1 ANNO III - MARZO 2006 laboratorio della sinistra lucana euro 5.00 Po s t e I t a l i a n e S . p. A . - S p e d . i n a . p. - 7 0 % Po t e n z a Contratto tute blu Il voto di Melfi un campanello dʼallarme GIANNINO ROMANIELLO In Basilicata il voto dei lavoratori sul contratto dei metalmeccanici ha palesato una certa sofferenza da parte della categoria a accogliere lʼaccordo sottoscritto da Federmec- canica e dai sindacati. Vi è stato il voto negativo della Sata ma anche di realtà dove le presenza sindacale è più antica e consolidata (Italtractor, Pittini, ecc.). Ora, nessuno segue in penultima A. M. Riviello G. A. Leone V. Riviello L. Colicigno pp. 3/10 A. Califano | P. Fanti pg. 22 Venosa: mezzo secolo è passato A cinquant’anni dalla uccisione di Girasole Perrotta | Doria | Capezio | Caressa M. Padula | S. Padula, pp.27/38 Crisi dello storicismo e fine della cultura meridionalista Fulvio Tessitore p. 57 Riflessioni sulla programmazione economica regionale Califano | Viglioglia pp. 39/42 disegno di Gelsomino DʼAmbrosio Leonardo Ferrandina: Sinisgalli tra tecnica, industria e poesiae poesia laboratorio della sinistra lucana La Rubrica r Les chasseurs des lumières GERT Editoriale Contratto tute il blu. Il voto di Melfi ‹Giannino Romaniello› 1 Rubrica Les chasseurs des lumières ‹Gert› 2 Cultura Sinisgalli e lʼantica radice della civiltà delle macchine ‹Anna Maria Riviello› 3 A casa di Leonardo ‹Giuseppe Antonello Leone› 5 Un Pitagora del Novecento ‹Vito Riviello› 8 Il meccano dellʼanima ‹Lorenza Colicigno› 9 Egemonia e questione meridionale in Gramsci 11 ‹Fabio Vander› Chiummiento e “La Basilicata” Un giornalista per bene e quasi sconosciuto ‹Tommaso Russo› 15 Il racconto Alla ricerca dellʼidea perduta ‹Claudio Elliot› 21 Musica, cinema, libri 23 Archivi A cinquantʼanni dallʼuccisione di Rocco Girasole ‹Tiziano Doria, Maria Concetta Capezio, Giovanni Caressa, Marco Padula, Sergio Padula, Mimmo Perrotta› 27 Politica e società Programmazione regionale in mezzo al guado ‹Rocco Viglioglia› 39 Basilicata... che bello? ‹Antonio Califano› 40 Lʼinsostenibile crescita e lo sviluppo sostenibile 43 ‹Paolo Fanti› “Fattorie sociali”: come e perché ‹Rosanna Salvia, Alfonso Pascale› 46 Il mio “rifiuto” non tʼoffenda... ‹Marcello Travaglini› 49 Il sistema delle banche pecora nera dellʼeconomia locale ‹Raffaele Colangelo› 51 Uso delle droghe tra crimine e colpa ‹Simone Calice› 55 SudPosizioni Crisi dello storicismo e fine della cultura meridionalista ‹Fulvio Tessitore› 57 Questione meridionale tra realtà e rappresentazione ‹Fara Favia› 58 2 È del 1995 il film di Kassovitz, La haine (tradotto in italiano LʼOdio) in cui si descrive la vita e la carica di rabbia che si respira nelle banlieues parigine. Un film profetico che testimonia come lʼautunno di rivolte e di violenze di questʼanno fosse tuttʼaltro che imprevedibile, affonda le proprie ragioni in un disagio strutturale della società francese e sta decretando la morte definitiva di quel modello francese di integrazione sociale tanto pubblicizzato negli scorsi decenni. I protagonisti di questa rivolta, i beurs, per lo più figli di immigrati nord africani di seconda e terza generazione, francesi nati in Francia, rappresentano la faccia più scoperta del fallimento di unʼintera stagione di politiche sociali e di integrazione, la nuova jacqueries in questo medioevo culturale della globalizzazione neoliberista. La prima rivolta di questo tipo in Francia data 1990, per un paese coloniale di antica immigrazione questo vuol dire che il fenomeno di cui stiamo parlando non è il frutto della semplice marginalizzazione degli immigrati, ma qualcosa di più profondo, di diverso non paragonabile ai tradizionali processi di integrazione interetnica. Un processo che incontra i temi di una crisi sociale che è solo in parte crisi economica che va letto non solo con gli occhi di Marx ma probabilmente anche con quelli di Debord. Le stesse modalità attraverso cui si esplica, gli chasseurs, gli incendi delle automobili e dei supermercati, sembra obbedire ad una ricerca di ruolo collegata ad una ricerca di immagine; il degrado delle periferie francesi è degrado di luoghi e di immaginario, i protagonisti sono cittadini francesi che vogliono essere riconosciuti e per esserlo devono rendersi visibili. La rivolta esprime la crisi di un modello di sviluppo, quello fordista, che per quanto alienante si iscriveva in uno schema di crescita indefinita con politiche strutturali di Welfare; i processi di mondializzazione dellʼeconomia hanno fatto saltare questi schemi, le politiche neoliberiste hanno aggravato le condizioni materiali di vita, lʼemarginazione è diventata una situazione di status permanente a cui si abbina un senso di mancata prospettiva per il futuro, tutto questo su cittadini senza diritti di cittadinanza e senza una sufficiente coscienza del “per sé” in grado di costruire prospettive strategiche. Il dato più inquietante in questo quadro rimane comunque lʼassenza della politica, di una risposta, che di fatto consegna la rivolta ad una deriva senza limite che rischia di riaccendersi alla prima occasione con dinamiche disperate e perciò potenzialmente violentiste, riducendo il conflitto ad un problema di ordine pubblico. La risposta di Sarkozy per cui si tratterebbe solo di racaille, feccia, rischia di rimanere, paradossalmente, la sola risposta. In questo contesto cʼè da registrare il balbettio della sinistra tradizionale ma anche la difficoltà dei movimenti antiglobalizzazione, che pure in Francia hanno segnato una importante stagione di lotta, di cogliere il senso ed il valore di una nuova fase del conflitto sociale che parte dalla Francia, trova già i primi riscontri in Germania ed Olanda, ma che ben presto potrebbe diventare la nuova fase dei conflitti sociali delle grandi periferie urbane europee e da cui noi siamo per il momento esenti solo per un problema di tempi storici. C ultura Sinisgalli e lʼantica radice della civiltà delle macchine ANNA MARIA RIVIELLO La matematica porta d’accesso alla poesia. L’attenzione ai luoghi più che alla storia collettiva degli uomini. La Basilicata come Magna Grecia. L’infaticabile traghettatore di tanti giovani intellettuali lucani verso la città e il moderno Studiare la figura di Leonardo Sinisgalli è un compito assai stimolante che induce a riflettere sui diversi aspetti della cultura del suo tempo oltre che sulla qualità straordinaria della sua produzione letteraria. In effetti la sua precoce e acuta intelligenza delle cose scientifiche, la predisposizione alla matematica, gli consentirono un itinerario insolito per un poeta. Le tappe della sua biografia del resto evidenziano la molteplicità dei suoi interessi e la ricchezza nellʼapproccio ad ogni disciplina. Era un giovane, con la testa nei calcoli infinitesimali e in tasca il prezioso libretto di Corazzini, poeta crepuscolare morto a ventitre anni. Ma anche qui la complessità è in ogni campo, perché lʼinteresse per la scienza travalica la matematica e si fa passione per la “macchina “ ed il complesso delle norme che ne permettono creazione e funzionamento, per le diverse scienze e per le arti architettura e pittura e quella nuovissima, allʼincrocio con tutti i mutamenti decisivi del secolo, che è il design industriale e per la pubblicità. Intanto la giovanile passione per il poeta crepuscolare si allarga allo studio della poesia europea, di Valery,come lui studioso ed ammiratore di Leonardo, dei “lirici nuovi”, gli ermetici, Ungaretti ed i classici, i greci nella loro insuperabile laconicità. In questa vastità di interessi ci si potrebbe perdere ma Leonardo Sinisgalli ci offre egli stesso una cifra per iniziare un cammino di conoscenza senza sgomento. In una lettera a Gianfranco Contini del 1941, il poeta cerca di dare una definizione della poesia, una proposta che egli stesso sente come un azzardo e di cui alla fine quasi si scusa, ma che gli urge e lo convince. La poesia, scrive, è “un quantum, una forza, una estrema animazione esprimibile mediante un numero complesso a + bj; somma di un reale e di un immaginario(Cartesio); un vettore diremmo noi (...) j è il famoso operatore immaginario. Questo operatore dà un senso, un inclinazione al numero che per sua natura è orizzontale inerte e lo rende attivo, lo traduce in forza (...). Voglio dire insomma che il simbolo j ci darebbe unʼidea di quella che è lʼalterazione provocata dal linguaggio sulla realtà, del rapporto cioè tra cosa e immagine” A me pare che questa lettera che Sinisgalli invia a Contini come un pretesto per farsi ricordare da lui nel giorno del suo onomastico, ci renda conto del suo insopprimibile bisogno di poesia, che gli permette di intervenire sul reale provocandone una alterazione, perché la forza dellʼimmagine ridefinisce la cosa, ma si capisce anche che questa immaginazione creatrice è forza tellurica e cosmica insieme, è natura cui un altro sguardo pur insufficiente nella sua orizzontalità, quello del numero, anche si accosta. Dʼaltra parte in una prosa di Furor mathematicus a proposito della sfera e dellʼunico elemento che la misura, il raggio, il poeta ci mostra lʼallusività di questa parola. Essa indica qualcosa di più, la luce. È quindi misura e significato. La poesia non pare qui altro dalla scienza, è un incresparsi del puro gioco dellʼintelligenza, uno scatenarsi di forze come pure avviene in natura. Di qui forse la ragione per la quale nella sua poesia lʼattenzione è ai luoghi più che alle storia collettiva degli uomini, come se nei luoghi si leggessero meglio “le formule semplicissime che regolano il mondo”. Tra i luoghi uno è unico, il paese in cui è nato, Montemurro, le “dolci colline”, lʼ”ansa dellʼAgri”, ai “limiti bassi della terra.” Lì è la casa, quelle le colline su cui - siamo autorizzati a 3 c u l t u r a 4 Maria Padula, da “Civiltà delle Macchine” pensare - appollaiate, buffe e sinistre, le Muse gli apparvero e gli riempirono il cuore di meraviglia. Lʼessere nati in Basilicata ha significato, secolo dopo secolo, per tutti coloro che potevano seguire un corso regolare di studi uno strappo obbligato, il collegio o comunque lʼallontanamento precoce dal nucleo familiare. Scriverà più tardi lʼautore: ”Io dico qualche volta per celia che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sullʼAgri crollò unʼora dopo il nostro transito; mi convinco sempre più che tutto quanto mi è accaduto dopo di allora non mi appartiene, io sento di non aderire che con indifferenza al mio destino, alla spinta del vento, al verde, al rosso”. Per quanto Sinisgalli non rinunci mai al tono scherzoso perché in lui il senso della misura è, classicamente, più forte di tutto e produttore di autoironia, si capisce che il dolore è stato incontenibile e quasi mai davvero riassorbito. Il rapporto con la Lucania sarà anche la ricerca inappagata della ricomposizione di quello strappo che non sarà mai interamente ricucito e una nostalgia infinita dei luoghi intatti dellʼinfanzia. Ma Sinisgalli non sarà solo questo. Egli fu un protagonista di una stagione di crescita e di profondi mutamenti del nostro Paese.Quello in cui opera è un periodo descritto con molta efficacia da Rossana Rossanda nella sua recente autobiografia La ragazza del secolo scorso (Einaudi, Torino 2005). A p.238 Rossanda scrive: “Eravamo anche noi nellʼespansione seguita alla guerra. In Italia cʼera una delle più importanti fabbriche dʼautomobili dʼEuropa, la Fiat, si dilatava la siderurgia che era già pubblica (...) avevamo unʼestesa chimica, una notevole produzione di energia, gli elettrodomestici del Veneto invadevano il mercato europeo, la Olivetti era allʼavanguardia dellʼelettronica. E nel design avevamo raggiunto e sorpassato il focolaio scandinavo; architettura, design e grafica anchʼessi con radici nella Bauhaus degli anni trenta, ci rendevano più attraenti di paesi econo- C micamente forti che ancora cincischiavano con le forme dellʼOttocento”. In questo clima si realizzò quel legame tra industria e produzione artistica che Sinisgalli declinò in modo del tutto originale, con lʼautonomia del grande intellettuale e in relazione con imprenditori come Adriano Olivetti e intelligenti manager pubblici. Lʼindustria pubblica del resto, in quegli anni, svolse un importante ruolo nei settori strategici della produzione. Sinisgalli collaborò con Comunità, la rivista di Olivetti, diresse con Arturo Tofanelli quella della Pirelli, creò Civiltà delle macchine della Finmeccanica di Eugenio Luraghi, assunse lʼincarico di dirigente dei settori di Propaganda e Pubblicità dellʼENI fino alla tragica morte di Enrico Mattei. Si trattava di uomini che si rendevano conto che lʼazienda doveva produrre in primo luogo la sua immagine e che si entrava in unʼepoca in cui i beni immateriali sarebbero stati la merce più venduta. Basti ricordare che fu Sinisgalli a chiamare col nome dellʼeroina shakespeariana Giulietta una prestigiosa macchina dellʼAlfa Romeo che entrò con quel nome nellʼimmaginario degli italiani. A me pare che lʼattitudine di fondo con cui Leonardo Sinisgalli ha assolto a questo tipo di impegni sia la convinzione che la mancata relazione tra arte e tecnica fosse una perdita per entrambe ed anche per le persone che si dedicavano alle diverse attività.Civiltà delle macchine allude appunto nello stesso titolo ad una cultura che incorpori la “macchina” e di essa si nutra conservando però lʼautonomia dellʼarte. Questo si deduce non solo dalle materie che la rivista trattò (fisica e poesia, matematica e scultura, meccanica e pittura, architettura e design), ma dal modo in cui esse si intrecciano, a partire dalla dignità speciale riconosciuta alla poesia che soprattutto nella cultura italiana sembrava appartenere ad un mondo “altro”. E, infatti, non a caso il primo numero di Civiltà delle macchine si apre con una lettera di Ungaretti. La poesia rimane attività essenziale della sua vita, ricca di riconoscimenti da parte di tutto il panorama letterario dellʼepoca: Ungaretti e De Robertis, Vigorelli e Betocchi, Solmi e Pampaloni, Caproni e Cecchi, Macrì e Bellezza. Molto lo apprezzò il grande Gianfranco Contini e Luciano Anceschi lo inserì tra i suoi Lirici Nuovi nel 1942. Non vi è contraddizione tra lʼestrema modernità della cultura di Sinisgalli ed il legame con la cultura classica:”ho imparato il greco da vecchio”, scrive. Ed è la Grecia dei lirici che rivede sulle colline c u l t u r a C della sua terra, le Muse ancora le abitano. Il suo rapporto con la sua regione è filtrato anche da questo e nello stesso tempo è un rapporto attivo con i suoi poeti e con i suoi artisti. Alcuni di loro pubblicarono i loro lavori su Civiltà delle macchine, e tra i più assidui lʼallora giovane Michele Parrella. Poeti e non solo. Il noto grafico Michele Spera, potentino, da lunghissimi anni a Roma, chiude un suo libro di grafica ed autobiografico(194 storie di un segno, Ed. Socrates, Roma 1996),con una lettera tenerissima al poeta già scomparso. In essa ricorda non solo lʼattenzione verso il suo lavoro, le concrete occasioni che gli offrì (nellʼindustria e in televisione), la intelligente amicizia che gli mostrava il mondo, ma anche la sollecitudine paterna che lo spinse a recarsi a Potenza, a casa dei suoi genitori, preoccupati del futuro da artista del figlio, per rassicurarli del suo valore.”Avremo biada per cento cavalli”, disse loro, attingendo ancora una volta alla millenaria cultura contadina. In verità anche la generazione di quelli che erano giovani negli anni cinquanta e sessanta, quegli stessi intellettuali ed artisti che poterono usufruire nella loro formazione dellʼapertura culturale e dellʼinteresse sollecito del poeta di Montemurro, hanno svolto la loro attività prevalentemente fuori regione e spesso senza alcun legame con essa. Ancora una volta però, attraverso la figura di Leonardo Sinisgalli, si stabilisce un nesso tra la Basilicata e la grande cultura italiana ed europea, quel legame che rende improbabile una lettura “miserabilista” della nostra storia regionale, che tuttavia è ancora in gran parte da ricostruire. Una rinnovata attenzione alla figura di questo grande intellettuale ci ripropone il tema della praticabilità di unʼesperienza artistica ed intellettuale nella Basilicata di oggi, la possibilità cioè di intrecciare radici e futuro senza operare il taglio doloroso della distanza. La società contemporanea appare delocalizzata, la “piazza” (cioè i luoghi dello scambio e della comunicazione) è inter-etnica e virtuale. Unʼopportunità straordinaria per chi vive in luoghi appartati come il nostro, un incubo se la piazza virtuale porta lʼunico segno della cultura di volta in volta vincente mostrata a masse sterminate di spettatori senza parole, illusoriamente inclusi in un gioco che li esclude. Misurarsi con la modernità senza esserne travolti, conservare su di essa uno sguardo critico che ci permetta di estrapolarne gli elementi di un nuovo umanesimo, questa mi sembra in sintesi la lezione di Sinisgalli. E con questa eredità dobbiamo saperci oggi misurare. A casa di Leonardo GIUSEPPE ANTONELLO LEONE Arrivai a Montemurro con Maria Padula, che poi sarebbe diventata mia moglie. Quel giorno, il bagliore del suo vestito bianco contribuì a svelarmi la magia del luogo. Sinisgalli e la materialità dell’atto pittorico Nellʼestate del 1940 misi piede a Montemurro in contrada Bellivergari, zona confinante con il comune di Viggiano e distante dal paese circa sei chilometri. Sceso dalla corriera, mi sentii avvolto in una luce singolare, carica di infiniti riflessi di un azzurro intenso, araldico, irreale, da farti sentire in un luogo magico. La magia era potenziata da un vestito bianco indossato da Maria Padula, allora, collega dellʼAccademia di Belle Arti di Napoli, vestito che moltiplicava, nelle insidie dei suoi passi, rifrazioni fiabesche. Da Bellivergari, Montemurro, appariva trasparente, come di vetro, al riparo dai venti e dal fogliame di argentei ulivi. Allora, il “camposanto”, con il suo recinto di cappelle irreali, emanava serenità; serenità paesistica che nellʼintricato andirivieni dei contadini che allʼalba e al tramonto, andando e ritornando dai campi, con gli asini, i muli e le capre, copriva festosamente, con passi misurati, un silenzio da ritmare il loro tempo operoso e, da saziare, poi, con cene frugali di pane e vino di sapore biblico il meritato riposo. Un tramonto dorato, il buio, la luna, le stelle, la legna che arde, un fuoco di tizzi scatenanti scintille, gareggiano con una lucerna ad olio per un buio-silenzio per un sonno-sognante. Lʼindomani di buonora, con Maria, scendemmo a Montemurro immersi in unʼaria frizzante mista a un fumo di sapore di mirto e di orzo. In paese, il rito del “buongiorno” è celebrato da ogni passante: tanti “buon giorno”! Prima di entrare nel vicolo Padula, ci fermammo ed entrammo nella casa paterna di Leonardo Sinisgalli, ci accolsero il padre Vito e le sorelle Anna ed Enza, una festa… animata da un fuoco di legna di quercia e da fiamme elettrizzate da tralci di vite; Anna ci offrì 5 c u l t u r a C Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Antonello Leone biscotti con mandorle da inzuppare nellʼorzo e tante notizie su Leonardo Sinisgalli arricchite con altri puntigli della sorella Enza. Maria, poi, una volta entrata in casa, aperti i balconi mi indicò il giardino di Leonardo che confinava con il suo: mi parlò dellʼingegnere poeta già noto; di un giovane straordinario per la sua cultura, ma soprattutto del suo estro eccezionale e per le mille curiosità del “fare” dei vari mestieri, espressi con abilità manuale, dai vari artigiani e, di come egli, invece, confessava di trovare difficoltà a martellare su un chiodo. Ne fui terribilmente abbagliato. Intanto già il fabbro maniscalco, con i suoi “terzi”, battevano mazza e martelli sullʼincudine per modellare ferri da applicare alle zampe di asini e muli, rompendo un silenzio da mito e svegliando freneticamente i pigri dormienti. Subii il richiamo di quel luogo. Montemurro aveva dato i natali a uomini illustri e a pittori come Gian Tommaso, Matteo e Gian Giacomo Manecchia e la figlia pittrice Anna Maria, Sebastiano e Carlo Sellitto, al filosofo illuminista Giuseppe Capocasale, a Giacinto Albi- 6 ni, ma era anche un territorio drammaticamente scosso da un terribile terremoto nel 1857 e da una frana devastante nel 1907. E, come se non bastasse, il centro è circoscritto da due fossi minacciosi. Eppure in quei giorni di unʼestate degli anni quaranta capii profondamente Maria Padula, i suoi conterranei viventi sotto quel cielo elettrizzante, nella malia della Val dʼAgri prima della realizzazione del lago del Pertusillo. Mi sentii anchʼio illuminato, stregato, dal niente e dal magico degli argentei ulivi. Intanto la guerra incalzava e i sogni franavano per ignoti destini. Nel 1945, già sposato con Maria Padula (il primo figlio Nicola Giuliano aveva due anni), congedato dal servizio militare ritornai a Montemurro per accendere, con Maria, il sogno di essere pittori dʼarte sacra. Fu allora che, finalmente, mi incontrai con Leonardo. Sui muri della nostra casa che guardavano il giardino, avevo preparato diverse zone, con piani predisposti a prove di affresco: Leonardo, che aveva spiato dallʼangolo del suo giardino che dava sulla valle, venne a farmi visita per sgranare gli occhi e toccare con mano quei provini e rendersi conto dellʼintrigo reale di un buon affresco. Mi stupii quando lʼingegnere-poeta mi disse: “Posso assaporare con una pennellata sullʼintonaco cosʼè la pelle di un affresco?” Naturalmente dissi di si. Dopo due, tre pennellate date con timore e curiosità misteriosa esclamò ”È stupendo!”. Poi mi chiese dei miei maestri, con un certo disordine glieli elencai: Pietro Gaudenzi, Eugenio Scorzelli, Emilio Notte, Pietro Barilà, Eugenio Viti, Mino Maccari. “Maccari? Quella ʻlenzaʼ - mi disse - è un mio carissimo amico”: Fu così che davanti a quellʼintonaco a Montemurro, vennero fuori tanti suoi amici: De Chirico, Mafai Pirandello, Cesetti, Avenale e tanti altri. Intanto Leonardo incuriosito volle toccare la sabbia lavata del fiume Agri, la calce spenta da anni, conoscere le dosi per lʼarriccio e quelle per lʼintonaco. Fu Leonardo che mi parlò di Ferruccio Terrazzi per quella forza primordiale dellʼaffresco e della sua stupenda arcaicità. c u l t u r a Maria Padula, da “Civiltà delle Macchine” C Quando gli parlai della magia che genera lʼacqua e del come, dal suo dosaggio per ottenere “il vetro freddo” sulla superficie dei colori sollecitando la reazione dei silicati con la calce intrisa, anche se in minima parte, di una percentuale di soda, Leonardo si trasformò miticamente in un nobile etrusco e a bracce semicurve racchiuse i miei provini. Negli anni, ogni estate, con la venuta a Montemurro di Giorgia, compagna di Leonardo, si consolidò quel sodalizio già vivo con le famiglie Lacorazza e Sinisgalli: zia Gerolomina Lacorazza era come una zia anche per Maria. Le visite di Leonardo, con Rosina Padula, madre adottiva di Maria, erano frequenti: Maria fu anche madre di latte del cugino più vicino e più amato da Leonardo, Vincenzo Lacorazza, vivacissimo giornalista, spesso spalla di Leonardo, nel rinverdire e aggiornarlo sui vari accadimenti in val dʼAgri e in Basilicata. Con Vincenzo si percorrevano forre e calanchi, si frequentavano trattorie tipiche e, più volte, si visitava la Certosa di Padula di cui Leonardo Sinisgalli era misteriosamente innamorato. Leonardo sentiva fortemente il fascino italico e italiota di luoghi come Paestum, Velia, Palinuro, Metaponto; erano per lui “lʼalbero bianco”, la “rosa nera”, la meraviglia di un passato-presente. Leonardo aveva a Belliboschi la “quercia” delle sue muse: sentiva nel fuoco ossidarsi la terra rossa di Moliterno, in quel nero, che i figulai armentesi moltiplicavano nel narrato mitico della ceramica lucana. Leonardo, sì, amava la “carta stampata”, metafora e realtà delle metropoli, ma sapeva che - come scrisse - “non aveva trovato la sua patria fuori dalle nostre colline” Ecco perché sosto, sosto con Leonardo, dove io, forse, ho trovato la mia patria. Intanto con Leonardo ci siamo visti più volte a Roma per Civiltà delle Macchine, in via Torino, 44, nel 1955. Nelle pagine interne della rivista, mie tavole in nero si susseguono con quelle di Emilio Scanalino, Mantica e Molteni, i ragazzi di Grottamurella, Gianfilippo Usellini, Mino Maccari, e Bruno Caruso. Così, poi, nel numero della rivista di luglioagosto del 1956, Leonardo mi dà lʼonore di pubblicare a pagina 79, nella rubrica “Semaforo”, Verso lʼavvenire, una mia stagnola minimale. Leonardo evidenzia come io, dopo una preparazione accademica , mi trovo nellʼarea mediterranea col mio vero puntiglio: “(…) si ritorna dopo anni, quasi distratti a contorcere stagnole: mi pare di essere un ragno in fondo alla tela in attesa di una piccola mosca per saziare i lunghi digiuni: così i miei pezzi di pane, le mie cortecce di pino, le mie veneri di scorze di faggio, i miei poveri monaci costretti con ritagli di legno, stanno con queste stagnole lampeggianti di linee e di piani a indovinare il momento in cui io pure potrò saziarmi del mio pane”. Sinisgalli, già nel febbraio del 1948, è attento ai mutamenti linguistici emozionanti, che nellʼintrico delle avanguardie, nellʼavventura esplorativa dei linguaggi superati, si avvia a “prestiti per dare credibilità a nuovi segni a nuovi orizzonti”. “Da annotare - scrive - che in questo mondo le monete vili cacciano via le monete buone”. Per Leonardo lʼautonomia dellʼattività culturale, a sostegno dei valori radicali, stimolanti per una dialettica innovativa 7 c u l t u r a dellʼimmaginazione, è un valore assoluto per dare senso ai linguaggi nuovi, “mutare le spinte dellʼimpotenza” informale anche negli artisti naif per lʼimprevedibile sorpresa immaginativa, atta ad oltrepassare il convenzionale, dando sostanza al seme innovativo, per una cultura che nellʼinconscio surreale decifra il possibile dellʼerrore, come ponte al potere dellʼimmagine, fermo restando che per Leonardo lʼintemperia esistenziale della vita è di “tutti i giorni”. La storia incantevole, immutabile di un vecchio paese “deve pur sempre fare i conti con una oggettiva complessa realtà sociale”. Leonardo Sinisgalli, dice ancora per la presentazione alla Galleria del Vantaggio a Roma nel 1959 dei dipinti di Nicola Leone, mio padre,“Siamo rimasti in pochi a incoraggiare queste manifestazioni innocenti”. Intanto, Leonardo, poi, con Mario Trufelli ai primi di ottobre 1978, venne a Pratola Serra a rivedere i dipinti di “mastro” Nicola, ne fu “entusiasta:” i racconti, la storia del ciabattino e del cane, del ladro, del sarto, del bottaio, dellʼarrotino, la favola del lupo e del mastino, furono evidenziate, con alta poesia da Leonardo nel documentario che Rai due trasmise per “cronache Italiane” il 26 ottobre a testimonianza che “ i segreti di questi uomini solitari incantano ancora”. Infine, Leonardo prendeva lʼascensore per lʼincontro con altre visioni, altri suoni, altri colori, altro potere immaginativo, coinvolgendo surrealismo, dadaismo, pubblicità, guerriglia culturale o potenziando un totale cromatico nellʼassoluto dʼuna avanguardia volumetrica, rarefatta nei rossi di Scipione in quel suo cardinale capace di evidenziare, con leggi cromatiche, una concreta storia segreta. Leonardo, governa le sue memorie con lʼemersione di una innocenza che si fa adulta, oltre la sabbia, oltre il neon, oltre le querce: torna a montare le tende nella vigna del padre. Torna a battere le monete rosse negli spazi-piazza degli uomini; Leonardo torna a misurare il tempo con lʼombra del sole, in piazza San Giacomo nellʼorto di Merola, a Gannano per la via del Carmine: perché il fanciullo con i capelli bianchi ora disegna gli ulivi, lʼalbero bianco, le piccole case, le finestre aperte e socchiuse. In piazza Giacinto Albini interroga gli astri, sorride alla luna. Roma felliniana, scolorita, ha pietre dʼincanto e a Montemurro con la sua terra arida, fiorisce grano duro per pane durevole, così la penna incide sulla carta distanze tremanti, liberamente sognanti, le poche cose necessarie, per immaginare la Madonna svernante. Il segno di Leonardo si fa viaggio, imprime, disseta lʼarsura di una terra cretosa, ma che dà frutti di raro sapore. Ora i disegni di Leonardo, innocenti, aprono distanze da sogno, contro ogni bisogno per una festa non fatta con i ragazzi di Montemurro, ma molto sognata: mi voleva complice con Dorfles per quel percorso futuro, distanza profetica, che è vera solo nellʼinnocenza del segno. 8 C Un Pitagora del Novecento VITO RIVIELLO Nellʼepoca delle crisi delle “definizioni”, classificare un poeta-matematico come Leonardo Sinisgalli di Montemurro in cui nacque nel 1908, diventa quasi impossibile. Anche perchè lʼattività di matematico non fu da meno di quella di poeta, ed entrambe si rivelarono in “stato di grazia e furore”. È nella sua militanza intellettuale ed artistica che i diversi interessi convergono, matematicamente e poeticamente parlando, in unʼintegrazione, appunto, complessa e “rumorosa” tra le due culture, umanistica e scientifica. Verrà il momento in cui la figura di Sinisgalli verrà letta con un nuovo atteggiamento critico, necessario per interpretare questo “anomalo” poeta dei massimi e minimi sistemi, vissuto nel contesto della poesia del suo tempo, dogmatico e naif. Ecco Leonardo, direttore negli anni cinquanta di una rivista prestigiosa di fama internazionale Civiltà delle macchine, che ospitava poeti, fisici nucleari, pittori e artisti visivi insieme a ingegneri elettronici e matematici puri, senza pregiudizi, senza timori formali. Erano gli anni in cui Leonardo viveva, quelli della poesia ermetica di Ungaretti e Montale, di Quasimodo, dellʼindipendenza inquieta di maestri come Saba, Betocchi, Gatto, ameni simbolisti italiani, che raccoglievano instancabili e appassionati le istanze di rinnovamento formale e ideologico della cultura italiana, rovesciavano gli schemi ottocenteschi, facevano a meno della rima. Leonardo scrive in quegli anni, in cui il culto della parola raggiunge il vertice e il grado più alto, nellʼ”ermetico”, nel quale sono contenuti, secondo i poeti, quei significati aracani, plurimi che costringono ad una visione più complessa, ad una dichiarazione dellʼesistenza in forma di parole una e molteplice per spiegare o tentare di dispiegare la realtà. c u l t u r a C Il libro di Gianni Lacorazza Il meccano dellʼanima LORENZA COLICIGNO Leonardo cercò di mescolare la sua passione per gli arcani simbolisti Valery e Mallarmè con la memoria pitagorica. Nel suo percorso incontrò anche il Neorealismo e conservò la sua individuale specificità accettando la vaga definizione di post ermetico. Il poeta lucano pitagprico, partì da un sud lontano e mitologico, per tornare ad un sud più accessibile seppure fatto e disfatto dal mito. Fece della poesia un teorema plausibile trasferendo il numero nel verso più terso, conobbe lʼarte e lʼarchitettura. Non vi fu una sola Lucania per lui, ma tante Lucanie, evocate, smarrite nei teoremi, rintracciate sulle tavole pitagoriche su cui scrisse un poema di un sud trasversale e da un certo punto di vista, categorico. Ma non svanirono mai le Lucanie, anche quando se ne andò, perchè la tensione intellettuale, la rigorosa coscienza non gli permisero mai di dichiarare “perduta” nessuna terra, nessuna scrittura, nessuna storia . La Lucania è metafora di una storia prodigiosa di lettere e nuemeri, di macchine, di immagini, in una dimensione senza tempo né spazio, in una visione etica dellla Storia, in cui il pensiero dellʼuomo si stacca, prende distanza per fondare congegni utili, parole inutili, in un tripudio di commistioni affascinanti, a volte misteriose. Questo è un ritratto, non accademico, dallʼamico maestro di Montemurro. Di lui conservo con uguale amore il ricordo sempre attualizzato della sua azione paterna mai paternalistica, sulla mia giovane vita di poeta, pubblicando i miei primi versi di ricerca su Civiltà delle Macchine, scrivendomi letterine e incoraggiamenti preziosi ed esaltandomi con nomi “agnatizi” quali “mio” Radiguet! Gianni Lacorazza ha affrontato, in un saggio dal titolo davvero intrigante e pienamente semantico “meccanima” (Gianni Lacorazza, Meccanima, Consiglio Regionale della Basilicata, Potenza 2005), un tema che ha una lunga storia nella cultura occidentale, in particolare in Italia, ed è quello del rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica. Il saggio ruota intorno ad un personaggio, Leonardo Sinisgalli, che molto ha dato alla cultura lucana, e molto ha anche ricevuto in studi e convegni, rappresentando un punto di riferimento per la sua qualità culturale, ovviamente, ma anche per essere diventato il simbolo di un Sud capace di superare brillantemente i suoi confini. Oggetto della ricerca su cui è costruito il saggio è Civiltà delle macchine, rivista della Finmeccanica di cui Sinisgalli fu direttore dal ʼ53 al ʻ58, “passata alla storia come la rivista delle ʻdue culturÈ”, così come Leonardo Sinisgalli, il poeta-ingegnere, è passato alla storia come lʼintellettuale delle “due culture”. Anche lʼItalia, in fondo, è la nazione delle “due culture”, afferma Lacorazza, che dà al suo ragionamento, per altro riccamente documentato, unʼimpostazione ampia, tale che Meccanima diventa anche il luogo in cui si affronta il nodo Nord-Sud, con inevitabili e costanti riferimenti alla “questione meridionale”. Lʼanalisi del contesto in cui operò Sinisgalli inizia dagli anni ʼ30: “Persico, Gatto, Carrieri, Cantatore, Quasimodo e tanti altri - scrive Lacorazza - erano a Milano in quegli anni; provenienti da tutta la penisola, la maggior parte dal sud, avevano trovato asilo culturale nel capoluogo lombardo, ormai divenuto per antonomasia il luogo che permetteva di valorizzare le qualità e le possibilità di un individuo. Tra questi, anche Leonardo Sinisgalli approdò a Milano, con la sua laurea fresca in tasca, e strinse rapporti con quelli che diventarono ben presto i suoi 9 c u l t u r a amici, i suoi compagni di viaggio (…). Erano gli anni in cui arrivava dallʼEuropa il vento della Bauhaus, con le innovazioni del ʻdesign di tuttiʼ e le sue idee di produzione in cui erano determinanti, fra gli altri, personaggi come Gropius, Paul Klee e Kandinsky. Gli artisti, gli architetti e i designer trovavano, nelle sue linee, elementi che li avvicinavano agli industriali, ai progettisti, ai tecnici ed ai matematici in modo nuovo, segnando il passaggio dalla cultura degli oggetti artigianali a quella degli oggetti industriali passando per le idee, per lʼistinto di menti eccelse”. Il passaggio al decennio successivo e alla seconda guerra mondiale sposta il discorso dal panorama culturale a quello economico e politico: “La guerra costituì unʼoccasione a vantaggio del ricco nord, poiché lʼenorme quantità di commessa bellica era stata indirizzata quasi esclusivamente alle grandi potenze industriali che avevano maggiore contatto con lʼEuropa continentale. Ciò ha sviluppato il doppio effetto di vedere, da una parte, lo sviluppo economico e tecnologico dellʼindustria settentrionale e lʼimpiego di manodopera operaia di cui necessitava, sottraendola alla guerra. Dallʼaltra parte, invece, le conseguenze si sono riversate irrimediabilmente sul Mezzogiorno che, avendo unʼeconomia ancora prettamente rurale, non ha beneficiato dello sviluppo di guerra ma si è addirittura visto sottrarre gran parte della forza lavoro dei giovani arruolati per combattere. La seconda guerra mondiale, dunque, altro non è stata che lʼennesimo evento storico che ha contribuito a far allargare la pesante e discriminante forbice in un paese in cui da sempre esistono due economie profondamente diverse tra loro. Tra i tanti, anche Leonardo Sinisgalli si trovò pienamente coinvolto nella ʻquestione meridionalÈ e, più di altri, egli aveva subito il trauma dellʼemigrazione già alla tenera età di nove anni (...). Studiare non era possibile e per i pochi capaci non restava che allontanarsi da casa, definitivamente. Questo distacco segnerà per sempre la vita di Sinisgalli che ha portato con sé, in ogni scritto come in ogni pensiero, il dualismo nord-sud, cercando di far coesistere la natura tecnologica ed economica del primo con la forza della tradizione e il calore del secondo. Civiltà delle Macchine non rimase esente da questa coesistenza di meridionalità inconscia e settentrionalità acquisita del suo direttore; con la rivista, infatti, collaborarono i più calorosi poeti, pittori e scrittori mediterranei ed i più importanti tecnici e scienziati, di estrazione prevalentemente settentrionale. In fondo è lo stesso direttore ad avere in sé questo dualismo: lʼarte di Sinisgalli è figlia, infatti, del suo luogo di nascita Montemurro, mentre il suo ʻlato tecnicoʼ è espressione principalmente delle esperienze fuori le mura.”. Il pregevole lavoro di Gianni Lacorazza è corredato, come si diceva, dalla riproduzione delle copertine e dei sommari del periodico della Finmeccanica, dai quali si rileva lʼampiezza degli orizzonti culturali, segnalata dai temi trattati e dai nomi 10 C dei collaboratori. “Tutto ciò che riguardava il mondo scientifico - afferma Lacorazza - vedeva Civiltà delle Macchine attenta a seguirne i mutamenti. Eppure il periodico della Finmeccanica si distinse da subito anche come una rivista artistico-letteraria di notevole spessore. Pittori, poeti, scultori e architetti furono presenti in ogni numero con articoli di cui erano, alternatamente, argomento o autori, firmando spesso servizi che poco avevano a che fare, apparentemente, con lʼarte e la letteratura. Poesie, personali di pittura, nuove pubblicazioni ed opere dʼarte venivano seguite da Sinisgalli con la stessa attenzione dedicata a qualunque altro argomento e qualunque altro grande nome della conoscenza, sia scientifica che umanistica.”. Un atteggiamento culturale, dunque, quello di Leonardo Sinisgalli, che, attraverso la rilettura di Gianni Lacorazza, diventa stimolo a riprendere una discussione sempre attuale; oggi più che mai, oggi che la riforma della scuola voluta dalla Moratti ripristina la frattura tra formazione professionale e formazione liceale, minando alle radici il processo di sintesi tra cultura umanistica e cultura scientifica, che non può che basarsi su una formazione scolastica democratica e non settoriale. Lorenza Colicigno c u l t u r a C Egemonia e questione meridionale in Gramsci FABIO VANDER Alcune considerazioni su teoria e azione politica negli anni precedenti al carcere. Il rapporto tra operai e contadini e la costruzione della nazione italiana. La svolta cruciale del fascismo La riflessione di Gramsci sulla “quistione meridionale” ha un valore non solo sociologico o politico in senso stretto, ma un valore strategico, che riguarda direttamente la natura della politica e della rivoluzione in Occidente. Tanto più che il momento teorico è sempre connesso in Gramsci ad una precisa analisi della storia sociale e politica dellʼItalia post-unitaria, come risulta dagli scritti sulla questione meridionale del periodo pre-carcerario (1919-1926) recentemente ripubblicati1. Il primo dato che emerge già dagli interventi dellʼimmediato dopoguerra è che il movimento operaio in Italia non era stato storicamente capace di esprimere una sua egemonia, cioè una politica autonoma e nazionale, un limite che andava ad aggiungersi ad alcuni difetti di fondo della storia nazionale, formando con essi un unico grumo di problemi. LʼItalia era infatti inserita nella lista dei paesi (Russia, Francia, Spagna) che Gramsci definiva “capitalisticamente arretrati”, cioè segnati da una “netta separazione” fra città e campagna, industria ed agricoltura, di conseguenza fra “operai” e “contadini”. La scissione era particolarmente dramamtica nel Mezzogiorno. Qui infatti il contadino si era storicamente percepito come “servo della gleba”, a fronte ad un “signore” medievale, cui aveva potuto opporre solo il “brigantaggio” o forme di “terrorismo elementare”2. Mai insomma unʼazione politica di emancipazione, ma impotenti e sporadiche manifestazioni di “violenza”. Da questo contesto risultava poi segnata lʼimpostazione del problema, teorico e pratico, della politica. Come poteva il movimento operaio invertire questo stato di cose? Come far maturare forme adeguate di organizzazione e di coscienza politica? Il problema di un autonomo protagonismo delle masse popolari era divenuto tanto più impellente dopo la prima guerra mondiale, che aveva costituito uno spartiacque. Già nella Russia dei soviet, dove masse di contadini per secoli servi, erano state protagoniste della rivoluzione, ma anche in Italia, dove la “vita in comune in trincea” aveva favorito quella fraternizzazione fra operai e contadini che per Gramsci poteva essere il presupposto di una nuova politica socialista. Questo è il punto. Sin dal 1919 Gramsci aveva chiaro che ogni possibile futura “egemonia” di sinistra implicava lʼunità di operai e contadini, lʼunica capace di portare questi ultimi oltre una condizione di isolamento, passività, vocazione al “tumulto incomposto” e al “disordine caotico”. Questo progetto però chiedeva un passo in avanti non solo ai contadini, ma anche agli operai. Che dovevano abbandonare le posizioni subalterne e corporative del riformismo settentrionale ovvero ogni forma di “collaborazione coi partiti borghesi”3, eredità del trasformismo giolittiano e del patto Turati-Giolitti. Questa la ragione, tutta politica e niente affatto ideologica, della critica gramsciana al riformismo. Il quadro si era per altro complicato con il fascismo. Il ʻblocco storicoʼ che il liberalismo aveva realizzato ʻcon le buonÈ, Mussolini lo realizzò ʻcon le cattivÈ. Lʼintegrazione delle masse popolari nello stato centralizzato fu perseguita in forme autoritarie anche se, notava acutamente Gramsci, allʼinsegna di una continuità di fondo con il vecchio “collaborazionismo” dellʼItalia liberale. In un importante saggio del 1924, Il Mezzogiorno e il fascismo, Gramsci scriveva infatti che se nei primi anni del regime Mus- 11 c u l t u r a solini aveva finto di mantenere le forme costuituzionali, lo aveva fatto per irretire personalità potenzialmente refrattarie (come De Nicola, Orlando, Amendola, lo stesso Giolitti), continuando con loro ad “applicare la tattica giolittiana” di sussunzione subalterna delle masse4. Per questo ancora nel 1924 (prima dellʼuccisione di Matteotti) il fascismo non aveva assunto caratteri totalitari, perché aveva interesse a coltivare posizioni conservatrici come quelle della Stampa o del Corriere della Sera e dei potentati che li sostenevano. Il giornale torinese poteva così continuare ad auspicare “un governo radicale-socialista come possibile successore del fascismo”, in altre parole con “lʼentrata dellʼaristocrazia operaia nel sistema di egemonia governativa settentrionalepiemontese, cercava di ottenere che le forze rivoluzionarie del Mezzogiorno fossero decapitate nazionalmente”5. In questa ricostruzione gramsciana la parola chiave è “egemonia”: a quella della destra (conservatrice o autoritaria) che puntava a “decapitare” il movimento operaio e contadino, bisogna opporne unʼaltra. Diversa per altro anche da quella promossa dal Corriere della Sera che, appoggiando “Salandra e Nitti, i due primi presidenti meridionali”, aveva auspicato lʼ“alleanza coi riformisti, ma solo dopo il passaggio di costoro sotto molte forze caudine; il Corriere vuole un governo Amendola, cioè che la piccola borghesia meridionale e non lʼaristocrazia operaia del Nord entri ufficialmente a far parte del sistema di forze realmente dominanti: vuole in Italia una democrazia rurale”6. Come si vede unʼanalisi acuta e articolata; allʼaltezza del 1924 erano individuate almeno tre egemonie di parte borghese: quella della Stampa (“più di sinistra”), quella del Corriere (“più attaccato al conservatorismo”), infine quella fascista. Di lì a pochi mesi, con lʼomicidio Matteotti, il fascismo avrebbe imposto “col 12 ferro e col fuoco” la propria “egemonia”, il suo modello di integrazione totalitaria del Paese. Gramsci ebbe subito la percezione della profondità della svolta. Già nel saggio La crisi italiana del settembre 1924 analizzava i caratteri del nuovo blocco autoritario. La “marcia su Roma” era da lui letta come la mera “parata coreografica dʼun processo molecolare (corsivo mio) per cui le forze reali dello Stato borghese (esercito, magistratura, polizia, giornali, Vaticano, massoneria, corte, ecc.) sono passate dalla parte del fascismo”7. Notare il concetto di “processo molecolare” che, come “egemonia”, ritornerà sistematicamente nei Quaderni, a conferma della continuità di un pensiero in evoluzione e “Gramsci nel quale il motivo della comebbe subito posizione e scomposizione di blocchi sociali e politici è un la percezione criterio decisivo ed esaustivo della profondità per lʼintelligenza della politica della svolta e della sua storia. Tanto più urgente diveniva operata dal dunque contrapporre a questo fascismo” blocco un altro. Alternativo e centrato sullʼunità operai-contadini; se lʼavanguardia operaia non realizzava “un sistema di alleati nel Mezzogiorno” rischiava infatti di ricadere nel “fallimento della rivoluzione degli anni 1919-ʻ20”. Così dicendo Gramsci si mostrava capace non solo di criticare i socialisti per la loro subalternità a Giolitti, ma anche di autocritica con riferimento al fallimento dellʼesperienza dei Consigli appunto nel biennio ʻ19-ʻ20. Ed era unʼautocritica profonda, che ammetteva una sconfitta strategica, di egemonia appunto: “nel 1920 la classe operaia aveva fallito nel suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana”8. Qui sembrano interagire entrambi i fondamentali concetti di egemonia e rivoluzione in Occidente; nel senso che è chiaro che il movimento operaio C c u l t u r a C ha bisogno di un articolato sistema di alleanze (di cui essere forza dirigente), ma anche di “creare uno Stato” che non sia immediatamente rivoluzionario, di classe (come nella Russia bolscevica), ma che esprima lʼinsieme delle “esigenze nazionali unitarie”. Rivoluzione in Occidente significa allora che il partito comunista non punta alla rottura rivoluzionaria, allʼ“ora X” dellʼinsurrezione, ma intende svolgere un “compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori e di trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico”9. E “trasformazione molecolare” significa guerra di posizione, lotta politica che solo nel lungo periodo assicura “il passaggio a una fase successiva di sviluppo”. Nella costruzione del nuovo blocco restava poi centrale la questione contadina, dato che il proletariato industriale in Italia era “una minoranza della popolazione” cui era indispensabile “un sistema di alleati nel Mezzogiorno”, costituito dal ceto medio, dai “tecnici” e dagli intellettuali, ma soprattutto dai contadini. Certo era un compito difficile, se infatti il movimento contadino del Nord aveva comunque una sua tradizione di organizzazione e di peso politico (Gramsci ricordava anche i “contadini cattolici” e il ruolo svolto “dallʼAzione cattolica e dallʼapparato ecclesiastico in generale”), al Sud la situazione era particolare, si presentava “come una immensa campagna di fronte allʼItalia del Nord, che funziona come una immensa città”10. In questo senso la “quistione meridionale” era una peculiare “quistione nazionale”; ne andava del futuro del Paese, del modo in cui riformulare i rapporti città-campagna, industria-agricoltura, ricchezza-povertà. Tornava il problema dellʼ“egemonia”. Se il recente “passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo” aveva integrato il nuovo blocco autoritario, per il movimento operaio rivolgersi ai contadini meridionali significava “sottrarli definitivamente al- lʼinfluenza borghese agraria”, offrendo loro diverse alleanze e una diversa prospettiva. La politica per Gramsci è sempre lotta ovvero alternativa di “egemonie”. Nel celebre scritto, interrotto per lʼarresto di Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, tornava diffusamente sullʼ“egemonia del proletariato”, cioè sul “sistema di alleanze” indispensabile perché “il proletariato possa diventare classe dirigente e dominante”11. Ripeteva che il proletariato “poteva costruire il socialismo” solo se riusciva a rappresentare “la maggioranza della popolazione”, a cominciare dai “contadini e dagli intellettuali”. Per questo era però indispensabile e preliminare una critica serrata dei grandi intellettuali meridionali, da Benedetto Croce a Giustino Fortunato. Essi avevano infatti svolto una rilevante funzione di supplenza rispetto alle grandi organizzazioni politiche che al Sud erano mancate. Lʼ“altissima funzione ʻnazionalÈ” di questi intellettuali 13 c u l t u r a era precisamente consistita nel fungere da “intermediari” fra grandi proprietari terrieri e lavoratori delle campagne: avevano “distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, ed attraverso questa cultura li avevano fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario”12. I grandi intellettuali meridionali erano stati insomma i vettori della integrazione subalterna della masse contadine e degli intellettuali del Sud. Nessuna pregiudiziale dunque contro Croce o Fortunato13, ma la critica di un preciso ruolo storico. Ecco dunque i termini della contro-egemonia a cui il Partito comunista era chiamato: fare del “proletariato urbano” il “protagonista” di un nuovo “blocco storico” che mettesse i contadini e unʼaltra leva intellettuale (fa i nomi di Gobetti e Dorso) a parte di un progetto alternativo di superamento di quella “grande disgregazione sociale” che storicamente è stato il Mezzogiorno dʼItalia. Note 1 A. Gramsci, La questione meridionale, Roma, Editori Riuniti, 2005. Non si può mancare di segnalare che si tratta di una edizione assai poco curata, piena di errori tipografici e refusi. 2 Gramsci, Operai e contadini (agosto 1919), ivi, p. 74. 3 Gramsci, Operai e contadini (febbraio 1920), ivi, p. 91. 4 Gramsci, Il Mezzogiorno e il fascismo (marzo 1924), ivi, p. 98. 5 Ivi, p. 99. 6 Ivi, p. 100. 7 Gramsci, La crisi italiana (settembre 1924), ivi, p. 118. 8 Ivi, p. 107. 9 Ivi, p. 122. C Gramsci, La relazione di Gramsci al III Congresso del Partito comunista dʼItalia (Lione) (febbraio 1926), ivi, p. 149. 11 Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale (1926), ivi, p. 159. 12 Ivi, p. 186. 13 Gramsci anzi riconosce che il gruppo di “Ordine Nuovo”, da cui prese le mosse il nuovo gruppo dirigente del PCI uscito vincente dal Congresso di Lione, era stato influenzato da Croce e Fortunato. Cʼera poi stata una “rottura completa” (Ivi, p. 186), ma solo in seguito alla scoperta della funzione peculiare da loro appunto svolta a favore del blocco sociale dominante. 10 Soc. Coop. ar.l. Villaggio Positano IMPRESA GENERALE COSTRUZIONI VIA S.S. 93 85028 RIONERO IN VULTURE Tel. 0972 720372 - Fax 0972 723428 14 c u l t u r a C Chiummiento e “La Basilicata” un giornalista per bene e quasi sconosciuto TOMMASO RUSSO Le note che seguono hanno il duplice scopo di tratteggiare, in estrema sintesi, il profilo biografico, politico e professionale del direttore del giornale La Basilicata con un occhio agli anni dellʼesilio argentino attraverso il fascicolo personale esistente nel Casellario Politico Centrale; di fotografare la composizione sociale e la dislocazione geografica dei 608 abbonati i cui nominativi furono sequestrati tra il 23 agosto e il 9 settembre 1925 per ordine di Ernesto Reale prefetto di Potenza. Un anno dopo il delitto Matteotti che svelò le pesanti responsabilità del fascismo nella uccisione del leader socialista, Mussolini operò un ulteriore giro di vite sulla stampa con lo scopo di asservirla sempre più allʼEsecutivo. La sequenza dei regi decreti ne ricostruisce la volontà persecutoria: R.D. del 15 luglio 1923; R.D. del 10 luglio 1924; Legge del 31 dicembre 1925. Evidentemente il sequestro dellʼelenco degli abbonati oltreché una possibilità di conoscere nominativamente gli oppositori, era anche un transito necessario e preparatorio al più generale progetto di soppressione della libertà di stampa che passava altresì attraverso il bavaglio di quella locale.1 Giuseppe Canio Chiummiento nacque ad Acerenza e morì a Buenos Aires (1888-1941). Quando la morte lo colse aveva già da tempo espresso la volontà di essere cremato. Se questo suo desiderio, allo stato attuale delle ricerche, non costituisce prova sicura di una sua appartenza alla Massoneria è certamente indizio rivelatore di una sua formazione culturale laica e massonica. Del resto la rete delle Logge in Argentina era ampia e in esse vi erano iscritti numerosi italiani con cui il Nostro sicuramente ebbe conoscenze e frequentazioni. Una indiret- ta conferma pare essere contenuta nel “telespresso (N 3919)” dellʼAmbasciata italiana nella capitale argentina che, nellʼannunciare la morte di G.C. Chiummiento, al Gabinetto del Min.Cul.Pop., dice “…è deceduto in Buenos Aires il giornalista italiano Giuseppe Chiummiento, nato nel 1888 in Lucania, e proveniente dal settore demomassonico della stampa napoletana”. Aveva due anni quando perse entrambi i genitori. Il padre insegnante elementare, la madre donna sensibile e acculturata formano il quadro del tempo di una piccola borghesia di paese agiata e colta, severa e solida; il milieu culturale e comportamentale che avrebbero potuto costruire se fossero vissuti non potè essere assunto come reticolo di trasmissione formativa da Giuseppe che invece crebbe con i nonni. I suoi studi non furono sempre ordinati e lineari e si svolsero tra Matera, Potenza e Napoli. Qui dopo aver conseguito il diploma, naturalmente al Liceo, si iscrisse a Lettere nellʼateneo federiciano che nei decenni a cavaliere tra Otto e Novecento sembrava essere tornato agli splendori dʼantan. Pur nel suo affettuoso disordine, questo percorso di studi ripropone il dejà vu di tanti intellettuali lucani i quali partiti dai loro comunelli giunsero nel gran cuore partenopeo che per molti fu trampolino di lancio verso orizzonti di più ampia fama. Il mondo culturale napoletano gravitante tra lʼuniversità e il giornalismo, tra i circoli letterari e le passioni politiche catturò il giovane studente che così cominciò a fare le sue prime esperienze giornalistiche allʼinizio sul Pungolo e poi sul Mattino. Eʼ appena il caso di ricordare che per effetto di questa magia, Chiummiento non conseguì nessuna laurea. La “professionalizzazione” per questa 15 c u l t u r a sua scelta di vita e di lavoro avvenne ovviamente con il battesimo a Milano che lo vide redattore del giornale La Lombardia dal 1911. Il livello di professionalità e la conoscenza del mestiere gli permisero di vivere con lo stipendio derivante dal suo lavoro di giornalista. La formazione politica e culturale che venne maturando negli anni giovanili e a contatto con diversi ambienti, lo portò ad essere fedele alla monarchia come scelta istituzionale, alla Patria pur senza essere mai nazionalista quantunque dalla guerra di Libia e fino alla Grande Guerra sostenesse la necessità per lʼItalia di partecipare ai conflitti bellici. Si può, dunque, dire di essere di fronte a un interventista liberale e non nazionalista, come Nitti del resto, consapevole della necessità che si compissero alcuni eventi storici di ampio respiro per poter dare così completezza a una certa idea di Italia. E a questa idea di Patria restò sempre fedele nonostante qualche tentativo di strumentalizzazione fatto dai Servizi e dalla polizia un anno prima della sua morte. La fine della guerra ʼ15-18, a cui aveva preso parte, dette adito per una ripresa dei contatti e dei rapporti con gli ambienti del liberalismo e del radicalismo meridionali che avevano i propri numi tutelari in Amendola e Nitti. Dopo lʼinattività dovuta alla parentesi bellica, lʼoccasione per riprendere il suo lavoro di giornalista gli venne offerta prima con lʼassunzione al giornale nittiano Il Paese, poi con lʼofferta fattagli da Ugo Amedeo Angellillo anchʼegli lucano che volle Chiummiento al neonato Il Giornale della Sera, ispirato da Nitti, a cui collaborarono Enzo Fiore, Domenico Papa e Gino Doria. Questi nel ricordarlo dice “ Lavorammo insieme, dal 1920 al 1922 (…) e vivemmo insieme quel torbido periodo che portò allʼavvento del fascismo”. E sono sempre la parole di Doria a offrire un delicato ritratto dellʼacheruntino “prestante nella figura, il viso roseo e giovanile, aveva già a trentʼanni i capelli completamente bianchi”. Nel 1923 chiude “Il Giornale della Sera”. Sono anni di oscure manovre in cui lo spostamento rapido del grande capitale italiano industriale e finanziario da una sponda a unʼaltra comporta anche il passaggio di mano di giornali e periodici. Solo esemplificativamente vale la pena ricordare come Il Paese, passasse di mano con lo spostarsi dei suoi finanziatori (con il passaggio dei fondi da Dante Ferraris a Carlo Bazzi) il giornale romano era diretto da F. Scozzese Ciccotti ( cui Gramsci riservò un pesante giudizio come di un “giornalista spregiudicato e corruttibile”). Sorte non diversa toccò a un altro giornale nittiano Epoca strangolato dalle pressioni del Credito Italiano che non intendeva più prorogare la scadenza di effetti cambiari. 16 C Per gemmazione dal Giornale erano nati Il Corriere di Salerno ispirato da Amendola e La Basilicata ispirata da Nitti e diretta da Chiummiento. Non è questa la sede per uno spoglio sistematico degli articoli, della linea politica, delle analisi sociali e di costume comparsi nel quotidiano lucano quantunque se ne avverta la necessità per avere un quadro sistematico della maturità grafica e giornalistica, politica e culturale del giornale. Il sequestro effettuato dai regi carabinieri offre lo spunto per analizzare la composizione sociale, la dislocazione geografica e lʼorientamento politico degli abbonati a cui si riferiscono le allegate Tabelle. Il giornale giungeva per abbonamento, oltre che per vendita diretta in negozi o privative, in quasi tutti i comuni lucani e il pubblico dei suoi lettori era costituito da tutte le figure sociali: dagli artigiani agli studenti “di legge”, dai sacerdoti agli industriali. Anche due donne: una ostetrica e una casalinga, risultavano essere abbonate. La sottoscrizione dellʼabbonamento era singola o collettiva come nel caso della Società Operaia di Avigliano, del Circolo Lanzillotti di Ferrandina, dellʼUnione Democratica di Moliterno, della Società O.di M.S. di Pisticci (classificata fascista nella nota), dellʼAssociazione Combattenti di Pignola “che faceva capo allʼon. Vito Reale”, del Circolo Operaio sempre di Pignola, del Circolo Unione e dellʼAssociazione Combattenti di Acerenza. La nota informativa precisava che nel paese di Chiummiento, il primo era “frequentato dai maggiorenti del paese e da impiegati. Quasi tutti iscritti al partito fascista.” Della seconda si diceva che essa era “composta da elementi dei partiti di opposizione e qualcuno a quelli estremi.” Per evitare lʻablazione della memoria su uomini e idee, eventi e fatti, più che per semplice curiosità si possono ricordare tre artigiani, un pensionato e un sorvegliante forestale di Brindisi di Montagna che non solo si abbonarono ma inviarono “una lettera pubblicata sul giornale La Basilicata con cui si elogiava il Direttore per lʼindirizzo intrapreso del giornale”; oppure il farmacista di Montemurro consigliere comunale, antifascista e massone. E vale la pena continuare ricordando qualche altro caso senza, sʼintende, avere propositi di esaustività. Don Antonio Locantore era stato “..allontanato dal paese dʼordine della sacra congregazione per la sua attività politica spiegata contro il partito fascista”. Il trentottenne prete di Oppido era un convinto attivista del Partito Popolare. E Popolari erano anche don Antonio Spaltro arciprete di Terranova e il duca Luigi Malvini Malvezzi fu Diego di Matera. Nittiani invece erano De Ruggieri Nicola e Tommaso Giura Longo proprietari materani; e anche Postiglione Gianbattista “imprenditore di lavori per strade rotabili”, e ancora c u l t u r a C don Domenico Sinisi di Pisticci, gli imprenditori dolciari e di liquori Laraia Pasquale e Postiglione Paolo. E da ricordare ci sono anche gli artigiani, metafora di quella “mentalità razionalista” come ha voluto definirli Hobsbawm, che tra gli abbonati avevano il primato. Erano infatti 184. Giuliano Emilio carpentiere, Salvatore Vito pasticciere, Cilla Nicola falegname, tutti e tre di Genzano, di ognuno di essi nella nota si diceva che era di “ Buona condotta morale” ma “ di cattiva condotta politica perché comunista”. Per lʼottusità burocratica, questa dicotomia era semplicemente incomprensibile. Carrozzone Michelangelo, sarto socialista di Rivello, spaventava le autorità in quanto “ritenuto capace organizzare masse”. Sempre a Rivello un commerciante socialista “ Di buona istruzione letteraria e capace arringare popolazione e far trascendere a disordini”, probabilmente dʼintesa con un insegnante nittiano anche lui “ capace riunire massa e far sorgere atti inconsulti” risultavano agli occhi dei RR. CC. particolarmente pericolosi per meritare tali allarmate e preoccupate annotazioni. Può risultare sorprendente come nel circondario di Melfi nessun proprietario risulti nittiano. Spaducci Benedetto di Maschito, agente INA “ Milita nel partito nittiano. È un sistematico oppositore del Governo Nazionale. Nel suo locale si riuniscono diuturnamente pochi oppositori (illeggibile) del Partito Popolare Italiano e Nittiano i quali condividono le sue idee”. Le note dei regi carabinieri diventano più anodine quando si tratta di rilevare lʼappartenenza al partito fascista. Commercianti, artigiani, proprietari, liberi professionisti sono tout-court fascisti. Di Restaino Michele, mediatore di Acerenza, fascista, si dice solo che è “abbonato per compiacimento”, come anche quel De Bonis Salvatore cancelliere di Pietragalla. Mentre il segretario comunale di S. Martino dʼAgri “ Eʼ iscritto al partito fascista. Spiega mediocre attività di propaganda spicciola a favore del proprio partito”. Veramente singolare risulta la posizione di questo libero professionista che “ A Venosa per ragioni personali contro quella Amministrazione è antifascista. A Maschito ove è Notaio è fascista non propagandista”. Sempre a Maschito un sarto “ Da qualche tempo è tesserato in quella sezione Fascista”; mentre di un calzolaio si precisa che “ Eʼ simpatizzante fascista sebbene tale partito non esiste in Forenza”. Una delle poche note dei carabinieri che sfugge al carattere blando è quella che riguarda la Ditta Padula e Soci di Pisticci della quale si sottolinea che è “ Fascista spiegando in prò di tale partito molta attività”. Se pur con le cautele del caso si vogliono considerare i 608 abbonati uno spaccato quasi fedele per condizio- ne sociale, orientamento politico della Basilicata degli anni ʼ20, allora in questa circostanza le considerazioni da svolgere sono ampie e numerose cosicché nella fattispecie è dʼuopo non solo schematizzarle ma indicarne alcune e purtroppo tralasciarne altre. Intanto cʼè da dire che le note preoccupate dei Reali Carabinieri. poste a fianco di tanti nominativi contenuti nellʼelenco rivelano a modo loro lʼesistenza di una non avvenuta pacificazione sociale nella trama della società regionale e mostrano la permanenza ancora di una egemonia culturale e politica nittiana nonostante gli sforzi politici ed organizzativi del fascismo e la conversione ad esso di professionisti, di proprietari, di dipendenti della pubblica amministrazione. In secondo luogo cʼè da dire che non sono solo rèntiers quei proprietari che si dichiarano nittiani; e che lo statista melfitano seppe intercettare anche imprenditori, industriali e appaltatori vale a dire figure sociali rivelatrici di attività economiche non legate esclusivamente alla rendita agraria. In proposito i dati di molti comuni del materano e del potentino, in particolar modo di Lauria in cui è evidente il rapporto con la Banca fondata da Masella, sono eloquenti di questa tessitura sociale. In terzo luogo la fotografia della Pubblica Amministrazione, dei liberi professionisti e di proprietari, cioè di gruppi che per la loro posizione di status finirono con lʼoccupare - o già occupavano - snodi delicati e cruciali nella direzione della cosa pubblica, degli affari e dellʼeconomia regionali, rimanda a un interrogativo a cui non si può dare una semplice risposta e che è così formulabile: di quale spessore fu il nesso fra continuità e fratture delle èlites nella gestione e nella direzione della società lucana nel suo passaggio al fascismo? In altri termini: pesò maggiormente la continuità o coloro che salirono al potere in Basilicata durante il ventennio furono èlites del tutto diverse rispetto ai vecchi gruppi dirigenti? O forse la domanda va riformulata evitando lʼalternativa secca fra permanenze e rotture guardando invece dal di dentro i gruppi sociali dirigenti zona per zona, funzione per funzione, per cogliere quanto di continuità o frattura si coagulava in uno stesso nucleo ricostruendone anche la formazione culturale e ideologica oltre che la tramatura degli interessi reali? Risposte frettolose o ingenuamente generaliste o anche neorevisioniste servono solo a tagliare il nodo ma non a scioglierlo. Lʼultima considerazione riguarda il merito del giornale e del suo direttore. Evidentemente per circolare, vendere e resistere, considerato anche gli altri fogli regionali “di area”, il giornale di Chiummiento era di buona fattura grafica e professionale, maturo, equilibrato e leggibile. Altri ha già detto delle persecuzioni, delle violenze e 17 c u l t u r a C La Basilicata Totale 608 abbonati per condizioni sociali e orientamento politico (tabella1) di cui Nittiani Fascisti Socialisti Artigiani 184 71 24 10 Commercianti 95 26 20 1 Propriet./Possid. 109 38 28 2 Professioni civili 84 28 15 3 P. A. 52 23 15 Altro 84 28 13 5 608 214 115 21 18 Comunisti 3 3 Altro 26 48 41 38 14 38 255 Circondario di Potenza (tabella 2) Numero 195 abbonati per condizioni sociali e orientamento politico al giornale La Basilicata di cui Nittiani Fascisti Socialisti Comunisti Artigiani 55 25 3 1 3 Commercianti 23 10 3 Propriet./Possid. 30 15 6 Professioni civili 29 9 3 P. A. 25 13 6 Altro 33 12 5 195 84 26 1 3 Altro 23 10 9 17 6 16 81 Circondario di Melfi (tabella 3) Numero 85 abbonati per condizioni sociali e orientamento politico al giornale La Basilicata di cui Nittiani Fascisti Socialisti Comunisti Artigiani 22 3 4 4 Commercianti 17 4 3 Propriet./Possid. 13 6 2 Professioni civili 12 3 2 2 P. A. 6 3 1 Altro 15 6 1 4 85 19 17 12 - Altro 11 10 5 5 2 4 37 Circondario di Lagonegro (tabella 4) Numero 164 abbonati per condizioni sociali e orientamento politico al giornale La Basilicata di cui Nittiani Fascisti Socialisti Comunisti Artigiani 50 33 3 1 Commercianti 25 12 4 1 Propriet./Possid. 31 12 8 Professioni civili 26 8 4 1 P. A. 10 4 4 Altro 22 7 3 1 164 76 26 4 - Altro 13 8 11 13 2 11 58 Circondario di Matera (tabella 5) Numero 164 abbonati per condizioni sociali e orientamento politico al giornale La Basilicata di cui Nittiani Fascisti Socialisti Comunisti Artigiani 57 10 14 4 Commercianti 30 10 Propriet./Possid. 35 11 8 Professioni civili 17 8 6 P. A. 11 3 4 Altro 14 6 4 164 38 46 4 - Altro 29 20 16 3 4 4 76 c u l t u r a C delle aggressioni, degli assalti e delle devastazioni alla tipografia per riprorre ancora queste pur importanti ricostruzioni, sembra invece più opportuno seguire da vicino gli anni di permanenza a Buenos Aires dove giunse nellʼagosto del 1927. In una nota informativa, del 4 marzo 1929, inviata da Napoli al CPC, si dice che Chiummiento “deve raggiungere un parente, tale Roberto Orlando, proprietario di una importante azienda agricola a Rio Quarto (Cordoba) presso il quale avrebbe trovato stabile e proficua occupazione”. In un altro passaggio della medesima nota si sottolinea il suo essere “ di idee liberali-democratiche-socialistoide, fu una creatura strumento del noto ex deputato Francesco Nitti, e, a mezzo del periodico anzidetto (La Basilicata ndr) condusse una vivace campagna contro il Fascismo cercando di ostacolarne lʼavvento”. Verosimilmente, la capitale argentina doveva essere un luogo vivo, crocevia di passioni politiche e di emigrati dallʼItalia e da altri paesi europei per decidere di stabilirvisi. E infatti troviamo il Nostro collaboratore al giornale LʼItalia del Popolo i cui articoli polemici riboccanti del più velenoso antifascismo, sottoscrive con lo pseudonimo di Rocco Sileo”. Collabora anche con il quotidiano La Razon; da correttore di bozze Chiummiento fa il gran salto a giornalista assunto con regolare contratto al quotidiano La Patria degli Italiani. Poiché è noto che questo giornale era un organo della Massoneria, Ferretti funzionario del Ministero, in una sua nota del 25 marzo 1929, insiste nel ribadire la convinzione “che il Governo deve fare tutto il possibile, poiché i fascisti italiani dellʼArgentina comprino ʻLa Patria degli Italianiʼ o si impadroniscano della direzione”. Prosegue la medesima nota ribadendo che “Egli ( Chiummiento, ndr) si mantiene tuttora in rapporti epistolari con lʼex deputato Nitti ed altri pontefici del fuoriuscitismo italiano e viene anzi, al riguardo fiduciariamente riferito che giorni addietro, abbia esibito ai colleghi della redazione della ʻPatria degli Italianiʼ una lettera inviatagli dal fuoriuscito Arturo Labriola, nel quale questi escludeva la sua prossima venuta a Buenos Aires”. Probabilmente la fonte fiduciaria, infiltrata forse nel giornale, non era a sua volta molto bene informata giacchè Labriola giunse nella capitale argentina nellʼaprile del 1929. Ad attenderlo cʼerano Merlo, Chiummiento, Ricciardi e Testa nella loro qualità di giornalisti dei vari quotidiani e periodici ed “anche diversi esponenti della massoneria e dellʼantifascismo concentrazionista e cioè lʼavv. Donato Di Guglielmo, lʼavv. Cesare Carmine Grosso, i fratelli Arturo Mazzanti e Prospero Mazzanti, Albano Corneli, Giuseppe Parpagnoli, Paolo Prister ed altri una quarantina di persone in tutto”. (Telespresso N 1237 del 16 aprile 1929). La documentazione esistente nel CPC, non completa in quanto priva della documentazione relativa agli anni ʼ30, è però sufficiente a far immaginare lʼattività che Chiummiento svolse negli ambienti del fuoriuscitismo italiano. Una attività intensa, fatta di scritti, di articoli, di conferenze, di incontri, di tessitura di una rete politica e amicale necessaria a supportarsi a vicenda; di iniziative volte a mantener vivo il sentimento antifascista tra i rifugiati e i numerosi emigrati sui quali la propaganda del regime non fu né blanda, né occasionale ma sistematica e continua e per molti anche intrisa di ricatti. Negli anni ʼ30 in concomitanza con il colpo di Stato del generala J. F. Uriburi, giunse a Buenos Aires anche Francesco Scozzese Ciccotti che pur collaborando con La Razon e La Patria degli Italiani non disdegnò di mettere in piedi attività di export verso la Francia di carne argentina contribuendo in tal modo ad accrescere quellʼalone di dubbi che sempre lo accompagnò. La Basilicata, come si sa cessò le pubblicazioni nel 1926. Nel dicembre del 1924, da Zurigo, Nitti come dono per gli abbonati del ʼ25 volle inviare, per il tramite delle pagine del “suo” giornale, la seguente dedica in cui è agevole notare lʼintreccio tra elementi profetici, orgogliosa riaffermazione della giustezza delle proprie posizioni politiche e un non nascosto rimpianto per la separazione dal proprio Paese. “ Giunga dal lontano esilio - così lʼincipit della dedica - il memore saluto agli amici della terra di Basilicata, a quanti nellʼimperversare della lotta hanno conservato intatta la fede nei principi della democrazia, della libertà e della pace. Oggi niuna calunnia ci raggiunge e nessuna sofferenza ci turba. Domani tutti riconosceranno la nobiltà nella nostra opera e la verità per cui siamo lieti di soffrire. Noi siamo lʼavvenire e la vita”. Oggi che vi è un ingorgo sulla strada di Damasco, come è stato da più parti notato, viene naturale sottolineare il messaggio di coerenza insito in queste scarne parole dello statista di Melfi. 19 c u l t u r a C VENDITA E ASSISTENZA PRODOTTI INFORMATICI via Extramurale Mazzini s.n.c. 85028 Rionero in Vulture (PZ). on-line www.essedi.it e-mail [email protected] tel/fax 0972/724135 RIVENDITORI AUTORIZZATI APPLE ...in Basilicata 2, 3 e 4 settembre 2005 Castello di Lagopesole (Pz) CONSORZIO DI VALORIZZAZIONE DEI VINI DEL VULTURE ringraziano tutti i visitatori di Aglianica www.aglianica.it | e-mail: [email protected] 20 Il Racconto Alla ricerca dellʼidea perduta CLAUDIO ELLIOT I l caso si risolse, in modo imprevisto, nel dicembre scorso, ed aveva a che fare con le scale di Potenza. Ad ognuna di esse assegno un nome. Primo incontro (è una scala breve, fuggevole). Scivolata (è una fuga di scalini sbrecciati e umidi). Videogiochi (è una scala chiassosa invasa dai suoni di una sala piena di ragazzi e videogame). Gioco delle parti (è una scala lunga, con piccoli piazzali per la sosta, con un viavai continuo in salita e discesa, e dove poco prima c’era una persona ora se ne staglia un’altra, e inizia quindi il lavorio del cervello di chi costruisce storie). Percorro a volte la più lunga in assoluto, e ad ogni piazzale lungo la salita mi fermo per riprendere fiato e cerco un nuovo personaggio oppure osservo una situazione insolita lì davanti agli occhi, o costruisco un abbozzo di storia seguendo nell’aria un profumo, un colore, un segnale. È la scala del romanzo. Quelle brevi sono le scale dei racconti. Tutto iniziò, anni prima, con la paura dei luoghi chiusi, una parola che mi sfugge di continuo (deve farlo) e mi ricorda le suore. Una parola che sa di muffa e che si attorciglia attorno a quattro vocali. Questa fobia mi porta a salire e scendere (a me che sono nato nel deserto) l’altrui scale. Da bambino rincorrevo canguri al limite del bush australiano, sotto il cielo verde di pappagalli. Ora vivo nella città delle mille scale, e ad ognuna associo un mio scritto, un racconto. A volte un pensiero. Se la scala esaurisce la sua esistenza in solo tre gradini, vi cerco un pensiero, un’idea molto volatile. Scendo e salgo il cuore della città con il taccuino in mano e ciò è in parte negativo, perché mentre prendo appunti mi sfuggono le persone e loro sfuggono me. A volte, alzando gli occhi, colgo il bagliore di uno sguardo o il fuggevole volo di un profumo. Sono immerso nella pagina degli appunti, ed è quel bagliore che riverso sulla pagina; e la sensazione fuggevole diventa una donna, un incontro. Se la scalinata finisce, finisce l’incontro. Un giorno, tornato a casa dopo aver preso molti appunti, mi accorsi, scorrendo le annotazioni, che un mio racconto era monco: ne mancava la parte centrale. Saltai su buttando in aria il gatto e il buonumo- re: dove era finito quel frammento di creazione? Dove avevo perso il senno? Quale scala di Potenza mi aveva ispirato e poi tradito? E poi: stavo scendendo o salendo? È una questione fondamentale: nel salire innanzitutto faccio più fatica, ed io ho da portarmi appresso anni di epa e affanni; andando verso l’alto, quindi, ho il tempo di scrivere e appuntare di più e, tra una ansimata e una tastata al cuore per accertarmi della sua efficienza, osservo con più precisione: gli odori corrispondono a persone, dallo scalpicciare dei piedi risalgo alla pienezza di una figura, il chiasso di un gruppo diventa molto fuggevole e ne distinguo le amenità; dedico insomma più tempo alla parte antropologica; salendo anche pochi gradini vado verso l’Alto con la maiuscola per cui l’ispirazione è più aerea ecc., ma questa è una stupidaggine che mi dice sempre una mia amica che, con questa scusa dell’Alto con la maiuscola, tiene lontano me e le tentazioni terrene con la ti minuscola. Nello scendere, la scrittura e l’osservazione sono più veloci, a volte frenetiche, e lo stile del racconto ne risente: lo scritto è nervoso, coinvolgente, giocoso, con frasi brevi e ritmiche. Rilessi gli appunti di quel capolavoro incompiuto. È un racconto da discesa, questo: lo riconosco. Ma non aveva un senso: era monco nella parte di sviluppo. Oddio, era comunque leggibile, e proprio perché non aveva un senso era più criptico, e lo specialista che lo avesse letto avrebbe detto con i suoi paroloni che avevo fatto un salto di qualità, avevo scritto un capolavoro perché nell’immediatezza della vicenda e nel salto della paronomasia verso la sineddoche… che palle. Si può creare un capolavoro per sbaglio? mi chiesi. Lo rilessi ancora. No, a me non piaceva. Mi serviva il pezzo mancante. Dunque: era lungo almeno cinquanta gradini. Io li misuro così, i racconti scritti sulle scale di Potenza. Quello era un Cinquanta-gradiniin-discesa. Allora il suo inizio era avvenuto di sicuro da via Pretoria e dintorni: è solitamente il mio punto di partenza o arrivo. Divago ogni tanto altrove: la città non manca di gradini. 21 c u l t u r a C Più lo guardavo più sentivo che quella creazione (stavo per dire creatura) aveva un’aria da zona centrale, non periferica. Non avevo messo la data, ed era un problema. Per trovare l’idea perduta tra le scale di Potenza, per avere una traccia da seguire, dovevo avere qualche elemento in mano. Ecco. L’argomento del racconto. La mosca cieca. Non il gioco, ma proprio l’insetto. Ecco, ricordavo qualcosa. Una mosca che venne a sbattere sui miei occhiali. Così nacque l’idea. Per parlare filosoficamente, le idee ci sono tutte, nell’aria, esistono di per sé, lo scrittore non fa che catturarle come fa il cacciatore di farfalle, e gli dà un’anima. È un demiurgo, in fondo. Il racconto della mosca cieca: lì davanti ne avevo tre quarti. L’idea mi piaceva, e quindi: quale scala avevo preso? Anche qui c’è un distinguo: se l’idea è debole, opto per alcuni percorsi; se è forte, per altri. Quindi ora avevo due elementi, anzi tre. Conosco le poche scalinate in discesa che mi piacciono, (è un Cinquanta-gradini-in-discesa!) e allora mi avviai di corsa alla ricerca della tessera perduta del mosaico, prendendo al volo una mia amica scrittrice. Dopo aver invano cercato un parcheggio gratis, dalle parti della Posta, dopo aver lasciato quattro frecce in terza fila vicino al teatro Due Torri, dopo aver zigzagato con la pulzella al guinzaglio verso il fiume in piena di via Pretoria (era l’ora che volge al chiacchiericcio), mi fermai impavido sulla strada, a un centimetro dai cerchioni di una macchina e a un millimetro dalle male parole del conducente: mi misi le mani sui fianchi, alzai la testa, mi guardai a destra e a sinistra come un esploratore nella giungla, poi decisi: la scala era a sinistra. La indicai con decisione centrando in pieno l’occhio di un vigile, basso prima e nervoso poi. Ci fiondammo, io e la poveretta, nonché il vigile orbo, verso il posto in cui pensavo di aver perso il pezzo del racconto. - Che state cercando?- chiese lui, alla prima sosta: aveva finalmente capito, dai borbottamenti, che la nostra non era una fuga d’amore ma una ricerca disperata. - Una scala – disse la ragazza, che non poteva lì su due piedi, spiegare che cercavamo un’idea e non una cosa concreta. 22 - Qui ce n’è una – disse lui, indicando il Banco di Napoli. Poi aggiunse: - E lì ce n’è un’altra. - Sono in salita o in discesa? – chiesi perfido e ansimante, e lui rispose che erano in discesa. Poi si accorse della trappola e si dileguò verso la caserma dei carabinieri, fischiando a un’auto immaginaria la sua disperazione. - È questa! – dissi ad un tratto – Riconosco l’odore. - Di che? - Della verdura. È nell’aria. Qui si piazza una vecchia con roba paesana. Rucola. Aglio. Erbe. - Ma ora non c’è – protestò la ragazza, che ci vedeva bene. - No. Ma c’è lo stesso. Questa affermazione la fece stramazzare al suolo, ed è così che, inchinandomi in uno sprazzo di perduta umiltà per sollevarla dal terreno, scorsi – lì, in quell’angolo, fulgida e viva – l’idea che mi era sfuggita. Avevo appena preso la fanciulla per le ascelle, ma quel punto la lasciai ricadere e mi avviai, come in estasi, verso il frammento perduto. Era a un paio di metri da me, a non più di due gradini più in basso, era lì che mi aveva fulminato. Stavo finalmente per impossessarmene, stavo per divenirne padrone per sempre, avevo tutti i sensi all’erta per carpire nel nulla un qualcosa, quando una fiumana di ragazzi che saliva la scala mi travolse e mi costrinse al muro, sommergendomi di parole dialettali e gergali, annaffiandomi di sensazioni e idee nuove, per cui, ubriaco ormai, tornai dalla ragazza, seduta su un gradino. - Embè? – chiese. - È sfuggita. È persa per sempre – dissi, sedendomi al suo fianco. - E allora? E il tuo racconto? Lo lasci monco? - Pazienza – dissi rassegnato, circondandole le spalle col braccio – Rimarrà un capolavoro. Ridacchiò, poi si alzò e mi tirò su. Ci avviammo per via Pretoria. Diedi una fugace occhiata alle mie spalle, all’angolo di quella scalinata. Ormai i ragazzi erano sciamati via e la vecchia idea era perduta per sempre. c u l t u r a C ANTONIO AMENDOLARA Mentre le polemiche sul film “Munich” divampano, trascinando la gente al cinema meglio di qualunque spot pubblicitario, ci pare utile spendere ancora qualche riga sullo Spielberg precedente. Gli edifici crollano abbattuti da oggetti volanti impazziti mentre una pioggia di detriti travolge gli ignari passanti. Come lʼ11 Settembre. Centinaia di cadaveri ammassati fluttuano nella corrente del fiume. Come in Rwanda 1994. Navi stracolme di disperati affrontano un mare implacabile. Come da Cuba verso la Florida. Come dallʼAlbania verso lʼItalia. Orde di profughi, ridotti alla pazzia collettiva dallʼabnormità della tragedia e dallʼimpotenza, percorrono un apocalittico esodo. Proprio come continua a capitare da ventʼanni in quelle terre che chiamavamo Jugoslavia e Iraq. Insomma, se “AI-Intelligenza Artificiale” era un poʼ lʼET dellʼera virtuale, “La guerra dei mondi” è il nuovo volto degli “Incontri ravvicinati del terzo tipo” al tempo del terrorismo globale e della guerra preventiva. Eppure, in questo frullato indiavolato di telegiornali ed effetti speciali, la storia più tragica che Spielberg ci racconta, riguarda la famiglia americana, che nel film appare frantumata da mille assurde incomprensioni e isterie. E mentre gli alieni invadono la terra proprio in uno dei rari giorni che al padre operaio divorziato Tom Cruise è concesso trascorrere coi suoi bambini, il film si rivela ben presto un viaggio nellʼinconscio. O meglio, come lo stesso incipit suggerisce, un viaggio nel DNA umano alla ricerca di un istinto fondamentale: quello della sopravvivenza. Re-esistenza contro Sopra-vivenza. Tredici affermazioni di liberazione dall’Imperofattuale Raffaele K. Salinari, edizioni Punto Rosso/Carta, Milano-Roma 2005. Raffaele K. Salinari è un medico-chirurgo, nato a Zurigo nel 1954, che ha operato per oltre venticinque anni nelle Nazioni Unite e in Organizzazioni Umanitarie presenti in Africa, Asia, America Latina. Attivo nellʼambito della cooperazione internazionale allo sviluppo, è Presidente della Federazione internazionale Terre des Hommes, (per lʼItalia,www.terredeshommes.it) ed è nel direttivo del Forum Mondiale delle Alternative. Tessere la trama fra meditazione e insurrezione, fra il potenziale della vita e lʼazione consapevole del vivente, fra lʼentusiasmo e il ritmo della vita stessa, sono queste le linee in cui va a collocarsi il contenuto del suo breve e denso testo teso a tracciare gli attori e la scena del contesto politico globale contemporaneo. Lʼautore presenta uno scenario che riporta la coesistenza fra umani re-esistenti e umani sopra-viventi in una sorta di mitopoiesi cosmica che sembra destinata a ripetersi in diverse epoche e con varie declinazioni. Mescolando speculazione filosofica e tensione poetica Salinari rivela una forma di narrazione quasi “bardica”, caratterizzata dal suggestivo intreccio di rizomi filosofici occidentali e orientali. Così, in tredici ordinate Affermazioni di liberazione dallʼImpero-fattuale, il testo si svela come una bussola nello scenario collettivo in cui il vivente – in vario modo – può prender parte. Tutto il testo è , come ha scritto Raúl Zibechi nella prefazione, un riuscito tentativo di «fondere Tao e Rivoluzione»: Salinari suggerisce elegantemente che «la rivoluzione non è qualcosa che accade al di fuori ma dentro-fuori, nella vita intesa come un tutto». Non si tratta quindi di praticare la negazione di una delle due polarità del Principio attraverso la lotta-guerra; al contrario, è necessaria la pratica dellʼinsorgenza e della ribellione sociale (per dirla con le parole del subcomandante Marcos) per far scomparire tale contrapposizione, per elevarsi al di sopra del potere dellʼavversario e re-esistere in modo consapevole. Lo scopo dei re-esistenti è infatti creare la consapevolezza per distruggere non lʼavversario bensì il suo stesso potere. La loro opposizione alle pratiche dei sopra-viventi assume così il senso di un cammino spirituale e pratico di liberazione collettiva dallʼImpero-fattuale, dove “La guerra dei mondi” di Steven Spielberg Una polvere di domande sottintese resta sospesa al termine della pellicola: è più forte, nellʼuomo, la natura conflittuale, che lo porta a motivarsi e dare il meglio di sé soltanto nelle situazioni di pressione e pericolo, oppure lʼistinto primigenio di sopravvivenza, che lo spinge a cercare la serenità combattendo quegli stessi pericoli e conflitti di cui aveva quasi avuto bisogno? E poi: qual è il rapporto tra lʼequilibrio interno di una comunità e il suo modo di interagire con le altre comunità gestendo i conflitti? O meglio, è giusto che una società imponga alle altre quegli stessi valori che non è in grado di garantire al proprio interno? GIOVANNI BOVE la posta in gioco resta la vita intesa come bios, e con essa le singole espressioni-di-vita dei reesistenti. In questa prospettiva teorica lʼautore introduce agevolmente uno dei concetti-chiave dellʼintero scritto, quello di bioliberismo. Inteso come «lʼapplicazione del liberismo al dominio delle vite particolari», a quelle espressioni-di-vita che i re-esistenti vogliono lasciar fluire come energia vitale, il bioliberismo si presenta in maniera immanente per mezzo di servo-strutture come la guerra permanente globale, il controllo e la privatizzazione di beni e risorse comuni dellʼumanità, la biocrazia, lo Spettacolo (nella sua accezione situazionista). Con questo corpus concettuale il testo di Salinari introduce unʼaspra riflessione sulla contemporaneità politica che investe la società globale, toccandone le tematiche più scottanti. Dallʼuniverso spettrale e contingente di Guantanamo alla riflessione sullo stato dʼeccezione permanente, dallʼesportazione della democrazia con le”armi” alla subalternità dei paesi del terzo mondo attraverso il controllo di beni e risorse. 23 p u b b l i c i t à REGIONE BASILICATA G I U N TA R E G I O NAL E Indirizzo Viale della Regione Basilicata, 4 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971.668191 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it PRESIDENTE Vito DE FILIPPO (Uniti nellʼUlivo) VICE PRESIDENTE Gaetano FIERRO (Udeur) ASSESSORI Carlo CHIURAZZI (Margherita) Formazione, Lavoro, Cultura e Sport Rocco COLANGELO (esterno - DS) Salute, Sicurezza e Solidarietà Sociale, Servizi alla Persona e alla Comunità Gaetano FIERRO (Udeur) Agricoltura, Sviluppo Rurale, Economia Montana Francesco MOLLICA (Verdi) Infrastrutture, Opere Pubbliche e Mobilità Giovanni RONDINONE (esterno - DS) Ambiente, Territorio, Politiche della Sostenibilità Donato Paolo SALVATORE (Uniti nellʼUlivo -Sdi) Attività Produttive, Politiche dellʼImpresa, Innovazione Tecnologica DIPARTIMENTO PRESIDENZA DELLA GIUNTA Indirizzo Viale della Regione Basilicata, 4 85100 Potenza Telefono 0971.668194 Fax 0971.668181 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it PRESIDENTE Vito DE FILIPPO (Uniti nellʼUlivo) Segreteria particolare del Presidente Segretario Partic. Angelo Raffaele Rinaldi Telefono 0971 668249 Fax 0971 668191 Portavoce Portavoce Ludovico Rossi Telefono 0971 668250 Fax 0971 668191 Direzione Generale Presidenza della Giunta Regionale Dirigente Generale Maria Teresa LAVIERI Telefono 0971 668220 Fax 0971 668218 UFFICI Ufficio Segreteria Generale della Giunta Dirigente Maria Carmela Santoro Telefono 0971 668200 Fax 0971 668225 24 • Ufficio Gabinetto del Presidente della Giunta Dirigente Arturo Agostino Telefono 0971 668187 Fax 0971 668181 • Ufficio Affari Istituzionali e Affari Generali della Presidenza Dirigente Cecilia Salvia Telefono 0971 668169 Fax 0971 668173 • Ufficio Stampa della Giunta Caporedattore Donato Pace Telefono 0971 668142 Fax 0971 668155 • Ufficio Comunicazione Istituzionale e Relazioni con il Pubblico Dirigente Luciano Taddonio Telefono 0971 668322 Fax 0971 668154 • Ufficio Autonomie Locali e Decentramento Amministrativo Dirigente Antonio Pasquale Golia Telefono 0971 666001 Fax 0971 666025 • Ufficio Organizzazione, Amministrazione e Sviluppo delle Risorse Umane Dirigente Liliana Santoro Telefono 0971 668233 Fax 0971 668245 • Ufficio Provveditorato e Patrimonio Dirigente Ennio Galella Telefono 0971 668265 Fax 0971 668277 • Ufficio Affari Legislativi e Qualità della Normazione Dirigente Ferdinando Giordano Telefono 0971 668211 Fax 0971 668225 • Ufficio Internazionalizzazione e Promozione dellʼImmagine Dirigente Rocco Messina Telefono 0971 668186 Fax 0971 668181 • Ufficio Controllo Interno di Regolarità Amministrativa Dirigente Anna Roberti Telefono 0971 668166 Fax 0971 668225 • Ufficio Risorse Finanziarie, Bilancio e Fiscalità Regionale Dirigente Maria Grazia Delleani Telefono 0971 668248 Fax 0971 668302 • Ufficio Ragioneria Generale Dirigente Rosa Ambrosio Telefono 0971 668271 Fax 0971 668302 • Ufficio Società dellʼInformazione Dirigente Donato Pafundi Telefono 0971 668332 Fax 0971 668954 • Ufficio Sistema Informativo Regionale e Statistica Dirigente Vincenzo Fiore Telefono 0971 668378 Fax 0971 668954 • Ufficio Programmazione e Controllo di Gestione Dirigente Domenico Ragone Telefono 0971 668272 Fax 0971 668336 • Ufficio Controllo Fondi Europei Dirigente Francesco Rizzo Telefono 0971 668272 Fax 0971 668336 • Ufficio Territoriale di Matera Dirigente Edoardo Porsia Telefono 0835 284354 Fax 0835 331183 • Ufficio Territoriale di Melfi Dirigente Luigi Sellitti Telefono 0972 641350 Fax 0972 641332 • Ufficio Territoriale di Lagonegro Dirigente Salvatore Ferraioli Telefono 0973 21863 Fax 0973 233663 • Ufficio di Rappresentanza in Roma Dirigente Maria Pia De Simone Telefono 06 84556111 Fax 06 84556305 • Struttura di Progetto Val dʼAgri Dirigente Remo Votta Telefono 0975 314203 Fax 0975 354773 • Struttura di Progetto Interventi Straordinari di Cooperazione Internazionale Dirigente Domenico CETERA Telefono 0835 284352 Fax 0835 284249 • Strutture Attestate al C.I.C.O ( Comitato Interdipartimentale di Coordinamento Organizzativo) • Ufficio Legale e del Contenzioso Dirigente Mirella Viggiani Telefono 0971 668170 Fax 0971 668173 • Struttura di Progetto Autorità Ambientale Dirigente Vincenzo Sigillito Telefono 0971 668297 Fax 0971 668336 • Struttura di Staff Attuazione Programmi Comunitari Dirigente (da nominare) p u b b l i c i t à DIPARTIMENTO AGRICOLTURA, SVILUPPO RURALE, ECONOMIA MONTANA DIPARTIMENTO AMBIENTE, TERRITORIO, POLITICHE DELLA SOSTENIBILITÀ Indirizzo Viale della Regione Basilicata, 12 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971.668731 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it Indirizzo Viale della Regione Basilicata, 5 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971.669066 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it ASSESSORE Gaetano FIERRO (Udeur) Segreteria dellʼAssessore Segreteria Partic. Pasquale Pelliccia Telefono 0971 668915 Fax 0971 668731 Direzione Generale Dirigente Generale Rocco ROSA Telefono 0971 668908 Fax 0971 668685 ASSESSORE Giovanni RONDINONE (esterno - DS) Segreteria dellʼAssessore Segreteria Partic. Dina Laurino Telefono 0971 669505 Fax 0971 669066 Direzione Generale Dirigente Generale Andrea FRESCHI Telefono 0971 668897 Fax 0971 669065 UFFICI • Ufficio Politiche di Sviluppo Agricolo e Rurale Dirigente Angelo Di Mauro Telefono 0971 668688 Fax 0971 668681 • Ufficio Aiuti Dirigente Gaetano Giordano Telefono 0971 668801 Fax 0971 668813 • Ufficio Risorse Naturali in Agricoltura Dirigente Francesco Pesce Telefono 0971 668660 Fax 0971 668574 • Ufficio Produzioni Zootecniche e Zoosanità Dirigente Salvatore Petraglia Telefono 0971 668673 Fax 0971 668685 • Ufficio Produzioni Vegetali Dirigente Rocco De Canio Telefono 0971 668718 Fax 0971 668751 • Ufficio Qualità e Servizi Dirigente Giuseppe DʼAgrosa Telefono 0971 668733 Fax 0971 668648 • Ufficio Economia Montana e Servizi alle Comunità Rurali Dirigente Giuseppe Eligiato Telefono 0971 668715 Fax 0971 668681 • Ufficio Programmazione Monitoraggio e Sistema Informativo Dirigente Antonio Amato Telefono 0971 668782 • Ufficio Capitale Terra - Matera Dirigente Rosa Buccino Telefono 0835 284291 Fax 0835 284250 • Ufficio Fitosanitario - Matera Dirigente Antonino Agnello Telefono 0835 284350 Fax 0835 284250 UFFICI • Ufficio Ciclo dellʼAcqua Dirigente Luigi Gianfranceschi Telefono 0971 668781 Fax 0971 669023 • Ufficio Prevenzione e Controllo Ambientale Dirigente Nicola Vignola Telefono 0971 668875 Fax 0971 669066 • Ufficio Compatibilità Ambientale Dirigente Salvatore Lambiase Telefono 0971 668844 Fax 0971 669015 • Ufficio Foreste e Tutela del Territorio Dirigente Rosa Maria Pietragalla Telefono 0971 668777 Fax 0971 669036 • Ufficio Geologico e Attività Estrattive Dirigente Giuseppe Giliberti Telefono 0971 668815 Fax 0971 669073 • Ufficio Urbanistica e Tutela del Paesaggio Dirigente Viviana Cappiello Telefono 0971 668783 Fax 0971 669056 • Ufficio Tutela della Natura Dirigente Antonio DʼOttavio DIPARTIMENTO ATTIVITÀ PRODUTTIVE, POLITICHE DELLʼIMPRESA, INNOVAZIONE TECNOLOGICA Indirizzo Viale della Regione Basilicata, 12 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971.668622 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it ASSESSORE Donato Paolo SALVATORE (Sdi) Segreteria dellʼAssessore Segreteria Partic. Sebastiano Gagliastro Telefono 0971 668910 Fax 0971 668622 Direzione Generale Dirigente Generale Giuseppe ESPOSITO Telefono 0971 668730 Fax 0971 668820 UFFICI • Ufficio Industria ed Attività Manifatturiere Dirigente Lorenzo Affinito Telefono 0971 668655 Fax 0971 668630 • Ufficio Gestione e Regimi di Aiuto Dirigente Maria Carmela Panetta Telefono 0971 668635 Fax 0971 668630 • Ufficio Turismo Terziario e Promozione Integrata Dirigente ( da nominare) Telefono 0971 668601 Fax 0971 668630 • Ufficio Energia Dirigente Rocco Frontuto Telefono 0971 668616 Fax 0971 668630 • Ufficio Internazionalizzazione, Ricerca Scientifica ed Innovazione Tecnologica Dirigente Emilio Libutti Telefono 0971 668652 Fax 0971 668630 • Ufficio Osservatorio Ecomonico Regionale Matera Dirigente Vincenzo Malvasi Telefono 0835 284288 Fax 0835 284283 • Ufficio Demanio Marittimo - Matera Dirigente Angelo Raffaele Sacco Telefono 0835 284325 Fax 0835 284283 DIPARTIMENTO FORMAZIONE, LAVORO, CULTURA E SPORT Indirizzo C.so Umberto I, 28 - 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971.668085 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it ASSESSORE Carlo CHIURAZZI (Margherita) Segreteria dellʼAssessore Segreteria Partic. Maddalena Piancazzo Telefono 0971 668116 Fax 0971 668082 Direzione Generale Dirigente Generale Gerardo CALVELLO Telefono 0971 668088 Fax 0971 668085 UFFICI • Ufficio Lavoro e Territorio Dirigente Francesco Parrella Telefono 0971 666105 Fax 0971 594258 • Ufficio Formazione Continua ed Alta Formazione Dirigente Renata Falcitelli Telefono 0971 668064 Fax 0971 668032 • Ufficio Monitoraggio e Controllo Dirigente Vincenza Buccino Telefono 0971 668054 Fax 0971 668086 • Ufficio Sistema Scolastico ed Universitario e Competitività delle Imprese Dirigente Carmen Claps 25 p u b b l i c i t à Telefono 0971 668047 Fax 0971 668088 • Ufficio Progettazione Strategica ed Assistenza Tecnica Dirigente ( da nominare) • Ufficio Politiche dello Sport ed Attuazione Politiche per i Giovani Dirigente Ornella Salvatore Telefono 0971 668064 Fax 0971 668032 • Ufficio Cultura - Matera Dirigente ( da nominare) Telefono 0835 284632 Fax 0835 284625 • Ufficio Gestione Interventi Formativi - Matera Dirigente Luigi Felicetti Telefono 0835 284616 Fax 0835 284625 • Ufficio Cooperazione Euromediterranea Matera Dirigente Giuseppe Padula Telefono 0835 284632 Fax 0835 284625 DIPARTIMENTO INFRASTRUTTURE, OPERE PUBBLICHE, MOBILITÀ Indirizzo C.so Garibaldi, 139 - 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971 668447 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it ASSESSORE Francesco MOLLICA (Verdi) Segreteria dellʼAssessore Segreteria Partic. Rocco Casella Telefono 0971 668471 Fax 0971 668447 Direzione Generale Dirigente Generale Aniello VIETRO Telefono 0971 668490 Fax 0971 668550 UFFICI • Ufficio Difesa del Suolo - Potenza Dirigente ( da nominare) Telefono 0973 21914 Fax 0973 21850 • Ufficio Edilizia Dirigente Ernesto Mancino Telefono 0971 668443 Fax 0971 668467 • Ufficio Protezione Civile Dirigente Giuseppe Basile Telefono 0971 668558 Fax 0971 8523 • Ufficio Infrastrutture Dirigente Rocco Cutro Telefono 0971 668459 Fax 0971 668447 • Ufficio Trasporti Dirigente Anna Balsebre Telefono 0971 668469 Fax 0971 668550 • Ufficio Difesa del Suolo - Matera Dirigente Donato Grieco Telefono 0835 284451 Fax 0835 284443 26 DIPARTIMENTO SALUTE, SICUREZZA E SOLIDARIETÀ SOCIALE, SERVIZI ALLA PERSONA E ALLA COMUNITÀ Indirizzo Viale della Regione Basilicata, 9 85100 Potenza Telefono 0971.668111 Fax 0971.668622 Email [email protected] Web www.regione.basilicata.it ASSESSORE Rocco COLANGELO (esterno - DS) Segreteria dellʼAssessore Segreteria Partic. Tommaso Samela Telefono 0971 668854 Fax 0971 668858 Direzione Generale Dirigente Generale Giuseppe MONTAGANO Telefono 0971 668755 Fax 0971 668900 UFFICI • Ufficio Questioni Giuridico Amministrative dei Settori Sociosanitario e Sanitario. Politiche del Personale in Convenzione con il SSR. Autorizzazione ed Accreditamento Strutture Dirigente Rocchina Giacoia Telefono 0971 668868 Fax 0971 668900 • Ufficio Pianificazione Sanitaria e Verifica degli Obiettivi Dirigente Giovanni De Costanzo Telefono 0971 668823 Fax 0971 668900 • Ufficio Formazione ed Aggiornamento e politiche del Personale del SSR Dirigente Andrea Gherbi Telefono 0971 668709 Fax 0971 668900 • Ufficio Prestazioni Assistenza Territoriale, Ospedaliera e Politiche del Farmaco Dirigente Maria Giovanna Trotta Telefono 0971 668837 Fax 0971 668900 • Ufficio Risorse Finanziarie e Investimenti del Sistema Salute Dirigente ( da nominare) • Ufficio Politiche della Prevenzione, Sanità Pubblica, Medicina del Lavoro, Sicurezza nei Luoghi di Vita e Lavoro Dirigente Gabriella Cauzillo Telefono 0971 668839 Fax 0971 668900 • Ufficio Veterinario, Igiene degli Alimenti, Tutela Sanitaria Consumatori Dirigente (da nominare) • Ufficio Gestione Interventi Assistenziali, SocioSanitari e di Solidarietà Sociale Dirigente Enrica Marchese Telefono 0971 668748 Fax 0971 668900 • Ufficio Gestione Terzo Settore Enti No Profit e Concessioni Benefici Economici Dirigente Lucia Colicelli Telefono 0971 668917 Fax 0971 668900 • Ufficio Promozione Cittadinanza Solidale ed Economia Sociale,Sviluppo Servizi Sociali e Sociosanitari Dirigente (da nominare) Telefono 0971 668822 Fax 0971 668900 ENTI REGIONALI ALSIA (Agenzia lucana di sviluppo e innovazione in agricoltura) 75100 Matera, Via Passarelli, 27 tel. 0835 2441 - fax 0835 244261 85100 Potenza, Via della Chimica tel. 0971 494200 - fax 0971 494239 www.alsia.it Amministratore unico Gerardo Delfino Direttore Anna Ziccardi ARPAB (Agenzia regionale protezione ambiente) 85100 Potenza, Via della Fisica, 18/C/D tel. 0971493711 - fax 0971 56078 www.arpab.it - [email protected] Dirigente Pasquale Ferrara ARDSU - (Azienda regionale per il diritto allo studio universitario) 85100 Potenza, Via Vaccaro, 127 tel. 0971 507011 - fax 0971 507036 www.unibas.it/ardsu.htm- [email protected] Presidente Luigi Mongiello Dirigente ( da nominare) ACQUA S.p.A. 85100 Potenza, Viale della Regione Basilicata, 4 tel. 0971 668581 - fax 0971 668580 Presidente Antonio Papaleo tel. 0971 668387 - fax 0971 668580 Direttore Generale V. Vincenzo Mancusi Tel. 0971 668385 - fax 0971 668580 Istituto “F. S. NITTI” (Agenzia regionale per lo sviluppo delle risorse amministrative ed organizzative) 85100 Potenza, Via Viggiani tel. 0971 666118 - fax 0971 666125 Dirigente Fausto Bubbico Regione Basilicata A rchivi Venosa Mezzo secolo è passato MIMMO PERROTTA A cinquant’anni dallʼuccisione di Rocco Girasole T. Doria, M. C. Capezio, G. Caressa, M. Padula, S. Padula, M. Perrotta Il 13 gennaio 1956 a Venosa, durante uno sciopero a rovescio, un giovane bracciante, Rocco Girasole, viene ucciso dalla Polizia ed altri manifestanti vengono feriti. Siamo nella Lucania degli anni ʼ50, dopo il varo della Riforma Agraria; il movimento contadino è ancora attivo, seppur in un contesto molto diverso rispetto a quello in cui si erano prodotte le grandi occupazioni delle terre. Lʼinverno 1955-56 è rigido, i braccianti soffrono il problema della disoccupazione. Tra le tante iniziative di lotta per il lavoro, quella del 13 gennaio: alcune centinaia di braccianti si muovono per ripulire dal fango e dalla neve via Roma, per asfaltare la quale vi sono dei finanziamenti stanziati e fermi da mesi. Lʼintervento brutale della celere provoca scontri con i manifestanti, la morte di Girasole e diversi feriti. Allʼepisodio fa seguito la repressione giudiziaria: il 5 novembre le forze dellʼordine circondano il centro storico di Venosa, una trentina di persone sono arrestate; il processo, che coinvolge 27 imputati, si conclude con 12 condanne, in parte revocate in appello. In totale, i braccianti di Venosa sconteranno 19 anni di reclusione. A cinquantʼanni di distanza, a Venosa sono state avviate una serie di iniziative culturali, che cercano di andare al di là della mera commemorazione di Rocco Girasole. A proporle sono persone e associazioni (Accademia Kronos Basilicata, lʼAssociazione culturale Il Dubbio e Venusiae CittàPlurale) con idee e modi di agire nel sociale differenti, accomunate dal bisogno di approfondire la storia di quegli anni ʼ40 e ʼ50 che hanno trasformato profondamente 27 a r c h i v i il Meridione, a livello sociale, economico, culturale, con le lotte contadine, la Riforma Agraria, la destrutturazione del latifondo, una nuova ondata di emigrazione, la diffusione della televisione. Altra esigenza comune è quella di discutere su cosʼè la Basilicata oggi, mentre sembra rinascere una conflittualità sociale, da Scanzano a Melfi. Sono state svolte delle ricerche sullo sciopero che portò alla morte di Girasole (di documenti dʼarchivio, di materiale fotografico e con le fonti orali), che hanno portato alla realizzazione di una mostra fotografica e del documentario La morte di Girasole (diretto da Giuseppe Bellasalma e Benedetto Guadagno). Sono stati organizzati momenti di confronto pubblico con docenti e ricercatori universitari, con gli studenti delle scuole superiori, con la cittadinanza. La ricerca con le fonti orali La ricerca che più ha dato senso al progetto è forse quella (tuttora in corso) con i testimoni degli eventi del 1956. Scopo di questa ricerca è non solo quello di ricostruire i “fatti”, ma soprattutto quello di seguire i fili della memoria, attraverso i quali quei fatti vengono ricostruiti. Sono state realizzate una quarantina di interviste con partecipanti allo sciopero del 13 gennaio, dirigenti e attivisti locali della Cgil, del Pci e della Dc dellʼepoca, uomini politici, familiari e parenti di Girasole, testimoni del processo, emigrati. Agli intervistati si è chiesto di raccontare la propria esperienza e i propri ricordi rispetto ai fatti del 13 gennaio, allʼassemblea della sera prima, al funerale, agli arresti, al processo. Si è chiesto poi di descrivere la figura di Rocco Girasole e quelle di politici e sindacalisti di quegli anni; si sono approfonditi argomenti quali le lotte per la terra, la Riforma Agraria, lʼemigrazione, il lavoro. Diversi i punti controversi rispetto ai fatti del 1956. Spesso ricordi simili accomunano persone che hanno avuto traiettorie di vita simili: coloro che erano e sono rimasti più legati al Pci, ricoprendo anche ruoli dirigenti a livello locale; i militanti di base; gli emigrati; coloro che invece si riconoscevano nella Dc. Rocco Girasole, nella storia “ufficiale” del Pci, è un “buon comunista”, un attivista di sezione, un “martire del lavoro”. Per i militanti di base è un “bonaccione”, uno che “non era proprio normale”, ma un “grande lavoratore”, che, come tanti, frequentava la Camera del Lavoro perché “eravamo comunisti per fame”. Per i vecchi democristiani, invece, era uno “scemo”, era lì per caso, fu “mandato avanti” dai dirigenti comunisti. Anche sugli eventi che portarono alla sua morte la memoria collettiva si divide: gli anziani democristiani ancora raccontano che “i comunisti sparavano dal castello” e forse uccisero loro Girasole; comunque “cercavano il martire”. Tra i comunisti, quelli più legati al partito rivendicano gli aspetti della lotta, dellʼorganizzazione, della coscienza di ciò che si stava facendo, mentre i semplici militanti ricordano più che altro che cʼera fame e si cercava lavoro, e che, durante i momenti più drammatici di quella giorna- 28 A ta, molti dei dirigenti non svolsero a fondo il proprio compito di guida della manifestazione. Coloro che hanno vissuto esperienze di emigrazione, e specialmente coloro che sono tuttora emigrati, enfatizzano il fatto che quel ciclo di lotte andò incontro ad una sconfitta: dalla constatazione che, dopo la Riforma “noi terre non ne abbiamo avute” al racconto amaro degli anni difficili lontano da Venosa. La ricerca dʼarchivio Le ricerche dʼarchivio, coordinate da Agostino Giordano, sono in corso presso lʼArchivio del Comune di Venosa, il Tribunale, la Questura, la Prefettura, lʼArchivio di Stato di Potenza, lʼArchivio storico della Cgil di Potenza, lʼArchivio Ds (ex-Pci) di Potenza. Per quanto riguarda lʼambito extra-regionale, le ricerche si stanno realizzando presso lʼArchivio Centrale dello Stato e lʼArchivio Storico nazionale della Cgil (Roma). Lo spoglio dei quotidiani e dei periodici nazionali (per ora lʼUnità, lʼAvanti, lʼOsservatore Romano, il Popolo, Lavoro, Vie Nuove, Rinascita) sta avvenendo presso le biblioteche dellʼIstituto Gramsci e dellʼArchiginnasio di Bologna e lʼArchivio nazionale della Cgil. Oltre che continuare in questi luoghi e su questo materiale, la ricerca dovrà proseguire considerando anche la documentazione, ancora da visionare, disponibile allʼIstituto Gramsci di Roma (dove ha sede lʼArchivio Storico nazionale del Pci), gli Atti parlamentari dellʼepoca, nonché la restante stampa nazionale e locale che si occupò dellʼevento. Lʼunico volume monografico organico consultabile è Rocco Girasole. Un bracciante, una vittima, un simbolo, scritto da Donato Manieri (pubblicato nel 1982 a cura del Comitato regionale lucano del Pci). Il convegno Molto partecipati gli incontri pubblici svoltisi lo scorso 13 gennaio a Venosa. Nellʼincontro con gli studenti delle scuole superiori, Nicola Tranfaglia, docente di Storia dʼEuropa a Torino, ha parlato del dopoguerra nel Mezzogiorno, sottolineando gli aspetti di continuità nel passaggio dal regime fascista alla democrazia, raccontando della repressione che in quegli anni colpiva il Pci e il movimento operaio e contadino; ha parlato di “democrazia dissociativa” e di “violenza dello Stato contro la società”. Gloria Chianese, ricercatrice della Fondazione Di Vittorio e dellʼINSMLI, ha approfondito alcuni aspetti delle lotte sindacali di quegli anni, sottolineando tra lʼaltro il ruolo pubblico svolto dalle donne; ha inoltre affrontato questioni di didattica della storia.Raffaele Giura Longo, Presidente della Deputazione di Storia Patria per la Lucania, ha sostenuto lʼimportanza del lavoro di ricostruzione storica svolto, che diventa esso stesso storia e contribuisce a costruire lʼidentità della comunità: lʼidentità, come la storia, riguardano il presente, più che il passato. Nel ricco dibattito del pomeriggio, Davide Bubbico, ricercatore di Sociologia dellʼUniversità di Salerno, nel sottolineare il ruolo centrale delle Camere del Lavoro, ha ricordato come anche i recenti scioperi di Melfi abbiano incontrato, cinquantʼanni dopo la morte di Girasole, a r c h i v i A Autore: Rodrigo Pais Venosa, Gennaio 1956 Archivio lʼUnità (La famiglia di Rocco Girasole) foto pg. 27: Rocco Girasole Autore sconosciuto Venosa, anni ʼ50 Archivio privato Rosaria Dinitrio una repressione violenta. Elena Vigilante ha poi accennato allo stato della messa in ordine dellʼArchivio storico della Cgil di Potenza. La ricerca e la mostra fotografica sono a cura di Tiziano Doria, le immagini di Venosa negli anni ʼ40-ʼ60 sono state reperite presso archivi privati (circa 150 foto che documentano momenti di vita quotidiana, lavoro, lotta, tutte digitalizzate), presso gli archivi della Cgil Basilicata e de lʼUnità e presso la Fototeca Ando Gilardi di Milano. Qui sono state trovate alcune pellicole scattate da Gilardi per un servizio per il settimanale Lavoro sui fatti del gennaio 1956. Un vero e proprio reportage, reso prezioso sia dalla qualità formale delle fotografie, sia dalla sensibilità etnografica che Gilardi dimostra (lʼanno dopo avrebbe partecipato alla spedizione di de Martino sui maciari in Lucania). Trebbiatura, Autore sconosciuto - Venosa, anni ʼ50-ʼ60 Archivio privato Ettore Santangelo 29 a r c h i v i Autore: Fortunato Lombardi Venosa, 13 Gennaio 1956 Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi (Lʼuccisione di Rocco Girasole) 30 A a r c h i v i A 31 a r c h i v i A Manifestazione 1960 (davanti al Castello di Venosa) Autore sconosciuto Venosa, anni ʼ60 Archivio storico Cgil Basilicata 32 a r c h i v i A Comizio Savino Gentile (Sindacalista Cgil di Lavello) Autore sconosciuto Venosa, anni ʼ60 Archivio privato Comizio Colombo Autore sconosciuto Venosa, anni ʼ60-ʼ70 Archivio privato Pasquale Pellegrino 33 a r c h i v i A Pecore Autore sconosciuto Venosa, anni ʼ50-ʼ60 Archivio privato Ettore Santangelo 34 a r c h i v i A Carlo Antolini (Sindaco Venosa anni ʼ50) e capocellule Pci Autore sconosciuto Venosa, anni ʼ50 Archivio privato Vincenzo Antolini 35 a r c h i v i A 36 a r c h i v i A Cimitero Autore: Ando Gilardi Venosa, Gennaio 1956 Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi Manifesto funebre Autore: Ando Gilardi Venosa, Gennaio 1956 Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi 37 a r c h i v i A “Bambini di Venosa con maschere di carta dipinta festeggiano il carnevale” Autore: Ando Gilardi Venosa, Gennaio 1956 Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi 38 P olitica e società Programmazione regionale in mezzo al guado Una svolta a metà ROCCO VIGLIOGLIA Il Mezzogiorno di fronte alle nuove sfide di politica economica tra innovazione e sperimentazione. Economia mondiale e crisi locali: i costi della globalizzazione dei mercati Il voto contrario di Rifondazione comunista al documento programmatico regionale in Consiglio e i giudizi controversi che di quel documento vengono dati anche da altri esponenti del centrosinistra dimostrano quanto difficile sia operare, in termini soddisfacenti, quella svolta nellʼindirizzo di politica economica di cui la Basilicata avrebbe bisogno. Cʼè altresì da dire che le difficoltà del contesto entro il quale tale svolta dovrebbe collocarsi sono oggettive. Infatti, la crescita dellʼanno 2004 è stata la migliore degli ultimi 30 anni a livello mondiale. Eppure le ricadute per lʼEuropa sono minime, irrisorie per lʼItalia. Si riduce la nostra quota di export nel commercio internazionale, la nostra produttività non cresce e quindi si riducono competitività e sbocchi produttivi. Siamo in sostanziale stagnazione. Le cause sono note: un apparato industriale che per decenni si è collocato nella fascia medio-bassa di prodotti ad alto contenuto tecnologico (quindi più facilmente aggredibili da parte dei Paesi emergenti con lʼapertura dei mercati globali); nanismo delle nostre imprese con scarsa propensione alla ricerca ed allʼinnovazione, squilibri ter- ritoriali persistenti, deficit pubblico eccessivo e così via. Dopo decenni di crescita, seppure distorta e squilibrata, riappare in mezzo a noi il “fantasma della povertà” e, dopo molte generazioni, la previsione di un domani più favorevole per i nostri figli appare alquanto problematica. Siamo cioè in un passaggio di fase di portata straordinaria a cui bisogna reagire in modo straordinario. Cʼè sufficiente consapevolezza che occorra mutare il modello di specializzazione del nostro Paese, passando da settori che subiscono la concorrenza dei Paesi emergenti (manifatturieri e dei servizi) che traggono vantaggio dalla globalizzazione dellʼeconomia, a settori non necessariamente ed esclusivamente legati ai cambi merceologici, implementando anche quelli tradizionali di ricchezze immateriale con ricerca, innovazione, formazione e logistica. In questa prospettiva va inserito il ruolo del Mezzogiorno come risorsa per lʼintero Paese battendo le evidenti tentazioni di far prevalere ancora una volta una scelta improntata alla soluzione di una presunta “questione settentrionale” che depotenzierebbe lo slancio innovativo di cui lʼItalia ha bisogno nel nuovo scenario globale. Dai giacimenti storico-culturali, alle valenze paesaggistiche e naturali, dallʼagricoltura di qualità alla riconversione manifatturiera, sono convinto che avremo maggiori possibilità di farcela se investiremo nel “sistema paese” nel suo complesso. Sul solco delle conclusioni dei Consigli Europei di Lisbona, Goteborg e Nizza in cui si è progressivamente arricchita lʼispirazione comune delle politiche Europee degli ultimi anni, il Documento Strategico Mezzogiorno, redatto dalle Regioni meridionali orienta lʼazione pubblica per lo sviluppo del Mezzogiorno verso obiettivi fondamentali condivisi. Promuovere e consolidare un tessuto imprenditoriale innovativo e competitivo nei mercati globali; favorire lʼobiettivo della coesione, promovendo lʼinclusione sociale e riducendo il disagio sociale; perseguire la sostenibilità ambientale; investire nelle risorse umane per promuovere nuovi e migliori posti di lavoro; favorire il passaggio alla società delle conoscenze e dei nuovi benefici diffusi. Cʼè la consapevolezza, nel documento, che tali obiettivi non sono perseguibili 39 politica e società con la sola azione pubblica, ma dallʼinnescarsi di sequenze virtuose di contesto. Del resto la costruzione dei programmi comunitari seguono assi e misure che non si discostano molto dagli obbiettivi annunciati. È su questa lunghezza dʼonda il Documento Strategico della Regione Basilicata? Dalla sua lettura, in verità, si evince subito il pericolo di una divaricazione di giudizio di cui sicuramente i redattori del documento sono consapevoli. Da una parte vi è una giustificata soddisfazione per i risultati ottenuti lungo un percorso ultradecennale, non scontato ma dovuto alle precise scelte di inquadrare i nuovi processi di programmazione negoziata della fine degli anni novanta entro programmazione regionale ( intese istituzionali di programma e accordi quadro di programma settoriali, disegnando al contempo la visione strategica della Regione attraverso la contestuale redazione del Piano Regionale di Sviluppo ed il Programma Operativo Regionale per i fondi comunitari 20002006 ). A ciò ha fatto seguito una serie di misure di concertazione con i territori, uso integrato dei fondi strutturali, migliore rapporto piani/progettazione, infine un sistema di verifica e revisione che si è dimostrato abbastanza efficace. Del resto i rapporti del “valutatore indipendente” analizzano con dati e parametri oggettivi questi risultati positivi. A fronte di questi elementi il DSR si apre tuttavia con i dati della situazione economica regionale degli ultimi anni sicuramente non positivi e si chiude con obiettivi programmatici particolarmente impegnativi. Ma nel documento permangono punti di debolezza che nemmeno il dibattito che cʼè stato e le consultazioni che si sono svolte sono riusciti a superare.. Innanzitutto manca unʼanalisi approfondita delle dinamiche e delle difficoltà dei vari comparti per cogliere quali elementi modificare e conseguentemente quali strategie attivare attraverso i vincoli di finanziamento che devono puntare e selezionare, generare e trasformare le imprese. Per evitare il rischio di nuove marginalità è necessario ridefinire ruoli e funzioni, acquisire assoluto rigore nella gestione delle risorse, produrre rotture con prassi consolidate, che naturalmente allʼinizio scontenteranno tanti interessi costituiti, tante lobbies della spesa pubblica. Occorre garantire il giusto mix tra efficienza (fare funzionare meglio il sistema) ed equità, proteggere gli “ultimi” nella distribuzione dei costi e benefici. Si tratta in sostanza di minimizzare il sostegno a rendite di posizione di vario genere, che sono cresciute allʼombra della spesa regionale, e massimizzare investimenti produttivi quantificabili ex ante e certificabili ex post. Sul versante istituzionale ci sono comunque segnali incoraggianti. Il rinvio delle nomine per un complessivo ripensamento degli enti subregionali è un passaggio quanto mai opportuno. E la stessa ulteriore implementazione della struttura regionale con il supporto ai dipartimenti di ulteriori competenze specialistiche va in questa direzione. 40 P Basilicata ...che bello? ANTONIO CALIFANO Alcune riflessioni sullo stato della programmazione economica regionale Se non vogliamo che documenti come il DSR (Documento Strategico Regionale) siano solo dei passaggi più o meno rituali da onorare per ragioni istituzionali ma risultino una base utile per avviare confronti e migliorare la qualità dellʼagire politico, bisogna uscire da una certa fastidiosa ritualità ed entrare nel merito delle questioni. Allora partiamo da una prima considerazione di ordine generale: lʼimmagine che viene fuori dal documento non è quella che si percepisce generalmente, cʼè anzi un notevole scarto tra come vive “la realtà territoriale” se stessa e lʼimmagine che ne offrono le istituzioni. La parte generale che riguarda le ragioni della crisi economica legate alla congiuntura internazionale e a un sistema produttivo rigido e fortemente specializzato, dove Fiat e “Polo del salotto” rappresentano lʼ80% delle esportazioni, che risente di processi internazionali legati ad una competizione insostenibile con i paesi emergenti, determinata da un costo del lavoro assolutamente improponibile per paesi come il nostro, appare sostanzialmente corretta ma ricalca una analisi troppo generale in cui sfuggono le specificità e che poco ci dice rispetto al futuro della economia regionale. Oggi è giusto pretendere di più dal centrosinistra lucano perché ha consolidato leaderships ed esperienze di governo e non è certo più nella fase “del doversi guardare intorno”. Soprattutto si chiede un aumento di quella capacità strategica e programmatica in grado di traghettare un sistema industriale troppo dipendente dai processi internazionali verso un modello, una volta si diceva “autocentrato”, in grado di reggere ai processi di globalizzazione. Impresa certo non facile ma da politica e società P avviare attraverso una riflessione che a partire dallʼesistente abbia il coraggio di “osare”. È questo del resto il compito di un Documento Strategico. E da questo punto di vista il documento appare abbastanza deludente perché non riesce, pur nelle difficoltà evidenti della fase congiunturale, ad andare oltre una fotografia, a volte anche discutibile, dellʼesistente. Manca di idee forti, di unʼidea complessiva e competitiva sul destino della Basilicata. Per esempio come non capire che uno dei prossimi settori di crisi può essere proprio quello energetico, o meglio quello legato alla dipendenza energetica dal petrolio ed in nome del quale si sta sacrificando una parte importante del territorio regionale? È il caso di incominciare a non subire i processi ma di anticiparli. E perché allora non porre il tema di una nuova gestione delle risorse energetiche in maniera chiara? Bisogna andare al di là di un generico “la nostra regione ha favorito con specifici interventi a valere sul POR Basilicata il finanziamento di forme di produzione da rinnovabile specificamente fotovoltaico, ha reso opera- tivo lʼaccordo con lʼENI relativo al cofinanziamento per la realizzazione delle reti metano dei centri della regione, non ancora servite, cogliendo lʼobiettivo di poter – a fine lavori – dotare tutti i concentrici dei comuni della Regione di una rete metano”. Per esempio, pur condividendo la scelta di una Lucana Società Energetica (SEL), bisogna dire che non sono ancora chiari i suoi compiti soprattutto in mancanza di una determinazione delle quote regionali di fabbisogno e di produzione di energia. Va capito se questa regione si candida a produrre energia per il proprio fabbisogno o per la sua vendita e in che proporzioni. Senza sciogliere una serie di dubbi di fondo la SEL, in quanto società di gestione, rischia di diventare un inutile carrozzone destinato solo ad appesantire la struttura burocratica degli apparati amministrativi. I dati legati al mercato del lavoro risentono fortemente della crisi di questo modello produttivo e pur fermi al periodo 2002-2003, che purtroppo non è neanche il periodo peggiore del quinquennio, vanno incrocianti ai dati sugli investimenti nel settore della ricerca che, al di là di tutte le dichiarazioni di principio, sono fortemente negativi, risentono in maniera evidente delle scelte scellerate del governo nazionale, ma non di meno non trovano neanche una soddisfacente articolazione nelle politiche regionali. I dati sul mercato del lavoro si fermano al 2003 e fotografano una situazione già drammatica che però esclude il successivo biennio dove le criticità sono precipitate. “Il mercato del lavoro lucano ha probabilmente scontato, nel 2003, lʼeffetto della bassa crescita economica del biennio 2001-2002, con un gap temporale di ritardo che è dovuto essenzialmente alla maggiore rigidità del mercato del lavoro regionale rispetto a quello nazionale. Infatti, gli occupati con contratti atipici, a livello nazionale, rappresentano, nel 2002 il 13,6% del totale. In Basilicata, invece, tale quota è inferiore, attestandosi al 12,4%”. Rispetto a una situazione drammatica, legata ad elementi di congiuntura internazionale, manca unʼidea forte in grado di orientare il futuro. In particolare il dato del calo demografico, che appare lʼelemento più preoccupante e che descrive un trend in continua crescita, è 41 politica e società affrontato in maniera inadeguata, le misure adottate per contrastare la fuga di giovani e di cervelli dalla regione sono tutte affidate ad interventi straordinari che rischiano paradossalmente di aggravare il fenomeno. Soprattutto non si coglie appieno la relazione tra questo processo e la riorganizzazione dei settori produttivi scegliendo di puntare di più e diversamente su settori non tradizionali; anche il discorso sulle aree metropolitane e “le città” senza questi collegamenti appare poco più di una inutile dichiarazione di principio. Questo processo che è di gran lunga il più preoccupante non è affrontabile con misure episodiche o con appelli moralistici, bisogna creare condizioni strutturali per invertire il trend diventando nello stesso tempo polo di attrazione per i nuovi flussi migratori provenienti dai paesi del Mediterraneo che invece transitano nella regione per fermarsi altrove. La Basilicata può aspirare a svolgere una funzione in questo senso perché è utile e perché potrebbe compensare i cali demografici. Manca da questo punto di vista ogni tipo di proposta o di considerazione pur in presenza di una serie di elementi che giocano a nostro favore a partire dallʼUniversità e dai Centri di Ricerca che potrebbero qualificarsi in tale direzione assumendo un ruolo di riferimento, specializzandosi in tipologie di studi, di ricerca e di formazione coerenti con le propensioni dei paesi che affacciano sul bacino del Mediterraneo. In questo contesto appare eccessiva la enfatizzazione dei dati sulla “società della conoscenza”, e pur di fronte ai risultati positivi nel campo della informatizzazione, questa regione risulta pur sempre secondo i dati di De Mauro, la regione con il saldo negativo più alto di analfabeti (13,8%), semianalfabeti (43%) e il più basso numero di laureati (4%). Come si intende affrontare questo gap evidente tra i dati nazionali dellʼUNLA e gli investimenti notevoli della regione sulla informatizzazione? 42 Una riflessione di questo tipo manca completamente nel Documento Strategico Regionale che si affida a dati più confortanti come lʼalta percentuale di laureati nellʼarea scientifiche, che sarà pure percentualmente al di sopra della media nazionale, ma su una quota complessiva che è la più bassa dʼItalia. Contemporaneamente si ignora il livello di sofferenza del sistema pubblico dellʼistruzione, anche grazie alla “cura Moratti”, che andrebbe riorganizzato, a partire da un dimensionamento delle istituzioni scolastiche, mettendo mano alla legge regionale sul diritto allo studio completamente inadeguata (e di cui per la verità questa amministrazione non è responsabile) ma che va velocemente riscritta anche in prospettiva dei processi che da settembre investiranno tale segmento e che riguardano il passaggio della istruzione professionale alle regioni investendo un settore, come quello della formazione regionale, su cui è necessaria una riflessione, che per quanto si possa rimandare sarà sempre molto dolorosa. A fronte di una discussione partita nei mesi scorsi che ha portato al blocco delle nomine di alcuni Enti per provvedere ad una riorganizzazione degli stessi finalizzata ad una razionalizzazione della governance regionale, si registra una scarsa attenzione al problema allʼinterno del documento. “Un siffatto processo di ricalibratura dellʼintera filiera istituzionale richiede lʼattivazione di un forte e deciso partenariato interistituzionale anche attraverso la costituzione di appositi organismi(Consiglio delle Autonomie Locali, per esempio) di confronto e di consultazione periodica e permanente tra le amministrazioni interessate”. Appare singolare, infatti, dopo tali affermazioni che non si cominci a delineare questo processo, almeno nelle linee generali, e che tutta la discussione è affidata ad una apposita commissione. A fronte di una adeguata analisi descrittiva di settori chiave come lʼagricoltu- P ra, lʼambiente, il turismo ci troviamo di fronte ad una inconsistenza delle proposte strategiche che andrebbero tutte giocate nellʼincrocio tra questi tre settori e che invece scontano una insufficienza progettuale che si accompagna ad lentezza legislativa della Regione che, per esempio, continua a rinviare una discussione seria sulla forestazione, un settore importante anche per i rapporti tra Enti diversi che implica. Se si riescono a fare scelte coraggiose e si riesce ad avviare un processo di trasformazione di tale settore da tradizionale area di parcheggio a segmento produttivo si innesca un processo virtuoso che ricade sia sullʼambiente, sia sul turismo che sulla occupazione. Insomma lʼimpianto generale del documento non coglie a pieno lʼelemento di passaggio di fase che questa legislatura regionale ha, pare più legato ad una fotografia dellʼesistente e a una valorizzazione delle positività ereditate che proiettato a fronteggiare per il prossimo quinquennio il prevedibile precipitare dei punti di crisi attuali. Manca cioè di idee forti, di “innovazione”, sceglie un profilo “dignitosamente basso”, in ogni caso inadeguato a fornire alla regione quel colpo dʼali di cui necessita in una fase di passaggio difficile ed impegnativa. Per dirla con Tocqueville «In tempi di crisi una classe dirigente se non è molto al di sopra della media, è molto al di sotto». Parola di un moderato. politica e società P L’insostenibile crescita e lo sviluppo sostenibile PAOLO FANTI “Una società che ha per obiettivo la crescita è come un individuo che ha come modello lʼobesità” (Luigi Pintor) Allʼinizio del mese di febbraio un amico ambientalista mi fa notare la notizia di un ennesimo impasse nella scrittura del programma dellʼUnione, questa volta in relazione alle scelte strategiche in termini di infrastrutture, ambiente ed energia. Chiaramente il problema non è il giudizio sulla distruzione ambientale attuata e permessa dal tandem Lunardi-Matteoli, sullʼassenza di misure decenti in tema di protezione idrogeologica, e simili. Su questo la sintonia non potrebbe essere, e non è, meno che unanime. Ma è sul concetto stesso di sviluppo che è difficile giungere ad una sintesi condivisa. Curiosamente nella stessa giornata, attrae lʼattenzione e forma un singolare contrasto la dichiarazione di George W Bush, pronunciata nel suo discorso sullo stato dellʼUnione: “LʼAmerica è drogata di petrolio, dobbiamo ridurne la dipendenza”. Chi la pronuncia risulta credibile quanto uno spacciatore che si lamenti della diffusione dellʼeroina, ma lʼaffermazione ci ricorda che i vincoli ambientali, o la seconda legge della termodinamica, esistono a prescindere dalle nostre convinzioni sociali e politiche, anche se è poi a queste ultime che facciamo ricorso per trovare le soluzioni, di destra o di sinistra, ai problemi da fronteggiare. Il rapporto tra sviluppo e stato dellʼambiente è un tema centrale anche nelle agende dei “grandi della terra”, per quanto ostili possano essere al protocollo di Kyoto. Giusto un anno fa, la relazione del cancelliere inglese Gordon Brown allʼincontro organizzato a Londra dal G8 su energia e ambiente elencava con insistenza le minacce ecologiche per lʼeconomia mondiale, i problemi legati al rallentamento della crescita, i costi economici dellʼinnalzamento delle temperature del pianeta, la necessità di sostituire il petrolio prima che finisca o che lʼestrazione diventi troppo costosa. Parimenti per Bush il mutamento climatico diventa una “grande sfida” che va vinta per permettere “allʼeconomia di progredire rallentando le emissioni di gas serra”. I potenti della terra leggono quindi il problema ambiente ed energia principalmente come un ostacolo al dispiegamento della crescita economica e allʼaumento del PIL, situazione che viene spacciata come sinonimo di arresto di sviluppo. E qui occorre chiarire un primo elemento di confusione. La crescita del PIL non misura la crescita di beni prodotti, ma lʼaumento di merci scambiate con denaro. Non necessariamente le merci corrispondono a beni (a cui associare un vantaggio, una connotazione qualitativa). Se rimanete bloccati in un ingorgo autostradale per ore, il PIL aumenta perché si consuma carburante, senza che a questo corrisponda un vantaggio, una utilità. O per citare lʼormai famoso esempio di Beppe Grillo, ogni anno la Gran Bretagna importa 200000 tonnellate di carne di porco straniero ed esporta la stessa quantità di porco britannico. Il PIL aumenta, come quando i gamberetti del Mar del Nord vengono portati in Marocco per essere lavati prima di tornare a essere venduti in Germania, ma la misura delle merci non rappresenta una buona misura dei beni reali scambiati. Dʼaltro canto esistono beni che non vengono scambiati (e quindi non fanno crescere il PIL), perché autoconsumati o donati (dal vino fatto in casa allʼassistenza dei propri anziani). Da tempo, ormai, un numero crescente di economisti conviene che il PIL sia uno scarso e/o incompleto estimatore, anche perché fornisce una stima imprecisa dei beni effettivamente prodotti e perché non tiene conto dei costi ambientali. Lʼamico ambientalista di cui sopra, mi segnala le notizie di stampa che rimarcano come nei due tavoli paralleli che hanno discusso di ambiente per il programma dellʼUnione non siano riuscite ad entrare le nuove proposte sul PIL ambientale (un indicatore che tiene conto anche dellʼimpatto sullʼambiente), nonostante che la proposta di affiancare al PIL, nel prossimo Dpef, il cosiddetto “PILa” fosse stata sottoscritta da circa un centinaio di deputati del centrosinistra. Il compromesso raggiunto concorda “sulla necessità di ampliare il sistema degli indicatori di economici in modo da tenere conto anche di parametri fondamentali per misurare la qualità della vita e dellʼambiente, ... nonché di un indicatore che misuri la sostenibilità ambientale”. Intendiamoci, su questo come su altri temi, andare oltre sarebbe velleitario e prematuro: obiettivo e compito su cui si è formata la coalizione dellʼUnione è quello di battere il centro destra. Come sottolinea Rossana Rossanda, questa è la condizione preliminare per la democrazia, dopodiché sarà possibile tornare a discutere di politica. In questo momento, ogni sfumatura e ogni distinguo vengono piegati e stravolti, e lungi da essere elemento di ricchezza dialettica diventano fonte di lacerazione e divisione, come i pronunciamenti pro-TAV o no-TAV. 43 politica e società Ma non si può non convenire che, una volta superato lʼostacolo, il modello di sviluppo diventerà uno degli elementi centrali, se non “il” nodo centrale da sciogliere, e intorno al quale occorrerà eliminare confusioni e ambiguità, anche lessicali. Un primo elemento di confusione in questa discussione nasce dalla sinonimia forzata fra sviluppo e crescita. Si tratta di una confusione antica, che ritroviamo persino nel famoso rapporto commissionato negli anni settanta dal Club di Roma al MIT, nella cui traduzione italiana del titolo il termine growth venne reso, curiosamente, anziché con crescita, con “sviluppo”. I due termini non sono evidentemente equivalenti: lʼuno si riferisce ad aspetti quantitativi (e per il momento userò lʼaccezione del termine che implica aumento di energia e materia coinvolte nel processo produttivo), lʼaltro a miglioramenti qualitativi o al dispiegarsi di potenzialità. Si può avere crescita economica senza sviluppo, sviluppo senza crescita, entrambe le cose o nessuna delle due. Dal momento che lʼeconomia umana è parte di un ecosistema complessivo limitato che non cresce (non può farlo, anche se si sviluppa), ne consegue che la crescita complessiva dellʼeconomia non può essere sostenibile sui lunghi periodi di tempo. Lʼespressione “crescita sostenibile” è quindi un ossimoro, una contraddizione in termini, eppure diffusamente usata come sinonimo di sviluppo sostenibile, e la troviamo variamente coniugata, in termini più o meno espliciti, nei documenti nazionali dellʼUnione così come nel Documento Strategico della Regione Basilicata (sottende ad esempio le prospettive legate alle politiche energetiche e alla natura e ruolo della futura Società Energetica Lucana). Il concetto di sviluppo sostenibile è diventato ormai un specie di riferimento obbligato per i responsabili politici e le istituzioni internazionali e locali, 44 dottrina ufficiale delle Nazioni Unite a partire dal cosiddetto rapporto Brundtland del 1987, e dovrebbe/vorrebbe assicurare il benessere delle generazioni attuali senza compromettere quello delle generazioni future. Già nel rapporto Brundtland si sosteneva che ”Ciò di cui abbiamo bisogno è di una nuova era di crescita, una crescita vigorosa ma, contemporaneamente, socialmente e ambientalmente sostenibile”. La ovvia contraddizione dellʼenunciato viene spesso risolta affermando che la crescita può avvenire perché lʼimpatto ambientale della produzione può ridursi con il progresso tecnico. Ricorrere a tecnologie più efficienti nella trasformazione di energia e materia dovrebbe consentire a un territorio o di elevare il livello di benessere di una determinata popolazione, oppure di mantenere lo stesso benessere per una popolazione più numerosa. Lo sviluppo sostenibile implica quindi un aumento dellʼefficienza, la promozione cioè di tecnologie in grado di accrescere la produttività delle risorse e lʼammontare di valore estratto per unità di risorsa (sviluppo) anziché di quelle che accrescono la risorsa per mezzo di se stessa (crescita). A volte però le seconde ci vengono contrabbandate come fossero le prime: un esempio eclatante in questo senso è quello della cosiddetta “rivoluzione verde” in agricoltura degli anni sessanta-settanta, che viene spesso presentata come lʼintroduzione, in vaste aree del pianeta, di tecniche e sistemi di produzione agricola più “scientifici”, produttivi ed efficienti. Ora, se è vero, che le moderne tecniche agricole occidentali hanno una maggiore produttività per unità di superficie utilizzata (una delle risorse impiegate) lo fanno a scapito di un enorme aumento di altre risorse della produzione (di combustibili fossili, ad esempio). In termini energetici, la moderna agricoltura e la sua accoppiata con i criteri economici dellʼindustria alimentare e con gli stili di vita “occi- P dentali” costituiscono un disastro insostenibile: lʼindustria alimentare USA consuma 10 calorie di energia fossile per ogni caloria di energia alimentare prodotta. Nel 1940 lʼazienda agricola media americana produceva 2.3 calorie di energia alimentare per ogni caloria di energia fossile utilizzata. Nel 1974 il rapporto era diventato 1:1. Alcune stime pongono il rapporto attuale pari a 1:10. Se teniamo conto che negli USA lʼ80% dei cereali viene usato per alimentazione animale, abbiamo un risultato energetico tale che per ottenere una caloria di manzo ne servono 35 di combustibile fossile. In altri paesi, lʼinefficienza energetica nascosta dietro unʼapparente progresso tecnico è meno marcata, ma il divario si sta colmando e paesi come il Messico, la Cina e lʼIndia procedono a grandi passi in questa direzione. E questo ci porta alla seconda contraddizione: una maggior efficienza è in grado di compensare lʼaumento generale di produzione che avviene nei paesi economicamente emergenti? Per rendersi conto della sostenibilità o meno dei nostri attuali modelli di sviluppo, possiamo utilizzare come indice la cosiddetta “impronta ecologica”, che misura lʼimpatto dei nostri stili di vita in termini di superficie terrestre equivalente necessaria ai processi di rigenerazione dellʼambiente. Un cittadino degli Stati Uniti sfrutta in media 9,6 ettari di superficie terrestre, un canadese 7,2, un europeo “medio” 4,5. In Italia, i valori aggiornati a un paio di settimane fa ci dicono che consumiamo a testa (le medie sono ovviamente diverse nelle varie regioni) lʼequivalente di 3,8 ettari contro gli 1,1ettari procapite di cui dispone il nostro paese. In questo momento lʼimpronta ecologica globale del pianeta raggiunge già il 120% della superficie disponibile. È evidente, data questa situazione, che solo il capitalismo ha interesse a far coincidere crescita e sviluppo, facendo credere che lo sviluppo umano non può che passare at- politica e società P traverso lʼaumento perpetuo delle merci prodotte. Rinunciare alla crescita, in questo senso, non vuol dire rinunciare alla doccia calda, ma semplicemente alla jacuzzi. Dʼaltro canto, mi sembra interessante, ma ancora inadeguato e per certi versi (anche se non volontariamente) fuorviante, il dibattito che fa ruotare la necessità di uscire dal modello “sviluppo = crescita” esclusivamente attorno allʼidea della “decrescita”, inizialmente lanciata da Georgescu-Roegen, e i cui principali alfieri attuali sono Serge Latouche e in Italia, fra gli altri, Mauro Bonaiuti. Anche in questo caso, parte della confusione che circonda la discussione è lessicale, ma esistono anche prospettive diverse in termini più squisitamente politici, su cui è necessario chiarirsi. Da un canto, la parola dʼordine della decrescita, applicata indistintamente a tutti i popoli o a tutti i sistemi di produzione, sarebbe ingiusta e/o inapplicabile. Anche il neoliberismo vuole imporre un certo tipo di decrescita, soprattutto di beni e servizi sociali: trasporti pubblici, sanità, scuola, assistenza agli anziani ecc. Inoltre occorre intendere se con crescita si intende aumento di energia e materia coinvolte nel processo produttivo (lʼaccezione che ho precedentemente impiegato) o crescita economica (lʼaumento del valore reale della produzione economica per abitante). Non necessariamente le due cose coincidono e far crescere il valore economico della produzione non significa necessariamente far crescere lʼenergia e la materia complessivamente utilizzata nel processo. Inoltre, non tutti i sistemi di produzione causano lo stesso degrado o impatto ambientale. La natura della crescita conta quindi almeno quanto la sua ampiezza. La necessità di diminuire lʼimpatto ecologico, che è urgente, non implica la decrescita di tutte le produzioni, senza distinzione tra loro, né che non vi siano differenze tra coloro a cui vengono destinate. Il rischio insomma è quello di sostituire un indicatore quantitativo con un altro indicatore quantitativo, quando occorre intervenire soprattutto sul come e perché si produce, non solo sul quanto, con la consapevolezza che qualsiasi messa in discussione del modello di sviluppo attuale è realista solo a condizione di rimettere in causa simultaneamente i rapporti sociali che lo sottendono. Dietro alla discussione sul modello di sviluppo e le compatibilità ambientali sta una partita in cui in gioco sono le finalità del lavoro, le tutele economiche e sociali e le prospettive di una società solidale. Per usare una vecchia dicotomia, dalla “nostra parte” molti hanno rinunciato al socialismo, senza aver ben chiaro con cosa sostituirlo, ma quello che ci viene proposto dallʼaltro lato è sempre lo stesso futuro: barbarie. 45 politica e società P Fattorie sociali come e perché ROSANNA SALVIA ALFONSO PASCALE L’impresa agricola tra terziarizzazione ed erogazione di servizi Con lʼavvento dellʼeconomia post-fordista, va emergendo sempre più la natura ʻterziariaʼ dellʼagricoltura, cioè la sua capacità di erogare servizi mediante nuove attività che affiancano la tradizionale funzione produttiva di beni alimentari. Al di là delle già note attività di tipo turistico, ricreativo e commerciale oppure di carattere paesaggistico e ambientale, prendono piede anche quelle che permettono di realizzare percorsi terapeutici, riabilitativi e di integrazione sociale, lavorativa e imprenditoriale di persone svantaggiate. Parlare in tal senso di “agricoltura sociale” non deve indurre ad equivoci. Tale aggettivazione non ha nulla a che vedere con lʼassistenzialismo. Con il termine “sociale” intendiamo, infatti, riferirci alla capacità delle imprese agricole di generare benefici nei confronti di gruppi vulnerabili della popolazione a rischio di esclusione sociale mediante lʼattività produttiva e lʼutilizzo di beni e strutture aziendali. Una prima caratteristica che rende lʼagricoltura un contesto potenzialmente inclusivo di soggetti fragili riguarda lʼorganizzazione aziendale. Lʼimpresa agricola si caratterizza, infatti, per una duttilità ed una versatilità che difficilmente si riscontrano in unità produttive di settori extra-agricoli. Le attività che si svolgono in campagna possono essere scelte tra un ventaglio molto ampio di possibilità che include attività in pieno campo e al coperto, di coltivazione e di allevamento, a ciclo breve o a ciclo lungo, ecc. Le stesse modalità con cui può essere svolto un processo produttivo sono molteplici. Infatti, se lʼobiettivo che guida le scelte dellʼimprenditore non è solo quello della massimizzazione 46 di un parametro economico, ma tiene conto anche di risultati di carattere sociale, quale la partecipazione attiva ai lavori agricoli di soggetti con svantaggio, le tecniche di produzione, che in una logica puramente economica risulterebbero inefficienti, in una prospettiva di efficienza sociale possono essere proficuamente condotte. Diversi altri aspetti rendono lʼattività agricola assolutamente unica in percorsi di inclusione di soggetti deboli: il senso di responsabilità che matura quando ci si prende cura di organismi viventi; i ritmi di produzione non incalzanti; la non aggressività delle piante e di molti animali da allevamento; la varietà dei lavori, quasi mai ripetitivi; la consapevolezza che tutti, anche coloro che svolgono mansioni minori o marginali, sono partecipi del risultato finale, un bene alimentare, la cui utilità è agevolmente riconoscibile. La “fattoria sociale” è, dunque, unʼimpresa economicamente e finanziariamente sostenibile, condotta in forma singola o variamente associata, che svolge lʼattività produttiva agricola e zootecnica proponendo i suoi prodotti sul mercato, in modo integrato con lʼofferta di servizi culturali, educativi, assistenziali, formativi e occupazionali a vantaggio di soggetti deboli (portatori di handicap, tossicodipendenti, detenuti, anziani, bambini e adolescenti) e di aree fragili (montagna e centri isolati), in collaborazione con istituzioni pubbliche e con il vasto mondo del terzo settore. Nelle fattorie sociali le attività assistenziali si potranno estendere alla cura degli anziani che non sono più autosufficienti, prevedendo soggiorni periodici che potrebbero coincidere con le visite scolastiche, e dar luogo a forme organizzate di tra- politica e società P smissione delle esperienze dalle generazioni più mature ai ragazzi. In esse si potranno insediare asili nido, ludoteche, centri di produzione artistica. Si sperimenterà la possibilità di ospitare persone che per la degenza post-ospedaliera, invece di occupare posti letto utilizzabili da altri pazienti in lista di attesa, potrebbero riabilitarsi, in minor tempo ed a costi più contenuti, stando in campagna. Si potranno installare servizi internet e postali, punti vendita di libri, giornali e materiale multimediale, sportelli di enti ed associazioni, soprattutto nei piccoli centri dispersi dove queste attività non sono economicamente sostenibili se svolte in via principale. La fattoria sociale, in sostanza, è un centro di servizi sociali, ma anche di aggregazione delle aree rurali, dove la comunità si ritrova, con le persone che vi operano, nelle più svariate iniziative, da quelle culturali a quelle ricreative e turistiche. La fattoria sociale è, pertanto, una impresa che utilizza in gran parte fattori di produzione locali ed eroga i propri servizi alla comunità nella quale è inserita. Attiva sul territorio reti di relazioni, crea mercati di beni relazionali, offre risposte a domande sociali latenti o alle quali i sistemi di welfare non sono più in grado di rispondere, genera capitale sociale, ingrediente fondamentale in qualunque ricetta di sviluppo locale. La fattoria sociale è, inoltre, un potente agente di sviluppo delle aree rurali. Tali territori, infatti, non saranno mai competitivi se si affideranno solo ai beni e ai servizi in sé e alla loro tipicità, senza riprodurre i valori etici, culturali, umani, che la sottendono, e senza riattivare in forme moderne la specificità delle relazioni interpersonali. Oltre queste valenze di carattere generale, la fattoria sociale presenta anche una sua peculiarità nella diversificazione dellʼofferta di beni alimentari. I prodotti che si ottengono dalle attività agricole svolte in una fattoria sociale non portano i segni di eventuali difficoltà delle persone che hanno contribuito al processo produttivo. A parità di altre condizioni, dalle olive raccolte da un soggetto ad esempio con ridotte capacità mentali, si ricaverà un olio del tutto comparabile con quelle raccolte dal più esperto degli olivicoltori. Lo stesso può dirsi dellʼannaffiatura di un orto o dellʼalimentazione di galline da uova, e via discorrendo. Questa proprietà, indubbiamente più presente in agricoltura rispetto ad altri settori produttivi, risulta di estremo interesse per le potenzialità di commercializzazione che i prodotti dellʼagricoltura sociale presentano. Le opportunità sono molteplici, dalla vendita diretta in azienda al rifornimento da parte dei gruppi di acquisto solidale, dalla costruzione di una rete di negozi dellʼagricoltura sociale alla creazione di spazi nella grande distribuzione. A tal fine diventa essenziale la valorizzazione dei prodotti delle fattorie sociali mediante lʼetichettatura etica. LʼAssociazione “Rete Fattorie Sociali” (www.fattoriesociali.com) ha registrato un marchio collettivo e si è dotata di un regolamento dʼuso per valorizzare i prodotti e i servizi delle aziende associate. La possibilità in un contesto produttivo agricolo di ottenere prodotti di qualità apre ampi spazi per lʼimpresa sociale in agricoltura. Esperienze di imprenditorialità sociale in agricoltura sono attive in tutte le regioni italiane da molti anni, ma sono state 47 politica e società erroneamente considerate come oggetti ʻanomaliʼ e comunque appartenenti alla sfera delle politiche sociali e non a quelle dello sviluppo rurale. Vi sono poi numerose situazioni, peraltro mai quantificate, che vedono aziende agricole erogare implicitamente un servizio sociale nei confronti di soggetti deboli. Si tratta di famiglie conduttrici di imprese agricole che presentano tra i propri componenti un soggetto con svantaggio: persona con disabilità fisica o psichica, soggetto con ritardo cognitivo o con difficoltà di integrazione sociale. Per questi casi manca una normativa in grado di riconoscere lʼapporto professionale del disabile e di sostenerne lʼulteriore qualificazione. Fra le poche iniziative assunte dalle istituzioni pubbliche in materia di agricoltura sociale si ricorda quella della Regione Veneto che, nel proprio Programma di Sviluppo Rurale (PSR) prevede espressamente incentivi per le fattorie didattiche e quelle sociali nellʼambito della misura 16 relativa alla diversificazione delle attività legate allʼagricoltura; altre iniziative si ritrovano a livello di Province, in particolare in quella di Roma dove, attraverso lʼUfficio del Consigliere delegato alle politiche dellʼhandicap, si stanno assumendo una serie di iniziative rilevanti quali il Forum delle Fattorie Sociali, convegni e workshops di collegamento e riflessione comune fra le varie esperienze; la Giunta Regionale del Lazio ha annunciato un intervento legislativo in materia di agricoltura sociale. Se da parte delle Regioni venisse favorita lʼintegrazione delle politiche di sviluppo rurale, quelle della ricerca, formative e di trasferimento delle innovazioni tecnologiche, con le politiche socio-sanitarie e assistenziali, sarebbe possibile sperimentare un nuovo modello di welfare di tipo locale. Si tratta di inserire nei Programmi regionali di Sviluppo Rurale apposite misure di intervento, tra quelle destinate alla “diversificazione delle aziende” ed alla 48 “formazione”, a sostegno delle attività svolte dalle fattorie sociali. Per quanto riguarda la misura relativa ai “servizi essenziali alla popolazione e allʼeconomia rurale”, andrebbero contemplati anche quelli rivolti alle persone svantaggiate mediante lʼutilizzo delle risorse agricole. Lʼattuazione della legge 328 sui servizi alla persona, mediante lʼelaborazione dei “piani sociali di zona”, è il passo decisivo per costruire progetti integrati di sviluppo economico-sociale territoriale. Ma cʼè anche unʼulteriore novità da cogliere: la possibilità per una società che abbia al suo interno la presenza di almeno un imprenditore agricolo professionale, di godere di tutti i benefici previsti per questa figura. Si tratta di unʼopportunità notevole: cooperative che potrebbero assumere la configurazione agricola aprendosi agli agricoltori; operatori sociali e imprenditori che potrebbero dar vita a società agricole; giovani e anziani che potrebbero unirsi in una forma societaria per realizzare quelle attività che lʼanziano ha meno propensione a svolgere; comuni ed altri enti, come le Ipab, che potrebbero apportare terreni pubblici in fattorie sociali, entrando nella società e garantendo così le finalità dellʼimpresa; fattorie sociali che potrebbero mettersi in società con gestori di punti vendita o ristoro nei centri urbani e ricercare insieme le forme per valorizzare i propri prodotti. Accanto allo strumento societario, la legge di orientamento agricolo ha introdotto anche la possibilità per la pubblica amministrazione di attivare convenzioni e contratti con gli imprenditori agricoli. Si potrebbero sperimentare così convenzioni plurime tra Comuni, Asl, soggetti accreditati per lo svolgimento di servizi sociali e aziende agricole per realizzare progetti integrati. Sul versante delle tecnologie per migliorare la qualità del lavoro agricolo dei disabili, lʼindustria costruttrice di mezzi tecnici è in forte ritardo. P Solo recentemente il Ministero delle politiche agricole e forestali (MIPAF) ha finanziato il progetto Automazione per Disabili (A.MA.DI.) che dovrà essere realizzato dallʼIstituto sperimentale di meccanizzazione agricola (ISMA), dallʼAssociazione dei costruttori di macchine agricole (UNACOMA), dallʼEnte nazionale per la meccanizzazione agricola (ENAMA), in collaborazione con la Federazione italiana per il superamento dellʼhandicap (FISH). Si tratta di unʼattività sperimentale che partirà nella prossima primavera nei centri dellʼISMA di Monterotondo e Treviglio. Saranno così messe a punto diverse soluzioni al problema dellʼaccesso alla cabina di guida da parte di agricoltori disabili motori. Ognuna delle differenti soluzioni è corredata da dispositivi di comandi di guida manuali. La sperimentazione – nei paesi industrializzati - di modelli imprenditoriali e di nuove tecnologie da applicare in agricoltura in grado di produrre una migliore qualità sociale e ambientale consente di accumulare competenze e conoscenza contestuale da spendere nel sud del mondo. Questa nuova cultura dello sviluppo rurale potrà essere diffusa anche nei paesi poveri mediante interventi di cooperazione allo sviluppo, da attuarsi con lo stile della solidarietà e con il metodo partecipativo dellʼaffiancamento ad iniziative avviate da soggetti locali. La politica agricola comunitaria (PAC) oggi è nellʼocchio del ciclone per i suoi aspetti protezionistici e la sua incidenza nel bilancio comunitario. Se essa verrà finalizzata allʼallargamento dellʼagricoltura sociale potrà diventare più compatibile e coerente con un disegno di riequilibrio delle agricolture delle diverse aree del mondo. politica e società P Il mio “rifiuto” non t’offenda MARCELLO TRAVAGLINI Raccolta differenziata e politiche ambientali nella città di Potenza e in Basilicata: molti convegni e pochi concreti passi in avanti Gli ultimissimi dati sulla produzione e la raccolta differenziata dei rifiuti, rilevano un aumento in assoluto della loro produzione, sul territorio nazionale, del 7% circa, con percentuali, per la raccolta differenziata, che ripropongono per lʼennesima vota il divario nord/sud, con il nord che si attesta intorno al famoso 35% del decreto Ronchi ed il sud che arranca intorno al 10%. In tutto questo, gli ultimi dati relativi alla città di Potenza dicono che produciamo molto meno rifiuti rispetto ai cittadini del nord, ma la raccolta differenziata langue intorno al 12% (percentuale che a onor del vero fa una bella figura tra le regioni meridionali). Il 20 dicembre 2005 Legambiente ha presentato in un dossier, i risultati dellʼiniziativa “Comuni Ricicloni in Basilicata” che si conclude con la fatidica frase “un altro mondo è possibile...subito”. Se si guarda alla situazione di Potenza non si comprende il senso di questo “subito”. La raccolta differenziata a Potenza dal 1997 al 2005 è passato solo dallʼ8 al 12% del totale dei rifiuti prodotti e ha subìto addirittura una flessione tra il 2002 e il 2004 dal 14 al 12%. Ormai tutti gli amministratori, nelle loro varie vesti, sono pronti e preparati per intervenire a qualsiasi convegno sul tema (non ne perdono uno, anzi fanno di più: ne organizzano molti). A onor del vero anche il gruppo di Rifondazione al Comune ne ha organizzato uno, vi hanno partecipato in molti tra gli addetti ai lavori, tutti attenti ascoltatori e interlocutori. Ma di fatti concreti nulla. Ma allora, sulla questione rifiuti, come bisogna agire? Perché tanto silenzio sui ritardi delle varie amministrazioni? Perché si accetta supinamente la politica degli inceneritori? Perché non si riesce a creare un movimento di cittadini che sulla questione prenda la parola per costruire una politica che porti subito a raggiungere quei risultati che subito altre realtà del sud e del nord Italia, dellʼEuropa e del mondo, in città grandi e in città piccole hanno raggiunto a tutto vantaggio dellʼambiente, della partecipazione, della democrazia, della legalità e della pace? Infatti, quando si parla della questione rifiuti dobbiamo essere consapevoli che si tratta di guerre (vedi rifiuti nucleari), legalità (vedi eco-mafie), democrazia e partecipazione (vedi coinvolgimento dei cittadini nelle realtà più virtuose) e ovviamente di ambiente (vedi risparmio energetico e salvaguardia delle risorse naturali). La questione rifiuti è di tale importanza da doverla fare diventare un punto programmatico da portare su tutti i tavoli istituzionali e di governo. Per questo è necessario dar maggior forza alle proposte di seguito elencate, aderendo alla “Rete di collegamento rifiuti zero”, attorno alla quale si stanno coaugulando diverse realtà associative, di ricerca ed istituzionali, italiane, europee ed internazionali, per mettere in discussione le attuali politiche in materia di rifiuti, incentrate sullʼincenerimento e proponendo unʼalternativa concretamente possibile, attraverso: 1. il cambiamento del sistema di produzione delle merci nella direzione di cicli puliti; 2. un ridotto utilizzo di materia ed energia; 3. la riduzione dei rifiuti. Compito dei movimenti sociali e ambientalisti e dei partiti è quello di porsi obiettivi chiari ed ambiziosi correlati da programmi altrettanto chiari e altrettanto ambiziosi. Ma questo non basta: bisogna dire, senza timori, che le politiche fin ad ora adottate in ambito regionale, provinciale e nei capoluoghi di Matera e Potenza hanno portato a scarsi risultati e non hanno saputo frenare lʼaggressione al territorio (vedi discariche abusive e, soprattutto, questione dei rifiuti tossici e nucleari) Per tutti coloro che credono in un altro modello economico, basato sulla sostenibilità ambientale e su pratiche eco-compatibili e non aggressive nei confronti dei luoghi e dei suoi abitanti, non è più tollerabile vedere la propria regione continuare ad essere colonia per grandi impianti (Fenice) e “discarica” per rifiuti nucleari (non dimentichiamo la vittoria di Scanzano, ma anche la triste realtà della Trisaia di Rotondella). È ora di riportare le decisioni 49 politica e società politiche e la gestioni dei territori in mano ai cittadini e alla collettività. Per far questo e necessario attivare le “alte tecnologie sociali” che in tema di rifiuti vogliono dire: 1. la riduzione dei rifiuti allʼorigine; 2. il riuso degli oggetti e degli imballaggi; 3. il riciclaggio e la trasformazione della frazione organica (che rappresenta il 30/40% dei rifiuti prodotti) in compost; 4. il coinvolgimento diretto dei singoli cittadini, attraverso la divisione dei materiali fatta direttamente a casa (piuttosto che la raccolta multimateriale, come si vuol fare per esempio a Potenza); 5. la raccolta porta a porta al fine, tra lʼaltro, di realizzare una raccolta differenziata di qualità. Gli esempi in Italia e fuori ci sono e riguardano sia piccoli paesi che grandi città del nord e del sud (esempi virtuosi li abbiamo a due passi da noi nel Cilento). Molti pensano che nelle città grandi e medie, la raccolta porta a porta non sia applicabile; invece, con questo metodo, San Francisco nel 2004 ha riciclato il 66% dei rifiuti prodotti e conta di arrivare al 100% entro il 2020; Camberra prevede di arrivare al 100% nel 2010, ecc. Per fare questo è innegabile che occorrono nuove politiche ambientali e di recupero, a livello mondiale, statale e locale. Bisogna per esempio, con decisione, chiedere a tutti i livelli il blocco delle sovvenzioni e degli incentivi alla produzione di energia, mediante lʼincenerimento dei rifiuti (energia che oggi si classifica addirittura come rinnovabile), da dirottare verso programmi di riduzione e di riciclaggio e verso la ricerca di base, in settori chiave, oggi trascurati, quale la merceologia, la tossicità dei materiali e lʼimpatto sugli organismi viventi. È una buona notizia che nel programma dellʼUnione per le prossime elezioni politiche siano stati eliminati gli incentivi ai termovalorizzatori, ma preferiremmo eliminare anche i termovalorizzatori e lasciare gli incentivi per Riduzione, Recupero, Riutilizzo e Riciclo. Una nota a margine, sul modo di amministrare gli enti e le aziende pubbliche che si occupano di energia, rifiuti ed ambiente, nella nostra regione e nelle nostre città: non è possibile sperare di realizzare politiche ambientali lungimiranti se non si fa tesoro delle competenze presenti sul territorio, del contributo di associazioni e cittadini e se si continuano a riempire i posti di gestione con i primi della lista della spartizione partitica (o i primi dei bocciati alle elezioni), a prescindere dalle competenze e dalle passioni degli uomini scelti (giacché è quasi impossibile immaginare donne ai posti di gestione). Senza competenze e senza passioni, ma solo per potere, non faremo neanche un passo avanti. CONSORZIO VITICOLTORI ASSOCIATI DEL VULTURE Direttore Sergio Paternoster S.S. 93 BARILE (Pz) | telefono e fax 0972/770386 | e-mail: [email protected] | www.coviv.com 50 P politica e società P Il sistema delle banche pecora nera dell’economia locale RAFFAELE COLANGELO A Tremonti diciamo che abbiamo bisogno non di banche del Sud ma per il Sud. Nella storia del Mezzogiorno il sistema creditizio non sempre è riuscito a svolgere un sufficiente ruolo di stimolo In Basilicata il potere di mercato del sistema bancario è stato usato, in realtà, soltanto per scaricare sulla società locale un costo maggiore del credito, a copertura di inefficienze organizzative ed operative delle stesse banche. In un contesto così caratterizzato, il peggioramento delle variabili macro-economiche di inizio anni novanta, con la stretta monetaria e lʼaggiustamento fiscale che ne seguì, insieme allo smantellamento dellʼintervento straordinario, finiscono per avere un impatto pesante sulla domanda aggregata meridionale, soprattutto nelle aree – come quella lucana - poco strutturate per sfruttare le convenienze allʼesportazione generate dalla svalutazione della lira, e determinano una situazione di generale difficoltà delle imprese, molte delle quali sono spinto verso il fallimento. La difficoltà delle imprese coinvolge inevitabilmente il sistema finanziario locale; i crediti in “sofferenza” esplodono, mettendo in discussione gli equilibri di bilancio delle banche e rendendo ancora più fragile una struttura già intrinsecamente debole, come rileva il Ruozi (Conferenza Regionale sul Credito, 1995), che preconizza quella profonda riallocazione della proprietà delle banche locali verso soggetti più dinamici ed efficienti con sede e centri decisionali fuori dal territorio regionale, come succede nel giro di pochissimi anni. Rispetto alla situazione analizzata dal Ruozi, che aveva come anno terminale il 1993, come è cambiato il quadro finanziario regionale e quali effetti ha prodotto tale cambiamento? Proviamo a darne una rapida e sintetica evidenza. I soggetti che esercitano lʼattività di intermediazione creditizia in regione si sono ridotto di 5 unità, (-14%). La flessione ha interessato esclusivamente le banche con sede nella regione, diminuite di 15 unità (-68%). Insomma, a competere con 3 banche esterne oggi vi è 1 sola banca locale, mentre dodici anni fa ve ne erano 5. Inoltre, delle attuali 7 banche con sede in regione, ben 6 sono Banche di Credito Cooperativo, notoriamente con influenza territorialmente circoscritta; e la sola azienda di credito formalmente endogena fa parte di un gruppo bancario extra regionale. Dunque, la riallocazione proprietaria ha avuto lʼeffetto di privare la regione di un sistema creditizio autoctono. Per quanto riguarda gli sportelli bancari, vi è stata una crescita di 58 unità (+31%), che ha consentito un miglioramento dellʼindice di densità (da 3.300 a 2.500 abitanti per sportello), ma non quello di bancabilità del territorio (copertura ferma al 66% dei comuni). Tuttavia, sia in termini di disagio sociale sia di differenziazione dei mercati, la trasformazione del Bancoposta in una banca vera e propria, insieme allʼestendersi della rete operativa di altri strumenti presenti sul territorio (300 Bancomat attivi, oltre ai Postamat; 4.900 POS; 425 i promotori finanziari, dei quali 94 legati a banche e 75 legati a SIM), ne riducono notevolmente gli effetti. Sul lato degli impieghi bancari, il loro volume è cresciuto del 134%, meno che nel resto del paese (+206%). Conseguentemente, il peso relativo della regione, in termini di credito erogato, si riduce dallo 0,6% allo 0,4% (la metà del peso regionale in termini di valore aggiunto, che è pari allo 0,8%). Sembra, dunque, che le banche esterne non sono venute in regione per concedere credito alla società locale. Lʼeffetto di razionamento, tuttavia, è più significativo per il settore “famiglie”, piuttosto che per le imprese. Infatti, verso il settore produttivo (società e imprese individuali) il credito si sviluppa ad un ritmo simile a quello medio nazionale (+162% , contro il 169% in Italia), tantʼè che,in termini di peso relativo, non si hanno sostanziali variazioni (0,57% nel 1993, 0,56% nel 2004). Nel comparto “famiglie”, invece, si crolla dallo 0,8% allo 0,3% del dato nazionale. Inoltre, il credito concesso alle imprese che hanno forma di “società” cresce del 210%, mentre quello alle imprese “individuali” del solo 97% (ma il credito a questa tipologia di impresa è razionato in tutto 51 politica e società il paese [+13%], come conseguenza del processo di concentrazione, che ha ridimensionato il peso delle banche locali). In Basilicata questo effetto di razionamento è stato minore, probabilmente per il fatto che parte importante del sistema creditizio regionale si è riallocato, in termini proprietari, verso banche di medie dimensioni e con centri decisionali esterni, ma territorialmente prossimi alla regione lucana. È anche probabile che tale specificità ha contribuito a mantenere una valutazione del merito creditizio basata sul patrimonio personale dellʼimprenditore, piuttosto che sulla capacità di sviluppo dellʼimpresa. Ciò aiuta a spiegare perché, in contro tendenza con quanto avviene nel resto del paese, la qualità del credito continua a peggiorare. Il rapporto sofferenze/ impieghi cresce dal 15,9% al 17,6% nella regione, mentre in Italia diminuisce dal 5,6% al 4,7%; anche le partite “incagliate”, in rapporto agli impieghi, risultano più che doppie rispetto al resto del paese. Dunque, non solo la consistenza del credito “cattivo” è più elevata in regione, ma la stessa “produzione” di nuove sofferenza risulta più che doppia (1,9%, contro lo 0,9%), mantenendo estremamente elevato il rischio sistemico, con riflessi ovviamente non positivi sia sullʼaccesso al credito sia, e soprattutto, sul livello del costo del credito, mediamente più elevato di 1,2 punti rispetto alla media nazionale. Ora, pur considerando insufficiente, sotto il profilo del sostegno attivo allo sviluppo, lʼapporto offerto dalla nuova articolazione del sistema finanziario regionale (che, occorre dirlo, solo troppo recentemente ha trovato una sistemazione, con lʼuscita delle “banche-raider” ), resta quantomeno dubbio che la reale esigenza sia quello di “ricostruire” una presenza endogena nellʼambito della struttura creditizia regionale. Senza entrare nel merito della validità del progetto di costruzione di un nuovo soggetto creditizio autoctono, ci pare utile osservare nuovamente che il mercato del credito locale, accanto a soggetti endoge- 52 ni, vede la presenza importante di banche di medie dimensioni, alcune con centri decisionali prossimi al territorio lucano, con forma societaria di “popolare” (notoriamente quelle con maggiore attitudine ad operare come banche “locali”), il che rende complessivamente meno problematica la questione del credito commerciale. Ci pare, invece, che la questione vera, per il sistema produttivo regionale, è quella legata alla disponibilità di una finanziaria di sviluppo, cioè di una istituzione capace di accompagnare le imprese nella loro crescita dimensionale, di aiutarle a migliorare la loro struttura finanziaria ed il capitale proprio, di assisterle nei progetti di innovazione e nella ricerca del capitale finanziario e di rischio, di sostenerle nellʼapertura ad un mercato globale che non è più soltanto luogo di “vendita” del prodotto, ma anche dei servizi di accompagnamento (assistenza, manutenzione), i quali richiedono la creazione di sistemi di partnership e di logistica, possibili solo con la costruzione di reti relazionali e di alleanza. Compito che risulta proibitivo per le nano-imprese familiari del mercato locale, se non sono adeguatamente accompagnate e supportate. Il sistema delle imprese locali non ha bisogno soltanto di più credito ed a più basso costo, ha soprattutto bisogno di sostegno per operare in un mercato più competitivo ed innovativo, con coefficienti di rischio più elevati e margini di profitto decrescenti. Ha bisogno di strumenti professionali che lʼaiutino a comprendere e ad operare in una realtà più complessa. Ha necessità di una offerta finanziaria con una elevata componente di servizi (suddivisione del rischio, garanzia, consulenza, formazione, ecc.), piuttosto che prodotti tradizionali a contenuto prevalentemente quantitativo (concessione del credito). Come soddisfare questo bisogno, essenziale per il futuro del sistema produttivo regionale e per lo sviluppo dellʼeconomia locale? Con riferimento allʼintera area meridionale, una possibile soluzione è stata in- P travista nel favorire lʼingresso di nuovi soggetti (merchant bank, venture capital) e di attivare nuovi strumenti (project financing), magari con la nascita di un nuovo soggetto pubblico (la Banca Cooperativa di Sviluppo, sul modello della Banca Mondiale, proposta a suo tempo da Lo Cicero) con una specifica “mission” di politica economica. Tuttavia, in una realtà con un tessuto produttivo fortemente frammentato, come quello lucano, con una diffusissima presenza di micro-imprese, difficilmente si raggiunge quella scala di produzione capace di rendere conveniente lʼintervento di soggetti privati. Vi è la necessità, quindi, di creare una istituzione intermedia, capace di “coordinare” le professionalità e “garantire” il sistema finanziario. Pensiamo, nello specifico, ad un ente strutturato per leggere il mercato locale e dotato di specifiche professionalità per comprendere le potenzialità di sviluppo delle imprese, guardando certo allo “standing”, ma soprattutto alla ricchezza immateriale (capacità manageriale, grado di innovazione dei prodotti, ecc.) di cui dispongono. Merchant bank, venture capital ed altri soggetti finanziari privati potrebbero essere interessati a valutare le opportunità prospettate da un istituto che ha come “mission” il monitoraggio costante del mercato locale al fine di selezionare le iniziative a più elevato potenziale di sviluppo (sarebbe utile anche la costituzione di una “borsa locale”, inserendo tali aziende nel listino). In assenza di operatori privati interessati, tale Ente potrebbe acquisire partecipazione diretta di minoranza, apportando professionalità e competenze specifiche, promuovendo lo sviluppo e la internazionalizzazione delle aziende partecipate, reperendo solo successivamente gli investitori interessati ad entrare nel capitale di rischio. Più in generale, poi, a sostegno del processo di internazionalizzazione del sistema produttivo locale, insieme agli indispensabili interventi infrastrutturali e di contesto, andrebbe promosso lo sviluppo dei consorzi export, importanti in politica e società P un sistema contrassegnato dalla descritta morfologia imprenditoriale. Infine, con riferimento alla questione dellʼaccesso al credito, anche per le piccole imprese non orientate allʼesportazione, permane essenziale il ruolo dei Consorzi Fidi, puntando a migliorarne la qualità dei servizi offerti ed accompagnandoli a conseguire dimensioni maggiori, at- Un poʼ di teoria... Il legame di interdipendenza tra evoluzione della struttura economica e trasformazione del sistema di intermediazione finanziaria è tornato prepotentemente al centro della discussione politica con la proposta avanzata da Tremonti circa la costituzione di una Banca del Sud, prevista con lʼultima finanziaria. “Non è tanto e soltanto quanto credito si eroga e a che prezzo. È soprattutto chi lo eroga”, scrive Tremonti sul Corriere della Sera; lasciando intendere che soltanto la presenza di un soggetto finanziario endogeno, capace di interagire organicamente con le forze imprenditoriali meridionali, può essere risolutiva per lo sviluppo produttivo del Mezzogiorno. Sul ruolo delle istituzioni, ed in particolare delle istituzioni finanziarie, nel processo di sviluppo economico ed industriale di un territorio, non cʼè unanimità di vedute. Per la teoria neoclassica (Walras, Marshall, Von Wieser) il credito svolge un ruolo “neutrale”, nel senso che asseconda le esigenze che emergono nellʼeconomia reale. Insomma è un “posterius” rispetto al processo di accumulazione reale. Per il pensiero classico (Schumpeter, Kalecki, Keynes), invece, il credito svolge un ruolo “attivo” nella guida del processo di sviluppo reale. Il sistema finanziario, in sostanza, non solo funge da “intermediario”, ma svolge un ruolo traverso fusioni o con la costituzione di Consorzi di secondo livello, al fine di renderli efficaci nel nuovo contesto definito da Basilea II. I nuovi Consorzi Fidi potrebbero anche svolgere una utile funzione di “mediazione culturale” tra il nuovo linguaggio dei rischi oggettivi basati sui dati di bilancio (credit scoring) e quello adottato dalle imprese minori, basato su un approccio relazionale e su bilanci approssimativi, facendo evolvere la cultura finanziaria nelle piccole e minori imprese. Tale mediazione faciliterebbe lʼopera delle banche endogene e di quelle che comunque intendono continuare ad operare con le modalità tipiche del “localismo” bancario. determinante nelle interrelazioni che caratterizzano lo sviluppo della economia reale. Ruolo che diventa “indispensabile” nelle economie arretrate, dove lo sviluppo economico “dipende” dallʼattivo supporto assicurato dal sistema finanziario. Evidenze storiche favorevoli ad un ruolo attivo delle istituzioni, ed in particolare del sistema finanziario, sono offerte dagli studi di Gershenkron, con particolare riferimento al processo di industrializzazione tedesco (1850-70). Purtroppo nella storia del Mezzogiorno la struttura finanziaria e, in specifico, il sistema creditizio, si sono mostrati scarsamente idonei a svolgere questa azione attiva di stimolo e di sostegno. Con riferimento al recente passato, è possibile che tale deficit di sostegno attivo sia imputabile – come sostiene, ad esempio, Massimo Lo Cicero - al meccanismo delle agevolazioni finanziarie e della contribuzione a fondo perduto, operanti allʼinterno dellʼintervento straordinario, che ha reso elevato il grado di irresponsabilità dellʼimprenditore rispetto alle finalità del progetto industriale, e conseguentemente allo sviluppo della economia locale; una fuga dal rischio che ha interessato anche il sistema del credito. Un circuito perverso, certo, ma che generava diverse convenienze particolari: 1. per il sistema delle imprese che, non avendo particolari esigenze di capitalizzazione, ha potuto tener fuori dallʼaziendale i possibili finanziatori del rischio, potendo così basare la crescita dimen- sionale senza mettere in discussione lʼassetto proprietario “familiare”, né la struttura manageriale. In questa chiave si comprende non solo perché al sistema finanziario si richiedeva quasi esclusivamente credito commerciale, ma anche perché le relazioni permanessero ad un livello piuttosto informale e discrezionale, se non opaco, e le condizioni del credito concesso fossero valutate in base alla forza contrattuale personale del “prenditore”, piuttosto che alla qualità dellʼimpresa; 2. per il sistema del credito locale che, potendo limitarsi ad organizzare una offerta di prodotti e servizi di tipo tradizionale, traeva vantaggio dal non operare costosi investimenti sul piano della qualità e dellʼinnovazione, che avrebbero richiesto consistenti irrobustimenti di capitale proprio. Sul piano del rischio, oggettivamente elevato in tale situazione, la singola banca, dʼaltra parte, si tutelava e ne limitavano gli effetti (ed i conseguenti costosi accantonamenti) ricorrendo alla pratica del multi affidamento. Questo sistema di convenienze ha finito per prevalere anche quando le banche “endogene” (per diffusione sul territorio, per potere di mercato) erano in grado di “spingere” (seguendo il modello del big push di Rosenstein e Rodan) lungo un sentiero di sviluppo industriale. Raffaele Colangelo 53 politica e società P Agrituristica del Vulture Soc. Coop. a r. l. Località Piano della Spina - 85020 Ripacandida (PZ) Telefono e fax 0971 808757 54 politica e società P Uso delle droghe tra crimine e colpa SIMONE CALICE Le norme volute da Fini sono un atto di inciviltà senza precedenti La Legge, qualsiasi legge, è sempre fondamentalmente compresa tra due ambiti: quello propriamente giuridico, che riguarda il crimine; e quello morale, etico, che riguarda la colpa, o religiosamente dicendo, il peccato. È un luogo comune quindi, quello che dice che una legge non è opinabile, perché questo può esser vero per quanto riguarda il suo primo aspetto, e come tale essa va, dunque, rispettata ed applicata, e fatta rispettare, e non violata. Ma una legge può essere discussa, deve essere discussa, a partire dal luogo in cui le leggi si scrivono, e cioè il Parlamento. La prima debolezza, perciò, della nuova legge sulle droghe, la legge Fini per intenderci, dal nome del suo primo firmatario e promotore, consiste proprio in questo: che non è stata discussa. Essa è stata inserita, con una pratica tipica di un cattivo governo, in un pacchetto di decreti straordinari per le Olimpiadi invernali di Torino 2006, e votata per fiducia. Una legge che riguarda sei milioni accertati di persone (sono i consumatori di droghe leggere), solo in Italia, è stata approvata sulla fiducia da chi stava votando per decidere dove avrebbero dormito gli atleti o quanti agenti impiegare per la sicurezza o quanti soldi destinare alle diverse strutture e via dicendo. Cʼè già qualcosa che non va, e non è la sola. Anche da un punto di vista giuridico essa presenta unʼenorme incongruenza; non certo formalmente (che ci starebbero a fare tanti avvocati in Parlamento sennò!) ma sostanzialmente si, perché equipara lʼuso di droghe “leggere” a quello delle “pesanti”, che è come dire che è lo stesso se tu vai in giro con un tagliacarte o con una calibro 12. “La marijuana è un narcotico benigno ma J. Edgar Hoover preferisce il suo scotch micidiale E lʼeroina di Lao Tze e del Sesto Patriarca è punita con la sedia elettrica ma i poveri drogati malati non hanno luogo ove posare la testa belve nel nostro governo hanno inventato per la tossicomania una cura antiquata come il Sistema di Difesa di Preallarme Radar”. (Allen Ginsberg, Kaddish and others poems, 1959) “Finchè lʼuomo possiede il suo corpo lʼamore o il vino lo drogano e addormentano. E risvegliandosi, a Dio rende grazie, per avere il corpo e la sua stupidità”. (W.B.Yeats, Last Poems, 1939) Questa legge cioè, non fa alcuna distinzione tra cannabis e eroina, cocaina, crack, anfetamine, ecstasy, Lsd e tutte le sostanze possibili sintetizzate dallʼuomo per spegnere un poʼ, o per sempre, la “luce”. Ho scritto sintetizzate, intendendo che per essere tali, hanno bisogno di un laboratorio, dove operare, appunto, una sintesi chimica, per trasformarle in alcaloidi nel caso di cocaina ed eroina, ad esempio. Ciò non vale per la marijuana, che è presente in natura da sempre e si consuma, si fuma, così comʼè. Anche il principio attivo della coca è un prodotto della natura (gli Indios continuano a masticare le foglie della pianta quando, per giorni, sono costretti a cacciare lontano da casa) ed è intervenendo chimicamente su quelle foglie e mescolandone il risultato con il cemento e non solo, che si ottiene quella polvere tanto cara a molti milioni in più degli accertati. Tutto ciò non è certo per fare unʼapologia della droga, di qualsiasi droga, ma se in natura non datur casus, bisognerà considerare che è pur sempre lʼintervento umano a rendere criminali le cose. Cʼè poi una terza discordanza, che potremmo definire di valutazione: la legge dice che a determinare il tipo di sanzione (mi riferisco allʼamministrativa e non alla penale), non sono i grammi posseduti ma il contenuto di THC, che è il principio attivo della marijuana, il tetrahidrocannabinolo, ciò che dà sostanza alla “sostanza”. La natura ce ne fornisce mediamente una quantità che si aggira tra il 7% e lʼ11% a grammo; ma quello che i promotori di questa 55 politica e società P legge non sanno, tra le altre cose, (perché avranno pure fumato una canna, ma mi sa che non lʼhanno capita) è che esso può essere aumentato o meno a piacimento, e per farlo non serve uno scienziato ma solo un attento studente di discipline scientifiche (che infatti di solito lo aumenta attraverso un innesto, più o meno come si fa con i gerani, tanto per capirci). Allora me li immagino, fior di medici e analisti, a pattugliare le strade con le forze dellʼordine e a misurare allʼistante quanto THC cʼè nello spinello che ti stai fumando! E se chi te lʼha venduta, o la natura, hanno esagerato, scatta quella che chiamano una sanzione amministrativa (oltre al ritiro di documenti, come patente, passaporto e così via); una multa cioè, un pagamento in denaro, una tassa, indiretta, sulle canne!?! Siamo alla farsa, ma cʼè poco da ridere, soprattutto per quanto concerne il limite peggiore di questa legge, una quarta illogicità, che riguarda lʼaspetto etico. Cʼè un prete, un prete sbagliato, tale don Gelmini, che scambiando il pulpito di un congresso nazionale di partito con quello di una chiesa, ha pronunciato queste parole: “è una legge che aspettavo da ventʼanni, e ora che è arrivata, affido a voi la difesa dei principii cristiani”. Cʼè ancora qualcosa che non va, ed è la più grave. Le leggi di uno stato laico non dovrebbero mai nemmeno pensare di difendere nessun principio religioso (le religioni sì, ma non i loro precetti), di qualsiasi religione si tratti (ammesso che la lotta alla tossicodipendenza rientri tra le prove di fede, eppure, avendo letto le Scritture, non ne ho mai trovato cenno). 56 Così facendo, volontariamente o meno, si confonde il crimine, il reato, con il peccato, con la colpa originaria. Il vizio e la sua tentazione appartengono allʼuomo; il vizio esibito e quello privato, il vizio come debolezza che sta incessantemente a ricordarci della nostra “finitezza”. Resistere alle tentazioni, alle proprie umanissime pulsioni, è ciò che distingue i mortali dai santi. Non commettere un reato, rispettare le regole di una comunità a cui si appartiene, è ciò che invece distingue un cittadino da un criminale, ed è su questo che una legge dello Stato dovrebbe concentrarsi. Se esiste una punizione per le nostre fragilità, lo dirà, per chi ci crede, quellʼaltra vita. Se la legge Fini fosse una legge ben fatta, punirebbe, come giustamente fa, solo chi sulla vita degli altri ci specula, si arricchisce attraverso lo spaccio e il commercio di sostanze stupefacenti. Mandare in galera chi nel vizio si è perduto, e con queste premesse di fondo, è come se il fine non fosse già di far sì che lʼuomo diventi morale, ma che si senta il più possibile peccatore. Questa legge sembra, quindi, quattro volte sbagliata, ed è già un motivo sufficiente per ri-discuterla. Scriveva Boccaccio nel Decameron: “umana cosa è aver compiacenza agli afflitti”. Le leggi della Natura, e persino quelle di Dio, preservano e premiano i più forti, i più virtuosi, i più meritevoli; che quelle degli uomini abbiano cura dei deboli. S udPosizioni Esiste ancora una questione meridionale? Crisi dello storicismo e fine della cultura meridionalista FULVIO TESSITORE Con il declino dell’influenza del pensiero crociano su liberalismo e marxismo cade anche l’attitudine a un esame critico dei problemi del Mezzogiorno. Il provincialismo della cultura italiana sta nella sottovalutazione degli storicismi di origine tedesca anti-ontologici e anti-metafisici e nel credito dato al pensiero sociologico astratto H a fatto bene Piero Di Siena a riproporre la domanda sulla sussistenza della questione meridionale. E ha fatto bene, di conseguenza, Decanter ad aprire una piccola inchiesta, che sʼè risolta in una ricognizione del problema e in una serie di proposte, che, a loro volta, attendono dʼessere confrontate e discusse. A voler riassumere, con una battuta un poʼ semplificatrice ma forse efficace, si può dire che è finito un certo meridionalismo ma non è finita la questione meridionale. E, forse, il vero del problema sta proprio in questa apparente contraddizione, in questa certa stanchezza della riflessione sul problema, fuori di stereopiti e lontano da autoreferenzialità e autogiustificazioni, entrambe cose interessanti ma inutili. Credo sia indispensabile, per dire la mia di invitato al dibattito, presentare, con rapidità e quindi col rischio della semplificazione, la ragione, la mia ragione, dello scollamento che ho indicato, iniziando, tra problema e riflessione sul problema. A mio credere la ragione è ar- ticolata, come del resto è tutta la realtà, mai semplice, sempre complessa, tanto da essere inesauribile (che non vuol dire ineffabile). Orbene la crisi del meridionalismo è a mio giudizio, una delle conseguenze di una poderosa trasformazione che la vita culturale, politica e sociale del nostro Paese visse alla fine degli anni ʻ50 e fino al fatidico e mitico ʻ68, né si può dire che sia finita. Allora si consumò definitivamente la crisi dello storicismo (meglio di un tipo di storicismo) che aveva rappresentato lʼelemento forte e caratterizzante della vita italiana nella prima metà del secolo. E lʼaveva rappresentato trasversalmente alle posizioni e agli schieramenti ideologici. Basti pensare allʼincidenza di Croce, alla funzione del crocianesimo per quanto attiene alla cultura liberale ma anche a quella marxistica. Non vʼè dubbio che il meridionalismo liberale risentì del venir meno di quel canone interpretativo, in base al quale lʼincidenza dei valori morali della storia e nella storia era importante, fino al punto da mettere in ombra altri fattori. E lo so vide in Giustino Fortunato, il cui naturalismo positivisticheggiante non restò immune da quegli elementi, che, nella svolta del Novecento, investirono anche la sua metodologia e la sua interpretazione della storia del Mezzogiorno, con la connessa teoria delle “due Italie”. Ma il fenomeno riguardò anche e poderosamente la cultura marxistica e le scelte culturali ed ideologiche del PCI, che aveva ereditato, metabolizzato e trasformato il meridionalismo fortunatiano e ne aveva fatto una bandiera della propria politica e della propria lettura della storia dʼItalia. E qui è necessaria una pur breve sosta, tantʼè la rilevanza della questione, almeno nella linea interpretativa che mi sembra di poter avanzare. A metà degli anni ʻ60 (proprio del 1965 sono alcuni articoli assai significativi de “Il Contemporaneo”) il PCI mise drasticamente in discussione la tradizione storicistica che, da De Sanctis a Labriola, non senza la mediazione di Croce, aveva costituito la base ideale del movimento democrato e popolare. Sembrò allora (e la rilevazione non era infondata) che 57 sudposizioni S questa scelta avesse sequestrato il movimento marxistico e la sua cultura dalla cultura democratica europea, americana ed internazionale. Proprio al 1965 risale lʼassai emblematica polemica tra Cesare Luporini e Ranuccio Bianchi Bandinelli. A giudizio del primo, riprendendo Labriola in termini assai lontani dalle proposte crociane, bisognava individuare il proprium del marxismo nellʼisolamento della “struttura economica” della società rispetto a tutti gli altri rapporti sociali, al fine di rendere evidente la dinamica sociale che è tale in quanto dialettica di forze produttive e rapporti di produzione. Il marxismo andava letto secondo un metodo strutturalistico, e non storicistico, poggiando sullʼelaborazione del concetto di “formazione sociale”, senza di cui nulla è dato intendere delle forme di produzione che a loro volta decidono il rango e la influenza di tutte le altre forme sociali. La conclusione di Luporini era netta e drastica: “In questione è la nozione stessa di storicista”. “Lo storicismo, in qualsiasi sua versione, ci ha abituato ad una concezione generica (e, in quanto tale, ideologica e non scientifica) dellʼaccadere storico”. Siffatta concezione “proiettata sul marxismo (…) conduce ad una distorsione enorme (…) del problema stesso della storicità, che consiste nella illusione che la conoscenza scientifica ad esso propria vada dalla ʻstoriaʼ al ʻsistemaʼ ( ma del sistema si cerca si parlare il meno possibile)” . Si apriva così una fase le cui conseguenze, forse, sono andate al di là dellʼaccuratezza critica di Luporini nellʼinseguimento, spesso incondizionato quando non acritico, delle negazioni dello strutturalismo, tanto da provocare conseguenze pesanti sulla tenuta della stessa cultura politica di sinistra. Penso al drastico rifiuto dellʼ atomismo logico, che nega la sussistenza di elementi isolabili fuori del sistema di relazione tra i fenomeni; penso alla concezione anti-empirica della struttura come modello esplicativo del 58 reale e tuttavia estraneo alla realtà, a cui va applicata una regola di trasformazione che riporta matematicamente le differenze osservabili ed osservate alle varianti di una medesima combinazione logica; soprattutto penso allʼantistoricismo ed antiumanismo non tanto nel senso di un privilegiamento degli elementi della statica sociale rispetto a quelli dinamici, quanto in quello di una scientificizzazione naturalistica delle scienze sociali, che implica la negazione della temporalità come dimensione grazie a cui gli eventi acquistano significazione per lʼuomo in quanto essere ed esistenza storica. Non è difficile capire la fortuna che siffatti princìpi ( forse utili in altri contesti dottrinali, almeno allʼepoca della loro fortuna, oggi, fortunatamente, tramontata) potettero avere ed ebbero sulla impostazione di una questione come quella meridionale, col suo carico di umanità dolente, di tragica dinamica sociale fatta di strutture storiche e non logiche. Se ne avverte ancora oggi qualche eco nel bel libro recente di una protagonista di questa svolta della politica culturale del PCI, Rossana Rossanda, quando nel critico ed autocritico racconto della storia de La ragazza del secolo scorso allude al “meridione nervoso e orgoglioso cui si dava corda con Salvemini, Guido Dorso e Tommaso Fiore senza risolverne mai le questioni”, aggiungendo, a proposito della nuova strada intrapresa, che “gli intellettuali comunisti del mezzogiorno parevano considerarla un incidente di percorso, un vuoto rispetto alle magnifiche sorrti che avrebbero saldato direttamente un nobile passato a un libero futuro”. Non nego le deficienze di una tradizione ripetuta stancamente. Ma come non concordare con la Rossanda quando parla di ciò che allora ella contribuì “a disfare” come di un “opus nigrum - distruggere una creatura malefica prima di crearne unʼaltra”, ovvero quando osserva che avrebbe “dovuto leggere con più pietas il Diario di un borghese” di Bianchi Bandinelli, che non si stancava La questione meridionale tra realtà e rappresentazione Affetta da una forma grave di coazione a ripetere, sistematicamente accaparro e leggo libri sul Mezzogiorno. Sto quindi alla rubrica di Decanter (Esiste ancora una questione meridionale?) come la lettrice di Calvino sta di fronte a Se una notte di inverno un viaggiatore…., cioè proprio quella che si convince di essere il personaggio di cui si scrive e prova il desiderio di scoprirsi e di scrivere allʼautore dichiarandosi. Per questo, avendo già cominciato a mangiucchiare il libro della Petraccone, ho ceduto allʼimpulso di promettere una sua recensione alla redazione di Decanter. Il libro non mi è piaciuto e, dunque, mi tocca spiegarne il perché. “La questione meridionale non può essere ancora consegnata al passato”. In risposta allʼinterrogativo posto da Di Siena sembrerebbero parole di conforto quelle che ci giungono da parte della Petraccone che, nellʼintroduzione al suo volume, segnala quanto lʼantica quistione occupi tuttora la ribalta nel dibattito politico, economico e culturale nazionale. Tuttavia, lamenta lʼautrice, essa costituisce una espressione di cui si è persa la memoria storica e che viene impiegata in termini generici e per questo si accinge a ricostruire la genesi e lʼevoluzione nei suoi quasi 150 anni di storia. Non cʼè dubbio che si tratta di unʼintenzione meritoria soprattutto perché, mi è sembrato di intuire, il libro trova tra i suoi naturali di ricordare che la cultura non è qualcosa che si sovrappone ai fatti storici come sovrastruttura che dà loro significato e valore, ma è il tessuto connettivo di quei fatti, fatto essa stessa che consente di individuare i nessi e i significati lontani, talora nascosti, senza cedere né a torbidi ir- sudposizioni S destinatari quei giovani meridionali, figli della scolarizzazione di massa, che Di Siena indica come un soggetto imprescindibile per ridare senso alla quistione e che per me prendono i volti e gli “occhi stanchi” degli studenti universitari dei corsi triennali. E, devo aggiungere, se sono loro i destinatari privilegiati, la scrittura della Petraccone ha sicuramente il pregio di farsi capire. Ma come è noto, capire non significa necessariamente comprendere. Per farsi comprendere si deve essere disposti a consegnare le chiavi di lettura del proprio ragionamento laddove, invece, lʼautrice affida al lettore il compito di dedurre dalla sua esposizione quanto di nuovo ed originale emerga dallʼuso politico che oggi si fa del dualismo e quanto invece sia da attribuirsi a vecchi stereotipi (è sarebbe questo un movente per studiare la questione meridionale?). Sollevatasi dalla incombenza di dover dichiarare le proprie tesi circa quale sia la realtà e di valutare criticamente quali e quanto siano distorte le sue rappresentazioni, la Petraccone procede a raccontare la storia della questione meridionale attraverso il succedersi dei suoi principali personaggi e interpreti. Per quanto riguarda il primo secolo post-unitario, si tratta sicuramente di una esposizione più dettagliata di quanto non avvenga nei correnti manuali di storia, ma senza sostanziali innovazioni. Con lʼestinzione della stirpe dei meridionalisti (e siamo arrivati alla fine degli anni ʼ60) comincia a scarseggiare anche la materia prima (o il semilavorato?) utilizzata fino a questo momento. E sarebbe convenuto fermarsi qui, perché da questo punto in poi il dibattito più recente sulla questione meridionale (comunque non si va oltre gli anni ʼ90 del secolo scorso) viene presentato in maniera talmente approssimativa e frettolosa da renderne la lettura del tutto inutile, per chi ne abbia una qualche idea, e decisamente dannosa, per tutti gli altri (a cominciare dai quei giovani meridionali di cui si diceva prima). E sono invece questi ultimi quarantʼanni che meriterebbero di essere affrontati con ben altra profondità di indagine. Se, accogliendo la tesi di Vacca, la fine della questione meridionale è stata decretata ben prima e altrove rispetto alle letture leopardate del Mezzogiorno degli anni ʼ80 e ʼ90; se essa era implicita nellʼincapacità delle principali culture politiche del Paese “a ripensare efficacemente il nodo del dualismo”, penso che converrebbe offrire ai lettori di Decanter lʼopportunità di una verifica e di un confronto sulla elaborazione che quelle culture, che in gran parte coabitano nel centro-sinistra, sono in grado di esprimere oggi non solo a Trevico, ma anche a Torino (parafrasando il titolo di un noto film di Scola). Tanto meglio se nel confronto Trevico è in grado di mettere in campo idee e pratiche di un diverso ed autonomo modello di sviluppo. Differentemente, e per quello che mi riguarda, sicuramente non riuscirò a sottrarmi facilmente alla mia coazione a ripetere ma neanche a dissipare il dubbio che arrovellarsi sulla questione meridionale sia un personale vezzo intellettuale, per quanto evidentemente diffuso tra i lettori di questa rivista. Fara Favia razionalismi, né a costruzioni puramente ideologiche che staccano lʼuomo dalla realtà del mondo e lo sterilizzano, nel senso di renderlo privo di infezioni (che però sono le infezioni della storia) così da renderlo sterile ed infecondo, proprio in quanto logicamente destoricizzato nello strutturalismo anti-umanistico. La lettura del Mezzogiorno non poteva non risentire di questo privilegiamento della logica dellʼastratto sulla logica del concreto; non poteva non risentire e gravemente di una lettura, logicamente consequenziaria, che lo trasformava in unʼeterna anomalia, che non poteva che essere risolta da una rivoluzione sempre sul punto di scoppiare e che, però, non scoppiava, come non era scoppiata nel passato di questo presunto immobile blocco storico. Non posso andare oltre. Ma sta qui, a mio giudizio, una delle ragioni della crisi del meridionalismo, anche e soprattutto di quello marxistico, che ha prodotto la dissociazione tra meridionalismo e questione meridionale, con una aggravante quanto alla polemica anti-storicistica. I nostri marxisti (e non essi soltanto) non conoscevano altra forma di storicismo che quello crociano, per di più letto riduttivamente seguendo una hegeliana filosofia della storia, che proiettava la propria ombra anche sul materialistismo storico, letto più secondo lo hegelismo di Gentile che non quello di Croce. Ossia si riteneva il materialismo (anche quello interpretato da Labriola) come una teodicea sociale, una deterministica filosofia della storia a cui il determinismo strutturalistico dava nuova forza. La lettura crociana del materialismo storico come canone di interpretazione storiografica (che apriva ad una rigorosa, realistica indagine del sociale e delle sue forze e dei suoi condizionamenti) veniva considerata una idea riduttiva, proprio in quanto contraria agli emanatismi da filosofia della storia, indirizzata dal perfettismo logico e sociale verso un esito fatale, fosse pure quello della liberazione dellʼuomo dallʼuomo, del quale si perdeva la forza delle scelte libere e responsabili in grado di capire che, se le cose non andavano bene, era sbagliata la diagnosi di esse e non il loro accadere. La cultura italiana, anche quella di sinistra, mostrava così il suo provincialismo, che non lasciava spazio agli storicismi, quelli critici e problematici di matrice tedesca, decisamente anti-metafisici ed anti-ontologici, in quanto poggiati sul prospettivismo della scelta responsabile tra valori diversi, resi assoluti non già da una costitutiva essenza astorica, ma dalla 59 sudposizioni scelta operata da soggetti storici, uomini di carne e sangue, operai instancabili del dinamico processo di valorazione in grado di dare senso, dal punto di vista dellʼ osservatore, ai segmenti finiti dellʼinfinità priva di senso. In proposito voglio raccontare un piccolo episodio personale che mi appare emblematico di una condizione difficile. Proprio alla metà degli anni 60ʼ, quando insieme insegnavamo nellʼUniversità di Salerno, e ci scambiavamo lavori e discussioni di problemi, Carlo Salinari, cui avevo fatto leggere alcuni miei lavori sullo storicismo tedesco (da Troeltsch a Meinecke e a Weber), mi disse, tra serio e faceto, che “ero bravissimo come piazzista di merce avariata, tanto che, quando e se il PCI avesse deciso di riabilitare Stalin, mi avrebbe raccomandato come capace di assolvere il compito difficile”. Era un motto di spirito, ma non è possibile non vedervi lʼintelligente denuncia dʼuno stato dʼanimo inquieto. Orbene la conseguenza della scelta antistoricistica, perduta la capacità di indagine sociale, non poteva che essere la scomparsa della realtà del Mezzogiorno dallʼagenda politica, dalla politica culturale del movimento democratico e del Paese. Né si può dire che da tale condizione infelice si sia del tutto usciti, pur oggi quando, talvolta acriticamente, si torna a Croce, al Croce hegeliano dello storicismo assoluto, non a quello desanctisiano dello storicismo realistico, attento al momento della particolarità. Credo che nella costatazione di questo fallimento stia lʼorigine di quelle concezione che mirano ad individuare ed insistere su una indentità del Mezzogiorno, come di ciò senza di cui non è possibile ripensare la questione meridionale e reinventare il nuovo meridionalismo. E, però, temo che queste posizioni si affidino ad una rinnovata ontologia da filosofia della storia con diverso smarrimento del senso del concreto, della storicità della realtà molteplice. Ed allora, che fare? Non tocca a me, che non sono né econo- 60 mista né sociologo pretendere di fornire una risposta esauriente. Mi limito, per finire, a poche costatazioni. La prima è la difficoltà di parlare di una questione meridionale al singolare, dinanzi ad una realtà variegata ed articolata che induce a dire di diverse e distinte questioni meridionali, che non sono solo quelle delle aree metropolitane rispetto al resto del territorio, ma anche quelle delle diversificate condizione regionali, la cui specificità va attentamente considerata in chiave non monadica ma solidaristica. Una seconda osservazione è relativa alla necessità (e «La necessità difficoltà) di far crescere di far crescere una nuova classe dirigente, allʼaltezza della cosiddetta una nuova classe “società della conoscenza” dirigente all’altezza e dei processi di globaliz- della ‘società zazione da distinguere dai della conoscenza’» processi di massificazione, il che si può ottenere soltanto coniugando interculturalità e multiculturalità. Si tratta di rieducare lʼantirazzismo del Mezzogiorno, che è la zona dʼItalia più esperta di immigrazioni, di incontri e scontri di culture, mai respinte acriticamente, tanto da rendere naturale il senso del rispetto dellʼaltro e del diverso. Il tema della classe dirigente si lega a quello della lotta alla criminalità organizzata e minore (due fenomeni connessi e non distanti). È, infatti, evidente che - proprio lì dove le difficoltà strutturali che impediscono la sopravvivenza di centri decisionali (il caso di Napoli è oggi in proposito allarmante) e rendono deboli quando non evanescenti la sussistenza, prima ancora che lo sviluppo, di aggiornate classi dirigenti - la criminalità si espande in tutte le direzioni, in salita così da configurare una difficile questione morale della gestione politica, e in discesa verso la delinquenza comune. Di tutto ciò - ed è unʼaltra osservazione - nasce la necessità di produrre una politica del Mezzogiorno in dimensione euro-mediterranea. E farlo non vedendo S sudposizioni S nel Mezzogiorno dʼItalia la più nordica delle regioni africane, ma una terra culturale ed economica, europea, in grado di compensare un possibile - e già evidente - squilibrio tra Europa settentrionale ed Europa meridionale. Il Mezzogiorno dʼItalia è la naturale cerniera tra il Nord e il Sud del mondo, che deve svolgere una funzione determinante nella politica europea, specie in un momento di rinnovata centralità del Mediterraneo, sia in senso positivo, sia in senso negativo. Basti pensare al drammatico conflitto israelo-palestinese, alla assurda e sciagurata impresa imperialistica dellʼAmerica in Iraq e al conseguente rinfocolarsi del terrorismo islamico che ripropone un problema, se possibile ancora più serio, di quale sia il destino del rigoroso monoteismo musulmano e della difficile modernizzazione di questa grande civiltà. Di tutto ciò non sono irrilevanti i riflessi sul modo dʼessere dellʼEuropa, della vecchia come della nuova Europa, scossa dai rigurgiti reazionari dei nuovi conservatori, che impugnano, con lʼottusità della strumentalizzazione, il gran tema delle origini cristiane. Riflessi che possono travolgere prioritariamente proprio le condizioni di sviluppo del Mezzogiorno europeo ancora infetto - come del resto altre zone dʼEuropa - da forme culturali vicine al magismo e, dunque, chiuse allo sviluppo modernizzante. La stessa educazione culturale dalla legalità non può non risentire di ciò, che novellamente implica una rigorosa considerazione delle questioni riassunte nel nesso tra interculturalità e multiculturalità. Di tutto ciò i protagonisti non possono che essere gli uomini e le donne del Sud, lontani dal meridionalismo straccione e strallizzero dellʼassistenzialismo, al contrario promotori di una nuova iniziativa meridionale, che non può non riguardare la complessiva politica nazionale, perché si tratta di riattrezzare le terre e le coste del Mezzogiorno in funzione non solo locale, giacchè si tratta di capire che il Mezzogiorno è una delle più gran- di potenzialità dello sviluppo italiano in linea con lʼEuropa e non contro lʼEuropa, come, senza il coraggio di dirlo, auspica la becera destra che sʼè trovata al governo del Paese in uno straordinario momento di trasformazione (per non dire, crisi) culturale alla cui soluzione le genti del Sud, forti della propria identità, devono fornire un apporto determinante, in grado di coniugare, in forme di reciproco rafforzamento, la nostra debole identità statale e la nostra forte identità nazionale. Il che significa che uno dei primi impegni del nuovo meridionalismo deve essere lʼabrogazione della cosiddetta recentissima riforma della seconda parte della Carta Costituzionale, per definizione anti-meridionale perché anti-italiana. Sono queste le poche riflessioni che il dibattito di Dacanter mi ha suggerito e spero che possano servire, pur nella loro modestia. Esiste ancora una questione meridionale? Errata corrige Nel numero 3-4 Anno II di Decanter è stato pubblicato un articolo di Elena Vigilante di indagine storica sui ceti rurali ed il fascismo in Basilicata. Per un errore di trasmissione del testo, di cui ci scusiamo con lʼautrice e con i lettori, ne è stata pubblicata una prima stesura e non quella definitiva. In questʼultima, lʼautrice accentua il carattere di estraneità piuttosto che di resistenza dei ceti rurali alla propaganda fascista. Di conseguenza anche il titolo del pezzo avrebbe dovuto essere: “Ceti rurali e fascismo tra ricerca del consenso ed estraneità” e non “Ceti rurali e fascismo tra ricerca del consenso e resistenza passiva” come si legge nel titolo pubblicato. La direzione 61 sudposizioni S UNITÀ CONTADINA 62 e ditoriale può tirarsi fuori da unʼapprofondita valutazione di questo voto che ha visto anche una forte riduzione della percentuale dei partecipanti. Alla Sata e in qualche in realtà significativa dellʼindotto, poi, abbiamo registrato la presenza di entrambi i dati: meno partecipazione e giudizio negativo. Perché è successo tutto questo, soprattutto alla Sata? Sicuramente, nella costruzione dellʼopinione dei lavoratori sul contratto, hanno pesato due dati: il primo attiene alla scarsa, se non nulla, pratica unitaria da parte della classe operaia di questo stabilimento che, fino alla svolta segnata dallʼesito della lotta dei 21 giorni, ha vissuto unʼesperienza di divisioni sindacali continue; il secondo alla forte insoddisfazione sulla condizione quotidiana di lavoro, non esclusa la mancata modifica strutturale dei turni e dei carichi di lavoro. Pesa poi come un macigno il tema dellʼimporto modesto dellʼaumento salariale che, se epurato dalle ritenute previdenziali e fiscali, al terzo livello (che è quello in cui sono collocati la maggioranza dei lavoratori e forse anche quelli che più convintamente hanno vissuto la lotta), significano appena 55/60 euro di più al mese. In questa lotta per il contratto è emerso con nettezza il peso della questione salariale che, specie nel mezzogiorno a causa della più alta presenza di lavoratori monoreddito, è molto più sentita e pesa sulla condizione materiale delle famiglie. Su ciò devono interrogarsi i sindacati di categoria e le confederazioni che possono giustamente vantare al proprio attivo la recuperata unità dopo anni di accordi separati e lʼimportantissimo risultato di aver rintuzzato lʼattacco portato da Fdermeccanico allʼistituto stesso del contratto nazionale di lavoro. Ma su quanto è accaduto devono interrogarsi anche la segue dalla prima sinistra politica e tutte le forze progressiste che si accingono a governare il paese dopo questi cinque anni di malgoverno di Berlusconi. Con più chiarezza esse devono porre al centro della propria azione politica e di governo la valorizzazione del lavoro, la difesa del potere dʼacquisto di salari e pensioni, lʼeliminazione di tutte le forme di lavoro precario. Il voto di Melfi è un segnale di un malessere che le forze del centrosinistra lucano non possono eludere perché i metalmeccanici di Melfi, anche con quel voto, ci dicono che esistono, e che per riconoscersi in un progetto di governo vogliono essere ascoltati, considerati e coinvolti, che il potenziale di innovazione e di nuovi bisogni che essi esprimono deve essere adeguatamente valutato. Tutto ciò non è materia che può riguardare solo il sindacato. Diecimila operai e operaie - quindi diecimila famiglie, trentacinque/quarantamila persone in una piccola regione come la Basilicata - sono, ci piaccia o meno, tantissime, e sono condizionate nelle loro valutazioni e giudizi politici dalla propria condizione materiale di vita e di lavoro, che si esprime pressoché totalmente nelle relazioni di fabbrica. Guai a sottovalutare il lo potenziale di cambiamento e di condizionamento della vita politica e sociale che la lotta dei 21 giorni ha dimostrato poter essere in alcuni momenti decisivo. Le forze di sinistra, il centro sinistra tutto, dunque, hanno bisogno di intensificare, ed in alcuni casi riprendere, lʼiniziativa verso il mondo del lavoro, quello che si raccoglie nelle fabbriche di Melfi, dalla Sata allʼindotto, e verso il lavoro in generale - verso quello tradizionale e verso il mondo dei nuovi lavori - per meglio interpretarne le esigenze e comprenderne bisogni e aspettative. laboratorio della sinistra lucana Direzione Antonio Califano Anna Maria Riviello Redazione Davide Bubbico, Simone Calice, Fabrizio Caputo Paolo Fanti, Eustachio Nicoletti, Gianni Palumbo Camilla Schiavo Progetto grafico e Art direction Palmarosa Fuccella Hanno collaborato a questo numero Antonio Amendolara, Esperto di cinema Giovanni Bove, Studente Universitario Raffaele Colangelo, Dirigente di banca Lorenza Colicigno, Poetessa Gert Dal Pozzo, Eretico militante Claudio Elliot, Scrittore Fara Favia, Docente - Università degli Studi della Basilicata Giuseppe Antonello Leone, Pittore e Scultore Alfonso Pascale, Presidente “Rete Fattorie Sociali” Mimmo Perrotta, Studente Universitario Vito Riviello, Poeta Giannino Romaniello, Presidente “Comitato di Coordinamento Istituzionale per le Politiche del Lavoro” Tommaso Russo, Dirigente Scolastico Fabio Vander, Saggista Rocco Viglioglia, Presidente Agrobios Rosanna Salvia, Dottore di ricerca - Università degli Studi della Basilicata Fulvio Tessitore, Senatore della Repubblica Marcello Travaglini, Consigliere Comunale Rifondazione Comunista Per abbonarsi a Decanter: rivolgersi a CALICE EDITORI via Taranto 20 - Rionero in Vulture (Pz) Tel/fax 0972 721126 > e-mail: [email protected] Garanzie di riservatezza per gli abbonati L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a Calice Editori. e-mail: [email protected] | [email protected] DECANTER anno III numero 1 - marzo 2006 Edito da Calice Editori Aut.Trib. Melfi n. 2/2004 ISSN 1827-8760 Direttore Responsabile, Giuseppe Rolli Direttore Editoriale, Piero Di Siena Rivista trimestrale Abbonamento sostenitore e estero: € 50.00 Abbonamento annuo: € 15.00 c.c. postale n. 14667851 Costo singola copia: € 5.00 Numero doppio: € 7.00 Stampa Grafiche Finiguerra Lavello (Pz) POSTE ITALIANE S.p.a. Spedizione in a.p. - 70% Potenza 63 PER RESTITUIRE IL LAVORO A TONINO INNOCENTI DELEGATO LICENZIATO DELLA FIAT DI MELFI APPELLO DI TRENTUNO SENATORI DELLʼUNIONE Tonino Innocenti, Delegato sindacale della Fiat di Melfi licenziato nel febbraio 2003 per cumulo di Provvedimenti Disciplinari, è ancora in attesa di essere reintegrato nel suo posto di lavoro. Sono ormai tre anni che è costretto a subire condizioni di reddito proibitive per il sostentamento suo e della sua famiglia. La causa per la riassunzione si sta protraendo oltre ogni ragionevole limite perché la FIAT, tramite il suo legale, allunga volutamente i tempi temendo una Sentenza di condanna per la propria condotta antisindacale. In effetti con il licenziamento di questo Delegato, lʼAzienda ha palesemente violato una norma dello Stato e nello specifico la Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) nel suo articolo 28. La prossima udienza, dopo tre anni di lungaggini e rinvii, è stata fissata a maggio di questʼanno e non è detto che sia quella risolutiva. Del resto, la Fiat si è dimostrata totalmente inadempiente anche verso gli accordi sottoscritti a maggio del 2004, in seguito alla lotta dei 21 giorni, nei quali si era impegnata ad una moratoria che eliminasse tutti i Provvedimenti Disciplinari pendenti, emanati nei due anni precedenti. Cosa che in questo caso, come in altri, si è ben guardata dal fare. Sulla questione abbiamo nel corso di questi anni presentato interrogazioni al Governo che non hanno avuto alcun esito e in qualche caso nemmeno una risposta. A legislatura terminata ci rivolgiamo alla stessa Fiat, alla Magistratura, alle Forze Politiche e Sindacali perché ognuno faccia la sua parte e perché al più presto venga messa fine a questa palese ingiustizia, reintegrando Tonino Innocenti nel suo posto di lavoro. Piero Di Siena (DS - LʼUlivo) Giovanni Battafarano (DS - LʼUlivo) Giovanni Battaglia (DS - LʼUlivo) Stefano Boco (Verdi - LʼUlivo) Massimo Bonavita (DS - LʼUlivo) Paolo Brutti (DS - LʼUlivo) Fiorello Cortiana (Verdi - LʼUlivo) Cinzia Dato (Margherita - DL - LʼUlivo) Antonello Falomi (Il Cantiere) Angelo Flammia (DS - LʼUlivo) Mario Gasbarri (DS - LʼUlivo) Vito Gruosso (DS - LʼUlivo) Gerardo Labellarte (SDI- Rosa nel Pugno) Aleandro Longhi (DS - LʼUlivo) Loris Maconi (DS - LʼUlivo) Luigi Malabarba (Rifondazione Comunista) Luigi Marino (Comunisti Italiani) Alberto Maritati (DS - LʼUlivo) Francesco Martone (Rifondazione Comunista) Gianni Nieddu (DS - LʼUlivo) Achille Occhetto (Il Cantiere) Gianfranco Pagliarulo (Rossoverdi) Antonio Pizzinato (DS - LʼUlivo) Natale Ripamonti (Verdi - LʼUlivo) Antonio Rotondo (DS - LʼUlivo) Cesare Salvi (DS - LʼUlivo) Tommaso Sodano (Rifondazione Comunista) Giorgio Tonini (DS - LʼUlivo) Massimo Villone (DS - LʼUlivo) Walter Vitali (DS - LʼUlivo) Luigi Viviani (DS - LʼUlivo) APPELLO