La Costituzione
della Repubblica
cinquant’anni di
discussioni, critiche, giustificazioni
scelta di testi e introduzione di Lorenzo Ornaghi
giuffrè
er la Repubblica italiana i cinquanta anni di vita sono un
buon punto di arrivo, su cui trattenersi senza troppo giudicare,
e per il poco tempo necessario a riprendere fiato.
Prove dure, incognite penose, crolli improvvisi, — ben
presenti alla mente di chi non si sia sottratto, in tutto o in parte,
agli appuntamenti principali del mezzo secolo, — hanno
attraversato la strada.
Ma una Repubblica che comincia nel 1946, col referendum del 2 giugno, e che compie di slancio un ciclo importante
della sua storia, merita rispetto. È questa l’opinione modesta di
un editore che rinnova volentieri, in questa ricorrenza del
cinquantenario, l’espressione sincera del suo rispetto.
2 giugno, Repubblica, Costituente, Costituzione: non
bastano questi passaggi indissociabili a far nascere e a giustificare sentimenti sobri di « patriottismo costituzionale »? (Sia
consentito questo omaggio, che è anche un ringraziamento, a
Lorenzo Ornaghi, curatore e presentatore dei testi).
L’editore giuridico ha un debole, ovviamente, per tutto
ciò che riguarda la Costituzione: gestazione, nascita, sviluppo,
deperimento. Attraverso i suoi autori egli segue giorno per
giorno il brusı̀o della scienza: e ci torna su. Variamente
distribuiti nel tempo, giudizi, commenti, punti di vista autorevoli possono formare come un breviario, tanto più utile, se
si è alla vigilia di qualche cosa; e se conviene cogliere in ogni
caso l’occasione del cinquantenario per riunire e passare i testi,
come ormai per consuetudine, nella strenna degli auguri.
Milano, dicembre 1996
V
nelle nostre scuole. Gli autori dei testi sono stati o ancora sono,
pur con influenza e potere naturalmente di grado diverso,
protagonisti di ciò che con espressione sintetica e non di rado
un pò lisa è ormai abitudine chiamare la vita politica e culturale
del Paese. Accanto a testi spesso citati o evocati, ve ne sono
altri assai meno noti: è opportuno rileggere o conoscere in
modo diretto gli uni e gli altri, anche per alleggerire il peso
delle interpretazioni ideologiche o di comodo che vi son state
depositate nel corso degli anni.
È soprattutto la sequenza di questi testi, si diceva, a farci
comprendere in qual modo essi offrano ben più di un segmento di storia patria. Decennio dopo decennio, le discussioni
e le critiche numerose e quasi sempre radicali alla Carta del ’48,
le sue giustificazioni mai assolute ma quasi sempre formulate
registrando l’« inattuazione » di questo o quel dettato fondamentale della Costituzione e indicandone o sperando una più
probabile « attuabilità », le poche, convinte celebrazioni (e
però anch’esse cosı̀ lontane dalla retorica commemorativa
esercitata per lungo tempo e del tutto comprensibilmente da
una parte estesissima del ceto politico) portano infatti allo
scoperto un’elementare verità: alla Carta è mancata la possibilità di costituirsi in vero mito fondativo della Repubblica.
Con dovizia di argomentazioni gli storici potranno facilmente sostenere, in un futuro prossimo, che sono stati i partiti
stessi a sottrarre alla Costituzione una tale possibilità. Talché, se
la Costituzione ha dispiegato un qualche valore di fondazione,
essa certamente lo manifestò soprattutto o soltanto nei riguardi
del sistema dei partiti con cui si è identificata la Repubblica. Non
può non colpire il fatto che quasi tutti i testi qui raccolti, nel
denunciare arcaismi ottocenteschi o inadeguatezze della Carta,
mancati adempimenti o illusorie disposizioni programmatiche,
puntino l’indice — sin dal primo decennio repubblicano —
contro l’uso che i partiti andavano facendo della Costituzione,
come se questa fosse in tutto e per tutto creatura e prodotto
XIV
testi che compongono questo volume forse offrono qualcosa di più di un segmento pur rilevante di storia italiana.
Cruciale nella vicenda dei cinquant’anni della Repubblica, la
storia delle discussioni e delle critiche o celebrazioni della
Costituzione è anche indispensabile quando si intenda comprendere perché quel che assomiglia fin troppo a un oscuro e
inquietante tramonto non sia calato in questi ultimi anni né
fulmineo né inaspettato.
Sono testi brevi: riconsiderati oggi, o letti per la prima
volta, appaiono ancor più significativi nella loro successione
cronologica. Li abbiamo tratti da discorsi che si tennero nell’età
costituente, al principio della Repubblica; da contributi offerti
in occasione di quelle ricorrenze celebrative e accademicoculturali cui toccò di scandire nei decenni il tempo della
Costituzione e insieme quello della politica dell’Italia repubblicana; da analisi improntate al più tradizionale stile scientifico-universitario o da interventi guidati da un genuino spirito
di parte; in un caso, anche da un manuale largamente in uso
XIII
loro, e non già opera o espressione di un popolo e di una
nazione.
Persino l’attrattiva della tradizionale polemica anti-partitocratica che ha accompagnato l’intero cinquantennio sta peraltro trascolorando e rapidamente mutando, oggi, di qualità e
per intensità. La tensione e i conflitti che van crescendo tra gli
sforzi di chiudere la cosiddetta transizione e i tentativi di
riabilitare il recente passato (al fine di conservare, almeno in
qualche punto, una continuità di « valori » e di memorie per
l’immediato futuro) altro non sembrano poter produrre, in
questa fase attuale, se non la sensazione di una mortificante
fragilità del ceto politico di fronte all’incalzare dei fatti e il
sospetto non irragionevole che solo un evento imprevisto
riesca a porre fine alla lunga stagnazione. Riletti ora nella loro
successione temporale, i testi ribadiscono in realtà ciò che
anche l’italica polemica anti-partitocratica non ha mai esplicitato sino in fondo: l’eccezionale gravità, cioè, dei pericoli insiti
nel fatto che il significato di una costituzione venga legato a
filo doppio con la legittimità e con la speranza di vita di un
sistema di partiti e di una classe politica.
Un secolo prima che la Rivoluzione francese diventasse
fucina di ogni futura Carta costituzionale e di tutti i tentativi o
gli esperimenti per poterne cambiare pacificamente alcune
parti o il tutto, osservava George Savile, primo marchese di
Halifax, che la vita di una costituzione viene prolungata
cambiando tempestivamente le sue parti nelle differenti epoche, giacché nessuna costituzione sarebbe in grado di sopravvivere senza adattarsi alla diversità dei tempi e delle circostanze.
Ora — per le costituzioni più recenti, e in particolare per
quelle operanti nei paesi dove più acerba sembra risultare la
consapevolezza di appartenere a uno Stato e di essere autonomamente una democrazia — è invece cosa sempre più dubbia
se una costituzione sia davvero la fonte principale e virtualmente inesauribile, da cui una comunità politica attinge il
senso profondo della propria realtà vitale e la confidenza non
XV
immotivata nella propria perennità. O se invece, risucchiate
pure esse in quel gorgo di trasformazioni da cui son stati mutati
intendimenti d’azione e persino il volto dello Stato, le costituzioni di questo nostro secolo non possano ormai essere che
una specie di regolamento col quale disciplinare, ancor prima
della realtà vitale di una convivenza politica, il condominio
delle forze e dei movimenti partitici da cui oggi sembra fissato
l’orizzonte dei regimi democratici. Resta tuttavia innegabile
che, quando il ciclo di vita di una costituzione — nelle
consolidate rappresentazioni, e secondo la ragione, dei più —
tende a identificarsi con il ciclo di vita di un sistema partitico
o di una quota più o meno larga di ceto politico, allora non
può che inevitabilmente prodursi una serie di effetti assai
rischiosi riguardo al grado di adattabilità e alla possibilità stessa
di durata della costituzione.
Più essa assomiglia a un contratto o a uno strumento con
cui si è storicamente portato a esistenza e legittimato un sistema
di partiti, più il suo valore politico viene inteso come un atto
di natura compromissoria. Durata e adattabilità di una costituzione vengono cosı̀ a dipendere pressoché per intero dall’arco
di vita del sistema di partiti e dalle effettive qualità o caratteristiche della classe politica, che da quel compromesso traggono origine e legittimità. Per altro e ancor più importante
verso, una volta sbiadita o perduta la propria specifica virtù di
essere stata e di continuare a essere il vero « patto » fondativo di
una convivenza politica, la costituzione non può alimentare
alcun patriottismo costituzionale. La sua durata e adattabilità
restano allora desiderabili per la comunità, di norma, se e
finché essa sembri in grado di poter produrre — senza traumi
e strappi troppo laceranti — una nuova configurazione partitica e una classe politica diversa.
Dalle discussioni dei Costituenti sul carattere di « compromesso » apparente o sostanziale della nostra Carta del ’48, fino
alle odierne contestazioni più frontali dell’edificio istituzionale
costruito da essa o (all’opposto ma in forma connessa) alle
XVI
esaltazioni maggiormente celebrative del perenne significato
politico della Costituzione repubblicana, i testi raccontano e
documentano perché il problema della revisione e durata della
Carta del ’48 sia stato — dentro la storia dell’Italia di questo
cinquantennio — sempre cosı̀ essenziale e tuttavia mai risolto.
Sicché, a lettura ultimata dei testi — di fronte al groviglio che
pare inestricabile delle questioni attuali, con la consapevolezza
che il futuro del Paese è in bilico tra la proiezione ingigantita
del suo presente e il rischio o la promessa dell’Europa — la
nostra attenzione non può che rivolgersi all’incombente avvenire, più che ai cinquant’anni ormai trascorsi. Proprio a questo
punto, torna allora attuale più che mai una riflessione severa e
realistica sulla domanda che Giuseppe Capograssi si formulava
in modo nient’affatto retorico nel 1945: qual è per l’Italia e per
la sua democrazia, quale può o deve essere, oggi, il senso
autentico di una Costituzione?
Lorenzo Ornaghi
XVII
I.
La nascita (1946-1948)
1947. Luigi Sturzo N
La parte del progetto che tratta dell’ordinamento della repubblica è quasi sempre chiara nel complesso, ben costruita e tale che,
con un gruppo di emendamenti, si potrà adottare da qualsiasi stato
democratico moderno. L’altra, la prima, che tratta diritti e doveri,
pur contenendo disposizioni opportune e felicemente espresse, è
soverchiata da quelle mal formulate, inopportune, inconsistenti, che
tradiscono sottintesi demagogici o preconcetti scolastici, al punto
che neppure l’on. Ruini con la sua lucida relazione vi ha potuto
recare un avallo sufficiente.
È sperabile che il pubblico dibattito serva a dissipare la nebbia
ideologica che grava su questa prima parte, e arrivi a imprimere alla
formulazione del diritto sociale l’adeguamento alla realtà vissuta e
alle possibilità di realizzazione.
Porterò alcuni esempi di quel che mi sembra l’elemento ingombrante e confuso del testo opposto.
All’articolo primo c’incontriamo con una formula assai complessa: « La Repubblica Italiana ha per fondamento il lavoro ». Nel
fatto, è la società stessa che ha per fondamento il lavoro: Dio lo disse
N Tratto da LUIGI STURZO, Note sul progetto di Costituzione, in « Il
Giornale d’Italia », 4 marzo 1947 (ripubblicato in Opera Omnia, vol. IX:
Politica di questi anni. Consensi e critiche (Dal Settembre 1946 all’Aprile 1948),
Bologna, Zanichelli, 1954, pp. 173-177).
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ad Adamo: « col sudore della tua fronte ti procaccerai il pane ». Per
essere fondamento della repubblica, il lavoro deve passare sul piano
politico, il che potrebbe avvenire o nella formula corporativa o in
quella comunista. È da sperare che si trovi un’interpretazione più
aderente alla realtà italiana che non è, e non pare voglia essere,
corporativista né comunista.
In questo e in altri paesi, la parola « lavoro » non deve intendersi
in senso restrittivo come lavoro manuale, poiché ogni attività utile
può qualificarsi lavoro; ma quando si usano senza specificazioni i
termini di lavoro e di lavoratori, è chiaro il riferimento alla classe
operaia; l’estensione ad altre categorie si fa con derivazione qualificata; è solito dire lavoratori della penna, o della scena, o del
laboratorio scientifico o della cattedra. Qual è il vero senso del testo
costituzionale? Non basta che lo dica il relatore, occorre che sgorghi
dal contesto.
All’articolo 30 è detto che « la Repubblica provvede con le sue
leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni ». La
disposizione è amplissima: ogni lavoro: gli astronomi, i musicisti, i
pittori sono avvertiti. E quale tutela? giuridica? morale? igienica?
economica? Ogni tutela.
All’articolo seguente si legge: « la Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere
effettivo questo diritto ». Se qui lavoro è preso in senso latissimo,
deve intendersi per lavoro anche quello degli organizzatori delle
corse dei cavalli, dei balli notturni, dei casini di giuoco e altri annessi
ancora meno puliti.
Ma no, il lavoro è una ben nobile cosa e lo stato (il testo dice la
repubblica e vi nasconde dietro lo stato, creando le premesse per uno
statalismo crescente e affogante) sarà, in sostanza, il garante di tutta
la funzionalità del lavoro utile al paese.
Quando da « lavoro » si passa a « lavoratori », il testo della
costituzione ci fa fare un salto dal lavoro in senso generico ed
estensivo, al lavoro in senso manuale e classista. All’articolo 1 è detto
che « la Repubblica ha per fondamento il lavoro e la partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale
del Paese ». Se qui i lavoratori sono tutti i cittadini, il termine di
lavoratori è superfluo e porta confusione: tanto più che nessuna
qualifica esiste perché agli operai e ai contadini sia vietata la partecipazione alla vita politica — cosa che avviene a mezzo del suffragio
universale e l’eleggibilità alle cariche pubbliche — e alla vita economico-sociale — cosa che avviene con il riconoscimento dei
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diritti civili uguali per tutti e con l’organizzazione sindacale e
cooperativa favorita dalle leggi.
Adunque, qual è il senso recondito, per avere qui posto un
fondamento che differenzia (nello stesso articolo) « lavoratori » da
« popolo »? La sovranità emana dal popolo, ma il fondamento della
repubblica è il lavoratore: che rebus è questo?
Il rebus persiste anche confrontando le disposizioni degli articoli
31 e 45. Nel primo è detto che « l’adempimento del dovere (ad una
funzione che concorra allo sviluppo materiale e spirituale della
società) è condizione per l’esercizio dei diritti politici » e nell’altro
che « non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se
non per incapacità civile e in conseguenza di sentenza penale ». Il
senso sembra che sia il seguente: tutto il popolo sovrano ha diritti
politici; ma solo i lavoratori (in senso largo) ne hanno l’esercizio. Lo
stato, o chi per esso, sospenderà dal diritto coloro che non concorrono allo sviluppo della società etc. È cosı̀?
Ancora un esempio: la parola lavoratore dell’articolo 36 non
può avere che senso limitato; ivi è detto: « Tutti i lavoratori hanno
diritto di sciopero ». Infatti per gl’imprenditori (che secondo il
relatore Ruini sono da considerarsi lavoratori) il caso di sciopero si
convertirebbe in serrata. Dare il diritto di serrata non è stato certo
intenzione dei proponenti di questo articolo. Il quale, poi, per una
nemesi economica che supera la volontà degli uomini, si riverserà a
danno degli stessi lavoratori, presi come la totalità dei consumatori
(che sarebbero poi il popolo sovrano), se, per caso, si avranno gli
scioperi degli elettricisti, dei panettieri, degli acquaioli, degli infermieri e dei farmacisti: tutti lavoratori autentici che a%iggeranno i
lavoratori-popolo, quelli che non avranno la fortuna di essere né
panettieri, né acquaioli, né infermieri e cosı̀ di seguito.
Questa dello sciopero è l’unica eccezione all’intervento statale; lo
stato onnipotente, qui rimane impotente; per il resto della costituzione
lo stato è sempre invocato come il provveditore di tutto e di tutti.
L’ingerenza dello stato (cioè, burocrazia, partiti, deputati, commissari
del popolo e chi ne ha più, più ne metta) sarà tale che il cittadino dovrà
cominciare a pensare come difendersi dallo stato che si va creando.
All’articolo 37 è detto: « Ogni attività economica privata e
pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni
individuali e al benessere collettivo. La legge determina le norme e
i controlli necessari perché le attività economiche possano essere
armonizzate e coordinate ai fini sociali ».
Qui ci troviamo di fronte a un tentativo di statalismo soffocante
5
di ogni libera iniziativa; vi affiorano l’autarchia fascista e la regimentazione comunista con norme e controlli (si vedrà che fortunata
speculazione affaristica si nasconderà dietro i controlli statali); per
arrivare a pretese armonizzazioni che in sostanza diverranno pianificazioni più o meno arbitrarie.
Di promessi controlli non c’è scarsezza nel progetto di costituzione. All’articolo 16 è detto che « La legge può stabilire controlli per
l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della
stampa periodica ». Per quanto sia odiosa la stampa gialla, è meglio che
il cittadino sia educato in libertà a saper distinguere fra la stampa libera
e quella asservita (e l’asservimento non è solo al denaro indigeno, ma
anche al denaro straniero), anziché sia introdotto un mezzo politico
per il quale il potere esecutivo possa influire sulla stampa e ridurla alla
pari di quella fascista, di infausta memoria. Purtroppo, di statalismo,
l’attuale schema di costituzione puzza cento miglia lontano.
È detto all’art. 10 che ogni cittadino ha diritto di emigrare
« salvo gli obblighi di legge ». Sarà bene chiarire che questi obblighi
di legge sono personali (come l’obbligo di leva e l’obbligo di
scontare una pena o pagare una multa), sı̀ da non nascondersi nelle
pieghe dell’articolo quel che avviene oggi, che uffici di lavoro e
partiti di masse han preso il monopolio del servizio emigrazione, a
cui resta soggetto ogni « libero » cittadino.
Anche con le più benevole intenzioni, si deve aver paura di
disposizioni cosı̀ larghe come la seguente: « La Repubblica assicura
alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa e al suo sviluppo, con speciale riguardo alle
famiglie numerose ». Che vengano istituite casse familiari, aiuti alla
maternità, sussidi per le famiglie numerose, tanto dallo stato, che
dalle sezioni, dai comuni, da enti assicurativi, è giusto, doveroso e
possibile. Ma quell’assicura è talmente ampio, che sembra dare allo
stato un’arma politica di più, per ingerirsi nella stessa vita familiare o
per fare della famiglia un parassita dello stato.
Potrei ancora continuare nella raccolta di passi simili, che
invocano l’intervento dello stato ad ogni piè sospinto, e che risolvono tutti i più assillanti problemi con il rinvio all’autorità, all’ingerenza e alle casse dello stato. (Non parlo, poi, dello statalismo
scolastico che è roba indigena in Italia).
L’aria del fascismo statale ancora ammorba le stanze chiuse dei
parlamenti e dei ministeri italiani; la miseria del dopo guerra non fa
vedere altra risorsa che l’intervento statale; la demagogia di sinistra vi
soffia dentro le premesse per l’avvento della dittatura del proletariato.
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1947. Roberto Lucifero N
Le nobili parole del Presidente hanno già indicato, nella sua
tecnica e nel suo spirito, la via che deve seguire questa discussione;
questa discussione che dell’Assemblea Costituente italiana — della
prima Assemblea Costituente nazionale italiana — segna il vero
principio ed anche, in un certo senso, la fine.
È stata un po’ scialba la vita della nostra Assemblea in questi suoi
mesi di esistenza. Speravamo di più, speravamo di poter seguire più
assiduamente l’opera legislativa e l’opera politica del Governo.
Questo è mancato e non per colpa dell’Assemblea. Io mi auguro che
accada di noi e della nostra Assemblea quello che accade di certe faci
le quali non danno molta luce, producono molto fumo, ma nel
momento di spegnersi, hanno una fiammata vivissima che tutto
illumina.
La combinazione vuole, e forse non soltanto la combinazione,
che in questa prima seduta dell’Assemblea che deve dare corpo e
sostanza alla Repubblica italiana, prende per primo la parola chi ha
condotto senza riserve, senza reticenze, con piena lealtà, una grande
battaglia e credo di poter dire una bella battaglia. E forse è opportuno
N Tratto da ROBERTO LUCIFERO, Intervento nella seduta del 4 marzo
1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea
Costituente, Roma, 1970, Camera dei Deputati - Segretariato Generale, vol.
I, pp. 138-147.
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che sia cosı̀ perché è ora che monarchici e repubblicani si ritrovino
sulla strada comune della Patria, e che conflitti e scissioni cessino
dove non sono cessati.
In quest’aula si sono sentite ancora parole grosse, contumelie e
ingiurie inutili e nocive: inutili perché non alteravano la realtà dei
fatti, nocive perché ferivano i sentimenti di molti italiani. Oggi è ora
che queste parole cessino e che tutti gli italiani si trovino uniti:
coloro che, come me, credettero e ancora credono che potesse essere
nell’interesse del Paese la permanenza della Monarchia e coloro che
avevano opinioni contrarie. La Patria, o la costruiamo tutti uniti o
non la costruiremo mai; e quanto più avremo il senso di responsabilità di questa nostra azione, tanto più, proprio dal risultato del
nostro lavoro, risulterà se avremo potuto dare una risposta a questo
primo interrogativo: Monarchia o Repubblica? Solo la Repubblica,
cioè le leggi e la costituzione della Repubblica, e il modo in cui esse
verranno applicate potranno risolvere la questione istituzionale. Lo
dissi già nel mio primo intervento all’Assemblea e lo disse molto
autorevolmente anche l’onorevole De Gasperi in una recente intervista. Noi vogliamo chiudere tutto quello che possa dividere il Paese
e siamo qui per cercare di fare leggi tali da poter rimarginare le nostre
piaghe e sopire tutti i risentimenti. Noi non vogliamo fare altro che
creare l’Italia e fare sı̀ che essa — repubblicana o monarchica —
divenga una cosa sola. [...]
Si pone in questa sede la crisi fondamentale del fascismo e
dell’antifascismo. L’antifascismo ha avuto una nobilissima missione
finché c’era il fascismo, perché era la negoziazione del fascismo ed
era la lotta contro di esso. Ma se l’antifascismo volesse continuare a
sopravvivere al fascismo, diventerebbe semplicemente un fascismo
alla rovescia.
E molte delle cose che ho accennate — e le ho accennate con
intenzione — erano proprio cose fasciste applicate da antifascisti. E
badate bene, la colpa non è tutta degli antifascisti — fra i quali del
resto sono anch’io — ma degli Alleati. Gli Alleati vennero in Italia
non comprendendo nulla delle cose italiane, e credettero di debellare
il fascismo facendo la lotta ad uomini e ad istituti; ma la lotta al
metodo ed alla concezione fascista non l’hanno fatta mai. Anzi sono
stati loro i primi a proseguire nei metodi fascisti.
Bisogna dunque debellare ogni sopravvivenza fascista, bisogna
chiudere il periodo del metodo fascista perché il fascismo va definitivamente eliminato.
Quindi la Costituzione dovrà essere e deve essere non antifa8
scista soltanto ma qualche cosa di più: dovrà essere afascista. Il
fascismo non ci deve più entrare né in forma positiva né in forma
negativa. Il fascismo deve essere cancellato, non deve più esistere,
nemmeno come numero negativo.
Oggi la Costituzione deve condurci all’afascismo, verso quella
concezione che resta liberale perché è la concezione di uno Stato di
uomini liberi, la cui libertà è negazione del fascismo.
E solo afascista può essere lo Stato democratico perché la
democrazia (mi perdoni l’onorevole Togliatti) non ammette aggettivazioni. La democrazia è una, la democrazia è un piano sul quale
ciascuno di noi combatte la propria battaglia e nel quale ciascuno di
noi trova le sue garanzie. La democrazia non può essere né nostra, né
vostra, né loro; la democrazia è di tutti, come la libertà, che, se non
è di tutti, non è di nessuno. [...]
La Costituzione potrà essere la nostra, soltanto se sarà anche
quella degli altri. Noi pensiamo, cioè, che la Costituzione sarà
veramente una buona Costituzione, se qualunque pensiero democratico potrà in essa trovare il suo libero e sicuro svolgimento; se
lascerà ad ogni pensiero democratico la possibilità di svilupparsi, ma
non costringerà nessuna corrente di pensiero democratico a dovere
assumere un atteggiamento contrario alla legge, alla Costituzione,
per potere attuare quello che è il suo programma.
Vi sono cioè due posizioni, che si rivelarono proprio in una
controversia — se cosı̀ si può chiamare — fra l’onorevole Togliatti
e me, nelle due relazioni che presentammo alla prima Sottocommissione sui problemi economici e sociali; perché i problemi economici e sociali entrano appunto in quel quid vago, di cui andiamo
cercando le soluzioni, ma di cui di una soluzione chiara e precisa
ancora non siamo riusciti a trovare la traccia definitiva; quel quid
dava luogo alla presa di quelle due posizioni.
Si trattava di dire qualche cosa di nuovo. Certi vecchi principı̂
cardinali che riguardano la libertà, i diritti del cittadino, e cosı̀ via, ci
erano stati già tramandati. La loro accezione poteva essere da noi
completata, ma una base l’avevamo. Qui no. Ed una delle differenze
sostanziali delle due articolazioni era proprio questa; io, nei miei
articoli, arrivavo addirittura alla socializzazione, per quanto a me non
piaccia, giacché non vorrei che, cosı̀ come l’Inghilterra, ora che ha
un regime socialista, è rimasta senza carbone, domani l’Italia,
avendo un regime socialista restasse senza sole. Ma, ad ogni modo,
se domani i socialisti raggiungessero la maggioranza, avrebbero il
diritto e il dovere di fare il loro esperimento. Non posso quindi fare,
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io liberale, una Costituzione che ponga il divieto delle socializzazioni. Soltanto dico che questa Costituzione deve recare che si possa,
ma non che si debba socializzare. Io non posso infatti ammettere che
nella Costituzione si debba mettere un imperativo di socializzazione,
se domani la maggioranza non fosse di questo avviso. Non vogliamo
cioè una Costituzione programmatica.
L’onorevole Togliatti pensava invece che alcune norme vincolative, in un determinato senso, si dovessero mettere e lo sostenne
con la sincerità e l’affettuosità che c’è stata in tutte le nostre
discussioni in quella Commissione. Però, nella seduta del 13 novembre 1946, in una animata discussione con dei colleghi di opinione diversa, non di questo settore, l’onorevole Togliatti uscı̀ in
questa frase che io segnai, dicendogli che oggi gliel’avrei ricordata:
« Vogliamo che questa Costituzione sia quella di tutte le possibili
ideologie ». Io, in quel momento, ho sentito quanto profonda sia
l’esigenza della libertà e come essa sia assorbente di tutto. Io non
avrei saputo dire meglio e aggiungo, perché ero presente, che non
avrei saputo dire con maggior convinzione di quella con cui l’onorevole Togliatti ha fatto questa affermazione. Questa affermazione,
onorevole Togliatti, che le fa onore, è bellissima, ma — mi perdoni
tanto — è la più schietta affermazione liberale che un uomo possa
fare.
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1947. Palmiro Togliatti N
Noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo
che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta
oggi davanti alla Nazione italiana. Il compito che dobbiamo assolvere oggi non so se sia più facile o più difficile, certo è più vicino.
Oggi si tratta di distruggere fino all’ultimo ogni residuo di ciò che è
stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare l’avvento
di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva,
di una classe dirigente la quale per la propria natura stessa ci dia una
garanzia effettiva e reale, che mai più sarà il Paese spinto per la strada
che lo ha portato alla catastrofe, alla distruzione.
In questa visuale debbonsi considerare e io considero tutte le
questioni costituzionali che stanno davanti a noi e che dibatteremo
nel corso dei prossimi mesi.
Lo sforzo che vorrei fare all’inizio, in questo dibattito che
giustamente fu definito preliminare, è quello di individuare quali
sono i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare al popolo
italiano, beni dai quali non si può prescindere, se si vuole raggiungere quell’obiettivo fondamentale che ho cercato di fissare, e che
devono essere o instaurati, o restaurati. Credo che questi beni siano
tre: il primo è la libertà e il rispetto della sovranità popolare; il
N Tratto da PALMIRO TOGLIATTI, Intervento nella seduta dell’11 marzo
1947, in La Costituzione della Repubblica, cit., vol. I, pp. 324-337.
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secondo è l’unità politica e morale della Nazione; il terzo è il
progresso sociale, legato all’avvento di una nuova classe dirigente. Se
noi riusciremo a fare una Costituzione la quale garantisca alla
Nazione questi tre beni, allora non avremo fatto, com’è stato detto,
una Costituzione interlocutoria, ma una Costituzione che rimarrà
effettivamente come il libro da porsi accanto all’arca del patto, una
Costituzione che illuminerà e guiderà il popolo italiano per un lungo
periodo della sua storia. Le esigenze che ho indicato non sono infatti
qualcosa di transitorio, ma sono esigenze permanenti e concrete,
corrispondenti alla situazione storica ben determinata che sta davanti
a noi.
Né io ritengo sia necessario, per assolvere al compito da me
indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di
compromesso. Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli colleghi
che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto
dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un
senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene,
scartiamola pure. In realtà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori, per lo meno in quella parte della
Costituzione alla cui elaborazione io ho cercato di partecipare
attivamente. Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad
una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune
sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse,
ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse
costruire sopra di esso una Costituzione, cioè un regime nuovo, uno
Stato nuovo e abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli
che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti
che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare. Ritengo questo sia il metodo che doveva e deve essere seguito
se si vuol fare opera seria, e sono lieto che immediatamente prima di
me abbia parlato l’onorevole La Pira, il cui discorso, nonostante le
frequenti citazioni latine, io ho ascoltato con appassionato interesse,
perché mi è parso che nella prima parte della sua esposizione
l’onorevole La Pira abbia dato un contributo molto efficace per
scoprire non solo quale è la via per la quale noi siamo arrivati a
questo tipo di Costituzione e a determinate formulazioni concrete,
ma anche quale è la via per la quale siamo arrivati a quella unità che
ci ha permesso di dettare queste formulazioni.
Effettivamente c’è stata una confluenza di due grandi correnti:
da parte nostra un solidarismo — scusate il termine barbaro —
umano e sociale; dall’altra parte un solidarismo di ispirazione ideo12
logica e di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione
e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale,
a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi. Questo è il caso
dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è
il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e
del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione
e dei limiti del diritto di proprietà. Né poteva fare ostacolo a questo
confluire di due correnti, le quali partono da punti ideologicamente
non eguali, la concezione, pure affermata dall’onorevole La Pira,
della dignità della persona umana come fondamento dei diritti
dell’uomo e del cittadino. Perché questa concezione avrebbe dovuto
fare ostacolo? Al contrario, vi era qui un altro punto di confluenza
della nostra corrente, socialista e comunista, colla corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo
tendono a una piena valutazione della persona umana: a quella piena
valutazione della persona umana, che noi riteniamo non possa essere
realizzata, se non quando saranno spezzati i vincoli della servitù
economica, che oggi ancora opprimono e comprimono la grande
maggioranza degli uomini, i lavoratori.
Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un
terreno ad esse comune volete qualificarla come « compromesso »
fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile
ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare
la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o
dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e,
quindi, di tutta la Nazione.
Non escludo che sia stato seguito in qualche caso anche un
metodo diverso, il metodo che chiamerei del compromesso deteriore, di quel compromesso che consiste nel lavorare non più
sulle idee e sui principı̂, o sulle loro deduzioni e conseguenze, ma
nel lavorare esclusivamente sulle parole: nel togliere una parola e
metterne un’altra, la quale direbbe approssimativamente lo stesso,
ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in altro modo;
nel sostituire cosı̀ la confusione alla chiarezza. Questo metodo da
altri è stato seguito; io ho cercato di non seguirlo mai. È certo che
nella redazione definitiva del testo costituzionale in alcuni punti si
sente l’influenza di questo metodo deteriore di compromesso; ed
alcune affermazioni che nella redazione primitiva delle Sottocommissioni erano più chiare, più semplici, sono poi state direi lavate
13
in modo tale, che hanno perduto quel rilievo che avrebbero
dovuto avere.
Ad esempio, per l’articolo 1 avevamo proposto una formula
secondo la quale si affermava che la sovranità risiede nel popolo ed
i poteri emanano dal popolo. Non è giusto dire, come è detto nel
testo definitivo, che la sovranità emana dal popolo: è il potere che
emana dal popolo. È evidente che qui si è cercata una formula di
compromesso deteriore, a scapito della chiarezza e della precisione.
Lo stesso si è fatto in una serie di altre formulazioni. Non voglio
tediarvi, ma avrei molti esempi da citare; li ricorderemo nel seguito
della discussione. Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali sono stati
rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale.
Anche negli articoli relativi all’ordinamento regionale si trova un
errore di questo genere. Mentre la Sottocommissione aveva giustamente proposto: « Il territorio della Repubblica è ripartito, ecc.... »;
il testo riveduto dice: « La Repubblica si riparte in Regioni e
Comuni ». Questa formula non è conciliabile con quella secondo la
quale la Repubblica è indivisibile. È evidente che anche vi è stato
uno sforzo di compromesso in senso deteriore, ed io sarò d’accordo
con tutti coloro che proporranno di ritornare, in tutti questi casi, a
formule più precise, che abbiano maggiore rilievo, siano più incisive
e dicano chiaramente quello che vogliono dire.
Oserei dire che nel nostro lavoro non ci hanno dato grande
aiuto i giuristi. Non se l’abbiano a male i colleghi che esercitano
questa nobile professione, che del resto avrebbe potuto anche essere
la mia, se la politica non mi avesse traviato.
Molte formulazioni del progetto sono certamente deboli,
perché giuridicamente non siamo stati bene orientati e effettivamente fu un errore non includere nella Commissione i rappresentanti della vecchia scuola costituzionalista italiana.
La realtà è però che negli ultimi venti o trenta anni la scienza
giuridica si è staccata dai principı̂ della nostra vecchia scuola
costituzionale. In fondo quali erano questi principı̂? Erano da un
lato i principı̂ delle rivoluzioni borghesi, elaborati poi attraverso la
esperienza costituzionale dell’Ottocento. Negli ultimi venti o
trenta anni invece sono affiorate e sono state accolte, soprattutto
nel nostro Paese, dottrine diverse, quelle a cui accennava anche
l’onorevole La Pira, che riconoscono e collocano la sovranità non
nel popolo, ma soltanto nello Stato, e danno quindi ai diritti
individuali soltanto un carattere riflesso. La scienza giuridica degli
ultimi venti anni è stata permeata da queste nuove dottrine, e
14
questo spiega perché, quando abbiamo dovuto scrivere una Costituzione democratica e abbiamo chiesto l’ausilio dei giuristi, essi
non sono stati in grado di darci un aiuto efficace. Per darcelo,
occorreva che essi cancellassero o dimenticassero qualche cosa;
bisognava che ritornassero a qualche cosa che avevano dimenticato, e non erano sempre in grado di farlo. Questo è un motivo
profondo delle debolezze e del carattere equivoco di molte tra le
formulazioni del testo che sta davanti a noi.
15
1947. Benedetto Croce N
Dopo l’ampia discussione generale di questo disegno di Costituzione, dopo la critica di cui è stato oggetto — nella quale si
direbbe che le censure hanno soverchiato i consensi — dopo che si
è udita la parola di tanti esperti giuristi, permettete a me, che quando
tento di sottrarmi al nome impopolare di filosofo mi rifugio in quello
di letterato, di osservare che forse una delle cagioni per cui l’opera
non è felicemente riuscita proviene dall’essere stata scritta da più
persone in corso. Né un libro, né una pagina si compone se non da
una singola mente che sola compie la sintesi necessaria e, avvertendo
e schivando anche le più piccole dissonanze, giunge alla scrupolosa
logicità e all’armonia delle parti nell’unità. Veramente gli autori
questa volta sono stati troppi; ma fossero stati, invece di 75, dieci,
cinque o tre, sempre avrebbero dovuto, naturalmente, dopo eseguito il loro lavoro specifico e fissate le conclusioni a cui erano
pervenuti, dare mandato a uno solo di loro di rimediarle e formularle, il quale poi le avrebbe ripresentate agli altri e, raccolte le loro
osservazioni ed obiezioni, rinnovato tante volte quante bisognava il
suo atto sintetico, correggendo le incoerenze e contraddizioni che
gli fossero per caso sfuggite e aggiungendo parti integrative, e tutto
ciò sempre sotto la sua responsabilità intellettuale, con suo diretto
N Tratto da BENEDETTO CROCE, Intervento nella seduta dell’11 marzo
1947, in La Costituzione della Repubblica, cit., vol. I, pp. 337-339.
16
riesame e con la sua interiore approvazione e soddisfazione personale. Una scrittura diversamente condotta, per valenti che siano i
suoi molti e molteplici autori, lascia più o meno scontento ciascuno
di essi; laddove, condotta a quel modo, ottiene il loro consenso,
come ammiriamo e facciamo nostra una bella poesia senza essere
intervenuti a scriverla. Tutto si potrà collettivizzare o sognar di
collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere. In effetti,
dello Statuto albertino del Regno di Sardegna, lo scrittore fu il
giurista Des Ambrois, come la relazione ricorda, e di quello napoletano dello stesso anno l’avvocato e filosofo Bozzelli; e cosı̀ sempre
che si sia fatto o si voglia fare una cosa organica, perché in questo
riguardo non v’è luogo a distinguere tra Statuto concesso e Statuto
che il popolo chiede e approva.
Ma a questa prima cagione della mancanza di coerenza e di
armonia del presente disegno si è aggiunta un’altra ben più grave:
che i molti suoi autori non solo non potevano portarvi un’unica
mente di scrittore, ma non vi perseguivano un medesimo fine
pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il Governo, non già in
una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole
e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di
proposte della stessa disposizione di animo, nella quale ciascuno di
quei partiti ha tirato l’acqua al suo mulino e tutti hanno fatto come
nella classica novella spagnola del cieco e del ragazzo che gli serve da
guida e compagno, della quale qui leggerei ad ammonimento qualche tratto se non temessi la giustificata accusa di troppa frivolezza o
distrazione letteraria. Da tale procedere è nato quel che l’onorevole
Relatore chiama eufemisticamente « carattere intermedio » della
proposta o « diversità di accento », ossia i ben trasparenti negoziati
accaduti tra i rappresentanti dei partiti che hanno messo capo ad un
reciproco concedere ed ottenere, appagando alla meglio o alla
peggio le richieste di ciascuno, ma giustificando le richieste oggettive
dell’opera che si doveva eseguire. La quale opera era semplicemente
e severamente questa: di dare al popolo italiano un complesso di
norme giuridiche che garantissero a tutti i cittadini, di qualsiasi
opinione politica, categoria economica e condizione sociale, la
sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà, la quale porta con sé
come logica sua conseguenza (e nobilmente ce lo ha rammentato
l’onorevole Orlando), con la crescente civiltà la giustizia sociale che
le si lega.
Un esempio, e insieme la diretta prova, del metodo tenuto è (e
sebbene già altri parecchi ne abbiano altamente parlato, qui non
17
posso tacerne neppure io) nella proposta di includere nella Costituzione i Patti lateranensi e l’impegno contro una possibile legge del
divorzio. E che cosa c’è di comune tra una Costituzione statale e un
trattato tra Stato e Stato, e come mai a questo trattato in sede di
Costituzione si può aggiungere l’irrevocabilità, cioè l’obbligo di non
mai denunciarlo o (che vale lo stesso) di modificarlo solo con
l’accordo dell’altra parte, mentre l’una delle due, cioè l’altro Stato,
non interviene e non può intervenire come contraente in quest’atto
interno e quell’obbligo resta unilaterale, ossia appartiene a uno di
quei monologhi che, come argutamente è stato osservato, nel testo
presente si alternano coi dialoghi. [...]
Simili compromessi, sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti
vaghi o contraddittorı̂, abbondano, come s’è detto, nel disegno di
Costituzione e saranno opportunamente rilevati e discussi, quando si
passerà all’esame dei titoli e degli articoli. Ma un altro di essi voglio
qui accennare di volo che sta a cuore a molti tra noi, di vari e diversi
opposti partiti, liberali e socialisti o comunisti, dall’onorevole Nitti
agli onorevoli Nenni e Togliatti: la tendenza a istituire le regioni, a
moltiplicarne il numero ed armarle di poteri legislativi e di altri di
varia sorte. L’idea delle regioni come organismi amministrativi
apparve già nei primi anni dell’unità, con la quale erano state
superate le concezioni federalistiche che non avevano avuto mai
molto vigore in Italia, vagheggiate da solitari o da piccoli gruppi, o
fugate dalla fulgida idea dell’unità che Giuseppe Mazzini accolse dal
pensiero di Niccolò Machiavelli, dall’anelito secolare dell’Italia e dai
concetti dei nostri patrioti delle repubbliche suscitate dalla Rivoluzione francese, tra i quali tenne uno dei primi posti un politico
meridionale, dal Mazzini in gioventù studiato, Vincenzo Cuoco. Ma
ora, dopo la parentesi fascista e la guerra sciagurata al seguito della
quale vecchi malanni si risvegliano, come in un organismo che ha
sofferto una grave malattia, contrasti di Nord e di Sud, di Italia
insulare e di Italia continentale, pretese e gelosie regionali e richieste
di autonomie, si sono fatti sentire, con gran dolore di chi, come noi,
crede che il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento sia l’unità statale che dobbiamo mantenere saldissima se anche
nel presente non ci dia altro conforto (ed è pure un conforto) che di
soffrire in comune le comuni sventure. (Vivi applausi).
So bene che certe transazioni e concessioni di autonomie sono
state introdotte e che, al giudizio o alla rassegnazione di molti,
questo era inevitabile per stornare il peggio; ma il favoreggiamento
e l’istigazione al regionalismo, l’avviamento che ora si è preso verso
18
un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e
amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e insperimentate istituzioni regionali, è pauroso. Sembra che tutto si
debba rifare a nuovo, che tutto sia da mutare o da distruggere della
precedente Costituzione, alla quale si attribuisce la colpa di aver
aperto la via al fascismo; laddove il vero è che la via fu aperta
dall’inosservanza e violazione della Costituzione, che non era nemmeno più « octroyée », concessa da un re, perché sanzionata poi dai
plebisciti. Lo Statuto del 1848 ha regolato e reso possibile lo
splendido avanzamento dell’Italia in ogni campo di operosità per
oltre settant’anni, e, non rigido come questo nuovo che ci viene
proposto — di quella rigidezza che improvvisamente scoppia o
invita a mandarla in pezzi — ma flessibile, consentı̀ a grado a grado,
col modificarsi dei pensieri, degli animi e dei costumi, il diritto di
sciopero agli operai e l’allargamento del suffragio, fino al suffragio
universale, tutte cose che abbiamo trovate già fatte e preparate per la
nostra ulteriore costruzione, quando, abbattuto il fascismo, abbiamo
riavuto il nostro vecchio Statuto. Si ode ora spesso faziosamente
ingiuriare gli avversari politici col nome di fascisti; ma io ritrovo
l’effettivo fascismo, tra gli altri cattivi segni, in questa imitazione del
dispregio e del vituperio che i fascisti versarono sull’Italia quale fu dal
1848 al 1922. Di quell’età io mi sento figlio; nella benefica, nella
santa sua libertà ho potuto educarmi e imparare; e mi si perdoni
questa digressione, perché è dovere, io credo, che i figli difendano
l’opera e l’onore dei padri. (Applausi).
Ma io odo sussurrare da più di uno che la discussione che ora si
fa nell’Assemblea Costituente è piuttosto figurativa che effettiva,
perché i grossi partiti hanno, come che sia, transatto tra loro e si sono
accordati attraverso i loro rappresentanti nella Commissione di
studio e di proposte. Avremo, dunque, anche all’interno una sorta di
Diktat, come quello che tanto ci offende e ci ribella, impostoci dalle
tre potenze nel cosiddetto trattato di pace, al quale l’Italia cobelligerante non ha partecipato e non vi ha veduto accolta nessuna delle
richieste necessarie alla sua vita? Ma quel Diktat, venuto dal di fuori,
se ci offende e ci danneggia, pure unisce tutti noi italiani nel
proposito di scuoterlo da noi con tutte le forze del nostro pensiero
e della nostra volontà, con tutte le virtù del nostro lavoro, col valerci
delle occasioni favorevoli che non potranno non presentarsi nel
mutevole corso della Storia; ma questo, invece, al quale ci piegheremmo oggi nel governo delle nostre cose interne, essendo opera e
colpa nostra, ci disunirebbe o ci corromperebbe; e perciò non è da
19
sopportare e bisogna provvedere affinché non eserciti la sua insidiosa
prepotenza. In qual modo? si dirà. Il modo c’è e dipende da noi, né
sta solo nel fatto che, oltre i grossi partiti ci sono gli altri, numericamente forse ma non idealmente inferiori, sebbene anche e soprattutto in ciò che i partiti sono utili strumenti di azione per certi fini
contingenti e non sono il fine universale, non sono la legge del bene
alla quale solamente si deve ubbidire, perché, come Montesquieu
diceva di se stesso, egli prima che francese si sentiva europeo e prima
che europeo si sentiva uomo.
La partitomania, che ingenuamente si esprime nella formula che
fu già del fascismo ed è ora la tromba (ahi quanto diversa!) che il
tassesco Rinaldo « udia dall’Oriente », nella formula verbalmente
assurda del « partito unico », vorrebbe invertire questa scala di valori
e porre lo strumento di sopra allo spirito umano che deve adoperarlo
e collocare ciò che è ultimo al posto di ciò che è primo. Contro
codesta distorsione della vera gerarchia bisogna stare in guardia e ad
essa opporsi in modo assoluto e radicale. Ciascuno di noi si ritiri nella
sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto
poco mediato, un pungente e vergognoso rimorso. Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei
quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui
siamo a intonare le parole dell’inno sublime: « Veni, creator spiritus, /
Mentes tuorum visita; / Accende lumen sensibus, / Infunde amorem
cordibus! ».
Soprattutto a questi: ai cuori. (Vivissimi applausi — Moltissime
congratulazioni).
20
1947. Aldo Moro N
Aveva detto l’onorevole Togliatti che bisognava che la nostra
Costituzione fosse una Costituzione non ideologica, che in essa e per
essa fosse possibile una libera azione non soltanto delle varie forze
politiche, ma anche di tutti i movimenti ideologici che stanno nello
sfondo delle forze politiche stesse.
Riguardata cosı̀ questa espressione, non può non trovare il
nostro consenso. Preoccupati, come siamo stati e come siamo, di
realizzare attraverso la nuova Costituzione italiana uno strumento
efficace di convivenza democratica, noi non abbiamo mai cercato e
neppure adesso cerchiamo di dare alla Costituzione un carattere
ideologico. Però mi sembra necessario fare qualche precisazione su
questo punto. Vi è una ideologia che può essere effettivamente
qualificata di parte, ed è giusto che uno strumento di convivenza
democratica quale è la nostra Costituzione, elimini un siffatto
richiamo ideologico. Ma vi è, da un altro punto di vista, una
ideologia alla quale una Costituzione non può non fare richiamo;
ideologia non soltanto non pericolosa, ma necessaria. E quando io
avrò spiegato brevemente che cosa intendevo per ideologia in questo
senso, non dubito che tanto l’onorevole Togliatti, quanto l’onorevole Lucifero vorranno concordare, come in effetti hanno in gran
N Tratto da ALDO MORO, Intervento nella seduta del 13 marzo 1947, in
La Costituzione della Repubblica, cit., vol. I, pp. 368-374.
21
parte concordato nel concorso delle nostre discussioni in sede di
Sottocommissione, nel ritenere che un tale richiamo, largamente
morale ed umano è necessario nella nostra Costituzione. È necessario perché, elaborando il progetto di Costituzione e preparandoci a
votarlo come adesso facciamo, noi attendiamo ad una grande opera:
la costruzione di un nuovo Stato. E costruire un nuovo Stato, se lo
Stato è — com’è certamente — una forma essenziale, fondamentale
di solidarietà umana, costruire un nuovo Stato vale quanto prendere
posizione intorno ad alcuni punti fondamentali inerenti alla concezione dell’uomo e del mondo.
Non dico che ci si debba dividere su questo punto, partendo
ciascuno da una propria visione ristretta e particolare; ma dico che se
nell’atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad
abitare insieme, non troviamo un punto di contatto, un punto di
confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi —
come siamo — da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la
comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina
un rispetto reciproco degli uni verso gli altri.
Costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di
convivenza, non facciamo soltanto dell’organizzazione dello Stato,
non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per
la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula
di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la
costruzione del nuovo Stato.
Quando io ripenso a quella che è stata la vigilia del 2 giugno,
quando mi ritorna alla mente la mobilitazione spirituale che tutte
quante le forze politiche hanno fatto nel nostro Paese — una
mobilitazione la quale tendeva appunto a dare alcuni supremi
orientamenti di vita umana e sociale — quando ripenso che questa
mobilitazione era precisamente determinata dalla coscienza di questo
grande atto che si stava per compiere, di questa grande e decisiva
ricerca da fare, io dico che veramente di questa fondamentale
ideologia che ci accomuna noi non possiamo fare a meno, se non
vogliamo fare della nostra Costituzione uno strumento antistorico ed
inefficiente.
Diceva l’onorevole Lucifero, nel corso del suo interessante
intervento in sede di discussione generale, riprendendo un’idea
lungamente espressa nella nostra cordiale discussione in sede di
22
Sottocommissione, che era suo desiderio che la nuova Costituzione
italiana fosse una Costituzione non antifascista, bensı̀ afascista.
Io, come già ho espresso in sede di Commissione all’amico
Lucifero qualche riserva su questo punto, torno ad esprimerle,
perché mi sembra che questo elementare substrato ideologico nel
quale tutti quanti noi uomini della democrazia possiamo convenire
si ricolleghi appunto alla nostra comune opposizione di fronte a
quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità
umana e della solidarietà sociale. Non possiamo in questo senso fare
una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello
che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza
grandissima il quale nella sua negatività ha travolto per anni le
coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è
stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza,
da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati
insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora
ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori
supremi della dignità umana e della vita sociale. (Applausi).
Guai a noi, se per una malintesa preoccupazione di serbare
appunto pura la nostra Costituzione da una infiltrazione di motivi
partigiani, dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce e la
necessità di un raccordo alla situazione storica nella quale questa
Costituzione italiana si pone. La Costituzione nasce in un momento
di agitazioni e di emozioni. Quando vi sono scontri di interessi e di
intuizioni, nei momenti duri e tragici, nascono le Costituzioni, e
portano di questa lotta dalla quale emergono il segno caratteristico.
Non possiamo, ripeto, se non vogliamo fare della Costituzione
uno strumento inefficiente prescindere da questa comune, costante
rivendicazione di libertà e di giustizia. Sono queste le cose che
devono essere a base della nostra Costituzione e che io trovo in
qualche modo espresse negli articoli che sto per esaminare.
Questa, ripeto, non è ideologia di parte, è una felice convergenza di posizioni. Io posso dare atto, come membro della prima
Sottocommissione, che su questi punti non vi è stato mai fra noi e
l’onorevole Lucifero e l’onorevole Togliatti alcun patteggiamento,
perché effettivamente da ogni parte si è andato, sia pure attraverso la
fatica di alcune iniziali incomprensioni, verso questo punto comune
nel quale veramente ci sentivamo uniti. Abbiamo soltanto trovato,
pur in questa sostanza, in questa base comune, qualche difficoltà di
comprensione. Talvolta i termini da noi usati sembrava che nascondessero qualche interesse di parte, ma poi, quando amichevolmente,
23
cordialmente si conversava, si capiva che la sostanza era eguale e che
si poteva passare al di là delle parole per cogliere il fondo comune.
In realtà questa ideologia, questa sana accettabile ideologia che io ho
racchiuso nelle due espressioni — libertà e giustizia sociale — si
ritrova in questi tre articoli della Costituzione che noi esaminiamo e
viene espressa come una indicazione dei fini del nostro Stato, del
volto storico che assume la Repubblica italiana. Indubbiamente una
indicazione di questo genere è indispensabile. Non avremmo ancora
detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una Repubblica, o una Repubblica democratica. Occorre che ci sia una
precisazione intorno ad alcuni orientamenti fondamentali che storicamente caratterizzano la Repubblica italiana. [...]
Si dice che la Costituzione regola l’organizzazione dello Stato,
ovvero disciplina dei diritti concreti, cioè conferisce delle pretese nei
confronti dello Stato, in relazione ai limiti posti allo Stato.
Io penso che vi sia nella Costituzione qualche cosa di più; e mi
confermo in questa tesi, se penso a quella che è stata ed è la nostra
passione, non dico di noi come Assemblea, ma dico di noi come
popolo italiano nelle sue più nobili espressioni. Abbiamo sentito
nell’atto in cui quest’Assemblea si eleggeva, e di momento in
momento, quando essa veniva funzionando, abbiamo sentito che
non era in giuoco una piccola cosa, un piccola vicenda accessoria;
ma era veramente in giuoco tutta la civiltà del nostro Paese. [...]
Veramente fare una Costituzione significa cristallizzare le idee
dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principı̂ orientatori di tutta la futura attività
dello Stato.
24
1947. Arrigo Cajumi N
Quando le « strette » fasciste, che poi si chiamarono elegantemente « giri di vite », e il delitto Matteotti, ci misero faccia a faccia
col problema della libertà individuale, di stampa, di riunione, ricordo
che Piero Gobetti e chi scrive queste righe, ebbero l’idea di invocare
un « ritorno allo Statuto » (l’ultimo, l’aveva tentato Sonnino, tanti
anni prima e appena lo sapevamo), e si consultarono. La conclusione
fu triste: Gobetti mi disse: « L’applicazione, sic et simpliciter, dello
Statuto, è un capestro! ». Ciò mi tolse ogni desiderio di occuparmi
di questioni costituzionali, e mi rimandò alle sacre tavole, per me,
delle due dichiarazioni dei diritti dell’uomo, testo 1789 e testo 1793,
che si possono comodamente leggere in capo al volume di Emile
Faguet sul Libéralisme, opera che Croce e De Ruggiero certo
ignorano, ma che è da considerare (il Faguet, con altri due libriccini,
Le culte de l’incompétence - ...et l’horreur des responsabilités, editi nel 1914
dal Grasset esordiente, pare aver dipinto in anticipo le caratteristiche
della civiltà che ci delizia) insieme con gli scritti dello stesso autore
raccolti nelle Questions politiques, nei Problémes politiques e nelle
Discussions politiques. Poi divenuto familiare con Cavour, m’interessò
la polemica per le libertà religiose e il suo sermoncino ai partiti
avanzati, ma tenni fino a poco tempo fa l’utile libretto del Maranini
N ARRIGO CAJUMI, Questa Costituzione, in « Lo Stato moderno », IV,
17 aprile 1947, pp. 42-44.
25
sulle Origini dello Statuto albertino, fra i livres du second rayon della mia
biblioteca. Ora che gli amici m’invitano a leggere, attento al bello
stile, il testo del progetto di costituzione della Repubblica, e a metter
su carta le mie osservazioni di non giurista, ma di studioso di storia
e letterato, penso che sia bene illustrare il punto di vista di un liberale
anarchico, che è poi il vero liberale.
Edouard Herriot, allorché i francesi sentirono, nel ’44, la necessità di darsi una nuova costituzione, sostenne una tesi che io
sottoscrivo a due mani: « Pigliate, disse loro, ripetutamente, nei
dibattiti parlamentari dello scorso anno, le dichiarazioni dei diritti
dell’uomo, ’89 e ’93, e solennemente riaffermatele. La Costituzione
è fatta ». Naturalmente, la triplice alleanza cattolico-social-comunista
fu di parer contrario, e s’ingolfò nel doppio referendum, e nelle
diatribe, nei testi, la cui utilità precipua sarà di rimandare De Gaulle
al potere. Scimmie fedeli d’oltralpe, noi ci siamo messi per la stessa
strada, o meglio precipizio. È vero che dovevamo riformare, se non
altro per via della Repubblica, il monarchico statuto albertino, ma
credo che coi testi ’89 e ’93 alla mano, si sarebbe potuto rifarlo in
breve, e con soddisfazione. Senonché, i democristiani causa lo sfizio
dei patti lateranensi, e i socialcomunisti per quei pruriti di contenuto
sociale alla Louis Blac che risalgono al 1848, non ci sentivano, da
questo orecchio. E i conservatori del cosiddetto partito liberale
italiano, i quali invece di tutelare la libertà cercano di ripristinare la
monarchia col trucco del referendum, hanno dato loro aiuto.
Si obietta, da chi non le ha mai lette, che le « dichiarazioni »
dell’89 e del ’93, non sono aggiornate col progresso dei tempi. Dove
questo progresso stia, confrontando il secolo di Voltaire con quello
di Büchenwald, non vedo: prego soltanto di dire se il paragrafo 21o
della « dichiarazione » del 1793: « Les secours publics sont une dette
sacrée. La société doit la subsistance aux citoyens malheureux, soit en
leur procurant du travail, soit en assurant les moyens d’exister à ceux
qui sont hors d’état de travailler » non è completo, nella sua sobrietà,
più degli articoli dal 30 al 36 del progetto nostrano, intendendosi,
come è logico, che i citoyens non malheureux sappiano cavarsi i piedi
da sé, e abbiano voglia di lavorare anziché riposare sul « fondamento
» della Repubblica. E si confronti l’articolo 22, della dichiarazione
del ’93: « L’instruction est le besoin de tous. La société doit favoriser
de tout son pouvoir les progrès de la raison publique, et mettre
l’instruction à la portée de tous les citoyens » con le pappardelle del
titolo II, per vedere da che parte stanno la concisione e il buonsenso,
e che gusto c’è a diluire e peggiorare quanto già esisteva.
26
Fatte queste obiezioni di principio, soggiungendo che il testo
del 1789 è più elegante e direi, poetico; e in quello del 93 delle
venature demagogiche s’insinuano (molto lievi, però, se raffrontate
alle vene varicose dell’odierno progetto), c’è da notare che la
taumaturgia costituzionale ha davvero compiuto dei progressi. Che
i rivoluzionari dell’89, mossi e ispirati dalle correnti di pensiero che
fecero la gloria del secolo dei lumi, credessero alle « dichiarazioni dei
diritti » come gli ebrei alla rivelazione di Mosè, si può capire. Ma che
dopo quasi due secoli di delusioni, e di sciagurate esperienze, ci sia
gente che ha, sul serio, fiducia nella forza e nella praticità di una
costituzione per raggiungere determinati scopi, e impegnare compromettere e strappare garanzie effettive, mi sembra piuttosto curioso, se volgiamo parlare in buona e non in malafede. Proudhon,
che queste cose le sapeva giacché tutto è ormai accaduto sulla faccia
della terra, racconta nella Justice dans la Révolution et dans l’Eglise, se
non erro, che trovandosi, operaio errante, a cercar pane e lavoro,
volle sperimentare le risorse della legge a garanzia dei bisognosi, e si
recò da un sindaco à chieder aiuto, testi legali alla mano. La faccenda
finı̀ con la chiamata dei gendarmi, che lo fecero, come dicono i
toscani, spulezzar via di galoppo. Credono forse i nostri triplicisti che
per aver pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale gli articoli 34 e 37, le cose
si svolgeranno diversamente da allora?
Né maggior indulgenza possiamo usar per lo stile. Si è detto, da
Paolo Monelli, che in questo campo ha già spigolato, di affidar la
revisione a Benedetto Croce. Mi duole di non esser d’accordo,
giacché ci troveremmo davanti ad un testo tedesco-napoletano, con
quei molli e sfiancati periodi pieni di astrazioni, che il filosofo
predilige. [...]
In realtà, questa Costituzione nasce rispecchiando gli astuti
calcoli di tre partiti che, con la furberia di Bertoldo, si sono detti:
« Cacciamoci entro tutto, e cosı̀ domani non si discuterà più di certi
argomenti, diventati tabù; o potremo appigliarci alla Costituzione
per sostenere magari che le marche da bollo debbono essere rotonde
e non quadrate ».
Sublime pensiero! Gaglioffaggine immensa! Tutti gli storici, i
filosofi, i teologi, i dottrinari, insegnano che l’evolution créatrice, per
usar la terminologia di Bergson, non si arresta davanti a una carta,
specialmente nei paesi latini dove vige la massima eterna: « La legge
si rispetta, ma non si eseguisce », e periodicamente avvengono qui
movimenti che facevano dire a Victor Hugo:
Tu me crois la marée, et je suis le déluge.
27
Cosicché la saggezza consiglierebbe di tenersi sulle generali,
edificando pochi capisaldi che servano di guida e riferimento.
La triplice alleanza dei partiti, non è di questo parere. E si diletta,
nell’art. 35, a dire che « l’organizzazione sindacale è libera » ma che
i sindacati « rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti » (ammirate lo stile) stipulano « contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria (evidentemente c’è un’“efficacia” facoltativa?!) per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si
riferisce ». I lavoratori hanno diritto di sciopero, ma gli imprenditori
non hanno il diritto di serrata, pur dovendo « tendere » a provvedere
i mezzi necessari « ai bisogni individuali, e al benessere collettivo ».
(E se dicono che la loro « tensione » non ha prodotto risultati?) Vero
è che la proprietà si distingue in « pubblica e privata » e che della
prima, una volta menzionata, non ci si occupa più! Ma si specificano,
invece, « le fonti di energia » (quali? Art. 40) da trasferire anche a
« comunità (devono aver ricordato il titolo della rivista di Adriano
Olivetti!) di lavoratori e di utenti », vulgo da nazionalizzare. Voglio
sperare che l’art. 39, stabilendo che « l’iniziativa economica privata è
libera, ma non può svolgersi... in modo da recar danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana » serva almeno ad abolire le case di
tolleranza con patenti statali, la registrazione nel libro delle questure
delle donne che fanno « la vita », e simili avanzi di schiavitù vera e
propria, di cui sempre pudicamente si tace. Sarebbe, forse, la unica
benemerenza di questa eterogenea e scombinata Costituzione, seppure già la « dichiarazione » del ’93 non stabilisce all’art. 18 principı̂
altrettanto sani.
Salto a piè pari la seconda parte (Ordinamento della Repubblica) che delizierà i cultori di diritto, e che contiene la bomba a
scoppio ritardato delle regioni. Ottima cosa, per me, il federalismo,
se l’Italia fosse al livello di educazione e civiltà democratica della
Svizzera, della Svezia o dell’Inghilterra, ma nelle nostre condizioni,
saremmo tentati di dire, da un lato, a siciliani e calabresi: « Aggiustatevi da soli, e vedremo cosa saprete fare! », ma poi ci capiterebbero
addosso i cocci da riparare. Eccellente provvedimento, l’indipendenza assoluta della magistratura, se ci fosse da fidarsi di una classe per
formazione mentale e modernità d’intendimenti, rimasta ai tempi di
Cicerone, e per orientamenti sociali a quelli di Carlo Felice. Piuttosto ingenuo, nelle disposizioni finali e transitorie, l’articolo sulla
proibizione della riorganizzazione, sotto qualsiasi forma del disciolto
partito fascista, quando anche i cani sanno che la forma già da esso
assunta è quella del partito nazionalista o meglio xenofobo, e che i
28
suoi organi fanno piovere, indisturbati, sputi quotidiani sui costruttori dello stato repubblicano.
Nel suo complesso, questa prolissa, confusa, mal congegnata
costituzione, val poco. È nata da una coalizione di interessi palesemente elettorali, non dalla passione di un popolo intellettualmente
rielaborato; ha già al piede la palla di piombo dei patti lateranensi. Io
ho il vezzo di citar sovente, ragionando di politica, delle canzonette
francesi, per alleviare la noia del dettato, ma soprattutto perché,
riducendo certe schermaglie in canzoni, i francesi danno loro il
giusto peso. Questa volta, m’è venuta alla mente una strofetta
settecentesca, nata a proposito di una « Costituzione » ecclesiastica,
ma che può fare benissimo al caso nostro:
Ci-gı̂t la Constitution, / Bâtarde d’Ignace et de Pierre...
Vediamo un po’. Ignace, è certo il fondatore dell’ordine dei
gesuiti, quello il cui palazzo sta di faccia al Kremlino romano del
partito comunista. Ma Pierre? Non sapevo a chi si potesse fare
riferimento, ma poi ho pensato che l’antenato, il precursore del
Maresciallo Giuseppe Stalin, fu appunto Pietro il Grande.
29
II. Il primo decennio (1948-1958)
1952. Piero Calamandrei N
Alla vigilia della chiusura della prima legislatura, il popolo
italiano ha diritto di chiedere al Parlamento (che poi vuol dire al
governo) che cosa ha fatto, in questi cinque anni, della Costituzione
repubblicana: di questa Costituzione che ebbe in custodia cinque
anni fa, e che oggi dovrebbe restituire in buono stato, al momento
delle nuove elezioni, al popolo che gliela affidò.
Cinque anni fa, appena chiusi i lavori dell’Assemblea costituente, la Costituzione era come un edificio monumentale (in
materia costituzionale i paragoni edilizi sono di stile) tirato su nelle
mura maestre, ma ancora mancante di qualche parete divisoria, di
qualche scala interna e della cuspide. L’imprenditore, nonostante la
sua buona volontà, non era riuscito, in un anno di lavoro intenso, a
consegnare la costruzione finita; ma tutti sapevano che il suo
successore, che trovava i materiali già ammassati nel cantiere,
avrebbe potuto agevolmente, in pochi mesi, portare a compimento
l’impresa secondo i disegni già approvati dal progettista.
Sono passati cinque anni, e tutto è allo stesso punto. Incompiuta
era, e incompiuta è. Ma limitarsi a osservare che tutto in questi
cinque anni è rimasto immutato, è forse peccare di ottimismo: non
N Tratto da PIERO CALAMANDREI, Incoscienza costituzionale, in « Il Ponte », VIII (1952), n. 9, pp. 1177-1187 (ripubblicato in Opere giuridiche,
Napoli, Morano, vol. III, pp. 470-480).
33
si lascia una muratura a mezzo per cinque anni senza che essa
cominci a andare in rovina: sotto i venti che soffiano dalle aperture
del tetto, la calcina comincia a sgretolarsi; e le impalcature, abbandonate sul posto, imputridiscono sotto la pioggia.
Se invece che in tema di mandato parlamentare si fosse veramente in tema di contratto d’appalto, questo imprenditore scervellato o disonesto, che per cinque anni avesse lasciato andare in malora
cosı̀ il lavoro affidatogli, andrebbe incontro a brutti guai. Nessuno lo
salverebbe da una condanna ai danni: e forse, poiché i muri lasciati
a mezzo costituiscono un continuo pericolo di crollo, rischierebbe di
andare a finire in prigione.
La Costituzione, come ognuno sa, è divisa in due parti: la prima
tratta dei diritti e doveri dei cittadini; la seconda dell’ordinamento
della repubblica, cioè della struttura degli organi con cui si esercita il
potere.
Per ora il bilancio del costruttore si può limitare alla seconda
parte, quella più propriamente architettonica. Della prima è meglio
tacere.
È inutile infatti parlare delle norme contenute nella prima parte,
quelle che si riferiscono ai diritti individuali dei cittadini, civili,
politici e sociali. Esse sono lı̀ da cinque anni, chiuse nelle loro
scatole, come misteriosi ordigni di cui si ignora l’uso (e speriamo che
non s’arrugginiscano). Fanno venire in mente l’avventura di certi
ospedali di provincia che, per la munificenza di un benefattore
locale, hanno potuto acquistare un armamentario chirurgico ultramoderno: ma gli strumenti rimangono lı̀, nelle vetrine, ognuno nel
suo astuccio, perché non si trova il chirurgo che li sappia adoperare.
Cosı̀ è accaduto, finora, delle norme « programmatiche », che
dovevano servire a iniziare le tanto vantate « riforme di struttura
economica »: quelle che promettevano ai poveri non la ricchezza,
ma un po’ meno di miseria, ai disoccupati non l’elemosina, ma un
po’ di lavoro. Forse in avvenire si troverà chi saprà adoprarle; ma per
oggi sempre (al dir dei vecchi partiti) di sicuro effetto pacificatore.
E cosı̀ è meglio non parlare di quelle norme che dovevano
garantire ai cittadini i diritti di libertà. Anche queste sono sempre
nuove ed intatte nelle loro custodie di velluto, perché il governo, per
non consumarle, ha preferito non adoprarle. Per amministrare la
libertà di opinione, o la libertà della cultura, o la libertà delle
confessioni religiose non c’è stato bisogno di scomodare la Costituzione: bastano le elastiche disposizioni della benemerita legge di
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pubblica sicurezza, che da vent’anni ha reso, senza discontinuità,
tanti servizi.
Limitiamoci a guardare il bilancio relativo ai lavori di architettura costituzionale. Da quelli doveva cominciare l’opera del nuovo
Parlamento; prima di cominciare a servirsi del potere, bisognava
mettere a punto gli organi indispensabili per esercitarlo in modo
legittimo.
Ora proprio qui le cose sono allo stesso punto a cui si erano
fermate cinque anni fa: lı̀ restarono ferme, e di lı̀ non si sono mosse.
È ormai diventata una specie di filastrocca, che si canta a veglia in
tutte le buone famiglie, la enumerazione dei vuoti che ancora
crivellano la nostra Costituzione e aspettano invano di essere riempiti: la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, il referendum, il Consiglio dell’Economia e del lavoro, l’ordinamento regionale, l’abolizione delle giurisdizioni speciali, il
riordinamento del Tribunale supremo militare, la revisione delle
leggi costituzionali del precedente regime... È una noiosa tiritera che
potrebbe continuare. Di chi la colpa? [...]
Nella piattaforma elettorale su cui si fecero le elezioni del 18
aprile, l’immediata integrazione della Costituzione era, per tutti i
partiti, un punto fuori di discussione: non era neppure pensabile che
un Parlamento nato dalla Costituente potesse tradire l’impegno
costituzionale che la Costituente gli aveva trasmesso. La Costituzione, per il Parlamento democratico, doveva essere un prius, una
premessa che si rispetta e non si discute: qualcosa che stava al disopra
dei partiti, che era un limite per la stessa maggioranza.
E invece la maggioranza democristiana, magnitudine sua laborans,
è stata portata dalla sua stessa onnipotenza schiacciante a identificare
la Costituzione con sé medesima; le sorti della Costituzione colle sue
proprie sorti elettorali. Padrona del governo, si è accorta che chi
governa può benissimo fare a meno di tutti quei controlli costituzionali che lo spirito romantico dell’Assemblea costituente aveva
sognato. La Corte costituzionale, l’indipendenza della magistratura,
il referendum popolare, bellissimi temi per conferenzieri da circoli
rionali; ma in pratica, intralci micidiali per chi è al potere e vuol
rimanerci. E allora la conclusione, prima appena sussurrata, poi in
questi ultimi tempi apertamente proclamata, è venuta da sé: non è il
governo che deve adattarsi alle esigenze della Costituzione, è la
Costituzione che deve conformarsi alle esigenze di questo governo.
Se questo governo la preferisce cosı̀, non c’è proprio ragione di
complicare con intralci costituzionali, per fortuna rimasti soltanto
35
sulla carta, questo ingranaggio che va da sé cosı̀ liscio. Questa non è
la Costituzione fatta perché la maggioranza democristiana possa
continuare per omnia saecula a rimaner maggioranza.
« La costitution, c’est moi »: il programma fu già enunciato
trent’anni fa, si riassunse fin da allora in un motto: « DURARE ».
36
1953. Giuseppe Maranini N
La Costituzione scritta dalla Repubblica non è felice, anche a
prescindere dalla sua integrazione proporzionalista contenuta nella
prima legge elettorale. L’amara esperienza dell’altro dopoguerra
parve nulla avere insegnato ai nostri costituenti. Dopo la catastrofe
delle Costituzioni « razionalizzate », con le quali si era creduto allora
di garantire la perfetta democrazia, può sembrare addirittura singolare l’ingenuità con cui in questo dopoguerra in Italia e altrove si
sono fabbricate nuove Costituzioni razionalizzate. A chi creda nella
efficacia delle istituzioni, quella esperienza avrebbe dovuto suggerire
qualche dubbio sulla opportunità di ripeterla; e indurre almeno a
proporre il problema, che nessuno si propose seriamente, del perché
quelle Costituzioni, ispirate da cosı̀ illustri giuristi e salutate da tante
speranze, avessero avuto effimera e non gloriosa vita. A chi poi non
creda nella efficacia delle istituzioni, avrebbe dovuto proporsi un
diverso problema, e avrebbe dovuto sembrare inutile fatica il congegnare un cosı̀ prolisso, macchinoso e complicato documento.
L’esame dei lavori preparatori e più ancora l’esame del documento stesso, conduce a ritenere che i costituenti nonostante ogni
N Tratto da GIUSEPPE MARANINI, Origini dell’insufficienza della nostra
Costituzione (1953), in AA. VV., Studi per il XX anniversario dell’Assemblea
Costituente. IV: Aspetti del sistema costituzionale, Firenze, Vallecchi, 1969,
pp. 413-431.
37
loro riserva mentale e nonostante le reciproche malizie, credessero
nella efficacia delle istituzioni, anzi vi credessero in modo miracolistico e puerile. E non sembra neppur giusto addebitare la povertà di
questo documento alle divisioni dell’Assemblea e alle necessità di
compromesso. Qualunque legge e qualunque Costituzione esprime
un compromesso; la legge è per definizione composizione di interessi, compromesso. Senza dubbio una maggiore unità di sentire sui
princı̀pi fondamentali della convivenza civile avrebbe creato una
atmosfera più favorevole alla nascita di un ordinamento vitale. Ma,
in fondo, i costituenti nella loro discordia erano d’accordo. Poiché
nessuno dei due grandi schieramenti era in grado di prevedere chi
avrebbe tenuto il Governo nell’immediato domani, comune era la
preoccupazione di creare un sistema di garanzie efficaci: né altro è lo
scopo di una Costituzione politica, nel senso liberale e moderno
della parola. Le circostanze non erano dunque neppure cosı̀ sfavorevoli come si dice, ed è lecito pensare che se non si fece qualche
cosa di meglio, fu soprattutto perché non si seppe fare di meglio.
Era mancato del resto, fra le due guerre, ogni potente e originale
sforzo critico inteso a ricercare le cause profonde della insufficienza
delle nuove Costituzioni razionalizzate. Qualche accenno notevole
v’era stato, soprattutto nella dottrina francese; ma non più che
accenno, e senza eco nell’opinione generale e nel mondo dei
politici. Quanto alla dottrina italiana, era rimasta fedelissima nell’insieme agli indirizzi astratti di quelle scuole tedesche alle quali era
dovuta la moda delle razionalizzazioni: scuole che esprimevano un
alto tecnicismo, sposato a una completa carenza di senso storico e a
una profonda ripugnanza per ogni controllo sociologico: il trionfo,
in sostanza, della logica formale e verbale contro l’esperienza. Uomini nutriti di mèra erudizione giuridica e formati in Paesi senza
tradizioni di libertà si erano stranamente illusi di poter razionalizzare,
e cioè perfezionare, le faticate libertà inglesi, che del resto non
arrivavano neppure a intendere nella loro realtà cosı̀ fluida e complessa, cui ripugnava la troppo diversa struttura mentale. La razionalizzazione avrebbe dovuto rendere perfetta la coerenza del sistema;
e tolse invece al sistema qualsiasi coerenza creando delle macchine
ammirevoli, le cui ruote avevano il solo difetto di girare in tutte le
direzioni e non riuscire mai a ingranarsi. E lo stesso errore fu
fedelmente riprodotto nella nostra nuova Costituzione, come nelle
altre più importanti costituzioni non sovietizzate di questo secondo
dopoguerra. [...]
Le illusioni razionalizzatrici hanno invece immesso in pieno
38
nella Costituzione scritta della Repubblica un groviglio di equivoci
e di contraddizioni [...], che l’economia di questo scritto non ci
consente di riprendere ora nei loro particolari; il che non sarebbe
neppure molto utile, poiché l’originalità dei costituenti fu cosı̀
limitata, che, almeno per tutti i problemi fondamentali, avremmo
solo da ripetere quanto abbiamo detto a proposito delle Costituzioni
dell’altro dopoguerra.
Ancora una volta troviamo le strutture classiche del Governo di
gabinetto sforzate al servizio di un sistema di Governo di assemblea.
Il bicameralismo attenuato all’estremo (e non addirittura sterilizzato,
forse più per accidente che di proposito, grazie al diverso periodo di
ufficio delle due assemblee). La sottomissione esplicita del Governo
al Parlamento e del Parlamento ai partiti, affermata attraverso la
« razionalizzazione » del voto di fiducia. Lo svuotamento della figura
e delle funzioni del Capo dello Stato. L’irradiazione dell’influenza
quando non addirittura della prevalenza parlamentare in tutti gli altri
organi supremi: Capo dello Stato, Corte costituzionale, perfino
Consiglio superiore della magistratura. La deformazione, infine,
della giustizia costituzionale, e addirittura il suo capovolgimento
potenziale in istrumento di terrore. [...]
Anche il Capo del Governo ha parlato di necessarie modifiche
di struttura. Quali modifiche non sappiamo. Comunque la necessità
esiste, quanto mai urgente. La disintegrazione della partitocrazia e il
richiamo di tutto il potere effettivo negli organi sovrani e controllati
dello Stato è la condizione assoluta di ogni progresso e di ogni
moralizzazione. Né il semplice ritorno al collegio uninominale
potrebbe costituire sufficiente rimedio nelle condizioni della società
contemporanea; ogni cosa ha il suo tempo. L’esigenza della divisione
dei poteri (o del potere) rimane e rimarrà una esigenza eterna della
difesa della persona umana: ma neppure questo basta, se non riusciamo a collocare in poteri, e cioè negli organi politici, dei valori
umani. Lo Stato, per un rivolgimento superiore alla nostra volontà,
ha assunto e va assumendo tali compiti che la sua degradazione non
è più la degradazione di un aspetto dell’uomo, bensı̀ la degradazione
di tutto l’uomo.
Bisognerà dunque riproporsi con criteri nuovi — almeno per il
nostro tempo — il problema dei sistemi elettorali, e avere coscienza
della loro priorità assoluta in confronto a ogni altro problema
costituzionale. Occorrerà trovare un modo onesto di trarre da tutto
il corpo sociale, con procedure consapevoli del fine da raggiungere
e adatte a quel fine, uomini capaci di stare con onore nei consigli
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sovrani e di « servire » efficacemente. La difficoltà grandissima non è
tanto una difficoltà tecnica; ma piuttosto proviene dalle resistenze
delle oligarchie pratiche; e più ancora dalla resistenza dell’inerzia
mentale, che ama adagiarsi nella cosa stabilita, per quanto priva di
senso il moto dei tempi l’abbia fatta diventare.
Del resto nessun regime potrebbe a lungo sopravvivere al
disordine economico e finanziario della nostra assurda e incoerente
forma di socialismo di Stato; a un sistema dove niente è statalizzato
nel senso onesto della parola, ma dove tutto è statalizzato nel senso
che ogni giuoco dell’economia libera è falsato; dove le imprese
hanno imparato ad addossare allo Stato le perdite e a tenere i lucri;
dove la universale collusione fra partitocrazia, burocrazia, sindacalismo, alto capitalismo elimina e schiaccia in partenza ogni iniziativa
che non accetti la immorale regola del giuoco. E nessun regime
potrebbe a lungo sopravvivere allo scandalo delle finanze dei partiti,
denunciato con dati precisi da scrittori indipendenti; alla audace
monopolizzazione di determinati settori della vita nazionale operata
secondo le loro forze da tutti i partiti, di opposizione e di Governo;
alla ulteriore degenerazione del potere partitocratico in potere personale e privato, che si esprime con l’emergere (nell’opposizione
come nel Governo), di famiglie consolari.
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1958. Meuccio Ruini N
Non voglio posare a difensore d’ufficio della costituzione. Mi
han chiamato, anche ironicamente, l’uomo della costituzione, e
Togliatti ai 75 e Terracini in assemblea, mi hanno attribuito meriti
ed elogi (che ora non ripetono). La costituzione è un grande sforzo
collettivo; al quale dovevo dare ed ho dato, quando fu formulata,
ogni mio sforzo; non sono sempre riuscito a far accettare le mie
proposte; ma, cosı̀ come è, la costituzione è mia, al pari di ogni
italiano; e non posso che rivendicare le mie responsabilità.
Non è perfetta; nessuna è senza difetti; ma Stendhal, lo citai
allora, ha detto che di fronte ad una costituzione si prova un senso
quasi religioso; e mi sembra — non deridetemi — di ascoltare ancora
l’inno nazionale che si levò dalle tribune e in tutto il popolo italiano
quando la nostra costituzione venne approvata.
Non è perfetta; è « piena di difetti »; sia pure; ma Herriot in un
convegno a Strasburgo, e Hallstein nella biblioteca del nostro senato,
han riconosciuto, parlando con me, che l’italiana non è nel suo
insieme inferiore, anzi può essere per più aspetti apprezzata meglio
che le sue quasi gemelle costituzioni della Francia e della Germania
di Bonn.
N Tratto da MEUCCIO RUINI, Per un questionario sulla Costituzione,
(1958), in Scritti di Meuccio Ruini. La nostra e le cento Costituzioni del mondo.
Come s’è formata la nostra Costituzione, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 296-301.
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Mi sia consentito un altro ricordo (i vecchi amano ricordare);
una sera, a Bruxelles, chiesi a Churchill (che aveva parlato per
l’Inghilterra, e Spaak per il Belgio, ed io per l’Italia), se era vero un
suo slogan, ed egli lo confermò, in sostanza cosı̀: il sistema democratico parlamentare è pessimo, ma (si perdoni il giuoco di parole e
la licenza grammaticale) è « meno pessimo » di altri e va difeso per
quanto possibile perfezionato contro gli opposti totalitarismi. La
nostra costituzione esprime, più spiccatamente che altre, quel sistema. Era il solo che potesse essere adottato, nel momento storico
della liberazione, e per la ricostruzione del Paese. Che cosa sarebbe
avvenuto se non si fosse fatto cosı̀? Fu un compromesso; ma che tutta
la storia sia un compromesso (anche questo lo accennai alla costituente) lo han riconosciuto, oltre a Macaulay, un duro come
Cattaneo ed un puro come Gandhi. Uscivamo dalla guerra civile e
dalla disfatta in cui ci aveva gettato il fascismo, e non potevamo che
andare alle forme politiche e sociali della nostra costituzione. Saltan
fuori, oggi, tesi postume ed eccessive: da un lato che fu una
rivoluzione mancata; dall’altro che bisognava riprodurre il passato.
Anch’io ritenevo che si potesse tentare qualcosa di più, ma
bisognava ricostruire, e non rilanciare il paese nella lotta interna e
nella disgregazione; come sarebbe avvenuto ritornando a fasi ormai
superate. La nostra costituzione non poteva risultare se non dalle
forze che avevano liberata, salvata l’Italia, combattendo contro un
fosco passato.
Fu presa la sola via possibile, che tien conto delle esigenze
insopprimibili di libertà e di giustizia sociale. La costituzione le
sancisce; ed anche quando ebbero fine l’alleanza militare con la
Russia e la or derisa, ma allora indispensabile esarchia, bisognava,
bisogna sempre tener ferma la costituzione. Nelle sue norme e nel
suo spirito è l’unico modo di resistere non solo ai meno pericolosi
rigurgiti del fascismo, ma alle minacce di estremisti di sinistra, che si
atteggiano a vestali della costituzione, e son totalitari, e la straccerebbero se prevalessero; la nostra difesa è proprio nella costituzione
(se ne accorgeranno, avrebbe detto il capo dello Stato); è nel sentir
nostra, nel vivere la costituzione che ci siamo liberamente data.
Per viverla dobbiamo farne una realtà; una vivente realtà. La
costituzione non può essere un catechismo o uno schema astratto;
qualcosa che resta nel frigidario; la costituzione siamo noi, mi disse
una volta il nostro indimenticabile Orlando; e consentı̀ in una
triplice esigenza: una costituzione, quale è, bisogna applicarla, integrarla, rivederla. Applicarla subito, immediatamente, dove è — ed è
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per lo più — senz’altro applicabile. Integrarla, dove è necessario, con
leggi ordinarie e norme di attuazione. Rivederla soltanto nei punti
dove è proprio indispensabile; son ben pochi; ed occorre « pensarci
su » (come disse alla costituente, e confermò Perassi); pensarci su; nel
quadro e nello spirito della costituzione stessa; ma pensarci su non
vuol dire sospendere, accantonare, rinviare sine die le decisioni.
Anche con la inosservanza, come con aperte contraddizioni, si viola
il testo costituzionale.
Attuare la costituzione [...] è un imperativo categorico; non va
tuttavia disconosciuto — e non è abbastanza rilevato — che quasi
tutte le costituzioni oggi in vigore non sono integralmente attuate:
lasciamo stare i paesi, dove la carta costituzionale è soltanto una
facciata, dietro la quale si stende una ben diversa realtà; anche dove
non manca buona volontà, l’attuazione non è piena e completa, per
difficoltà che sorgono e per l’incessante movimento di trasformazione della vita in comune, alle quali la costituzione dovrebbe
adattarsi. Si può dire che l’applicazione sia integrale soltanto... dove
la costituzione non è scritta, come in Inghilterra (il paese, anche nella
legislazione ordinaria, della common law, del costume, del diritto dei
giudici); un po’ meno per la semiscritta costituzione degli Stati Uniti
del nord America; i paesi anglosassoni possono permettersi il lusso di
non scrivere o scrivere poco la costituzione e le leggi, perché — è
un altro mio slogan — hanno nel sangue l’autodisciplina; mentre i
tedeschi hanno la disciplina, e noi che siamo latini piuttosto la
indisciplina. È pel nostro temperamento e per evitare di cadere nel
disordine, nell’incertezza, che siamo costretti a scrivere, anche
troppo, la costituzione e le leggi; ed è questo stato di inflazione
legislativa che ci fa correre, per altra china, il rischio di non
rispettare, di fatto, le copiosissime norme.
La nostra costituzione è lunga, ricca di articoli; anche se sono
riuscito coi 75 ad amputare alcune centinaia di quelli proposti.
Cercavo anche, d’accordo con Calamandrei, di tracciare in un
preambolo, come fanno altre costituzioni, un complesso di direttive,
di orientamenti generali per la legislazione e l’azione; senza inserirli
nel testo vero e proprio; si oppose il mio compaesano Dossetti, un
giovane capace e volitivo; e fece sı̀ che si mescolassero assieme,
indistintamente, norme precettive e norme programmatiche; ciò
non ha arrecato chiarezza ed ha complicato l’attuazione.
Ben s’intenda: non è esatto quanto è pur stato detto, che la
nostra costituzione sia, per la maggiore ed essenziale parte del suo
dettato, inattuata; peggio che in quasi tutte le altre carte. Non è cosi;
43
non è davvero, quale l’han dipinta, la « grande addormentata »; è in
atto e funziona nella grande maggioranza delle sue norme e nei suoi
istituti. Ciò non toglie che vi siano state, e permangano, esitanze e
dubbi e ritardi; e che vi siano non trascurabili e non insignificanti casi
di inadempienze. È errore e torto di uomini e di partiti che l’hanno,
e con slancio, votata, di manifestare oggi diverse opinioni, ripentimenti, oscillazioni; e di lasciare che i totalitari, costretti dal loro
programma a lacerarla domani, se andassero al potere, si atteggino
oggi, l’ho accennato, a paladini della santa costituzione.
È giunto, alla vigilia del decennale, il momento di un esame di
coscienza, di un’autocritica, di una precisazione per ciò che si deve
fare.
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1958. Ugo La Malfa N
Se, talvolta, i cicli storici sono comode ricostruzioni ex post dello
studioso che ricerca un senso nel succedersi degli eventi e degli atti
di governo, spesso nella storia costituzionale queste categorie temporali rispondono effettivamente alla realtà ed indicano, sempre con
una approssimazione apprezzabile, quasi le varie epoche fisiologiche
della vita di un corpo politico. E cosı̀ conveniamo che in trapassi di
regime, quanto più brusca è la rottura, tanto più pericoloso è l’inizio
della vigenza del nuovo ordinamento, che, come una creatura
neonata, è insidiato da pericoli interni ed esterni, dati dalla sopravvivenza di forze eversive di esso, dal rivelarsi improvviso del vero
volto di schieramenti politici prima agnostici od attendisti, dal
dislocamento di forze economiche e sociali che prendono posizione
man mano che il sistema espande la sua logica giuridica e politica,
intaccando situazioni di privilegio ed interessi precostituiti.
I dieci anni trascorsi rappresentano per la Costituzione italiana,
che dà vita ad un regime repubblicano e democratico, il superamento del periodo indubbiamente critico, in cui la grave situazione
politica internazionale, la forte tensione sociale e politica interna, la
presenza nel Paese di varie e potenti correnti di opinioni e di
N Tratto da UGO LA MALFA, Il problema politico dell’attuazione della
Costituzione, in Raccolta di scritti sulla Costituzione. II: Studisulla Costituzione,
Milano, Giuffrè, 1958, pp. 41-44.
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interessi legate all’antico regime, costituivano altrettante insidie per
il nuovo regime repubblicano. Né l’Italia possedeva certo educazione o vocazione di legalità costituzionale, nel senso di un vissuto
costituzionalismo quale quello che permise il graduale passaggio, in
Inghilterra, dall’assolutismo dei Tudor al regime del Re nel Parlamento; o simile, ancora a quello americano del periodo coloniale
che realizza, proprio in nome della Magna Charta, l’evento della
Rivoluzione del 1776. Né, infine, trovavano, nel tessuto sociale
italiano, razionale espressione quei fermenti libertari, democratici,
insomma di « civiltà repubblicana », che preservarono le conquiste
della Rivoluzione francese nel primo sessantennio dell’ ’800, nonostante le vicende dell’Impero, della Monarchia di luglio e della
Restaurazione bonapartista. La stessa tradizione costituzionale piemontese, peraltro cosı̀ composta ed altamente civile, s’imperniava
più su di una « religione della monarchia » che sulla educazione ai
valori statutari, rivelando la sua fondamentale debolezza nella parabola che ha tre cuspidi: le repressioni del 1898, l’avvento del
fascismo e la crisi dinastica e politica del 1943.
Il neo-costituzionalismo italiano, sorto dalla Resistenza e dall’apporto ideologico dei partiti repubblicani, mentre incontrò un
fervido consenso popolare per quanto riguardava il suo primario
aspetto istituzionale (Repubblica contro Monarchia), si trovò ad
essere appoggiato soltanto sul velo delle élites antifasciste per quanto
concerneva la ideazione e la strutturazione concreta degli istituti
costituzionali. Ma v’è di più: il costituzionalismo italiano non era
legato a tradizioni di democrazia diretta ché la tradizione repubblicana, l’unica valida dopo l’involuzione in senso centralistico del
socialismo, è stata tradizione di minoranza del popolo italiano,
mentre il costituzionalismo cattolico, pur fervido di fermenti anche
autonomistici, scontava irrimediabilmente la posizione di eminente
dominio riservata da esso, nei fatti, alla Gerarchia della Chiesa con
l’atteggiamento prudenziale sulla questione istituzionale, l’equivoco
dei rapporti tra Stato e Chiesa, la fatale indeterminatezza tra la
politica di riforme e quella di conservazione. A sinistra, i comunisti,
mentre in un primo tempo appoggiarono il compromesso istituzionale, in un secondo tempo accedettero alla impostazione repubblicana ed alla elaborazione costituzionale con le evidenti riserve
imposte loro dalla ideologia marxista-leninista.
Per l’equivoco in cui si dibattevano le grandi formazioni politiche fu impossibile pervenire ad una definizione dello Stato repubblicano come fondato « sui diritti di libertà e sul lavoro » (come
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suonava un mio emendamento, inspiegabilmente respinto dall’Assemblea costituente) e si arrivò, invece, alla parziale, ed in certo
senso equivoca, definizione di « Repubblica fondata sul lavoro ».
Le tristi vicende del Partito Socialista, che pure aveva dato, con
il Partito Repubblicano e con il Partito d’Azione, un contributo
fondamentale alle lotte per la Repubblica ed all’edificazione del
nuovo Stato, impedivano che esso fosse una presenza determinante,
oltre che attiva, allorché, fatta la Costituzione, si sarebbe aperto
inevitabilmente il problema dell’attuazione di alcuni istituti di essa,
cosi fondamentali da caratterizzare quasi il tipo di Stato voluto dal
Costituente e che già risultavano evidenti nel primo progetto della
Commissione dei 75, mercé l’illuminata ed appassionata guida di
Meuccio Ruini e, tra gli altri, l’apporto prezioso di Tommaso
Perassi, Costantino Mortati e Piero Calamandrei.
A destra si delineava l’equivoco che avrebbe poi pesato per un
decennio sul quel settore: il partito legittimista, che aveva preso parte
in varie formazioni ai lavori della Costituente, puntava diritto, ma in
una edizione assai ridotta rispetto ai notabili di Halevy, ad un
inserimento qualsiasi tra le forze di governo, riservandosi, in un
successivo momento, di riproporre la questione istituzionale, quale
formula di copertura di manovre conservatrici di più largo respiro,
che avrebbero dovuto portare all’abrogazione di quei precetti della
Costituzione che più qualificano lo Stato repubblicano, e dei quali si
tentava di ritardare, in ogni modo, l’esecuzione.
Il problema dell’attuazione della costituzione veniva a porsi
immediatamente tra gli anni ’48 e ’53; ma esso si è mosso tra due
situazioni eccezionali: la preservazione, da parte dei partiti democratici che accettavano integralmente e senza riserve le tavole costituzionali, dei valori di libertà affermati dalla Costituzione; la difesa
dei primi fondamenti dello Stato dall’azione minacciosa di forze
eversive di carattere internazionale, anche se, dal punto di vista
interno, queste forze si facevano paladine di una attuazione la più
rapida possibile degli istituti costituzionali per scopi di propaganda e
di proselitismo e per lottare contro le forze democratiche. Pertanto
la posizione di quei partiti costituzionali non fu facile, anche per la
circostanza che la piena vigenza della Costituzione incontrava ostacoli nella psicologia degli organi dello Stato, che non amavano
privarsi di instrumenta imperii di uso facile ancorché incostituzionale,
di quell’armamentario dello Stato di polizia che faceva affermare a
Cavour, sul letto di morte: « tutti son capaci di governare con lo
stato d’assedio ». Furono quelli anni di sacrificio e d’angoscia per
47
gloriosi e grandi partiti storici — come il Partito Repubblicano
Italiano che, da posizioni di minoranza, tentava la difesa immediata
dei valori fondamentali di libertà, sempre consapevole che la presenza nel Governo trascendeva, in quel momento politico, ogni
disegno di breve respiro, ma s’inquadrava in un più vasto orizzonte
nel quale il nuovo Stato repubblicano era l’effettivo bene da preservare, al fine di consentire gli ulteriori svolgimenti costituzionali.
Lo storico di domani risponderà al quesito se lo Stato corse un
vero pericolo, se l’azione delle forze repubblicane fu efficace o vana,
se la forza autonoma che oggi la legge fondamentale possiede nella
coscienza collettiva non tragga le sue radici proprio là ove il
sacrificio, sul piano politico immediato, delle forze repubblicane
diede il primo alimento.
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III. Il ventennio successivo (1958-1978)
1965. Arturo Carlo Jemolo N
Ho sempre confessato di non amare la vigente Costituzione, pur
con completa adesione al regime che ha instaurato ed alle sue grandi
direttive: di non amarla per tutto ciò che ha di enfatico, di espressioni dal significato vago, stampi che possono accogliere qualsiasi
contenuto, di buoni propositi che nulla hanno di giuridico. Quanto
più apprezzo la secchezza, oserei dire la serietà, dello Statuto albertino.
A rischio di attirarmi anatemi, comincerei con il mettere tra le
espressioni che nulla significano quella dell’art. Io, repubblica fondata
sul lavoro, e lo stesso appellativo di democratica, termine che viene
accettato da tutti, da persone che hanno le concezioni tra loro più
antitetiche.
E che significa il diritto al lavoro dell’art. 4, che avrebbe un senso
solo se importasse che chiunque avesse il diritto di ottenere da un
ufficio statale, da un giorno all’altro, un posto di lavoro retribuito?
Che significa riconoscere i diritti della famiglia (art. 29), se non si
pongono norme costituzionali che vietino al legislatore ordinario di
fare leggi su certi temi del diritto familiare, o di porre ad esempio
limiti alla patria potestà od invece di non porne all’agire dei figli
N Tratto da ARTURO CARLO JEMOLO, La Costituzione: difetti, modifiche,
integrazioni. Relazione svolta nella seduta ordinaria dell’11 dicembre 1965,
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1966, pp. 5-15.
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senza il consenso dei genitori? Che utilità ha quel voler definire la
famiglia società naturale fondata sul matrimonio, quasi con l’intento di
condannare l’opinione di chi non crede nel diritto naturale ed in una
particolare natura e particolari diritti delle società spontanee, non
generate da previo accordo? Ed ancora, è fare adesione a concezioni
determinate, che non hanno nulla di giuridico, né incontrano la
unanimità dei consensi, l’usare certi aggettivi: essenziale funzione
familiare della donna (art. 37), sacro dovere del cittadino la difesa
della Patria (art. 52) — che pone un gradino più in basso tutti gli altri
doveri, a cominciare da quello di essere fedeli alla Repubblica e di
osservare la Costituzione e le leggi, menzionato all’art. 54 —.
Altre disposizioni del tutto pleonastiche: all’art. 32 non ci si
poteva arrestare a dire che la Repubblica tutela la salute, senza stare
a spiegare « come fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività », che potrebbe anche dare luogo a qualche battuta
umoristica (quando sono costipato posso dire che è violato un mio
diritto)? all’art. 97 occorreva dire che i pubblici uffici sono organizzati « in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione »?
Senza dire che qualche impegno della Costituzione è — e si
sapeva in partenza che era — irrealizzabile: art. 47 « la Repubblica
incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme »; ed invece si
sapeva che la tendenza costante di tutti gli Stati moderni è di favorire
il debitore a preferenza del creditore, ed una legge economica ben
nota, di continua perdita del potere di acquisto di ogni moneta, unita
a quella tendenza, fa sı̀ che il piccolo risparmio, quello degli umili,
che non viene reinvestito, si assottigli inesorabilmente; mentre
proprio le riforme preannunciate agli artt. 43 e 44 rendevano incerta
anche la sorte degli investimenti più alla portata dei risparmiatori,
anche non i più umili. E se l’art. 47 dovesse avere applicazione
implicherebbe un contrasto alle concezioni keynesiane, che invece
son l’anima di tutta la politica governativa, implicherebbe ad esempio la lotta agli acquisti a rate, all’impiegare ogni guadagno in beni
di consumo. E perché scrivere all’art. 38 che « ogni cittadino inabile
al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento ed all’assistenza sociale », quando invece il costituente
non si proponeva affatto di creare uffici e capitoli di bilancio per
attuare nella sua interezza un tale principio; bensı̀ solo di dare
continuità, incremento e perfezionamento agli istituti preesistenti, di
assistenza agli invalidi ed ai malati appartenenti a certe, sia pure
vastissime, categorie?
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Credo che l’esempio dello Statuto albertino mostrasse la superfluità di queste enunciazioni; ma comunque molto più corretto
sarebbe stato scrivere in un unico articolo che l’ordine pubblico ed
il buon costume nazionali — nozioni cui il giudice deve talora fare
ricorso — sono fondati su determinati principi etico-politici da
enunciare in stile lapidario: che era già mettersi su un terreno più
solido ed uscire fuori dell’evanescente.
In qualche altro caso il costituente avendo un concetto piuttosto
vago lo ha anche male espresso; cosı̀ quando all’art. 49 ha scritto:
« tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per
concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale »;
dove si confondono due idee non bene precisate: la condanna di
partiti a tipo paramilitare, come il nazismo ed il fascismo, che
disconoscano il principio che la formazione della volontà nazionale
si attua secondo il principio maggioritario, e intendano invece
prendere e mantenere il potere con la forza, anche se siano in
minoranza; e la condanna di partiti che, pure operando nella vita
della nazione attraverso la normale via delle elezioni, del rispetto del
principio maggioritario in seno al Parlamento ed ai consigli degli enti
locali, si fondino però su una delega di poteri ad un capo, sicché gli
organi del partito non siano emanazione della massa degli appartenenti.
Questa verbosità della Costituzione, questo frequente ricorso a
formule vaghe, non sono una semplice offesa al buon gusto, ma
riverberano su tutta la carta costituzionale una nota d’indeterminatezza, di pressappochismo, che certo non le giova. [...]
Quanti mi conoscono sanno che ho aderito con tutta l’anima al
mutamento di struttura costituzionale seguito nel 1945-47, e, pure
avendo subito le delusioni comuni a quanti avevano nutrito in quegli
anni quella che già si chiama (con un termine ormai accettato, e di
cui Luigi Einaudi invitò i giovani ad analizzare il contenuto) « la
grande speranza », non ha nostalgie del passato.
Ma l’osservazione dello storico mi porta a dire che il consiglio
di conferenza convocato da Carlo Alberto i primi del 1848 includeva
persone di cui la maggior parte riteneva il regime costituzionale un
male inevitabile, e che tuttavia redassero una buona costituzione, che
si dimostrò vitale, con le possibilità di svolgimenti che tuttavia non
la snaturassero; mentre l’assemblea costituente che lavorava a Montecitorio nel 1947 comprendeva uomini non solo di buona volontà,
ma che credevano in quel regime democratico che si trattava
d’instaurare, e che tuttavia, a mio avviso, non fecero opera altret53
tanto pregevole, né altrettanto vitale (basta pensare alle parti della
Costituzione rimaste inattuate e da molti già considerate rami secchi
a distanza di meno di venti anni).
La spiegazione a mio avviso si riconnette a più di un dato. Ma
più immediatamente coglibile quello che a Torino quei primi del ’48
lavorava un piccolissimo numero di uomini, vecchi magistrati od
amministratori, esperti di leggi consapevoli del valore di ogni termine. E quest’essere opera di esperti è la caratteristica della successiva
legislazione che costituirà la mura maestre dell’Italia unitaria e
liberale: Cavour con il suo senso vivo dell’amministrazione, il
Cavour minore e meno noto, il ministro dell’agricoltura che vara la
prima legge di protezione dei brevetti, il Cavour ministro delle
finanze vigile ed acuto, che illustra ogni convenzione con privati,
mostrandone l’utilità per lo Stato; Rattazzi che dopo l’unione con la
Lombardia presiede alla emanazione delle leggi amministrative, che
con variazioni saranno il nucleo della unificazione del diritto pubblico del ’65, che rimarrà pressoché inalterata fino all’avvento del
fascismo ed in parte ancora dura; c’è Minghetti, altro politico
appassionato della buona amministrazione, c’è il prezioso apporto
dei meridionali, Mancini, Scialoja, Francesco Ferrara, Vacca; e verrà
poi Crispi, ancora convinto che non si può separare la politica
dall’amministrazione, che le buone leggi amministrative, i codici,
sono l’essenza della struttura statale, di cui nessuna passione politica
può compensare la deficienza.
La costituente del 1947 si riuniva in un mondo diverso.
È mio vecchio convincimento che il diritto sia sentito, rispettato
particolarmente, in un mondo borghese; gli aristocratici sono più
portati a sentire il proprio diritto, anche i migliori a credere più nel
paternalismo, nel grande che protegge il debole, che non nella regola
giuridica indefettibile, che scorge soggetti tutti eguali. L’incolto non
è portato a pensare per generalia, ma per contingenti; ad avvertire
l’esigenza che quel determinato caso sia deciso in quel determinato
modo, ma non a formare categorie generali.
Che oggi la borghesia (almeno se inteso il termine come lo
s’intendeva ancora sessant’anni or sono, quando alla idea di borghesia
si accompagnava pur quella di una istruzione umanistica) non sia più
la classe dominante, è comprovato dall’assoluta preminenza data al
lato economico su quello giuridico, al provvedere caso per caso,
soddisfacendo esigenze immediate, senza seguire una linea uniforme,
che direi caratterizzi oggi la politica di tutti i Paesi.
Dovunque scorgiamo questo dato: materia enormemente più
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ricca e più complessa che i legislatori sono chiamati ad elaborare, e
minori preoccupazioni dei legislatori di erigere sistemi, di preoccuparsi di criteri di logica giuridica; che la soluzione prescelta sia
economicamente vantaggiosa, e dia immediata soddisfazione ai più
senza neppure troppo preoccuparsi degli sviluppi di domani.
Va da sé che nella costituente c’erano uomini della vecchia
Italia, del tempo in cui ancora esisteva il culto del diritto: Orlando e
De Nicola, Nitti e Ruini. Ma era esigua minoranza; e non so
neppure se fossero i più idonei a creare una Costituzione nuova;
uomini degnissimi, ma formatisi, maturati in quella Italia crollata poi
ad un tratto nel maggio del 1915, dove Montecitorio era tutto, e non
era ammesso che ci fossero altri problemi oltre quelli ch’erano
presentati al Parlamento, altri stati d’animo diversi da quelli che
erano riflessi dai risultati delle elezioni. C’era un grande giurista,
Calamandrei, eccellenti avvocati venuti dal partito repubblicano o
radicale; ma in alcuni di questi un originario repubblicanesimo,
talora appreso in famiglia, aveva fin dalla prima giovinezza fatto
nascere una diffidenza per il potere esecutivo, per quanto è organo
di amministrazione, accresciutasi poi sotto il fascismo. Stato d’animo
molto diffuso altresı̀ tra i cattolici più schietti, ed i socialisti e
comunisti. Vi sono rancori tenaci di cui neppure la ragione può
trionfare; mi pare che un certo separare patria e nazione dallo Stato,
un certo guardare con diffidenza tutto ciò che sia statale, tutto
l’apparato amministrativo, sia rimasto in molti anche quando di
questo Stato essi sono divenuti i reggitori, ai grandi rami dell’amministrazione essi medesimi sono stati preposti. Certo nei giorni
della Costituente non erano pochi che consideravano diritto ed
amministrazione (e forse anche finanza) cose del tutto secondarie di
fronte alla politica ed alla economia, che guardavano con fiducia
quel che sarebbe stato parlamento e magistratura, con rispetto
all’esercito, ma senza ombra di simpatia alla burocrazia, forza tuttavia
presente, possente, pesante.
In questo stato d’animo, comprensibile una certa impazienza ad
approfondire i problemi giuridici, una notevole tendenza a rinviare
tutto, ed ahimé a preferire alla soluzione di un problema una bella
frase sonante, e quanto mai generica.
A mio avviso fu anche gran male che la Costituzione non fosse
discussa sulla base di un progetto governativo (come Orlando
avrebbe desiderato), cioè un progetto formato da un piccolo numero
di uomini, ma tracciato secondo un rigoroso filo logico. E gran male
fu che la discussione se ne protraesse troppo a lungo, in un’assemblea
55
già troppo numerosa; avevamo avuto un periodo di grazia, in cui gli
egoismi apparivano smussati, in cui tutti sembravano disposti a
rinuncie, meno tenaci nella difesa dei propri interessi; ho l’impressione che una costituzione, anche provvisoria, varata nel ’45 avrebbe
mostrato un’Italia meno paurosa di demolire qualsiasi cosa (provincie o tribunali militari), più generosa e forse anche più severa.
C’è una nota dominante nella nostra Costituzione?
Si è detto che si avverte in essa l’ispirazione del pensiero
cristiano sociale.
Credo sia vero, ed appaia in quell’art. 2 con l’accenno alle
formazioni sociali, eco delle società intermedie, delle società naturali, sempre presenti al pensiero cattolico, all’art. 29 con la definizione della famiglia, ed in tutta la struttura della carta costituzionale,
in tutte le aspirazioni ch’essa esprime: protezione degli umili, ma
senza toccare ai cardini della società attuale, possibile intervento
statale in ogni settore, ma garantite proprietà ed iniziativa privata.
Peraltro quando si dice ispirazione alla dottrina cristiano-sociale,
si dice anche ispirazione ad una dottrina che in Italia non ha mai dato
luogo ad una legislazione positiva, che anche nel resto d’Europa non
ha mai espresso una sua forma di Stato; che ha dato qualche
economista, non in grande fama tra i suoi colleghi, ma nessun
insigne giurista. Si dice quindi appunto ispirazione ad una serie di
nobili principii, in cui si può tutti concordare, ma mai ancora
espressi in un corpo organico di leggi, mai saggiati alla prova della
esperienza.
E si può poi parlare di un pensiero giuridico cristiano-sociale?
Ne dubito assai.
Non dobbiamo dimenticare che in seno ad una civiltà maturata
nel cristianesimo, anche la laicizzazione d’istituti, anche l’avanzata di
correnti che appaiono anticattoliche, non può far sı̀ che non resti un
generale consenso sulla più gran parte degl’istituti, sulle nozioni di
lecito e d’illecito; quando andiamo a vedere le rivendicazioni tipicamente cattoliche, esse si accentrano in un numero molto tenue di
disposizioni legislative, gravitanti intorno alla famiglia, ed alla nozione di buon costume, nel suo significato più ristretto.
La Costituzione è maturata in un clima che può ben dirsi di
conciliazione, ma che altri potrebbe anche chiamare di compromesso; non è quella di uno Stato confessionale né di uno Stato laico,
non di uno Stato conservatore, capitalista, né di uno Stato socialista,
non s’ispira né ai canoni del liberismo economico né a quelli del
socialismo.
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L’essere una carta di conciliazione potrebbe costituire il maggiore dei pregi, se veramente si fosse riusciti a realizzare istituti che
conciliassero opposte esigenze. Ma temo assai che la conciliazione
siasi realizzata con l’uso di formule che possono significare tutto o
niente, ricevere le applicazioni più antitetiche, e con il grande
ricorso al rinvio, a ciò che avrebbe fatto il legislatore avvenire.
Quest’avversione alle frasi che suonano bene e non dicono nulla
è un po’ per me un assillo con venature di rimorso; perché ricordo
una novella di Boris Lavrenief, « Il vento », dove all’intellettuale
comunista che irride al nome altisonante dato ad un battaglione
rosso, il comunista popolano replica che quella irrisione è una ubbia
da signore, che certi appellativi, certe frasi, scaldano il cuore ai
semplici, ai puri.
È la mia una ubbia d’intellettuale?
Non direi: la semplicità del linguaggio, « sia la vostra parola sı̀,
no », è un consiglio del Vangelo, e accetto le belle parole quando ne
è chiaro il significato, mantenendo la mia avversione quando vogliono costituire il velo di nebbia dietro a cui non c’è nulla. Mi si
perdoni, ma temo assai che la repubblica fondata sul lavoro appartenga a questa specie.
E temo molto che dietro questo vuoto di aderenza alla realtà,
questa mancanza di formule concrete che consentano il confronto
con la pratica, con la esperienza, si siano infiltrati i miti di una falsa
democrazia.
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1966. Nilde Iotti N
Il compagno Togliatti parlando alla Assemblea costituente l’11
marzo 1947, in sede di dibattito generale sul progetto di Costituzione, rifiutava la definizione di « compromesso » che di tale progetto veniva data. [...]
È ancora valido questo giudizio a venti anni di distanza o deve
essere modificato o negato?
Tanto più è necessario rispondere a questa domanda in quanto
nel corso degli ultimi anni nelle file del movimento operaio sono
apparse frequenti posizioni che tendono a non riconoscere un
contenuto progressivo alla Costituzione repubblicana, o a vedere in
essa soltanto « un compromesso deteriore » fra comunisti e democratici cristiani in cui i comunisti avrebbero subito la peggio. È
quindi opportuno ritornare con un esame critico al processo di
formazione delle norme costituzionali senza dimenticare tuttavia i
tempi e il clima politico in cui quelle norme si maturarono. Tanto
più è opportuna una tale ricerca in quanto i sostenitori della tesi del
« compromesso deteriore » pongono in realtà sotto accusa anche in
questo campo tutta la linea generale seguita dal nostro partito e ne
negano la validità in nome di una fede nella possibilità di una rottura
N Tratto da NILDE IOTTI, Il nostro incontro con i cattolici sui principi-base
della Costituzione, in « Critica marxista », IV (1966), n. 5-6, pp. 38-51.
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rivoluzionaria (allora e oggi) non sempre apertamente espressa, ma
abbastanza chiaramente sottintesa. [...]
Occorre ricordare il clima politico che vide nascere la nostra
Costituzione: certo ricco di sospetti e di timori (lo ricorderà Pietro
Nenni nel dibattito preliminare) e percorso già dal preannunciarsi di
scontri drammatici, ma su cui dominava ancora l’unità uscita dalla
battaglia comune della guerra di liberazione, l’influenza della alleanza
vittoriosa fra le democrazie occidentali e l’Unione sovietica, la
grande scoperta del Paese del socialismo come costruttore di una
società nuova capace di affermare una nuova economia ed una
nuova morale nei rapporti umani.
L’assemblea costituente era composta da uomini che avevano
tutti vissuto, seppur in modo diverso, a volte diametralmente opposto, il ventennio del fascismo, le sue illusioni di grandezza e di
potenza, il crollo miserevole e drammatico dei suoi uomini e dei
suoi istituti assieme alla rovina del Paese e del popolo. Alcuni
pensavano che il ritorno all’ordinamento prefascista era il meglio
possibile, altri, la maggioranza, sentivano che la responsabilità della
classe dirigente italiana nel fascismo portava con sé una inevitabile
condanna sul piano politico, che la grandiosa e paurosa esperienza
dell’Europa fra le due guerre chiedeva nuove soluzioni capaci di
garantire dal ritorno a simili esperienze, che infine le conquiste
umane e sociali della rivoluzione d’ottobre avevano acquistato,
grazie a quel drammatico travaglio, un posto non cancellabile nella
coscienza delle grandi masse popolari. Si poneva perciò il problema
di uno Stato di nuovo tipo e dell’avvento di una nuova classe
dirigente.
Giustamente Togliatti concludendo la sua relazione sui « diritti
e rapporti sociali » alla Commissione dei settantacinque concludeva...
« le proposte che io faccio, pure muovendosi nella direzione
generale di una trasformazione socialista, mi sembrano possano
essere accettate da tutte le correnti democratiche e progressive...
perché del socialismo esse esprimono quello che è ormai entrato
nella coscienza comune di tutte queste correnti e... può diventare
elemento di orientamento e di guida di tutta la Nazione ».
Queste esperienze — dicevo — erano il tessuto comune di tutta
l’Assemblea costituente. Ciò non significa che le conclusioni logiche
e politiche che da quelle esperienze derivavano: costruire uno Stato
di tipo nuovo e aprire la strada all’avvento di una nuova classe
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dirigente, fosse l’obiettivo comune degli uomini che la componevano. Al contrario: le forze sociali che erano responsabili del fascismo dovevano di lı̀ a poco, con l’appoggio della Dc, seppure con
altri metodi e altri uomini, riaffermare il dominio delle antiche classi
possidenti nella direzione del Paese.
Nell’Assemblea costituente tuttavia, e soprattutto nell’elaborazione della Costituzione, ebbe peso un gruppo di uomini cattolici:
Dossetti, La Pira, Moro, Mortati, che avevano sentito la lezione della
storia, che della lotta antifascista erano anche stati protagonisti e
protagonisti coraggiosi come Dossetti, che non erano ancorati solo
alle antiche posizioni del Partito popolare, ma avvertivano fortemente il fascino delle esperienze nuove del socialismo.
Chi scrive ricorda gli appassionati dibattiti che avvenivano quasi
quotidianamente al termine dei lavori della I sottocommissione fra
Togliatti, Dossetti, La Pira e Moro sui problemi concreti posti
nell’Unione sovietica dalla costruzione del socialismo, sulle grandi
questioni ideali che ci ispiravano a vicenda. Questo gruppo di
uomini ebbe un’influenza decisiva nell’atteggiamento del partito
della Dc nei confronti della Costituzione.
Non stupisce dunque che tutte le norme della Costituzione
dedicate ai diritti economici e sociali abbiano trovato con relativa
facilità un punto di accordo e di intesa comune: né su di essi sono
avvenute discussioni molto accese, se si eccettua la questione del
diritto di sciopero per i dipendenti degli enti pubblici. Che questa
parte della Dc avesse compiuto grandi passi in avanti rispetto alla
accettazione di una economia a fini sociali, lo dimostrano con
evidente chiarezza i lavori preparatori della commissione dei settantacinque, quando l’onorevole Dossetti si esprime apertamente dichiarando di condividere le impostazioni date da Togliatti (relatore
su questo punto) e di ritenere che un controllo sociale della vita
economica sia una necessità assoluta alla quale non ci si possa in alcun
modo sottrarre. La Pira aggiunge, riferendosi alle crisi periodiche di
disoccupazione e alla non attuata partecipazione delle masse lavoratrici al meccanismo produttivo, di respingere l’ordinamento liberale
incapace di risolvere questi problemi e di accettare una struttura
economica nuova la quale realizzi quella dignità della persona umana
sulla quale tutti sono d’accordo; si muove dunque nella direzione
indicata da Togliatti. Moro, poi, di rincalzo si pronuncia contro
l’inserimento del diritto di serrata, inquantoché in uno Stato progressivo a base sociale è inammissibile il diritto dei produttori di
negare il lavoro.
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Le stesse norme relative alla proprietà terriera privata e « agli
obblighi e vincoli che la legge impone, al fine di conseguire il
razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali »
sono assai vicine, anche nella formulazione, a quelle che Togliatti
presentava nella sua relazione.
Appaiono dunque lontane le posizioni dei congressi del Partito
popolare di prima del fascismo, quando non si era mai giunti ad
ammettere un intervento diretto dello Stato nella economia globale
del Paese, ma ci si era fermati alla espropriazione dietro indennizzo,
per « cause di utilità sociale » delle terre abbandonate o mal coltivate,
come testimonia anche il progetto presentato alla Camera dal gruppo
popolare nel 1920, su ispirazione di don Sturzo, circa la lottizzazione
del latifondo siciliano. [...]
Concludendo, mi pare si possa considerare ancora valido il
giudizio espresso da Togliatti sulla Costituzione. Non di compromesso si tratta, ma di confluenza di due grandi correnti. Anzi, alla
rilettura degli atti dell’Assemblea costituente, ciò che colpisce e
stupisce è quanto di nostro è presente nelle idee espresse nei dibattiti
e poi nelle formulazioni costituzionali.
Certo le espressioni sono spesso sfumate (fu deleteria a questo
proposito l’opera del comitato di coordinamento e poi di redazione
definitiva), tutta l’impalcatura dello Stato è pesante, farraginosa:
bicameralismo, organi di controllo, lentezza della elaborazione legislativa. Tuttavia la Costituzione garantisce tre cose essenziali: il
principio della sovranità popolare, la possibilità dell’intervento dello
Stato nell’economia e la limitazione della proprietà privata « a fini
sociali », l’avvicinamento del potere statale alle masse popolari attraverso l’ordinamento regionale. Sono pilastri essenziali per il progresso e la democrazia.
C’è da chiedersi a questo punto perché la Democrazia cristiana,
dopo aver lottato, spesso con noi, per questa Costituzione, sia giunta
a modificare il suo atteggiamento, tanto da non darle attuazione
persino nei punti più cari alla sua ideologia.
La risposta è facile e complessa ad un tempo. Né è possibile darla
in poche righe. Quello che mi pare, però, si possa accennare è il
ruolo che in quel periodo ebbe la sinistra democristiana, ricca di
prestigio, di iniziativa, di modernità, rispondente davvero ai tempi.
Quando parlo di modernità intendo soprattutto che quella sinistra,
sia pure con limiti e incertezze, aveva posto in discussione il
« sistema » e cercava la strada per creare una nuova società. Quel
gruppo di uomini finı̀ per disperdersi e i suoi componenti ebbero
61
sorte ben diversa: basta pensare a Dossetti e Moro (quantum mutatus
ab illo!). Da allora però nessuna sinistra del Partito democristiano si è
spinta tanto oltre, superando le barriere del « sistema ». Colpa dei
tempi mutati forse. Ma in questo c’è anche un motivo di riflessione
per noi e per la nostra azione.
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1969. Costantino Mortati N
Se una funzione può assegnarsi agli scritti celebrativi del ventennio dell’entrata in vigore della Costituzione, essa deve farsi
consistere, in via principale, nel confronto fra il sistema che il
costituente volle porre in essere e l’attuazione che di esso si è data nel
periodo decorso, cosı̀ lungo da equivalere, secondo un’opinione, a
quello della durata media dei regimi politici nell’attuale temperie di
rapide trasformazioni sociali. Che una sostanziale divergenza fra
l’uno e l’altra si sia verificata è constatazione diffusa e cosı̀ evidente
da non abbisognare di nuove riprove che si aggiungano a quelle
tante volte fornite. Allo scadere del primo decennio il bilancio delle
realizzazioni costituzionali, da varie parti effettuato, era risultato
veramente fallimentare, non solo e non tanto sotto l’aspetto della
mancata messa in opera di uno o di altro degli istituti che erano stati
previsti, quanto e soprattutto per contrasto della complessiva attività
dell’organizzazione e dell’azione politica con le supreme finalità
additate dal costituente. La ricorrenza del secondo decennio trova
una situazione sostanzialmente immutata, ed anzi, ad onta di quanto
potrebbe a prima vista apparire, in qualche modo peggiorata. Constatazione questa ricavabile già dal fatto stesso del perdurare del
N Tratto da COSTANTINO MORTATI, Considerazioni sui mancati adempimenti costituzionali, in AA. VV., Studi per il XX anniversario dell’Assemblea
Costituente, cit., pp. 465-491.
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contrasto (che pertanto non può essere addebitato a fattori contingenti, quali quelli in passato addotti a pretesto piuttosto ad alibi delle
carenze lamentate e fatti consistere nella necessità di concentrare
ogni sforzo nell’opera della ricostruzione) che approfondisce il solco
fra diritto e fatto, e rafforzata dall’evidente diffondersi di quei germi
corrosivi che prima ancora di precludere l’instaurazione delle nuove
strutture, accentuano i mali di quelle vigenti.
Non sembra contestabile che la costituzione materiale, instauratasi nel ventennio, appare assai lontana da quella delineata nella
Carta, e che le poche luci, qua e là accese alla sua fiamma, rendono
più grave il contrasto con l’ombra che aduggia il complesso dell’assetto societario. È stato esattamente messo in risalto come la giusta
posizione delle componenti di sistemi eterogenei che si è verificata
ha portato al risultato di assommare i difetti di entrambi senza potersi
avvantaggiare degli effetti benefici ricavabili da ciascuno di essi.
Il fenomeno della prevalenza delle forze di conservazione che sta
alla base della vigente costituzione materiale, in antitesi con quella
formale, sta a mostrare la scarsa fondatezza di un’opinione, secondo
la quale in uno Stato che si qualifica democratico le due forme di
costituzione tendono a coincidere, nel supposto che quella formale,
poggiando sull’accordo di tutte le parti intorno ai valori ed interessi
in essa tradotti, si rispecchia interamente in quella materiale realizzante i valori ed interessi medesimi, secondo un processo circolare,
attraverso la dialettica delle varie forze politiche ad esso partecipanti.
È chiaro che ogni valutazione del fenomeno considerato risulterebbe sfocata ed insufficiente se fosse compiuta senza tener conto
di quanto si è osservato sulla presente fase di profonda trasformazione
degli aggregati sociali, riscontrabile, sia pure in misura diversa, in
tutti gli Stati di tutti i continenti. Vi sono però da noi fattori che
mentre, da una parte, conferiscono carattere di più urgente necessità
ai mutamenti rivolti a meglio amalgamare ed omogeneizzare i diversi
strati della popolazione, dall’altra frappongono ad esse ostacoli e
remore, più tenaci e più difficili a vincersi che non in altre nazioni.
Da ciò sembra risultare giustificata la convinzione, se non
proprio dell’inanità, dell’insufficienza di ogni tentativo di riforma
che si rivolga a questa o quella modalità di funzionamento delle varie
disposizioni, se prima non si approfondisca l’indagine sulle cause
specifiche che sono alla radice del difettoso loro funzionamento.
Bisogna a tal fine chiedersi anzitutto se al fondo della obsolescenza delle direttive della Costituzione del 1948 non vi sia la loro
insufficienza, o inattualità e non rispondenza alle effettive condizioni
64
ed esigenze della società italiana, o più generalmente allo spirito dei
tempi, e che pertanto si impugna una loro revisione, che o nella
lettera o nelle ispirazioni le adegui ad essi. Non varrebbe opporre,
preclusivamente, che la valutazione del rendimento suscettibile di
ricavarsi dalla Costituzione formale presupponga quell’integrale sua
attuazione che è mancata, potendosi replicare che proprio il sistema
complessivo disegnato dalla Costituente, o sue parti essenziali difettano dei requisiti necessari a renderne possibile, o proficua, o
attualmente opportuna la messa in opera.
Ed infatti censure alle formulazioni costituzionali sono state
sollevate sotto molteplici aspetti, riguardanti tanto quelle fra esse
relative alla posizione voluta conferire ai cittadini alla stregua di certi
valori fondamentali assunti a criterio dei rapporti di costoro fra loro
e con lo Stato, tanto le altre attinenti all’organizzazione dei pubblici
poteri.
In ordine alle prime si è, fra l’altro, eccepita la vaghezza o
l’astrattismo di una grande parte dei princı̀pi, che pertanto sarebbero
idonei ad esprimere, piuttosto che norme buoni propositi sforniti di
ogni efficacia giuridica, o peggio ancora utilizzabili solo quali stampi
capaci di accogliere qualsiasi contenuto.
Ben poco fondato appare l’apprezzamento riferito quando l’interprete si informi al brocardo tota lege perspecta, essendo facile
cogliere le correlazioni sussistenti fra le varie enunciazioni, tali da
conferire a ciascuna un preciso significato e da collegarle in un
sistema armonico, in cui tutto si tiene cosı̀ da potere apprezzare quali
svolgimenti debbano darsi alle disposizioni più particolari affinché
rimangano aderenti allo spirito delle più generali.
Questo tipo di interpretazione sistematica, se è sempre indispensabile ad enucleare l’intimo significato di ogni specie di regola
giuridica, tanto più necessaria si presenta nei confronti di quelle
costituzionali, data la maggior genericità di formulazione inerente a
molte di esse ed il maggior rilievo assunto dalle proclamazioni di
principio dalle quali è da attingere il criterio di graduazione dei
molteplici interessi voluti tutelare. Del tutto infondato appare, anche
al più superficiale esame, attribuire carattere compromissorio a tali
proclamazioni, poiché esse risultano, se considerate nel loro nucleo
essenziale, espressione univoca e coerente, in ogni loro parte, della
volontà della grande maggioranza dell’Assemblea.
Rinunciando a diffusi svolgimenti non possibili in questa sede,
e d’altronde più volte efficacemente effettuati, basterà osservare
come quella fra le enunciazioni che, a prima vista, sembra la più
65
esposta all’accusa di vaghezza e di inconcludenza, quella cioè che
all’art. 1 pone il lavoro a fondamento della Repubblica, trova poi in
una larga serie delle disposizioni successive (artt. 2, 3, 4, 34 a 44, 46)
svolgimenti sufficienti a conferirle un preciso significato di imperativo primario che mentre ne chiarisce il rispettivo contenuto, consente di disporli secondo un ordine di priorità, qual è richiesto dalla
finalità dell’attuazione di un ordine societario escludente ogni forma
di privilegio e volto alla eliminazione, anche a costo del sacrificio di
altri interessi, di ogni remora al godimento da parte di ciascuno di
una pari dignità sociale ed al pieno sviluppo della propria personalità,
tale da consentire l’assunzione di una posizione corrispondente alle
singole capacità ed al corrispondente rendimento.
Se è ovvio che dalla Costituzione, anche se fosse stata meglio
elaborata, non possono trarsi univoche soluzioni per tutti i problemi,
necessariamente legati a situazioni contingenti ed imprevedibili, non
è errato ritenere che fornisca, se bene interpretata, alcuni sicuri punti
di orientamento, e ponga chiari limiti all’arbitrio del legislatore,
mentre la tendenza a contestarne la giuridicità, nella considerazione
dell’indole meramente programmatica non vincolante delle prescrizioni da cui si sarebbero dovuti derivare, non trova fondamento
diverso da quello della volontà, malamente dissimulata, di eluderne
l’attuazione.
Svolgere le implicazioni racchiuse nei princı̀pi, per la carica
sostanzialmente rivoluzionaria in essi contenuta, avrebbe richiesto
una profonda trasformazione del modo d’essere dei rapporti eticoeconomico-sociali, una diversa configurazione delle strutture nelle
quali si svolgono: trasformazione che si è avuto cura di evitare.
Non varrebbe invocare il criterio gradualistico nell’attuazione
delle riforme, che si ritiene ricavabile dalla costituzione, poiché esso
avrebbe richiesto un progressivo, sia pure non precipitoso avviamento alle mète prefisse, ciò che è del tutto mancato, e proprio nei
settori più specialmente suscettibili di suscitare quegli impulsi e
quelle spinte meglio idonee a promuovere il mutamento di fondo
cui è legata l’instaurazione di una democrazia non puramente di
facciata qual è l’attuale.
Neppure valido sarebbe richiamarsi all’esigenza di far precedere
alle riforme un mutamento del costume, allegando la vanità delle
medesime cui questo non si adegui, poiché, se non ci si vuole
avvolgere in un circolo, sembra chiaro che ad influenzare la formazione di certi abiti di vita, di date inclinazioni morali sono appunto
indirizzati alcuni dei precetti costituzionali che sono rimasti sostan66
zialmente inapplicati, e non certo in dipendenza della loro vaghezza
o equivocità. [...]
Messo in rilievo che i valori consacrati nella Costituzione
posseggono quella determinatezza sufficiente a consentirne l’attuazione; che questa non ha trovato ostacolo negli istituti di garanzia
predisposti a tutela degli ineliminabili diritti dei singoli e delle
autonomie collettive, e neppure nell’ordinamento relativo ai poteri,
è da prendere atto che la crisi denunciata è imputabile al circolo che
si è venuto a determinare fra, da una parte, le pressioni di interessi
frazionari che agiscono sui partiti pregiudicandone la specifica funzione di mediazione e di equilibrazione al livello che meglio si
approssimi al massimo vantaggio del maggior numero e, dall’altra, la
tendenza dei partiti a favorire la soddisfazione dei medesimi interessi
che si rivelano necessari al mantenimento del potere, e cioè a
sacrificare — come bene è stato detto — alle esigenze del potere
quelle dell’autorità dello Stato.
67
1978. Vezio Crisafulli N
Ricorre in questi giorni il trentesimo anniversario della Costituzione, ma la situazione generale del nostro Paese è cosı̀ grave da
scoraggiare in partenza qualsiasi tentativo di celebrazione retorica
dell’avvenimento. La crisi si riflette ormai anche sulle istituzioni, che
sembrano inadeguate a rispondere alle drammatiche esigenze dei
tempi. La stessa Costituzione non si sottrae a critiche anche vivaci e
ad inquietanti interrogativi: l’ordinamento fondamentale, che, attraverso l’Assemblea Costituente, il popolo italiano si era dato nel 1947,
è tuttora vivo e vitale? La domanda serpeggia, e non di rado si fa
esplicita, nella pubblicistica corrente, e viene ripresa da giuristi,
politologi, ed anche da esponenti politici di varie tendenze.
A ragione o a torto, si va sempre più diffondendo l’impressione
(sottolineo la parola) che la Costituzione non sia stata in grado di
contenere entro il quadro della legalità repubblicana, di cui sta alla
base ed enuncia i princı̀pi, l’evoluzione dei rapporti sociali e politici;
che non sia stata al passo con i tempi; che il regime in essa disegnato
si sia rivelato intrinsecamente fragile, incapace di resistere alle accresciute spinte centrifughe, alla prepotenza dei gruppi organizzati, alla
protervia di oscure coalizioni di interessi ai margini tra il pubblico e
il privato, persino alla sfida quotidiana della delinquenza comune.
N Tratto da VEZIO CRISAFULLI, Ombre e luci della Costituzione, in
« Prospettive nel mondo », III (1978), n. 19/20, pp. 9-18.
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La situazione è, in qualche modo, paradossale. Di una Costituzione, salutata al suo apparire con entusiasmo che parve, e fu
probabilmente, sincero; esaltata quale simbolo e premessa di una
palingenesi politica é sociale dell’Italia, a soli trent’anni di distanza
vengono messe indubbio la capacità di « tenuta » e (da alcuni,
almeno) la stessa effettiva validità o vigenza.
Un esame di coscienza, dunque, s’impone, per verificare come
ciò sia stato possibile, per quali errori iniziali dei costituenti o per
quali traviamenti successivi: un esame di coscienza, però, che non
deve esaurirsi esclusivamente in una sorta di « processo alla Costituzione ». Scaricare tutte le responsabilità sulla Costituzione
equivarrebbe, oltre tutto, a ricadere, per altro verso, in quell’errore
di astrattezza che alimentava il feticismo costituzionale di rigore
sino a poco tempo addietro. La migliore delle Costituzioni non
basta a salvare un popolo dagli errori della classe dirigente, ed in
particolare delle forze politiche, di maggioranza e di opposizione,
che in esso si esprimono: sarebbe perciò puerile, ed anche troppo
comodo, quando ci si accorge (tardivamente) che la casa brucia,
mettersi l’animo in pace, limitandosi a porre sotto accusa la
Costituzione.
Vero è soltanto che una Costituzione può essere congegnata in
modo da favorire certi sviluppi e certe soluzioni a preferenza di altre,
perché ogni istituto giuridico è destinato a produrre, e di regola
produce, determinati risultati pratici, dei quali pone le premesse. E
perciò, nella misura in cui è possibile isolare concettualmente dal
processo storico reale gli aspetti propriamente giuridico-costituzionali, per valutarne « il rendimento », ad una Costituzione, e praticamente ai suoi conditores, è lecito addebitare errori di ordine tecnico,
mancanza di preveggenza, scelte irrazionali o inadeguate, che possono avere offerto terreno propizio, od anche semplicemente fornito
occasioni, al prevalere di prassi disgreganti, involutive o addirittura
eversive. E bisognerebbe comunque sforzarsi di distinguere (ma è
tutt’altro che facile) quel che è difetto originario della Costituzione,
cosı̀ come fu ideata e formulata — nero sul bianco — in un testo
solenne, da quel che, invece od anche, è difetto nell’attuazione del
modello costituzionale. Difetto di omissione o di travisamento e
persino, talvolta, di « iper-attuazione » (che si risolve anch’essa, a sua
volta, in una forma di travisamento).
Nel caso italiano, poi, un processo alla Costituzione è reso
ancora più difficile da una serie di circostanze, del resto largamente
note, alcune delle quali attengono alle caratteristiche generali che la
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contrassegnano e che sono il riflesso delle condizioni reali entro cui,
storicamente, è sorta, sicché difficilmente avrebbero potuto essere
differenti. Una Costituzione scaturita da un accordo di massima, e da
particolari specifici compromessi, tra forze politiche di diversa ispirazione ideologica, ciascuna delle quali vi ha lasciato un’impronta
più o meno spiccata: rivolta a mediare in una sintesi unitaria
democrazia liberale e democrazia sociale, Stato di diritto e Stato
sociale, e praticamente, da un lato, a « restaurare » , con qualche
miglioramento e qualche ritocco, un sistema politico di democrazia
parlamentare di stampo piuttosto antiquato, già caducatosi con
l’avvento del fascismo, più di vent’anni prima; protesa, d’altro lato,
a dare pienezza di contenuto ed effettiva consistenza alle libertà civili
e politiche tradizionali, prefigurando a tal fine un regime economico-sociale di tipo nuovo, da contorni — a dire il vero — alquanto
nebulosi e generici, ed impegnando a realizzarlo la generazione
presente e le generazioni future.
Ma una Costituzione, anche, non dimentichiamolo, fortemente
datata, che risente eccessivamente di stati d’animo e preoccupazioni
che dominavano il clima politico di quegli anni, primo fra tutti lo
spettro dell’autoritarismo, e che ha perciò messo un po’ troppo
l’accento sul momento della libertà e dell’autonomia, privilegiando
oltre misura — come altri ha già rilevato — i meccanismi frenanti e
garantistici, nei confronti di quelli cui sono affidate in democrazia la
formazione del processo decisionale politico e la sua effettiva realizzazione. [...]
Attuare la Costituzione significava [...] il conformarsi degli
operatori politici alle norme da essa dettate per regolarne le attribuzioni, i rapporti, le responsabilità: che potrebbe considerarsi anch’essa, concettualmente, una forma di attuazione come « applicazione », se non fosse che, riferita ai massimi poteri dello Stato ed ai
loro titolari (in un ambito del quale non sono ipotizzabili interventi
giurisdizionali, tranne che, ed in casi praticamente rarissimi, della
Corte Costituzionale), non poteva non assumere caratteristiche tali
da differenziarsene, in realtà, sostanzialmente.
È con riferimento a questa parte della Costituzione, che si suole
denunciare lo svolgersi della prassi in modi diversi (o addirittura
contrastanti) rispetto al modello in essa tracciato; il sovrapporsi,
quindi, di una Costituzione « di fatto » alla Costituzione « legale »,
formalmente intatta, bensı̀, ma ridotta — com’è stato detto di
recente — ad essere una Costituzione « di carta », conservata in un
70
reliquario, mentre quella che realmente vige è una tutt’altra costituzione.
Fatta la parte che si conviene ai paradossi e alle esagerazioni
polemiche, su un punto non sussistono dubbi: la minuziosa
disciplina della relazione fiduciaria tra Parlamento e Governo,
risultante dagli articoli della Costituzione, non ha avuto neppure
un inizio di attuazione, il che, in termini consueti al costituzionalista, si esprime dicendo che non ha avuto « effettività ». Notoriamente, le crisi sono state extraparlamentari, le sorti dei
Governi venendo decise entro i partiti e tra i partiti, al di fuori
persino di un sostanziale concorso dei loro gruppi parlamentari. In
tal modo, anche quelle poche garanzie che la Costituzione apprestava per assicurare la stabilità dei Governi sono state aggirate.
Il sistema parlamentare « razionalizzato », che i Padri della Costituzione intendevano instaurare, è stato — fin dal primo momento — governo dei partiti: « partitocrazia », come si è detto con
accento spregiativo, ricomprendendovi le propaggini deteriori e gli
aspetti meno edificanti (lottizzazione dei posti di sottogoverno,
collusioni mafiose, corruzione, ecc.).
Una partitocrazia, peraltro, che si è andata ben presto rivelando
intrinsecamente gracile: insidiata dal proliferare delle correnti in tutti
i partiti all’infuori di uno solo; dalla loro incapacità di resistere alla
pressione di interessi particolaristici e corporativi, che sarebbe loro
compito, invece, mediare nella sintesi politica; costretta, da ultimo,
a fare i conti con la concorrenza delle grandi organizzazioni sindacali, entrate ormai da protagoniste sulla scena politica.
Sia chiaro: non è questo il luogo né il momento per pronunciare
giudizi di costituzionalità o meno dei modi in cui, discostandosi dal
figurino costituzionale, è venuto realizzandosi il circuito decisionale
politico popolo-Parlamento-Governo. Ogni costituzionalista che si
rispetti sa bene che avventare in materia giudizi di questa fatta può
rivelarsi sterile esercitazione accademica: il diritto costituzionale,
proprio e specialmente per quel che concerne il concreto atteggiarsi
della forma di governo, ossia della dinamica delle relazioni tra i
poteri, è terreno di elezione del formarsi di regole convenzionali e di
correttezza, nonché di vere consuetudini interpretative, ma anche
spesso introduttive ed abroganti ad onta di qualsiasi divieto legale, e
perciò la più « rigida » delle Costituzioni è pur sempre un organismo
in movimento, che si va man mano modificando con il trasformarsi
delle situazioni reali e dei rapporti tra le forze politiche.
Ci sono però dei limiti estremi di compatibilità, oltre i quali la
71
non conformità della prassi rispetto alla Costituzione diventa vero e
proprio contrasto e si entra nella fase di transizione da una vecchia a
una nuova Costituzione. Da molti segni parrebbe che questi limiti
stiano per essere toccati. Ma se cosı̀ fosse, si avrebbe il diritto di
pretendere che si giochi a carte scoperte e che la transizione, se
transizione ha da essere, avvenga alla luce del sole nelle forme della
revisione costituzionale.
72
IV.
La lunga agonia della Prima Repubblica
1979. Nicola Matteucci N
Poi vennero le elezioni per la Costituente del 1946 e i partiti,
che gravitavano nell’area liberal-democratica, misurarono l’esiguità
dei consensi nel paese: praticamente sopravvissero solo i liberali e i
repubblicani, per cui, a quella egemonia della cultura liberal-democratica nei confronti del personalismo cattolico e del marxismo, non
corrispondevano analoghi rapporti di forza nella società italiana. Poi,
pur sentendosi schiacciati dai grandi partiti, i piccoli partiti erano
politicamente diversi e lontani (ma non lontanissimi). Riprese cosı̀ la
ricerca e la definizione di quel ceto medio, che avrebbe dovuto
essere il naturale supporto delle forze liberal-democratiche; prese
corpo l’auspicio che si formasse un « grande partito democratico », il
quale rappresentasse una terza forza fra il partito cattolico e quelli
marxisti, per realizzare una terza via. Ma si rivelarono ben presto
delle illusioni. E non potevano che essere delle illusioni, proprio
perché ci si dimenticava che questi partiti — anche se vivevano,
discordi, della stessa cultura — erano l’espressione di formazioni
storico-sociali diverse, con diverse tradizioni e diversi ideali, e con
opposti interessi perché avevano anche una parte del loro elettorato
in comune. Inoltre, ormai si stava passando dallo Stato liberale allo
N Tratto da NICOLA MATTEUCCI, Introduzione, in R. Ruffilli (a cura di),
Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, vol. I, Bologna, Il Mulino,
1979, pp. 33-38.
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Stato dei partiti, e dei partiti organizzati di massa: il grande partito
democratico difficilmente avrebbe potuto assumere questa fisionomia, proprio per la sua specifica cultura, che lo portava a criticare la
partitocrazia e quella burocratizzazione dei partiti, che ne era,
insieme, la causa e l’effetto.
Se ora passiamo a considerare il peso della cultura liberaldemocratica nella concreta elaborazione della Costituzione, possiamo
facilmente riconoscere che essa facilmente risultò egemone. Nella
propria tradizione essa conservava tutte le esperienze costituzionali
dell’età della rivoluzione democratica, nella quale si formarono i
grandi archetipi costituzionali: i cattolici potevano solo arricchirla
con la tematica del personalismo e delle formazioni sociali, i marxisti
avevano un progetto alternativo, che però politicamente non era
realizzabile. Secondo la logica liberal-democratica una Costituzione
non poteva non essere « garantista », e cioè puntare, insieme, e ai
limiti e ai modi legali dell’esercizio del potere in un testo altamente
formalizzato. All’interno di questa logica garantista, che è propria del
costituzionalismo, i liberal-democratici presentarono progetti diversi; ma errerebbe chi volesse ridurre questa diversità a differenti
orientamenti politici: si tratta piuttosto di diverse « metafisiche
costituzionali », che rispondono a esigenze e a preoccupazioni diverse.
Le vere rotture politiche con riflessi costituzionali sono soltanto
due: una sulla destra e l’altra sulla sinistra. Sulla destra, che emarginò
i liberali, c’era la scelta della forma dello Stato, monarchico o
repubblicano; sulla sinistra, che causò la sconfitta della parte più
avanzata del partito d’Azione, il rifiuto della democrazia parlamentare e riformistica per una democrazia basata sull’iniziativa e sul
controllo popolare, sul ruolo attivo delle masse, che nascondeva il
non risolto problema del conflitto fra movimento rivoluzionario e
ordinamento giuridico, fra momento politico e istituzione, le cui
procedure devono appunto disciplinare il suo esplicarsi.
Gli altri contrasti sulla forma di repubblica (parlamentare o
presidenziale), sulla Corte costituzionale e la sua composizione, sul
ruolo della seconda Camera e, infine, sul dibattuto problema del
potere esecutivo, erano contrasti che si davano entro la stessa logica
del costituzionalismo: essi, inoltre, passavano spesso non fra, ma
all’interno dei diversi partiti. Basti pensare che un problema divenuto altamente politico, come quello se la Costituente dovesse
limitarsi a stendere la Costituzione o potesse legiferare in via ordinaria, venne poi risolto secondo l’antica logica del costituzionalismo,
76
che ha sempre sottolineato come la costituzione non sia l’atto di un
governo, ma l’atto di un popolo che crea un governo, perché la
costituzione è ad esso antecedente ed è essa a creare il governo (che
legifera) legittimo. Le spaccature sul progetto Stato nella tradizione
liberal-democratica erano antiche: basti pensare alla visione, nella
stessa Destra storica, fra l’ala statistica, che faceva capo ai fratelli
Spaventa, e chi invece privilegiava, come Minghetti, la società e le
sue autonome forme di articolazione. Il cerchio da quadrare era
difficile: da un lato l’esigenza di uno « Stato minimo » per consentire
un maggiore autogoverno da parte della nazione, dall’altro l’esigenza
di attribuire allo Stato nuovi compiti di intervento nell’economia e
nella società. Era l’antico conflitto fra due metafisiche costituzionali,
quella pluralistica e quella monistica, che si trattava di mediare non
tanto politicamente, ma in una concreta ingegneria costituzionale,
che trovasse gli equilibri rispondenti ai reali bisogni del paese e alle
condizioni del suo sviluppo.
Certo che, riesaminata a distanza, la cultura liberal-democratica
nel suo complesso (ma con diverse autorevoli eccezioni) ha commesso alcuni errori, sia perché troppo dominata dalla polemica
contro lo Stato fascista, sia perché poco attenta ad alcune esperienze
riformistiche straniere, sia per un passivo abbandono al sociale e alla
socialità, senza avere la fantasia di inventare soluzioni nuove. Si
possono fare tre esempi: in primo luogo, la polemica contro lo Stato
accentrato burocratico fascista, in sé giusta, la indeboliva nella
altrettanto giusta difesa dell’autonomia dell’amministrazione e della
sua razionalità super partes dall’ingerenza dei partiti politici, che
cominciavano già a presentare un alto tasso di burocratizzazione;
parimenti il desiderio di superare la pura economia di mercato non
sempre ha fatto intravvedere i pericoli insiti nel capitalismo di Stato
e le pericolose collisioni, che ne derivavano, fra potere politico e
impresa pubblica. In secondo luogo, le Regioni furono tratteggiate
— con scarsa convinzione da parte del Costituente — in base a
vecchie teorie, nate quando l’Italia era un paese essenzialmente
agricolo, proprio quando l’esperimento riformistico del New Deal di
Franklin Delano Roosevelt aveva richiesto il massimo accentramento politico nel governo federale, a scapito delle autonomie dei
singoli Stati. In terzo luogo, si accettò giustamente il nuovo bisogno
di sicurezza dell’individuo, delle nuove libertà — assicurate da un
intervento dello Stato — dalla miseria e dalla paura, ma non sempre
si riuscı̀ a intuire o a far valere politicamente quelle che potevano
essere le alternative a un aumento del potere di uno Stato ammini77
stratore degli individui, per evitare uno « Stato provvidenza » o uno
Stato assistenziale tramite libere associazioni o forme cooperative
della società civile.
Di qui la delusione delle menti più lucide della cultura liberaldemocratica per la Costituzione, quale che veniva delineandosi con
l’apporto dei partiti liberal-democratici; di qui la violenta accusa di
Mario Paggi, secondo la quale la Costituzione era già « vecchia
prima di nascere ». E giustamente temevano che la Costituzione in
fieri ridesse all’Italia il vecchio parlamentarismo, con il suo esecutivo
instabile e debole, mentre tutta la letteratura fra le due guerre sulla
crisi della democrazia aveva sottolineato come i pericoli venissero
non da un esecutivo forte, ma da un esecutivo debole, e aveva
cercato dei rimedi nel « parlamentarismo razionalizzato ». La stabilità
dell’esecutivo era sentita come il presupposto necessario per una
politica di riforme e di rinnovamento della società italiana; e un
governo forte e stabile poteva conciliarsi con vaste autonomie locali
e con forme di autogoverno della società. In questa delusione, in
questo senso di sconfitta delle menti migliori della cultura liberaldemocratica, vi è tutto il senso di un’egemonia di una cultura al
tramonto, che schiacciata politicamente dai grandi partiti di massa, è
riuscita a far passare il vecchio, e non già ad imporre il nuovo,
risolvendo quel problema dell’esecutivo, che è ancora sul tappeto.
78
1982. Norberto Bobbio e Franco Pierandrei N
La nostra Costituzione appartiene ai tipi composti. Mentre le
Costituzioni pure vengono generalmente imposte dopo una rivoluzione vittoriosa (si pensi alle Costituzioni che seguirono la Rivoluzione americana, quella francese e quella russa), la Costituzione
italiana, nata dopo il crollo del fascismo e la sconfitta militare, fu
opera dell’alleanza delle forze politiche antifasciste, che erano concordi nell’abbattimento della dittatura, ma divergevano profondamente intorno al modo di costruire il nuovo Stato. Essa, anziché
essere il suggello di una trasformazione politica e sociale già avvenuta, è il disegno composto di una società futura, ancora da attuare.
Se si considera che i due gruppi politici più forti all’Assemblea
costituente furono quello comunista e socialista da un lato e quello
democristiano dall’altro, e che entrambi agivano in un contesto
politico in cui le forze morali preminenti erano quelle dell’antica
tradizione liberale soffocata dalla dittatura e rinata nell’impulso
liberatore della Resistenza europea, non si tarderà a comprendere
come la nostra Costituzione sia una composizione piuttosto complessa: essa è il risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di
quella cristiano-sociale con quella liberale classica, o, in altre parole,
N Tratto da N. BOBBIO e F. PIERANDREI, Introduzione alla Costituzione.
Testo di educazione civica per le scuole medie, Bari, Laterza, 198223,
pp. 20-24.
79
è alla base una Costituzione liberale che ha ricevuto apporti vari, e
non sempre coerenti, dalla dottrina sociale dei socialisti e dei
cattolici. Sinteticamente, la Costituzione italiana è una Costituzione
ispirata a ideali liberali, integrati da ideali socialisti, corretti da ideali
cristiano-sociali.
Nulla di ciò che costituiva il patrimonio della dottrina classica
liberale e democratica è stato respinto dai nostri costituenti: né il più
ampio accoglimento dei diritti di libertà, anche se è caduta l’espressione, diventata desueta, « diritti naturali », ed è stata sostituita con
un’altra, del resto equivalente, diritti inviolabili dell’uomo (art. 2); né il
principio della separazione e dell’equilibrio dei poteri; né l’attribuzione più estesa dei diritti politici allo scopo di attuare il principio
della sovranità popolare, affermato solennemente nell’art. 1: « La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti
della Costituzione ».
Ma con altrettanta sicurezza si può dire che non poteva essere
più ampio il riconoscimento dei diritti sociali, espressioni di un
secolo di conquiste del movimento operaio, a cominciare dalla
formula iniziale, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro (art. 1, comma 1), per passare all’affermazione del
diritto al lavoro dell’art. 4, e via via a tutte le disposizioni a tutela dei
lavoratori, cui è dedicato il titolo III, e che si ritrovano in forma non
sostazialmente diversa nelle Costituzioni di ispirazione socialista. La
possibilità, prevista dall’art. 43, della nazionalizzazione delle grandi
imprese è la riproduzione, quasi testuale, di un capitolo essenziale di
ogni programma socialista. Infine, la forma più tipica di lotta operaia,
considerata da certe punte estreme del socialismo rivoluzionario
arma decisiva per il rovesciamento della società borghese, lo sciopero, è stata riconosciuta e quindi resa lecita nell’art. 40, in modo
particolarmente impegnativo, non essendosi dato egual riconoscimento al diritto opposto degli imprenditori, la serrata.
Ma si vorrà affermare con questo che l’immagine della società
futura, quale potrebbe essere concepita da chi si figurasse tutto
realizzato il programma economico e sociale della nostra Costituzione, sia quello di una società socialista? Negli articoli relativi
all’assetto economico, che dovrebbe essere raggiunto, non par dubbio che la dottrina sociale cattolica abbia esercitato un influsso
preminente. La meta finale a cui hanno mirato, in ultima analisi, i
nostri costituenti, è stata non quella della socializzazione ma della
ridistribuzione della proprietà in modo da renderla accessibile a tutti (art.
42, comma 2); questa formula riecheggia un’analoga dichiarazione
80
della Rerum novarum, ove si dice che « debbono le leggi... far in
modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari » (paragrafo 35). La città futura, ideata dalla nostra Costituzione, non è né
la società dominata dalle grandi imprese private, né quella dell’economia diretta dallo Stato, ma sembra piuttosto una società di piccoli
proprietari. In attesa della ridistribuzione la proprietà individuale è
garantita, ma solo nella misura in cui adempie alla sua funzione
sociale (art. 42, comma 2): ed anche questa è dottrina tradizionalmente cattolica, come si può vedere nel Codice di Malines, secondo
cui « nei limiti richiesti dalla necessità, l’autorità pubblica ha diritto...
di determinare... l’uso che i proprietari potranno fare o no dei loro
beni » (paragrafo 96).
L’influenza del pensiero sociale cristiano si rivela del resto già
nell’art. 2 dove si dice che la Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle « formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità ». L’espressione « formazioni
sociali » fu inserita per iniziativa di alcuni giovani deputati democristiani, e aveva un chiaro intendimento polemico nei confronti sia
della dottrina tradizionalmente individualistica dei liberali sia delle
teorie statualistiche, di cui l’esempio da non più imitare era stato il
fascismo. Il riferimento alle formazioni sociali accanto ai singoli
individui, dove per « formazioni sociali » si devono intendere tanto
le società naturali come la famiglia quanto le associazioni volontarie
come i sindacati e i partiti, aveva il preciso scopo di affermare che la
società umana è composta non soltanto dagli individui singoli e dallo
Stato ma anche dalle cosidette « società intermedie » che impediscono allo Stato di far valere il suo esclusivo dominio sugli individui
singolarmente considerati. Anche questa tesi era già stata formulata
con la massima chiarezza nel Codice di Malines dove si legge che « la
vita umana si dispiega in un certo numero di società », quali la società
familiare, quella politica, la chiesa, le società professionali e la società
internazionale. Si tratta della concezione che già allora fu chiamata
« pluralistica », per significare che la società umana è composta di
tanti gruppi, ciascuno con la propria funzione specifica, che lo Stato
ha il compito di coordinare e giudicare non soffocandone l’autonomia. Da allora, quando si parta di « pluralismo », e se ne parla spesso,
s’intende parlare di una concezione intermedia fra l’individualismo
esasperato del liberalismo classico e lo statualismo esasperato dei
sistemi totalitari.
Che la Costituzione italiana sia una costituzione composta non
deve stupire: essa rispecchia una società non omogenea, agitata da
81
profondi conflitti sociali, in cui sussistono differenze profonde fra le
diverse classi, fra il Nord e il Sud. E non deve neppure suscitare
ingiustificati allarmi: è proprio della concezione liberale e democratica della vita che l’antagonismo tra i diversi gruppi, tra gl’interessi
contrapposti, tra le diverse ideologie, sia la molla di ogni progresso
civile qualora sia regolato giuridicamente in modo da non degenerare in conflitto violento. È compito di una democrazia, come si è
detto, « pluralistica », di far sı̀ che il progresso di una nazione nasca,
anziché dall’imposizione autoritaria di una dottrina, dal contrasto di
molte.
Poiché in questi anni è stato imposto il tema del « compromesso
storico », da intendersi come la proposta di un’alleanza durevole fra
i maggiori partiti italiani, specie fra i due maggiori, il comunista e il
democristiano, allo scopo di affrontare con forze unite la crisi
economica e politica del paese, non è inopportuno ricordare che un
« compromesso » veramente storico e decisivo per le sorti dell’Italia
c’è già stato, e il risultato ne è stata la Costituzione. Nonostante la
molteplicità e la varietà dei partiti che componevano l’Assemblea
costituente, la Costituzione fu approvata con 453 voti favorevoli e
soltanto 62 contrari. Una maggioranza tanto grande da poter essere
considerata quasi un’unanimità non poté essere raggiunta se non
attraverso una lunga opera di persuasione reciproca di concessioni
vicendevoli, di accordi tattici, tanto più che le parti erano ideologicamente lontanissime l’una dall’altra. Come sia stato possibile un
accordo tra gruppi cosı̀ disparati sarebbe difficile da spiegare se non
ci si rendesse conto che essi avevano in comune un ideale non
soltanto negativo, l’antifascismo, ma anche positivo, la democrazia,
intesa come un insieme di princı̀pi, di regole, d’istituti, che permettono la più ampia partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, e
quindi il più ampio controllo dei poteri dello Stato. Gli ideali
democratici furono il cemento che tenne insieme gli uomini della
classe politica che aveva diretto la guerra di liberazione ed era giunta
pur attraverso profondi contrasti al compromesso costituzionale.
Che la Costituzione fosse stato il risultato di un compromesso fu
riconosciuto dagli stessi protagonisti. Senonché, compromesso è una
parola che può essere intesa positivamente, cioè come risultato di
uno sforzo volto alla comprensione reciproca, o negativamente,
come effetto di un accomodamento in cui ciascuna delle parti cerca
di trarre il massimo profitto. Dal modo con cui il compromesso fu
valutato si può dedurre quale sia stato il contributo che ad esso
diedero le singole forze in campo. I gruppi minoritari ne diedero
82
generalmente un giudizio negativo, i grandi partiti, come il comunista e il democristiano, ne diedero invece un giudizio positivo. [...]
A giudicare da quello che è avvenuto in questi anni, nonostante
gli alti e bassi dell’àttuazione del progetto costituzionale, è più
corretta la valutazione positiva del compromesso che non quella
negativa. La Costituzione ha resistito sinora alla prova dei logoramenti, degli insabbiamenti, dei tentativi di inversione e di sovversione. Se questo compromesso è stato allora il fondamento di
legittimità di un nuovo ordinamento, ebbene questo processo di
legittimazione non è venuto meno. I partiti del cosiddetto arco
costituzionale ottengono ancora oggi circa il 90% dei suffragi. La
Carta costituzionale è ancora oggi il punto di riferimento principale
per dare un giudizio sul bene e sul male delle nostre istituzioni.
83
1983. Franco Franchi N
La Repubblica dei partiti doveva manifestare subito la propria
caducità anche agli occhi di autorevoli padri costituenti. Ma la critica
non era il fondo ed era piuttosto legata alle contingenze della lotta
politica. Già nel 1949 i riformatori sostengono che la costituzione
non funziona e — scrive Baldacci sul Corriere della Sera (ottobre
’49) — « tutti i più responsabili uomini politici » della nuovissima
repubblica, da Casati a Bonomi, a Saragat, parlano della necessità di
« riformare la Costituzione ».
« Non ne parlano però — annota acutamente Costamagna » (La
Rivolta Ideale 27.10.1949) — « né De Gasperi né Togliatti ai quali
la Costituzione di gennaio ha offerto il quadro più acconcio alla
rispettiva manovra totalitaria, condotta sui lati opposti della situazione internazionale ».
La critica di alcuni non riguarda, cioè, il vuoto di principi che
aleggia nella Costituzione né l’assenza di « democrazia » che ne
deriva, dal momento che si è posto come soggetto della democrazia
il partito, inevitabilmente gerarchico ed autoritario, e non l’individuo; riguarda l’efficienza di fronte al rapporto tra i due grandi partiti
di massa ed i partiti minori che cominciano a sentirsi soffocati dai
primi. Ma è un segno che subito, a un anno di vita, la Costituzione
N Tratto da FRANCO FRANCHI, Nuova Repubblica. ll progetto di Costituzione del MSI-DN, Roma, Edizioni Nuove Prospettive, 1983, pp. 29-31.
84
sia apparsa inadeguata alle esigenze della società e valido strumento
di potere per i capi dei partiti di massa sul piano interno e internazionale.
Sul piano interno per affermare il primato del partito sull’individuo, capovolgendo tutti i principi della dottrina democratica che
si pone come rivendicazione dei diritti dell’individuo, tanto che
« Democrazia dei partiti » è negazione della stessa « democrazia »; sul
piano internazionale per dare inizio a quella lunga, micidiale marcia
tendente a recidere le radici storiche del popolo italiano, a demolirne
il carattere e la volontà, a spegnerne ogni slancio per fame a poco a
poco oggetto rassegnato della volontà altrui: colonia americana, con
possibilità di aspirare a diventare colonia sovietica. E su questa
possibile e in certi momenti probabile alternanza, che dimette un
popolo dalla storia, che cancella secoli di civiltà, che invecchia
precocemente i giovani, che curva la schiena dei vecchi, che rende
la gente massa e plebaglia cancellando l’anelito a diventare popolo, si
svolge il trentennio della Costituzione dei partiti, nata dall’antifascismo e dalla resistenza.
Dicono che a base della Costituzione sono posti i « valori » della
Resistenza. Può darsi. Ma i casi sono due. O quei « valori », di cui
tanto si parla lasciandoli nel vago e mai chiamandoli per nome, non
sono stati individuati e quindi non hanno rappresentato una base, o
se base sono, non sono « valori ». È un fatto che la « democrazia »
non è stata realizzata, che la « libertà » è privilegio di pochi a danno
dei molti, che la « giustizia » è potere dei partiti, che il dovere della
solidarietà è l’ipocrisia dominante. È un fatto che la Costituzione
repubblicana abbia favorito il sorgere di ricchezze insolenti, accanto
a spaventose miserie, e che abbia consentito, al di là delle vuote
etichette delle sue norme la sistematica demolizione di ogni valore
dello spirito, da quello della Patria come entità superiore e terra
natia, a quello della famiglia, dalle virtù civiche al bene della cultura;
mentre come funghi velenosi si sono affermati la faziosità, la prepotenza, l’egoismo, la violenza, il disprezzo del diritto altrui, la discriminazione, la corruzione dei pubblici poteri, l’ingiustizia sociale; e
— male fra tutti i mali — la istituzionalizzazione della menzogna
sulla storia e sulla lotta politica, per impedire all’individuo di scoprire
la verità e, su questa base, di attuare libere scelte.
Questi i fondamentali « valori » che sono emersi nel trentennio,
e se qualcosa ha retto si deve alle risorse personali della nostra gente
ed alla solidità di strutture, istituzioni, leggi del passato che hanno
sfidato il tempo, consentendo la sopravvivenza.
85
Oggi i potentati delle partecipazioni statali, le direzioni politiche
delle banche e dei grandi enti pubblici, articolazioni delle correnti e
delle cosche mafiose, sono i « valori », le vere « istituzioni » di questo
« Stato senza bussola », condannato al naufragio.
Si potrà obiettare che almeno un « valore » vive ancora nella
Carta Costituzionale: l’antifascismo.
È vero. Ma l’errore più grave dei costituenti fu di non capire che
si trattava di una negazione, e sulle negazioni non si fondano gli Stati
né prosperano le società.
86
1986. Gianfranco Miglio N
A distanza di quarant’anni, sono diventate evidenti (attraverso i
loro effetti negativi) le scelte criticabili compiute da coloro i quali
stesero la Costituzione repubblicana; ma sono anche diventate chiare
le cause di quelle scelte.
L’epoca della Costituente fu un tempo di grande incertezza.
Abbattuto il terzo Reich, sembrava inevitabile, se non addirittura
imminente, una terza guerra mondiale fra Urss e potenze occidentali; e l’Italia appariva in prima linea fra i paesi candidati a passare,
volenti o nolenti, nel campo del « socialismo reale ». Rendevano
plausibile una tale previsione i dubbi circa l’intenzione degli Stati
Uniti di impegnarsi a contenere l’espansione sovietica, e, soprattutto,
la presenza, nella nuova classe politica italiana, di una robusta
frazione di fede stalinista, convinta di avere il diritto « storico » e i
mezzi materiali, per sostituire alla dittatura fascista un’altra dittatura
di segno economico-sociale opposto.
In queste condizioni, i costituenti non erano affatto convinti di
attendere a un’opera destinata a durare. I « moderati » (che erano
debole maggioranza, e riuscirono a disegnare una Carta vagamente
liberal-democratica) vivevano nell’incubo di una rivoluzione monN GIANFRANCO MIGLIO, Paghiamo gli errori di ieri, in « Panorama », 8
giugno 1986 (ripubblicato in Il nerbo e le briglie del potere. Scritti brevi di critica
politica (1945-1988), Milano, Edizioni de Il Sole 24 ore, 1988, pp. 208-210).
87
diale all’insegna del collettivismo. Le sinistre badavano invece a che,
nella nuova Costituzione, ci fossero i presupposti e gli strumenti per
rovesciarne appunto, al momento opportuno, la ispirazione « occidentale »; questi strumenti erano: una possibile lettura « giacobina »
della parte sui « diritti e doveri dei cittadini » e (come dirò subito)
una soluzione « parlamentare integrale » e dunque « debole » per il
sistema dei poteri.
Ma le fazioni, divise sul piano delle speranze, erano unite su
quello materiale della spartizione dei vantaggi immediati. Tale solidarietà aveva una duplice radice. In primo luogo la classe politica
antifascista perpetuava (forse senza accorgersene) l’aspetto più illiberale di quella fascista: perché (mitizzando lo spirito del CLN, in nome
della « solidarietà nazionale ») rifiutava di dividersi in maggioranza e
minoranza, in partiti di governo e partiti d’opposizione; perfino De
Gasperi (che della necessità di quella separazione e contrapposizione
era ben convinto) quando sbarcò la sinistra dal suo IV governo, non
mancò di esaltare il « cameratismo antifascista » che avrebbe continuato a unirlo ai defenestrati.
La seconda radice era costituita dal desiderio di garantirsi dal
rischio di un lungo digiuno: specialmente i moderati, timorosi di
essere, un giorno più o meno lontano, esclusi dai benefici del potere,
e desiderosi di ammansire intanto una opposizione materialmente in
grado di prevalere con la forza, procurarono di associare perfino
quest’ultima ai profitti del sottogoverno. Cosı̀ si decise di non
decidere, di attendere (che gli « anti-sistema » diventassero per lunga
assuefazione « pro-sistema », o che il destino oscuro delle istituzioni
libere si compisse).
Nascono da qui le due scelte fondamentali (e strettamente
connesse) operate dai costituenti: un governo consociativo espressione mutevole di mutevoli coalizioni parlamentari, e un Parlamento
« corte di registrazione » delle collusioni e delle zuffe fra le segreterie
dei partiti.
Maturata nel breve arco di tempo tra il settembre del 1946 e il
gennaio del 1947, quella non fu una opzione indolore. [...] Le due
« teste forti » della Commissione dei Settantacinque (l’Assemblea
costituente), il laico Piero Calamandrei e il cattolico Costantino
Mortati, avvertirono che si stavano riproducendo le carenze della
democrazia prefascista, e cercarono di contrastare quella scelta « debole ». Ma il nostro destino fu deciso già il 5 settembre 1946, quando
venne approvato l’ordine del giorno presentato dal giurista Tommaso Perassi il quale escludeva le soluzioni del « governo presiden88
ziale » e del « governo parlamentare », munito di dispositivi atti a
tutelare la stabilità del governo e « a evitare le degenerazioni del
parlamentarismo » (dispositivi che poi nessuno riuscı̀ a trovare).
Approvato con 22 voti favorevoli e nessuno contrario, l’ordine
del giorno incontrò sei astenuti, fra questi erano i deputati comunisti, i quali avrebbero preferito un regime addirittura assembleare:
per loro Giorgio Amendola dichiarò di accettare anche l’ipotesi di
numerose crisi di governo successive, perché non si dovevano
« porre delle dighe alle forze popolari avanzanti ».
Una rispettabile corrente di pensiero liberale (di cui è capofila
Giovanni Sartori) sostiene che se si fosse adottato il regime presidenziale (come suggeriva Calamandrei) si sarebbero avuti schieramenti alternativi (secondo quello che si vide in Francia) anziché
maggioranze di centro, e, una volta andata al potere, la sinistra
avrebbe liquidato la Repubblica liberal-democratica. Meglio dunque
governi che non governino, piuttosto che perdere la libertà.
A mio avviso è una tesi errata e tautologica. Errata perché la
sopravvivenza del nostro sistema politico è dipesa soltanto dal fatto
che gli Stati Uniti si decisero a prestargli la loro garanzia (senza
l’ombrello dell’impero americano chissà dove sarebbe finito il modello liberal-democratico). Tautologica perché la maggioranza popolare sufficiente a eleggere un presidente (o un primo ministro)
sarebbe sempre una maggioranza di centro destra o di centro sinistra:
esattamente come quelle su cui poggia il debole governo parlamentare che ci ritroviamo, e che, se non verranno rese compatte da una
forte leadership, potrebbero, esse sı̀, sfociare in una dura alternativa.
Va notato, infatti, che la serie di governi fragili, costretti, dalle
esigenze elettorali dei partiti, a instaurare un modello di Stato
assistenziale, ha paurosamente avvicinato il nostro sistema economico-sociale a quelli del socialismo reale.
Ancora a proposito del famoso ordine del giorno Perassi, è il
caso di rilevare che, insieme con il tipo di governo presidenziale,
esso escluse anche quello direttoriale. Per la verità non sembra che
tale alternativa sia stata mai seriamente discussa: probabilmente i
commissari pensavano che fosse istituto peculiare di una piccola
democrazia, come quella elvetica. E si sbagliavano: perché il regime
direttoriale può essere anche la variante forte (oligarchia) del governo di coalizione: la nostra prassi politica la sta oscuramente
cercando, prima con la formula dell’inclusione nel governo dei
segretari di tutti i partiti della maggioranza e, ora, con il consiglio di
Gabinetto. Fedele come sono al principio per il quale il nuovo nasce
89
sempre dal peggio del vecchio, io comincio a considerare abbastanza
probabile che la degenerazione del partitismo possa approdare (e
risolversi positivamente) in qualche forma di regime direttoriale.
Dal difetto della mancata legittimazione autonoma del titolare
del potere di governo (adottata invece da tutte le democrazie che
funzionano) discendono naturalmente anche altri aspetti criticabili
della nostra attuale Carta. Ma ce n’è uno che — oltre a essere grave
— è di origine autonoma. Alludo alla procedura prescelta per la
revisione della Costituzione: una procedura che andava bene congegnata, visto il carattere interlocutorio e transitorio del sistema
politico adottato.
L’articolo 138 invece (in contrasto con il comma secondo
dell’articolo 1, il quale proclama che « la sovranità appartiene al
popolo ») riserva al Parlamento sbrigativamente l’iniziativa delle
modifiche da portare eventualmente alla Carta. Tutte le Costituzioni
moderne ricongiungono questa facoltà, in qualche modo, al potere
costituente del popolo, mediante referendum; da noi si accede
invece ai referendum soltanto se le modifiche sono state approvate
dalla maggioranza assoluta dei parlamentari e non dai due terzi: il che
significa che se i due terzi dei parlamentari sono d’accordo, possono
legalmente cambiare anche tutta la Costituzione, senza che ai cittadini sia consentito di interloquire.
Anche di questa peculiarità negativa si conosce l’origine.
Quando la redazione della Carta stava per essere ultimata, sorse nei
costituenti il sospetto che la si sarebbe dovuta sottoporre a referendum (come si faceva in Francia). Senonché, alla fine del 1947,
l’opinione pubblica aveva già cominciato a reagire negativamente
alle degenerazioni del partitismo, e specialmente le sinistre temettero
che la consultazione popolare si tramutasse in un nuovo referendum
sul regime: cioè in una prova d’appello contro la Repubblica; perciò
chiesero che la Costituzione venisse adottata sic et simpliciter.
Secondo Piero Calamandrei i democristiani avrebbero acceduto
a questa proposta, piuttosto disinvolta, in cambio dell’inserimento
dell’articolo 7 dei Patti lateranensi. Comunque è evidente che
sottrarre al popolo l’approvazione della Costituzione era possibile
soltanto se gli si sottraeva anche l’iniziativa della modifica. Capita
spesso che, per commettere un sopruso, se ne debba compiere un
altro.
90
1988. Roberto Ruffilli N
Se consideriamo la nostra costituzione, e più in generale le
costituzioni dell’Europa continentale nel secondo dopoguerra, ci
troviamo in presenza di costituzioni che possono essere definite —
e che tali sono state nell’intenzione dei costituenti — come grandi
costituzioni progetto. Se si prendono i primi undici articoli della
nostra costituzione, si può facilmente individuare come in essi si
configura un progetto di ordine e di sviluppo della società nel suo
complesso. È stato osservato che in fondo, con le costituzioni del
primo e del secondo dopoguerra, nell’Europa continentale si passa da
costituzioni che tendono a organizzare il rapporto dei pubblici poteri
fra loro e dei pubblici poteri con i cittadini, a costituzioni che
tendono a organizzare la società nel suo complesso. E questo sulla
base di un’ipotesi precisa, di precisi soggetti, di precisi rapporti fra
questi soggetti, di precise modalità nell’organizzazione dell’attività
dei pubblici poteri e della salvaguardia dei diritti dei cittadini.
Oggi dobbiamo inevitabilmente mettere in luce il fatto che
questo progetto è stato attuato solo in parte, anche perché non è più
N Tratto da ROBERTO RUFFILLI, Costituzione e trasformazione, in « Il
Mulino », XXXVII (1988), pp. 239-246 (ripubblicato in Istituzioni Società
Stato, vol. III: Le trasformazioni della democrazia: dalla Costituente alla progettazione delle riforme istituzionali, a cura di M.S. Piretti, Bologna, Il Mulino,
1991, pp. 879-887).
91
attuabile: e forse ora, più che in presenza di un costituzione progetto,
ci troviamo in presenza (per il nostro paese, ma anche per altri paesi
dell’Europa continentale), di una « costituzione processo ». Questo
comporta il fatto che il disegno complessivo è il risultato della
evoluzione, delle trasformazioni, dei cambiamenti più o meno
incisivi che si svolgono, ma non è l’attuazione di un disegno in
qualche modo fissato prima.
Facciamo un altro caso, ancora più emblematico: il caso della
forma di governo. In fondo, fino alla prima guerra mondiale, i
costituenti dei vari paesi, mano a mano che si sono trovati nella
necessità di scegliere una forma di governo, hanno operato una
scelta abbastanza netta fra una delle tre forme classiche di governo,
quella presidenziale, quella parlamentare e quella direttoriale, o per
meglio dire assembleare. Ebbene ci si può accorgere che nel caso
della nostra costituzione, per limiti del nostro sistema politico (ma
la tendenza è più generale), in realtà stiamo avvicinandoci a forme
di governo nelle quali si combinano aspetti delle diverse parti con
compromessi che fanno sı̀ che ormai si ponga in qualche modo
il problema di fuoriuscire anche a livello di classificazione dai
modelli tradizionali.
Tutto ciò poi si complica se si tiene conto del ruolo che ha,
per il funzionamento effettivo della forma di governo, il modo di
essere dei partiti, il loro numero e il loro rapporto. Da questo
punto di vista c’è un altro dato non meno importante, e cioè che
oggi si registra di fatto un certo processo di costituzionalizzazione,
relativo a realtà che fino alla prima o alla seconda guerra mondiale
non ne erano state toccate: e ciò che è impressionante è che questa
costituzionalizzazione viene ad investire centri di potere politico
vero, quelli che, come dice Max Weber, di solito non si lasciano
condizionare. Pensiamo, sotto questo profilo, alla vicenda dei
partiti. [...]
Se questi sono processi, a mio avviso, di trasformazione in atto,
andrebbero successivamente articolati in modo diverso per i vari
paesi, valutando quanto c’è di irreversibile e quanto invece ci
potrebbe essere di reversibile; per capire comunque la portata di
queste grandi trasformazioni che stanno investendo il costituzionalismo, le norme costituzionali e la dottrina costituzionale, dobbiamo
fare i conti con due ordini di fattori. Il primo riguarda sostanzialmente la grande trasformazione della democrazia e del potere politico cosı̀ come è stato costruito in Occidente nei secoli della
modernità. Da questo punto di vista non dobbiamo dimenticare che,
92
per esempio, il costituzionalismo nasce come limitazione di un
potere che esiste e intanto funziona in quanto eserciti una funzione
di contrappeso ad una realtà di potere solida, strutturata e incisiva. E
quindi si può dire che nei paesi dell’Europa continentale, il costituzionalismo e la costituzione, sicuramente fino al primo dopoguerra, riguardano in realtà l’esigenza della limitazione di un potere
dato, con una serie di compromessi per quanto riguarda la legittimazione complessiva del potere dello Stato e con una serie di
dualismi e di contraddizioni per quanto riguarda il funzionamento.
Ora invece ci troviamo in presenza di un fatto nuovo: ovviamente
il potere politico non è scomparso, ma si è avuta una diffusione, una
dislocazione di esso a diversi livelli; tutto ciò ha comportato la crisi
anche dei meccanismi di controllo del potere stesso, che erano stati
inventati per un potere fortemente concentrato. In fondo il costituzionalismo funzionava nella misura in cui fosse in presenza di un
potere politico e statale notevolmente concentrato. Ora invece
siamo in presenza di una distribuzione del potere, di una sua
capillarizzazione, e in presenza soprattutto di un rapporto sistemico
fra detentori del potere e destinatari dei comandi del potere stesso
(dove per sistemico si deve concepire quanto meno la capacità di un
maggior condizionamento circolare fra gli uni e gli altri). [...]
Ma c’è un altro dato, probabilmente più importante. Oggi si
parla, per le nostre democrazie, di crisi di governabilità, e questo è
un dato che, se ci si pensa bene, incide anche sul modo di essere
stesso del costituzionalismo: perché in realtà noi abbiamo avuto un
costituzionalismo che funzionava in presenza di un potere politico
impegnato in un processo di integrazione della società nello Stato.
Oggi siamo in presenza di un potere politico che non riesce più a
realizzare questo processo di integrazione nell’ambito dello Stato
nazione o nell’ambito dello Stato borghese (o anche nell’ambito di
un eventuale Stato popolare); bisogna fare pertanto i conti con
l’impossibilità di questa integrazione. E allora il problema della
governatività si rivela come il problema di far funzionare una società
complessa attorno al principio di maggioranza, attorno ad un processo che renda possibile la costruzione di maggioranze in grado di
decidere e che poi possano, su questa base, essere sottoposte ad
adeguati controlli. [...]
Infine, c’è da considerare il fatto che bisogna fare i conti con
l’aprirsi — e ciò è comune all’Europa continentale e agli Stati Uniti
— di quella che viene definita una nuova fase costituente. In questo
caso però bisogna avere la consapevolezza che siamo davanti a una
93
fase costituente di tipo particolare, perché non si tratta affatto di una
fase che consente poi di consolidare un nuovo ordinamento una
volta per tutte, come si è verificato ancora nel secondo dopoguerra.
Siamo in presenza di una fase costituente intesa come periodo di
adeguamento continuo del sistema costituzionale, dei suoi diversi
aspetti, a una realtà sociale che è comunque dal canto suo in
profonda trasformazione. Ecco allora la necessità per un paese come
l’Italia, proprio dal punto di vista della costituzione, di riuscire a far
funzionare fino in fondo il meccanismo forse più complesso, forse
troppo complesso, della revisione istituzionale e, in ogni caso, il
meccanismo dell’emendamento continuo. [...]
Se dobbiamo arrivare in qualche modo al processo di emendamento continuo (pur nell’ambito di una serie di garanzie di fondo
della nostra costituzione e in generale della costituzione dei paesi
dell’Occidente democratico), ecco allora la necessità di tener conto
di [alcuni] punti. Il primo è un’esigenza di gradualità nel meccanismo di revisione costituzionale, che tuttavia non può andare disgiunto dall’organicità del disegno complessivo di intervento. Le
riforme non si possono fare, e ciò vale soprattutto per quelle di
revisione costituzionale, a colpi di accetta, perché si rischia di
sostituire ai vecchi squilibri nuove contraddizioni, ma vanno messe
in moto con la dovuta prudenza (seppure con la dovuta decisione),
in ogni caso essendo consapevoli che tutto si tiene, e da oggi nella
costituzione, nel rapporto costituzione-paese, tutto si tiene ancora di
più perché il rapporto, come ho accennato, è sempre sistemico.
Secondo punto: la necessità di valorizzare, anche per la revisione
costituzionale, il principio di maggioranza. Io ritengo che nel nostro
paese abbiamo sottovalutato troppo l’esperienza di paesi vicini dell’Europa continentale, che hanno visto meccanismi di revisione
costituzionale e anche di revisione dello stesso sistema elettorale,
messo in moto dalla maggioranza. Certo, con un confronto approfondito in Parlamento con l’opposizione, lasciando spazio all’opposizione di ricorrere all’ascolto diretto del paese, come prevede la
nostra costituzione in certi casi: ma valorizzando il ruolo della
maggioranza.
94
1989. Giovanni Spadolini N
Celebrare il quarantennale della Costituzione repubblicana nelle
operose e vitali « piccole patrie » della democrazia italiana, nella città
simbolo di una tradizione culturale e di un paesaggio civile come è
Pavia, significa rinnovare quel principio fondamentale che si riassume nella repubblica « una e indivisibile »: proprio la formula
solenne voluta dal costituente quando proiettò il sistema innovativo
delle autonomie locali, cui ha fatto giustamente riferimento il
presidente della Provincia, verso uno Stato capace di diventare —
ricordo la formula di Jemolo — la casa comune di tutti gli italiani.
Quell’unità della Repubblica, cui ha concorso una profonda
pluralità di filoni ideali e politici riemersi nel secondo Risorgimento,
è l’unità suggellata quarant’anni fa dalla nascita della nuova Costituzione: la Costituzione che è riuscita a tradurre in norme giuridiche
quell’ansia di rinnovamento espressa dal paese dopo la sconfitta della
dittatura. E l’orgoglio delle « patrie », diciamolo pure con i termini
cari a Calamandrei, « le piccole patrie », diventa titolo di identità
nazionale quando è espresso da una città come Pavia: la città che
nell’indimenticabile tradizione è stata una delle capitali storiche di
un’Italia che non ancora aveva conquistato l’unità nazionale ma che
N Tratto da GIOVANNI SPADOLINI, La Costituzione italiana quarant’anni
dopo, in AA. VV., La Costituzione italiana quarant’anni dopo, Milano, Giuffrè,
1989, pp. 1-15.
95
si accingeva a diventare quella comunità di lingue e di costumi che
ha preceduto di sette secoli l’unità della patria. [...]
La Repubblica. Il sogno di generazioni di combattenti e di
martiri. La Repubblica: l’autogoverno del popolo. « L’impegno
solenne e definitivo per voi e per i vostri figli — aveva detto nel
maggio ’46 Alcide De Gasperi rivolgendosi ai cittadini nella basilica
di Massenzio — di essere preoccupati della cosa pubblica più di
quanto non foste sin qui. La Repubblica — traduceva nel suo stile
aspramente montanaro De Gasperi — è la piena consapevolezza che
questa cosa pubblica è vostra e solo vostra ».
È nata da un « compromesso » la Costituzione del 48? Torniamo al dibattito condotto quarant’anni fa proprio dai « padri
fondatori » della Repubblica: la parola « compromesso » fu adottata
da Saragat, ma Moro preferı̀ ricorrere al termine « convergenza » —
parola che egli poi inserirà tante volte nella sua vita politica fino a
pagare con la vita stessa le convergenze che il suo genio parlamentare
riusciva a realizzare —, « felice convergenza di posizioni », allora
giovanissimo, nella prima sottocommissione della Costituente dove
lo statista cattolico aveva lavorato al fianco di Togliatti. [...]
L’intero testo costituzionale è il frutto di un’intesa fra i quattro
filoni scaturiti dalla Liberazione: cattolici, comunisti, socialisti e
laico-democratici hanno contribuito, con uno sforzo congiunto, al
nuovo ordinamento costituzionale. Da Dossetti a Togliatti, da
Nenni a La Malfa, da Ruini a Einaudi e a Calamandrei, il pluralismo
politico espresso dalle elezioni del 2 giugno ’46 segna profondamente i lavori e il dibattito della Costituente, lungo una linea
direttrice che rende, quarant’anni dopo, la costituzione repubblicana
patrimonio di tutti ma senza diritto di primogenitura da parte di
nessuno.
Lo Statuto albertino servı̀ abbastanza poco da traccia per la
Costituzione. Contò poco per i costituenti, nel senso che la Repubblica rappresentò proprio un salto di qualità rispetto allo Stato
monarchico e costituzionale. Attuò cioè l’idea — che solo Mazzini
nel ’49 aveva indicato da Roma — di fare scaturire il momento della
Costituzione con il momento della Costituente: Assemblea popolare
eletta direttamente dal popolo. Un’idea poi rimasta estranea a tutta la
storia costituzionale dell’Italia monarchica.
Ecco: la Costituzione repubblicana si ricollegava idealmente alla
sovranità popolare sempre rivendicata dalle minoranze di democrazia risorgimentale nella battaglia per l’unità: l’antico sogno di Mazzini — che giudicò il 20 settembre un giorno infausto e mise l’anima
96
a bruno di fronte alla conquista monarchica di Roma capitale non
accompagnata da un moto di costituente popolare — si realizzò solo
quando le compromissioni della monarchia col fascismo avevano
reso pressoché ineluttabile la svolta repubblicana della nuova democrazia italiana, la svolta suggellata dal voto del 2 giugno 1946.
E, per la prima volta, l’ordinamento costituzionale è stato
chiamato, con la Carta del ’48, a garantire i diritti sociali insieme alle
libertà civili e politiche. « I diritti sociali — aveva scritto Piero
Calamandrei nella prefazione ai Diritti di libertà di Francesco Ruffini
— costituiscono la premessa indispensabile per assicurare a tutti i
cittadini il godimento effettivo delle libertà politiche ». Era il momento in cui la scuola democratica integrava e completava la scuola
liberale anche nella dottrina costituzionale.
Ecco perché quella del ’48 è definita una Costituzione « lunga »
in contrapposizione a quelle « brevi » che si erano limitate ad
elencare i diritti e doveri dei cittadini. La Carta repubblicana dà
rilievo ad affermazioni di principio e agli impegni programmatici
volti alla trasformazione e alla riforma della società, nel senso di
garantire quelle « libertà di fatto » (dall’equa retribuzione del lavoro,
all’istruzione, all’assistenza) senza le quali l’uomo non è veramente
libero.
Cosı̀ i 139 articoli della nostra Carta delineano una democrazia
sociale che attribuisce al lavoro un alto rilievo costituzionale nell’unità della Repubblica fondata sul lavoro; e gli stessi valori di libertà
e di giustizia sociale sono realizzabili attraverso una azione di riforma
illuminata dai principi costituzionali.
Ma sono obiettivi che vanno sempre conquistati e riconquistati
soprattutto nelle società complesse del nostro tempo: di qui l’eterno
distacco fra le aspirazioni ideali e le concrete possibilità di realizzazione; un distacco che può essere colmato con quella concretezza e
quel pragmatismo — uso una parola che fu cara a Ugo La Malfa —
che non consentono di sperare nelle « trattorie dell’avvenire » secondo il monito di Mario Pannunzio. Perché le facili utopie vecchie
e nuove sono sempre fuorvianti. [...]
Tuttavia non c’è nessuna « seconda Repubblica » all’orizzonte.
Non siamo chiamati ad abiurare o cancellare le scelte di quaranta
anni fa: siamo piuttosto chiamati a superare un malessere che deriva
da errori, insufficienze e lacune della storia vissuta in questi decenni.
Il malessere istituzionale è stato alimentato proprio da una
dicotomia di fatto fra Costituzione scritta e Costituzione applicata,
fra Costituzione formale e Costituzione pratica: su questa lacera97
zione è cresciuta la pianta della partitocrazia per cui il partito
politico, da anello di congiunzione fra le istituzioni rappresentative
e la volontà popolare secondo la concezione dei costituenti, ha
sviluppato forme di occupazione del potere che qualcuno ha chiamato « neofeudali ».
Ecco dove la Costituzione della Repubblica si è allontanata in
più di un punto dal tracciato originario descritto dalla Carta del 48.
Le degenerazioni della partitocrazia si sono riflesse su un tessuto
giuridico e morale che nacque dal concorso delle grandi forze
politiche nella lotta al fascismo. E ciò spiega perché l’instabilità che
oggi viviamo sul piano politico sia figlia anche di una deviazione
dagli ideali di allora.
Proprio sul piano del risanamento istituzionale c’è la possibilità
di bloccare il crescente distacco fra la gente e quello che il povero
Pier Paolo Pasolini chiamava il « Palazzo »: il potere politico, sempre
più lontano dalle aspirazioni dei cittadini.
Contro ogni deviazione, contro ogni inerzia bisogna ascoltare
più che mai quella che Calamandrei chiamava la viva vox Constitutionis. Perché i programmi tecnici da soli non bastano senza un
impulso ideale che li faccia vivere, che dia ad essi il serio impegno del
dovere morale: questo è il segreto del risanamento istituzionale.
Avere nel cuore il fuoco della speranza, il calore della solidarietà,
l’impulso religioso di un dovere da compiere. In una parola, ritornare a quell’impegno comune di lavorare insieme che fu alla Costituente il programma dei « padri fondatori », in linea con la promessa
di fare insieme un lungo tratto di strada verso l’avvenire.
98
1994. Giuseppe Dossetti N
Mi domando: donde è nata la Costituzione italiana entrata in
vigore il 1o gennaio 1948? Quale è la sua radice profonda?
Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato
quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da
risentimenti faziosi volti al passato. Altri pensano che essa nasca da
una ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze, che
avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo. Altri ancora
— come non pochi dei suoi attuali sostenitori — si richiamano alla
resistenza, con cui l’Italia può avere ritrovato il suo onore e in certo
modo si è omologata a una certa cultura internazionale.
E cosı̀ si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle
opinioni o sbagliate o insufficienti. In realtà la Costituzione italiana
è nata ed è stata ispirata — come e più di altre pochissime Costituzioni — da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda
guerra mondiale.
Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive
e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o
N Tratto da don GIUSEPPE DOSSETI, I valori della Costituzione (relazione
tenuta a Montenegro il 16 settembre 1994), in AA. VV., La Costituzione
italiana, Il Manifesto, s.d., pp. 12-21.
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anche solo che nasca oggi, può o potrà attenuarne le dimensioni,
qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti. [...]
E di diritto e di fatto questo evento mondiale fu ben presente sin
dagli inizi ai lavori precostituenti e costituenti. I lavori preparatori
giudicati dal Ministero della Costituente (ministro Nenni) non
potevano non risentire di questa atmosfera globale; in particolare
nella cosiddetta Commissione Forti sulla Riorganizzazione dello Stato,
insediata il 21 novembre 1945, cioè pochissimi mesi dalla fine della
guerra e dal suo ultimo episodio, le bombe atomiche di Hiroshima
e Nagasaki. I lavori della Commissione Forti non rimasero chiusi e
sigillati nel Ministero della Costituente, ma ne fu dato regolarmente
conto in un apposito bollettino di informazione, cosa che si augurerebbe ancora oggi per la cosiddetta Commissione Speroni.
Perciò il clima della Commissione Forti, almeno nelle sue idee
essenziali, non poteva non trasmettersi all’Assemblea Costituente
eletta a un semestre di distanza (il 2 giugno 1946) che, con il
contemporaneo referendum istituzionale, metteva fine alla monarchia
e dava inizio alla repubblica.
Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei Costituenti
non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra
testé finita. Non poteva, anche che lo avesse cercato di proposito in
ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti
radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei
costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi
del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità
in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova
solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra.
Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei
contrasti politici tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore
orgoglioso determinato dalla coscienza resistenziale non potevano
non inquadrarsi, in un certo modo, in più vasti orizzonti, al di là di
quello puramente paesano e non poteva non inserirsi anche in una
nuova realtà storica globale a scala mondiale.
Insomma, voglio dire che nel 1946, certi eventi di proprio
immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per
non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e
le esplicitazioni, anche quelle cruenti, delle ideologie contrapposte e
per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là
di ogni interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo. Perciò la Costituzione italiana del 1948 si può ben
100
dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse
vicende italiane del fascismo e del postfascismo: più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno
spirito universale e in certo modo transtemporale.
È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso —
nonostante i dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli
antagonismi che dividevano allora il paese — portò a una votazione
finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei
componenti dell’Assemblea costituente.
Non solo emblematicamente ma effettivamente la triplice firma
apposta alla sua promulgazione il 27 dicembre 1947 sta a significare in
modo causativo la coscienza unitaria dalla quale nasce: la firma di
Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione
liberale; la firma di Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e fondatore, con Gramsci e Togliatti, del partito comunista
italiano; e la firma di Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio e
già primo successore di Sturzo alla segretaria del partito popolare. [...]
Ed ora possiamo passare in rassegna alcuni principi fondanti della
nostra Carta, che sono espressione del grande vento in cui essa si
radica e che sono tuttora adeguati ai bisogni e ai caratteri della nostra
società di oggi e a quelli che si intravedono per il futuro.
1) Primo principio: quello dell’unità e indivisibilità del popolo
italiano, e per conseguenza della sua espressione statuale, cioè della
Repubblica italiana (art. 1 e 5). Nel momento costituente, non erano
ignote spinte tendenzialmente secessionistiche: non solo di qualche
minoranza etnica al confine settentrionale od orientale, ma anche di
una grande regione dell’estremo sud.
L’indipendentismo siciliano aveva anzi una sua rappresentanza
all’assemblea costituente.
Perciò fu quella un’occasione per prendere coscienza approfondita delle cause storiche, remote e recenti, e delle motivazioni in
atto, sul piano sociale e politico, di queste tendenze secessioniste. E
fu anzi l’occasione di incominciare, per quel che vi poteva essere di
giusto, a dare loro soddisfazione, provvedendo con gli statuti regionali speciali, che ne soddisfacevano le esigenze più vere, ma a un
tempo ribadivano con ben meditata e pacata fermezza e con rinnovate motivazioni l’unità e indivisibilità di tutto il popolo italiano.
Di fatto il nostro popolo era uscito dalla seconda guerra mondiale, dall’occupazione straniera, dalla prolungata divisione in due
tronconi e dalla resistenza, era uscito, dico, cementato — al di là di
101
tutti i problemi e gli squilibri vecchi e nuovi — e più consapevole
della sua fondamentale coesione nazionale, etnica, culturale e sociopolitica.
A questa fondamentale unità, nelle intenzioni dei Costituenti e
nel dettato della Costituzione, non si oppone — anzi si potrebbe dire
che la convalida e la rende più piena e più ricca — il riconoscimento
e ancora più il promuovimento delle autonomie locali (art. 5 e 114
ss).
(Anche se poi occorre soggiungere subito che questa parte della
Costituzione ha trovato di fatto lenta, faticosa e ancora incompleta
attuazione da parte del nostro legislatore). Ma insieme occorre
riconfermare in questa sede quanto ha scritto Giorgio Napolitano su
La Repubblica del 13 maggio 1994, e cioè che il discorso del
federalismo va collocato all’interno del principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica: questo è infatti uno dei principi costituzionali che non solo non si debbono, da parte delle sinistre, ma non
si possono da nessuna parte mettere in gioco.
2) Il principio personalistico: garantito per tutti i cittadini. In
ognuno la Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana, e quindi della pari dignità sociale ed
eguaglianza davanti alla legge, senza nessuna distinzione di sesso, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di posizioni personali e
sociali (art. 3).
Da questo principio supremo la Costituzione deriva, prima di
tutto, il diritto al lavoro (e perciò appunto la Repubblica è detta
fondata sul lavoro: art. 1), e tutti gli altri diritti civili: libertà
personale, inviolabilità del domicilio, libertà e segretezza della corrispondenza, libertà di circolazione e di soggiorno, libertà di riunione, di associazione, di professione religiosa, di propaganda e di
culto, di pensiero, di stampa (tit. I).
Al medesimo principio si riconnettono anche tutti i rapporti
sociali e le relative libertà (tit. II: e in particolare la libertà sindacale
e la libertà di sciopero).
Tale garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici,
politici, è concepita dalla nostra legge fondamentale non come un
riconoscimento statico, ma come una realtà dinamica, in via di
sviluppo, cioè i diritti fondamentali devono essere assicurati dalla
Repubblica:
— in modo negativo, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico-sociale che possono ridurre di fatto la libertà e l’eguaglianza;
— in modo positivo, favorendo il pieno sviluppo della persona
102
umana e l’effettiva partecipazione di tutti ai vari livelli della vita del
paese (art. 3 e 4).
Di più si deve aggiungere che per non pochi di queste libertà e
diritti, secondo l’opinione oggi del tutto prevalente tra i costituzionalisti (meno una piccola minoranza) non si può dare rivedibilità
costituzionale restrittiva, neppure nella forma prescritta dall’art. 138.
Può essere messa in dubbio solo la delimitazione delle disposizioni sottratte alla rivedibilità costituzionale, ma la immodificabilità
assoluta è stata riaffermata da varie sentenze della Corte. Prima di
tutto affermando, a proposito dell’art. 7 (che introduce il riconoscimento dei Patti lateranensi), che questi patti non potessero comunque violare le libertà fondamentali e i principi supremi della Costituzione. Poi, a proposito dell’art. 11, riaffermando lo stesso concetto
a proposito dell’ordinamento comunitario europeo.
Infine, nella sentenza n. 1146/1988 la Corte ha affermato che
« la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non
possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale,
neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana (art. 139), quanto i principi che,
pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono
all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione. [...]
Non si può pertanto negare che questa corte sia competente a
giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e
delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei principi
supremi dell’ordinamento costituzionale ».
E un’altra sentenza, la n. 366/1991, ha affermato: « In base
all’art. 2 della Costituzione, il diritto ad una comunicazione libera e
segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale ».
3) Terzo principio: è la consistenza costituzionale attribuita a
corpi intermedi — fra la persona e lo Stato — territoriali e non
territoriali: quali la famiglia, il comune, le province, la regione, le
confessioni religiose, la scuola di vario ordine e grado, le università
e le accademie, i sindacati, gli ordini professionali, i partiti, le libere
associazioni di opinioni, di assistenza, di volontariato etc. etc.
Anzitutto va fatta qualche osservazione a proposito dei corpi
intermedi territoriali: i comuni, le province, le regioni (art. 5 e 114
ss). Ho già accennato che in materia si deve constatare una grave
103
carenza nella volontà politica, nei decenni passati, di attuare la
Costituzione in tutte le sue virtualità, sicché giustamente, da varie
parti, si profilano proposte per modificare la costituzione, nel senso
del riconoscimento di una larga e approfondita autonomia soprattutto delle regioni: in particolare e con le proposte avanzate dalla
Lega Nord e con le proposte della sinistra, oggi formulate nel solco
della Commissione bicamerale della scorsa legislatura.
Nelle proposte della Lega soprattutto di pochissime macroregioni, a parte la non dissimulabile tendenza secessionista, si deve
rilevare l’irriducibile contraddittorietà costituzionale al principio
dell’unità della Repubblica. Inoltre potrebbero portare — come già
ha rilevato Stefano Rodotà — a una discriminazione dei diritti
fondamentali dei cittadini, secondo l’area in cui si trovano a vivere:
specie il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione.
Ma ancora più sono contraddittorie allo stesso principio da cui
pretendono di muovere, cioè di esaltare le autonomie locali, perché
porterebbero ad affievolire o ad alterare l’autonomia già raggiunta
sinora da corpi intermedi (soprattutto le singole regioni già bene
individuate, differenziate e funzionanti che verrebbero — comunque — da un lato incorporate, e dall’altro gravemente pregiudicate
nelle attuali loro relazioni paritarie con altre regioni incluse in una
diversa macro-regione).
Al progetto della bicamerale si può per lo meno obiettare che
spingendo — come è detto nella relazione che l’accompagna — « il
regionalismo ai limiti del federalismo », non pare che abbia tenuto
conto di una norma che è nella Costituzione tedesca (che oggi molti
citano forse senza averla letta), cioè l’art. 72 che attribuisce allo Stato
federale il compito di mantenere l’unità politica e economica del
paese e l’eguaglianza delle condizioni di vita dei cittadini « prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo Land ».
Questa o altra analoga norma non è detta esplicitamente nel
progetto della bicamerale per fornirne il senso profondo e la chiave
di interpretazione generale. [...]
4) Quarto principio: che potrebbe essere detto il principio —
non soltanto della separazione dei tre poteri secondo la dottrina
classica dopo Montesquieu (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma
piuttosto il principio della diffusione del potere fra una pluralità di
soggetti distinti, e dei reciproci contrappesi, e perciò di un più
garantito equilibrio complessivo. Come recentemente ha confermato Sabino Cassese di fronte al pericolo di una dittatura elettiva
(quale quella che potrebbe immaginarsi da certi sprovveduti membri
104
della maggioranza) o per contro di un certo tipo di rafforzamento
incontrollato dell’esecutivo, cioè del governo, il potere nelle democrazie contemporanee, e cosı̀ anche nella nostra Costituzione, tende
a una razionalizzazione e a distribuirsi in una pluralità di soggetti
veramente di estrazione diversa e tra loro indipendenti.
Si hanno cosı̀:
— poteri elettivi: il Parlamento, di una o due Camere, eletto in
modo diverso, cui compete la funzione legislativa vera e propria;
— ancora poteri elettivi concorrenti con i precedenti, ma in
modo differenziato, per estrazione e per competenze, cioè le assemblee regionali, che si devono integrare con l’apporto delle province
e dei comuni;
— i poteri non elettivi, ma designati solo in base alla loro
competenza tecnica, accertata con pubblico concorso, assunti e
soggetti a un ordine autonomo da ogni altro potere, per la sola
funzione giudiziaria, ed espressi e coordinati dal Consiglio Superiore
della Magistratura (di estrazione mista);
— altri poteri, per aree sottratte, nel loro specifico più proprio,
all’indirizzo del governo, e costituzionalmente garantite nella loro
indipendenza: per esempio la scuola (art. 33);
— infine la stessa gestione amministrativa (non nel suo indirizzo e nel suo controllo) che è compito proprio della burocrazia;
— da ultimo vi è il potere di garantire la Costituzione, affidato
a un organo, la Corte Costituzionale, che si potrebbe dire un vero
e proprio contropotere: che può perciò annullare persino decisioni
del Parlamento (proveniente esso pure da un’investitura mista: il
Capo dello Stato, la Magistratura e il Parlamento).
Orbene, tale razionalizzazione del potere, cioè questa distribuzione del potere fra soggetti adeguatamente distinti e contrappesati,
è forse uno dei pregi più raffinati e delicati della Costituzione
italiana, ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole
della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile. È
anche un condensato perfettamente sintetico di tutta la nostra
vicenda storica e dell’evoluzione istituzionale dell’ultimo secolo in
Europa: potrà esigere qualche perfezionamento (al massimo una
figura più stabile ed effettivamente coordinatrice del Primo Ministro) ma assolutamente non può essere giocata sull’onda di avventati
presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto livello costituzionale in una regressiva catastrofe. Come pure non può essere messa
in pericolo da qualunque riforma che intacchi la totale indipendenza
e unità (comprese le Procure), dell’ordine giudiziario.
105
Fra l’altro può tornare a proposito una smentita energica di un
bugiardo e incomponibile abbinamento — oggi di moda nelle
fantasie riformatrici di certe parti politiche e nei discorsi più superficiali dei media — cioè l’abbinamento del federalismo-presidenzialismo. Come se fosse avente un minimo di razionalità. Non si
avverte che o si dà un federalismo reale e forte, e allora non può
esservi neppure l’ombra di un presidenzialismo efficiente, ma solo
una specie di vago direttorio collegiale delle cosiddette macroregioni; o si dà presidenzialismo effettivo, e allora non si dà che una
facciata di federalismo, destinata, prima o poi, a mostrare la sua
insostenibilità reale cioè a sparire e ad essere inghiottita dal potere
accentratore dell’unico Presidente eletto dal popolo.
106
V.
Qual è il senso di una Costituzione?
1945. Giuseppe Capograssi N
Benché non interessi quasi nessuno, pure si parla di costituzione.
Quando si parla di costituzione, c’è forte ed antica e del resto
naturale la tentazione di prendere come modello questa o quella
costituzione scritta, del passato o del presente. È tentazione ed uso
vecchio, come tutti sanno. Le costituzioni dell’ ’800 sono state più o
meno copiate da pochi modelli, pretesi originali, con qualche
variante. Le costituzioni dell’ultimo dopoguerra hanno cercato,
copiandosi reciprocamente, di darsi carico e di codificare le esigenze
passionali e letterarie più che effettive di quel momento: ce ne è una
che ha riassunto con scientifico pedantismo esigenze e mode vecchie
e nuove ed ha racchiuso il tutto in un ordine sistematico che sembra
l’indice di un buon manuale universitario. E non si può negare che
quest’ultima è riuscita ad essere un modello: un modello del come
una costituzione non deve essere. Cioè una costituzione non deve
essere un’antologia di tutti i più illustri luoghi comuni che la
letteratura sull’argomento presenta. Una costituzione è qualche cosa
di essenzialmente pratico, e deve esprimere una persuasione comune. Che cosa sia lo dice in una forma negativa ma insuperabile
l’art. 16 della costituzione del 1791: Toute societé dans laquelle la
N GIUSEPPE CAPOGRASSI, Dubbi sulla costituzione, in « Meridiano »,
1945, n. 9, pp. 1-2 (ripubblicato in Opere, Milano, Giuffrè, 1959, vol. VI,
pp. 105-108).
109
garentie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs
déterminée n’a point de constitution ». Vale a dire una costituzione
è un sistema di effettiva garanzia perché sia assicurato un libero e
pieno svolgimento della vita civile e politica di un paese.
I grandi movimenti dell’ ’800, diretti a ottenere ordinamenti
costituzionali, non si proponevano che questo fine di libertà preciso
determinato concreto. Quasi per intuizione, quasi vedendo che qui
era effettivamente il pericolo e quindi il problema dello Stato
moderno, volevano che fosse sicura la vita dell’individuo e della
società civile da instaurazioni violente, di dittature, di assolutismi di
qualsivoglia genere, che pretendessero piegare con la forza la libera
spontaneità della vita associata a disegni e sistemi particolari e
artificiali.
C’era qualche cosa di veramente grande e nobile in questa idea
delle costituzioni: era il pensiero, che si prendeva l’alta missione di
ordinare la società proprio nel punto e nel momento in cui essa si
presenta più disordinata e meno ordinabile, cioè nel momento della
formazione dell’autorità politica: il pensiero si faceva ardito di dare
una netta legge di ragione alla lotta politica, perché aveva la fede più
sicura nella profonda razionalità della vita associata e nella libertà che
sola può assicurarne il libero svolgimento senza arbitrarie mutilazioni, riduzioni e coazioni. Perciò fede nel pensiero, fede nella
ragione delle forze politiche, fede nella libertà. Erano queste le radici
spirituali dei movimenti costituzionali: di qui nacque il coraggio, le
capacità di sacrificio di quegli uomini. E questa fede e questa idea
costituivano la comune persuasione più o meno di tutta l’Europa:
perciò potè verificarsi il singolarissimo fenomeno non tanto della
copiatura reciproca delle varie costituzioni, ma quanto della sorprendente vitalità delle costituzioni cosı̀ copiate.
Come si presenta ora il problema? C’è questa fede nel pensiero,
nella ragione, nella libertà? C’è questa comune esigenza di assicurare
che la lotta politica si svolga in termini di libertà, di giustizia, di
ordine, cioè di umanità? C’è questa comune volontà che tutta la vita
politica e civile sia affrancata dal peccato originale della violenza e
della frode? C’è questo senso di rispetto della vita in tutte le sue
forme concrete, del libero muoversi e realizzarsi della varia, incredibilmente varia, natura umana? Ahimè! sono cose che basta formularle per vederne la flagrante inattualità! Non solo questo nostro
povero paese, ma tutte le altre popolazioni che vivono nei territori,
dove nei tempi passati si svolse la storia e la vita dell’Europa, non
hanno, sembra, più né forza né testa per pensare a queste cose, anzi
110
semplicemente per pensare. In sostanza il movimento delle costituzioni non è altra cosa che una affermazione di pensiero, un immenso
atto di affermazione storica del pensiero: la vita dell’Europa era
arrivata a tal punto di civiltà da alzare ad atto consapevole di
pensiero, a concreta vita di riflessione morale, la stessa vita politica.
Era un summum di forza, di civiltà. Che cosa sono ora queste
popolazioni che si aggirano nelle sedi devastate già illustri dai popoli
che davano vita a questi grandiosi movimenti di pensiero? Si può
dire con certezza che tra le tante cose che loro mancano, quella che
più manca è la capacità di pensare, di avere una vita comune di
pensiero. Nella catastrofe queste povere popolazioni, eredi di tanta
storia, hanno smarrito tutte le idee che facevano la caratteristica di
quei grandi popoli europei. A poco a poco tendono a rassomigliare,
per un processo di mimetismo che diventa sempre più imperativo, a
popolazioni primitive e selvagge, che non hanno ancora scoperta
l’arte di portare le umane belve a essere pietose di se stesse e di altrui,
per ripetere la parola cosı̀ italiana di Vico e di Foscolo; che hanno
perduto o non ancora arrivano ad avere il senso del carattere
spirituale e sacro della vita associata; che prese nella ricerca delle cose
elementari della vita sono agitate da un desiderio cupo e indeterminato di una radicale rinnovazione di tutto il loro mondo, e non
hanno la forza di alzare questo desiderio, che è la sola nota viva e
nobile della loro coscienza, alla luce del pensiero; e che insomma
sprofondano sempre più nelle passioni negli odi nelle ignoranze delle
vere condizioni di una vita umana nelle cecità che hanno contribuito
alla catastrofe.
In queste condizioni dove mettere le basi, dove trovare quel
tanto di fermo e di solido che è necessario per fondare una costituzione, cioè il centro il punto fermo attorno a cui si deve raccogliere,
e trovare unità e sostegno, la infinita mobilità della vita storica di un
popolo? Veramente non si riesce a vedere.
Una costituzione riguarda uno Stato, ma hanno uno Stato
queste popolazioni che vivono nei territori dove si svolse la storia di
Europa? È uno Stato quell’insieme di uffici e di persone che esse
presentano, che non hanno autorità, non hanno organi esecutivi,
non hanno forza, non hanno tradizioni e si trovano sempre più
sommerse non in una anarchia, che insomma implica sempre una
specie di forza selvaggia e spontanea di una società che tenta di
organizzarsi da sé, ma in una mortale impotenza di arrivare a un
minimo di riflessione, di pensiero, di persuasione comune? Che
111
costituzione dare a ciò che non presenta nessuna solidità per essere
costituito? Come costituire la sabbia?
Riflesso di tutto questo è il fatto che nessuno veramente si
interessa a questo problema della costituzione: cura di pochi circoli
e di pochi individui, quanto più eletti tanto più fuori dell’attualità.
Nessuno ci pensa e una costituzione per essere tale deve essere
proprio l’effetto e l’atto di un comune potente vissuto pensiero!
Quelli che ci pensano, forse per dissimularsi l’ampiezza epica del
problema e il contenuto di umanità e di civiltà che esso comporta,
quasi per illudersi, hanno parlato di « regole del giuoco ». Pare che la
pittoresca immagine abbia fatto fortuna. Meritamente, poiché
l’unico modo che c’è di interessare il nostro tempo ai problemi seri
è di fare intravvedere e intendere, magari con motti spiritosi, che
sono frivoli. Meritamente, anche per il terribile giudizio storico che
quel motto contiene: giuoco, la politica, pura e infantile, ora,
agitazione di superficie; e quelle che erano le garanzie e i principi
della libertà e della giustizia della vita politica, regole del tressette che
rendono possibile questo giuoco. Parola quasi storica nella sua
inconsapevole e profonda verità!
112
Introduzione
di Lorenzo Ornaghi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
XIII
I. La nascita (1946-1948)
1.
2.
3.
4.
5.
6.
L. STURZO (1947) . .
R. LUCIFERO (1947) .
P. TOGLIATTI (1947) .
B. CROCE (1947) . . .
A. MORO (1947) . . .
A. CAJUMI (1947). . .
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11
16
21
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79
84
87
91
95
99
G. CAPOGRASSI (1945) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
109
II. Il primo decennio (1948-1958)
7. P. CALAMANDREI (1952) .
8. G. MARANINI (1953). . .
9. M. RUINI (1958) . . . . .
10. U. LA MALFA (1958) . .
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III. Il ventennio successivo (1958-1978)
11.
12.
13.
14.
A.C. JEMOLO (1965) .
N. IOTTI (1966) . . . .
C. MORTATI (1969) .
V. CRISAFULLI (1978).
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IV. La lunga agonia della Prima Repubblica
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
N. MATTEUCCI (1979) . . . . . . . .
N. BOBBIO e F. PIERANDREI (1982)
F. FRANCHI (1983) . . . . . . . . . .
G. MIGLIO (1986). . . . . . . . . . .
R. RUFFILLI (1988) . . . . . . . . . .
G. SPADOLINI (1989) . . . . . . . . .
G. DOSSETTI (1994). . . . . . . . . .
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V. Qual è il senso di una Costituzione?
22.
115
Scarica

La Costituzione della Repubblica