Maurizio Gnerre
La saggezza dei fiumi
Miti, nomi e figure
dei corsi d’acqua amazzonici
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MELTEMI
Indice
p.
7
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Introduzione
Prime parole
Capitolo primo
Dal Rio-mare alle cascate, dai discorsi ai nomi
Controcorrente
Xíbaros
Dai discorsi ai nomi
Il gioco dei fraintendimenti
Federazione
Discorsi e “forza”
Significati nascosti
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Capitolo secondo
Trasformazioni e metamorfosi
La storia di Tsunki
Acqua e terra
Indeterminatezza e definizione
Rarefazioni e addensamenti
Inversioni e trasformazioni
Posizioni del corpo e posizioni di ruolo
Parole chiave e suoni
Nomi
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Capitolo terzo
Spazi e luoghi
Territori e viaggi
L’apprendimento
Storia dei fiumi e dei loro nomi
Nomi dei fiumi
Contiguità concettuali
Statuto referenziale, trasparenza e focalità dei nomi
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Capitolo quarto
Le ragioni nascoste dei nomi
Introduzione
Prime parole
Voci, suoni e silenzi
Parsimonia semiotica
Parole, verità e “forza”
Esistenza del referente e statuto referenziale dei nomi
La “onomatizzazione” del mondo
Da nomi di luogo a toponimi, da luoghi a non-luoghi
Discontinuità percettiva
Statuto referenziale di un nome
Motivazione e focalità
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Capitolo quinto
La “scarsità vitale” e la referenzialità dei nomi
L’osservabile
L’interpretabile
Referenza e predazione
Genere dei wakán’ e dei nomi dei fiumi
Scarsità vitale e animismo predatorio
Sui nomi dei luoghi e dei fiumi
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Capitolo sesto
Come so quello che ho scritto
Sentieri e fiumi
Voci e letture
Achuar
Nomi di luoghi
L’ascolto marginale
Domande e sogni
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Appendice
Alcune parole shuar usate nel testo
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Bibliografia
Una popolazione amazzonica, gli shuar, un mito “fluviale” che essi narrano e i fiumi, dove si sedimentano conoscenze e nomi.
I fiumi sono vissuti di vite nascoste. Le loro acque sono
state maschili e femminili, ma ora, da tempo, sembrano essere solo femminili. I loro abitanti sono umani e non umani, vivi e vivi solo un po’, come i tronchi degli alberi che
giacciono nella corrente; essi sembrano privi di vita, ma
spesso, anche se sono già decomposti, racchiudono invece
manifestazioni o ipostasi di spiriti arútam.
I nomi si aggirano fra i morti e i vivi, persone, esseri,
spiriti, e fiumi. Sono i wakán’ gli spiriti che, forse, li fanno vagare.
I nomi sono parole e queste aderiscono alle non-parole,
al resto del mondo, se usate negli involucri acustici, come i
canti degli ánent, che le rendono attive. Altrimenti, fra le
parole e le non-parole c’è una schermatura che attutisce
l’aderenza delle prime a tutto il resto, le non-parole.
L’Amazzonia esiste ancora. Se non era il paradiso terrestre, la morte e l’abbandono hanno trasformato già da tempo molte immense regioni della sua foresta in un “inferno
verde”. Ora tante altre parti sono divenute un “deserto
rosso”, di terre oramai dilavate di ogni vita organica, lasciate bruciare al sole. L’Amazzonia sopravvive a tanto accanimento, a tanta cieca cupidigia, e anche, ferita quasi mortale, alla scomparsa di tante voci che le infondevano forza vitale. Erano le voci dei canti, dei flauti, delle risate argentine
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MAURIZIO GNERRE
lungo i fiumi, nei pomeriggi dorati. Tante popolazioni si
sono disperse. Dove vivevano è tornata la foresta; chi è ancora vivo è andato altrove, ma non canta più.
Gli shuar sono tanti, forse quarantacinquemila; molti
oramai si vergognano di quello che erano o erano stati i loro padri; vivono braccati dall’incubo di quello che gli altri,
i non-shuar, pensano di loro. Altri sono ancora fieri del
proprio mondo, così come ora se lo rappresentano, dopo
tante vessazioni. Anche se non cantano più, raccontano ancora per ore e ore le loro storie. Altre storie non le raccontano a nessuno e vanno a cercare la loro verità nei sogni.
Sei capitoli e altrettante figure. Alla fine del percorso
sono raccolte le parole shuar che ricorrono spesso nel testo. Spero che le pagine del libro, quasi tutte, possano essere lette in maniera scorrevole; altre, lo so, richiedono un
po’ d’attenzione, ma spero anche che siano pochi i lettori
che desisteranno di fronte a qualche piccolo ostacolo che,
forse senza desiderarlo, ho infrapposto. La “saggezza”, come quella dei fiumi, sta nella temperanza, nella costanza e
nel ritorno. Chi trova oscure le mie parole, o vuole chiedere per sapere altro, può usare la scrittura: [email protected]
Pújunua ha seguito i miei percorsi e atteso i miei ritorni.
Senza Taririri non avrei scritto queste pagine, che sono
sue. Vorrei tanto che potessero leggerle Payáshnia e Aíjiu
Juánk, ma essi potranno solo udire il mio ánent e cantare
con me le sue parole:
Tachátniuna wétatjai
Kashíninki wétatjai
PRIME PAROLE
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Chiave di lettura dello shuar
Adotto qui la resa grafica usata dalla Federazione shuar
e achuar e dal Sistema di educazione interculturale bilingue shuar in tutte le pubblicazioni in quelle due lingue:
e: vocale alta, centrale-posteriore, non arrotondata, non
troppo distante dalla pronuncia della vocale nella parola
inglese bit;
ch: affricata palatale sorda; la stessa pronuncia di ch in
spagnolo e di ci in italiano standard; dopo nasale n, diviene
sonora, con una pronuncia prossima a quella di gi in italiano standard;
ts: affricata alveolare sorda; la stessa pronuncia di z in
italiano standard zia; dopo nasale n, diviene sonora, con
una pronuncia prossima a quella di z in lazo/’laddzo/, in
italiano standard;
j: fricativa glottidale; simile alla pronuncia toscana di c
di casa.
Per ulteriori ragguagli sulla fonologia dello shuar e su
alcuni dei suoi condizionamenti fonologici si veda il terzo
capitolo di Gnerre 1999.
Abbreviazioni utilizzate nei capitoli 3 e 4
n: nome comune;
N: nome proprio;
Ne: nome etnico;
Nf: nome di fiume;
Nl: nome di luogo;
Np: nome di persona;
Nf I a: nome di fiume costituito da un nome comune o
da un nome di persona;
Nf I b: nome di fiume costituito da un nome comune o
da un nome di persona seguiti da una terminazione interpretabile come “acqua o fiume”;
Nf II: nome di fiume costituito da due nomi comuni, di
cui il secondo è “acqua o fiume”;
er: etero-referenziale;
ir: intrinsecamente-referenziale.
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
Capitolo primo
Dal Rio-mare alle cascate, dai discorsi ai nomi
Controcorrente
Chi dall’oceano entri navigando nella foce del Rio Mare, risalendo la corrente lenta di uno dei suoi rami, non
vede nulla che gli ricordi un fiume, e le ragioni di quel
nome, Fiume-Mare divengono evidenti. Solo qualche
frammento di una sottile striscia di terra all’orizzonte
traccia l’unico confine fra i colori, senza contrasti, delle
acque e del cielo. A chi la cerchi con lo sguardo, quella
striscia suggerisce la presenza di qualche isola, bassa e
piana. Dove essa sembra più continua e meno interrotta,
consente al navigante l’illusione di riconoscere le sponde
del fiume.
L’isola più grande del Rio Mare, Marajó, la si vede a
lungo all’orizzonte. I segni dell’uomo sono pochi: imbarcazioni e piccole barche lontane. Saremo alleviati quando riconosceremo, sulla sponda più meridionale, il profilo degli
edifici di Belém do Pará, la grande città che raccoglie assieme alle loro acque tanti segreti di centinaia di fiumi, come
il Tocantins, il più vicino fra tutti. Entriamo così nel mondo dei mondi possibili, delle visioni e dei sogni. Le illusioni
narrative e forse ottiche dei primi viaggiatori europei, li indussero a intravedere, fra gli abitanti del grande fiume, anche quelle donne guerriere e arciere “prive di un seno”, le
Amazzoni. Tale fu la certezza di quelle illusioni che fu un
frate scrivano, e non un avventuriero scriteriato, a denominare il fiume che navigava, il più immenso fra tutti, con il
loro nome: Rio de las Amazonas.
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Fra’ Gaspar de Carvajal, nella Relazione del primo viaggio lungo quel fiume (1541-1542), descrisse una vera battaglia fra gli spagnoli naviganti e le guerriere:
Si sappia che essi [gli indigeni] sono soggetti alle Amazzoni e
loro tributari e, a conoscenza del nostro arrivo, andarono da
loro a chiedere aiuto. (…) Queste donne sono molto bianche
e alte e hanno i capelli molto lunghi e intrecciati attorno alla
testa; hanno un corpo vigoroso e vanno nude, con le sole vergogne coperte, combattendo con archi e frecce nelle mani,
ognuna come dieci indios. (…) una di queste donne conficcò
un palmo di freccia in uno dei brigantini e altre fecero poco
meno, sicché i nostri brigantini sembravano dei porcospini
(Carvajal 1986, trad. it. da Peloso 1988, p. 51).
Se risaliremo allora, giorno dopo giorno, le correnti meno impetuose, nascoste fra le tante isole fluviali, vedremo
in alcune parti sponde a noi più vicine; apparirà allora
qualche povera capanna di caboclos e poi, di nuovo, lontane, sottili strisce scure fra acque e cielo. Passeremo per alcune strettoie, la più celebre fra tutte quella di Óbidos, dove le acque sono costrette, da un enorme macigno di pietra, a scavare in profondità il loro letto per poter superare
l’ostacolo. A nord potremo vedere, lontani, i profili di alcune alture e poi, ancora, altre sponde, altri orizzonti di acqua, e ancora tante sottili strisce di foresta. Acque più scure, che arrivano da latitudini equatoriali, lambiranno il nostro scafo preannunciandoci l’immenso Fiume Nero, il Rio
Negro, e con esso l’avvistamento del profilo della città più
grande di tutto il corso del fiume delle Amazzoni, Manaus.
Il suo nome evoca una popolazione scomparsa e Manoa, la
città dell’Eldorado, dalle colline dorate.
Altri sogni, altre visioni, altri colori e altre sponde ci diranno che, anche se siamo ancora sulle medesime acque
del grande fiume, il suo nome ora è diverso: Solimões. Ancora molto dobbiamo navigare contro la corrente che diventa ogni giorno più forte. Oltrepasseremo, senza accorgercene, le foci di decine di fiumi. Altri volti si avvicinano
a noi nelle canoe, con altri gesti e altre parole. Non più so-
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MAURIZIO GNERRE
lo i volti dei caboclos del fiume, i meticci con le loro voci di
parole portoghesi impastate con altre, portate fin qui dagli
schiavi africani e con quelle indigene della “buona lingua”
tupì, il nheêngatú.
Ora al nostro scafo si avvicina anche gente indigena
tikuna che, numerosa, vive non lontano dalle sponde del
grande fiume. Sappiamo così che stiamo lasciando il territorio brasiliano; siamo oramai nella parte del fiume di cui cominciamo a vedere, sempre più nitide, le sponde. Con esse
e con i loro profili distinguiamo altre decine di corsi d’acqua che nel grande fiume si immettono, talvolta impetuosi e
carichi di detriti. Il fiume da qui verso le Ande è conosciuto
con un altro nome ancora, Marañón; questo è il suo nome
più antico che ci ricorda quello dell’immensa isola che ci ha
accolto alla foce, Marajó. Le sponde sono ancora più vicine
a noi e le canoe e i battelli sembrano più numerosi, perché a
noi più visibili. La terza città del fiume, Iquitos, allineata
sulle sue sponde alte, ci sfila davanti. Anche il nome di questa città fluviale ricorda una popolazione indigena oramai
agonizzante o già dissolta nel mondo meticcio.
Vediamo entrare nel Marañón altri fiumi, l’Ucayali e il
Huallaga da sud, il Corrientes, il Pastaza, il Morona da
nord. Oramai la corrente che solchiamo è rapida. Le sponde divengono più alte e intravediamo colline coperte di foresta che scendono ripide alle acque, trasformandosi spesso in scarpate di terra rossa e gialla. Il fiume vi passa nel
mezzo, attraverso una strettoia tortuosa in cui le acque corrono più vive che mai. Lo chiamano il “pongo”, la “porta”
nella lingua delle Ande, il quechua, parlata da molte popolazioni della regione. Si intuisce che non siamo troppo lontani dallo svelare il segreto dell’immenso fiume che abbiamo percorso, il più importante fra tutti, quello a cui tutti
gli altri versano i loro tributi.
Abbiamo scritto tre dei nomi con cui viene chiamato.
Ma quelli sono solo i nomi “ufficiali” che compaiono scritti, anno dopo anno, nelle tante mappe preparate fra il Cinquecento e il Settecento, fino al 1704, quando fu stampata
la più ambiziosa fra tutte, opera del gesuita Samuel Fritz.
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
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Ciascuna delle popolazioni che abitano nella regione e
quelle, moltissime, che si sono estinte, fanno o facevano risuonare, nelle loro parole o nei loro canti, tanti altri nomi
per parlare del fiume più grande.
Voci oramai scomparse ci fanno pensare a ciò che è avvenuto quasi dovunque in Amazzonia nel corso dell’ultimo
secolo: troviamo, nella sua immensa estensione, storie di
relazioni, di amori, di abbandoni e di oblii. Forse, come
un’archeologa suggerisce, attraverso i secoli tutto si è trasformato “da un Paradiso fittizio a un Inferno verde”.
Le storie dei fiumi, veri protagonisti dell’Amazzonia,
sono emblematiche e talvolta sembra di ascoltare storie di
vite umane. A volte dei fiumi sono stati dimenticati, insieme alle loro storie, altre volte sono stati “riscoperti” e denominati di nuovo da chi non poteva conoscere i loro nomi
antichi. Altre storie sono state narrate.
Da luoghi di tante passioni e di tanta vita, molti fiumi,
le cui anse erano un tempo conosciute nei dettagli, sono divenuti acque che scorrono, quasi ostili agli umani, anzi,
ostacoli da superare.
La famosa ferrovia “del diavolo” che univa Guajará-Mirim sul fiume Mamoré al fiume della Madeira (“del legname”) è un emblematico concentrato di morte. Nella sua costruzione, all’inizio del Novecento, morirono decine di migliaia di lavoratori semi-schiavi, cinesi, indios, avanzi di galera, caboclos cacciati dai latifondi del caucciù. Lo scopo era
quello di superare con trasporto ferroviario le rapide del
primo dei due fiumi, che impedivano la navigazione. A
monte c’erano ricche riserve di caucciù e la bramosia di ricchezza dei signori dell’epoca richiedeva quella ferrovia, a
qualsiasi costo. Poi tutto fu abbandonato alla corrosione
della ruggine e le rapide insidiose furono di nuovo percorse, per necessità e con pericolo, con le canoe e le piccole
imbarcazioni delle rade popolazioni delle sponde dell’indomito fiume.
Settant’anni dopo, la costruzione della strada transamazzonica ha trasformato in ostacoli da superare con ponti
e traghetti innumerevoli fiumi, un tempo vie maestre della
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MAURIZIO GNERRE
selva, e ha trasformato, soprattutto, innumerevoli vite umane, che prima punteggiavano della loro presenza i corsi di
quei fiumi. Lungo la strada si è andata concentrando, trovando luoghi di attrazione vicino ai ponti sui fiumi, un’umanità di mercanti e cercatori d’oro, indigeni e negri, predicatori e contrabbandieri, caboclos e asiatici, ruffiani e
brunite fanciulle adolescenti. Erano in tanti, spuntati da
corsi d’acqua remoti e da luoghi assai distanti dai fiumi;
prima reciprocamente ignari della loro esistenza, si erano
incontrati, uccisi, truffati, amati, plagiati lungo quella strada. Tutta la mappa era cambiata. I fiumi erano oramai sbiaditi. Segnata in rosso era solo la grande strada, e ai suoi lati
crescevano caoticamente agglomerati di baracche e villaggi
dalle vie fangose brulicanti di quella nuova umanità, sorpresa della sua stessa esistenza.
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
Quei fiumi, sia l’Upano che il Zamora, ma come essi tanti
altri, come il Pastaza, sono formati da innumerevoli ruscelli e
torrenti che scendono dalla parte orientale della cordigliera
andina coronata, a pochi gradi a sud dell’Equatore, da grandi
vulcani bianchi. Alcuni, come il Tungurahua e il Sangay sono
attivi e minacciosi, e fanno sentire di tanto in tanto, con sbuf-
Xíbaros
Se passiamo il Pongo, se riusciamo a risalire le sue strettoie impetuose, possiamo allora lasciare alle nostre spalle le
acque del Marañón, il “serpente d’oro” che scende dalle cordigliere del Perù e risalire, volgendo la prua verso nord, il fiume Santiago. Ascolteremo altre voci, indigene, e vedremo altri volti, alcuni dipinti, talvolta, con strisce rosse. Sempre più
vicine, le due sponde sono oramai alte, e verso occidente, vediamo le colline che annunciano i versanti orientali della Cordigliera del Condor. Il sole tramonta presto dietro le sue foreste. Passeremo il territorio degli aguaruna e degli huambisa.
Quando avremo risalito tutto il fiume Santiago e raggiunto il Namangosa, dovremo decidere se continuare la
nostra navigazione verso nord, sull’Upano, oppure ripiegare verso sud, sul fiume Zamora. Qualunque sia la scelta che faremo, percorreremo le terre abitate dalle popolazioni che si auto-denominano, aents, oppure shuar. Xíbaros le chiamavano nel Cinquecento, e quel nome atterriva chi lo udiva. Ancora oggi, altrove nell’Ecuador e nel
Perù sono conosciute come jívaro.
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Fig. 1: Distribuzione geografica dei gruppi jívaro (Gnerre 1999).
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MAURIZIO GNERRE
fate e scrolloni, la loro robusta presenza; altri, come il Cotopaxi e il Chimborazo, sono spenti e rassicuranti e si lasciano
ammirare, immensi, spesso sfumati fra le nuvole bianche.
Dalle pendici di questi vulcani e di altre montagne
scendono, prima allo scoperto, ben visibili fra le pietraie e
la rada vegetazione e poi, presto nascoste dalla boscaglia di
altura, le acque che, unendosi via via, trovano i loro percorsi in torrenti tortuosi e tumultuosi. Strette dapprima fra
rocce e precipizi raggiungono la quiete quando vengono
chiamate con i nomi di Pastaza, Palora, Upano, e, più a
sud, Morona, Santiago, Gualaquiza e Zamora. In questa
vasta regione dell’alta Amazzonia vivono gli shuar.
Un tempo il loro ambiente era quello scosceso e pietroso segnato dalle cascate in cui quei torrenti andini si trasformano quando devono affrontare i precipizi oltre ai
quali si guadagneranno percorsi via via più ampi. Da secoli
gli shuar hanno occupato spazi meno scoscesi e più pianeggianti, nelle valli dei fiumi Zamora e Upano e ancora oltre;
i limiti dei loro territori si sono estesi fino alle ultime cordigliere orientali del Cutucù e del Condor, coperte da selve
fittissime. Oltre quelle alture si apre l’immensa pianura che
concede alle acque, che numerose la percorrono, solo qualche modesto dislivello prima che giungano nel Marañón, a
poche decine di metri sopra il livello dell’oceano, ma da
questo lontane ancora migliaia di chilometri.
Fra foreste scoscese e cascate incontrò gli shuar, nel 1549,
il primo conquistador spagnolo, Hernando de Benavente,
che, baldanzoso e incauto, era sceso dalle Ande, alla ricerca
di chissà quali glorie e ricchezze. Il percorso, impervio e nascosto, glielo avevano indicato altri indigeni, forse desiderosi
di lasciare ai loro temuti vicini della selva il privilegio di vendicare i soprusi che gli spagnoli non avevano certo lesinato a
tante popolazioni pacifiche. Il conquistador ne uscì in breve
tempo, malconcio e infuriato, accompagnato oramai solo dai
pochi uomini sopravvissuti all’avventura visionaria in cui li
aveva trascinati. Scrisse al suo imperatore Carlo una lettera
desolata e irosa, in cui affermava di aver incontrato la “gente
più barbara mai trovata in tutta la mia conquista delle Indie”.
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
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Gli indigeni che, falsi alleati, lo avevano accompagnato verso
la catastrofe, chiamavano quella gente barbara shiwar “nostri
nemici”. Questo fu il nome, scritto xíbaro nella grafia spagnola del Cinquecento, con cui la fama di quella gente refrattaria alla “conquista” si sparse nell’impero spagnolo.
Testardi, poveri, avidi e febbricitanti, pochi anni dopo
quella catastrofe gli avventurieri ispanici, visionari smemorati, tentarono di nuovo l’avventura della “conquista”. Alcuni
piccoli avamposti furono stabiliti nelle terre impervie degli
xíbaros. Ostinatamente immemori, per boria e presunzione,
della rovina di Benavente, piccoli condottieri, hidalgos e adelantados che guidavano gruppi raccogliticci di disperati, tenuti coesi solo dall’avidità di ciascuno, cercavano, con imprese sempre più estreme e senza ritorno, di rifarsi delle frustrazioni dei loro sogni subite altrove nelle “Indie”. Volevano
tentare di estrarre dalle acque dei torrenti che scendevano
fragorosi verso oriente, scarse tracce di quell’oro che, anni
prima, durante la conquista del Perù, avevano concupito,
luccicante in statue e monili, senza riuscire nell’intento di farne un bottino personale. Solo per pochi anni, hidalgos e adelantados, divenuti encomenderos, potettero trarre vantaggio
delle loro piccole, coraggiose e miserabili colonie minerarie,
ratificate da pompose concessioni imperiali e, ancora di più,
da nomi roboanti che coronavano fangosi agglomerati di capanne: Santiago de las Montañas, Sevilla del Oro, Logroño
de los Caballeros, Nuestra Señora de los Dolores de Macas.
Nel 1599, un anno prima dello scadere del secolo della
grande “conquista” continentale, che aveva visto devastati e
umiliati territori immensi e innumerevoli popoli, dalle Antille
a Panama, dal Messico al Guatemala, dal Perù al Cile, quasi
per scandire con una emblematica vendetta tanti soprusi e
tanta distruzione, solo gli shuar e, molto più a sud, gli araucani del Cile, spazzarono via i barbuti visionari. Secondo quel
che sappiamo da incerte e contraddittorie relazioni, le poche
decine di spagnoli degli avamposti furono uccisi o messi in
fuga. Gli shuar agirono con la velocità che caratterizza le loro
azioni di guerra e con una ferocia reciproca e simmetrica a
quella subita in nome di Dio e dell’imperatore.
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MAURIZIO GNERRE
Emblematica è la storia del “governatore” spagnolo di
Logroño de los Caballeros, giustiziato con una colata dell’oro raccolto dai suoi sparuti uomini, fuso e versato nella
bocca tenutagli spalancata. Il terrore provocato dalla fama
di tale impresa, in realtà un topos rappresentativo della ferocia degli indigeni, già narrato trent’anni prima dal milanese Gerolamo Benzoni, si sparse con il nome di chi l’aveva compiuta. Fu così che xíbaro (e poi jívaro) divenne un
antonomastico per “selvaggio, barbaro”. Poi, con i secoli,
insieme alla memoria di quell’impresa terribile e memorabile, la forza minacciosa di quel nome si stemperò, fino a
che restò in uso solo per denominare tranquilli contadini
portoricani e un sonnolento porticciolo cubano.
Ma i tenaci spagnoli, certi della loro missione imperialdivina, certezza in cui risiedeva la loro forza, non abbandonarono del tutto i loro avamposti. Protetti già da anni dalla
presenza di una Madonna miracolosa, la cui immagine era
stata trovata in una caverna sulle rive scoscese del fiume
Upano, i pochi abitanti del villaggio di Sevilla del Oro, al
momento del bisogno, furono coadiuvati dalla loro Vergine:
a un ennesimo attacco degli indigeni infedeli e feroci essa
comparve per atterrirli, e non solo li mise in fuga, ma li dissuase una volta per tutte dal minacciare gli intrepidi barbuti.
Costoro ricostituirono il loro villaggio dall’altro lato del
fiume, dove già era esistita (Nuestra Señora de los Dolores
de) Macas. Per secoli fu questo l’unico avamposto di cristiani sudditi del re di Spagna, incastonato in mezzo alle
selve degli xíbaros, a tre settimane di penosa ascesa fino oltre le pendici del vulcano Sangay. Tale era infatti il tempo
necessario per raggiungere il primo villaggio andino (non
lontano da Riobamba) sotto sicuro controllo degli amministratori di sua maestà cattolica.
Per quasi tre secoli solo qualche missionario che agognava
il martirio, come il gesuita Juan Lorenzo Lucero, o qualche
avventuriero che immaginava ricchezze nascoste osò far capolino nelle terre degli xíbaros. Tante sono le descrizioni,
concise e quasi sempre stereotipate, degli xíbaros visitati da
missionari in brevi incursioni apostoliche, fra il Seicento e la
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
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prima metà dell’Ottocento. Una delle ultime fra queste, tipica nella sua presentazioni di topoi ritenuti indizi sicuri di “selvaggia ferocia”, la dobbiamo al frate missionario ligure Castrucci da Vernazza (1854). Egli aveva raggiunto gli xíbaros
del Pastaza nel 1848 e aveva scritto in italiano una relazione
del suo viaggio. Trascrivo un passo del suo capitolo sulla Missione ai Givari; già dal titolo vediamo che l’insulto etnonimico (ratificato da Colini trent’anni dopo) non solo non scompariva, ma veniva ulteriormente rafforzato nella resa italiana
del nome spagnolo:
Fig. 2. Indi chivari (Castrucci da Vernazza 1854).
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MAURIZIO GNERRE
Ne’ giorni loro d’allegria si dipingono con molto studio, poi si
danno allo stravizzo [sic], e a bevere sì smodatamente da perdere i sensi. Intorno al primo che s’ubriachi fanno cose da stolti; lo
trasportano a processione come un morto, gli ballano attorno,
gli si genuflettono, e fanno altre loro pazzie; e in questo le donne mescono e porgono il liquore agli astanti, quindi a compimento festivo traggono i teschi di coloro ch’ebbero ucciso, conficcati nella punta delle loro lance. Bagordi e feste degni di lor
selvaggia ferocia! (Castrucci da Vernazza 1854, pp. 40-41).
Ma non solo come “stolti” e “pazzi” erano descritti. A
volte veniva sottolineata la loro sagacia e la loro curiosità. In
una spedizione alla regione shuar del Rio Zamora, compiuta
nel 1785, lo scrivano che redigeva il diario-relazione notava:
Una sera, uno degli Xíbaros infedeli, che avevamo denominato Manuel, stanco di rispondere alle molte domande che il
Comandante Capo gli poneva, e mentre osservava attentamente il modo in cui Don Juan Nepomuceno de Vibanco
prendeva nota delle sue risposte, smise di rispondere e ammirato della novità della scrittura, cominciò a chiederci di quella
nostra abilità, [la scrittura] che gli era sconosciuta; mentre
così ripeteva a voce alta i nomi delle persone che erano presenti, egli bagnava il suo dito con la saliva e, usando il suo
scudo tondo a modo di lavagna, attuava come se stesse scrivendo tutti quei nomi (Jijón y Caamaño 1919, p. 385).
Troviamo in questo episodio due temi su cui ritorneremo nel capitolo seguente: la scrittura e i nomi propri.
Teste secche
L’attribuzione agli shuar di una certa intelligenza andò aumentando, come ovvio, quando notizie più dettagliate su di
essi e sulle loro abilità divennero via via più accessibili al
mondo esterno. Solo dalla seconda metà dell’Ottocento si
formarono in alcune delle regioni a sud di Macas, abitate dagli shuar, alcuni sparuti villaggi di poveri coloni andini. Pressati dalla miseria e dai latifondisti, essi lasciavano alle spalle la
sicura scarsità a cui erano condannati nelle loro regioni di
origine, quelle di Cuenca e di Loja per tentare la via di un’in-
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
21
certa abbondanza nelle valli dei fiumi Gualaquiza e Zamora.
Gli shuar erano ancora gli xíbaros dei racconti come quello
del nostro missionario ligure: terrificanti e, ancora peggio, irrazionali, “stolti” e “pazzi”, sempre più conosciuti come i
“cacciatori di teste” dell’Amazzonia. Anzi, la fama dei loro
“feroci” costumi veniva alimentata e diffusa da pratiche commerciali ciniche e fiorenti, e del tutto “civilizzate”. Infatti, sui
mercati nordamericani ed europei cominciarono a comparire
alcune teste-trofeo, le tsantsa, tanto sinistre quanto fascinose.
Brune e minuscole fattezze di pelle secca e durissima, lunghi
capelli neri luccicanti, labbra trafitte da spine di legno di palma, le piccole teste erano oggetto di dotte disquisizioni fra
coloro che potevano ammirarle, con distaccata brama di esotismi estremi, in una biblioteca dagli odori antichi o in un gabinetto di rarità conservate tra canfore e formaline. I più importanti musei etnografici dell’emisfero settentrionale se le
contesero e presto, per soddisfare le richieste di un mercato
crescente, stretto fra solleticazioni lombrosiane e sinistri esotismi, cominciarono ad arrivare, forse da Panama, dei falsi:
teste umane rattrappite, che nulla però avevano a che fare né
per forma né, tanto meno, per i pensieri che quelle teste, in
vita, potevano aver contenuto, con quelle degli xíbaros, autori garantiti del costoso prodotto. A essi, oramai, era attribuita, fuori d’ogni dubbio, una perversa intelligenza.
Mentre al di qua dell’oceano giungevano teste rattrappite, autentiche o false che fossero, fra gli xíbaros giungevano
missionari rigorosamente autentici che, nel loro anelito cristianizzatore e civilizzatore, volevano modificare le teste e i
pensieri (i “cuori” e le “anime”) dei feroci selvaggi. Le terre
dove vivevano gli shuar furono divise con alterne vicende in
province missionarie assegnate a ordini diversi: a gesuiti,
domenicani, francescani e, con maggiore esito e durata fra
tutti, all’allora nuovo ordine dei salesiani. Perfino l’Unione
evangelica, tirata a cimento da tanta sfida civilizzatrice, inviò a Macas la volonterosa famigliola cristiana di un pastore
con moglie, esempio di monogamiche virtù. Tutti schierarono personalità spesso uniche e notevoli nel loro genere, di
zelanti e irrefrenabili convertitori e battezzatori.
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MAURIZIO GNERRE
Fu in quell’epoca, oramai tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi del secolo che iniziava, che, al seguito
delle teste secche, cominciarono a giungere in Europa e negli
Stati Uniti anche notizie degli xíbaros; negli scritti più illuminati, come quello di Colini (1882-83) essi assumevano, oltre
alla perversa intelligenza già loro assegnata, qualche spiraglio
di comportamento umano. Alcuni di quegli scritti erano assai
accurati, altri meno, ma, comunque, gli xíbaros poco alla volta divenivano avvicinabili. Nel giro di pochi anni, sulla scia
delle teste rattrappite che oramai abbondavano nei musei, e
dei missionari, essi stessi cacciatori di teste-anime, giunsero
fra gli shuar letterati, viaggiatori-scrittori e perfino studiosi di
etnologia. Tra i primi, alcuni, come gli ecuadoriani Juan León
Mera (1891) ed Enrique Vacas Galindo (1895), si accontentavano di elaborare versioni romanzate che includevano descrizioni più o meno stereotipate o fantasiose; tra gli altri, il
piemontese Enrico Festa (1909) manteneva un certo sobrio
distacco nei confronti dei tratti più sinistri che i missionari salesiani sottoponevano al suo apprezzamento. Altri ancora,
come il nordamericano Fritz Up de Graff, scrissero libri di
relativo successo, dai titoli sinistri come Head-Hunters of the
Upper Amazon (1923); tra gli etnologi, infine, dobbiamo
menzionarne due, autori di scritti di valore diverso: il futuro
fondatore del Museé de l’Homme, Paul Rivet (1907-1908) e il
giovane missionario Michele Allioni (1910).
Ma il richiamo evocativo alla “caccia alle teste” fu ancora accolto e riproposto in un trattato di valore, come quello
scritto dall’etnologo finlandese-svedese Rafael Karsten The
Head-Hunters of theWestern Amazonas (1935).
Come abbiamo visto, molto è stato scritto sugli shuar, e
parte di quest’attività scrittoria è stata motivata, per lo meno inizialmente, da quell’immagine tenebrosa di essi (e degli altri jívaro) che fin dal secolo XIX si era diffusa in Europa
e negli Stati Uniti, rafforzata da scarse notizie e da numerose teste rattrappite. La storia di quell’immagine è lunga, e a
volte anche esilarante. Taylor (1985, pp. 255-256) sintetizza
bene quell’alone che si era costruito attorno agli jívaro:
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
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Poche società amazzoniche hanno provocato l’immaginazione
occidentale come quella degli jívaros e nessuna, forse, è stata
assunta con tanta costanza come l’immagine al negativo delle
forme di vita sociale che l’Occidente considera prototipiche
della civiltà e, in una certa misura, della natura umana.
Nel corso di più di tre secoli di contatti con i bianchi
(iniziati, ricordiamolo, per lo meno “ufficialmente” nel
1549)
gli jívaro provavano in definitiva che lo stato di natura, lungi
dall’essere un semplice orizzonte filosofico o uno stato fittizio, non soltanto esisteva e si riproduceva identico a se stesso,
ma era anche capace, aggiungendo l’insulto militare allo scandalo filosofico, di infliggere ignominiosi rovesci ai soldati di
Dio e dell’impero.
Dai discorsi ai nomi
Lentamente, anche la difficile lingua shuar veniva
esplorata, per tentativi, da qualche missionario, coadiuvato dai meticci di Macas che parlavano con gli indigeni in
una versione semplificata della loro lingua. Uno degli
aspetti apprezzabili, anche da chi non dominava la lingua
indigena, erano le spettacolari attuazioni retoriche degli
shuar. Il domenicano Enrique Vacas Galindo, in un’opera
letteraria (1895) il cui protagonista era un uomo dal nome
guerriero di Nankijúkima, “agitatore della lancia”, tratteggiava con queste parole il modo di parlare e la retorica che
gli shuar dispiegavano nel corso delle loro conversazioni
cerimoniali diadiche (pp. 80-81):
si stabilisce fra i due un dialogo indescrivibile, improvvisato, ma
condotto con grande pathos. Lo spettatore crede a volte di udire uomini posseduti dal demonio, a causa dell’agitazione e della
veemenza e della voce tonante con cui parlano: altre volte sembra di assistere a una disputa accaloratissima, nella quale ciascuno dei due contendenti dispiega una ricchezza di erudizione e
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MAURIZIO GNERRE
di eloquenza che egli stesso non può contenere. Non sono uomini, lettore, quelli che ti presento, sono leoni! Mentre uno declama, l’altro ripete: “Sì! No! E che? Che altro? Bene! Così
è!…” fino a che l’altro non abbia terminato. E questi allora
prende la parola, mentre il primo si mette a ripetere “Sì! No!
Che?” e altro. Però la cosa più notevole è che parlano con tale
precipitazione e rapidità, che appena si riesce ad afferrare qualche sillaba, fra quelle pronunciate con maggiore accentuazione.
(…) Circa mezz’ora dura questo dialogo. Dopo conversano con
naturalezza, e in modi intelligibili e anche scherzosi (…).
D’altro lato, l’idea preconcetta di una “povertà” lessicale
e categoriale che doveva necessariamente corrispondere alla
barbarie o alla “stolidità” dei parlanti dello shuar, se da un lato costituiva un deterrente a uno studio serio della lingua e
faceva ritenere adeguata e sufficiente la sua versione semplificata, dall’altro riservava sorprese insospettate ai pochi che invece la affrontavano con impegno, pur senza disporre delle
categorie analitiche adeguate. Porta la data del 1890 una lettera scritta ai superiori da un altro missionario dell’epoca, Alberto Delgado, che esprimeva in modo quasi coraggioso contro i luoghi comuni del suo ambiente, tutto lo stupore provato nell’incontro ravvicinato con quella lingua “selvaggia”:
che opinione diversa ho adesso della lingua jívara (…). Oh! È
una lingua perfetta, filosofica, sentimentale, e vorrei perfino
dire, più ricca forse dello spagnolo e di altre lingue europee
per quel che riguarda la parte zoologica e botanica. Fin la più
piccola pianta, fin il più minuscolo insetto, fra tutti gli infiniti
alberi e animali che popolano queste selve, ha un nome. Hanno mille esclamazioni. L’ausiliare essere entra nella formazione
di tutti i verbi, così come le desinenze del nome latino nella
formazione dei suoi casi. Che combinazioni energiche e concise! Mi trovo ora a scrivere un vocabolario; con esso e con l’esercizio sono sicuro che saprò capire gli Jívaros, però dubito
che qualcuno riuscirà mai a parlare come loro (Magalli 1890).
Gli entusiasmi dei due autori si manifestano su aspetti
diversi della lingua shuar: il primo, che pure conosceva per
lo meno la sua versione “semplificata”, coglieva la straordi-
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
25
naria forza retorico-espressiva dei generi di conversazione
shuar. Il secondo, in una visione più analitica, si concentrava su alcune caratteristiche più precise, e lo stupore di
fronte agli insospettati dettagli referenziali e potenzialità
espressive si trasformava in entusiasmo e, forse, nel sospetto della presenza di capacità intellettuali nascoste in quelle
teste dai lunghi capelli neri luccicanti decorati di piume.
Ben pochi dei suoi contemporanei, inclusi fra questi diversi
linguisti europei e nordamericani, da Schleicher a Brinton,
sarebbero stati disposti a concedere a quei “selvaggi” una
qualche sofisticazione intellettuale.
C’è però una dimensione forse più nascosta, e quasi intermedia, fra quelle che i due osservatori allora potevano cogliere. Sia il dettaglio nella denominazione di moltissimi referenti
del mondo naturale, sia la forza retorica, osservabile non solo
nel torrente di parole, esclamate e urlate in un flusso ritmico
e prosodico incomprensibile all’osservatore, ma anche nelle
posizioni assunte dal corpo e nelle espressioni facciali che le
accompagnavano, erano riflessi osservabili di una concezione
del linguaggio, della sua referenzialità, del suo uso e della sua
efficacia, presenti, come vedremo, ancora oggi.
Il gioco dei fraintendimenti
Gli studiosi più attenti, come alcuni fra gli etnologi e i
missionari che certo oramai sospettavano la complessità
del mondo linguistico-culturale degli jíbaros, erano tenute
lontane dal cogliere tanti aspetti della lingua e, ancora di
più, della ricchezza semantica nascosta al suo interno. Erano portati, infatti, dagli stessi indigeni, ad avvalersi della
versione semplificata, pidginizzata e forse quasi creolizzata
della lingua in uso, forse da secoli, nell’avamposto meticcio
e cristiano di Macas. Fu in questa varietà che il primo missionario citato, quello che con tanta efficacia descriveva
l’attuazione retorica degli shuar, scrisse e fece stampare in
quegli stessi anni anche un libretto, il primo in quella lingua, intitolato, non a caso, Catón en lengua Jíbara (Anoni-
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MAURIZIO GNERRE
mo 1891), una specie di catechismo “per la missione di
Macas”. Anni dopo fu stampata anche una traduzione del
Vangelo di san Luca prodotta da quei coniugi evangelici
distaccati a Macas fin dal 1902.
Viaggiatori e missionari prima, etnologi e antropologi poi
(ma, come visto già dall’inizio del secolo XX) hanno potuto
fornire descrizioni relativamente accurate di ciò che era per
essi osservabile. Quando però cercavano di ottenere, tramite
conversazioni, qualche spiegazione ed esemplificazioni di
concetti come wakán’, arútam, e simili, erano frustrati dall’assenza (per loro) di una qualche coerenza. Spesso, come
ho mostrato per il primo di quegli etnologi, il finlandese
Karsten (Gnerre 1984), c’erano problemi linguistici seri che
facevano naufragare ogni speranza di “comprensione”, visto
che egli (e altri) si avvalevano dello shuar pidginizzato.
Quella lingua semplificata era un’altra forma di resistenza,
questa volta “passiva”, messa in pratica dagli shuar verso coloro che volevano conquistare le loro anime e i loro cuori? Il
fatto è che solo dagli anni Venti in poi si raggiunse una prima approssimazione alla comprensione più articolata delle
forme della loro lingua. Non venivano ancora usati i registratori, strumenti allora ingombranti presenti solo in alcuni
musei etnografici e università nordamericane ed europee.
Per i pochi interessati alla lingua degli shuar, per lo più missionari, non c’era altra strada che quella di chiedere agli indigeni che volevano rispondere e collaborare alla conoscenza altrui delle proprie cose, parole fuori dal contesto, paradigmi verbali e poco altro. Mediante le annotazioni sui loro
quaderni mettevano insieme frammenti della lingua e solo
attraverso questi cercavano di comprendere le conversazioni
e le narrazioni degli indigeni. Talvolta si facevano dettare alcuni testi narrativi e comunque, anche se lo facevano, ottenevano sempre, come era avvenuto all’etnologo finlandese
Karsten, testi semplificati, perché prodotti nella lingua semplificata.
Indipendentemente dai problemi linguistici, però, c’era
l’elaborazione discorsiva degli shuar e la loro volontà a rispondere in modo utile (per lo meno dal loro punto di vista) alle domande che venivano loro poste. La riservatezza
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e la segretezza erano deterrenti forti ad ogni resa considerata appagante delle curiosità interpretative occidentali.
Anche se diversi studiosi e pensatori oramai riflettevano,
altrove, sulle forme culturali di tante popolazioni lontane,
l’interpretazione delle categorie e delle forme linguistiche
era ancora un percorso lungo, iniziato, in modi diversi da
Sapir (1921) e da Malinowski (1923). Per chi, come molti
etnologi e missionari, non era consapevole di quelle riflessioni, la lingua shuar costituiva uno sbarramento insormontabile per una comprensione dei significati che attraverso
essa i suoi parlanti convogliavano. I limiti interpretativi del
“significato nelle lingue primitive” (Malinowski 1923) erano ancora una barriera assai ardua alla comprensione.
Incomprensioni
Ma oltre quello che la lingua nascondeva, vi erano altre
dimensioni che si intrecciavano con la percezione shuar
della persona. Pochi fra i missionari cattolici che cercavano
di “ridurre” i bambini e i giovani shuar alla vita dei collegi
missionari, o internati, si rendevano conto che l’ostacolo
principale consisteva proprio nel tentativo di una “reductio ad unum” delle abissali differenze individuali che si celavano dietro volti e sguardi che sembravano spesso simili
l’uno all’altro. Ciascuno di quei giovani aveva avuto storie
diverse, soprattutto visioni diverse; nelle capanne solenni,
lontane l’una dall’altra nella foresta, da cui convergevano
alla grande missione bianca, avevano forse visto e udito cose simili, ma non lo avrebbero ammesso mai. I missionari
tentavano quindi di costruire un’omogeneità cristiana su
una diversità individuale, non casuale, ma voluta e coltivata, in cui non aveva spazio l’idea di una società organicamente coordinata. Erano i missionari che pensavano tutti
quei bambini e quegli adolescenti come “jívaros”, giovani
individui di un’unica popolazione. Certo, erano individui
che a volte facevano o dicevano cose simili per scelta propria, e mai perché convinti da qualcuno che il mondo dovesse essere in un certo modo perché così era stato deciso.
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MAURIZIO GNERRE
Quello che poteva governare i loro destini era il loro arútam, se mai lo avessero incontrato un giorno, nei sogni o,
terrificati, in un soffio di vento nella foresta.
La refrattarietà che gli shuar opponevano (e, oserei dire,
oppongono) ai tentativi di cristianizzazione non era quasi
mai violenta, anzi, spesso, essi tenevano un atteggiamento
esteriore, o di facciata, che schermava la loro fierezza e si
avvicinava a una mansuetudine per essi inusuale; facevano
credere in tal modo che qualcosa fra tutto quello che i missionari ripetevano era entrata nelle loro menti. Tuttavia, il
loro modo di agire e alcune delle loro parole rivelavano, a
chi li voleva osservare e ascoltare, che le loro menti percorrevano altri sentieri. Fu così che negli anni Trenta, dopo circa quarant’anni di azione missionaria dei salesiani (preceduti in luoghi diversi della regione, o affiancati, da domenicani, gesuiti e francescani) un vescovo, mons. Comín disse al
papa Pio X, facendo riferimento alla missione fra gli shuar
“Santità, innaffiamo un tronco secco”.
Quando poi negli anni Cinquanta iniziò l’azione, assai
controversa, che tendeva a far convergere i bambini e gli
adolescenti (ancora “rami freschi”, forse modellabili nella
loro crescita) nei grandi internati maschili e femminili che
missionari e suore avevano istituito, le resistenze delle famiglie all’“internamento” dei loro bambini erano fortissime. Leggiamo qui quanto scriveva uno shuar di grande
valore, Ricardo Tankámash’, che conobbi bene e che concluse la sua vita ucciso per motivi oscuri ai più. La sua testimonianza illustra, meglio di ogni spiegazione o interpretazione, la repressione culturale e la pressione psicologica a cui sono state sottoposte alcune generazioni di
shuar. All’inizio degli anni Settanta Ricardo raccontava
(Münzel, Kroeger 1981, pp. 217-218):
Io non volevo andare all’internato però mia madre diceva: “Devi farlo, devi imparare lo spagnolo, devi civilizzarti!”. Alcune
volte sono scappato dall’internato e sono tornato a casa, e mia
madre sempre mi riportava indietro. Mi trascinava dietro di lei.
Io gridavo. Nell’internato i missionari mi dicevano: “Vuoi vivere
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nel sudiciume invece che nell’internato, perché vuoi vivere con i
tuoi, dove tutti dormono ammassati, uno sull’altro”.
Nemmeno mio padre voleva che andassi dai missionari. Diceva sempre: “È meglio uccidere i missionari, allora vivremo in
pace”. Però mia madre gli rispondeva: “No, nostro figlio deve civilizzarsi”. E così andai dai missionari.
Mio padre non voleva venire a visitarmi là; però mia madre
veniva. Una volta al mese ricevevamo le visite, e lei mi portava frutta e manioca. Però a volte non mi consentivano di vederla, perché ero stato disubbidiente o non avevo detto bene
le orazioni, o perché avevo parlato in shuar e non in spagnolo con altri bambini. In quei casi i missionari mi portavano la
frutta e la manioca di mia mamma, però lei doveva andarsene senza che avesse potuto vedermi. I missionari le spiegavano: “Tuo figlio ha parlato shuar, per questo non puoi vederlo
oggi. Però se per tutto il mese parlerà in spagnolo, potrai vederlo la prossima volta”.
Durante le vacanze potevamo andare a casa. Però allora, poco
prima delle vacanze c’era scritto col gesso sulla lavagna: “Sono
amico del diavolo se nelle vacanze vado a casa con gli shuar!”.
Noi bambini dicevamo fra di noi: “Ah! Gli amici del diavolo
sono quelli che vanno a casa!”. E nessuno voleva essere amico
del diavolo. Tutti volevano essere amici di Dio. Così la maggior
parte di noi, volontariamente, restava all’internato e lavoravamo durante le vacanze per la missione, dall’alba al tramonto.
Federazione
Nel 1962 fu fondata l’associazione dei centri (villaggi)
shuar di Sucúa. In seguito furono fondate altre associazioni
e, nel 1968, quelle allora esistenti si unirono in una Federazione. La sede prescelta fu il paese meticcio di Sucúa, e ciò
tanto per la sua posizione centrale nella valle dell’Upano, a
sud di Macas, quanto per il fatto che in quella regione fosse sorta la prima associazione di villaggi.
Fin dai primi anni la Federazione dispose di una radio
che trasmetteva in shuar e in spagnolo durante molte ore al
giorno. Durante le ore mattutine i programmi erano rivolti
alle scuole dei villaggi, dove operavano tanti giovani indi-
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MAURIZIO GNERRE
geni che, usciti dagli internati missionari, avevano ricevuto
una certa preparazione come maestri elementari, in grado
di coordinare le lezioni radiofoniche con l’attuazione pedagogica diretta. Furono chiamati “tele-maestri”.
La radio, ascoltata in una grande parte del territorio
shuar, svolse per decenni un ruolo fondamentale nella costruzione di una certa identità unitaria e di una comprensione del ruolo dell’organizzazione stessa. I gruppi locali
shuar divenivano lentamente parte del “popolo shuar”.
Fig. 3. Bandierina celebrativa dei primi quindici anni della radio della Federazione shuar.
DAL RIO-MARE ALLE CASCATE, DAI DISCORSI AI NOMI
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Discorsi e “forza”
Nell’ambito dei cambiamenti residenziali e dell’organizzazione politica che gli shuar si sono dati nel corso degli ultimi quarant’anni, è cresciuta molto, e su solide basi, un’abilità di discorso pubblico e di costruzione retorica praticata da molti uomini e da pochissime donne. La forza dei
loro antichi dialoghi, descritti nel passo riportato sopra
(“non sono uomini… sono leoni”) è stata sostituita da un
altro tipo di forza retorica.
La radio della Federazione è stata uno strumento assai
efficace di diffusione e di rafforzamento non solo della
nuova coesione etnico-identitaria, ma anche, insieme a tante altre abilità e conoscenze, di nuove forme retoriche. I
primi dirigenti della Federazione e i primi “tele-maestri”
provenivano quasi tutti dalla valle dell’Upano: fu dunque
la varietà di shuar che essi parlavano che con il tempo si è
consolidata come quella di maggiore prestigio, e quindi
imitata da quasi tutti gli altri.
Con la nuova retorica sono emerse tante forme che
consentono di convogliare in shuar, evitando di fare ricorso allo spagnolo, moltissimi concetti nuovi; ad esempio,
quello di “federazione” è stato reso con irúntramu, una
forma nominalizzata dal lessema verbale irú-r- “riunire,
raccogliere”, quindi qualcosa come “riunione, raccolta”.
Ma, oltre a tante forme nuove, diversi costrutti sintattici
sono emersi a discapito di altri e, aspetto molto importante nella costruzione dei nuovi e spesso lunghissimi discorsi
sono comparse forme di concatenazione fra gli enunciati.
Una di queste, tuma asamtai “così essendo” è, insieme ad
altre forme, oramai frequente; tutte consentono di costruire concatenazioni, collegando cioè il contenuto di un
enunciato a quello dell’enunciato precedente, e di formare
quindi discorsi, spesso assai lunghi e retoricamente assai
efficaci. Le assemblee dei “centri” (villaggi), quelle delle
“associazioni” regionali di “centri”, quella della “Federazione” tenuta annualmente a Sucúa, sono, accanto alla
pratica quotidiana delle trasmissioni radiofoniche shuar, i
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MAURIZIO GNERRE
luoghi in cui viene praticata, e raffinata, quest’arte retorica
contemporanea (Hendricks 1986).
Gli episodi e gli esempi di tale arte sono oramai innumerevoli, e anche i loro effetti politici e sociali lo sono. Uno, assai famoso, ebbe luogo nel 1993-94: in quegli anni la Federazione fu percorsa da un conflitto interno di una complessità e
gravità mai sperimentate nei trent’anni intercorsi dalla sua
fondazione; il presidente e alcuni dei suoi collaboratori furono calunniati. In particolare sul primo si concentrarono sospetti di traffico di cocaina e di adulterio. Altri, a lui vicini,
furono accusati di aver ucciso degli shuar e achuar per tagliare loro la testa e farne delle tsantsa, le teste trofeo rattrappite,
per venderle a caro prezzo a cinici compratori stranieri. All’assemblea generale della Federazione, che si tenne a Sucúa
nel febbraio del 1994, il presidente parlò ai seicento delegati,
inviati dalle associazioni e da ogni singolo “centro”, e li convinse della falsità di tutte quelle accuse infamanti. L’opinione
generale fu che aveva parlato in modo “forte” (kakáram):
non solo aveva parlato “bene”, ma aveva posto nel suo discorso dimensioni, per noi spesso insondabili, di un “forza”
personale, non facilmente riconducibile a una abile personalità comunicativa. Probabilmente aveva un arútam forte. Perché sono gli arútam gli spiriti che infondono la “forza”.
Le acquisizioni e le perdite di questa “forza” individuale,
specialmente quella maschile, sono presenti nel mondo shuar
attuale in modo forse ancora maggiore che nel passato. In
molti casi credo che oramai, dal momento che altre manifestazioni di forza, come l’uccisione di un nemico poderoso,
non sono più praticabili, esse siano divenute per molti uomini un’ossessione. Oggi, a differenza di un tempo, tanti uomini si trovano a vivere vicini, nei villaggi, e sanno di far parte
di una vasta organizzazione politica dove esiste una competizione per il potere, per “mettersi in luce”. Páant è la voce più
spesso usata per esprimere questo concetto; il suo significato
è quello di un modificatore avverbiale: “chiaramente, con voce forte e nitida, in modo evidente e aperto”. Su tali valori di
“forza” e di “chiara apparenza” si concentrano in molti, ma
purtroppo, sembra che oramai gli arútam scarseggino.
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Significati nascosti
Nelle pagine che seguono procederemo scavando all’interno di alcune dimensioni dei significati nascosti nella lingua shuar e nei suoi usi. Parleremo della relazione con
l’ambiente in cui gli umani vivono e di alcune mie interpretazioni delle rappresentazioni shuar di esso. Sono queste le
dimensioni, sospese fra il linguistico e il retorico, che ci
consentono di muovere i primi passi verso ciò che racchiude la semantica dei nomi comuni delle piante, degli animali
e dei nomi propri delle persone e dei corsi d’acqua. Questi
ultimi nomi assumono valenze che “ricaricano” il valore semantico dei nomi comuni corrispondenti, in una costante
circolazione di rinvii.
Nei nomi dei corsi d’acqua si sedimenta una ricchezza
conoscitiva che non è solo quella, innegabile, della conoscenza dell’ambiente che tanto stupiva il missionario Delgado; si tratta di altro, di un tipo di retorica, se possiamo
usare questa parola, diversa anche da quella che stupiva
Vacas Galindo. È una retorica intrisa nella semantica stessa
dei nomi, che si vanno arricchendo di sedimentazioni referenziali. Questa è la saggezza che i nomi dei fiumi racchiudono. Cercheremo di svelarla, iniziando il percorso dai
meandri di una narrazione.
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