150 anni di pietre vive In copertina: così come poteva essere la chiesa precedente a quella attuale (fino al 1859); con la facciata rivolta sulla “strada maestra” (talvolta chiamata “strada delle Lamme”). Adiacente ad essa, uno degli edifici abbattuti per far spazio all’attuale Piazza Attilio Gadani. PARROCCHIA DI SAN PIETRO DI CASTELLO D’ARGILE Supplemento a: Bollettino della Parrocchia di San Pietro di Castello d’Argile (Bo) Anno XIV – n. 5 – Dicembre 2013. INDICE pag. 4. . . . . . . . Pietre vive… pag. 5. . . . . . . . Storia della chiesa di Castello d’Argile pag. 7. . . . . . . . ma… c’è un’altra storia, fatta di persone… Molti lasciano un vuoto, qualcuno sceglie di lasciare un esempio pag. 10. . . . . . . I parroci di Castello d’Argile… negli ultimi 150 anni pag. 10. . . . . . . don Giovanni Cavalli; pag. 10. . . . . . . Monsignor Raffaele Giordani; pag. 10. . . . . . . Monsignor Vincenzo Gandolfi; pag. 12. . . . . . . don Mario Minello; pag. 14. . . . . . . don Andrea Astori; pag. 15. . . . . . . Sacerdoti di origine argilese pag. 16. . . . . . . Nostri sacerdoti in servizio pastorale pag. 17. . . . . . . Ministeri pag. 18. . . . . . . Raffaele Orsi pag. 22. . . . . . . Zirudella di Pietro Maccaferri per Raffaele pag. 25. . . . . . . Gaetano e Cesare Boninsegna - sacrestani. pag. 27. . . . . . . Secondo ed Umberto Puggioli pag. 28. . . . . . . Perle preziose Pace Cremonini e Padre Marella pag. 29. . . . . . . Bruno Marchesini pag. 30. . . . . . . L’angelo bianco (Suor Maria Camilla Gili) pag. 32. . . . . . . Mary belia e dott. Rubini pag. 33. . . . . . . Zirudella di Armando Cortesi (Dosi) per il dott. Rubini. pag. 34. . . . . . . Il bene è qualcosa che rimane Chiesa accogliente P ietra “viva” è un controsenso. Cosa c’è di meno vivo di una pietra: non cambia, non cresce, nemmeno invecchia o muore. In compenso la vita è fragile, si spande ovunque possibile, si adatta, si moltiplica. Alla voce “pietre vive” internet propone: una artista che dipinge sassi, un blog, alberghi, bad & breackfast e anche un sito dal titolo “Annunciare il vangelo che è nell’Arte”. Sulle prime risposte al quesito c’è ben poco da dire; l’ultimo sito ci parla di pietre, che però rappresentano ben altro. Ci rimandano a Cristo e al Vangelo, con tutto ciò rimangono pur sempre e solo pietre. Ciò che dà loro vita è l’opera, l’ingegno, la fede quella sì “viva” di uomini che con queste opere vogliono rendere lode a Dio. Ma pietre erano e pietre sono rimaste. Una pietra se veramente è viva non può essere “qualcosa” ma “qualcuno” su cui potersi appoggiare, costruire, “modellarsi”, quindi vita vera, intera, totale. Qualcuno che come pietra sia un punto di riferimento, “un centro di gravità permanente”, in un mondo che ha fatto della liquidità e non della solidità il suo modo di essere. La Sacra Scrittura ci parla più volte di pietre vive: già nell’antico testamento riferendosi a Cristo è scritto: “La pietra che i costruttori avevano disprezzata è divenuta la pietra angolare” (Sal 118:22). È Cristo stesso che poi parlando a Pietro dice: “E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere” (Mt 16:18); lo stesso Pietro poi nella sua prima lettera ha scritto: “anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2:5). Cristo è quindi LA pietra viva su cui poggia ed è costruita la sua Chiesa, di cui Pietro e i suoi successori sono segno tangibile di unità. A sua volta tutti noi siamo chiamati ad essere “pietre vive” e con noi tutti quelli che ci hanno preceduti e che non cessano di essere vivi. Chi poggia sulla pietra, che è anche la vita per eccellenza, ne ha quindi la pienezza e non conosce la morte. I fratelli che ci hanno preceduto in questa vita e che qui ricordiamo con questo numero del bollettino, sono pietre che ancora oggi vivono con noi. Insieme a loro possiamo, anzi dobbiamo ricordare i nostri padri e madri, i nonni e le nonne, tutte le nostre famiglie che ci hanno dato la vita e ci hanno trasmesso la fede. Fin da piccoli ci hanno introdotti ai rudimenti della fede, pregando insieme a noi, insegnandoci le preghiere con cui rivolgerci a Lui per ringraziarLo nei momenti belli e per affidarci a Lui nei momenti di difficoltà; ci hanno condotto per mano ai piedi della Madonna, madre a cui affidarsi con confidenza e fiducia. Pietre vive della Chiesa e di una comunità, di una piccola Chiesa, quella di Castello d’Argile, alla cui costruzione siamo chiamati noi ora, oggi. Chiamati, insieme a tutti loro, ad essere parte costitutiva di una casa spirituale senza mai dimenticare di essere “stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Ef 2:20). Lorenzo Bovina 4 STORIA DELLA CHIESA DI S. PIETRO IN ARGILE L a chiesa attualmente presente nel centro storico di Castello d’Argile è la terza in ordine di tempo costruita e dedicata all’Apostolo Pietro. La prima era stata costruita in data imprecisata in Bisana, nella zona poi detta di “S. Pietro vecchio” (nell’angolo tra via Zambeccari e via Minganti), citata negli estimi e in elenchi di chiese del 1300 e poi in documenti del 1400 e 1500, quando era ormai solo un rudere. La seconda fu costruita nel 1380, quando fu edificato il nuovo “Castello d’Argile”, centro abitato a forma di castrum racchiuso da palancato e fosse circondarie. Aveva 5 altari laterali e si affacciava verso ovest sulla “strada maestra”, quasi di fronte all’antico palazzo con porticato, originarimente sede dei primi Vicari mandati dal Comune di Bologna; il campanile, costruito un secolo dopo, si trovava dove è ora la canonica. Ai lati aveva due cimiteri, uno per i piccoli e uno per gli adulti, utilizzati fino al 1810. La chiesa attuale si affaccia sulla piazza Attilio Gadani. È stata costruita tra il 1859 e il 1863, su progetto e direzione dei lavori del capo-mastro e architetto Giuseppe Brighenti, che già aveva realizzato il campanile circa 20 anni prima, ed era allora il più noto ed attivo costruttore di edifici religiosi nel bolognese. Lavorarono materialmente alla costruzione in particolare il capomastro locale Benedetto Mastellari e tanti muratori e artigiani del luogo, oltre ai contadini che collaborarono trasportando i materiali con i loro carri, e contribuendo con offerte di vario genere. Era allora parroco don Giovanni Cavalli, e i lavori ebbero inizio negli stessi giorni in cui si combattevano le battaglie della 2° Guerra di Indipendenza che segnò la fine dello Stato Pontificio. Nelle fondamenta furono inserite una moneta e due medaglie con immagini del papa Pio IX, allora al suo 13° anno di pontificato. L’edificio è di impostazione classicheggiante, con pianta a croce latina, colonne in stile ionico all’interno che reggono la cupola sopra l’altare maggiore; ai lati dell’unica navata, ci sono 6 altari, 3 a destra e 3 a sinistra, inseriti in piccole cappelle delimitate da balaustre. La chiesa è dedicata a S. Pietro, come lo erano le due chiese, sempre con titolarità di parrocchia, costruite nei secoli precedenti: la prima, che si trovava nel primo nucleo abitato di Argile, nella zona Bisana (tra via Zambeccari e via Minganti, di fronte all’imbocco di via Cappellana), già esistente nel 1200 e abbattuta intorno al 1563; la seconda, costruita nel 1380 insieme al nuovo Castello d’Argile, con facciata sulla strada “maestra”, abbattuta nel 1859. È stata inuaugurata la prima domenica di ottobre 1863 alla presenza del cardinale Viale Prelà; ma la facciata e molti dei lavori di finitura e abbellimento interno furono realizzati negli anni successivi. La facciata, con decori e cornici, fu eseguita nel 1870-71, subito dopo l’abbattimento dei 4 caseggiati che si trovavano al centro del paese e mentre si spianava la nuova piazza e si costruiva il Palazzo degli Artieri. Fu eretta sotto la guida di Vincenzo Brighenti (figlio di Giuseppe) e grazie all’opera di tanti muratori del luogo. Nel 1872 furono collocate le due statue dei santi Pietro e Paolo, offerte dalla Cassa di Risparmio di Cento. La pala dell’altare maggiore, raffigurante la “liberazione” di S. Pietro, fu eseguita dal pittore Natale Selleri, di Padulle, e fu donata dal parroco Don Raffaele Giordani, appena insediato in parrocchia ad Argile, nel 1887. Il Battistero, con bacile e coperchio in marmo pregiato, sorretto da angioletto in bronzo, fu donato nel 1894 dal conte René Talon (figlio dell’ultima erede dei Sampieri, Carolina) e dalla moglie, marchesa Maria Mazzacurati, in segno di ringraziamento per la nascita (pochi mesi prima) del loro primo figlio maschio, Omer, dopo 8 anni di matrimonio. L’antico palazzo a Volta Reno, dove i Sampieri-Talon 5 risiedevano saltuariamente, era sotto la parrocchia di Argile; il neonato era stato però battezzato nella chiesa “metropolitana” di S. Pietro in Bologna. Nel 1900, per celebrare degnamente “l’anno santo”, Don Giordani fece eseguire dal “lanternaio” argilese Aurelio Veronesi i 4 lampadari in ferro che calano sul presbiterio, e commissionò al pittore professor Cesare Mauro Trebbi di Bologna gli affreschi sulla vita di S. Pietro che decorano l’abside e il “mezzocatino” soprastante l’altare maggiore; i pittori Antonio Mosca e Francesco Fabbri di Pieve di Cento eseguirono le decorazioni e l’ornato sulle pareti circostanti. La tribunetta in marmo posta sul ciborio dell’altare maggiore fu scolpita nel 1903 dallo scultore Armando Scannabissi, nativo di Armarolo di Budrio. I 6 altari laterali in marmo, commissionati alla ditta Canepa di Bologna, furono realizzati in tempi diversi, tra il 1912 e il 1928, dapprima su iniziativa di don Giordani e poi del successivo parroco, don Vincenzo Gandolfi (in Argile dal 1913 al 1960). Sui suddetti altari furono posti grandi quadri che probabilmente erano già presenti nella chiesa precedente. • Nella prima nicchia a destra dell’entrata fu posta una statua della Madonna del Carmine con Bambino, di fattura ottocentesca, circondata da reliquie; alla base, davanti a questa immagine è un’arca sepolcrale dove sono sepolti i resti di 3 parroci del secolo 1800: don Macari, don Cavalli e don Giordani, traslati qui nel 1931. • Nella successiva prima cappella a destra, dotata di altare, è collocato un quadro di probabile fattura seicentesca, raffigurante i Santi Prospero e Pancrazio (a sinistra), S. Elisabetta d’Ungheria (al centro), S. Rita e S. Antonio Abate (a destra), in atto di venerazione di una Madonna con Bambino che appare in cielo (o “in gloria”). Quadro che porta i segni di ridipinture e ritocchi e probabile sostituzione di figure. • Nel secondo altare a destra, si trova un grande quadro raffigurante i “15 Misteri del Rosario”, con al centro una nicchia in cui è collocata una piccola statua di Madonna con Bambino. Il quadro risale probabilmente alla fine del 1600 e si trovava già nella precedente chiesa, in quanto citato in un altare laterale dedicato appunto alla Madonna del Rosario. La statua fu donata nel 1844 dalla pia parrocchiana Anna Maria Davoli, vedova del mercante e ricco possidente Giuseppe Simoni (nonna di Massimo Simoni sindaco di Argile dal 1884 al 1904), in sostituzione di una precedente statua considerata troppo piccola e brutta. • Il terzo ed ultimo altare a destra è dedicato a S. Antonio da Padova, con una statua del santo che regge con una mano un Gesù bambino e con l’altra uno stelo con gigli. Statua in terracotta di probabile fattura settecentesca, proveniente dalla chiesa annessa al Convento dei Ronchi di Venezzano. Fu prelevata e donata alla chiesa di Argile dalla Confraternita intitolata a S. Antonio, nel 1811, quando furono definitivamente chiusi chiesa e convento, soppressa e dipersa la comunità di frati francescani che vi risiedevano e vendute le loro proprietà. • Sul lato sinistro della navata, dopo il battistero succitato, sul primo altare si trova un grande quadro raffigurante i 3 arcangeli, Gabriele, Michele e Raffaele, di fattura settecentesca, e proveniente probabilmente dalla chiesa precedente. 6 • Sul secondo altare altro grande quadro raffigurante S. Giuseppe sul letto di morte (o “transito” secondo il linguaggio liturgico e iconografico); di fattura ottocentesca, a imitazione di un quadro noto a quel tempo del pittore Franceschini; risultava già in inventario nella chiesa precedente. • Il terzo altare è sovrastato da un dipinto che presenta al centro un Crocefisso, con ai lati i santi Sebastiano e Rocco. Opera che risale probabilmente agli anni immediatamente successivi alla epidemia di peste (1630), commissionata in segno di ringraziamento dai sopravvissuti, come era consuetudine frequente di quel tempo. La pavimentazione attuale della chiesa in mattonelle esagonali in terracotta di colore rosso bruno, intervallate da mattonelle bianche disposte secondo un disegno geometrico a forma di croci, fu posata nel 1915, su progetto dell’ing. Carlo Ballarini di Bologna, incaricato dal nuovo parroco, don Vincenzo Gandolfi (insediato nel 1913). La balaustra in marmo che separa il presbiterio, riservato al sacerdote, dalla navata della chiesa riservata al pubblico, fu costruita nel 1932, su progetto e direzione lavori del prof. Giuseppe Rivani, architetto bolognese molto noto per altri lavori eseguiti in chiese bolognesi. Nella chiesa di Argile sono tuttora conservate due opere antiche e importanti, ma poco note alla stessa popolazione dei fedeli del luogo. Si tratta dei frammenti di un affresco raffigurante un Crocefisso con la Madonna e S. Giovanni inginocchiati ai lati della croce. Ai piedi della croce è ancora ben visibile la testina che riproduce certamente il profilo del committente dell’affresco; alla base delle figure principali c’è una striscia decorata, con al centro lo stemma di un casato, probabilmente dello stesso committente, e una scritta, solo parzialmente leggibile, che testimonia che l’opera fu eseguita quando “fu principiado lo chastelo de Arzele”, cioè nel 1380. L’altra opera importante è un crocefisso processionale in argento brunito, alto circa 35 cm., di ottima fattura, in passato attribuito al Giambologna (lo scultore della statua del Nettuno a Bologna), senza però alcun riscontro documentale. Potrebbe invece essere stato realizzato e donato alla chiesa di Argile dallo scultore bolognese Alessandro Menganti (autore della statua di Papa Gregorio XIII sulla facciata di Palazzo D’Accursio) che visse in Argile gli ultimi anni della sua vita e qui fu sepolto il 2 settembre 1609. Magda Barbieri PS. Per maggiori informazioni sulla Chiesa: Magda Barbieri “La terra e la gente di Castello d’Argile e di Venezzano ossia Mascarino”, vol. II, 1997, (pag. 464-506 e foto da pag. 521 a 528). Per il Crocefisso in argento: ibidem, vol I, 1994, ( pag. 290/297/346) 7 Questa è la storia, in forma breve, della nostra chiesa parrocchiale edificata con mattoni su solide fondamenta… ma… 8 …c’è un’altra storia, fatta di persone, di intere famiglie, di intenso lavoro, di intensa preghiera che è “fondamenta” della nostra comunità. MOLTI LASCIANO UN VUOTO. QUALCUNO SCEGLIE DI LASCIARE UN ESEMPIO. 9 — I PARROCI DEGLI ULTIMI 150 ANNI — Don Giovanni Cavalli (dal 1848 al 1886) D edicò grande impegno alla realizzazione della nuova chiesa (1859-1863) e al completamento della facciata (1871). Visse negli anni più difficili del grande conflitto politico-religioso che si era creato in seguito alla fondazione del Regno d’Italia e alla fine dello Stato Pontificio e del “potere temporale”. Nel 1866 fu imprigionato per un mese, insieme ad altri parroci bolognesi e 2 assessori di Argile, perché sospettato di ostilità contro il nuovo Governo, mentre l’Italia stava entrando nella 3° guerra di Indipendenza. Morì all’età di 70 anni, dopo 38 di attività pastorale in Argile. Sepolto dapprima nel cimitero comunale, la sua salma fu traslata in chiesa nel 1931. Monsignor Raffaele Giordani (dal 1887 al 1912) D ottore in Sacra Teologia; autore di una “Orazione panegirica” intorno a San Nicolò di Bari Arcivescovo di Mira, pubblicata in un libretto insieme alla “Allocuzione tenuta agli argilesi dall’arciprete Don Raffaele Giordani nel giorno del suo possesso”. Ebbe sempre grande cura della chiesa locale e volle abbellirla e completarla al suo interno. Diede grande solennità alle funzioni religiose; riordinò l’archivio parrocchiale e lasciò sempre “memorie” scritte delle sue iniziative più importanti. Di famiglia benestante bolognese (di cui conservava lo stemma araldico), contribuì anche con risorse personali alle spese di abbellimento della chiesa. In linea con le indicazioni di Papi e Arcivescovi, favorì la costituzione delle Monsignor Giordani prime associazioni cattoliche con fini non esclusivamente ecclesiali, per stimolare l’impegno politico-sociale dei cattolici in contrapposizione con l’associazionismo (leghe”, sindacati…) di braccianti e operai che confidavano nelle “dottrine sovversive” del socialismo. Per questo suo impegno “politico” attivo, condotto insieme ad un animoso cappellano (Don Ludovico Avoni) fu bersaglio di forti contestazioni popolari ed accusato di connivenza con gli interessi dei “padroni”. Fu Canonico della Collegiata di S. Giovanni in Persiceto ed ebbe importanti incarichi di predicazione conferitigli dagli Arcivescovi diocesani. Morì nel 1912 all’età di 59 anni, dopo 25 di ministero sacerdotale in Argile. Monsignor Vincenzo Gandolfi (dal 1913 al 1960) M onsignor Vincenzo Gandolfi, nato a Cento nel 1881, è stato parroco di Argile dal 1913 al 1960, anno della sua morte. La sua figura è rimasta viva nella memoria degli argilesi, per la lunghissima durata (47 anni) e per la incisività della sua presenza, anche perché vissuta in un periodo storico di altissime tensioni sociali e forti contrapposizioni ideologiche, oltre che travagliato da due guerre mondiali. Si rivelò subito di forte personalità e intenzionato a continuare a impegnarsi sulla stessa linea del pur influente predecessore, mons. Raffaele Giordani, per animare e attivare i fedeli cattolici anche fuori dell’ambito religioso, nel contesto sociale e politico del tempo. Monsignor Gandolfi Tra il 1916 e il 1922 promosse la costituzione di nuove organizzazioni cattoliche, circoli giovanili maschili e femminili, tra cui l’”Azione Cattolica” e la “Lega bianca dei coloni e dei braccianti” (in evidente contrapposizione con le “Leghe rosse” social-comuniste). Nel 1919 acquistò dai Veronesi il grande palazzo con portico al centro del paese e 1o fece ristrutturare per adibirlo a sede delle “Opere Parrocchiali” e come dimora per le Suore della Congregazione delle “Serve di 10 Maria della Galeazza”, che si occuparono poi sempre dell’asilo parrocchiale allora istituito, del doposcuola, del catechismo e della scuola di cucito. Fu sempre molto attento alle questioni politiche e apertamente schierato contro le ideologie socialista e comunista, e di conseguenza nel 1920 fu oggetto (come mons. Giordani prima di 1ui) di manifestazioni popolari ostili. Monsignor Gandolfi con un gruppo di parrocchiani Ma non ebbe un buon rapporto nemmeno con i fascisti, e fu da essi osteggiato nel periodo iniziale (quando il fascismo aveva una impronta fortemente anticlericale). Nel 1931 fu anche denunciato dai fascisti, nel periodo in cui era entrato in crisi il “Concordato” tra Stato e Chiesa stipulato con la “Conciliazione” del 1929, in seguito alla decisione di Mussolini di sopprimere tutte le organizzazioni cattoliche. La denuncia fu poi ritirata e seguì un periodo di coesistenza più o meno collaborativa con il regime, fino al 23 luglio 1944, quando don Gandolfi fu arrestato dalla polizia tedesca perché accusato di aver fatto propaganda antifascista e antitedesca e complottato con i partigiani; venne poi rilasciato, il giorno seguente, dopo un interrogatorio svoltosi presso il Comando tedesco a Bologna. Con lui furono arrestati e poi rilasciati l’ex podestà Gabriele Gandolfi, il maestro Formaglini, il Marchese Talon e suo figlio. Probabilmente si trattò di un’azione intimidatoria. Nel dopoguerra riprese il suo impegno pastorale e politico-sociale, organizzando “Missioni”, convegni e pellegrinaggi; nel 1948 fondò la sezione 1ocale delle ACLI. Nel 1951, con il contributo economico dei parrocchiani, fece costruire il Teatro adibito anche a cinema, in via Marconi, a fianco dell’asilo infantile, ampliato poi nel 1955. Come parroco, Mons. Gandolfi si distinse per severità e rigore, esprimendosi spesso, dall’altare, sul “Bollettino parrocchiale” e nei contatti diretti, contro i divertimenti, il ballo e il cinema e le mode nel vestire, considerati troppo liberi e immorali. Per il suo zelo e la sua competenza fu apprezzato dai superiori della gerarchia ecclesiastica (pur con qualche momento di dissenso col Cardinale Nasalli Rocca) e fu nominato Canonico della Collegiata di Cento; nel 1938, ebbe il titolo di “Cameriere d’Onore di sua santità il Papa”, con diritto di vestire “l’abito paonazzo”. La sua intensa stagione terrena finì il 9 gennaio 1960, all’età di 79 anni. È sepolto nel cimitero di Argile, in una tomba di famiglia dove si trovano anche le spoglie della sorella, morta giovane poco dopo il suo trasferimento in Argile. Magda Barbieri (Per maggiori informazioni su don Gandolfi, vol II pag 266, 335, 493, 495 e tante altre del periodo storico in cui ha vissuto). 11 Don Mario Minello (dal 1960 al 1998) 22 maggio 1960, giorno di Santa Rita, don Mario Minello prende possesso della parrocchia di Castello d’Argile, che guiderà per un periodo di quasi 40 anni. Gli argilesi vanno ad accoglierlo presso il ponte vecchio di Cento e lo accompagnano fino ad Argile. Nell’omelia della messa di insediamento, Don Mario rivela il possesso di una spiritualità profonda che non ha mancato di mettere a frutto con il dono di se stesso, amando e soffrendo per la comunità a lui affidata con l’aiuto della Madonna e dello Spirito Santo, nei quali confidava. Ha sempre cercato di plasmare e di formare i suoi fedeli a una vita di fede distaccata dai beni materiali, dando l’esempio lui per primo vivendo in povertà. Lo ricordiamo come confessore - 22 maggio 1960 per i preziosi consigli e la direzione spirituale che sapeva dare a La comunità di Castello d’Argile coloro che confidavano in lui. Non si stancava mai nel tentativo accoglie don Mario Minello di far comprendere ad ogni singola anima il valore del Divin a Porta Pieve. Sacrificio della messa e diceva:” Se i fedeli ne comprendessero il valore ne ricaverebbero effetti mirabili”. Purtroppo a volte si finisce per fare l’abitudine alle cose più sante. Ma nel prendere possesso della nuova parrocchia Don Mario eredita anche una pesante situazione economica, che lo impegna per diversi anni. Una volta risolti tali problemi Don Mario, con sapiente lungimiranza, sostenuto dalla divina grazia e dalla potente intercessione della Vergine Maria, della quale era ardente e tenero devoto, si butta nell’impresa di costruire una nuova scuola materna che meglio rispondesse alle moderne esigenze educative. La nuova scuola rimane l’opera più amata e voluta da Don Mario, quella vecchia era ormai insufficiente e poco funzionale. Tutte le mattine era presente quando venivano portati i bimbi alla scuola e non mancava mai il suo saluto e il suo sorriso accogliente, che era come una benedizione. E se il suo carattere era chiuso e riservato, lui quei bambini li ha amati tutti e l’amore è quella cosa che plasma e infonde fiducia, perché è il riflesso dell’amore del Padre. Mi viene da pensare, senza ombra di dubbio, che l’impegno e l’amore che don Mario ha dedicato a questa scuola abbiano impresso in modo indelebile, non solo sul complesso della struttura ma su ogni singolo mattone che la compone, la scritta “scuola materna Don Mario Minello”; e dal cielo, dove si trova, non mancherà di intercedere per il suo buon funzionamento. Nei 40 anni di vita pastorale dedicati da don Mario alla comunità di Castello d’Argile non sono mancate le vocazioni sacerdotali: con cinque preti, dal 1980 al 2002. Da dove tanta fecondità? Don Mario passava diverse ore in chiesa, assorto in preghiera per il bene della comunità a lui affidata. Il suo posto preferito era di fianco all’altare della Madonna, dove celebrava la liturgia delle ore e recitava il Santo Rosario intero. Chi voleva confessarsi lo trovava sempre e sempre disponibile con i suoi preziosi consigli; e non mancava di esortare alla maniera di S. Paolo (Colossesi. 3, 12-17). Don Mario era rifugio e sicuro aiuto per la pecorella smarrita, che veniva curata e messa al 12 riparo dai lapidari giudizi e commenti che troppo spesso provengono da noi membri stessi della comunità parrocchiale, quando ci dimentichiamo che essere parte della chiesa vuol dire essere parte della “sposa bella e fedele di Cristo sposo, che per lei dà continuamente tutto se stesso”. Chi non ricorda i campi scuola a Lizzano in Belvedere? Là don Mario si trasformava completamente e il suo carattere chiuso e riservato lasciava il posto a una grande disponibilità e dolcezza. Sono sicuro che tutti i ragazzi, animatori, catechisti, adulti e chiunque altro abbia partecipato ai campi conservi in cuor suo tali ricordi. Don Mario era molto geloso del decoro della sua chiesa e la custodiva con zelo e con altrettanto zelo aveva educato la sua comunità al rispetto del luogo sacro, tanto da far dire al cardinale G. Biffi: ”Quando si entra in questa chiesa si percepisce il senso del sacro e quando - 22 maggio 1960 si celebrano i santi misteri il raccoglimento, il Celebrata l’Eucaristia, il nuovo parroco benedice i fedeli. silenzio e l’attenzione dell’assemblea danno al celebrante la gioia di contemplare i misteri della vita di Gesù dall’incarnazione alla sua ascensione al cielo; nella diocesi luoghi come questo sono rari”. Ma la vita di Don Mario negli ultimi anni è stata segnata dalla sofferenza della malattia; forse ha provato il suo Getsemani nel sentirsi abbandonato e privato dei luoghi a lui più cari come la canonica, nella quale ha vissuto in povertà per quarant’anni. Ha dovuto anche subire prepotenze e umiliazioni e se in questo stato di desolazione qualche ombra ha lievemente scalfito la sua immagine, beati coloro che con sapienza biblica hanno saputo stendere un velo pietoso (Genesi 9,20-27), per poter conservare in cuor loro un ricordo limpido e genuino della sua vita e del suo insegnamento. Grazie Don Mario Quinto Un giorno felice per don Mario 13 Don Andrea Astori (dal 1998 al 2010) parroco ed amico. N on so che dire. Mi sento inadeguato. Tanti anni con la fortuna di avere Don Andrea come parroco, come guida, come amico e non il coraggio di scrivere un ringraziamento, un saluto. Mi sforzo di farlo perché ritengo doveroso che in questa occasione ci si ricordi del Don in un suo aspetto che, quando arrivò, fu per noi nuovo, e come tutte le cose nuove provocò anche chiacchiere e incomprensioni. Le “gite”. “Ma d’un vel, cà gnè mai!”. Quanti di Argile, o anche non di Argile, non hanno partecipato almeno una volta a una gita, un pellegrinaggio, una camminata? Alzi la mano. E quanti ne sono tornati più aperti, comprensivi, attenti all’altro, scoprendo quanta ricchezza c’è in ognuno di noi, dentro persone che abbiamo avuto a fianco da una vita, magari nel banco della chiesa, ma a cui fino ad allora non avevamo mai rivolto la parola? Il Don voleva fare di noi una comunità, non una “organizzazione”, una “aziendina” che realizza “cose”, organizza “avvenimenti” che, anche se belle e utili, rimangono sempre e solo “cose”. Ci ha aiutati a scoprire chi sta intorno a noi come persona. Don Andrea amava molto viaggiare. Con tutte le ricchezze che ognuno di noi ha e che può Eccolo in Terrasanta. mettere a disposizione. Chi sa cantare, chi scrivere, chi organizzare, chi ridere e anche (e non è facile!) chi sa stare zitto. Tutti potevano portare alla “mensa comune” quanto avevano di buono, e tu ci hai aiutati a scoprire che TUTTI hanno qualcosa di buono da offrire. Don, quante volte alle gite la tue pecorelle brontolavano perché con le tue gambe lunghe rischiavi di lasciarle indietro. Non ne hai persa nessuna. Grazie Don. N Lorenzo Bovina on posso dire di aver conosciuto bene don Andrea, perchè quando è diventato Parroco di Castello d’Argile, nel 1998, io ero in seminario; un anno dopo sono diventato Diacono (ottobre 1999) e nell’anno seguente Sacerdote (settembre 2000). In quegli anni, e meno ancora, negli anni seguenti, ho frequentato poco la Parrocchia di Castello d’Argile e la persona di don Andrea. Tuttavia voglio cogliere questa occasione per ricordare due frasi di don Andrea che mi hanno colpito. A celebrare l’Eucaristia nel deserto di Giuda. 1) Durante la Messa dell’Ordinazione diaconale di don Eugenio Guzzinati, don Andrea ed io stavamo in piedi a breve distanza dai neo-ordinati, pronti a portare a don Eugenio gli abiti diaconali per il rito della vestizione. Non ricordo che cosa io stessi pensando nell’attesa del momento del nostro ingresso in scena; ricordo invece che don Andrea a un certo punto si voltò verso di me e mi disse: “Prega anche tu lo Spirito Santo!”. Una frase semplicissima che mi ha spiazzato e che mi è rimasta dentro in tutti questi anni. 2) La seconda frase fu detta da don Andrea durante un campo a Coi di Zoldo: dopo una S. Messa celebrata con i ragazzi, don Andrea chiese a noi educatori come avevamo visto i ragazzi durante la seconda parte della Messa (dall’offertorio in poi). Mentre qualcuno di noi rispondeva facendo capire che era convinto che don Andrea avesse visto di persona la condotta dei ragazzi, don Andrea intervenne e disse: “Ah no, io in quella parte della Messa non guardo mica i ragazzi”. Queste parole mi hanno colpito, perchè mi hanno ricordato quanto è importante l’attenzione al rapporto con Dio e a quello che si sta facendo durante la Messa. Saluti a tutti. don Michele Veronesi 14 SACERDOTI ORIGINARI DI CASTELLO D’ARGILE Dall’inizio del secolo scorso ad oggi, la parrocchia di Castello d’Argile ha donato alla Chiesa n. 12 presbiteri. Più precisamente (tra parentesi la data di ordinazione): don Corinto Capelli(1902) Parroco a San Biagio di Bargi don Ermenegildo Grassilli(1907) Parroco alla Ss. Trinità di Fiorentina don Primo Angelini(1908) Parroco a San Matteo di Molinella don Dogoli Busi(1935) Parroco a Santa Maria Assunta di Malfolle don Riccardo Zanarini(1935) Parroco ai Ss. Filippo e Giacomo di Casadio don Dino Vannini(1950) Parroco a San Michele Arcangelo di Bagno di Piano (Bo) don Remo Resca(1980) Parroco a San Giacomo di Piumazzo (Bo) don Remo Borgatti(1984) Parroco a Santa Maria di Fossolo (Bo) don Eugenio Guzzinati(1999) Arciprete a Santa Maria Assunta di Tolè. Parroco a Monte Pastore (Bo) Amministratore parrocchiale a Rodiano (Bo) don Michele Veronesi(2000) Arciprete a San Giovanni Battista e Pietro di Borgo Capanne (Bo) Parroco a Molino del Pallone (Bo) Amministratore parrocchiale a Lustrola, Granaglione e Boschi di Granaglione (Bo) don Marco Garuti(2002) Parroco a San Giovanni Battista di Scanello (Bo) Amministratore parrocchiale a Roncastaldo e Bibulano (Bo) don Paolo Bovina(2013) Incardinato nella diocesi di Ferrara 15 I NOSTRI SACERDOTI tuttora in “servizio pastorale” P iù volte ho udito dalla viva voce del Cardinal Carlo Caffarra “…questa terra a me tanto cara…, che ha dato (e continua a dare) i natali ad una bella schiera di presbiteri…” Tanti, tanti anni fa a Minerbio, durante un corso di Esercizi Spirituali, conobbi Mons. Marco Cè (allora Vescovo ausiliare a Bologna – successivamente Patriarca di Venezia) il quale, per attaccar discorso, mi chiese donde venissi… risposi: - “da Castello d’Argile”. Egli ribattè: - “di Castello d’Argile io conosco Da sinistra: Don Michele Veronesi, don Andrea Astori, i “due Remi” (trattavasi di Remo Resca e don Remo Borgatti, don Marco Garuti, don Remo Resca, Remo Borgatti, che in quegli anni studiavano don Eugenio Guzzinati. entrambi in seminario). Mi colpì tanto quella frase che non sono mai riuscito a togliermela dalla testa. I “due Remi della parrocchia di Castello d’Argile…”, quasi come fossero due remi di una barca in navigazione verso il Regno di Dio. I “due Remi” divennero poi sacerdoti entrambi (e sono tuttora in servizio pastorale presso parrocchie importanti) ed è per questo che la mia fantasia immagina che questo non sia un caso qualsiasi. “Due Remi” che spianano la strada ad altri giovani e li conducono a seguire il loro esempio; infatti dopo di loro, don Michele Veronesi, don Marco Garuti, don Eugenio Guzzinati, ed ora don Paolo Bovina; ancor prima di loro: don Dino Vannini. Ora mi sembra di comprendere meglio il significato delle parole del Cardinal Caffarra: - Questa terra benedetta dal Signore e a me tanto cara… quale dono più grande alla nostra comunità? Aldo Angelini 29 settembre 2013: don Paolo Bovina celebra la sua prima S. Messa nella parrocchia natale. 16 don Paolo, all’offertorio riceve doni da mamma e papà L MINISTERI a Chiesa è per sua natura ministeriale. Ogni cristiano, in quanto battezzato, è chiamato al ministero, cioè al servizio; e questo, come Gesù ha fatto e ci ha insegnato, non è tanto “fare dei servizi”, ma è mettere la propria persona a disposizione sua, per il bene dei fratelli. Nell’ultima sua cena, al termine della “lavanda dei piedi” Gesù ha detto: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.” (Gv 13,14-15). E altrove dice: “chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire...” (Mt 20,26-28). Nella Chiesa, quindi, tutti siamo chiamati a “servire”; alcuni, tuttavia, lo sono per una chiamata particolare (vocazione). Il loro ministero è confermato dal Sacramento dell’ordine, nel grado di Vescovo, di Presbitero e di Diacono. Lo Spirito, inoltre, dona a ciascun laico di sentirsi corresponsabile e di partecipare alla missione della Chiesa, secondo modi e tempi diversi. Emergono così i “Ministeri di fatto”, che vengono esercitati da tutti coloro che prestano il loro servizio - grande o piccolo, spesso in silenzio e senza alcuna gratificazione - per il bene di tutti, nella gestione della chiesa (arredi sacri, pulizie, fiori, ecc.), delle opere parrocchiali e nelle varie attività (catechesi, oratorio, ecc.). Tra i “Ministeri di fatto”, la Chiesa ne ha “evidenziato in maniera stabile” due, il Lettorato e l’Accolitato, collegati all’Eucaristia (Libro e Altare) e chiamati “Ministeri istituiti” perché prevedono un mandato speciale da parte del Vescovo: • il Lettore proclama la parola di Dio nell’assemblea liturgica, educa nella Fede i fanciulli e gli adulti, li prepara a ricevere adeguatamente i Sacramenti, annuncia il Vangelo a coloro che ancora non lo conoscono. Egli è quindi a servizio della Parola. • l’Accolito ha il compito di seguire e aiutare i Presbiteri e i Diaconi nello svolgimento del loro ufficio; come ministro straordinario distribuisce ai fratelli, anche ammalati, la Santa Comunione. Provvede inoltre ad animare la vita liturgica, favorendo la partecipazione fruttuosa dei fedeli alle celebrazioni eucaristiche, ha un sincero amore per il Popolo di Dio, con particolare attenzione ai deboli e agli infermi. Egli è quindi a servizio dell’Eucaristia e della carità. I Ministri istituiti, conosciuti già nella Chiesa antica, sono stati reintrodotti da Papa Paolo VI nel 1972. Essi, con la grazia che ricevono nell’istituzione, rappresentano un grande dono per la Chiesa e sono un segno visibile di ciò a cui, come si è detto, è chiamato ogni cristiano: il servizio alla comunità. (Note liberamente tratte dai documenti della Chiesa e dal Direttorio dell’Arcidiocesi di Bologna per la promozione e la formazione dei Diaconi permanenti e dei Ministri istituiti). Attualmente, presso la nostra Comunità parrocchiale, collaborano attivamente col Parroco: • 1 Diacono “permanente” (cioè non candidato al presbiterato): Quinto Chierici (dal 1991); • 7 Ministri istituiti (tutti Accoliti): Aldo Angelini (dal 1982), Orio Savoia (dal 1982 ), Agostino Grassilli (dal 1992), Massimo Pruni (dal 2003), Marco Gozza (dal 2004), Daniele Resca (dal 2007), Lorenzo Fiorini (dal 2011). 17 RAFFAELE ORSI (Raflein) 1893 La Divina Provvidenza visita la Comunità Parrocchiale di Castello d’Argile con la nascita di RAFFAELE presso la famiglia ORSI. È il 28 febbraio. 1915 1923 in trincea, al fronte, non si dimentica di pregare maturando qui la propria vocazione ad essere un laico educatore dei giovani, proclamatore dei valori evangelici, precedendo così i tempi nuovi della Santa Chiesa del Concilio Vaticano II° (1963), che invitava all’impegno dei laici nella Chiesa. a 30 anni, il parroco don Vincenzo Gandolfi, che gli ha perfezionato con diverse lezioni il suo italiano, l’ha educato all’interpretazione della Bibbia, gli ha precisato le norme morali insegnate dalla Chiesa e raccontato le vite esaltanti dei Santi, gli affida un incarico importante: quello di formare le nuove generazioni, cominciando dagli “Aspiranti”. Con tanta umiltà, preghiera, sacrificio e inventiva, Raffaele riusciva a trascinare tanti ragazzi, e alla fine di ogni gioco organizzato con loro, si faceva attentamente ascoltare. Era ogni volta un pensiero religioso: il racconto di un aneddoto della vita di S. Francesco o di S. Giovanni Bosco o un brano del Vangelo o della Storia Sacra. 1924 A 31 anni si trasferisce in Paese, nella modesta casetta che il Parroco gli ha riservato accanto alla Chiesa e con l’orto dietro casa proprio dove ora c’è la scuola materna. Ben presto cominciò ad attrezzarvi un UFFICIO BUONA STAMPA con l’“AVVENIRE D’ITALIA” ogni giorno, il “VITTORIOSO” per i ragazzi, ecc. Sfruttando la sua esperienza di ortolano, vendeva a prezzi stracciati le sementi per ogni tipo di ortaggio; e perché tutti portassero a casa un buon pensiero, nella carta che avvolgeva la semente non mancava di scrivere una massima di comportamento morale. Ogni occasione era buona per diffondere l’Amore di Dio. Era la testimonianza della povertà vissuta felicemente come valore cristiano. La sua casa divenne presto il centro di raccolta dei giovani che in qualche modo volevano impegnarsi nell’organizzazione dell’ORATORIO, nella filodrammatica, nella preparazione dei carri mascherati o nelle esecuzioni musicali con l’orchestra delle ocarine di Budrio. Raffaele si rivolse non solo ai frequentatori della Chiesa, ma a tutta la gioventù. Trova in parrocchia un ambiente tutto per loro ed apre così ogni sera quello che viene definito: “Oratorio S. Luigi” successivamente denominato “Ritrovo don Bosco”. L’Azione Cattolica, in piena fioritura, divenne un’organizzazione che comprendeva tutte le età e per queste si stampavano frequenti pubblicazioni che Raffaele provvedeva a far giungere a tutti i tesserati. È nella casetta di Raffaele che comincia l’attività della “Coop di consumo ACLI di C. d’Argile” in data 15-05-1949. 1953 1963 18 A 60 anni allestisce a sue spese la Biblioteca, sviluppa la circolazione dei libri e si dà alla loro rilegatura, imparandone la tecnica. Scorrono gli anni, cambiano i tempi, Raffaele resta fedele alla sua vita di preghiera e di azione tutta volta alla formazione dei giovani. A 70 anni dedica sempre più il suo tempo al suo piccolo negozio di cartoleria, alla biblioteca, alla rilegatura dei libri e alla costruzione di corone del Santo Rosario. È da annotare che con il suo piccolo commercio di cartoleria non sperava di conseguire profitti monetari, ma educativi. Quando al suo banco si presentavano ragazzi per chiedere una nuova matita, egli chiedeva bonario se veramente avesse finito quella che gli aveva venduto due settimane prima. Aggiungeva poi la raccomandazione di averne più cura, perché il babbo faticava per quei soldi. Oggi i tempi permettono ai giovani abbondanza di mezzi e pochi sono i ragazzi che conoscono il sacrificio o la mortificazione scelta liberamente. Raffaele in negozio 1974 A 81, anni avanzando l’età e gli acciacchi, chiude la sua attività commerciale-educativa. Per questo Raffaele non cessa di amare e pregare in silenzio per quelle opere per le quali ha dato tutto se stesso: la casa delle opere parrocchiali, l’Azione Cattolica, i giovani e gli uomini, il Circolo ricreativo S. Giovanni Bosco, la cura e la diffusione della Buona Stampa, le A.c.l.i. e il relativo Patronato Sociale, la Cooperativa di consumo. Raffaele non è l’uomo che condanna e divide; Egli è un uomo che non ha nemici. Testimone con la sua vita di evangelica povertà, di gioiosa penitenza, di amore a Dio e al prossimo. 1982 A 89 anni, il 19 dicembre, Raffaele è stato chiamato in cielo. O Alcune testimonianze: ggi, RAFFAELE, lo definirei un vero “Diacono” di eccellenza al servizio della comunità ecclesiale. Per me, Raffaele, è stato prima di tutto un Diacono nella preghiera quotidiana: lo conobbi quando il Parroco Mons. Gandolfi mi chiamò nel 1933 (avevo 7 anni) a fare il chierichetto. Tutte le sere andavo al Rosario, notando sempre la presenza di Raffaele con a fianco Angiolino Fariselli, qualche pia donna, i sacrestani Gaetano e Cesare Boninsegna, le 4 Suore, il Parroco o il Cappellano don Amedeo. Vedere sempre in Chiesa dei laici che non avevano una vocazione specifica alla vita consacrata, pregare sempre con Raffaele ed Angiolino nel loro orto grande fede, era un esempio sublime per tutti. (ove ora c’è la scuola materna) Laici che non avevano né diplomi né lauree, sempre fedeli alla preghiera quotidiana in Chiesa (S. Messa al mattino, Rosario alla sera), mi sono stati di grande aiuto, quando sono entrato in Seminario, dove la preghiera e lo studio mi hanno preparato a diventare sacerdote, celebrando nel 1950 la “prima Messa”. La «Diaconia di preghiera» di Raffaele, era di esempio al popolo argilese e tutti ne hanno avuto grande beneficio: « Raflén al prega semper » era un detto comune. Un altro aspetto di Raffaele è la sua «Diaconia di laboriosità, semplicità e povertà»: quando in seminario lessi la vita di San Francesco, il poverello di Assisi, mi si presentava sempre alla mente Raffaele nella sua quotidianità di preghiera, lavoro, povertà e semplicità. La porta della sua modesta casa era sempre aperta e ti accoglieva sorridente anche se stava tagliando patate, zucchine cipolla e carote per preparare quel brodino di verdure che inondava col suo profumo tutta la casa, profumo che si sposava con il profumo che veniva giù dall’appartamento delle suore. Noi ragazzi, che andavamo al doposcuola, annusavamo ogni giorno quel gran profumo che i brodi di verdure, e fagioli, stazionavano nei locali delle opere parrocchiali: è un ricordo di grande semplicità e povertà che ci ha aiutato a crescere nella vita. Era sempre aperta la porta del piccolo ambiente dove Raffaele gestiva la Buona Stampa (Avvenire, il Vittorioso, Famiglia Cristiana), la Biblioteca Parrocchiale, la cartoleria scolastica e l’attrezzatura per i pescatori (canne, ami, bava, mulinelli e i mitici… bigattini!). Raffaele per me è tutto qui: «Diacono» di preghiera, di fede, di aiuto per invitare tutti ad essere più buoni, più generosi e disponibili al proprio prossimo. Un caro amico (GIANEN) che non c’è più e che frequentava spesso la casa di Raffaele mi diceva: «Senti, don Dino, ma se il Paradiso non c’è, pensa quale fregatura si beccherà Raffaele, che prega tanto. Però se il Paradiso c’è, sono sicuro che Raffaele è là e mi prenderà dentro». Don Dino Vannini 19 Q uesta persona ha seminato tanto bene senza fare molto chiasso ma nell’umiltà, nella bontà, nell’amore. Con tanta pazienza lasciava trasparire la fede e l’amore che aveva in Cristo e nei fratelli. Mi sembra ancora di vederlo inginocchiato davanti al Santissimo a tener compagnia a Gesù Eucaristia. Sono figure che non si possono dimenticare – tutti dovremmo cercare di imitarlo e sforzarci a vivere come lui ha vissuto. Lui non è nato santo, si è fatto santo cercando di mettere in pratica il Vangelo dell’Amore e sottolineo “Amore”. Ricordo di un sogno: - «mi trovavo nella cappella delle suore, quella situata nella casa delle opere parrocchiali che fu demolita negli anni 70. Ero in compagnia di altre persone per la Adorazione Eucaristica. Io ero accanto ad Angiolino. C’era anche Raffaele, disposto come al solito come quando era in chiesa in ginocchio, ricurvo sulle spalle con lo sguardo rivolto a terra, assorto in preghiera. Dopo pochi attimi mi sono ricordato che Raffaele era già morto, e da un bel po’. Come poteva essere lì con noi? La cosa mi sorprendeva sempre più. Nessuna paura, anzi, un senso di contentezza mi cresceva dentro; al punto tale da non essere più capace di trattenermi dal segnalarlo agli altri. Quando si è in chiesa, in preghiera, in adorazione, non si dovrebbe mai fare rumore, né alzare lo sguardo, né disturbare – disapprovo quando succede. Ma come non potevo comunicare a tutti la presenza di Raflein? Volevo che tutti provassero la mia stessa gioia – ho infranto le regole senza pensare alle conseguenze – senza far rumore ma agitandomi cercavo di attirare l’attenzione su Raffaele. Ad un tratto Raffaele mosse il capo verso di me e guardandomi i piedi (se mi avesse guardato negli occhi mi sarei sentito trafitto per la mia negligenza), alzò il dito indicandomi il tabernacolo con il Santissimo Sacramento – lo tenne così fermo quel tanto che a me bastò per capirne il messaggio: nessuna meraviglia per la sua presenza, la meraviglia vera sta nel Santissimo Sacramento, il Signore Nostro Gesù Cristo unica persona degna di attenzione, unica persona essenziale per la nostra vita. Tutto confuso mi sono ricomposto. Raffaele quindi ha ritirato il dito e ripreso il normale atteggiamento di adorazione. Ero grato a Raffaele per avermi indicato l’unica cosa importante – contento di adorare Gesù Eucaristico insieme a Raflein». A Orio Savoia cavallo tra gli anni ‘20 e gli anni ’30 ad Argile, come del resto in tanti altri paesi, non c‘era l’uso di uscire a spasso di sera nelle strade di campagna. Ci si poteva fermare a far due chiacchiere o nella piazza intorno al monumento ai caduti, profittando dei gradini del piedistallo, o si poteva passeggiare lungo via Umberto I° da Porta Bologna a Porta Pieve rischiarata da grosse lampadine. Fuori porta al buio poteva avventurarsi qualche coraggioso giovanotto che, attardandosi in paese, doveva pur decidersi a tornare a casa in campagna. Poteva uscire in circonvallazione qualche coppietta alla ricerca d’un angolo riservato per dirsi qualcosa in silenzio. Una donna sola fuori porta al buio, mai! Significava perdere la reputazione. Era un invito provocante per maschi privi d’ogni scrupolo. Una bella sera, due sposine di campagna avevano aggiunto chiacchiera a chiacchiera in paese, e la conversazione piacevole le aveva così prese che avevano lasciato calare il sole all’orizzonte, poi avevano confidato nella luce di riserva di quel chiaro tramonto, poi avevano tanto sperato nell’affacciarsi della limpida luna, così che si trovarono ad affrontare fuori porta il buio. La strada la conoscevano a memoria, ma questa volta era davvero una marachella. Affrettarono il passo tenendosi a braccetto e scrutando il confine tra la strada e il fosso, pronte a subire i giusti improperi dei mariti in ansiosa attesa per la cena. Non avevano ancora percorso cinquecento metri che intravidero in lontananza due lunghe ombre. Il cuore cominciò a battere più del normale e sentirono imperlarsi la fronte di sudore. Guardarono dietro di loro per vedere se non convenisse ritornare sui propri passi, ma ormai le fioche luci di Argile erano lontane; la fuga non sarebbe servita perché quei due figuri erano alti e robusti, e certamente in due salti le potevano raggiungere; fuggire per i campi in mezzo ai filari poteva essere un invito a nozze per i due malintenzionati che s’avvicinavano lenti come un gatto in vista della preda. – Che cosa hanno in mano? – gridò con voce soffocata la più giovane all’amica. – Vedo luccicare qualcosa di strano dalla cintola in giù – rispose tremando l’altra. – Forse è la canna d’un fucile – Era la prova delle malvagie intenzioni dei due bruti che minacciosi lentamente avanzavano verso di loro. - Si stanno dicendo qualcosa – Si accordano per spaventarci – La più anziana che voleva incoraggiare la giovane mostrando una falsa sicurezza, sbiancò e stava per svenire. Si strinsero ancor di più tra di loro 20 decise al martirio, quando udirono più chiaramente le parole sussurrate dai due… fra le donne… per noi peccatori… nostra morte, amen. Era il rosario di Angelo e Raffaele in via Cappellana. Ogni occasione, ogni luogo, ogni circostanza gli era utile per PREGARE. Tratto da “RAFLEIN” ricchezza di un povero di Bruno Bovina U n giorno lo ebbi “compagno di pellegrinaggio”; eravamo a Loreto. Al momento della ripartenza alla volta di un altro santuario (Assisi) ci accorgemmo che Raffaele non era sul pullman. Scesi per andarlo a cercare; lo trovai (e non poteva essere altrimenti) all’interno della Santa Casa, tutto raccolto in preghiera. Uscì dal santuario con serenità, perché già tanto la prossima meta prevista, era un’altra occasione di preghiera. Strada facendo per raggiungere il pullman in parcheggio, gli chiesi quanto gli fosse piaciuto il santuario che ci stavamo lasciando alle spalle, egli mi rispose che sì era un santuario molto bello, ma come si prega nella nostra chiesa, in nessun’altro posto… e se lo diceva lui… Raffaele e Loreto Aldo Angelini U na modesta abitazione, pasti frugali e mai abbondanti, un’orto da coltivare pazientemente per offrirne i frutti ai più indigenti. Preghiere dal primo mattino al vespertino inoltrato, formavano l’atto riconoscente per quanto concesso dal creato. Quanta devozione e abnegazione, quanta dedizione ai precetti del suo credo espresso con il quotidiano operare, con la preghiera e l’esempio da indicare. Ecco allora l’adozione di una missione: insegnare l’amore verso Dio e il prossimo trasmettendo ai giovani e ai non più tali, amore e fratellanza con perseveranza. Questa è stata la sua scelta di vita, questo è il dono ricevuto e ad altri trasmesso. Purtroppo in molti siamo dimentichi di quei precetti e perciò viviamo in un mondo di imperfetti. Chissà se dall’aldilà vedrà la sua gente, è sperabile che questo gli sia riconosciuto. Soprattutto perché trarrà la conferma che di quanto ha seminato non tutto è andato perduto. Raffaele con un gruppo di amici, all’ombra del campanile Armando Cortesi (Dosi) 21 Premessa a chi legge. È proprio in dialetto bolognese questa inedita composizione poetica (come tante altre) di Pietro Maccaferri? La risposta non è facile: Pietro è stato un poeta della civiltà contadina delle nostre terre, che in dialetto si è espresso con sicurezza, prescindendo da regole stilistiche, ma con spontaneità non comune come chi pensando in dialetto, in dialetto si esprime senza pretese «in presa diretta». La versione italiana è per chi non conosce il dialetto scritto e declamato. Don Dino Vannini a RAFFAELE ORSI grato e riconoscente. TESTO ORIGINALE TESTO IN ITALIANO Le vocali con accento acuto o aperto per lapronuncia: é come mela; è come letto, ô come Coppi, ò come cosa. 1. Mé avre qué arcurder on di nuster parrucchian che par quol cla savò fer ai sre tant da batri al man I Io vorrei qui ricordare uno dei nostri parrocchiani che per quel che ha saputo fare ci sarebbe tanto da battergli le mani. 1. Mé avré qué arcurdèr ôn di nuster parrucchian che par quòl cla savô fèr ai sré tant da batri al man 3. La lase la so fameia par tgnir dri a la zoventò an fa brisa maraveia par no, ca laven tgnusò III Ha lasciato la sua famiglia Per tener dietro alla gioventù: non fa affatto meraviglia per noi, che l’abbiamo conosciuto. 3. La lasè la sô famèia par tgnir dri a la zôventô an fa brisa maravèia par nô, c’ha lavèn tgnusô La so vetà dedicher al servezi ed noster sgnor e chi zuven educher a capir quol ca valor V 2. 4. 5. 6. 7. 8. 9. Le Raflen che tot vueter poc o tant avi tgnuso e che anghè brisa ste un eter cleva fat quol cla fat lò. E po fen da ragazel la vo semper un sol pensir brisa quol ed vleir eser bel mo bensì quol ed servir Quanti sir coi ragazì al spirdeva le con lor propi sol par tgniri dri e spiegheri al cos dal Sgnor II IV VI Se Raffaele, che tutti voi poco o tanto avete conosciuto, e che non c’è stato un altro che abbia fatto quello che ha fatto lui. E poi fin da ragazzo ha avuto sempre un sol pensiero: non quello di voler essere bello ma bensì quello di servire: La sua vita dedicare al servizio di Nostro Signore e di quei giovani educare a capire ciò che ha valore. Quante volte con i ragazzi si perdeva lì con loro, proprio soltanto per seguirli e spiegare loro le cose del Signore: Custodiri genuen e onest al pio pusebel mai gno fora una batuda un po’ grasa gnanch par reder VII Custodirli genuini e onesti il più possibile: mai usciva una battuta un po’ grassa, neanche per ridere. L’era tan un omen in squeder cagli geva premuros beda ben li sel to meder che et tu un quel acsè custous? IX Era tanto un uomo in squadro che diceva loro premuroso: «bada bene: lo sa tua madre che compri una cosa così costosa?» Me a marcord che in buteiga quant a gneva di puten slera trop granda la speisa agli feva un bel scursen. 10.Se po aglieren caramel clera un quel voluttueri lo: a ghin saveva ed mel cal stinteva anch a deri 22 VIII Mi ricordo che in bottega quando venivano i bambini se era troppo grande la spesa, faceva loro un bel discorsino. X Se poi erano caramelle che era una cosa voluttuaria, a lui gliene sapeva di male che stentava anche a darle. 2. 4. 5. 6. 7. 8. 9. L’è Raflén, che tôt vùeter pôc ô tant aví tgnusô e che anghé brisa stè un ètèr clèva fat quòl cla fat lô. E po fén da ragazèl L’ha vô sèmpèr un sol pènsir brisa quòl ed vlěir èsèr bèl mo bènsì quol ed sérvir La sô vétà dedichèr al sarvézi ed noster sgnour e chi zuven éduchèr a capir quol c’ha valour Quanti sir coi ragazì al spirdéva lé con lour pròpi soul par tgniri dri e spiéghèri al côs dal Sgnòur Custodiri génuěn e onèst al piô pusébél mai gnô fòra una batuda un pô grasa gnanch par réder Me a marcôrd che in butèiga quant a gnéva di putén sléra tròp granda la spèisa agli féva un bèl scursén. L’éra tan un òmen in squèdèr cagli géva prémurous: «bèda bèn: li sèl tô mèdèr che et tu un quèl acsé custous? 10.Se pó agliérén caramèll cléra un quèl voluttuèri, lô: a ghin savéva ed mèl cal stintéva anch a dèri 11 E par pora chi saviesen A purter vi i sol dardop ste sicur che con so meder agh’li geva prema o dop XI E per paura che s’abituassero a portare via i soldi di nascosto, state sicuri che con la loro madre glielo diceva prima o dopo. 11 E par pòra chi saviésen a purtèr vi i sold dardòp sté sicur che con sô mèdèr agh’li géva préma o dopp 12 Sai guardevi anch in cisa slera in znoc d’anz a l’alter cum l’aveva ciape la piga tant al sera avie a pregher XII Se lo guardavi anche in chiesa se era in ginocchio davanti all’altare come aveva preso la piega tanto si era abituato a pregare. 12 Sai guardévi anch in cisa sléra in znóc d’nanz a l’altèr cum l’avéva ciapè la piga tant al séra avié a préghèr 13 Comè cal fos al peccator pio tgnuso e pen d’astozia mentr’invezi con al sgnor al scureva pen ed fidozia XIII Come che fosse il peccatore più conosciuto e pieno d’astuzia, mentre invece con il Signore ci parlava pien di fiducia. 13 Comè cal fôs al peccatòur piô tgnusô e pén d’astôzia mèntr’invézi con al sgnour al scuréva péin ed fidôzia 14 Propi innamure dal sgnor semper pront ad adorerel ai traspar la santite propi sol anch a guarderel XIV Proprio innamorato del Signore sempre pronto ad adorarlo: vi traspare la santità proprio soltanto a guardarlo. 14 Pròpi innamurè dal sgnour semper prònt ad adorèrèl ai traspèr la santitè propi sòul anch a guardèrèl 15 A psi direl anch vueter che esempi cle ste lo propi anch par tot nueter forsi un eter al ni sra piò XV Potete dirlo anche voi quale esempio è stato lui, proprio anche per tutti noi, forse un altro, non ci sarà più. 15 A psi direl anch vuètèr che ésèmpi clé stè lô, propi anch par tôt nuètèr forsi un ètèr al ni sră piô. 16 E la feid cla dimustre le una cosa luminousa che l’illomina la stre che par tot le doverousa XVI E la Fede che dimostra è una cosa luminosa, perché illumina la strada che per tutti è doverosa. 16 E la fèid clă dimustrè l’é una côsa luminòusa che l’illômina la strè che par tôt lé dovéròusa 17 Fer dal ben con al parol e con l’opra ed carite sottomes cumpagna un fiol par al ben d’lumanite XVII Far del bene con le parole e con l’azione di carità, sottomesso come un figlio per il bene dell’umanità. 17 Fèr dal bèn, con al parôl e con l’ôpra ed caritè sôttôméss cumpagna un fiôl par al bèn dl’umanitè 18 Con l’ufezi Bona stampa quant puvrat la lavure la strumne dimondi ben e tant liber la cumpre XVIII Con l’Ufficio Buona Stampa quanto, poveretto, ha lavorato, ha seminato tanto bene e tanti libri ha comperato. 18 Con l’ufézi Bôna stampa quant, puvrat, la lávurè l’ha strumnè dimôndi bèn e tant liber l’ha cumprè. 19 Pruna biblioteca sena par al ben di ragazi chi lizesen in tla stmena liber san e po an bi XIX Per una Biblioteca sana per il bene dei ragazzi che leggevano nella settimana libri sani e poi anche belli. 19 Pruna biblioteca sèna par al bèn di ragazi chi lizéssen in tla stmèna liber san e po anch bi 20 Quant la fat parchè al giurnel l’arives e al fos in vesta parchè al geva al va a dir quel in tal bar di comunesta XX Quanto ha fatto perché il giornale arrivasse e fosse bene in vista, perché diceva: «va a dire qualcosa anche nel bar dei comunisti». 20 Quant l’ha fat parchè al giurnèl l’arivéss e al fôss in vésta parché al géva: «al va a dir quèl in tal bar di cômunésta» 21 Dai barbir in ti cafè al pagheva coi su sold qui cai vleva par la cà e alla feva toti al volt XXI “Avvenire” dai barbieri e nei caffè lo pagava con i suoi soldi che gli servivano per la casa e questo lo faceva tutte le volte. 21 Dai barbir in ti cafě al paghéva coi su sôld qui cai vléva par la cá e alla féva tôti al vôlt 22 E po cm’è mission apostolica una cosa la va deta che lo, par l’azion Cattolica la speis tota la so veta. XXII E poi come missione apostolica, una cosa va detta: lui, per l’Azione Cattolica ha speso tutta la sua vita. 22E po cm’è missiòn apostolica una côsa la va détă che lô, par l’aziòn Cattòlica la speis tôta la sô vètă. 23 23 A creer i nuster ambient propi adat pri ragazi e chi fosen accoglient se nò l’or iandeven vi XXIII A creare i nostri ambienti proprio adatti per i ragazzi e che fossero accoglienti altrimenti loro andavano via. 23 A créèr i nuster ambiént pròpi adat pri ragazí e chi fôssen accogliént se nò l’our iandévén vi 24 L’aveva l’oc avanti e al vdeva l’uccasion che i zuven fora ed què i pirdeven la benzion XXIV Egli aveva l’occhio avanti e vedeva l’occasione che i giovani fuori di qua (dal paese) perdevano la Benedizione. 24 L’avéva l’òcc avanti e al vdéva l’uccasiòn che i zuven fòra ed qué i pirdévén la bénziòn 25 Par quol al so pensir le semper ste rivolt ai zuven che in avgnir al mond l’are distolt. XXV Per questo il suo pensiero è sempre stato rivolto ai giovani che nel futuro il mondo li avrebbe distolti. 25 Par quòl al sô pénsir l’é sempèr stè rivôlt ai zuven che in avgnir al mond l’aré distôlt. 26 Da chi insegnament claveva de la cisa e l’era ben cumvent e al scors an fa una piga. XXVI Da quegli insegnamenti che aveva dato la Chiesa egli era ben convinto, e questo discorso non fa una piega 26 Da chi insegnamént clavéva dè la cisa e l’éra bèn cumvént e al scors an fa una piga. 27 Ades po ien mument cla per infen una fola d’insgner i cmandament sol fora brisa in scola. XXVII Adesso poi sono momenti, che sembra una favola insegnare i Comandamenti solo fuori, non nella scuola 27 Adèss po ién mumént cla pèr infén una fôla d’insgnér i cmandamént soul fòra, brisa in scôla. 28 Invezi se nueter omen i dis comandament a faren galantoment da pseir seguir cunvent XXVIII Invece se noi amiamo i dieci Comandamenti faremo dei galantuomini da poter seguire convinti 28 Invézi se nuètèr òmén i dis cumandamént a farén galantomen da psèir séguir cunvént 29 Al mond al de dincu l’are mete angosti e anc pri nuster fiu al cos al sren piò giosti XXIX Al mondo d’oggi avrebbe metà angustie e anche per i nostri figli le cose sarebbero più giuste. 29 Al mònd al dé dincu l’aré métè angôsti e anc pri nuster fiú al côs al srén piô giôsti 30 E quast quant l’era viv la semper conferme che prander in paradis an ghera etra stre XXX E questo quando egli era vivo lo ha sempre confermato: che per andare in Paradiso non c’era altra strada. 30 E quast quant l’era viv l’ha sèmpèr cònférmè: che prandèr in paradis an ghéra ètra strè 31 E me a marcord puvrat che con Raflen ai gè par vo aiè al paradis senz’eter a val deg mé XXXI E io mi ricordo, poveretto che a Raffaele gli dissi: «per voi c’è il Paradiso, sicuramente, ve lo dico io». 31 E mé a marcôrd, puvratt, che con Raflén ai gé: «par vô aié al paradis senz’èter a val dég mé» 32 E lò par tota arposta al gé claveva pora brisa pral mel cla fat al sre avanze fora XXXII E lui per tutta risposta disse che aveva paura, non per il male che ha fatto, sarebbe rimasto fuori, 32 E lô, par tôta arpòsta al gé clavéva pòra brisa pral mèl cla fatt al sré avanzè fòra 33 Mo par cal ben invezi che al mond l’are pso fer e che par dagl’inezi l’are lasce scaper XXXIII per quel bene invece che in vita avrebbe potuto fare e che per delle inezie avrebbe lasciato scappare. 33 Mò par cal bèn invézi che al mònd l’aré psô fèr e che par dagl’inézi l’aré lascè scapèr 34 Aloura a me davis che quol che a psen dir nò l’è, che in paradis aven un sant ed piò. XXXIV Allora, a me sembra, che quello che possiamo dire noi è, che in Paradiso abbiamo un Santo in più. 34 Aloura a mé davis che quòl che a psèn dir nô, l’é, che in paradis avèn un sant ed piô. 24 GAETANO E CESARE BONINSEGNA sacrestani I l nonno Gaetano (Gaetanen), sacrestano fin dalla giovane età, e lo zio Cesare (Zizaren), un suo fratello più giovane non sposato, divenuto successivamente suo aiutante, hanno servito la chiesa di Argile dalla giovinezza fino a che ne sono stati capaci. Parecchi anni sono passati da quando sono venuti a mancare, ma il ricordo di loro è attuale e vivo. Persone miti e sincere, umili e gioiose. Per molto tempo il loro è stato un vero e proprio volontariato, nel quale coinvolgevano tutta la famiglia nelle giornate che precedevano qualche evento ed ogni fine settimana per ripulire la chiesa e prepararla per la festa. Gaetano e Cesare Boninsegna La loro giornata incominciava al suono della sveglia, che normalmente avveniva verso le quattro del mattino (forse un po’ più tardi d’inverno). Uscivano di casa e si recavano in chiesa per aprire le porte, suonare le campane e preparare per la Messa, al termine della quale, verso le otto, rientravano per fare un po’ di colazione. Anche di notte poteva capitare di doversi alzare per avvisare la comunità, col suono delle campane, in caso di una qualche avversità o un pericolo imminente o in atto (come ad esempio l’arrivo di un qualche brutto temporale). Sempre pronti e puntuali, con la loro bicicletta sgangherata, partivano da casa con enormi mazzi di grosse chiavi nelle tasche (spesso bucate) della giacchetta, che si allungava sempre più sul davanti sotto il peso di tutto quel metallo. L’obbedienza e l’umiltà, la dedizione, facevano parte del loro modo di essere: il nonno di poche parole, quelle necessarie, sempre allegro, lavorava cantando i motivi liturgici; lo zio (prozio in realtà, ma così lo chiamavamo anche noi nipoti) era più scherzoso e si fermava volentieri all’uscita della chiesa, dopo le celebrazioni e prima di chiudere il portone, per far sorridere, con qualche battuta scherzosa, le donne che lo aspettavano proprio per questo. La disponibilità, l’affabilità e l’apertura nei confronti di tutti rendevano facili i contatti personali ed incoraggiavano a chiedere chiunque avesse avuto qualche necessità. In casa noi nipoti trascorrevamo diverso tempo con il nonno e lo zio, perché avevano la capacità di coinvolgerci in quelle attività che loro facevano e che a noi Gaitanen (qui a fianco di don Giovanni Bovina) e Zizaren piacevano tanto, attività fatte sempre assiduamente presenti in ogni occasione. con poco, ma fatte con amore. Non ricordo di averli visti arrabbiati, ricordo invece la loro operosità e, contemporaneamente la loro disponibilità Zizaren e capacità di fermarsi ad ascoltare, e le poche e povere cose che avevano non erano per loro stessi, ma di quanti ne avevano bisogno. E non li abbiamo sentiti mai esprimere giudizi sulle persone, né riportare mai qualche pettegolezzo. Mi sono chiesta a volte come potessero essere sempre così sereni e pazienti, sia in famiglia che in chiesa, quale fosse il segreto di quella loro grande capacità di autocontrollo anche nelle difficoltà e nei momenti di 25 maggior fatica e/o preoccupazione; non si potevano certo considerare persone poco interessate o superficiali. Io credo che tutto questo non dipendesse tanto dal loro carattere, quanto piuttosto dalla loro fede, che li ha resi capaci di abbandonarsi alla volontà del Signore e di confidare sempre nella Sua Provvidenza; una fede donata a loro perché da loro assiduamente richiesta nei molteplici momenti di preghiera quotidiana. Ci hanno lasciato una eredità preziosa. Non so cosa ricordino di loro le persone che li hanno conosciuti; io, quando penso a loro mi rassereno, anzi il mio animo si riempie di gioia e di gratitudine, per quella che è stata la loro presenza nella mia vita. L Carla Gaiani a storia e gli eventi della Parrocchia di Argile sono e saranno sempre motivo di ricerca nel ricordo di tante persone che vi hanno operato. Conosciamo il nome dei parroci inviati dal Vescovo a reggere la comunità, ma non vanno trascurati i nomi di quanti sono stati loro a fianco come collaboratori infaticabili al servizio della Chiesa: i fratelli Gaetano e Cesare Boninsegna. Il parroco Mons. Vincenzo Gandolfi (1913-1960) trovò il giovane sacrestano Gaetano Boninsegna, ben avviato a mantenere il decoro e la pulizia di tutta la Chiesa parrocchiale dal predecessore Mons. Raffaele Giordani, che l’aveva dotata di preziosi apparati, candelieri e vasi sacri. La giornata del sacrestano iniziava al mattino presto: 1) Suono della campana dell’Ave Maria, terminata la quale dopo pochi secondi, si segnalava con 1 botto di campana: tempo sereno; 2 botti di campana: coperto; 3 botti di campana: tempo piovoso; 4 botti di campana: la neve. (oggi può far sorridere, avendo a disposizione radio, televisione, internet, ecc.; ma allora… quei segnali erano molto importanti per la campagna, e per chi doveva andare a lavorare lontano). 2) Suono del Mezzogiorno (non tutti avevano l’orologio al polso o nel taschino, specie chi lavorava in campagna). 3) Suono dell’Ave Maria alla sera. C’era poi il suono che annunciava la morte di qualche persona o la “starmida” segnale di pericolo, quando il fiume Reno faceva “le bizze”. Da notare che, la campana più grossa (oltre 7 q.li) era impegnativa da utilizzare e spesso il sacrestano chiedeva aiuto a qualche volontario (tanti ragazzi si prestavano a tirare la corda perché alla fine c’era la gioia dei salti appesi alla corda della campana più grossa). Il sacrestano nella giornata era impegnato alla pulizia della Chiesa: spostare banchi e sedie, strofinare e raccogliere la segatura, lucidare gli ottoni dei candelieri, riempire di olio le lampade con lo stoppino, cambiare i fiori e le piante (più di venti vasi grandi di oleandri). Il lavoro poi impegnava maggiormente per le solennità con gli addobbi decorativi (“al panarôn” che nel coro si innalzava fino alla cupola). Gaetano, trovava l’aiuto del fratello Cesare e dei famigliari perché il decoro della Chiesa tornasse a gloria del Signore e ad onore del 22 maggio 1960 Parroco e dei parrocchiani. Funzione della presa di possesso Gaetano e Cesare, pietre vive anche se nascoste, sono stati fedeli ed parrocchiale di don Mario Minello. esemplari servitori nel lavoro, ma anche nella preghiera e nel canto. Qui all’insediamento del confessionale; testimoni: il Canonico Da bravi laici hanno vissuto per tanti anni (specialmente nelle domeniche e nelle feste comandate) l’esercizio della regola don Luciano Bongiovanni (parroco di Mascarino) ed il sacrestano benedettina: “ora et labora” prega e lavora. Gaetano Boninsegna. 26 Don Dino Vannini S SECONDO ED UMBERTO PUGGIOLI econdo, possiamo certamente definirlo un “animatore della Liturgia”. Io, infatti, lo ricordo sempre presente nei giorni festivi alle SS. Messe, in modo particolare a quelle più solenni ed alle funzioni pomeridiane, alle processioni… Stava sempre nella corsia centrale, fra le due fila dei banchi in Chiesa, oppure fra le due ali “degli uomini” se in processione. Stava là per incitare il popolo al canto. Infatti (lui solo ne era capace), mentre cantava in leggerissimo anticipo al ritmo, contemporaneamente suggeriva le parole all’assemblea; ma non gli bastava perché riusciva anche ad aggiungere «cantatee», «cantatee» quando, a suo avviso (spesso) il canto non fosse ad un livello di suo gradimento. Secondo era anche il direttore della locale Schola Cantorum parrocchiale. Era cresciuto alla scuola musicale di don Riccardo Zanarini (anch’egli di origini argilesi) e di don Amedeo Migliorini (già cappellano ad Argile ai tempi di Mons. Gandolfi). Ma gli anni passarono anche per Secondo. Un giorno espresse al figlio Umberto il desiderio che fosse lui (Umberto) a continuare la direzione della “Corale Santa Cæcilia” ricevendone un deciso Secondo e secco NO!! ma poi, si sa, (e per fortuna) ci fu Puggioli il ripensamento di Umberto che successivamente si diplomò al Conservatorio e continuò il lavoro di papà conseguendo eccellenti risultati. Umberto, purtroppo è stato chiamato in cielo troppo presto. Ora il “bel canto” è nelle mani di Cecilia Puggioli, figlia di Umberto e nipote di Secondo. Caro Secondo, ci manca tanto il Festa della corale tuo incitamento. U Aldo Angelini mberto Puggioli è sposo di Roberta, padre di Cecilia ed Elena, figlio di Secondo e di Gemma. È semplice dire quello che Umberto è per la comunità parrocchiale di Argile. È un uomo che – nel suo servire - ha raccolto un testimone e l’ha passato, facendo bene ciò che ama fare. Ha ricevuto, coltivato e trasmesso la passione per la musica; la bellezza della liturgia arricchita dall’incenso dolce del canto, soave odore, che dà ali al silenzio del cuore. È un uomo che ha raccolto attorno al suo carisma sobrio e sorridente, fatto più di note che di parole, un variegato gruppo di argilesi. Ne ha colto i doni, i difetti, e con pazienza certosina e determinata ha trasformato – prova dopo prova - il fiorista, la commessa, il chirurgo, lo studente, la ragioniera, l’imbianchino, la casalinga e il pensionato… in un coro. Facendo un dono grande ai coristi per primi; e, con loro, a tutti i fedeli. Perché quando ci sei dentro, nel coro, canti il tuo rigo di basso, o di soprano; ma poco a poco ti rendi conto che quello che ne esce è molto, molto di più delle singole voci. È l’armonia. L’armonia che veste la notte di Natale, svela la Pasqua nella veglia, illumina il sorriso della sposa, raccoglie il pianto per chi non è più. Ha mischiato ingredienti poveri, voci normali, e ne ha fatto armonia. Il maestro. Poi Umberto ci ha voluto suggerire, poco a poco, che la corale poteva cantare senza di lui. Il servo inutile. Ne parliamo oggi, che non lo vediamo tra noi, con quel pudore che rende difficile dire “grazie” guardando in faccia le persone del nostro quotidiano. Perché la corale Santa Cecilia c’è. È apprezzata, è cultura che travalica le mura parrocchiali e i confini comunali. Ma che regalo, Umberto, se la corale diviene segno per il cammino della comunità intera, fatto di prove pazienti, di voci diverse, di ascolto reciproco, di nessun solista; di intima gioia nel cantare un Agnus Dei, che finisce senza applausi nel silenzio di fratelli raccolti attorno al Pane. È nella Messa – armonia della comunità - che germoglia il dono di questa corale. Che Umberto ha ricevuto, coltivato e trasmesso, da maestro e servo inutile. Massimo Pinardi 27 I LE PERLE PREZIOSE n occasione del 150° anniversario della nostra chiesa (purtroppo molto malandata), mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sulle donne vissute in una epoca diversa, un po’ lontana da noi. Sono abbastanza anziana anch’io da ricordarne qualcuna, di altre invece me ne hanno parlato i famigliari. Alda e Rosina Boninsegna, ad esempio, hanno curato il tovagliato dell’altare e gli arredi sacri della chiesa, con tanto amore e devozione per anni. Certo in tanti ricordiamo Giuseppina e Giulia Veronesi; la Peppina iniziò per prima ad organizzare le lotterie per l’asilo e Giulia, sua sorella, fu un‘aiutante instancabile. Paolina Melotti, Maria Melotti e Pace Cremonini erano sempre disponibili a dare una mano alle suore o al parroco per cucire, ricamare o rammendare e fare dottrina. Vorrei ricordare anche Martina Cortesi, formidabile cuoca e materassaia, che con pochi soldi riusciva a mettere a tavola tante persone. Non dico che facesse nozze con i fichi secchi, ma quasi. Edvige Cortesi ha insegnato al dopo scuola a generazioni di ragazzi, nella famosa “vecchia sala dei cavalli”, e diretto per anni la colonia estiva di Granaglione. Tutte queste donne, instancabili e silenziose, hanno dato forma al primo volontariato femminile in paese. Don Gianni (un cappellano rimasto con noi fino al 1960) le volle ringraziare tutte chiamandole “perle preziose”, una frase rimasta mitica. Quando Don Mario diede inizio ai campi scuola, sia estivi che invernali, a Villaggio Europa (Lizzano in Belvedere), un gruppo di signore si rese disponibile ad aiutarlo per la cucina, la pulizia e la sorveglianza. C’era l’inossidabile Pina Grassilli, sua cognata Bruna Ruggeri, Alice Fini e sua cognata Giacomina Santi (tra parentesi grande, tortellinaia parrocchiale) e, ovviamente, le suore. Tutte queste donne avevano in comune una cosa: la fede, una fede semplice ma incrollabile. La preghiera è stata per loro un sistema di vita, una barriera, un argine mai corroso o usurato dal tempo. Voglio ricordare anche due suore di Argile (Boninsegna e Gandolfi), che nel convento del Corpus Domini di Cento hanno consacrato la loro vita di clausura a Dio, pregando per tutti noi per tanti, tanti anni. A tutte questa donne del passato, anche a quelle dimenticate, che hanno contribuito a fare di Castello d’Argile un paese civile e solidale, va la nostra riconoscenza e il nostro grazie. Pace Cremonini e Padre Marella E Manservisi Milena rano gli anni del più recente dopoguerra, quando in giro c’era ancora l’odore della miseria, “al Conte” (lo si poteva raggiungere anche dalla fine della nostra via Zambeccari, attraversando il fiume Reno – quando il livello dell’acqua lo permetteva), in una vecchia casa di caccia, stanziava una colonia (oggi la chiameremmo “casa famiglia”) di bimbi in età scolare abbandonati dalle loro famiglie, bisognosi di affetto; più comunemente ricordata come “di Padre Marella”. [Padre Marella lo si poteva incontrare anche a Bologna, all’angolo con via Orefici, dove nel suo vecchio cappello raccoglieva offerte per i suoi fanciulli]. Raccolti in quegli enormi stanzoni di quell’edificio, senza riscaldamento, quando la stagione invernale si faceva sentire con tutta la sua rigidità, per intervento della provvidenza Pace Cremonini, Leda Salani ed alcune altre donne argilesi raccolsero una cospicua quantità di coperte militari lasciate dai militari tedeschi in ritirata. Pace Cremonini a Pace, abile sarta, scelse di mettere a disposizione la propria esperienza per Granaglione con i riciclare quelle stoffe, così fu che il gruppo si pose alacremente al lavoro per ragazzi della nostra creare indumenti, giacchette e cappotti per quei giovanotti infreddoliti. colonia. 28 Alla fine del periodo bellico, quel colore particolare delle stoffe militari non poteva di certo essere mantenuto; si decise allora di “tingerle” …ma per un involontario errore quegli indumenti uscirono di un bel colore rosso. Nessuno si formalizzò per quel risultato, anzi, fu un colpo d’occhio straordinario vedere quell’esercito di bambini, tutti vestiti di rosso (parevano tanti giovani garibaldini…) quando alla domenica, qui a Castello d’Argile, nella nostra parrocchia venivano alla S. Messa. E ancora qui, nella nostra parrocchia, i ragazzi di Padre Marella venivano cresimati. Nella foto qui sotto, (Maggio 1965) alcuni di loro ricevettero la S. Cresima; ma stavolta le loro giacchette erano grigie, i loro padrini argilesi (tanti volti noti). Pace e le sue collaboratrici ebbero grande soddisfazione sempre abbondantemente ricambiata da Padre Marella e dai suoi ragazzotti. Sopra: Pace al centro di un gruppo di suoi ragazzi. A sinistra: maggio 1965 Padre Marella con i suoi ragazzi appena cresimati ed i loro padrini. A destra: Pace Cremonini. BRUNO MARCHESINI O ltre quel fiume, a poche centinaia di metri dalla “Casa famiglia” del “Venerabile Padre Marella”, ecco Bagno di Piano, terra natale del “Venerabile Bruno Marchesini” (Patrono dei seminaristi) al quale è pure dedicata la nostra Scuola Materna. Frequentò la scuola elementare; classe 4° e 5° a Castello d’Argile. Nato l’8 agosto 1915 da una famiglia povera di beni e di fortuna, ma ricchi di virtù cristiane, ha imparato presto a stimare la fede e la preghiera, il servizio agli altri e la vocazione al sacerdozio È stato alunno del Seminario Minore a Bologna e a Roma, finché nel 1934 è entrato al Romano Maggiore. Pur essendo vivacissimo, non solo non diede mai motivo di riprensione, ma i Superiori, i Professori e i compagni ne ammirarono sempre la pietà, l’umiltà, la docilità, la modestia e la carità e lo ebbero carissimo. Riportò un’eccellente votazione negli esami di licenza ginnasiale al R. Ginnasio Minghetti e nel concorso al posto gratuito nel Seminario Pio di Roma. In Seminario si qualifica con tre “esse”: sì al sorriso, alla serietà e al servizio. A 23 anni la meningite lo porta al “sì” ultimo, in modo esemplare, nell’estate del 1938.È stata una vita ‘spesa’. Forse, agli occhi di molti, spesa per niente, ma a uno sguardo più profondo, spesa per Cristo, il “Tutto” e l”Unico”. Bruno si è buttato a capofitto in una affascinante e sconosciuta avventura: “Voglio essere santo, presto santo, grande santo!” In che modo poteva un ragazzo di 18 anni essere santo? Partendo da una scelta fondamentale: “Non negare nulla a Gesù”. Nell’ultimo Natale si era ‘legato’ per sempre a Gesù, con un dono d’amore senza ritorno. A Gesù “sposo” aveva chiesto la pace e più di tutto l’amore: un amore senza limiti e senza misura... Gesù, datemi il martirio del cuore e del corpo... Mi offro a Voi, mio Diletto, perché possiate compiere in me completamente il vostro santo volere, senza che le creature possano mettervi ostacolo”. Giovanni Paolo II ne ha dichiarato l’eroicità delle virtù, proclamandolo Venerabile, il 20 dicembre 2002. 29 L’ANGELO BIANCO (suor Maria Camilla Gili) I C’È UN NESSO TRA LA STORIA E LA STRADA. ntitolata una via a Sr. M. Camilla Gili a Castello D’Argile, così tutti quelli che passeranno in questa via, oggi ed in futuro, potranno ricordare questa sorella che su queste strade ha diretto i suoi passi alla ricerca di chi aveva bisogno, per portare aiuto, conforto, con competenza serenità e gioia. Ha donato parte della sua vita a servizio della Vita. Ognuno vedendo e ricordando potrà “rendere gloria al Padre che è nei cieli”. Sr. M. Camilla con le persone malate, sole, anziane e non solo... ha sofferto, gioito ed ha condiviso anche la sua malattia e morte con gli abitanti di Castello D’Argile, sostenuta dalla sua comunità religiosa e da tante persone del paese. Forse molti tra voi potrebbero raccontare episodi di vita, esperienze, incontri, ricordi di Suor M. Camilla... e sono questi che hanno creato una rete di rapporti che a distanza di 20 anni ancora ci tengono uniti a Lei. Il Signore Gesù che è stato il centro della sua vita, l’ispirazione alla Madre e Serva del Signore, il camminare sulle orme del Beato Ferdinando M. Baccilieri, la sua ansia missionaria sono stati i capisaldi della vita di questa donna/suora che ha consolato la vita. A nome della Congregazione, quindi, ringrazio per questo gesto così significativo che rende pubblica la missione nascosta di Sr. M. Camilla. Auspico che l’amore alla vita, in tutte le sue fasi, specialmente nella debolezza dell’età anziana e nella malattia, siano sempre al centro dell’attenzione di questo paese, sia a livello ecclesiale che civile. Suor Maria Carmela Giordano - Priora Generale UNA STRADA PER SUOR M. CAMILLA C he cosa penserà una suora se guarda avanti a quando saranno trascorsi vent’anni dalla sua morte? Sicuramente non ci pensa. E se ci pensa spera di essere col suo Signore, di aver mantenuto la lampada accesa per l’arrivo dello Sposo. È certamente un fatto significativo e non comune, che due comunità di Regioni diverse si incontrino a vent’anni dalla morte di una suora. Suor Camilla è stata - come qualcuno ha ricordato - un angelo bianco a Castello d’Argile. Una infermiera che sapeva farsi vicina a chi ne aveva più bisogno. Come tante infermiere. Camilla era una persona speciale, ma la verità è che non c’è niente di straordinario nella sua vita. Eppure, c’è l’ordinarietà di una vita semplice, olocausto di dedizione quotidiana, soave odore di quello in cui si crede. È stata una suora che è arrivata e se ne è tornata a Galeazza. Come tutte le Serve di Maria. Camilla era una donna. Il cui abito non velava la dolcezza, la maternità, l’amicizia, la fraternità, la fermezza, la sponsalità. Come tante donne. Sono questi i motivi per cui la Giunta comunale di Castello d’Argile, nel dicembre 2008, ha deciso di intitolarle una strada. Perché ha dedicato la sua vita agli ammalati, agli anziani e alla persone sole. Perché lo ha fatto come suora delle Serve di Maria di Galeazza, che servono Castello d’Argile da più che una vita. Perché ci ha messo la forza e la dolcezza di una donna. Ed ha consentito a Castello d’Argile anche di svegliarsi, e di accorgersi che non c’era una strada, qui, che portasse un nome di donna... E così ci sembrò bello prendere a prestito il nome di Suor Camilla, per darlo a un pezzetto del nostro paese. Perché c’è un nesso, per chi lo vuol vedere, tra la terra e i valori, tra la storia e la strada. (Massimo Pinardi Sindaco dal 1999 al 2009) A “MANICHE RIMBOCCATE” È difficile trovare le parole per descrivere la traccia indelebile che suor Camilla ha lasciato nella mia vita e in quelle di tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerla. L’ho incontrata per la prima volta nel 1984 quando venne destinata come infermiera parrocchiale ad Argile. Anch’io lavoravo come infermiera ed ero già attiva come volontaria in parrocchia per l’assistenza agli ammalati, ma fu il suo arrivo e il suo straordinario esempio a rafforzarmi nella mia scelta di fede e nel mio cammino professionale. Suor Camilla cominciò a coinvolgermi, con il suo entusiasmo e la sua abnegazione, nell’opera di assistenza ai sofferenti, e pian piano da quell’esperienza di volontariato condivisa, nacque tra noi un’amicizia forte e bellissima. La sua vita è stata un esempio di amore e dedizione verso gli ultimi, i malati, i sofferenti. Un luminoso esempio 30 di amore e fede che si traduceva sempre in azione di carità, in maniche rimboccate, in un darsi al prossimo senza risparmiarsi, ad ogni costo e a scapito della propria salute, con un’umiltà e una semplicità disarmanti. La sua disponibilità era proverbiale: aveva per tutti un sorriso, una parola di conforto e di sostegno, una carezza premurosa. E a tutti andava incontro, con semplicità, con una battuta o un saluto allegro, senza far distinzione tra gente dentro o fuori dalla chiesa, senza mai giudicare, ma sempre pronta ad amare. Il suo entusiasmo era contagioso sia nella fede, in quel rosario che si recitava ogni giorno, più volte al giorno, perché ogni momento, ogni luogo era buono per pregare la Madonna, per la quale suor Camilla aveva una speciale devozione; sia nella sua opera di assistenza agli infermi. Suor Camilla era anche una donna straordinaria, di un’umanità profonda, un’allegria e una giovialità contagiosa e un piglio deciso ed energico, con cui riusciva a coinvolgere chiunque le passasse accanto. Era come un vulcano in eruzione, piena di entusiasmo, passione e amore. Sono molti i ricordi che mi si affollano nella mente ripensando agli anni trascorsi accanto a lei: dai campi a Lizzano in Belvedere, per gli esercizi spirituali, fatti di preghiera e raccoglimento ma anche di risate e battaglie a palle di neve, alle corse in macchina (non importava che ora fosse, anche notte fonda), per rispondere ad una chiamata, per andare ad assistere ed aiutare un ammalato che aveva bisogno delle sue cure e del suo conforto. E poi ci sono i ricordi personali, le volte in cui mi è stata vicina, mi ha sostenuto e mi ha consolato, mi ha dato forza e mi ha incoraggiato nella professione e nel mio cammino di fede. Mi ha detto calde parole amiche che mi resteranno sempre nel cuore. Fino agli ultimi momenti della sua malattia e della sua morte, quando mi ha dato la lezione di fede più alta e bella. «Sono pronta» mi ha detto «E sono serena». Non ha vacillato neppure per un istante con la serenità e l’incrollabile fiducia di chi sa di andare nella luce della casa del Padre. E sebbene anch’io condividessi quella certezza, la sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile in me e in chi ha avuto il privilegio di viverle accanto. E tuttavia i preziosi insegnamenti che ci ha lasciato resteranno a testimonianza della sua esistenza piena e appassionata, il suo insegnamento più bello è stato proprio quello di una vita piena, una vita d’amore da vivere fino in fondo e senza risparmio, senza sprecare le occasioni di bene, uniche e irripetibili che ci si presentano. Ci ha lasciato l’esempio di una esistenza offerta agli altri e a Cristo senza tentennamenti, con forza e con gioia. Ci ha lasciato un’enorme fame di bene, di autenticità e di carità e ci ha mostrato la via per una vita in Cristo attraverso l’amore e la dedizione per gli ammalati, i deboli e gli indifesi. Grazie suor Camilla per tutto quello che ci hai dato, grazie per essere stata una guida per tutti noi, grazie per ogni tuo prezioso insegnamento. Ringrazio il Signore per avermi dato il privilegio di conoscerti e di aver potuto dividere un pezzettino del mio cammino con te. Benché tu non sia più accanto a noi, mi dà forza la certezza che tu sia finalmente nella luce, al cospetto del Padre, accanto alla Madre Celeste che tanto hai amato, e la speranza che un giorno ci rivedremo: a casa, in Cielo. A Luisa Taddia Resca nni 80. Sr. M. Camilla Gili, valente infermiera, si è distinta particolarmente tra noi, di Castello d’Argile, nell’esercizio della carità. Chiunque era nel bisogno chiamava Sr. M. Camilla. Disponibile sempre, di giorno e di notte. Sorrideva a tutti. Buona conoscitrice dei bisogni della comunità, ha segnalato ad un gruppo di amici la necessità di intraprendere opera di assistenza agli ospiti dell’allora nascente Casa Protetta (oggi Comunità Alloggio) nei giorni festivi. Il servizio organizzato in due gruppi: donne presenti al mattino per la prima colazione; giovani presenti all’ora di pranzo e cena. Ciò è iniziato il 17 gennaio 1986. Per sostenere il gruppo dei volontari e perché rimanga acceso il fuoco dell’entusiasmo iniziale, così da consolidare la condizione di “continuità”, Sr. M. Camilla ha promosso la recita del S. Rosario, il giorno 3 di ogni mese, nella casa degli ospiti. Servizio e Rosario presenti ancora oggi. Una grave malattia l’ ha portata alla morte a 62 anni il 16 gennaio 1992. Nel gruppo dei volontari lei era la prima e massima responsabile, lei ha riaperto la strada alla carità operosa. Indicava, col suo esempio, di farsi carico del proprio fratello e/o sorella, di portare, nella casa, una presenza familiare prima ancora che un servizio. Raccomandava di operare per libera scelta e nella piena gratuità. Riconoscente per il dono ricevuto, il 31 mar. 1992, il gruppo volontari ha voluto titolarsi col nome di Sr. M. Camilla: «Gruppo Volontari Parrocchia Sr. Mr. Camilla pro Casa Protetta». Beati coloro che hanno potuto dire: « Grazie Sr. M. Camilla». Beati soprattutto quelli che hanno saputo raccogliere la sua eredità. Orio Savoia 31 MARY “BELIA” I l giorno 4 giugno 2007, alla veneranda età di 97 anni, è venuta a mancare all’affetto dei suoi cari la Signora Maria Govoni. Per i “vecchi” cittadini Argilesi questa persona non ha bisogno di presentazioni, ma per i nuovi arrivati ritengo sia opportuno spiegare loro chi era e cosa faceva. La Maria “bélia”, come la chiamavano in Paese (da balia in dialetto bolognese), è stata colei che con impegno, professionalità e abnegazione, ha svolto nel nostro Comune, dagli anni Trenta agli anni Ottanta, l’Ostetrica, un lavoro delicato, complesso e insostituibile soprattutto per il periodo in cui ha cominciato ad esercitarlo. Mestiere faticoso, a volte ingiustamente sottovalutato e troppo spesso dimenticato, volto a far nascere i bambini per almeno tre generazioni, compreso il sottoscritto. Credo sia doveroso ricordare la Maria “bélia”, anche se con poche righe; in realtà non basterebbe un libro per raccontare gli aneddoti di questa ostetrica, che ha dedicato tutta se stessa, a volte sacrificando la sua famiglia, per il bene dei nascituri della nostra comunità. Vorrei concludere proponendo all’Amministrazione comunale di rendere degnamente omaggio attribuendo un riconoscimento ufficiale e non appena possibile intitolando una via di Castello d’Argile a questa persona speciale che, mettendo a disposizione la sua vita e la sua competenza, ha scritto un capitolo della storia del nostro Paese e della nostra gente. Nicola Melotti (un argilese riconoscente) DOTT. VITTORIO RUBINI I l dottor Rubini era originario di San Giorgio di Piano, ivi nato il 24 febbraio del 1901, figlio del medico condotto di quel comune. Dopo aver esercitato per qualche tempo come supplente del precedente medico condotto di Argile (Claudio Fabbri), vinse il concorso e subentrò come titolare della “condotta” comunale, nel 1931. Il dottor Rubini era figura molto popolare e apprezzata nel paese per le sue doti di umanità e per la qualità dell’impegno professionale sempre profuso con sollecitudine, e pronto ad intervenire in soccorso di chi aveva bisogno;. a qualsiasi ora del giorno e della notte, anche nelle più sperdute case di campagna, quasi sempre in bicicletta e con ogni tempo, tra difficoltà e disagi, con i modesti mezzi e il modesto stipendio erogato dal Comune. Esercitò la professione nel primo ambulatorio medico pubblico costruito nel 1916 lungo la via Mazzoli, e da lui utilizzato dal 1931 e fino alla fine del suo mandato nel 1965. Nel maggio 1967 la parrocchia di Argile, con Don Mario Minello, gli dedicò una medaglia in riconoscimento dei suoi meriti. Nel 1973, in occasione del 1” maggio - Festa dei lavoratori, il Comune gli donò una targa ricordo, nel corso di una cerimonia pubblica in suo onore, con Messa in chiesa e Consiglio comunale straordinario appositamente convocato. L’evento fu annunciato da un manifesto e tanti cittadini e autorità vollero festeggiarlo. Il dottor Rubini morì il 29 novembre 1975 a Castello d’Argile. 32 In ricordo del Dott. Vittorio Rubini di Armando Cortesi (Dosi) Origineri ed San Zorz lauree dutour in medgeina e chirurgi sicurament con vut ed tot rispet consideré la scola selettiva che l’ha frequenté, an yavanza eter da considerer che sicurament lé sté profesionesta ed capazité. Originario di San Giorgio laureato dottore in medicina e chirurgia sicuramente con voti di tutto rispetto considerata la scuola selettiva che ha frequentato, non rimane altro da considerare che sicuramente è stato professionista di capacità. E sicurament sti considerazion al fun fati dal Sg. Pepino Gandolf, cl’era aloura puztè dal noster Cmon al quel, senza ricorer al pareir ed tot, l’invidé al dr. Rubein a vleir eser in dla nostra comunité, al Medig Condot. E sicuramente queste considerazioni furono fatte dal signor Peppino Gandolfi che era allora il podestà del nostro Comune il quale senza ricorrere al parere di tutti, invitò il dottor Rubini a voler essere nella nostra comunità, il Medico Condotto. Ste decision unilaterel la fo adoteda dal regitour dla nostra aministrazion dop una singoler tenzon con al dr. Claudio Fabrri aloura al Medeg dal Cmon, e che par fat a me scgnusò, e dop reiteredi sfid a duel a ripos al fò coloché. Questa decisione unilaterale fu adottata dal reggente della nostra amministrazione dopo una singolar tenzone con il dottor Claudio Fabbri allora il medico del Comune, e che per fatti a me sconosciuti e dopo reiterate sfide a duello a riposo fu collocato. Ecco quindi al Dr. Rubein che al s’insedia, e denter e fora dl’ambulatori l’espleta la so funzion anzi, as pol dir, la so mision eleveda ala masima espresion. Ecco quindi il dottor Rubini che si insedia, e dentro e fuori dall’ambulatorio espleta la sua funzione anzi, si può dire, la sua missione elevata alla massima espressione. A qualsiasi ciamé e a qualsiasi oura dal dé e dla not solert al cureva al capezel dl’amalé da visiter, in pantofel o in pigiama cal fos a let o live an’impurteva, dal rech e dal pover al sé semper reché par purter assistenza a chi n’aveva ed necesité. A qualsiasi chiamata e a qualsiasi ora del giorno e della notte solerte correva al capezzale dell’ammalato da visitare in pantofole o in pigiama che fosse a letto o alzato non importava, dal ricco e dal povero si è sempre recato per portare assistenza a chi ne aveva necessità. Par tot l’aveva una parola ed confort e tot grand e cen al saluteva e lan feva incioni dstinzion in dl’UMAN impeg a svolzer la so mision Per tutti aveva una parola di conforto e tutti, grandi e piccoli, salutava e non faceva nessuna distinzione nell’UMANO impegno a svolgere la sua missione. Al testament d’Ippocrate lo sé al l’ha ben apliche, parché al gneva da una scola dove quei don as dvinteva dopo aveir ben imparé, e al bon arcord e al vud cla lascé in mez ala nostra popolazion, lé ancoura oget ed sinzera venerazion. Il testamento di Ippocrate lui sì l’ha ben applicato, perché proveniva da una scuola dove quei doni si diventava dopo aver ben imparato, e il buon ricordo ed il vuoto che ha lasciato in mezzo alla nostra popolazione è ancora oggetto di sincera venerazione. 33 IL BENE È QUALCOSA CHE RIMANE N otte estiva, una di quelle notti in cui per il caldo non si trova riposo e refrigerio da nessuna parte; i muri, arresi al caldo del giorno, non si riescono a liberare del loro carico di sole e la gelida luna pare anch’essa incapace di rinfrescarli. Nessuno per strada, tranne gli ultimi biasanot che non si arrendono alla chiusura notturna dell’unico bar, rimasto aperto in paese, in quella feria di agosto, aperto si ma non a quell’ora. Come dar torto a chi sta sveglio; certe sere d’estate mettono voglia di non dormire e il caldo è solo una scusa, perché, in realtà, ci sono sempre quelle sere, che ci tengono svegli, e ci chiedono di essere ascoltate in silenzio. Questa è una di quelle sere e anche in canonica, finito l’ennesimo incontro di preparazione di un campo, al parroco mancava la voglia di trovare la via del letto: troppo intenso il silenzio estivo, in un’aria che metteva voglia di confidenze e parole sussurrate. Quel sussurro leggero poi, lo stava sentendo già da un po’ di giorni e lo stava sentendo non solo lui; erano già da una settimana che, all’improvviso, il silenzio notturno veniva rotto da un filo di voce, una voce antica di giorni, calma e profonda. Si dava la colpa alle tubature che con il caldo sfiatavano, emettendo suoni da oltretomba, altri dicevano che anche i morti al cimitero si lamentavano dell’arsura, altri sostenevano che si trattasse dello scherzo di qualche giovane burlone. Eppure quella sera silenziosa aveva amplificato quel sussurro e al giovane parroco venne la voglia di seguirne l’eco; e fu un attimo raggelante, quando percepì che veniva proprio dalla chiesa, lì chiusa da oltre un anno, tutta incatenata, triste, senza più la gioia di accogliere il suo popolo. Entrare o non entrare? chiamare i carabinieri con il rischio di esser preso per matto? Assoldare qualche uomo dal bar? a quell’ora il bar MCL era chiuso da ore. “Entriamo”, si disse; lo disse a se stesso, alla paura, ma soprattutto alla sua curiosità. Allarme disinserito, accensione della luce di servizio: chiesa vuota, come sempre, odore acre di chiuso, di muffa e stantio, i banchi ammassati da una parte, le crepe al solito posto, qualche calcinaccio ancora da raccogliere, tanto silenzio. “Devo andare a letto prima, mi son fatto suggestionare, come tutti”, si disse con un forte senso di sollievo, ma, ecco, ancora quel sussurro, ora più nitido, a raggelarlo nuovamente. Quel sussurro però non metteva paura, ma cominciò nel suo giovane cuore a far emergere immagini, quasi che quel sussurro entrando in lui portasse con se parole, ricordi e pensieri che non erano i suoi, ma che erano lì, nell’aria di quella chiesa. Piano piano, tutto quell’insieme in lui prese forma in una voce distinta, una voce narrante, di quei racconti che solo gli anziani sanno fare, quei racconti che tengono attaccati i nipotini al proprio nonno, più di quanto la televisione o un videogame sanno fare. “È un bel po’ che non parlo con nessuno; come ben sai, negli ultimi tempi, le cose non son andate un gran che bene per me. Quei giorni di tremori mi hanno riempito di crepe; poi tutti quei signori che sono entrati, non certo per pregare, mi hanno considerata inagibile, mi hanno chiusa e transennata, proprio quest’anno che era tempo di compleanni: 150 anni ma portati bene. Sono proprio felice che tu sia qui stasera, non so chi ti abbia mandato, ma hai fatto bene: si ha voglia di parlare con qualcuno ogni tanto. Mi hanno tolto perfino il buon Dio dal suo tabernacolo; con Lui non ero mai sola. Ora che Lui vi accompagna nel vostro esodo celebrativo son proprio sola. Mi sono trattenuta in tutto questo tempo, ma è da un po’ di giorni che mi lamento e mi sa che qualche lamentela è giunta alle orecchie di qualcuno. Bene così, allora. Ti ho già stancato? Spero di no; d’altra parte voi giovani fate così in fretta a stancarvi, sì anche voi parroci giovani. Eh sì mio caro, io c’ero, anche prima che tu arrivassi e, se tanto mi dà tanto, ci sarò anche dopo il tuo trasferimento. Per cui mettiti comodo, perché avevo preparato un bel discorso che avrei letto il giorno della festa dei miei 150 anni; può tornare buono per i 150 anni più 1, per cui ascoltami, in silenzio e dammi un parere. Si schiarì la voce e incominciò. Non posso dimenticare, disse, quando cominciarono a costruirmi. La 34 chiesa precedente era diventata troppo piccola per ospitare tutta la comunità; la domenica la gente stava tutta fitta e molti si cominciavano a lamentare e usavano la scusa per star fuori a chiacchierare. I fieri e pratici argilesi decisero allora di costruire un nuovo edificio. Il progetto fu lungo a definirsi, non ci si decideva finché un bravo e saggio contadino fece notare come bisognasse affidarsi a un brano progettista, a uno che sapesse il mestiere, che sapesse far progetti, che sapesse tener insieme le diverse opinioni e gli apporti di ciascuno. Tirò fuori non un nome ma un vecchio vangelo e tutti cominciarono a leggerlo insieme e da li in poi la discussione su il come tirar su questa chiesa si placò e si trovò l’armonia e l’unità di intenti. Come dimenticare poi lo sforzo di ciascuno per offrire chi il prezzo di una chi di due pietre, soldi tolti al sostentamento già povero della famiglia: era la casa della comunità non ne valeva la pena? Posso sentirle tutte le pietre che m compongono, le conosco, so chi le ha donate e ognuna è preziosa ed è fondamentale, guai se ne mancasse una. Anche ora, in tempi difficili, ognuna di esse non smette di fare il suo lavoro, di metterci del proprio per stare insieme alle altre: ognuna sa che il loro esserci fa bene anche alle pietre che son più lontane e a quelle che si sentono più importanti. Cosa le tiene insieme? L’amore per Colui che questa chiesa contiene, sono onorate di servirlo e di fargli da dimora, perché tutti possano incontrarlo. Qualche crepa c’è, anche fra le pietre, ma tutte le sane, in questi mesi, si stanno caricando anche del peso delle ferite: se son rimasta in piedi è proprio per questo, nessuno qui è stato abbandonato o fatto cadere. Beh sì, in effetti, qualche pietra ha ceduto ed è caduta a terra: alcune hanno voluto fuggire, pur di far da sole, altre invece son state abbandonate dalle vicine perché considerate inutili, mentre invece stavano portando il peso anche il loro peso. Son certo che, presto, una mano sapiente le raccoglierà, le radunerà e le metterà al loro posto, raccomandando alle fuggite di non aver paura di farsi aiutare e alle vicine di accoglierle con maggior affetto di prima e di essere più premurose la prossima volta. Se ogni pietra potesse dir la sua: ognuna è intrisa delle preghiere della gente. Hanno imparato giorno dopo giorno ad accogliere gioia, tristezza, vita, morte, gratitudine, pentimento, lacrime, sorrisi. Queste pietre hanno il sapore della comunità, della sua storia e hanno una gran voglia di futuro. Le pietre più antiche tutti i giorni raccontano con gioia e gratitudine alle pietre più giovani questa bella storia e le più giovani danno forza alle pietre più antiche e ammirano la loro pazienza e perseveranza. C’è qualche lamentela ogni tanto fra le pietre, c’è chi si sente più bella più fondamentale, c’è chi giudica e disprezza ma quando, al suono della campana, comincia la messa ogni futilità tace e ci si trova unite a veder ancora il miracolo della pietra più nascosta ma fondamentale, Colui che, a onore delle pietre, si è fatto chiamare pietra d’angolo, che ancora una volta sta in mezzo a noi. C’è un fremito che sta prendendo le pietre, sai, nostro giovane amico? Avrebbero tutte voglia di lasciarvi il posto, vorrebbero proprio che veniste voi al nostro posto anche solo per un giorno o forse anche solo che le ascoltaste un po’, hanno tanto da insegnarvi. Si potrebbero prendere una vacanza: è bello star qui da 150 anni, ma a volte avrebbero voglia di veder fin dove si spinge questo nostro bel paese e andar a trovare chi mai vieni qui e esser casa anche per lui, una licenza premio se la potranno pur prendere...”. “Dan, dan, dan” un sussulto prese il parroco nel sentire quella campana che tutte le mattine fa saltar dal letto tutti i vicini, la solita campana. Senti la campana, insieme al dolore alla schiena: dormire su un banco di legno non è certo comodo. Si era sicuramente sognato tutto, o forse no, certo guardava quelle pietre con un occhio diverso quella mattina: da 150 anni lì, silenziose e pazienti, salde e fedeli, con il desiderio di insegnare a ciascuno come essere casa di Dio, accogliente e unita. Le solite pietre da 150 anni; il giovane parroco si ricordò di parole udite da un santo prete e adesso gli pareva di capire che il bene è qualcosa che rimane, che la forza della fede è la stabilità, che l’amore è prima di tutto pazienza, lunga pazienza, e che solo le ininterrotte fedeltà generano i grandi amori e le grandi opere. Grazie ad ogni pietra che con pazienza ci ha fatto incontrare Dio e ci ha tenuto legati a Lui e tra di noi. Don Giovanni, parroco 35