marmora
e fanno arrivare da Genova un imponente
portale di marmo sul quale pongono il loro
stemma; edificano inoltre le chiese della
Purissima e di Santa Croce, dove conservano
le armi di famiglia. Gli Zapata, arricchitisi
maneggiando il denaro della città, edificano
in via dei Genovesi (di fronte al portico
Vivaldi) un palazzo rinascimentale (unico
esempio in città) e, nello stesso stile, costruiscono una villa nel proprio feudo di Barumini,
ancora esistente.
Non sono rimasti a Cagliari altri palazzi relativi a questo periodo degni di nota, nonostante
in epoca spagnola la via dei Genovesi fosse
chiamata “Calle de Los Palacios”.
Nella prima metà del Settecento la Sardegna
passò in mano ai Savoia. Dalle relazioni dei
viceré e dei funzionari piemontesi emergono
le modeste condizioni della nobiltà sarda e la
semplicità delle loro abitazioni. I piemontesi
sviluppano quindi un piano di “rifiorimento”
della Sardegna, dando un nuovo impulso
all’imprenditorialità delle famiglie nobili.
Aumenta la disponibilità finanziaria che stimola l’attività edilizia. Gli ingegneri militari
piemontesi progettano anche edifici religiosi
e civili introducendo lo stile barocco piemon-
tese. Risalgono a questo secolo il collegio
gesuitico di Santa Croce, il palazzo
dell’Università, il Seminario e la ristrutturazione dell’ingresso e dei saloni del Palazzo Reale.
Rientra nel gusto dello stile rococò piemontese la ristrutturazione del palazzotto comunale
e la costruzione del palazzo del marchese
Vivaldi Pasqua, prospiciente la piazza Carlo
Alberto e la Cattedrale.
Più o meno allo stesso periodo appartengono
altri palazzi caratterizzati al “piano nobile” da
vistosi balconi in ferro battuto che poggiano
su mensole curvilinee.
Alla fine del secolo XVIII i Savoia, costretti dai
francesi ad abbandonare Torino, si rifugiano
per quindici anni a Cagliari, che accentua
quindi il suo ruolo di capitale.
Dopo l’abolizione del regime feudale del 1835
i nobili espropriati dai loro feudi ricevono forti
compensi in denaro e possono ristrutturare le
loro case fatiscenti e costruirne nuove.
L’inizio di questa fase edilizia è rappresentato
dal palazzo Boyl, costruito proprio all’ingresso del Castello, al lato del Bastione di Saint
Remy, sulla preesistente torre del Leone,
costruita dai pisani agli inizi del XIV sec.; il
barocco piemontese è sostituito dallo stile
neoclassico, le volute e le linee sinuose cedono il posto ai volumi massicci e squadrati.
Nel periodo seguente l’intera città è interessata dal grande piano regolatore e dalle opere
di ristrutturazione di Gaetano Cima. Lo stile
neoclassico da lui seguito conferisce ai palazzi un carattere monumentale e aristocratico,
le facciate sono impreziosite da imponenti
balconi, finestre timpanate, festoni di fiori e
frutta. Numerosi sono i palazzi in via La
Marmora e in via dei Genovesi da lui costruiti o ristrutturati.
Ai primi del Novecento il Castello inizia a perdere la sua funzione di centro amministrativo
e burocratico. Il primo segno è dato dalla
costruzione del nuovo palazzo comunale in
via Roma. Nel lungomare, di fronte al porto,
la borghesia mercantile costruisce i suoi
palazzi, ma solo i bombardamenti della
Seconda Guerra Mondiale convinceranno i
nobili a scendere a valle e abbandonare le
loro roccaforti.
Cagliari, la Torre
dell’Elefante nel centro
storico
Cagliari, tramonto
dall’alto dei Bastioni
93
MUSICA
D I
R
A F F A E L L A
M
A N C A
LA LAMA NELLA LUNA
T
utto il mondo festeggia i quattrocento
anni del cavaliere della Mancia. Dalla
prima
pubblicazione
del
Don
Chisciotte, nel marzo 1605, sono milioni i lettori che si sono lasciati sedurre dalle avventure di questo signorotto di paese ormai cinquantenne, che sceglie di abbandonare ”calzoni e pantofole di velluto“ per ”cercare di
riparare ogni genere di torti“.
Per ricordare Il cavaliere temerario anche nei
duelli più improbabili (come quello con i
mulini a vento), bastano le iniziative che si
susseguono per tutto il 2005 in varie località
del mondo.
Anche la Sardegna celebra il cavaliere di
Cervantes grazie allo spettacolo della coreografa Livia Lepri, che ha portato in scena il 17
marzo, al teatro Verdi di Sassari ”Don
Chisciotte, lode alla follia“, con la compagnia
Danza Estemporada. Si tratta del primo
appuntamento di un lavoro che sarà ospitato
nei più importanti centri dell’isola e che proseguirà il suo viaggio in tanti teatri d’Italia.
Nel suo personalissimo Don Chisciotte, la
coreografa si è avvalsa di una collaborazione
speciale, quella di Gianluca Vassallo, che per
l’occasione ha scritto e realizzato le musiche
dell’intero spettacolo.
Noto a chi dell’arte ha fatto il proprio mestiere, conosciuto da chi ha avuto il piacere di
seguire le sue produzioni, è invece una sorta
di ”oggetto misterioso“, per alcuni versi difficili da comprendere, per chi lo osserva da
lontano.
Gianluca Vassallo è prima di tutto un artista.
Musica e arte non sono solo parte della sua
vita, si ritrovano facilmente nel suo sguardo,
nelle parole, nel suo viso.
Attraverso quest’intervista Gianluca si è raccontato. Attraverso le sue risposte ho cercato
94
di spiegare chi è Gianluca Vassallo.
Dal tuo accento intuisco che la
Sardegna non è la tua terra madre, che
le tue origini sono altre. Sei arrivato qua
con la tua famiglia?
Sono nato a Napoli nel 1974, ma mi sono trasferito ad Olbia nel 1985 con i miei genitori.
Ormai mi sento come adottato da questa
isola, che ha un fascino speciale.
L’intervista si svolge nello studio di
Gianluca, dove accanto a chitarre,
tastiere e batterie noto anche computer
e mixer vari. La gente ti conosce principalmente come organizzatore di eventi,
produttore di altri artisti, ma tu sei nato
sul palco. A cosa è dovuta la tua scelta
di cambiare ruolo?
Ho imparato a suonare il pianoforte a quattordici anni e a quindici la chitarra. Due anni più
tardi ho iniziato a sperimentare tecniche di
registrazione, applicando le tecniche informatiche alla musica. Quando ero ancora molto
giovane un importante produttore romano mi
propose un contratto discografico. In realtà
non l’ho mai realizzato.
L’approccio alla musica è sempre stato per
me un’esperienza privata, non ho mai sopportato schemi e convenzioni, tanto meno
l’idea di rinchiudere la mia arte in un prodotto confezionato e manipolato dalla regia di
qualcun altro.
Di qui la scelta, a soli venti anni, di dedicarmi
alla produzione discografica e artistica. Dopo
un breve excursus nelle Marche, dove ho
gestito uno dei più importanti caffè letterari
d’Italia, ho iniziato l’attività di produttore di
eventi, inserendoli all’interno di un preciso
quadro artistico. Il mio intento è sempre stato
quello di dar voce agli artisti, di offrire loro
uno spazio in cui esprimersi.
Con “La Lama nella luna” sei ritornato
al tuo primo amore: la musica. Mi incuriosisce il titolo del tuo nuovo cd, lo
trovo molto poetico, anche se credo non
riguardi direttamente il Don Chisciotte.
La Lama nella luna è un verso della prima
poesia che si trova all’interno del libretto che
accompagna il cd. La suddivisione delle musiche del Don Chisciotte in brani è stata influenzata, in particolare, da una poesia presente in
un work in progress: ”Quaderni libertari”, una
raccolta di poesie iniziata nel 2001 e ancora
inedita.
Per il Chisciotte ho scelto quelle che più sentivo vicine al tema ”dell’amore sostenuto dalla
follia“, inteso come esperienza umana e di
relazione con ciò che ci circonda. Le tre poesie
scelte per questo lavoro raccontano un modo
folle di esprimere l’amore, trasmettono non
solo concetti, ma sentimenti, emozioni.
In che modo è riuscito a venire alla luce
questo disco, da un punto di vista discografico?
Grazie alla Mare Nostrum Editrice, che ha creduto nel mio lavoro e nelle sue potenzialità. Se
le mie musiche avranno la possibilità di essere ascoltate anche al di là dello spettacolo,
sarà grazie a questa dinamica casa editrice.
Non potevo non notare una dedica speciale, quella per Santiago Fidel Pablo.
È a mio figlio che dedico questo lavoro.
Perché a lui sto cercando di insegnare come
sia fondamentale non essere parte delle convenzioni, essere folli in qualche maniera,
distanziandosi da ciò che è precostituito.
Vorrei che lui, come me, possa godere di un
grande senso di libertà, costantemente alla
ricerca di una verità che sia solo la sua.
Gianluca appare un Don Chisciotte dei nostri
giorni. Così come il cavaliere innamorato e il
suo fido scudiero Sancho Panza hanno trasformato il luminoso e profondo paesaggio
mancego nel riflesso del mondo, così le sue
musiche hanno dato valore alle avventure e
disavventure di personaggi che da quattrocento anni appassionano lettori in tutto il
mondo. Sottolineando però con il suo lavoro
i deliri, le ambizioni e gli ideali che oggi come
allora rendono inquieto l’animo.
Uno spettacolo sicuramente da vedere, ma
ancora di più da ascoltare.
95
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D I
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C
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96
rattando d’attività subacquee, d’esplorazione degli ambienti marini, d’apprendimento dei primi rudimenti per
immergersi in sicurezza, di scoperta di particolari caratteristiche relative ad una specifica
area geografica, si parla anche di ecosistema,
di vita acquatica da tutelare e preservare,
conoscenze da sviluppare, opportunità che si
hanno per interagire positivamente con
quanto s’incontra in questo “strano” mondo
acquatico. Si rafforza così l’idea, che effettuare del turismo subacqueo all’interno di
un’Area Marina Protetta (AMP), rappresenti
un valore aggiunto alla scelta della destinazione di vacanza.
Proprio in conformità a questo modello, il
Centro Sub Tavolara, così come per migliaia
di subacquei, esperti e principianti che sono
stati accolti negli ultimi 20 anni d’attività, si
propone ai lettori di Mare Nostrum, come il
partner ideale per immergersi in questa porzione di mare della Sardegna nord-orientale:
l’AMP di Tavolara e Capo Coda Cavallo.
Obiettivamente, tutto l’ambiente marino della
Riserva di Tavolara rappresenta un riassunto
ideale delle molte specie che popolano il mar
Mediterraneo, ed in tutto questo, poichè l’attenzione generale si sta concentrando sul
tema della protezione ambientale, oggi più
che mai è indispensabile modificare alcune
abitudini dell’uomo, talvolta poco rispettose
dei delicati equilibri ambientali, affidandosi a
strutture accreditate e riconosciute dagli Enti
e dalle Istituzioni.
Anche se a questo punto tutto sembra essere
inquadrato e gestito secondo precise regole
comportamentali, l’attività subacquea mantiene in maniera molto evidente, le motivazioni e le emozioni che, indipendentemente dal
livello d’esperienza posseduta, ogni subac-
queo ha in sè: quegli stimoli che lo spingono
ad unirsi ad un gruppo magari appena conosciuto, indossare l’attrezzatura e tuffarsi in
quello che il comandante Cousteau, agli albori delle esplorazioni sottomarine, battezzò
come ”il mondo del silenzio“.
Senza dubbio, uno di questi ambienti da scoprire è rappresentato bene dall’isola di
Tavolara: per chi arriva in prossimità del golfo
di Olbia e si affaccia al finestrino di un aereo
o alla murata di un traghetto, quest’isola
appare come un’imponente fortezza calcarea,
incorniciata da un mare che cambia rapidamente colore secondo le profondità e della
tipologia del fondale, con altre piccole isole a
fare da sentinelle a quella che è una delle
Aree Marine Protette più ampie in Italia.
Il fascino di Tavolara trova ragione anche
nella sua storia geologica, in un’epoca in cui i
profili delle coste disegnavano una mappa
del territorio ben diversa da quella che ci
appare oggi.
Le tracce di questi cambiamenti, navigando
lungo la parete sud dell’isola, sono chiaramente identificabili osservando un antico
”solco di battente“, che indicava il livello del
mare ad oltre 10 metri d’altezza; in immersione, si rimane affascinati dalle spiagge fossili e
dalle inimmaginabili forme che ha assunto il
granito di Molara e Molarotto, eroso e modellato in un’epoca in cui queste superfici erano
esposte all’effetto degli agenti atmosferici: 80
milioni d’anni fa, il livello zero del mare si trovava a - 24 mt!
Nei tanti siti conosciuti, (oltre 40), la cui caratteristica principale è che entro i primi 20 metri
c’è praticamente tutto quello che si può
immaginare di vedere durante una immersione, ogni subacqueo può trovare spunti di
interesse: dalle pareti calcaree di Tavolara
piene di anfratti, piccole grotte, tunnel e
massi ciclopici franati fino a 40 metri di profondità e più, alla diversità dei paesaggi sommersi che s’incontrano immergendosi attorno alle altre isole, la cui composizione granitica ha creato suggestivi percorsi, e fino ai
fondali sabbiosi di Capo di Coda Cavallo
dove, adagiato sul fondale di 39 metri, giace
il relitto della nave Oued Yquem, affondata
nel 1941 da un sottomarino inglese.
Abbiamo accennato ad un importante com-
pleanno ed in effetti, in un settore sempre in
evoluzione e che, negli ultimi anni, ha visto
modificare tendenze, abitudini, conoscenze,
aspettative ed esigenze sia da parte dell’utente subacqueo brevettato ma anche di chi, per
la prima volta, si avvicina al mondo dell’immersione subacquea con autorespiratore,
festeggiare i 20 anni di presenza in quest’attività, è fonte di particolare soddisfazione.
Il Centro Sub Tavolara garantisce ai subacquei esperti, per la scelta degli itinerari subacquei più adatti al proprio livello di certificazione, i suggerimenti di comprovate guide che
hanno effettuato migliaia d’immersioni nella
zona. Ma anche i principianti o chi, per la
prima volta, si avvicina al mondo dell’immersione, possono affidarsi all’esperienza
d’Istruttori Subacquei con la capacità acquisita attraverso anni d’insegnamento: tutto questo non sarebbe tuttavia possibile senza una
gran passione per il mare e per il lavoro che è
svolto.
Il piacere di accogliere gli amici, al diving o in
barca, in un ”clima“ confortevole, piacevole e
familiare, l’impegno costante rivolto alla sicurezza dei subacquei in immersione ma anche
verso la tutela e la conservazione dello straordinario patrimonio naturalistico nel quale si
ha la fortuna di operare ogni giorno; un impegno per il quale lo staff ha ricevuto importanti riconoscimenti come l’elezione a diving dell’anno nel 1995, ed il Premio AWARE PADI nel
2002 e nel 2003.
La sede del diving, che ha iniziato la sua attività nel 1985, si trova a Porto San Paolo, a soli
12 km a sud d’Olbia nella costa nord-est della
Sardegna, una località turistica in forte espansione, che si affaccia proprio nel cuore
dell’Area Marina Protetta di Tavolara e Capo
Coda Cavallo. È facilmente raggiungibile per
chi
arriva
ad
Olbia
all’Aeroporto
Internazionale Costa Smeralda, ma anche per
chi sbarca dai numerosi traghetti alla
Stazione Marittima dove attraccano le navi
provenienti da Genova, Livorno, Piombino e
Civitavecchia.
A Porto San Paolo, si trovano tutti i servizi
necessari per trascorrere una vacanza all’insegna del comfort, del relax e del divertimento; al piccolo molo d’imbarco, attraccano tutte
le imbarcazioni che propongono servizi in
mare, come le escursioni nel piccolo arcipelago di Tavolara, il trasferimento sull’unica
spiaggia dell’Isola dove si trovano due ottimi
ristoranti, le barche da pesca e quelle destinate all’attività d’immersione e snorkeling.
Il periodo d’apertura è molto lungo e, normalmente, inizia con il primo week-end d’aprile,
per concludersi agli inizi di novembre. È quindi possibile organizzare settimane blu e soggiorni brevi, sia nella formula hotel sia affittando appartamenti dotati d’ogni servizio; la
collaborazione con le migliori strutture recettive del posto, ci consente di proporre alcune
soluzioni di vacanze a condizioni davvero
vantaggiose.
Un sito web particolarmente curato, è a
disposizione di tutti i lettori interessati a trovare ulteriori indicazioni sui siti d’immersione, sul diving e la sua organizzazione, sulle
iniziative che sono stagionalmente prese, ma
anche sulle tante combinazioni proposte per
effettuare una piacevole vacanza all’insegna
d’immersioni indimenticabili.
97
cultura
e
D I
G
storia
I A N
L
U C A
D
E D O L A
PRESENTAZIONE DELLA GUIDA SARDEGNA
La guida della
Sardegna della collana
“VOI SIETE QUI”.
L’autore presenta la
guida e parla del lavoro che gli ha permesso
di percorrere la
Sardegna in lungo e in
largo.
98
C
osa serve per scrivere una guida sulla
Sardegna? Bisogna conoscere la sua
storia o l’attualità? L’ubicazione delle
sue spiagge o quella dei suoi paesaggi incontaminati? Oppure tutte queste cose insieme?
Ovviamente, l’ultima opzione parrebbe la più
sensata… ma potevo esserne così sicuro?
Troppo grande la sfida, troppo alto il rischio.
Dovevo affrontare questa avventura con la
coscienza del viaggiatore ignaro di ciò che
l’attende, senza alcuna cartina che mi condizionasse a seguire simboli e segnali, determinato a non percorrere itinerari arcinoti, in un
isola ancora tutta da scoprire. Confesso di
essermi perso un numero smisurato di volte
ed è per questo motivo che consiglio vivamente di girare con una guida in tasca, io
ho avuto un anno intero per rimettermi
sulla retta via, solitamente si hanno meno
di quindici giorni. Insomma, mi sono
perso io per tutti ma a nessuno mancherà
lo stupore trovandosi davanti agli imponenti nuraghi, alle tombe dei giganti, alla
perfezione architettonica dei pozzi sacri;
nessuno rimarrà impassibile davanti alle
acque cristalline, che si aprono dietro
manti vegetativi spesso impenetrabili,
oppure colorati e profumati come gli
oleandri. Neppure uno riuscirà a trattenere esclamazioni di stupore davanti a
tutte queste meraviglie, nemmeno se
annunciate, descritte e viste in fotografia. La Sardegna è definita un microcontinente, un piccolo insieme di
meravigliose diversità, che permette di
passare dalla paludosa pianura di
Oristano, popolata da un numero infinito di uccelli, alle aspre cime del
Sulcis e dell’Iglesiente, attraverso i
resti dell’antico retaggio minerario,
per poi affacciarsi sul deserto: il più
grande d’Europa. Il paesaggio continua nei resti di un antico sprofondamento della crosta terrestre, storico
fulcro dell’isola, per inasprirsi nuovamente nella Barbagia, oggi dedita
alla produzione di ottimi formaggi
ed insuperabili vini. Quando i candidi calcari scompaiono, la Gallura
rivela la spina dorsale dell’isola,
fatta di rosseggiante granito affacciato sul mare più blu del
Mediterraneo. La descrizione
potrebbe continuare per giorni,
richiedendo continui approfondimenti e delucidazioni, ma nessun
riassunto potrebbe spiegare un
lavoro che ha richiesto 365 giorni,
25.000 Km e 3 cambi di copertoni,
10.000 scatti fotografici, 2.500
depliant, 200 libri e 2.000 segnalibro adesivi; inoltre l’assaggio di
80 tipi di vino, 100 piatti tipici, un numero
imprecisato di affettati, dolci, pane e formaggi. Lo ammetto, non sono certo dimagrito.
Quando poi, ho dovuto scrivere su carta tutto
questo, ho seguito il percorso reale delle mie
peregrinazioni, cercando di raccontare la storia e l’evoluzione del paesaggio, parlando dei
singoli e “singolari” centri sardi, delle loro
incantevoli spiagge e dell’immacolato entroterra, rivelando le curiosità ed i segreti per
non perdere la strada ed il tempo, così preziosi quando si hanno pochi giorni per scoprire
un’isola vecchia di millenni.
Il grande impegno, nel cercare di essere il più
preciso possibile, rende questo lavoro appetibile sia per chi vuol comprendere la
Sardegna, sia per chi vuole approfondire le
proprie conoscenze, anche se bisogna ricordare che questo non è un testo scientifico,
piuttosto un’elegante almanacco di date, dati,
avvenimenti, luoghi e testimonianze. In tutto
il lavoro c’è un apporto tale di aiuti da parte di
sardi autoctoni e d’adozione, da non essere
sicuro di potermi definire l’unico autore dell’opera, piuttosto uno scrivano al suo servizio.
99
A
ll’interno della rubrica guida vacanze troverete i numeri utili per organizzare i
vostri soggiorni in Sardegna. Tutte le informazioni e gli
indirizzi delle attività turistiche dell’isola, complete e
a portata di mano per programmare e scegliere dove
trascorrere dei giorni indimenticabili.
v a c a n z e
Buona vacanza!
(Nei prossimi numeri di Mare Nostrum inseriremo
delle nuove categorie e completeremo gli elenchi
degli indirizzi)
Agriturismo
Alberghi e residence
bed&breakfast
Campeggi e ostelli
charter
g u i d a
diving
Immobiliari e case
noleggio auto e moto
ristoranti e pizzerie
shopping
101
g u i d a
v a c a n z e
l’isola di Sardegna
S
i n t r o d u z i o n e
e per un attimo ci si discosta dalla figura geografica classica che relega la Sardegna su un lato defilato dell’Italia, se si prende invece in
mano una cartina fisica dell’Europa (senza confini politici) e si riosserva l’isola, ci si accorge di come sorga nel bel mezzo del Mediterraneo, vicino all’Europa ed all’Africa, affacciata sull’Italia ma anche sulla Francia e
sulla Spagna. A questo punto si può iniziare a capire l’isola, la sua geografia, la sua storia ed i suoi popoli, da sempre al centro delle vicende
Europee. Oggi la Sardegna è famosa per le spiagge, l’ambiente incontaminato ed il buon cibo, la stessa situazione era valida per gli uomini primitivi, che nell’isola trovarono i materiali adatti per fabbricare armi, selvaggina
a sufficienza per sfamarsi ed un luogo ideale per rifugiarsi, grazie alla presenza di grotte e ripari sotto roccia. Da allora la Sardegna non è mai stata
abbandonata dall’uomo, che vi ha scavato le famose domus de janas (piccole necropoli nella roccia), innalzato centinaia di menhir e dolmen,
costruito templi ed altari megalitici. I nuraghi sono solo le costruzioni più
recenti della preistoria sarda, il culmine della società e non l’inizio della
vita sull’isola, come volevano invece alcune superficiali analisi del passato.
Baunei,
Cala Goloritzè
g u i d a
v a c a n z e
Di seguito su questo lembo di terra si sono succeduti i più grandi imperi mediterranei, come quello
fenicio, quello punico e quello romano e dopo la breve parentesi vandala fu il turno di quello bizantino, fino al periodo di autogoverno conosciuto come la gloriosa età giudicale. A tutto questo viavai
di conquistatori i sardi non assistettero passivamente, ma opposero una resistenza mai debellata, riparandosi dietro i bastioni delle impervie montagne. A riprova di questa resistenza c’è il toponimo
Barbaria, affibbiato dai romani alle zone più impervie, chiamate come i regni esterni all’impero, con
la piccola differenza che queste erano nel suo cuore. La Sardegna, su una superficie di 24.090 Km2,
ha un solo lago naturale, tutti i maggiori fiumi hanno carattere torrentizio ed è battuta quasi costantemente dal maestrale, che palesa il suo impeto nei bizzarri alberi che fungono da bussola, nella loro
crescita angolata verso sud-est. Per ovviare a questa situazione, nell’ultimo secolo si è dato il via a
numerose opere di sbarramento dei principali corsi d’acqua, creando dei vasti laghi che hanno favorito la nascita di centri abitati e modificato l’economia. Seppure nell’isola ci siano delle brevi parentesi minerarie e industriali, i suoi capisaldi economici sono sempre stati l’agricoltura e la pastorizia.
Da questi ne è derivato un prolifico settore artigianale, che solo ultimamente è stato scoperto dal
mondo esterno, dando il via ad un’attivissima esportazione. Ma ovunque si vada nell’isola si respira
che la nuova tendenza economica va tutta per il turismo ambientale, per la valorizzazione del territorio, delle tradizioni e dei prodotti locali, generati da quella Sardegna millenaria che un tempo veniva
considerata come un grossolano residuo di un’era arcaica, mentre oggi è indiscutibilmente ritenuta lo
scrigno di bellezze senza tempo.
Superficie
24089 Kmq ca. isole comprese
Popolazione
1.651.888
Corpo forestale 1678.65065
Guardia Costiera 167.090090
Soccorso Stradale 116
Soccorso Alpino 070.728163-0784.31070
Province
Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano
Coste: 1.850 Km
Come Arrivare
Linee Aeree
Alitalia Aeroporto di Elmas
(CA) Tel. 070.240079
Volare Airlines
Aeroporto di Elmas (Ca) 070.2128263
Meridiana
Olbia Aeroporto Costa Smeralda
Tel. 079.52637
Cagliari Aeroporto di Elmas
Tel. 070.240169
AirOne prenotazioni
Tel. 848 848 880
Collegamenti Marittimi
Tirrenia
Olbia (SS) viale Isola Bianca Tel. 0789.24691
Cagliari (CA) via Campidano Tel. 070.654664
Porto Torres (SS) Stazione Marittima
Tel. 079.514107
Linea i Golfi
Partenze da Livorno e da Piombino per
Olbia e Cagliari e viceversa
Olbia Tel. 0789.21411
Sardegna Lines
Cagliari Tel. 070.655359
Olbia Tel. 0789.27933
Grandi Navi Veloci- Grimaldi
Tel. 010. 589331- 555091
Moby Lines Navarma
Olbia Tel. 0789.52600
Sardinia Ferries
Olbia Tel. 0789.25200
i n t r o d u z i o n e
Informazioni Generali:
E.S.I.T. Ente Sardo Industrie Turistiche
Cagliari Tel. 070.60231
Enti Provinciali Turismo:
Cagliari Tel. 070.651698
Sassari Tel. 079.299544
Nuoro Tel. 0784.30083
Oristano Tel. 0783.74191
Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo
Alghero Tel. 079.974881
Arzachena Tel. 0789.81090
Cagliari Tel. 070.664195
La Maddalena Tel. 0789.736321
Olbia Tel. 0789.21453
Palau Tel. 0789.709570
Santa Teresa di Gallura
Tel. 0789.754185
Sassari Tel. 079.233534
Unione Sarda Albergatori
Cagliari Tel. 070.288370
I.S.O.L.A Istituto Sardo Organizzazione
Lavoro Artigianato
Tel. 070.400707
Numeri Utili
Carabinieri 112
Polizia 113
Vigili del fuoco 115
Arbatax
AGRITURISMO
ALBERGHI E RESIDENCE
GAVOI
ARZACHENA
AGRITURISMO CANDELA Loc. Candela
cell. 329/9660095- 338/1522418 www.agriturismocandela.it
[email protected]
AGRITURISMO RENA loc. Rena tel. 0789/82532
ALGHERO
AGRITURISMO FUEGO loc. Conchedda, Lago di Gusana
tel. 0784/52052
LUOGOSANTO
AGRITURISMO B&B CONCASONI di Pirina Marta Caterina
Loc. San Trano tel. 079/652363 cell. 333/9046747
BOSA
AGRITURISMO COLUMBARGIA Loc. Tres Nuraghes
tel. 0785/41224 cell. 328/9462239 – 338/1328243
PALAU
AGRITURISMO LI ESPI Loc. Li Espi Strada Isola dei Gabbiani
(Porto Pollo) tel./fax 0789/705032 cell. 348/6951023
www.agriturismocolumbargia.it
www.liespi.it [email protected]
BUDONI
AGRITURISMO “SOS RIOS” Loc. Sos Rios
tel. 0784/826072- 826132 cell. 330/752085 – 349/0828942
SANTA TERESA GALLURA
AGRITURISMO LI NALBONI Loc. Li Nalboni tel. 0789/754001
cell.340/9767572
www.sosrios.it [email protected]
L’AGRICOLA SALTARA Ristoro e Soggiorno
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