150 anni
di pietre vive
In copertina:
così come poteva essere la chiesa precedente a quella attuale (fino al 1859);
con la facciata rivolta sulla “strada maestra” (talvolta chiamata “strada delle Lamme”).
Adiacente ad essa, uno degli edifici abbattuti per far spazio all’attuale Piazza Attilio Gadani.
PARROCCHIA DI SAN PIETRO DI CASTELLO D’ARGILE
Supplemento a:
Bollettino della Parrocchia di San Pietro di Castello d’Argile (Bo)
Anno XIV – n. 5 – Dicembre 2013.
INDICE
pag. 4. . . . . . . . Pietre vive…
pag. 5. . . . . . . . Storia della chiesa di Castello d’Argile
pag. 7. . . . . . . . ma… c’è un’altra storia, fatta di persone…
Molti lasciano un vuoto, qualcuno sceglie di lasciare un esempio
pag. 10. . . . . . .
I parroci di Castello d’Argile… negli ultimi 150 anni
pag. 10. . . . . . . don Giovanni Cavalli;
pag. 10. . . . . . . Monsignor Raffaele Giordani;
pag. 10. . . . . . . Monsignor Vincenzo Gandolfi;
pag. 12. . . . . . . don Mario Minello;
pag. 14. . . . . . . don Andrea Astori;
pag. 15. . . . . . . Sacerdoti di origine argilese
pag. 16. . . . . . . Nostri sacerdoti in servizio pastorale
pag. 17. . . . . . . Ministeri
pag. 18. . . . . . . Raffaele Orsi
pag. 22. . . . . . . Zirudella di Pietro Maccaferri per Raffaele
pag. 25. . . . . . . Gaetano e Cesare Boninsegna - sacrestani.
pag. 27. . . . . . . Secondo ed Umberto Puggioli
pag. 28. . . . . . . Perle preziose
Pace Cremonini e Padre Marella
pag. 29. . . . . . . Bruno Marchesini
pag. 30. . . . . . . L’angelo bianco (Suor Maria Camilla Gili)
pag. 32. . . . . . . Mary belia e dott. Rubini
pag. 33. . . . . . . Zirudella di Armando Cortesi (Dosi) per il dott. Rubini.
pag. 34. . . . . . . Il bene è qualcosa che rimane
Chiesa accogliente
P
ietra “viva” è un controsenso.
Cosa c’è di meno vivo di una
pietra: non cambia, non cresce,
nemmeno invecchia o muore. In
compenso la vita è fragile, si spande
ovunque possibile, si adatta, si
moltiplica. Alla voce “pietre vive”
internet propone: una artista che dipinge sassi, un blog, alberghi, bad & breackfast e anche
un sito dal titolo “Annunciare il vangelo che è nell’Arte”. Sulle prime risposte al quesito
c’è ben poco da dire; l’ultimo sito ci parla di pietre, che però rappresentano ben altro. Ci
rimandano a Cristo e al Vangelo, con tutto ciò rimangono pur sempre e solo pietre. Ciò
che dà loro vita è l’opera, l’ingegno, la fede quella sì “viva” di uomini che con queste
opere vogliono rendere lode a Dio. Ma pietre erano e pietre sono rimaste. Una pietra se
veramente è viva non può essere “qualcosa” ma “qualcuno” su cui potersi appoggiare,
costruire, “modellarsi”, quindi vita vera, intera, totale. Qualcuno che come pietra sia un
punto di riferimento, “un centro di gravità permanente”, in un mondo che ha fatto della
liquidità e non della solidità il suo modo di essere. La Sacra Scrittura ci parla più volte
di pietre vive: già nell’antico testamento riferendosi a Cristo è scritto: “La pietra che i
costruttori avevano disprezzata è divenuta la pietra angolare” (Sal 118:22). È Cristo stesso
che poi parlando a Pietro dice: “E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò
la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere” (Mt 16:18); lo stesso Pietro poi
nella sua prima lettera ha scritto: “anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare
una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per
mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2:5). Cristo è quindi LA pietra viva su cui poggia ed è costruita
la sua Chiesa, di cui Pietro e i suoi successori sono segno tangibile di unità. A sua volta
tutti noi siamo chiamati ad essere “pietre vive” e con noi tutti quelli che ci hanno preceduti
e che non cessano di essere vivi. Chi poggia sulla pietra, che è anche la vita per eccellenza,
ne ha quindi la pienezza e non conosce la morte. I fratelli che ci hanno preceduto in questa
vita e che qui ricordiamo con questo numero del bollettino, sono pietre che ancora oggi
vivono con noi. Insieme a loro possiamo, anzi dobbiamo ricordare i nostri padri e madri,
i nonni e le nonne, tutte le nostre famiglie che ci hanno dato la vita e ci hanno trasmesso
la fede. Fin da piccoli ci hanno introdotti ai rudimenti della fede, pregando insieme a noi,
insegnandoci le preghiere con cui rivolgerci a Lui per ringraziarLo nei momenti belli e
per affidarci a Lui nei momenti di difficoltà; ci hanno condotto per mano ai piedi della
Madonna, madre a cui affidarsi con confidenza e fiducia. Pietre vive della Chiesa e di una
comunità, di una piccola Chiesa, quella di Castello d’Argile, alla cui costruzione siamo
chiamati noi ora, oggi. Chiamati, insieme a tutti loro, ad essere parte costitutiva di una casa
spirituale senza mai dimenticare di essere “stati edificati sul fondamento degli apostoli e
dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Ef 2:20).
Lorenzo Bovina
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STORIA DELLA CHIESA DI S. PIETRO IN ARGILE
L
a chiesa attualmente presente nel centro storico di Castello
d’Argile è la terza in ordine di tempo costruita e dedicata
all’Apostolo Pietro. La prima era stata costruita in data imprecisata in
Bisana, nella zona poi detta di “S. Pietro vecchio” (nell’angolo tra via
Zambeccari e via Minganti), citata negli estimi e in elenchi di chiese
del 1300 e poi in documenti del 1400 e 1500, quando era ormai solo
un rudere.
La seconda fu costruita nel 1380, quando fu edificato il nuovo
“Castello d’Argile”, centro abitato a forma di castrum racchiuso da
palancato e fosse circondarie. Aveva 5 altari laterali e si affacciava
verso ovest sulla “strada maestra”, quasi di fronte all’antico palazzo
con porticato, originarimente sede dei primi Vicari mandati dal Comune di Bologna; il campanile,
costruito un secolo dopo, si trovava dove è ora la canonica. Ai lati aveva due cimiteri, uno per i piccoli e
uno per gli adulti, utilizzati fino al 1810.
La chiesa attuale si affaccia sulla piazza Attilio Gadani. È stata costruita tra il 1859 e il 1863, su
progetto e direzione dei lavori del capo-mastro e architetto Giuseppe Brighenti, che già aveva realizzato
il campanile circa 20 anni prima, ed era allora il più noto ed attivo costruttore di edifici religiosi nel
bolognese. Lavorarono materialmente alla costruzione in particolare il capomastro locale Benedetto
Mastellari e tanti muratori e artigiani del luogo, oltre ai contadini che collaborarono trasportando i
materiali con i loro carri, e contribuendo con offerte di vario genere.
Era allora parroco don Giovanni Cavalli, e i lavori ebbero inizio negli stessi giorni in cui si combattevano
le battaglie della 2° Guerra di Indipendenza che segnò la fine dello Stato Pontificio. Nelle fondamenta
furono inserite una moneta e due medaglie con immagini del papa Pio IX, allora al suo 13° anno di
pontificato.
L’edificio è di impostazione classicheggiante, con pianta a croce latina, colonne in stile ionico all’interno
che reggono la cupola sopra l’altare maggiore; ai lati dell’unica navata, ci sono 6 altari, 3 a destra e 3 a
sinistra, inseriti in piccole cappelle delimitate da balaustre.
La chiesa è dedicata a S. Pietro, come lo erano le due chiese, sempre con titolarità di parrocchia, costruite
nei secoli precedenti: la prima, che si trovava nel primo nucleo abitato di Argile, nella zona Bisana
(tra via Zambeccari e via Minganti, di fronte all’imbocco di via Cappellana), già esistente nel 1200 e
abbattuta intorno al 1563; la seconda, costruita nel 1380 insieme al nuovo Castello d’Argile, con facciata
sulla strada “maestra”, abbattuta nel 1859.
È stata inuaugurata la prima domenica di ottobre 1863 alla presenza del cardinale Viale Prelà; ma la
facciata e molti dei lavori di finitura e abbellimento interno furono realizzati negli anni successivi.
La facciata, con decori e cornici, fu eseguita nel 1870-71, subito dopo l’abbattimento dei 4 caseggiati
che si trovavano al centro del paese e mentre si spianava la nuova piazza e si costruiva il Palazzo degli
Artieri. Fu eretta sotto la guida di Vincenzo Brighenti (figlio di Giuseppe) e grazie all’opera di tanti
muratori del luogo. Nel 1872 furono collocate le due statue dei santi Pietro e Paolo, offerte dalla Cassa
di Risparmio di Cento.
La pala dell’altare maggiore, raffigurante la “liberazione” di S. Pietro, fu eseguita dal pittore Natale
Selleri, di Padulle, e fu donata dal parroco Don Raffaele Giordani, appena insediato in parrocchia ad
Argile, nel 1887.
Il Battistero, con bacile e coperchio in marmo pregiato, sorretto da angioletto in bronzo, fu donato nel
1894 dal conte René Talon (figlio dell’ultima erede dei Sampieri, Carolina) e dalla moglie, marchesa
Maria Mazzacurati, in segno di ringraziamento per la nascita (pochi mesi prima) del loro primo figlio
maschio, Omer, dopo 8 anni di matrimonio. L’antico palazzo a Volta Reno, dove i Sampieri-Talon
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risiedevano saltuariamente, era sotto la parrocchia di Argile; il neonato era stato però battezzato nella
chiesa “metropolitana” di S. Pietro in Bologna.
Nel 1900, per celebrare degnamente “l’anno santo”, Don Giordani fece eseguire dal “lanternaio”
argilese Aurelio Veronesi i 4 lampadari in ferro che calano sul presbiterio, e commissionò al pittore
professor Cesare Mauro Trebbi di Bologna gli affreschi sulla vita di S. Pietro che decorano l’abside e
il “mezzocatino” soprastante l’altare maggiore; i pittori Antonio Mosca e Francesco Fabbri di Pieve di
Cento eseguirono le decorazioni e l’ornato sulle pareti circostanti.
La tribunetta in marmo posta sul ciborio dell’altare maggiore fu scolpita nel
1903 dallo scultore Armando Scannabissi, nativo di Armarolo di Budrio.
I 6 altari laterali in marmo, commissionati alla ditta Canepa di Bologna, furono
realizzati in tempi diversi, tra il 1912 e il 1928, dapprima su iniziativa di don
Giordani e poi del successivo parroco, don Vincenzo Gandolfi (in Argile dal
1913 al 1960). Sui suddetti altari furono posti grandi quadri che probabilmente
erano già presenti nella chiesa precedente.
• Nella prima nicchia a destra dell’entrata fu posta una statua della Madonna
del Carmine con Bambino, di fattura ottocentesca, circondata da reliquie; alla
base, davanti a questa immagine è un’arca sepolcrale dove sono sepolti i resti
di 3 parroci del secolo 1800: don Macari, don Cavalli e don Giordani, traslati
qui nel 1931.
• Nella successiva prima cappella a destra, dotata di altare, è collocato un
quadro di probabile fattura seicentesca, raffigurante i Santi Prospero e
Pancrazio (a sinistra), S. Elisabetta d’Ungheria (al centro), S. Rita e S. Antonio Abate (a destra), in atto
di venerazione di una Madonna con Bambino che appare in cielo (o “in gloria”). Quadro che porta i
segni di ridipinture e ritocchi e probabile sostituzione di figure.
• Nel secondo altare a destra, si trova un grande quadro raffigurante i “15 Misteri del Rosario”, con al centro
una nicchia in cui è collocata una piccola statua di Madonna con Bambino. Il quadro risale probabilmente
alla fine del 1600 e si trovava già nella precedente chiesa, in quanto citato in un altare laterale dedicato
appunto alla Madonna del Rosario. La statua fu donata nel 1844 dalla pia parrocchiana Anna Maria Davoli,
vedova del mercante e ricco possidente Giuseppe Simoni (nonna di Massimo Simoni sindaco di Argile dal
1884 al 1904), in sostituzione di una precedente statua considerata troppo piccola e brutta.
• Il terzo ed ultimo altare a destra è dedicato a S. Antonio da Padova,
con una statua del santo che regge con una mano un Gesù bambino
e con l’altra uno stelo con gigli. Statua in terracotta di probabile
fattura settecentesca, proveniente dalla chiesa annessa al Convento
dei Ronchi di Venezzano. Fu prelevata e donata alla chiesa di Argile
dalla Confraternita intitolata a S. Antonio, nel 1811, quando furono
definitivamente chiusi chiesa e convento, soppressa e dipersa la comunità
di frati francescani che vi risiedevano e vendute le loro proprietà.
• Sul lato sinistro della navata, dopo il battistero succitato, sul primo
altare si trova un grande quadro raffigurante i 3 arcangeli, Gabriele,
Michele e Raffaele, di fattura settecentesca, e proveniente probabilmente
dalla chiesa precedente.
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• Sul secondo altare altro grande quadro raffigurante S. Giuseppe sul letto di morte (o “transito” secondo
il linguaggio liturgico e iconografico); di fattura ottocentesca, a imitazione di un quadro noto a quel
tempo del pittore Franceschini; risultava già in inventario nella chiesa precedente.
• Il terzo altare è sovrastato da un dipinto che presenta al centro un Crocefisso, con ai lati i santi Sebastiano
e Rocco. Opera che risale probabilmente agli anni immediatamente successivi alla epidemia di peste
(1630), commissionata in segno di ringraziamento dai sopravvissuti, come era consuetudine frequente
di quel tempo.
La pavimentazione attuale della chiesa in mattonelle esagonali in terracotta di colore rosso bruno,
intervallate da mattonelle bianche disposte secondo un disegno geometrico a forma di croci, fu posata
nel 1915, su progetto dell’ing. Carlo Ballarini di Bologna, incaricato dal nuovo parroco, don Vincenzo
Gandolfi (insediato nel 1913).
La balaustra in marmo che
separa il presbiterio, riservato al sacerdote, dalla navata della chiesa riservata al
pubblico, fu costruita nel
1932, su progetto e direzione lavori del prof. Giuseppe
Rivani, architetto bolognese
molto noto per altri lavori
eseguiti in chiese bolognesi.
Nella chiesa di Argile sono
tuttora conservate due opere antiche e importanti, ma
poco note alla stessa popolazione dei fedeli del luogo.
Si tratta dei frammenti di un
affresco raffigurante un Crocefisso con la Madonna e S. Giovanni inginocchiati ai lati della croce.
Ai piedi della croce è ancora ben visibile la testina che riproduce certamente il profilo del committente
dell’affresco; alla base delle figure principali c’è una striscia decorata, con al centro lo stemma di un
casato, probabilmente dello stesso committente, e una scritta, solo parzialmente leggibile, che testimonia
che l’opera fu eseguita quando “fu principiado lo chastelo de Arzele”, cioè nel 1380.
L’altra opera importante è un crocefisso processionale in argento brunito, alto circa 35 cm., di ottima
fattura, in passato attribuito al Giambologna (lo scultore della statua del Nettuno a Bologna), senza però
alcun riscontro documentale. Potrebbe invece essere stato realizzato e donato alla chiesa di Argile dallo
scultore bolognese Alessandro Menganti (autore della statua di Papa Gregorio XIII sulla facciata di
Palazzo D’Accursio) che visse in Argile gli ultimi anni della sua vita e qui fu sepolto il 2 settembre 1609.
Magda Barbieri
PS. Per maggiori informazioni sulla Chiesa: Magda Barbieri “La terra e la gente di Castello d’Argile e di
Venezzano ossia Mascarino”, vol. II, 1997, (pag. 464-506 e foto da pag. 521 a 528).
Per il Crocefisso in argento: ibidem, vol I, 1994, ( pag. 290/297/346)
7
Questa è la storia, in forma breve,
della nostra chiesa parrocchiale
edificata con mattoni su solide
fondamenta…
ma…
8
…c’è un’altra storia,
fatta di persone,
di intere famiglie,
di intenso lavoro,
di intensa preghiera
che è “fondamenta”
della nostra comunità.
MOLTI
LASCIANO
UN VUOTO.
QUALCUNO
SCEGLIE
DI LASCIARE
UN ESEMPIO.
9
— I PARROCI DEGLI ULTIMI 150 ANNI —
Don Giovanni Cavalli (dal 1848 al 1886)
D
edicò grande impegno alla realizzazione della nuova chiesa (1859-1863) e al completamento
della facciata (1871).
Visse negli anni più difficili del grande conflitto politico-religioso che si era creato in seguito alla
fondazione del Regno d’Italia e alla fine dello Stato Pontificio e del “potere temporale”. Nel 1866 fu
imprigionato per un mese, insieme ad altri parroci bolognesi e 2 assessori di Argile, perché sospettato
di ostilità contro il nuovo Governo, mentre l’Italia stava entrando nella 3° guerra di Indipendenza. Morì
all’età di 70 anni, dopo 38 di attività pastorale in Argile. Sepolto dapprima nel cimitero comunale, la
sua salma fu traslata in chiesa nel 1931.
Monsignor Raffaele Giordani (dal 1887 al 1912)
D
ottore in Sacra Teologia; autore di una “Orazione panegirica” intorno
a San Nicolò di Bari Arcivescovo di Mira, pubblicata in un libretto
insieme alla “Allocuzione tenuta agli argilesi dall’arciprete Don Raffaele
Giordani nel giorno del suo possesso”. Ebbe sempre grande cura della chiesa
locale e volle abbellirla e completarla al suo interno. Diede grande solennità alle
funzioni religiose; riordinò l’archivio parrocchiale e lasciò sempre “memorie”
scritte delle sue iniziative più importanti.
Di famiglia benestante bolognese (di cui conservava lo stemma araldico),
contribuì anche con risorse personali alle spese di abbellimento della chiesa.
In linea con le indicazioni di Papi e Arcivescovi, favorì la costituzione delle
Monsignor Giordani
prime associazioni cattoliche con fini non esclusivamente ecclesiali, per
stimolare l’impegno politico-sociale dei cattolici in contrapposizione con l’associazionismo (leghe”,
sindacati…) di braccianti e operai che confidavano nelle “dottrine sovversive” del socialismo. Per questo
suo impegno “politico” attivo, condotto insieme ad un animoso cappellano (Don Ludovico Avoni) fu
bersaglio di forti contestazioni popolari ed accusato di connivenza con gli interessi dei “padroni”.
Fu Canonico della Collegiata di S. Giovanni in Persiceto ed ebbe importanti incarichi di predicazione
conferitigli dagli Arcivescovi diocesani.
Morì nel 1912 all’età di 59 anni, dopo 25 di ministero sacerdotale in Argile.
Monsignor Vincenzo Gandolfi (dal 1913 al 1960)
M
onsignor Vincenzo Gandolfi, nato a Cento nel 1881, è stato parroco di
Argile dal 1913 al 1960, anno della sua morte.
La sua figura è rimasta viva nella memoria degli argilesi, per la lunghissima
durata (47 anni) e per la incisività della sua presenza, anche perché vissuta
in un periodo storico di altissime tensioni sociali e forti contrapposizioni
ideologiche, oltre che travagliato da due guerre mondiali.
Si rivelò subito di forte personalità e intenzionato a continuare a impegnarsi
sulla stessa linea del pur influente predecessore, mons. Raffaele Giordani,
per animare e attivare i fedeli cattolici anche fuori dell’ambito religioso, nel
contesto sociale e politico del tempo.
Monsignor Gandolfi
Tra il 1916 e il 1922 promosse la costituzione di nuove organizzazioni cattoliche,
circoli giovanili maschili e femminili, tra cui l’”Azione Cattolica” e la “Lega
bianca dei coloni e dei braccianti” (in evidente contrapposizione con le “Leghe rosse” social-comuniste).
Nel 1919 acquistò dai Veronesi il grande palazzo con portico al centro del paese e 1o fece ristrutturare per
adibirlo a sede delle “Opere Parrocchiali” e come dimora per le Suore della Congregazione delle “Serve di
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Maria della Galeazza”,
che
si
occuparono
poi sempre dell’asilo
parrocchiale
allora
istituito, del doposcuola,
del catechismo e della
scuola di cucito.
Fu sempre molto attento
alle questioni politiche
e apertamente schierato
contro le ideologie
socialista e comunista,
e di conseguenza nel
1920 fu oggetto (come
mons. Giordani prima
di 1ui) di manifestazioni
popolari ostili.
Monsignor Gandolfi con un gruppo di parrocchiani
Ma non ebbe un buon rapporto nemmeno con i fascisti, e fu da essi osteggiato nel periodo iniziale (quando
il fascismo aveva una impronta fortemente anticlericale). Nel 1931 fu anche denunciato dai fascisti, nel
periodo in cui era entrato in crisi il “Concordato” tra Stato e Chiesa stipulato con la “Conciliazione” del
1929, in seguito alla decisione di Mussolini di sopprimere tutte le organizzazioni cattoliche.
La denuncia fu poi ritirata e seguì un periodo di coesistenza più o meno collaborativa con il regime,
fino al 23 luglio 1944, quando don Gandolfi fu arrestato dalla polizia tedesca perché accusato di aver
fatto propaganda antifascista e antitedesca e complottato con i partigiani; venne poi rilasciato, il giorno
seguente, dopo un interrogatorio svoltosi presso il Comando tedesco a Bologna. Con lui furono arrestati
e poi rilasciati l’ex podestà Gabriele Gandolfi, il maestro Formaglini, il Marchese Talon e suo figlio.
Probabilmente si trattò di un’azione intimidatoria.
Nel dopoguerra riprese il suo impegno pastorale e politico-sociale, organizzando “Missioni”, convegni
e pellegrinaggi; nel 1948 fondò la sezione 1ocale delle ACLI. Nel 1951, con il contributo economico dei
parrocchiani, fece costruire il Teatro adibito anche a cinema, in via Marconi, a fianco dell’asilo infantile,
ampliato poi nel 1955.
Come parroco, Mons. Gandolfi si distinse per severità e rigore, esprimendosi spesso, dall’altare, sul
“Bollettino parrocchiale” e nei contatti diretti, contro i divertimenti, il ballo e il cinema e le mode nel
vestire, considerati troppo liberi e immorali.
Per il suo zelo e la sua competenza fu apprezzato dai superiori della gerarchia ecclesiastica (pur con
qualche momento di dissenso col Cardinale Nasalli Rocca) e fu nominato Canonico della Collegiata di
Cento; nel 1938, ebbe il titolo di “Cameriere d’Onore di sua
santità il Papa”, con diritto di vestire “l’abito paonazzo”.
La sua intensa stagione terrena finì il 9 gennaio 1960, all’età
di 79 anni.
È sepolto nel cimitero di Argile, in una tomba di famiglia
dove si trovano anche le spoglie della sorella, morta giovane
poco dopo il suo trasferimento in Argile.
Magda Barbieri
(Per maggiori informazioni su don Gandolfi, vol II pag 266, 335,
493, 495 e tante altre del periodo storico in cui ha vissuto).
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Don Mario Minello (dal 1960 al 1998)
22
maggio 1960, giorno di Santa Rita, don Mario Minello
prende possesso della parrocchia di Castello d’Argile,
che guiderà per un periodo di quasi 40 anni.
Gli argilesi vanno ad accoglierlo presso il ponte vecchio di
Cento e lo accompagnano fino ad Argile.
Nell’omelia della messa di insediamento, Don Mario rivela il
possesso di una spiritualità profonda che non ha mancato di
mettere a frutto con il dono di se stesso, amando e soffrendo
per la comunità a lui affidata con l’aiuto della Madonna e
dello Spirito Santo, nei quali confidava.
Ha sempre cercato di plasmare e di formare i suoi fedeli a una
vita di fede distaccata dai beni materiali, dando l’esempio lui
per primo vivendo in povertà. Lo ricordiamo come confessore
- 22 maggio 1960 per i preziosi consigli e la direzione spirituale che sapeva dare a
La comunità di Castello d’Argile
coloro che confidavano in lui. Non si stancava mai nel tentativo
accoglie don Mario Minello
di far comprendere ad ogni singola anima il valore del Divin
a Porta Pieve.
Sacrificio della messa e diceva:” Se i fedeli ne comprendessero
il valore ne ricaverebbero effetti mirabili”. Purtroppo a volte si finisce per fare l’abitudine alle cose
più sante.
Ma nel prendere possesso della nuova parrocchia Don Mario eredita anche una pesante situazione
economica, che lo impegna per diversi anni. Una volta risolti tali problemi Don Mario, con sapiente
lungimiranza, sostenuto dalla divina grazia e dalla potente intercessione della Vergine Maria, della
quale era ardente e tenero devoto, si butta nell’impresa di costruire una nuova scuola materna che
meglio rispondesse alle moderne esigenze educative.
La nuova scuola rimane l’opera più amata e voluta da Don Mario, quella vecchia era ormai
insufficiente e poco funzionale. Tutte le mattine era presente quando venivano portati i bimbi alla
scuola e non mancava mai il suo saluto e il suo sorriso accogliente, che era come una benedizione.
E se il suo carattere era chiuso e riservato, lui quei bambini li ha amati tutti e l’amore è quella cosa
che plasma e infonde fiducia, perché è il riflesso dell’amore del Padre.
Mi viene da pensare, senza ombra di dubbio, che l’impegno e l’amore che don Mario ha dedicato
a questa scuola abbiano impresso in modo indelebile, non solo sul complesso della struttura ma su
ogni singolo mattone che la compone, la scritta “scuola materna Don Mario Minello”; e dal cielo,
dove si trova, non mancherà di intercedere per il suo buon funzionamento.
Nei 40 anni di vita pastorale dedicati da don Mario alla comunità di Castello d’Argile non sono
mancate le vocazioni sacerdotali: con cinque preti, dal 1980 al 2002. Da dove tanta fecondità? Don
Mario passava diverse ore in chiesa, assorto in preghiera per il bene della comunità a lui affidata.
Il suo posto preferito era di fianco all’altare della Madonna, dove celebrava la liturgia delle ore e
recitava il Santo Rosario intero. Chi voleva confessarsi lo trovava sempre e sempre disponibile con
i suoi preziosi consigli; e non mancava di esortare alla maniera di S. Paolo (Colossesi. 3, 12-17).
Don Mario era rifugio e sicuro aiuto per la pecorella smarrita, che veniva curata e messa al
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riparo dai lapidari giudizi e commenti che
troppo spesso provengono da noi membri
stessi della comunità parrocchiale, quando
ci dimentichiamo che essere parte della
chiesa vuol dire essere parte della “sposa
bella e fedele di Cristo sposo, che per lei dà
continuamente tutto se stesso”.
Chi non ricorda i campi scuola a Lizzano
in Belvedere? Là don Mario si trasformava
completamente e il suo carattere chiuso
e riservato lasciava il posto a una grande
disponibilità e dolcezza. Sono sicuro che
tutti i ragazzi, animatori, catechisti, adulti
e chiunque altro abbia partecipato ai campi
conservi in cuor suo tali ricordi.
Don Mario era molto geloso del decoro della
sua chiesa e la custodiva con zelo e con
altrettanto zelo aveva educato la sua comunità
al rispetto del luogo sacro, tanto da far dire al
cardinale G. Biffi: ”Quando si entra in questa
chiesa si percepisce il senso del sacro e quando
- 22 maggio 1960 si celebrano i santi misteri il raccoglimento, il
Celebrata l’Eucaristia, il nuovo parroco benedice i fedeli.
silenzio e l’attenzione dell’assemblea danno al
celebrante la gioia di contemplare i misteri della vita di Gesù dall’incarnazione alla sua ascensione
al cielo; nella diocesi luoghi come questo sono rari”.
Ma la vita di Don Mario negli ultimi anni è
stata segnata dalla sofferenza della malattia;
forse ha provato il suo Getsemani nel sentirsi
abbandonato e privato dei luoghi a lui più
cari come la canonica, nella quale ha vissuto
in povertà per quarant’anni.
Ha dovuto anche subire prepotenze e
umiliazioni e se in questo stato di desolazione
qualche ombra ha lievemente scalfito la sua
immagine, beati coloro che con sapienza
biblica hanno saputo stendere un velo pietoso
(Genesi 9,20-27), per poter conservare in
cuor loro un ricordo limpido e genuino della
sua vita e del suo insegnamento.
Grazie Don Mario
Quinto
Un giorno felice per don Mario
13
Don Andrea Astori (dal 1998 al 2010)
parroco ed amico.
N
on so che dire. Mi sento inadeguato. Tanti anni con la fortuna di avere Don
Andrea come parroco, come guida, come amico e non il coraggio di scrivere
un ringraziamento, un saluto. Mi sforzo di farlo perché ritengo doveroso che in
questa occasione ci si ricordi del Don in un suo aspetto che, quando arrivò, fu per
noi nuovo, e come tutte le cose nuove provocò anche chiacchiere e incomprensioni.
Le “gite”. “Ma d’un vel, cà gnè mai!”. Quanti di Argile, o anche non di Argile, non
hanno partecipato almeno
una volta a una gita, un
pellegrinaggio, una camminata? Alzi la mano. E quanti
ne sono tornati più aperti, comprensivi, attenti all’altro,
scoprendo quanta ricchezza c’è in ognuno di noi, dentro
persone che abbiamo avuto a fianco da una vita, magari
nel banco della chiesa, ma a cui fino ad allora non
avevamo mai rivolto la parola? Il Don voleva fare di noi
una comunità, non una “organizzazione”, una “aziendina”
che realizza “cose”, organizza “avvenimenti” che, anche
se belle e utili, rimangono sempre e solo “cose”. Ci ha
aiutati a scoprire chi sta intorno a noi come persona.
Don Andrea amava molto viaggiare.
Con tutte le ricchezze che ognuno di noi ha e che può
Eccolo in Terrasanta.
mettere a disposizione. Chi sa cantare, chi scrivere, chi
organizzare, chi ridere e anche (e non è facile!) chi sa stare zitto. Tutti potevano portare alla “mensa comune”
quanto avevano di buono, e tu ci hai aiutati a scoprire che TUTTI hanno qualcosa di buono da offrire. Don,
quante volte alle gite la tue pecorelle brontolavano perché con le tue gambe lunghe rischiavi di lasciarle
indietro. Non ne hai persa nessuna. Grazie Don.
N
Lorenzo Bovina
on posso dire di aver conosciuto bene don Andrea, perchè quando è diventato Parroco di Castello d’Argile, nel
1998, io ero in seminario; un anno dopo sono diventato Diacono (ottobre 1999) e nell’anno seguente Sacerdote (settembre
2000).
In quegli anni, e meno ancora, negli anni seguenti, ho
frequentato poco la Parrocchia di Castello d’Argile e la persona
di don Andrea. Tuttavia voglio cogliere questa occasione per
ricordare due frasi di don Andrea che mi hanno colpito.
A celebrare l’Eucaristia nel deserto di Giuda.
1) Durante la Messa dell’Ordinazione diaconale di don Eugenio
Guzzinati, don Andrea ed io stavamo in piedi a breve distanza dai neo-ordinati, pronti a portare a don Eugenio gli
abiti diaconali per il rito della vestizione. Non ricordo che cosa io stessi pensando nell’attesa del momento del nostro
ingresso in scena; ricordo invece che don Andrea a un certo punto si voltò verso di me e mi disse: “Prega anche tu lo
Spirito Santo!”. Una frase semplicissima che mi ha spiazzato e che mi è rimasta dentro in tutti questi anni.
2) La seconda frase fu detta da don Andrea durante un campo a Coi di Zoldo: dopo una S. Messa celebrata con i ragazzi,
don Andrea chiese a noi educatori come avevamo visto i ragazzi durante la seconda parte della Messa (dall’offertorio
in poi). Mentre qualcuno di noi rispondeva facendo capire che era convinto che don Andrea avesse visto di persona la
condotta dei ragazzi, don Andrea intervenne e disse: “Ah no, io in quella parte della Messa non guardo mica i ragazzi”.
Queste parole mi hanno colpito, perchè mi hanno ricordato quanto è importante l’attenzione al rapporto con Dio e a
quello che si sta facendo durante la Messa.
Saluti a tutti.
don Michele Veronesi
14
SACERDOTI ORIGINARI DI CASTELLO D’ARGILE
Dall’inizio del secolo scorso ad oggi, la parrocchia di Castello d’Argile ha donato alla Chiesa n.
12 presbiteri. Più precisamente (tra parentesi la data di ordinazione):
don Corinto Capelli(1902)
Parroco a San Biagio di Bargi
don Ermenegildo Grassilli(1907)
Parroco alla Ss. Trinità di Fiorentina
don Primo Angelini(1908)
Parroco a San Matteo di Molinella
don Dogoli Busi(1935)
Parroco a Santa Maria Assunta di Malfolle
don Riccardo Zanarini(1935)
Parroco ai Ss. Filippo e Giacomo di Casadio
don Dino Vannini(1950)
Parroco a San Michele Arcangelo di Bagno di Piano (Bo)
don Remo Resca(1980)
Parroco a San Giacomo di Piumazzo (Bo)
don Remo Borgatti(1984)
Parroco a Santa Maria di Fossolo (Bo)
don Eugenio Guzzinati(1999)
Arciprete a Santa Maria Assunta di Tolè.
Parroco a Monte Pastore (Bo)
Amministratore parrocchiale a Rodiano (Bo)
don Michele Veronesi(2000)
Arciprete a San Giovanni Battista e Pietro di Borgo Capanne (Bo)
Parroco a Molino del Pallone (Bo)
Amministratore parrocchiale a Lustrola,
Granaglione e Boschi di Granaglione (Bo)
don Marco Garuti(2002)
Parroco a San Giovanni Battista di Scanello (Bo)
Amministratore parrocchiale a Roncastaldo e Bibulano (Bo)
don Paolo Bovina(2013)
Incardinato nella diocesi di Ferrara
15
I NOSTRI SACERDOTI tuttora in “servizio pastorale”
P
iù volte ho udito dalla viva voce del Cardinal
Carlo Caffarra “…questa terra a me
tanto cara…, che ha dato (e continua a dare)
i natali ad una bella schiera di presbiteri…”
Tanti, tanti anni fa a Minerbio, durante un
corso di Esercizi Spirituali, conobbi Mons.
Marco Cè (allora Vescovo ausiliare a Bologna
– successivamente Patriarca di Venezia) il
quale, per attaccar discorso, mi chiese donde
venissi… risposi: - “da Castello d’Argile”.
Egli ribattè: - “di Castello d’Argile io conosco
Da sinistra: Don Michele Veronesi, don Andrea Astori,
i “due Remi” (trattavasi di Remo Resca e
don Remo Borgatti, don Marco Garuti, don Remo Resca,
Remo Borgatti, che in quegli anni studiavano
don Eugenio Guzzinati.
entrambi in seminario). Mi colpì tanto quella
frase che non sono mai riuscito a togliermela dalla testa. I “due Remi della parrocchia di Castello
d’Argile…”, quasi come fossero due remi di una barca in navigazione verso il Regno di Dio.
I “due Remi” divennero poi sacerdoti entrambi (e sono tuttora in servizio pastorale presso parrocchie
importanti) ed è per questo che la mia fantasia immagina che questo non sia un caso qualsiasi.
“Due Remi” che spianano la strada ad altri giovani e li conducono a seguire il loro esempio; infatti
dopo di loro, don Michele Veronesi, don Marco Garuti, don Eugenio Guzzinati, ed ora don
Paolo Bovina; ancor prima di loro: don Dino Vannini.
Ora mi sembra di comprendere meglio il significato delle parole del Cardinal Caffarra: - Questa
terra benedetta dal Signore e a me tanto cara… quale dono più grande alla nostra comunità?
Aldo Angelini
29 settembre 2013:
don Paolo Bovina celebra la sua
prima S. Messa nella parrocchia natale.
16
don Paolo, all’offertorio
riceve doni da mamma e papà
L
MINISTERI
a Chiesa è per sua natura ministeriale. Ogni cristiano, in quanto battezzato, è chiamato al
ministero, cioè al servizio; e questo, come Gesù ha fatto e ci ha insegnato, non è tanto “fare dei
servizi”, ma è mettere la propria persona a disposizione sua, per il bene dei fratelli.
Nell’ultima sua cena, al termine della “lavanda dei piedi” Gesù ha detto: “Se dunque io, il Signore
e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un
esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.” (Gv 13,14-15). E altrove dice: “chi
vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi, sarà vostro
schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire...” (Mt 20,26-28).
Nella Chiesa, quindi, tutti siamo chiamati a “servire”; alcuni, tuttavia, lo sono per una chiamata particolare
(vocazione). Il loro ministero è confermato dal Sacramento dell’ordine, nel grado di Vescovo, di Presbitero
e di Diacono.
Lo Spirito, inoltre, dona a ciascun laico di sentirsi corresponsabile e di partecipare alla missione
della Chiesa, secondo modi e tempi diversi. Emergono così i “Ministeri di fatto”, che vengono esercitati da
tutti coloro che prestano il loro servizio - grande o piccolo, spesso in silenzio e senza alcuna gratificazione
- per il bene di tutti, nella gestione della chiesa (arredi sacri, pulizie, fiori, ecc.), delle opere parrocchiali e
nelle varie attività (catechesi, oratorio, ecc.).
Tra i “Ministeri di fatto”, la Chiesa ne ha “evidenziato in maniera stabile” due, il Lettorato e
l’Accolitato, collegati all’Eucaristia (Libro e Altare) e chiamati “Ministeri istituiti” perché prevedono un
mandato speciale da parte del Vescovo:
• il Lettore proclama la parola di Dio nell’assemblea liturgica, educa nella Fede i fanciulli e gli
adulti, li prepara a ricevere adeguatamente i Sacramenti, annuncia il Vangelo a coloro che ancora
non lo conoscono. Egli è quindi a servizio della Parola.
• l’Accolito ha il compito di seguire e aiutare i Presbiteri e i Diaconi nello svolgimento del loro
ufficio; come ministro straordinario distribuisce ai fratelli, anche ammalati, la Santa Comunione.
Provvede inoltre ad animare la vita liturgica, favorendo la partecipazione fruttuosa dei fedeli alle
celebrazioni eucaristiche, ha un sincero amore per il Popolo di Dio, con particolare attenzione ai
deboli e agli infermi. Egli è quindi a servizio dell’Eucaristia e della carità.
I Ministri istituiti, conosciuti già nella Chiesa antica, sono stati reintrodotti da Papa Paolo VI nel
1972. Essi, con la grazia che ricevono nell’istituzione, rappresentano un grande dono per la Chiesa e sono
un segno visibile di ciò a cui, come si è detto, è chiamato ogni cristiano: il servizio alla comunità.
(Note liberamente tratte dai documenti della Chiesa e dal Direttorio dell’Arcidiocesi di Bologna per la
promozione e la formazione dei Diaconi permanenti e dei Ministri istituiti).
Attualmente, presso la nostra Comunità
parrocchiale, collaborano attivamente col Parroco:
• 1 Diacono “permanente” (cioè non candidato
al presbiterato): Quinto Chierici (dal 1991);
• 7 Ministri istituiti (tutti Accoliti):
Aldo Angelini (dal 1982), Orio Savoia (dal 1982 ),
Agostino Grassilli (dal 1992),
Massimo Pruni (dal 2003), Marco Gozza (dal
2004), Daniele Resca (dal 2007),
Lorenzo Fiorini (dal 2011).
17
RAFFAELE ORSI (Raflein)
1893 La Divina Provvidenza visita la Comunità Parrocchiale di Castello d’Argile con la nascita di
RAFFAELE presso la famiglia ORSI. È il 28 febbraio.
1915
1923
in trincea, al fronte, non si dimentica di pregare maturando qui la propria vocazione ad essere un
laico educatore dei giovani, proclamatore dei valori evangelici, precedendo così i tempi nuovi
della Santa Chiesa del Concilio Vaticano II° (1963), che invitava all’impegno dei laici nella Chiesa.
a 30 anni, il parroco don Vincenzo Gandolfi, che gli ha perfezionato con diverse lezioni il suo
italiano, l’ha educato all’interpretazione della Bibbia, gli ha precisato le norme morali insegnate
dalla Chiesa e raccontato le vite esaltanti dei Santi, gli affida un incarico importante: quello di
formare le nuove generazioni, cominciando dagli “Aspiranti”. Con tanta umiltà, preghiera,
sacrificio e inventiva, Raffaele riusciva a trascinare tanti ragazzi, e alla fine di ogni gioco
organizzato con loro, si faceva attentamente ascoltare. Era ogni volta un pensiero religioso: il
racconto di un aneddoto della vita di S. Francesco o di S. Giovanni Bosco o un brano del Vangelo
o della Storia Sacra.
1924 A 31 anni si trasferisce in Paese, nella modesta casetta che il Parroco gli ha riservato accanto
alla Chiesa e con l’orto dietro casa proprio dove ora c’è la scuola materna. Ben presto cominciò
ad attrezzarvi un UFFICIO BUONA STAMPA con l’“AVVENIRE D’ITALIA” ogni giorno,
il “VITTORIOSO” per i ragazzi, ecc. Sfruttando la sua esperienza di ortolano, vendeva a prezzi
stracciati le sementi per ogni tipo di ortaggio; e perché tutti portassero a casa un buon pensiero, nella
carta che avvolgeva la semente non mancava di scrivere una massima di comportamento morale.
Ogni occasione era buona per diffondere l’Amore di Dio. Era la testimonianza della povertà
vissuta felicemente come valore cristiano.
La sua casa divenne presto il centro di raccolta dei giovani che in qualche modo volevano
impegnarsi nell’organizzazione dell’ORATORIO, nella filodrammatica, nella preparazione dei
carri mascherati o nelle esecuzioni musicali con l’orchestra delle ocarine di Budrio.
Raffaele si rivolse non solo ai frequentatori della Chiesa, ma a tutta la gioventù.
Trova in parrocchia un ambiente tutto per loro ed apre così ogni sera quello che viene definito:
“Oratorio S. Luigi” successivamente denominato “Ritrovo don Bosco”.
L’Azione Cattolica, in piena fioritura, divenne un’organizzazione che comprendeva tutte le età e per
queste si stampavano frequenti pubblicazioni che Raffaele provvedeva a far giungere a tutti i tesserati.
È nella casetta di Raffaele che comincia l’attività della “Coop di consumo ACLI di C. d’Argile”
in data 15-05-1949.
1953
1963
18
A 60 anni allestisce a sue spese la Biblioteca, sviluppa la circolazione dei libri e si dà alla loro
rilegatura, imparandone la tecnica.
Scorrono gli anni, cambiano i tempi, Raffaele resta fedele alla sua vita di preghiera e di azione
tutta volta alla formazione dei giovani.
A 70 anni dedica sempre più il suo tempo al suo piccolo negozio di
cartoleria, alla biblioteca, alla rilegatura dei libri e alla costruzione
di corone del Santo Rosario.
È da annotare che con il suo piccolo commercio di cartoleria non
sperava di conseguire profitti monetari, ma educativi. Quando al
suo banco si presentavano ragazzi per chiedere una nuova matita,
egli chiedeva bonario se veramente avesse finito quella che gli aveva
venduto due settimane prima. Aggiungeva poi la raccomandazione
di averne più cura, perché il babbo faticava per quei soldi.
Oggi i tempi permettono ai giovani abbondanza di mezzi e pochi
sono i ragazzi che conoscono il sacrificio o la mortificazione scelta
liberamente.
Raffaele in negozio
1974
A 81, anni avanzando l’età e gli acciacchi, chiude la sua attività commerciale-educativa.
Per questo Raffaele non cessa di amare e pregare in silenzio per quelle opere per le quali ha dato
tutto se stesso: la casa delle opere parrocchiali, l’Azione Cattolica, i giovani e gli uomini, il Circolo
ricreativo S. Giovanni Bosco, la cura e la diffusione della Buona Stampa, le A.c.l.i. e il relativo
Patronato Sociale, la Cooperativa di consumo. Raffaele non è l’uomo che condanna e divide; Egli
è un uomo che non ha nemici.
Testimone con la sua vita di evangelica povertà, di gioiosa penitenza, di amore a Dio e al prossimo.
1982 A 89 anni, il 19 dicembre, Raffaele è stato chiamato in cielo.
O
Alcune testimonianze:
ggi, RAFFAELE, lo definirei un vero “Diacono” di
eccellenza al servizio della comunità ecclesiale.
Per me, Raffaele, è stato prima di tutto un Diacono nella
preghiera quotidiana: lo conobbi quando il Parroco
Mons. Gandolfi mi chiamò nel 1933 (avevo 7 anni) a fare
il chierichetto.
Tutte le sere andavo al Rosario, notando sempre la presenza
di Raffaele con a fianco Angiolino Fariselli, qualche pia
donna, i sacrestani Gaetano e Cesare Boninsegna, le 4
Suore, il Parroco o il Cappellano don Amedeo.
Vedere sempre in Chiesa dei laici che non avevano una
vocazione specifica alla vita consacrata, pregare sempre con
Raffaele ed Angiolino nel loro orto
grande fede, era un esempio sublime per tutti.
(ove ora c’è la scuola materna)
Laici che non avevano né diplomi né lauree, sempre fedeli
alla preghiera quotidiana in Chiesa (S. Messa al mattino, Rosario alla sera), mi sono stati di grande aiuto,
quando sono entrato in Seminario, dove la preghiera e lo studio mi hanno preparato a diventare sacerdote,
celebrando nel 1950 la “prima Messa”.
La «Diaconia di preghiera» di Raffaele, era di esempio al popolo argilese e tutti ne hanno avuto grande
beneficio: « Raflén al prega semper » era un detto comune.
Un altro aspetto di Raffaele è la sua «Diaconia di laboriosità, semplicità e povertà»: quando in seminario
lessi la vita di San Francesco, il poverello di Assisi, mi si presentava sempre alla mente Raffaele nella sua
quotidianità di preghiera, lavoro, povertà e semplicità.
La porta della sua modesta casa era sempre aperta e ti accoglieva sorridente anche se stava tagliando
patate, zucchine cipolla e carote per preparare quel brodino di verdure che inondava col suo profumo tutta
la casa, profumo che si sposava con il profumo che veniva giù dall’appartamento delle suore.
Noi ragazzi, che andavamo al doposcuola, annusavamo ogni giorno quel gran profumo che i brodi di
verdure, e fagioli, stazionavano nei locali delle opere parrocchiali: è un ricordo di grande semplicità e
povertà che ci ha aiutato a crescere nella vita.
Era sempre aperta la porta del piccolo ambiente dove Raffaele gestiva la Buona Stampa (Avvenire, il
Vittorioso, Famiglia Cristiana), la Biblioteca Parrocchiale, la cartoleria scolastica e l’attrezzatura per i
pescatori (canne, ami, bava, mulinelli e i mitici… bigattini!).
Raffaele per me è tutto qui: «Diacono» di preghiera, di fede, di aiuto per invitare tutti ad essere più buoni,
più generosi e disponibili al proprio prossimo.
Un caro amico (GIANEN) che non c’è più e che frequentava spesso la casa di Raffaele mi diceva: «Senti,
don Dino, ma se il Paradiso non c’è, pensa quale fregatura si beccherà Raffaele, che prega tanto. Però se
il Paradiso c’è, sono sicuro che Raffaele è là e mi prenderà dentro».
Don Dino Vannini
19
Q
uesta persona ha seminato tanto bene senza fare molto chiasso ma nell’umiltà, nella bontà, nell’amore.
Con tanta pazienza lasciava trasparire la fede e l’amore che aveva in Cristo e nei fratelli. Mi sembra
ancora di vederlo inginocchiato davanti al Santissimo a tener compagnia a Gesù Eucaristia. Sono figure
che non si possono dimenticare – tutti dovremmo cercare di imitarlo e sforzarci a vivere come lui ha
vissuto. Lui non è nato santo, si è fatto santo cercando di mettere in pratica il Vangelo dell’Amore e
sottolineo “Amore”.
Ricordo di un sogno: - «mi trovavo nella cappella delle suore, quella situata nella casa delle opere
parrocchiali che fu demolita negli anni 70. Ero in compagnia di altre persone per la Adorazione Eucaristica.
Io ero accanto ad Angiolino. C’era anche Raffaele, disposto come al solito come quando era in chiesa in
ginocchio, ricurvo sulle spalle con lo sguardo rivolto a terra, assorto in preghiera. Dopo pochi attimi mi
sono ricordato che Raffaele era già morto, e da un bel po’. Come poteva essere lì con noi? La cosa mi
sorprendeva sempre più. Nessuna paura, anzi, un senso di contentezza mi cresceva dentro; al punto tale
da non essere più capace di trattenermi dal segnalarlo agli altri. Quando si è in chiesa, in preghiera, in
adorazione, non si dovrebbe mai fare rumore, né alzare lo sguardo, né disturbare – disapprovo quando
succede. Ma come non potevo comunicare a tutti la presenza di Raflein? Volevo che tutti provassero la
mia stessa gioia – ho infranto le regole senza pensare alle conseguenze – senza far rumore ma agitandomi
cercavo di attirare l’attenzione su Raffaele. Ad un tratto Raffaele mosse il capo verso di me e guardandomi
i piedi (se mi avesse guardato negli occhi mi sarei sentito trafitto per la mia negligenza), alzò il dito
indicandomi il tabernacolo con il Santissimo Sacramento – lo tenne così fermo quel tanto che a me bastò
per capirne il messaggio: nessuna meraviglia per la sua presenza, la meraviglia vera sta nel Santissimo
Sacramento, il Signore Nostro Gesù Cristo unica persona degna di attenzione, unica persona essenziale
per la nostra vita. Tutto confuso mi sono ricomposto. Raffaele quindi ha ritirato il dito e ripreso il normale
atteggiamento di adorazione. Ero grato a Raffaele per avermi indicato l’unica cosa importante – contento
di adorare Gesù Eucaristico insieme a Raflein».
A
Orio Savoia
cavallo tra gli anni ‘20 e gli anni ’30 ad Argile, come del resto in
tanti altri paesi, non c‘era l’uso di uscire a spasso di sera nelle strade
di campagna. Ci si poteva fermare a far due chiacchiere o nella piazza
intorno al monumento ai caduti, profittando dei gradini del piedistallo, o
si poteva passeggiare lungo via Umberto I° da Porta Bologna a Porta Pieve rischiarata da grosse lampadine.
Fuori porta al buio poteva avventurarsi qualche coraggioso giovanotto che, attardandosi in paese, doveva
pur decidersi a tornare a casa in campagna.
Poteva uscire in circonvallazione qualche coppietta alla ricerca d’un angolo riservato per dirsi qualcosa
in silenzio. Una donna sola fuori porta al buio, mai! Significava perdere la reputazione. Era un invito
provocante per maschi privi d’ogni scrupolo.
Una bella sera, due sposine di campagna avevano aggiunto chiacchiera a chiacchiera in paese, e la
conversazione piacevole le aveva così prese che avevano lasciato calare il sole all’orizzonte, poi avevano
confidato nella luce di riserva di quel chiaro tramonto, poi avevano tanto sperato nell’affacciarsi della
limpida luna, così che si trovarono ad affrontare fuori porta il buio. La strada la conoscevano a memoria,
ma questa volta era davvero una marachella. Affrettarono il passo tenendosi a braccetto e scrutando
il confine tra la strada e il fosso, pronte a subire i giusti improperi dei mariti in ansiosa attesa per la
cena. Non avevano ancora percorso cinquecento metri che intravidero in lontananza due lunghe ombre.
Il cuore cominciò a battere più del normale e sentirono imperlarsi la fronte di sudore. Guardarono dietro
di loro per vedere se non convenisse ritornare sui propri passi, ma ormai le fioche luci di Argile erano
lontane; la fuga non sarebbe servita perché quei due figuri erano alti e robusti, e certamente in due salti
le potevano raggiungere; fuggire per i campi in mezzo ai filari poteva essere un invito a nozze per i due
malintenzionati che s’avvicinavano lenti come un gatto in vista della preda. – Che cosa hanno in mano?
– gridò con voce soffocata la più giovane all’amica. – Vedo luccicare qualcosa di strano dalla cintola in
giù – rispose tremando l’altra. – Forse è la canna d’un fucile – Era la prova delle malvagie intenzioni dei
due bruti che minacciosi lentamente avanzavano verso di loro.
- Si stanno dicendo qualcosa – Si accordano per spaventarci – La più anziana che voleva incoraggiare la
giovane mostrando una falsa sicurezza, sbiancò e stava per svenire. Si strinsero ancor di più tra di loro
20
decise al martirio, quando udirono più chiaramente le parole sussurrate
dai due… fra le donne… per noi peccatori… nostra morte, amen.
Era il rosario di Angelo e Raffaele in via Cappellana.
Ogni occasione, ogni luogo, ogni circostanza gli era utile per PREGARE.
Tratto da “RAFLEIN” ricchezza di un povero
di Bruno Bovina
U
n giorno lo ebbi “compagno di pellegrinaggio”; eravamo a Loreto.
Al momento della ripartenza alla volta di un altro santuario (Assisi)
ci accorgemmo che Raffaele non era sul pullman. Scesi per andarlo a
cercare; lo trovai (e non poteva essere altrimenti) all’interno della Santa
Casa, tutto raccolto in preghiera. Uscì dal santuario con serenità, perché
già tanto la prossima meta prevista, era un’altra occasione di preghiera.
Strada facendo per raggiungere il pullman in parcheggio, gli chiesi
quanto gli fosse piaciuto il santuario che ci stavamo lasciando alle spalle,
egli mi rispose che sì era un santuario molto bello, ma come si prega
nella nostra chiesa, in nessun’altro posto… e se lo diceva lui…
Raffaele e Loreto
Aldo Angelini
U
na modesta abitazione, pasti frugali e mai abbondanti, un’orto da coltivare pazientemente per
offrirne i frutti ai più indigenti.
Preghiere dal primo mattino al vespertino inoltrato, formavano l’atto riconoscente per quanto concesso
dal creato.
Quanta devozione e abnegazione, quanta dedizione ai precetti del suo credo espresso con il quotidiano
operare, con la preghiera e l’esempio da indicare.
Ecco allora l’adozione di una missione: insegnare
l’amore verso Dio e il prossimo trasmettendo ai
giovani e ai non più tali, amore e fratellanza con
perseveranza.
Questa è stata la sua scelta di vita, questo è il dono
ricevuto e ad altri trasmesso. Purtroppo in molti
siamo dimentichi di quei precetti e perciò viviamo
in un mondo di imperfetti.
Chissà se dall’aldilà vedrà la sua gente, è sperabile
che questo gli sia riconosciuto.
Soprattutto perché trarrà la conferma che di quanto
ha seminato non tutto è andato perduto.
Raffaele con un gruppo di amici,
all’ombra del campanile
Armando Cortesi (Dosi)
21
Premessa a chi legge. È proprio in dialetto bolognese questa inedita composizione poetica (come tante altre) di Pietro
Maccaferri? La risposta non è facile: Pietro è stato un poeta della civiltà contadina delle nostre terre, che in dialetto si è
espresso con sicurezza, prescindendo da regole stilistiche, ma con spontaneità non comune come chi pensando in dialetto, in
dialetto si esprime senza pretese «in presa diretta». La versione italiana è per chi non conosce il dialetto scritto e declamato.
Don Dino Vannini
a RAFFAELE ORSI grato e riconoscente.
TESTO ORIGINALE
TESTO IN ITALIANO
Le vocali con accento acuto o aperto
per lapronuncia: é come mela; è come
letto, ô come Coppi, ò come cosa.
1.
Mé avre qué arcurder
on di nuster parrucchian
che par quol cla savò fer
ai sre tant da batri al man
I
Io vorrei qui ricordare
uno dei nostri parrocchiani
che per quel che ha saputo fare
ci sarebbe tanto da battergli le mani.
1.
Mé avré qué arcurdèr
ôn di nuster parrucchian
che par quòl cla savô fèr
ai sré tant da batri al man
3.
La lase la so fameia
par tgnir dri a la zoventò
an fa brisa maraveia
par no, ca laven tgnusò
III
Ha lasciato la sua famiglia
Per tener dietro alla gioventù:
non fa affatto meraviglia
per noi, che l’abbiamo conosciuto.
3.
La lasè la sô famèia
par tgnir dri a la zôventô
an fa brisa maravèia
par nô, c’ha lavèn tgnusô
La so vetà dedicher
al servezi ed noster sgnor
e chi zuven educher
a capir quol ca valor
V
2.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Le Raflen che tot vueter
poc o tant avi tgnuso
e che anghè brisa ste un eter
cleva fat quol cla fat lò.
E po fen da ragazel
la vo semper un sol pensir
brisa quol ed vleir eser bel
mo bensì quol ed servir
Quanti sir coi ragazì
al spirdeva le con lor
propi sol par tgniri dri
e spiegheri al cos dal Sgnor
II
IV
VI
Se Raffaele, che tutti voi
poco o tanto avete conosciuto,
e che non c’è stato un altro
che abbia fatto quello che ha fatto lui.
E poi fin da ragazzo
ha avuto sempre un sol pensiero:
non quello di voler essere bello
ma bensì quello di servire:
La sua vita dedicare
al servizio di Nostro Signore
e di quei giovani educare
a capire ciò che ha valore.
Quante volte con i ragazzi
si perdeva lì con loro,
proprio soltanto per seguirli
e spiegare loro le cose del Signore:
Custodiri genuen
e onest al pio pusebel
mai gno fora una batuda
un po’ grasa gnanch par reder
VII
Custodirli genuini
e onesti il più possibile:
mai usciva una battuta
un po’ grassa, neanche per ridere.
L’era tan un omen in squeder
cagli geva premuros
beda ben li sel to meder
che et tu un quel acsè custous?
IX
Era tanto un uomo in squadro
che diceva loro premuroso:
«bada bene: lo sa tua madre
che compri una cosa così costosa?»
Me a marcord che in buteiga
quant a gneva di puten
slera trop granda la speisa
agli feva un bel scursen.
10.Se po aglieren caramel
clera un quel voluttueri
lo: a ghin saveva ed mel
cal stinteva anch a deri
22
VIII Mi ricordo che in bottega
quando venivano i bambini
se era troppo grande la spesa,
faceva loro un bel discorsino.
X
Se poi erano caramelle
che era una cosa voluttuaria,
a lui gliene sapeva di male
che stentava anche a darle.
2.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
L’è Raflén, che tôt vùeter
pôc ô tant aví tgnusô
e che anghé brisa stè un ètèr
clèva fat quòl cla fat lô.
E po fén da ragazèl
L’ha vô sèmpèr un sol pènsir
brisa quòl ed vlěir èsèr bèl
mo bènsì quol ed sérvir
La sô vétà dedichèr
al sarvézi ed noster sgnour
e chi zuven éduchèr
a capir quol c’ha valour
Quanti sir coi ragazì
al spirdéva lé con lour
pròpi soul par tgniri dri
e spiéghèri al côs dal Sgnòur
Custodiri génuěn
e onèst al piô pusébél
mai gnô fòra una batuda
un pô grasa gnanch par réder
Me a marcôrd che in butèiga
quant a gnéva di putén
sléra tròp granda la spèisa
agli féva un bèl scursén.
L’éra tan un òmen in squèdèr
cagli géva prémurous:
«bèda bèn: li sèl tô mèdèr
che et tu un quèl acsé custous?
10.Se pó agliérén caramèll
cléra un quèl voluttuèri,
lô: a ghin savéva ed mèl cal
stintéva anch a dèri
11
E par pora chi saviesen
A purter vi i sol dardop
ste sicur che con so meder
agh’li geva prema o dop
XI
E per paura che s’abituassero
a portare via i soldi di nascosto,
state sicuri che con la loro madre
glielo diceva prima o dopo.
11 E par pòra chi saviésen
a purtèr vi i sold dardòp
sté sicur che con sô mèdèr
agh’li géva préma o dopp
12 Sai guardevi anch in cisa
slera in znoc d’anz a l’alter
cum l’aveva ciape la piga
tant al sera avie a pregher
XII
Se lo guardavi anche in chiesa
se era in ginocchio davanti all’altare
come aveva preso la piega
tanto si era abituato a pregare.
12 Sai guardévi anch in cisa
sléra in znóc d’nanz a l’altèr
cum l’avéva ciapè la piga
tant al séra avié a préghèr
13 Comè cal fos al peccator
pio tgnuso e pen d’astozia
mentr’invezi con al sgnor
al scureva pen ed fidozia
XIII
Come che fosse il peccatore
più conosciuto e pieno d’astuzia,
mentre invece con il Signore
ci parlava pien di fiducia.
13 Comè cal fôs al peccatòur
piô tgnusô e pén d’astôzia
mèntr’invézi con al sgnour
al scuréva péin ed fidôzia
14 Propi innamure dal sgnor
semper pront ad adorerel
ai traspar la santite
propi sol anch a guarderel
XIV
Proprio innamorato del Signore
sempre pronto ad adorarlo:
vi traspare la santità
proprio soltanto a guardarlo.
14 Pròpi innamurè dal sgnour
semper prònt ad adorèrèl
ai traspèr la santitè
propi sòul anch a guardèrèl
15 A psi direl anch vueter
che esempi cle ste lo
propi anch par tot nueter
forsi un eter al ni sra piò
XV
Potete dirlo anche voi
quale esempio è stato lui,
proprio anche per tutti noi,
forse un altro, non ci sarà più.
15 A psi direl anch vuètèr
che ésèmpi clé stè lô,
propi anch par tôt nuètèr
forsi un ètèr al ni sră piô.
16 E la feid cla dimustre
le una cosa luminousa
che l’illomina la stre
che par tot le doverousa
XVI
E la Fede che dimostra
è una cosa luminosa,
perché illumina la strada
che per tutti è doverosa.
16 E la fèid clă dimustrè
l’é una côsa luminòusa
che l’illômina la strè
che par tôt lé dovéròusa
17 Fer dal ben con al parol
e con l’opra ed carite
sottomes cumpagna un fiol
par al ben d’lumanite
XVII
Far del bene con le parole
e con l’azione di carità,
sottomesso come un figlio
per il bene dell’umanità.
17 Fèr dal bèn, con al parôl
e con l’ôpra ed caritè
sôttôméss cumpagna un fiôl
par al bèn dl’umanitè
18 Con l’ufezi Bona stampa
quant puvrat la lavure
la strumne dimondi ben
e tant liber la cumpre
XVIII
Con l’Ufficio Buona Stampa
quanto, poveretto, ha lavorato,
ha seminato tanto bene
e tanti libri ha comperato.
18 Con l’ufézi Bôna stampa
quant, puvrat, la lávurè
l’ha strumnè dimôndi bèn
e tant liber l’ha cumprè.
19 Pruna biblioteca sena
par al ben di ragazi
chi lizesen in tla stmena
liber san e po an bi
XIX
Per una Biblioteca sana
per il bene dei ragazzi
che leggevano nella settimana
libri sani e poi anche belli.
19 Pruna biblioteca sèna
par al bèn di ragazi
chi lizéssen in tla stmèna
liber san e po anch bi
20 Quant la fat parchè al giurnel
l’arives e al fos in vesta
parchè al geva al va a dir quel
in tal bar di comunesta
XX
Quanto ha fatto perché il giornale
arrivasse e fosse bene in vista,
perché diceva: «va a dire qualcosa
anche nel bar dei comunisti».
20 Quant l’ha fat parchè al giurnèl
l’arivéss e al fôss in vésta
parché al géva: «al va a dir quèl
in tal bar di cômunésta»
21 Dai barbir in ti cafè
al pagheva coi su sold
qui cai vleva par la cà
e alla feva toti al volt
XXI
“Avvenire” dai barbieri e nei caffè
lo pagava con i suoi soldi
che gli servivano per la casa
e questo lo faceva tutte le volte.
21 Dai barbir in ti cafě
al paghéva coi su sôld
qui cai vléva par la cá
e alla féva tôti al vôlt
22 E po cm’è mission apostolica
una cosa la va deta
che lo, par l’azion Cattolica
la speis tota la so veta.
XXII E poi come missione apostolica,
una cosa va detta: lui, per
l’Azione Cattolica
ha speso tutta la sua vita.
22E po cm’è missiòn apostolica
una côsa la va détă
che lô, par l’aziòn Cattòlica
la speis tôta la sô vètă. 23
23 A creer i nuster ambient
propi adat pri ragazi
e chi fosen accoglient
se nò l’or iandeven vi
XXIII
A creare i nostri ambienti
proprio adatti per i ragazzi
e che fossero accoglienti
altrimenti loro andavano via.
23
A créèr i nuster ambiént
pròpi adat pri ragazí
e chi fôssen accogliént
se nò l’our iandévén vi
24 L’aveva l’oc avanti
e al vdeva l’uccasion
che i zuven fora ed què
i pirdeven la benzion
XXIV
Egli aveva l’occhio avanti
e vedeva l’occasione
che i giovani fuori di qua (dal paese)
perdevano la Benedizione.
24
L’avéva l’òcc avanti
e al vdéva l’uccasiòn
che i zuven fòra ed qué
i pirdévén la bénziòn
25 Par quol al so pensir
le semper ste rivolt
ai zuven che in avgnir
al mond l’are distolt.
XXV
Per questo il suo pensiero
è sempre stato rivolto
ai giovani che nel futuro
il mondo li avrebbe distolti.
25
Par quòl al sô pénsir
l’é sempèr stè rivôlt
ai zuven che in avgnir
al mond l’aré distôlt.
26 Da chi insegnament
claveva de la cisa
e l’era ben cumvent
e al scors an fa una piga.
XXVI
Da quegli insegnamenti
che aveva dato la Chiesa
egli era ben convinto,
e questo discorso non fa una piega
26
Da chi insegnamént
clavéva dè la cisa
e l’éra bèn cumvént
e al scors an fa una piga.
27 Ades po ien mument
cla per infen una fola
d’insgner i cmandament
sol fora brisa in scola.
XXVII
Adesso poi sono momenti,
che sembra una favola
insegnare i Comandamenti
solo fuori, non nella scuola
27
Adèss po ién mumént
cla pèr infén una fôla
d’insgnér i cmandamént
soul fòra, brisa in scôla.
28 Invezi se nueter omen
i dis comandament
a faren galantoment
da pseir seguir cunvent
XXVIII Invece se noi amiamo
i dieci Comandamenti
faremo dei galantuomini
da poter seguire convinti
28
Invézi se nuètèr òmén
i dis cumandamént
a farén galantomen
da psèir séguir cunvént
29 Al mond al de dincu
l’are mete angosti
e anc pri nuster fiu
al cos al sren piò giosti
XXIX
Al mondo d’oggi
avrebbe metà angustie
e anche per i nostri figli
le cose sarebbero più giuste.
29
Al mònd al dé dincu
l’aré métè angôsti
e anc pri nuster fiú
al côs al srén piô giôsti
30 E quast quant l’era viv
la semper conferme
che prander in paradis
an ghera etra stre
XXX
E questo quando egli era vivo
lo ha sempre confermato:
che per andare in Paradiso
non c’era altra strada.
30
E quast quant l’era viv
l’ha sèmpèr cònférmè:
che prandèr in paradis
an ghéra ètra strè
31 E me a marcord puvrat
che con Raflen ai gè
par vo aiè al paradis
senz’eter a val deg mé
XXXI
E io mi ricordo, poveretto
che a Raffaele gli dissi:
«per voi c’è il Paradiso,
sicuramente, ve lo dico io».
31
E mé a marcôrd, puvratt,
che con Raflén ai gé:
«par vô aié al paradis
senz’èter a val dég mé»
32 E lò par tota arposta
al gé claveva pora
brisa pral mel cla fat
al sre avanze fora
XXXII
E lui per tutta risposta
disse che aveva paura,
non per il male che ha fatto,
sarebbe rimasto fuori,
32
E lô, par tôta arpòsta
al gé clavéva pòra
brisa pral mèl cla fatt
al sré avanzè fòra
33 Mo par cal ben invezi
che al mond l’are pso fer
e che par dagl’inezi
l’are lasce scaper
XXXIII per quel bene invece
che in vita avrebbe potuto fare
e che per delle inezie
avrebbe lasciato scappare.
33
Mò par cal bèn invézi
che al mònd l’aré psô fèr
e che par dagl’inézi
l’aré lascè scapèr
34 Aloura a me davis
che quol che a psen dir nò
l’è, che in paradis
aven un sant ed piò.
XXXIV Allora, a me sembra,
che quello che possiamo dire noi
è, che in Paradiso
abbiamo un Santo in più.
34
Aloura a mé davis
che quòl che a psèn dir nô,
l’é, che in paradis
avèn un sant ed piô.
24
GAETANO E CESARE BONINSEGNA sacrestani
I
l nonno Gaetano (Gaetanen), sacrestano fin dalla
giovane età, e lo zio Cesare (Zizaren), un suo fratello
più giovane non sposato, divenuto successivamente
suo aiutante, hanno servito la chiesa di Argile dalla
giovinezza fino a che ne sono stati capaci.
Parecchi anni sono passati da quando sono venuti a
mancare, ma il ricordo di loro è attuale e vivo. Persone
miti e sincere, umili e gioiose.
Per molto tempo il loro è stato un vero e proprio
volontariato, nel quale coinvolgevano tutta la famiglia
nelle giornate che precedevano qualche evento ed ogni
fine settimana per ripulire la chiesa e prepararla per la
festa.
Gaetano e Cesare Boninsegna
La loro giornata incominciava al suono della sveglia,
che normalmente avveniva verso le quattro del mattino (forse un po’ più tardi d’inverno). Uscivano di casa
e si recavano in chiesa per aprire le porte, suonare le campane e preparare per la Messa, al termine della
quale, verso le otto, rientravano per fare un po’ di colazione.
Anche di notte poteva capitare di doversi alzare per avvisare la comunità, col suono delle campane, in
caso di una qualche avversità o un pericolo imminente o in atto (come ad esempio l’arrivo di un qualche
brutto temporale).
Sempre pronti e puntuali, con la loro bicicletta sgangherata, partivano da casa con enormi mazzi di grosse
chiavi nelle tasche (spesso bucate) della giacchetta, che si allungava sempre più sul davanti sotto il peso
di tutto quel metallo.
L’obbedienza e l’umiltà, la dedizione, facevano parte del loro modo di essere: il nonno di poche parole,
quelle necessarie, sempre allegro, lavorava cantando i motivi liturgici; lo zio (prozio in realtà, ma così
lo chiamavamo anche noi nipoti) era più scherzoso e si fermava volentieri all’uscita della chiesa, dopo
le celebrazioni e prima di chiudere il portone, per far
sorridere, con qualche battuta scherzosa, le donne che
lo aspettavano proprio per questo.
La disponibilità, l’affabilità e l’apertura nei confronti
di tutti rendevano facili i contatti personali ed
incoraggiavano a chiedere chiunque avesse avuto
qualche necessità.
In casa noi nipoti trascorrevamo
diverso tempo con il nonno e lo
zio, perché avevano la capacità
di coinvolgerci in quelle attività
che loro facevano e che a noi
Gaitanen (qui a fianco di don Giovanni Bovina) e Zizaren
piacevano tanto, attività fatte
sempre assiduamente presenti in ogni occasione.
con poco, ma fatte con amore.
Non ricordo di averli visti
arrabbiati, ricordo invece la loro operosità e, contemporaneamente la loro disponibilità
Zizaren
e capacità di fermarsi ad ascoltare, e le poche e povere cose che avevano non erano
per loro stessi, ma di quanti ne avevano bisogno.
E non li abbiamo sentiti mai esprimere giudizi sulle persone, né riportare mai qualche pettegolezzo.
Mi sono chiesta a volte come potessero essere sempre così sereni e pazienti, sia in famiglia che in chiesa,
quale fosse il segreto di quella loro grande capacità di autocontrollo anche nelle difficoltà e nei momenti di
25
maggior fatica e/o preoccupazione; non si potevano certo considerare persone poco interessate o superficiali.
Io credo che tutto questo non dipendesse tanto dal loro carattere, quanto piuttosto dalla loro fede, che li
ha resi capaci di abbandonarsi alla volontà del Signore e di confidare sempre nella Sua Provvidenza; una
fede donata a loro perché da loro assiduamente richiesta nei molteplici momenti di preghiera quotidiana.
Ci hanno lasciato una eredità preziosa.
Non so cosa ricordino di loro le persone che li hanno conosciuti; io, quando penso a loro mi rassereno,
anzi il mio animo si riempie di gioia e di gratitudine, per quella che è stata la loro presenza nella mia vita.
L
Carla Gaiani
a storia e gli eventi della Parrocchia di Argile sono e saranno sempre motivo di ricerca nel ricordo di
tante persone che vi hanno operato.
Conosciamo il nome dei parroci inviati dal Vescovo a reggere la comunità, ma non vanno trascurati i nomi
di quanti sono stati loro a fianco come collaboratori infaticabili al servizio della Chiesa: i fratelli Gaetano
e Cesare Boninsegna.
Il parroco Mons. Vincenzo Gandolfi (1913-1960) trovò il giovane sacrestano Gaetano Boninsegna, ben
avviato a mantenere il decoro e la pulizia di tutta la Chiesa parrocchiale dal predecessore Mons. Raffaele
Giordani, che l’aveva dotata di preziosi apparati, candelieri e vasi sacri.
La giornata del sacrestano iniziava al mattino presto:
1) Suono della campana dell’Ave Maria, terminata la quale dopo pochi secondi, si segnalava con
1 botto di campana: tempo sereno;
2 botti di campana: coperto;
3 botti di campana: tempo piovoso;
4 botti di campana: la neve.
(oggi può far sorridere, avendo a disposizione radio, televisione, internet, ecc.; ma allora… quei segnali
erano molto importanti per la campagna, e per chi doveva andare a lavorare lontano).
2) Suono del Mezzogiorno (non tutti avevano l’orologio al polso o
nel taschino, specie chi lavorava in campagna).
3) Suono dell’Ave Maria alla sera.
C’era poi il suono che annunciava la morte di qualche persona o la
“starmida” segnale di pericolo, quando il fiume Reno faceva “le bizze”.
Da notare che, la campana più grossa (oltre 7 q.li) era impegnativa da
utilizzare e spesso il sacrestano chiedeva aiuto a qualche volontario
(tanti ragazzi si prestavano a tirare la corda perché alla fine c’era la
gioia dei salti appesi alla corda della campana più grossa).
Il sacrestano nella giornata era impegnato alla pulizia della Chiesa:
spostare banchi e sedie, strofinare e raccogliere la segatura, lucidare
gli ottoni dei candelieri, riempire di olio le lampade con lo stoppino,
cambiare i fiori e le piante (più di venti vasi grandi di oleandri). Il
lavoro poi impegnava maggiormente per le solennità con gli addobbi
decorativi (“al panarôn” che nel coro si innalzava fino alla cupola).
Gaetano, trovava l’aiuto del fratello Cesare e dei famigliari perché
il decoro della Chiesa tornasse a gloria del Signore e ad onore del
22 maggio 1960
Parroco e dei parrocchiani.
Funzione della presa di possesso
Gaetano e Cesare, pietre vive anche se nascoste, sono stati fedeli ed
parrocchiale di don Mario Minello.
esemplari servitori nel lavoro, ma anche nella preghiera e nel canto.
Qui all’insediamento del
confessionale; testimoni: il Canonico Da bravi laici hanno vissuto per tanti anni (specialmente nelle
domeniche e nelle feste comandate) l’esercizio della regola
don Luciano Bongiovanni (parroco
di Mascarino) ed il sacrestano
benedettina: “ora et labora” prega e lavora.
Gaetano Boninsegna.
26
Don Dino Vannini
S
SECONDO ED UMBERTO PUGGIOLI
econdo, possiamo certamente definirlo un “animatore della Liturgia”.
Io, infatti, lo ricordo sempre presente nei giorni festivi alle SS. Messe, in modo particolare
a quelle più solenni ed alle funzioni pomeridiane, alle processioni…
Stava sempre nella corsia centrale, fra le due fila dei banchi in Chiesa, oppure fra le due ali
“degli uomini” se in processione. Stava là per incitare il popolo al canto. Infatti (lui solo ne
era capace), mentre cantava in leggerissimo anticipo al ritmo, contemporaneamente suggeriva
le parole all’assemblea; ma non gli bastava perché riusciva anche ad aggiungere «cantatee»,
«cantatee» quando, a suo avviso (spesso) il canto non fosse ad un livello di suo gradimento.
Secondo era anche il direttore della locale Schola Cantorum parrocchiale. Era cresciuto
alla scuola musicale di don Riccardo Zanarini (anch’egli di origini argilesi) e di don Amedeo
Migliorini (già cappellano ad Argile ai tempi di Mons. Gandolfi).
Ma gli anni passarono anche per Secondo.
Un giorno espresse al figlio Umberto il desiderio
che fosse lui (Umberto) a continuare la direzione
della “Corale Santa Cæcilia” ricevendone un deciso
Secondo
e secco NO!! ma poi, si sa, (e per fortuna) ci fu
Puggioli
il ripensamento di Umberto che successivamente
si diplomò al Conservatorio e continuò il lavoro di papà
conseguendo eccellenti risultati.
Umberto, purtroppo è stato chiamato in cielo troppo presto.
Ora il “bel canto” è nelle mani di Cecilia Puggioli, figlia di
Umberto e nipote di Secondo. Caro Secondo, ci manca tanto il
Festa della corale
tuo incitamento.
U
Aldo Angelini
mberto Puggioli è sposo di Roberta, padre di Cecilia ed Elena, figlio di Secondo
e di Gemma.
È semplice dire quello che Umberto è per la comunità parrocchiale di Argile.
È un uomo che – nel suo servire - ha raccolto un testimone e l’ha passato, facendo bene
ciò che ama fare.
Ha ricevuto, coltivato e trasmesso la passione per la musica; la bellezza della liturgia
arricchita dall’incenso dolce del canto, soave odore, che dà ali al silenzio del cuore.
È un uomo che ha raccolto attorno al suo carisma sobrio e sorridente, fatto più di note che
di parole, un variegato gruppo di argilesi. Ne ha colto i doni, i difetti, e con pazienza certosina e determinata ha
trasformato – prova dopo prova - il fiorista, la commessa, il chirurgo, lo studente, la ragioniera, l’imbianchino,
la casalinga e il pensionato… in un coro. Facendo un dono grande ai coristi per primi; e, con loro, a tutti i fedeli.
Perché quando ci sei dentro, nel coro, canti il tuo rigo di basso, o di soprano; ma poco a poco ti rendi conto
che quello che ne esce è molto, molto di più delle singole voci. È l’armonia. L’armonia che veste la notte
di Natale, svela la Pasqua nella veglia, illumina il sorriso della sposa, raccoglie il pianto per chi non è più.
Ha mischiato ingredienti poveri, voci normali, e ne ha fatto armonia. Il maestro. Poi Umberto ci ha voluto
suggerire, poco a poco, che la corale poteva cantare senza di lui. Il servo inutile.
Ne parliamo oggi, che non lo vediamo tra noi, con quel pudore che rende difficile dire “grazie” guardando
in faccia le persone del nostro quotidiano.
Perché la corale Santa Cecilia c’è. È apprezzata, è cultura che travalica le mura parrocchiali e i confini comunali.
Ma che regalo, Umberto, se la corale diviene segno per il cammino della comunità intera, fatto di prove
pazienti, di voci diverse, di ascolto reciproco, di nessun solista; di intima gioia nel cantare un Agnus Dei,
che finisce senza applausi nel silenzio di fratelli raccolti attorno al Pane. È nella Messa – armonia della
comunità - che germoglia il dono di questa corale. Che Umberto ha ricevuto, coltivato e trasmesso, da
maestro e servo inutile.
Massimo Pinardi
27
I
LE PERLE PREZIOSE
n occasione del 150° anniversario della nostra chiesa (purtroppo molto malandata), mi è
stato chiesto di scrivere qualcosa sulle donne vissute in una epoca diversa, un po’ lontana
da noi.
Sono abbastanza anziana anch’io da ricordarne qualcuna, di altre invece me ne hanno
parlato i famigliari.
Alda e Rosina Boninsegna, ad esempio, hanno curato il tovagliato dell’altare e gli
arredi sacri della chiesa, con tanto amore e devozione per anni.
Certo in tanti ricordiamo Giuseppina e Giulia Veronesi; la Peppina iniziò per
prima ad organizzare le lotterie per l’asilo e Giulia, sua sorella, fu un‘aiutante
instancabile.
Paolina Melotti, Maria Melotti e Pace Cremonini erano sempre disponibili a dare
una mano alle suore o al parroco per cucire, ricamare o rammendare e fare dottrina.
Vorrei ricordare anche Martina Cortesi, formidabile cuoca e materassaia, che con pochi soldi riusciva a
mettere a tavola tante persone. Non dico che facesse nozze con i fichi secchi, ma quasi.
Edvige Cortesi ha insegnato al dopo scuola a generazioni di ragazzi, nella famosa “vecchia sala dei
cavalli”, e diretto per anni la colonia estiva di Granaglione. Tutte queste donne, instancabili e silenziose,
hanno dato forma al primo volontariato femminile in paese. Don Gianni (un cappellano rimasto con noi
fino al 1960) le volle ringraziare tutte chiamandole “perle preziose”, una frase rimasta mitica.
Quando Don Mario diede inizio ai campi scuola, sia estivi che invernali, a Villaggio Europa (Lizzano in
Belvedere), un gruppo di signore si rese disponibile ad aiutarlo per la cucina, la pulizia e la sorveglianza.
C’era l’inossidabile Pina Grassilli, sua cognata Bruna Ruggeri, Alice Fini e sua cognata Giacomina
Santi (tra parentesi grande, tortellinaia parrocchiale) e, ovviamente, le suore.
Tutte queste donne avevano in comune una cosa: la fede, una fede semplice ma incrollabile. La preghiera
è stata per loro un sistema di vita, una barriera, un argine mai corroso o usurato dal tempo.
Voglio ricordare anche due suore di Argile (Boninsegna e Gandolfi), che nel convento del Corpus Domini
di Cento hanno consacrato la loro vita di clausura a Dio, pregando per tutti noi per tanti, tanti anni.
A tutte questa donne del passato, anche a quelle dimenticate, che hanno contribuito a fare di Castello
d’Argile un paese civile e solidale, va la nostra riconoscenza e il nostro grazie.
Pace Cremonini e Padre Marella
E
Manservisi Milena
rano gli anni del più recente dopoguerra, quando in giro c’era ancora l’odore della miseria, “al Conte”
(lo si poteva raggiungere anche dalla fine della nostra via Zambeccari, attraversando il fiume Reno
– quando il livello dell’acqua lo permetteva), in una vecchia casa di caccia,
stanziava una colonia (oggi la chiameremmo “casa famiglia”) di bimbi in età
scolare abbandonati dalle loro famiglie, bisognosi di affetto; più comunemente
ricordata come “di Padre Marella”. [Padre Marella lo si poteva incontrare
anche a Bologna, all’angolo con via Orefici, dove nel suo vecchio cappello
raccoglieva offerte per i suoi fanciulli].
Raccolti in quegli enormi stanzoni di quell’edificio, senza riscaldamento,
quando la stagione invernale si faceva sentire con tutta la sua rigidità, per
intervento della provvidenza Pace Cremonini, Leda Salani ed alcune altre
donne argilesi raccolsero una cospicua quantità di coperte militari lasciate dai
militari tedeschi in ritirata.
Pace Cremonini a
Pace, abile sarta, scelse di mettere a disposizione la propria esperienza per
Granaglione con i
riciclare quelle stoffe, così fu che il gruppo si pose alacremente al lavoro per
ragazzi della nostra
creare indumenti, giacchette e cappotti per quei giovanotti infreddoliti.
colonia.
28
Alla fine del periodo bellico, quel colore particolare delle stoffe militari non poteva di certo essere
mantenuto; si decise allora di “tingerle” …ma per un involontario errore quegli indumenti uscirono di un
bel colore rosso.
Nessuno si formalizzò per quel risultato, anzi, fu un colpo d’occhio straordinario vedere quell’esercito di
bambini, tutti vestiti di rosso (parevano tanti giovani garibaldini…) quando alla domenica, qui a Castello
d’Argile, nella nostra parrocchia venivano alla S. Messa. E
ancora qui, nella nostra parrocchia, i ragazzi di Padre Marella
venivano cresimati. Nella foto qui sotto, (Maggio 1965) alcuni
di loro ricevettero la S. Cresima; ma stavolta le loro giacchette
erano grigie, i loro padrini argilesi (tanti volti noti).
Pace e le sue collaboratrici ebbero grande soddisfazione
sempre abbondantemente ricambiata da Padre Marella e dai
suoi ragazzotti.
Sopra: Pace al centro di un
gruppo di suoi ragazzi.
A sinistra: maggio 1965
Padre Marella con i suoi
ragazzi appena cresimati ed i
loro padrini.
A destra: Pace Cremonini.
BRUNO MARCHESINI
O
ltre quel fiume, a poche centinaia di metri dalla “Casa famiglia” del “Venerabile Padre Marella”, ecco
Bagno di Piano, terra natale del “Venerabile Bruno Marchesini” (Patrono dei seminaristi) al quale
è pure dedicata la nostra Scuola Materna. Frequentò la scuola elementare; classe 4° e 5° a Castello d’Argile.
Nato l’8 agosto 1915 da una famiglia povera di beni e di fortuna, ma ricchi di virtù cristiane, ha imparato
presto a stimare la fede e la preghiera, il servizio agli altri e la vocazione al sacerdozio È stato alunno
del Seminario Minore a Bologna e a Roma, finché nel 1934 è entrato al Romano Maggiore. Pur essendo
vivacissimo, non solo non diede mai motivo di riprensione, ma i Superiori, i Professori e i compagni ne
ammirarono sempre la pietà, l’umiltà, la docilità, la modestia e la carità e lo ebbero carissimo. Riportò
un’eccellente votazione negli esami di licenza ginnasiale al R. Ginnasio Minghetti e nel concorso al posto
gratuito nel Seminario Pio di Roma. In Seminario si qualifica con tre “esse”: sì al sorriso, alla serietà e al
servizio. A 23 anni la meningite lo porta al “sì” ultimo, in modo esemplare, nell’estate del 1938.È stata una
vita ‘spesa’. Forse, agli occhi di molti, spesa per niente, ma a uno sguardo più profondo, spesa per Cristo,
il “Tutto” e l”Unico”. Bruno si è buttato a capofitto in una affascinante e sconosciuta avventura: “Voglio
essere santo, presto santo, grande santo!” In che modo poteva un ragazzo di 18 anni essere santo? Partendo
da una scelta fondamentale: “Non negare nulla a Gesù”. Nell’ultimo Natale si era ‘legato’ per sempre a
Gesù, con un dono d’amore senza ritorno. A Gesù “sposo” aveva chiesto la pace e più di tutto l’amore: un
amore senza limiti e senza misura... Gesù, datemi il martirio del cuore e del corpo... Mi offro a Voi, mio
Diletto, perché possiate compiere in me completamente il vostro santo volere, senza che le creature possano
mettervi ostacolo”. Giovanni Paolo II ne ha dichiarato l’eroicità delle virtù, proclamandolo Venerabile, il
20 dicembre 2002.
29
L’ANGELO BIANCO
(suor Maria Camilla Gili)
I
C’È UN NESSO TRA LA STORIA E LA STRADA.
ntitolata una via a Sr. M. Camilla Gili a Castello D’Argile, così tutti quelli che passeranno in questa via, oggi
ed in futuro, potranno ricordare questa sorella che su queste strade ha diretto i suoi passi alla ricerca di chi
aveva bisogno, per portare aiuto, conforto, con competenza serenità e gioia. Ha donato parte della sua vita a
servizio della Vita.
Ognuno vedendo e ricordando potrà “rendere gloria al Padre che è nei cieli”. Sr. M. Camilla con le persone
malate, sole, anziane e non solo... ha sofferto, gioito ed ha condiviso anche la sua malattia e morte con gli
abitanti di Castello D’Argile, sostenuta dalla sua comunità religiosa e da tante persone del paese.
Forse molti tra voi potrebbero raccontare episodi di vita, esperienze, incontri, ricordi di Suor M. Camilla... e
sono questi che hanno creato una rete di rapporti che a distanza di 20 anni ancora ci tengono uniti a Lei.
Il Signore Gesù che è stato il centro della sua vita, l’ispirazione alla Madre e Serva del Signore, il camminare
sulle orme del Beato Ferdinando M. Baccilieri, la sua ansia missionaria sono stati i capisaldi della vita di
questa donna/suora che ha consolato la vita.
A nome della Congregazione, quindi, ringrazio per questo gesto così significativo che rende pubblica la
missione nascosta di Sr. M. Camilla. Auspico che l’amore alla vita, in tutte le sue fasi, specialmente nella
debolezza dell’età anziana e nella malattia, siano sempre al centro dell’attenzione di questo paese, sia a livello
ecclesiale che civile.
Suor Maria Carmela Giordano - Priora Generale UNA STRADA PER SUOR M. CAMILLA
C
he cosa penserà una suora se guarda avanti a quando saranno trascorsi vent’anni dalla sua morte?
Sicuramente non ci pensa. E se ci pensa spera di essere col suo Signore, di aver mantenuto la lampada
accesa per l’arrivo dello Sposo. È certamente un fatto significativo e non comune, che due comunità di Regioni
diverse si incontrino a vent’anni dalla morte di una suora.
Suor Camilla è stata - come qualcuno ha ricordato - un angelo bianco a Castello d’Argile. Una infermiera che
sapeva farsi vicina a chi ne aveva più bisogno. Come tante infermiere. Camilla era una persona speciale, ma la
verità è che non c’è niente di straordinario nella sua vita. Eppure, c’è l’ordinarietà di una vita semplice, olocausto
di dedizione quotidiana, soave odore di quello in cui si crede. È stata una suora che è arrivata e se ne è tornata a
Galeazza. Come tutte le Serve di Maria. Camilla era una donna. Il cui abito non velava la dolcezza, la maternità,
l’amicizia, la fraternità, la fermezza, la sponsalità. Come tante donne.
Sono questi i motivi per cui la Giunta comunale di Castello d’Argile, nel dicembre 2008, ha deciso di intitolarle
una strada. Perché ha dedicato la sua vita agli ammalati, agli anziani e alla persone sole. Perché lo ha fatto
come suora delle Serve di Maria di Galeazza, che servono Castello d’Argile da più che una vita. Perché ci
ha messo la forza e la dolcezza di una donna. Ed ha consentito a Castello d’Argile anche di svegliarsi, e di
accorgersi che non c’era una strada, qui, che portasse un nome di donna...
E così ci sembrò bello prendere a prestito il nome di Suor Camilla, per darlo a un pezzetto del nostro paese.
Perché c’è un nesso, per chi lo vuol vedere, tra la terra e i valori, tra la storia e la strada.
(Massimo Pinardi Sindaco dal 1999 al 2009)
A “MANICHE RIMBOCCATE”
È
difficile trovare le parole per descrivere la traccia indelebile che suor Camilla ha lasciato nella mia vita
e in quelle di tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerla. L’ho incontrata per la prima volta
nel 1984 quando venne destinata come infermiera parrocchiale ad Argile. Anch’io lavoravo come infermiera
ed ero già attiva come volontaria in parrocchia per l’assistenza agli ammalati, ma fu il suo arrivo e il suo
straordinario esempio a rafforzarmi nella mia scelta di fede e nel mio cammino professionale.
Suor Camilla cominciò a coinvolgermi, con il suo entusiasmo e la sua abnegazione, nell’opera di assistenza ai
sofferenti, e pian piano da quell’esperienza di volontariato condivisa, nacque tra noi un’amicizia forte e bellissima.
La sua vita è stata un esempio di amore e dedizione verso gli ultimi, i malati, i sofferenti. Un luminoso esempio
30
di amore e fede che si traduceva sempre in azione di carità, in maniche rimboccate, in un darsi al prossimo
senza risparmiarsi, ad ogni costo e a scapito della propria salute, con un’umiltà e una semplicità disarmanti. La
sua disponibilità era proverbiale: aveva per tutti un sorriso, una parola di conforto e di sostegno, una carezza
premurosa. E a tutti andava incontro, con semplicità, con una battuta o un saluto allegro, senza far distinzione tra
gente dentro o fuori dalla chiesa, senza mai giudicare, ma sempre pronta ad amare.
Il suo entusiasmo era contagioso sia nella fede, in quel rosario che si recitava ogni giorno,
più volte al giorno, perché ogni momento, ogni luogo era buono per pregare la Madonna,
per la quale suor Camilla aveva una speciale devozione; sia nella sua opera di assistenza agli
infermi.
Suor Camilla era anche una donna straordinaria, di un’umanità profonda, un’allegria e una
giovialità contagiosa e un piglio deciso ed energico, con cui riusciva a coinvolgere chiunque
le passasse accanto. Era come un vulcano in eruzione, piena di entusiasmo, passione e amore.
Sono molti i ricordi che mi si affollano nella mente ripensando agli anni trascorsi accanto a lei: dai campi a
Lizzano in Belvedere, per gli esercizi spirituali, fatti di preghiera e raccoglimento ma anche di risate e battaglie
a palle di neve, alle corse in macchina (non importava che ora fosse, anche notte fonda), per rispondere ad una
chiamata, per andare ad assistere ed aiutare un ammalato che aveva bisogno delle sue cure e del suo conforto.
E poi ci sono i ricordi personali, le volte in cui mi è stata vicina, mi ha sostenuto e mi ha consolato, mi ha
dato forza e mi ha incoraggiato nella professione e nel mio cammino di fede. Mi ha detto calde parole amiche
che mi resteranno sempre nel cuore. Fino agli ultimi momenti della sua malattia e della sua morte, quando
mi ha dato la lezione di fede più alta e bella. «Sono pronta» mi ha detto «E sono serena». Non ha vacillato
neppure per un istante con la serenità e l’incrollabile fiducia di chi sa di andare nella luce della casa del Padre.
E sebbene anch’io condividessi quella certezza, la sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile in me e in
chi ha avuto il privilegio di viverle accanto. E tuttavia i preziosi insegnamenti che ci ha lasciato resteranno a
testimonianza della sua esistenza piena e appassionata, il suo insegnamento più bello è stato proprio quello di
una vita piena, una vita d’amore da vivere fino in fondo e senza risparmio, senza sprecare le occasioni di bene,
uniche e irripetibili che ci si presentano. Ci ha lasciato l’esempio di una esistenza offerta agli altri e a Cristo
senza tentennamenti, con forza e con gioia. Ci ha lasciato un’enorme fame di bene, di autenticità e di carità
e ci ha mostrato la via per una vita in Cristo attraverso l’amore e la dedizione per gli ammalati, i deboli e gli
indifesi. Grazie suor Camilla per tutto quello che ci hai dato, grazie per essere stata una guida per tutti noi,
grazie per ogni tuo prezioso insegnamento. Ringrazio il Signore per avermi dato il privilegio di conoscerti e
di aver potuto dividere un pezzettino del mio cammino con te. Benché tu non sia più accanto a noi, mi dà forza
la certezza che tu sia finalmente nella luce, al cospetto del Padre, accanto alla Madre Celeste che tanto hai amato, e
la speranza che un giorno ci rivedremo: a casa, in Cielo.
A
Luisa Taddia Resca
nni 80.
Sr. M. Camilla Gili, valente infermiera, si è distinta particolarmente tra noi, di Castello d’Argile,
nell’esercizio della carità.
Chiunque era nel bisogno chiamava Sr. M. Camilla. Disponibile sempre, di giorno e di notte. Sorrideva a tutti.
Buona conoscitrice dei bisogni della comunità, ha segnalato ad un gruppo di amici la necessità di intraprendere
opera di assistenza agli ospiti dell’allora nascente Casa Protetta (oggi Comunità Alloggio) nei giorni festivi.
Il servizio organizzato in due gruppi: donne presenti al mattino per la prima colazione; giovani presenti all’ora
di pranzo e cena.
Ciò è iniziato il 17 gennaio 1986. Per sostenere il gruppo dei volontari e perché rimanga acceso il fuoco
dell’entusiasmo iniziale, così da consolidare la condizione di “continuità”, Sr. M. Camilla ha promosso la recita
del S. Rosario, il giorno 3 di ogni mese, nella casa degli ospiti. Servizio e Rosario presenti ancora oggi. Una grave malattia l’ ha portata alla morte a 62 anni il 16 gennaio 1992.
Nel gruppo dei volontari lei era la prima e massima responsabile, lei ha riaperto la strada alla carità operosa. Indicava, col suo esempio, di farsi carico del proprio fratello e/o sorella, di portare, nella casa, una presenza
familiare prima ancora che un servizio. Raccomandava di operare per libera scelta e nella piena gratuità.
Riconoscente per il dono ricevuto, il 31 mar. 1992, il gruppo volontari ha voluto titolarsi col nome di Sr. M.
Camilla: «Gruppo Volontari Parrocchia Sr. Mr. Camilla pro Casa Protetta».
Beati coloro che hanno potuto dire: « Grazie Sr. M. Camilla».
Beati soprattutto quelli che hanno saputo raccogliere la sua eredità.
Orio Savoia
31
MARY “BELIA”
I
l giorno 4 giugno 2007, alla veneranda età di 97 anni, è venuta a mancare all’affetto dei suoi cari la
Signora Maria Govoni.
Per i “vecchi” cittadini Argilesi questa persona non ha bisogno di presentazioni, ma per
i nuovi arrivati ritengo sia opportuno spiegare loro chi era e cosa faceva.
La Maria “bélia”, come la chiamavano in Paese (da balia in dialetto bolognese), è stata
colei che con impegno, professionalità e abnegazione, ha svolto nel nostro Comune, dagli
anni Trenta agli anni Ottanta, l’Ostetrica, un lavoro delicato, complesso e insostituibile
soprattutto per il periodo in cui ha cominciato ad esercitarlo.
Mestiere faticoso, a volte ingiustamente sottovalutato e troppo spesso dimenticato, volto
a far nascere i bambini per almeno tre generazioni, compreso il sottoscritto.
Credo sia doveroso ricordare la Maria “bélia”, anche se con poche righe; in realtà non
basterebbe un libro per raccontare gli aneddoti di questa ostetrica, che ha dedicato tutta se stessa, a volte
sacrificando la sua famiglia, per il bene dei nascituri della nostra comunità.
Vorrei concludere proponendo all’Amministrazione comunale di rendere degnamente omaggio attribuendo
un riconoscimento ufficiale e non appena possibile intitolando una via di Castello d’Argile a questa persona
speciale che, mettendo a disposizione la sua vita e la sua competenza, ha scritto un capitolo della storia del
nostro Paese e della nostra gente.
Nicola Melotti (un argilese riconoscente)
DOTT. VITTORIO RUBINI
I
l dottor Rubini era originario di San Giorgio di Piano, ivi nato il 24 febbraio del 1901,
figlio del medico condotto di quel comune. Dopo aver esercitato per qualche tempo come
supplente del precedente medico condotto di Argile (Claudio Fabbri), vinse il concorso e
subentrò come titolare della “condotta” comunale, nel 1931.
Il dottor Rubini era figura molto popolare e apprezzata nel
paese per le sue doti di umanità e per la qualità dell’impegno
professionale sempre profuso con sollecitudine, e pronto ad intervenire in soccorso
di chi aveva bisogno;. a qualsiasi ora del giorno e della notte, anche nelle più sperdute
case di campagna, quasi sempre in bicicletta e con ogni tempo, tra difficoltà e
disagi, con i modesti mezzi e il modesto stipendio erogato dal Comune.
Esercitò la professione nel primo ambulatorio medico pubblico costruito nel
1916 lungo la via Mazzoli, e da lui utilizzato dal 1931 e fino alla fine del suo
mandato nel 1965.
Nel maggio 1967 la parrocchia di Argile, con Don Mario Minello, gli dedicò una
medaglia in riconoscimento dei suoi meriti.
Nel 1973, in occasione del 1” maggio - Festa dei lavoratori, il Comune gli donò una targa ricordo, nel corso di
una cerimonia pubblica in suo onore, con Messa in chiesa e Consiglio comunale straordinario appositamente
convocato. L’evento fu annunciato da un manifesto e tanti cittadini e autorità vollero festeggiarlo.
Il dottor Rubini morì il
29 novembre 1975
a Castello d’Argile.
32
In ricordo del Dott. Vittorio Rubini di Armando Cortesi (Dosi)
Origineri ed San Zorz
lauree dutour in medgeina e chirurgi
sicurament con vut ed tot rispet
consideré la scola selettiva
che l’ha frequenté,
an yavanza eter da considerer
che sicurament lé sté
profesionesta ed capazité.
Originario di San Giorgio
laureato dottore in medicina e chirurgia
sicuramente con voti di tutto rispetto
considerata la scuola selettiva
che ha frequentato,
non rimane altro da considerare
che sicuramente è stato
professionista di capacità.
E sicurament sti considerazion
al fun fati dal Sg. Pepino Gandolf,
cl’era aloura puztè dal noster Cmon
al quel, senza ricorer al pareir ed tot,
l’invidé al dr. Rubein a vleir eser
in dla nostra comunité,
al Medig Condot.
E sicuramente queste considerazioni
furono fatte dal signor Peppino Gandolfi
che era allora il podestà del nostro Comune
il quale senza ricorrere al parere di tutti,
invitò il dottor Rubini a voler essere
nella nostra comunità,
il Medico Condotto.
Ste decision unilaterel
la fo adoteda dal regitour
dla nostra aministrazion
dop una singoler tenzon
con al dr. Claudio Fabrri
aloura al Medeg dal Cmon,
e che par fat a me scgnusò,
e dop reiteredi sfid a duel
a ripos al fò coloché.
Questa decisione unilaterale
fu adottata dal reggente
della nostra amministrazione
dopo una singolar tenzone
con il dottor Claudio Fabbri
allora il medico del Comune,
e che per fatti a me sconosciuti
e dopo reiterate sfide a duello
a riposo fu collocato.
Ecco quindi al Dr. Rubein
che al s’insedia,
e denter e fora dl’ambulatori
l’espleta la so funzion
anzi, as pol dir, la so mision
eleveda ala masima espresion.
Ecco quindi il dottor Rubini
che si insedia,
e dentro e fuori dall’ambulatorio
espleta la sua funzione
anzi, si può dire, la sua missione
elevata alla massima espressione.
A qualsiasi ciamé
e a qualsiasi oura dal dé e dla not
solert al cureva
al capezel dl’amalé da visiter,
in pantofel o in pigiama cal fos
a let o live an’impurteva,
dal rech e dal pover
al sé semper reché
par purter assistenza
a chi n’aveva ed necesité.
A qualsiasi chiamata
e a qualsiasi ora del giorno e della notte
solerte correva
al capezzale dell’ammalato da visitare
in pantofole o in pigiama che fosse
a letto o alzato non importava,
dal ricco e dal povero
si è sempre recato
per portare assistenza
a chi ne aveva necessità.
Par tot l’aveva una parola ed confort
e tot grand e cen al saluteva
e lan feva incioni dstinzion
in dl’UMAN impeg
a svolzer la so mision
Per tutti aveva una parola di conforto
e tutti, grandi e piccoli, salutava
e non faceva nessuna distinzione
nell’UMANO impegno
a svolgere la sua missione.
Al testament d’Ippocrate
lo sé al l’ha ben apliche,
parché al gneva da una scola
dove quei don as dvinteva
dopo aveir ben imparé,
e al bon arcord e al vud cla lascé
in mez ala nostra popolazion,
lé ancoura oget ed sinzera venerazion.
Il testamento di Ippocrate
lui sì l’ha ben applicato,
perché proveniva da una scuola
dove quei doni si diventava
dopo aver ben imparato,
e il buon ricordo ed il vuoto che ha lasciato
in mezzo alla nostra popolazione
è ancora oggetto di sincera venerazione.
33
IL BENE È QUALCOSA CHE RIMANE
N
otte estiva, una di quelle notti in cui per il caldo non si trova
riposo e refrigerio da nessuna parte; i muri, arresi al caldo del
giorno, non si riescono a liberare del loro carico di sole e la gelida luna pare anch’essa incapace di rinfrescarli. Nessuno per strada,
tranne gli ultimi biasanot che non si arrendono alla chiusura notturna dell’unico bar, rimasto aperto in paese, in quella feria di agosto,
aperto si ma non a quell’ora. Come dar torto a chi sta sveglio; certe
sere d’estate mettono voglia di non dormire e il caldo è solo una
scusa, perché, in realtà, ci sono sempre quelle sere, che ci tengono
svegli, e ci chiedono di essere ascoltate in silenzio.
Questa è una di quelle sere e anche in canonica, finito l’ennesimo incontro di preparazione di un
campo, al parroco mancava la voglia di trovare la via del letto: troppo intenso il silenzio estivo, in un’aria che
metteva voglia di confidenze e parole sussurrate.
Quel sussurro leggero poi, lo stava sentendo già da un po’ di giorni e lo stava sentendo non solo lui; erano
già da una settimana che, all’improvviso, il silenzio notturno veniva rotto da un filo di voce, una voce antica di
giorni, calma e profonda. Si dava la colpa alle tubature che con il caldo sfiatavano, emettendo suoni da oltretomba, altri dicevano che anche i morti al cimitero si lamentavano dell’arsura, altri sostenevano che si trattasse dello
scherzo di qualche giovane burlone. Eppure quella sera silenziosa aveva amplificato quel sussurro e al giovane
parroco venne la voglia di seguirne l’eco; e fu un attimo raggelante, quando percepì che veniva proprio dalla
chiesa, lì chiusa da oltre un anno, tutta incatenata, triste, senza più la gioia di accogliere il suo popolo.
Entrare o non entrare? chiamare i carabinieri con il rischio di esser preso per matto? Assoldare qualche
uomo dal bar? a quell’ora il bar MCL era chiuso da ore. “Entriamo”, si disse; lo disse a se stesso, alla paura, ma
soprattutto alla sua curiosità. Allarme disinserito, accensione della luce di servizio: chiesa vuota, come sempre, odore acre di chiuso, di muffa e stantio, i banchi ammassati da una parte, le crepe al solito posto, qualche
calcinaccio ancora da raccogliere, tanto silenzio.
“Devo andare a letto prima, mi son fatto suggestionare, come tutti”, si disse con un forte senso di sollievo, ma, ecco, ancora quel sussurro, ora più nitido, a raggelarlo nuovamente. Quel sussurro però non metteva
paura, ma cominciò nel suo giovane cuore a far emergere immagini, quasi che quel sussurro entrando in lui
portasse con se parole, ricordi e pensieri che non erano i suoi, ma che erano lì, nell’aria di quella chiesa. Piano
piano, tutto quell’insieme in lui prese forma in una voce distinta, una voce narrante, di quei racconti che solo
gli anziani sanno fare, quei racconti che tengono attaccati i nipotini al proprio nonno, più di quanto la televisione o un videogame sanno fare.
“È un bel po’ che non parlo con nessuno; come ben sai, negli ultimi tempi, le cose non son andate un
gran che bene per me. Quei giorni di tremori mi hanno riempito di crepe; poi tutti quei signori che sono entrati,
non certo per pregare, mi hanno considerata inagibile, mi hanno chiusa e transennata, proprio quest’anno che
era tempo di compleanni: 150 anni ma portati bene. Sono proprio felice che tu sia qui stasera, non so chi ti abbia mandato, ma hai fatto bene: si ha voglia di parlare con qualcuno ogni tanto. Mi hanno tolto perfino il buon
Dio dal suo tabernacolo; con Lui non ero mai sola. Ora che Lui vi accompagna nel vostro esodo celebrativo
son proprio sola. Mi sono trattenuta in tutto questo tempo, ma è da un po’ di giorni che mi lamento e mi sa che
qualche lamentela è giunta alle orecchie di qualcuno. Bene così, allora. Ti ho già stancato? Spero di no; d’altra
parte voi giovani fate così in fretta a stancarvi, sì anche voi parroci giovani. Eh sì mio caro, io c’ero, anche
prima che tu arrivassi e, se tanto mi dà tanto, ci sarò anche dopo il tuo trasferimento. Per cui mettiti comodo,
perché avevo preparato un bel discorso che avrei letto il giorno della festa dei miei 150 anni; può tornare buono
per i 150 anni più 1, per cui ascoltami, in silenzio e dammi un parere.
Si schiarì la voce e incominciò. Non posso dimenticare, disse, quando cominciarono a costruirmi. La
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chiesa precedente era diventata troppo piccola per ospitare tutta la comunità; la domenica la gente stava tutta
fitta e molti si cominciavano a lamentare e usavano la scusa per star fuori a chiacchierare. I fieri e pratici argilesi decisero allora di costruire un nuovo edificio. Il progetto fu lungo a definirsi, non ci si decideva finché
un bravo e saggio contadino fece notare come bisognasse affidarsi a un brano progettista, a uno che sapesse il
mestiere, che sapesse far progetti, che sapesse tener insieme le diverse opinioni e gli apporti di ciascuno. Tirò
fuori non un nome ma un vecchio vangelo e tutti cominciarono a leggerlo insieme e da li in poi la discussione su il come tirar su questa chiesa si placò e si trovò l’armonia e l’unità di intenti. Come dimenticare poi lo
sforzo di ciascuno per offrire chi il prezzo di una chi di due pietre, soldi tolti al sostentamento già povero della
famiglia: era la casa della comunità non ne valeva la pena? Posso sentirle tutte le pietre che m compongono,
le conosco, so chi le ha donate e ognuna è preziosa ed è fondamentale, guai se ne mancasse una. Anche ora,
in tempi difficili, ognuna di esse non smette di fare il suo lavoro, di metterci del proprio per stare insieme alle
altre: ognuna sa che il loro esserci fa bene anche alle pietre che son più lontane e a quelle che si sentono più
importanti. Cosa le tiene insieme? L’amore per Colui che questa chiesa contiene, sono onorate di servirlo e di
fargli da dimora, perché tutti possano incontrarlo.
Qualche crepa c’è, anche fra le pietre, ma tutte le sane, in questi mesi, si stanno caricando anche del
peso delle ferite: se son rimasta in piedi è proprio per questo, nessuno qui è stato abbandonato o fatto cadere.
Beh sì, in effetti, qualche pietra ha ceduto ed è caduta a terra: alcune hanno voluto fuggire, pur di far da sole,
altre invece son state abbandonate dalle vicine perché considerate inutili, mentre invece stavano portando il
peso anche il loro peso. Son certo che, presto, una mano sapiente le raccoglierà, le radunerà e le metterà al loro
posto, raccomandando alle fuggite di non aver paura di farsi aiutare e alle vicine di accoglierle con maggior
affetto di prima e di essere più premurose la prossima volta.
Se ogni pietra potesse dir la sua: ognuna è intrisa delle preghiere della gente. Hanno imparato giorno
dopo giorno ad accogliere gioia, tristezza, vita, morte, gratitudine, pentimento, lacrime, sorrisi. Queste pietre
hanno il sapore della comunità, della sua storia e hanno una gran voglia di futuro. Le pietre più antiche tutti i
giorni raccontano con gioia e gratitudine alle pietre più giovani questa bella storia e le più giovani danno forza
alle pietre più antiche e ammirano la loro pazienza e perseveranza.
C’è qualche lamentela ogni tanto fra le pietre, c’è chi si sente più bella più fondamentale, c’è chi giudica e disprezza ma quando, al suono della campana, comincia la messa ogni futilità tace e ci si trova unite a
veder ancora il miracolo della pietra più nascosta ma fondamentale, Colui che, a onore delle pietre, si è fatto
chiamare pietra d’angolo, che ancora una volta sta in mezzo a noi.
C’è un fremito che sta prendendo le pietre, sai, nostro giovane amico? Avrebbero tutte voglia di lasciarvi il
posto, vorrebbero proprio che veniste voi al nostro posto anche solo per un giorno o forse anche solo che le
ascoltaste un po’, hanno tanto da insegnarvi. Si potrebbero prendere una vacanza: è bello star qui da 150 anni,
ma a volte avrebbero voglia di veder fin dove si spinge questo nostro bel paese e andar a trovare chi mai vieni
qui e esser casa anche per lui, una licenza premio se la potranno pur prendere...”.
“Dan, dan, dan” un sussulto prese il parroco nel sentire quella campana che tutte le mattine fa saltar dal
letto tutti i vicini, la solita campana. Senti la campana, insieme al dolore alla schiena:
dormire su un banco di legno non è certo comodo. Si era sicuramente sognato tutto,
o forse no, certo guardava quelle pietre con un occhio diverso quella mattina: da 150
anni lì, silenziose e pazienti, salde e fedeli, con il desiderio di insegnare a
ciascuno come essere casa di Dio, accogliente e unita. Le solite pietre da
150 anni; il giovane parroco si ricordò di parole udite da un santo prete
e adesso gli pareva di capire che il bene è qualcosa che
rimane, che la forza della fede è la stabilità, che l’amore è
prima di tutto pazienza, lunga pazienza, e che solo le ininterrotte fedeltà generano i grandi amori e le grandi opere.
Grazie ad ogni pietra che con pazienza ci ha fatto incontrare Dio e ci ha tenuto legati a Lui e tra di noi.
Don Giovanni, parroco
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