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LA CAPITANATA
Rivista quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
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“LA MAGNA CAPITANA”
BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA
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Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi
simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da
Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro
senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca
Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato.
Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000.
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LA CAPITANATA
RASSEGNA
DI VITA E DI STUDI
DELLA PROVINCIA
DI FOGGIA
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Ottobre 2005
4
Indice
In ricordo di Matteo Salvatore
p.
11
Il mio amico Matteo
di Angelo Cavallo
Frontiere della Capitanata
21
L’itinerario poetico di Donato Coco
di Antonio Vigilante
Presente come cultura
31
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
di Francesco Giuliani
1. Il peso della spada
2. Il pensiero meridiano
3. L’Italia debole ma forte
4. Il difficile equilibrio
5. Leopardi: dai massimi ai minimi sistemi
Saggi
59
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
di Pasquale e Tiziana di Cicco
1. Premessa
2. Nomina, composizione, competenza
3. Necessità e speranze nei verbali consiliari
4. Consigli nell’epoca ferdinandea
5. I voti dei Consigli
6. Appendice
101
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore:
memoria di un amico a trent’anni dalla morte
di Giuseppe De Matteis
5
113
Il Ms. Casin. 218 dell’Abbazia di Montecassino.
Studio codicologico, paleografico, testuale
di Tommaso Palermo
1. Analisi codicologica del manoscritto
2. Analisi paleografica del manoscritto
3. Analisi sillabica e ortografica
4. Analisi della punteggiatura
131
Mattinata e la guerra di Spagna
di Luigi Gatta
1. La guerra di Spagna (1936-1939)
2. Michele Rignanese (1897-1937)
3. Michele Rignanese: “Morire per la libertà del mondo”
4. Matteo Rignanese: alla ricerca dello zio antifranchista
143
Dalla poetica della “terra” alla traduzione:
Umberto Fraccacreta e Marthe Yvonne Lenoir
di Antonella Iacobbe
157
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
di Rosanna Curci
1. Introduzione
2. Il diario di viaggio
169
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
tra palazzi e domus imperiali di Capitanata
di Felice Clima
1. Il Castellum
2. La caccia al cinghiale
3. La corte
4. Il borgo
5. Gli altri ospiti
6. Madonna Angiola
7. Le inchieste a Siena di Ser Guidotto; a Firenze del Giudice Pellegrino
8. Le aree d’attorno alla Domus
9. La sentenza
10. Appendice
187
Il sistema analogico del primo tempo luziano
di Luigi Paglia
6
Attività della Biblioteca
203
Il trionfo della castità di Santo Alessio.
Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
di Grazia Carbonella
1. Introduzione
2. Il libretto
3. Arie
4. Concertati
5. Conclusioni
Recensioni
217
Cristanziano Serricchio: Siponto-Manfredonia
di Pasquale di Cicco
219
Studi in onore di Michele Dell’Aquila
di Luigi Paglia
Gli autori
7
8
In ricordo di Matteo Salvatore
9
10
Angelo Cavallo
Il mio amico Matteo
di Angelo Cavallo
L’Apricena di Matteo Salvatore nel ventennio fascista è il sole alto della
controra, case bianche e sciami di mosche, tante. Strade polverose, uomini seduti
sull’uscio delle case, che aspettano, niente. I buoni: la povera gente. I cattivi: ricchi
a bordo del king (carozza) che al loro passare alzano polvere e si divertono a gettare
soldi ai bambini per vedere come si azzuffano. Ambientazione da Tex-Mex, inscenata negli spaghetti-western. Apricena con le sue cave è la linea di demarcazione tra
montagna e tavoliere.
Tra i poveri, i Salvatore soprannominati i Zicozico, sono tremendi. Il padre
facchino quando può, la mamma chiede l’elemosina nei vicini paesi. Matteo insieme ai suoi fratelli e compagni di strada vive e gioca scalzo nella piazza. Non ci sono
orari da rispettare per il pranzo e la cena, perché non c’è niente da mangiare. Qualche verdura rubata nei campi e poi bollita, la carne ed i maccheroni sono un sogno
ad occhi aperti. Una sorella muore per denutrizione.
Il padre va in galera. Al carcere di Lucera viene messo in cella con Giuseppe
Di Vittorio. I due insieme compongono Evviva la Repubblica, una marcetta tenera
nei testi. Verrà incisa da Matteo Salvatore nel disco “Il lamento dei mendicanti”.
Per noia, di pomeriggio va da un vecchio cieco suonatore di violino per imparare a suonare la chitarra. Servirà ad arrotondare qualche soldo, portando con
Vincenzo Pizzicoli, il vecchio cieco, le serenate alle finestre. Fa il garzone in bottega
e anche il banditore comunale. Suonerà il corno per annunciare che la carne della
macelleria di Pasquale Camicialonga è buona e di diverse qualità per tutte le tasche,
tranne che per i poveretti a cui rimane la pelle, la testa e le ossa tutte insieme (bando
della carne).
Farà tutti i lavori precari possibili: bracciante, trasportatore di blocchi di pietra, facchino. I giochi d’infanzia, i girotondi, la costruzione dell’aquilone, diventeranno canzoni come Girotondo pugliese e La cometa. Dall’esperienza di bracciante
comporrà Lu soprastante. Dalle parole della mamma M’ha ditto mamma mia. L’artista non uscirà più dal suo unico mondo di riferimento, quello della povera gente.
Per lui la scala sociale non ha parole complesse come proletariato, piccola borghesia, borghesia, aristocrazia. Esistono i ricchi potenti e i poveri. Nel mezzo ad indicare il ceto medio, ci sono “gli impiegatucci del comune che non sono né ricchi e né
poveri”.
Quando arriva l’età per l’emigrazione, la meta è Roma. Da questo momento
in poi nulla più ispirerà le composizioni del futuro cantore. Ogni ballata è un ricor11
Il mio amico Matteo
do tra il 1925 e i primi anni ‘50. Poi la cassetta dei ricordi viene sigillata. Lu Pugliese
a Roma è l’unica ballata fuori dai ricordi e dalla vita ad Apricena. Persino le ultime
composizioni scritte anni fa e che furono incise per Stampa Alternativa, come Lu
pensionato, Arrucunete, Sempre poveri sono quella Apricena nella memoria del vecchio cantastorie.
Ritorna ad Apricena con i due figli Lazzaro e Enza e la moglie Ida per un
breve periodo. La casa è uno stanzone nella villa comunale, messo a disposizione dall’amministrazione, per la grave indigenza familiare. L’irrequietezza lo porta
a vivere in Liguria e poi a Milano, per stabilirsi definitivamente nella Capitale.
A Roma ci arriva con il “traino-stop” e impiega venti giorni. Lì nelle cave di
valle Aurelia trova lavoro e casa in una baracca. Una donna del suo paese lo convince a cantare nelle trattorie romane, gli compra una chitarra, dei nuovi pantaloni e gli
augura buona fortuna.
E arriva la fortuna: naturalmente arriva di sera. In una di queste trattorie
incontra Claudio Villa. Canta al suo tavolo le canzoni di Roberto Murolo, ma il
reuccio si accorge che Matteo non è napoletano. Lo convince a cantare in pugliese,
negli stessi anni in cui Domenico Modugno canta in siciliano. Scatta la sua creatività geniale. Decide di comporre testi e musiche, ballate che nascono ispirate dal ricordo. La purezza di stile singolare della musica di Matteo Salvatore non sarà più
condizionata dai tanti cambiamenti e mode musicali per tutto il corso della sua vita.
Mi minore, Si settimo, La minore. Sono le note delle canzoni più struggenti. Il Do
maggiore, il Si per le ballate allegre. La maggiore, Mi maggiore e Re maggiore per
comporre una tra le ballate più significative del suo repertorio: Padrone mio ti voglio arricchire.
A proposito del canto politico Vinicio Capossela in una intervista di Silvia
Boschero per «l’Unità» del 30 aprile 2003 dice: “Ogni nostra scelta è un atto politico. C’è una tradizione molto nobile di canzoni politiche, rispetto il lavoro dei cantautori ma ci sono sorgenti popolari molto più interessanti. La canzone più vicina a
questo sentimento l’ha scritta Matteo Salvatore - Padrone mio ti voglio arricchire,
se mi comporto male picchiami, basta che ho il pane da portare ai miei figli - è una
canzone bellissima”.
Matteo incide per Claudio Villa e la Vis Radio i primi 78 giri. Le canzoni
sono allegre e a doppio senso. È la prima volta che si sente cantare in dialetto pugliese
alla radio. Ad Apricena intanto arriva la notizia che Matteo Zicozico sta diventando famoso. Nei bar del paese risuonano le sue ballate, come in quel struggente 29
agosto 2005, giorno del suo ritorno al paese, dentro la bara. La Discoteca di Stato
incide il cantore, le canzoni sono Le serve rivali e Il carrettiere. Partecipa a film
come Uomini e lupi.
Iniziano i primi concerti sporadici, sono soprattutto feste dell’Unità nelle
province di Foggia e Bari. Va in America tre volte per suonare dinanzi alle comunità di emigranti. Negli spettacoli fa il primo tempo, il secondo è per calibri della
melodia italiana come Claudio Villa e Domenico Modugno e anche una giovane
Patty Pravo. Lì nella veste un po’ da giullare, si aspettano il comico Matteo Salvato12
Angelo Cavallo
re, una sorta di Totò Pugliese. Le prime incisioni in verità fanno pensare ad un
personaggio comico e scanzonato. La lucente brillantezza delle sue composizioni
più profonde devono essere ancora scoperte ed apprezzate.
In quegli anni freme per sistemare la sua famiglia. Nascono Franco e Margherita. La moglie Ida lo aiuta nelle composizioni, sa scrivere, ed è per lui una
valida collaboratrice che mette ordine a musiche e parole. Dopo l’esperienza con
la Vis radio continua a sfornare e incidere ballate per varie etichette discografiche
come la Combo Record, Criket, Tank Record, Universal, Vedette Records, Amico, Cetra, Cicala, Dischi del Sole, Quadrifoglio, Up international, Variety. Matteo
ha una compagna, non più segreta. È la sua corista Adriana Doriani. Il successo,
la famiglia, l’amore si intrecciano negli anni ‘60. La sua famiglia decide di stabilirla a Milano, lui torna a Roma. Gli anni ‘60 sono gli anni più prolifici non solo per
le tantissime incisioni. La RAI dedica interi programmi sia radiofonici che televisivi alla musica del sud Italia, di cui Matteo Salvatore è diventato il protagonista
assoluto. Il cantante naif, “poeta dei poveri” come lui stesso si descriveva nei
manifesti pubblicitari sarà sempre attento al rispetto della sua terra d’origine. Rispetto anche nelle priorità. Sotto il suo nome scrive: Il cantante di Apricena,
Gargano, Foggia, Puglie.
Quando si accorgono di lui Giangiacomo Feltrinelli, Italo Calvino, il senatore del P.C.I. Franco Antonicelli, Matteo è un icona contesa nei salotti intellettuali di
Roma e di Torino. Suonava nei salotti Matteo, una sua caratteristica che più avanti
negli anni bui lo farà sopravvivere alla penuria di concerti pubblici. Le 4 stagioni del
Gargano è la consacrazione massima. Le foto all’interno sono di Ferruccio Castronuovo, aiuto regista di Federico Fellini, originario di Vico del Gargano. Edito da
RCA e Sorrisi&Canzoni. Il nobile cofanetto che contiene i quattro 33 giri rimarrà
per sempre il pezzo da collezione più ambito tra i suoi fans.
Matteo forse, sperpera i soldi; è anche molto generoso, ha voglia di abbondanza e di frigoriferi sempre pieni. Il riscatto è ora, la carne e i maccheroni, mattina
e sera.
Vive l’amore passionale con Adriana. Ma i soldi, i tanti soldi non li ha
fatti. “Mai li farai”, gli dirà il fratello Umberto, “se continui a farti imbrogliare
dalle case discografiche”. Fa i conti e tra diritti e royalties credeva di guadagnare di più. Escogita un piano: ritira i master delle incisioni e li vende a più discografici. Ognuno di loro ha un contratto di esclusiva con lui firmato. A Matteo
non importa niente, anche se lo denunciano. Subirà anche atti di pignoramento.
Ma la sua mobilia non ha valore ed è sempre in case d’affitto. Escono contemporaneamente e per più case discografiche i dischi di Matteo Salvatore con le
stesse ballate.
Iniziano gli anni della contestazione. Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini sono i protagonisti del canto politico. Anche Matteo Salvatore, nonostante non abbia mai usato nei testi la falce ed il martello, parole come lotta,
cortei, viene identificato in quel filone. Lui il cantante della rassegnazione, di canzoni senza soluzioni politiche sempre con i tre accordi, il falsetto e le semplici
13
Il mio amico Matteo
parole, canta Lu Sovrastante nel luogo e nel momento sbagliato, al Cantagiro. Lo
fischiano, lo criticano per aver abbandonato la sua purezza naif. Matteo era e
rimarrà ancora naif, ma sentiva di vivere ai margini del mercato discografico, nonostante le tante incisioni. Il Beat, il canto politico in voga nei ‘60, i concertidibattiti nelle università non erano il suo mondo. Ma non si abbatte; quando finisce di svernare al Folk Studio di Roma torna a Foggia. Questa volta lo fa con la
sua Dischi Etichetta di Apricena. Vende personalmente i suoi dischi ai negozianti
di Bari e Foggia.
Nel 1972, i CSC (Centro di servizi culturali) finanziati dalla Cassa del Mezzogiorno, decisero di organizzare una serie di recital con Matteo Salvatore. Tra gli
animatori un giovane, Gennaro Arbore, responsabile CSC divenuto poi fedele amico
di Matteo. A Foggia, il suo recapito è l’Hotel Sarti. Pianificava la sua esistenza professionale a Roma nei periodi invernali per stare vicino alla sede Rai e in primavera,
sino all’autunno, a Foggia per eseguire concerti. In quegli anni, anche la Camerata
Barese organizza spettacoli nei vari comuni della Provincia di Bari. Lo fa con Matteo
Salvatore e Roberto Murolo. Io nel 1994 organizzai il tour di Murolo in Puglia,
occasione nella quale i due si rincontrarono e Matteo ricorderà al maestro gli anni
della tournèe con la Camerata Barese.
Passato il Beat, in Italia inizia l’era del progressiv dei primi anni ‘70. Nonostante le tante incisioni Matteo non è arrivato al centro della musica. Ma in Italia sta
per accadere qualcosa; il folk revival, che servirà a portare l’attenzione musicale
verso il sud est Italiano, verso la terra nera, sino alle parole arcaiche di Matteo Salvatore, verso la Capitanata. Napoli aveva i suoi mandolini, i suoi cantori, fraseggi
morbidi e parole gentili come mare, amore, cuore, barca. Noi avevamo Matteo,
colui che ha avuto il coraggio di intitolare una ballata Brutta Cafona e che un giorno invece di pensare a suonare al San Marino Festival fa una altra cosa. Era il settembre del 1973. Problemi giudiziari terranno il cantante lontano dalle scene, ospitato nel carcere di San Marino. Su Matteo pendeva una grave accusa: l’omicidio di
Adriana Doriani.
Anni dopo, grazie ad amici come Renzo Arbore, Mariangela Melato e tanti
artisti della RAI, viene organizzata una colletta sostanziosa, che permetterà alla
famiglia Salvatore di incaricare un ottimo penalista del forum di Roma a riaprire il
caso.
Dopo circa tre anni, riacquistata la libertà, Matteo Salvatore con la moglie
Ida raggiunge Foggia; promuovono un incontro con gli amici di Matteo presso
l’Hotel Cicolella. In quella occasione, presentatomi da Gennaro Arbore, lo incontrai per la prima volta. Avevo circa 16 anni ed ero un suo fan. Ancora una volta sono
lì Gennaro Arbore, Arnaldo Santoro, vice segretario della Camera di Commercio,
nonché animatore principale della Taverna del Gufo a Foggia. Matteo Salvatore ha
bisogno di lavorare ed è li per questo. Gennaro Arbore parlò con il presidente della
Provincia di Foggia, il dott. Michele Protano. Così, tra piazze e camping del Gargano,
riuscì a racimolare soldi per la sua sopravvivenza.
Alla RAI di Roma Matteo non poteva metter piede dopo l’incidente di San
14
Angelo Cavallo
Marino. Renzo Arbore gli consiglia di farsi vedere però giù ai bar della strada, salutare i dirigenti e non chiedere di lavorare. Il tempo o forse i tempi addolciranno i
rigori di una RAI fortemente clericale.
A Loano (Sv) in occasione del suo ultimo concerto del 29 luglio 2005, io e
Matteo Salvatore incontriamo l’amico Enrico De Angelis, direttore artistico del
Premio Tenco. Matteo ci partecipò in quegli anni. Io ed Enrico, anche con Vinicio
Capossela, si parlava spesso di un suo meritato ritorno.
Gli anni ’80 sono anni difficili per la musica d’impegno. Molti cantautori
abbandonano le ballad e curvano verso il commerciale, con band rock e concerti
da stadio. È l’epoca delle pop star. Matteo Salvatore vive solo a Roma. Ai primi
caldi si trasferisce sul Gargano, alloggiando in piccole pensioni. Non fa concerti
pubblici, non c’è richiesta. Sono lontani gli anni del folk revival. Viene invitato
sporadicamente a tenere recital in ville private. Tra le ville che lo hanno ospitato
anche quella di un giovane Pino Daniele. Tra le rare partecipazioni il Pistoia Blues
Festival.
È in gran forma; nel 1985 aveva 60 anni quando lo rincontro. Viveva in una
baracca sul lungomare Enrico Mattei, nei pressi dell’Hotel Pizzomunno, a Vieste.
Gli vado incontro e gli dico “Maestro che fai qui ?”. Non credo si ricordasse di me.
E, come se non ci vedevamo solo da qualche ora, confidenzialmente iniziò a comunicare con quella sua parlantina veloce. Aveva un cane che chiamava “onorevole”.
Mi dice che giorni addietro nel chiamare il suo cane si voltò il senatore Cariglia, che
camminava più avanti sul lungomare, forse in vacanza all’Hotel Pizzomunno. Lui
gli disse “no non dico a Lei senatore, sto chiamando il mio cane”. Questo era un
tipico approccio alla Matteo. La gente pur non sapendo chi fosse, gradiva il suo
spirito da “capa fresca”.
Negli anni ’90, tra giugno e settembre, Matteo Salvatore viene ospitato
all’agriturismo Resega Royal di Vieste. Il proprietario, Valentino Di Rodi, diventa suo amico. In quegl’anni Angelo Cavallo e Matteo Salvatore stringono ulteriormente i loro rapporti di amicizia. Coabitando addirittura in un residence. Frequentandosi intensamente sia d’inverno che d’estate. È una vera amicizia. Matteo
si stabilisce prima a Mattinata e poi definitivamente a Foggia. Nel 1992 iniziano
le riprese del film Nelle carni del cantastorie, regia di Annie Alix. Quante glie ne
ha fatte passare! Matteo era irrequieto ed imprevedibile. Le riprese, iniziate a giugno, si conclusero ad ottobre nella Capitale. In quegli anni esegue una serie di
concerti a Piazzetta Petrone di Vieste. Ingaggiato forfetariamente dalla Azienda
Autonoma Soggiorno e Turismo, diretta dall’avv. Enzo D’Onofrio e da Carlo
Nobile. Anni comunque di sopravvivenza. Qualche richiesta arrivava dalla Provincia di Bari. Nessun giornale parlava di lui. I dischi erano introvabili. Il suo
perenne girovagare non consentiva di rintracciarlo facilmente per chi lo avesse
voluto ad un recital.
Nel mondo della musica qualcosa sta cambiando. Fabrizio De Andrè, con
l’album “Cruza de mar” dà il via al filone etnico sull’onda di ciò che accade nel
mondo. La scoperta o riscoperta della musica alle periferie della terra. Gli Agricantus,
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Il mio amico Matteo
i Tenores De Bitti, gli Al Darawish sono tra i primi fermenti italiani. Matteo Salvatore ignaro, persevera a crearsi manifesti e lettere pubblicitarie di scarsa levatura,
dirette a destinatari ormai privi di ogni potere decisionale.
L’Amministrazione Provinciale con a capo il prof. Antonio Pellegrino e l’Assessorato alla cultura diretto dalla prof.ssa Valeria de Trino Galante puntano sulla
cultura quale valore intrinseco della crescita della Comunità di Capitanata. L’identità culturale locale è l’investimento primordiale. Tra le varie iniziative viene
omaggiato Matteo Salvatore nel settembre 1995. Dinanzi ad una Piazza XX Settembre stracolma di gente. Ospiti della serata artisti della musica partenopea, tra
cui Eugenio Bennato, Enzo Gragnaniello, Daniele Sepe.
In seguito, gli artisti lo omaggeranno nei loro dischi e spesso il nome di Matteo
Salvatore verrà da loro citato nelle piazze italiane, quale fonte di inesauribile cultura popolare. Io e Matteo, qualche periodo dopo, decidiamo di metterci a lavorare
insieme. Mi rendo conto dello spessore musicale che ho ereditato.
Matteo Salvatore. La Luna aggira il mondo e voi dormite. Autobiografia raccontata ad Angelo Cavallo, in allegato il CD con ballate inedite, edito da Stampa
Alternativa e patrocinato dalla Amministrazione Provinciale di Foggia e dalla Agenzia per la Cultura, è il gradino che permetterà a Matteo Salvatore di ritornare a far
parlare di sé. Si accorgono di lui giornali musicali giovanili. Riscrivono di lui testate
giornalistiche importanti. Inizia un periodo felice.
Giriamo per librerie ed auditorium in Italia, tra cui quello di Renzo Piano a
Roma. Ogni data è un trionfo. La comunicazione sul libro permette di attivare i
canali giusti. Sergio Staino, il papà di Bobo, il mitico personaggio fumetto de «l’Unità», lo vuole per chiudere la rassegna etnica della città di Firenze. Napoli: agli spalti
del Maschio Angioino, Matteo Salvatore è in rassegna con Gilberto Gil (cantautore
e Ministro della cultura brasiliana). Radio popolare dedica un’intera trasmissione,
poi omaggia l’artista con un suo concerto a Milano. A “Storienville”, programma
Rai Radio Tre, un’intera settimana è dedicata al libro e a Matteo Salvatore. A Bari
Matteo rincontra alla Facoltà di Lingue i suoi vecchi compagni di lavoro in Rai, tra
cui un commosso Vito Signorile; memorabile fu il concerto serale. A Tivoli la presenza del maestro è richiesta da appassionati di jazz. “Sono cresciuto a pane, John
Coltrane e Matteo Salvatore” mi confesserà il critico jazz Enzo Pavone.
Era “sciamano” Matteo. Quando diceva una cosa raramente non si avverava.
L’acquazzone a Barletta del 2002 alle 20.30 lasciava poche speranze al recital che
avrebbe dovuto tenere. Ma lui per niente preoccupato mi dice che non aveva mai
piovuto ad un suo concerto e mi tranquillizza dicendomi che sarebbe uscito il sole.
Fece il concerto in perfetto orario. La casa editrice Stampa Alternativa mi comunica che probabilmente riceverò una telefonata dalla redazione del Maurizio Costanzo
Show. Matteo sarebbe dovuto andare in trasmissione per pubblicizzare il libro. Lui
mi disse: “Vedrai che non andremo, ho litigato anni fa con Maurizio, non mi chiama”. Telefonò dalla redazione una signora la quale mi espose le sue perplessità nell’ospitare Matteo, poiché la trasmissione aveva bisogno di personaggi brillanti. Io le
dissi che più brillante di Matteo e della sua età è difficile trovarne altri. Gli dico
16
Angelo Cavallo
“signora il maestro è qui con me, ora glielo passo”. Matteo prese la cornetta e il
corno e gli fece il bando. La signora rise. Noi di più perché assistevamo alla scena;
Matteo era in piedi sulla sedia. Quando finì le disse: “Se avita capisciuta avita
capisciuta e se n’avita capisciuta, non capiscite chiù”. Non partecipò al Maurizio
Costanzo Show.
Più giriamo più mi accorgo di quanti appassionati della sua musica ci sono in
giro. Quanti giovani lo conoscono per la prima volta. L’esperienza con Vinicio
Capossela ha il suo apice nel concerto di “Chi tiene polvere spara”, eseguito il 9
luglio del 2004 al Parco della Pellerina di Torino. Dinanzi a 25.000 spettatori sul
palco ci sono: Matteo Salvatore, Flaco Jemenez (Buena Vista Social Club), Roy
Paci, Vinicio Capossela, Marc Ribot & Mistery Trio, Shane Mac Gowan & the
Popes.
“Craj”, lo spettacolo sulla musica Pugliese, ci viene proposto da Teresa De
Sio quando Matteo Salvatore è ridotto a utilizzare la sedia a rotelle per via di un
ictus. La sua volontà è di proseguire a fare concerti “sino alla fine come Modugno”,
mi diceva. Aveva smesso di farci ridere, di raccontare aneddoti, aveva ovvie ragioni.
Nella sua casa di via Capozzi, le sere ci riunivamo attorno al tavolo. Era consuetudine e abitudine andare lì. Io, Ninni Maina, paziente “burocrate” delle sue carte e
quasi un toccasana nell’espletamento delle procedure per il riconoscimento dei diritti previdenziali ed assistenziali a favore del grande Maestro. Gennaro Arbore, i
giovani Mimmo Rendine (mio cognato) e Nicola Briuolo unici allievi di Matteo.
Tanti ricoveri, un diabete che lo tormentava, la bronchite cronica, insufficienza respiratoria.
Chi ha influenzato quel modo di verseggiare e suonare che accomuna un
primo Domenico Modugno (Polignano a Mare), prima maniera, Enzo Del Re
(cantastorie di Mola di Bari) e Matteo Salvatore (Apricena)? La tradizione musicale
orale contadina pugliese ha riferimenti completamente diversi. Si canta in sonetti, si
usano tammorra, chitarre battenti e castagnole. Strumenti e melodie mai entrate nel
repertorio di Matteo Salvatore. Antonio Infantino, musicista ed etnomusicologo
conferma il mio sospetto. C’era un vecchio cantastorie cieco che tra gli anni ‘30 e
’50; girava i mercati della provincia di Foggia e Bari. È però storia troppo recente
per appassionare i dotti della etnomusicologia come Roberto Leydi, più attenti in
quegli anni ‘50 a fenomeni arcaici come il tarantismo e la tarantella del Gargano.
Matteo Salvatore è senza dubbio la letteratura pugliese. È la singolarità geniale di un artista che ha saputo raccontare al suo pubblico “il lamento dei mendicanti”. Aveva saggia conoscenza musicale, chi lo invitava a fare un recital. Lui che
non faceva tarantelle e bisognava ascoltarlo in rigoroso silenzio. Che richiedeva
attenzione, come tutte le grandi cose.
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Il mio amico Matteo
LA NOTTE È BELLA
(Matteo Salvatore)
La notte è bella sola sola
al paese non c’è nessuno
si azzuffano i gatti con i cani
la gatta graffia, la gatta vince
si sente da lontano il lupomannaro
per la paura io mi sono spaventato
poi il rumore dell’acqua delle fontane
mi ha fatto compagnia
la notte è bella, la notte è bella
All’ultimo concerto di Loano (Sv) del 29 luglio 2005, era felice per aver ricevuto il premio alla carriera voluto da una giuria di cinquanta giornalisti. Di Matteo
Salvatore e dei nostri giorni felici mi rimarrà il seguente ricordo: un saggio amico
che mi ha dato tanta compagnia per un lungo tratto della mia vita. Tutto quello che
è rimasto in sospeso, che non abbiamo fatto, che avremmo voluto fare, si cristallizzerà nei miei sogni.
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Frontiere della Capitanata
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Antonio Vigilante
L’itinerario poetico e spirituale
di Donato Coco
di Antonio Vigilante
In una intervista del 1987 don Donato Coco1 rivendicava, a proposito delle
sue Preghiere d’amore, le “ascendenze bibliche” di quel volume, ed in particolare
l’influenza del Cantico dei Cantici: “Il Cantico dei Cantici - affermava - è a me
particolarmente caro. Esso sta all’inizio e alla fine della mia ricerca, nel senso che di
là son partito e alla sua ‘altezza’ io tendo anche se sono perfettamente consapevole
di non poterci mai giungere”.2
Una ricognizione dell’opera poetica di Coco non può non tener presente
questa indicazione; ma accanto al Cantico dei Cantici bisogna porre almeno i Profeti ed i Vangeli. La personalità poetica di Coco, infatti, mi sembra che si sviluppi
secondo tre linee, che corrispondono a tre modalità della fede: quella profetica,
nella quale la fede è denuncia dell’assurdo, di quello che Mounier chiamava “disordine stabilito”, e la poesia ha la durezza e la franchezza di un appello ai dormienti;
quella propriamente mistica, nella quale la poesia è chiamata a rendere conto del
misterioso e difficile colloquio amoroso tra un io ed il Tu divino; quella, infine, che
potremmo definire meditazione poetica sulla storia della salvezza, nella quale la
poesia ha il compito di evocare lo stupore per i vari momenti e movimenti del piano
di Dio per l’uomo.
La prima linea porta al confronto/scontro con la civitas, con la dimensione
orizzontale della realtà etico-politica; la seconda alla tensione verticale verso il Trascendente; la terza alla profondità della storia, vissuta nella prospettiva della salvezza. Orizzontalità, verticalità e profondità si integrano a vicenda: è la profondità
della storia della salvezza che permette di giudicare la realtà attuale in ciò che ha di
insufficiente; ma non si riuscirebbe a sottrarre la storia della salvezza alla presa del
sospetto critico o della semplice erudizione, senza la presenza appellante di un Tu
trascendente.
Le tre modalità della fede sono ugualmente presenti nella prima produzione poetica di Coco, attestata dal volume Ancora è possibile, del 1975, un volume di
1
Nato a San Marco in Lamis, Donato Coco è sacerdote e docente di Teologia Dogmatica presso l’Istituto di
Scienze Religiose “Giovanni Paolo II” di Foggia.
2
Michele TROMBETTA, Le preghiere d’amore di Donato Coco, in «Il Quotidiano di Foggia», 9 giugno 1987, p. 4.
21
L’itinerario poetico e spirituale di Donato Coco
preghiere dal dettato semplice e scarno, la cui essenzialità ben si accorda con la
incisività del messaggio e l’intensità dell’esperienza religiosa da cui scaturiscono.
Quella che ho chiamato meditazione poetica sulla storia della salvezza è presente
nella prima parte del volume (“Tu sei stato un Dio povero”), mentre la seconda
(“Tu non sei un Padreterno”) ha un carattere di denuncia, e nella terza (“Un racconto d’amore”) la voce torna a rasserenarsi nel colloquio mistico.
La poesia di denuncia della seconda parte del volume non è - ed è cosa
apprezzabilissima - denuncia generica, ma la denuncia dell’ipocrisia, dell’immoralità ammantata di pietas religiosa di una città: della sua città. Donato Coco ritrae
Foggia nel momento della sua crescita frenetica, un piccolo mondo frenetico in cui
si muovono da padroni affaristi, politici corrotti con il loro sistema di clientele,
malavitosi; una città che ha smarrito i vecchi scrupoli, nella quale la morale è diventata stucchevole pietismo e la religione serve a coprire con un manto di rispettabilità la scelleratezza; una città che costringe all’isolamento ed alla sconfitta gli onesti,
i veri profeti, gli umili. Dietro la città c’è, naturalmente, l’orientamento di tutta una
civiltà votata all’utilitarismo, che ansiosamente ricerca “il massimo profitto dal minimo impiego di mezzi e di energie”.3
Mi pare che queste poesie rivelino dei punti di contatto non trascurabili con
la poesia di un grande contestatore come Danilo Dolci. Proveniente dalla poesia
religiosa (le sue prime cose erano state pubblicate in una Antologia della poesia
religiosa contemporanea, curata nel’52 da Valerio Volpini), Dolci aveva abbandonato la religione, a contatto con la realtà della Sicilia più degradata, ed aveva scoperto
la poesia come ricerca d’una voce per dire le situazioni di ingiustizia e violenza,
legata all’azione per combatterle e spegnerle.
Ecco Dolci: “Si contratta la gente con pudore /viene ossequiato chi sa derubare/ senza sfilare agli altri il portafoglio,/chi è diverso si acquieta nella droga/(con
urbane maniere:/si drogano o li drogano in privato)// ridacchiando dei barbari/ si
elegge/il più furbo a mentire,/ Presidente”.4
E Coco: “Signore,/è accaduto nella mia città:/uno non ha potuto fare il sindaco/per la seconda volta,/perché in tre anni di mandato/non ha voluto sistemare/
neppure uno dei pupilli/raccomandati/caldamente dagli amici;/ è stato troppo onesto,/ neppure i preti/ha voluto sentire”. 5
Sono versi che smascherano quello che Dolci chiama sistema clientelaremafioso; un sistema particolarmente sviluppato ed efficace tanto nella Sicilia di Dolci
(il quale subì anche il carcere per le sue pubbliche denunce) quanto nella Foggia di
Coco. Un sistema che costringe il poeta ad abbandonare i cari vecchi temi della
poesia, per occuparsi di sindaci e piani regolatori, di operai e faccendieri, di brogli
elettorali e connivenze. Si tratta di una poesia politica, che per di più non fa ricorso
3
Donato COCO, Ancora è possibile, Cittadella, Bertoncello, 1975, p. 63.
Danilo DOLCI, Poema umano, Torino, Einaudi, 1974, p. 203.
5
D. COCO, Ancora è possibile…, cit., p. 74.
4
22
Antonio Vigilante
alla retorica. A molti pare una dissacrazione della poesia; per altri è la via per far
uscire l’attività poetica dal solipsismo e renderla cosa di tutti, res publica, voce che
raccoglie le voci e i silenzi di moltitudini, senza filtrarle, senza portarle ad un ordine
e ad una perfezione formale che poco si accordano con l’imperfezione reale della
nostra civitas.
Cristo come “dio povero”, venuto non a risolvere problemi, ma a “proporci
uno stile / nuovo di vita”6 è il tema della prima parte del volume. I dubbi, i punti
oscuri che spesso si presentano angosciosamente alla coscienza del credente, appaiono a Coco come linee volutamente solo abbozzate, segni di un movimento divino
che richiede la collaborazione e l’impegno dell’uomo. Non è la logica stringente di
scienziati e filosofi: è fantasia. E la fede non è avere tutte le risposte, cogliere la
complessità del mondo in una logica nuova, ma ripetere i gesti d’amore del Cristo,
continuare quel che è stato intrapreso. C’è, in un certo senso, un vuoto nel piano
divino, ed è in quel vuoto che si inserisce l’agire umano, e la fede come imitazione
di Cristo: “Agivi come uno / che inizia un discorso / e poi di proposito / non lo
porta a termine, / uno che tratteggia alcune linee / affidandosi all’intuito / di chi
vuole poi / cavarne una figura”.7 Il progetto divino non prescinde dall’impegno
umano, e la fede è apertura alla storia, alla politica (significativo è che la poesia che
dà il titolo alla raccolta sia una poesia sul Vietnam),8 agli altri, “eletti tutti / non
divisi in buoni e cattivi / una volta per sempre”,9 ben oltre la preoccupazione per la
salvezza individuale.
Nelle sue tre parti, Ancora è possibile approfondisce una concezione della
fede come ricerca, tensione, impegno, lotta. Lotta di Dio per l’uomo, attraverso il
sacrificio del Cristo; lotta dell’uomo per l’uomo - con la quale si svolge la via tracciata dal Cristo ed affidata poi alla responsabilità umana - attraverso l’impegno e la
denuncia politico-profetica; lotta dell’uomo per Dio, nell’amorosa cura quotidiana
per l’Altro.
Vi è, in questo libro, una freschezza spirituale, uno slancio che consuma,
senza retorica, gli aggiustamenti che riducono il messaggio evangelico - messaggio
di apertura, di provocazione, di rovesciamento della scala dei valori sociali - alle
esigenze dell’ordine borghese, mascherate appena da un velo di pietismo. Vi è anche, nella terza parte, una certa arditezza nella concezione del rapporto tra uomo e
Dio, che è propria, del resto, della poesia mistica. Sono poesie d’amore, di un amore
che appare singolarmente vicino all’amore che uomini e donne si scambiano, con
tutte le difficoltà, i sacrifici, le incomprensioni che comporta la creazione di un
orizzonte comune tra esseri diversi. L’esperienza che attestano è al di qua dell’abbandono totale, della unificazione piena di amante ed amato: la quale, pure, si
prefigura come meta certa (“Signore, / più non saremo un giorno / audaci e temera6
Ibid., pp. 13-14.
Ibid., p. 15.
8
Ibid., p. 33.
9
Ibid., p. 24.
7
23
L’itinerario poetico e spirituale di Donato Coco
ri / come due ragazzi che non sanno / dirsi l’amore / senza farsi male”).10 L’amore
per Dio vive dunque tutti i timori, le sofferenze, i grandi slanci seguiti dall’amarezza del distacco che sono propri dell’amore umano. Può sembrare, anzi, troppo
umano, questo amore. Si considerino questi versi: “Ho paura di non poter durare /
in questo gioco d’amore. / La mia carne ha fame d’un volto / ha sete d’abbracci e di
baci”.11 E ancora: “Ieri abbiamo litigato, / non ti ho voluto accontentare: / non sei
rimasto soddisfatto”.12 È un amore fatto anche di sensualità, secondo la tradizione
della grande, vera poesia mistica, e conformemente al modello sublime del Cantico
dei Cantici. E se il credente avvezzo a vivere il rapporto con il Divino nelle forme
codificate dal rito potrà stigmatizzare la testimonianza di un rapporto con il Divino
eccessivamente intimistico e passionale, il non credente apprezzerà in queste poesie
proprio la continuità con l’esperienza dell’amore umano.
La linea mistica della poesia di Coco trova espressione più compiuta nel successivo volume, le Preghiere d’amore, del 1985, in cui Joseph Tusiani ha acutamente
notato un “irruenza di sottintesi”,13 al di là della semplicità estrema del dettato. Il
senso del titolo è nell’ultima poesia: i giorni d’amore, ora difficili ora sereni, costituiscono infine un “rosario umile di preghiera”.14 Ogni poesia di questa raccolta è
un grano d’un rosario, tappa di un itinerario a Dio certo tormentato, che nulla ha
dell’ “esattezza scientifica”15 del percorso spirituale di Giovanni della Croce, che
pure è stato indicato tra i riferimenti della poesia di Coco; un itinerario che passa
attraverso le tappe del richiamo iniziale, dell’incontro, della prova, dell’intesa e dell’abbandono finale.
Le poesie più riuscite sembrano essere le prime della raccolta, nelle quali la
natura con la sua intatta bellezza è colta quale segno ed anticipazione di una diversa, più pura bellezza, ed ogni voce, ogni respiro, ogni gioia terrena vissuta come
messaggio divino. “Di ogni cosa il disegno / si dipana ai miei occhi / in prodigio di
casta / trasparenza”.16 E di “casta trasparenza” si può parlare anche per questi versi,
e per tutta la migliore poesia di Coco. È un modo per essere aderenti al linguaggio
stesso di Dio, che è fatto di semplicità ed evocazione, non di roboanti teofanie. E,
più in generale, questa essenzialità mi pare propria di tutte le autentiche, profonde
forme di spiritualità, anche al di fuori del cristianesimo (si pensi all’eleganza della
poesia zen).
L’uomo e Dio, l’Amante e l’Amato sono in ascolto l’uno dell’altro, con l’orecchio appoggiato alla parete che li divide, secondo la bella immagine di una delle
10
Ibid., p. 93.
Ibid., p. 84.
12
Ibid., p. 82.
13
Joseph TUSIANI, Invito alla lettura, in Donato COCO, Preghiere d’amore, Foggia, Bastogi, 1985, p. 20.
14
Ibid., p. 77.
15
Così Simone WEIL, La prima radice, Milano, Mondadori, 1996, p.166. Edith Stein ha intitolato il suo
studio su San Giovanni della Croce Scientia crucis, Roma, Edizioni OCD, 1996.
16
D. COCO, Preghiere d’amore…, cit., p. 30.
11
24
Antonio Vigilante
poesie più riuscite della raccolta. E se il poeta trattiene il fiato per ascoltare Dio,
Dio non fa diversamente: “Poni anche tu l’orecchio contro il muro / e trattieni il
respiro / per ascoltare il mio”. 17 Come in ogni autentico rapporto d’amore, ad ognuno
spettano i due ruoli di Amato ed Amante: Dio è il fine dell’uomo, ma anche la
creatura è il fine di Dio; l’uomo cerca Dio, ma Dio, anche, seduce l’uomo. Non si
tratta, qui, di un itinerarium che porti l’anima progressivamente ad abbandonare le
cose terrene per prendere rifugio nella quiete di Dio, ma di un vero e proprio dialogo, con tutta la problematicità, la difficoltà, l’inquietudine che ciò comporta – con
una dialettica di silenzio e parola, paura e abbandono, sete e soddisfazione, fuga e
riconciliazione.
Nel De Arra Anime Ugo di San Vittore si poneva - e risolveva - un singolare
problema: l’anima ama Dio, come Unico, ma non è l’Unica per Lui. Solum diligens
sola non amor, dice l’anima.18 Amo Uno solo, ma non sola sono amata. Ed Ugo
risponde sostenendo che i doni d’amore concessi ad altri nulla le tolgono, ed aggiungono anzi il piacere della comunicazione, della societas humanae conversationis.19
Anche in Coco l’incontro amoroso tra l’anima e Dio si apre all’altro, al terzo – e
qui, direi, emerge tutta la differenza tra amore umano e amore divino. La seconda
parte delle Preghiere d’amore è un “invito a credere”.
Si può forse dire che alla coscienza del mistico la contrapposizione tra fede
ed ateismo appare meno netta, come se si trattasse di situazioni spirituali che in
qualche modo si richiamano e si avvicendano. Il rapporto amoroso tra Dio e l’uomo vive dei contrari: è una gioia piena di pene, è presenza che non diventa mai
totale, che mai vince del tutto l’assenza; e l’assenza, a sua volta, si fa attesa di una
nuova presenza. L’assenza di Dio, vissuta e sofferta dall’ateo, non sarà anche attesa
di Dio? Il silenzio, di cui l’ateo è in ascolto, non è il fondo necessario affinché la
parola risuoni solenne, al riparo dalle molteplici cadute del linguaggio quotidiano?
Dio, scrive Simone Weil, è “colui che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira
per non essere amato come un tesoro da un avaro. Elettra che piange Oreste morto.
Se si ama Iddio pensando che non esiste, egli manifesterà la propria esistenza”.20 Un
passo che contiene, nella sua incisiva essenzialità, molto più di tanti ponderosi volumi della teologia contemporanea.
L’invito è, pertanto, quello di incontrarsi nell’attesa: “Solo ti chiedo se è possibile / che tu nel silenzio condivida / il gemito della mia preghiera / e solo non mi
lasci nell’attesa / d’una sua risposta”. 21 Accordare un gemito ed un silenzio nell’attesa di Dio - è in questo che atei e credenti possono incontrarsi, ovunque la fede
non sia vissuta in quella condizione di avarizia spirituale di cui parla Simone Weil:
17
Ibid., p. 56.
Ugo DI SAN VITTORE, De Arra Anime, Milano, Glossa, 2000, p. 30.
19
Ibid., p. 32.
20
Simone WEIL, L’ombra e la grazia. Investigazioni spirituali, Milano, Rusconi, 1996, p. 29.
21
COCO, op. cit., p. 88.
22
Donato COCO, Dodici stelle per Maria, Leumann, Elle Di Ci, 1989.
18
25
L’itinerario poetico e spirituale di Donato Coco
Dio come possesso, come rassicurante sostegno metafisico e conferma della propria identità (anche sociale), e non piuttosto come l’abisso, il deserto che invita a
spogliarsi, a lasciare, ad avventurarsi oltre se stessi ed i propri possessi.
Nella successiva produzione di Coco a prevalere è il terzo motivo della sua
poetica: la meditazione sulla storia della salvezza. È la tematica di scritti minori,
come Dodici stelle per Maria22 e Risonanze Bibliche23, di alcuni inediti (Con Maria
sulla via della croce, 1994; Le tentazioni, 1999; La divina imboscata, 1991; Si può
forse dare lezioni a Dio?, 2001) e, soprattutto, della terza importante raccolta di
Coco, E venne il terzo giorno (1992), in cui affianca alle sue poesie pagine dei Vangeli accompagnate dalla parola di grandi teologi e testimoni della fede: da Bonhoeffer
a Primo Mazzolari, da Dostoevskij a Buber, da Moltmann a Simone Weil; e, soprattutto, Sören Kierkegaard. Le poesie della raccolta ricostruiscono la vicenda terrena
del Cristo, cercando nei singoli episodi il segreto dell’agire divino, che abdica alla
potenza e si presenta in questo mondo disarmato, apparentemente destinato alla
sconfitta. Un agire che culmina nelle terribili parole dalla croce – “Dio mio, perché
mi hai abbandonato?” -, che nei versi di Coco diventa un momento quasi ateistico
della vita del Cristo: “Dal Cielo abbandonato, diveniva / dei senza Dio il divino
fratello”.24 I senza Dio sono qui coloro che soffrono l’assenza di un Dio efficace, di
un Dio che interviene e salva, già su questa terra. Essi hanno accanto il Cristo,
poiché vivono quella che fu la sua esperienza sulla croce. E gli altri? Quelli che
continuano a rivolgersi ad un Dio potente? Essi non hanno compreso fino in fondo
il senso della kenosis divina. “Se tu liberamente non l’accogli, / Egli è perduto. Affrettati a salvarlo! / Impossibile pensi in Dio un limite? / Ma Egli non considera
umiliante / il tuo soccorso. Né mai tu stimare / troppo gravoso il peso del suo
amore”.25 La concezione tradizionale è rovesciata: è all’uomo che spetta assumersi
la responsabilità di continuare l’opera di Dio, e di portarla a compimento.
Nella teologia contemporanea si è fatta strada, in seguito alla riflessione sull’esperienza del male, l’idea di un Dio “debole”, affidato alle cure umane. È la convinzione, in particolare, di Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo condannato a morte
dai nazisti, per il quale “Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli
ci sta a fianco e ci aiuta”.26 E sono queste parole che Coco riprende, tracciando un
profilo poetico di Bonhoeffer nella parte conclusiva del suo libro, facendolo rientrare
in una galleria di uomini “solidali con Dio”, a dire il vero piuttosto eterogenea, che va
dalle filosofe Edith Stein e Simone Weil a Nelson Mandela e Padre Pio, cui è dedicata
la recente Ballata di fra Pio,27 una rievocazione in sestine di endecasillabi della sua
23
Donato COCO, Risonanze bibliche, Leumann, Elle Di Ci, 1990.
Donato COCO, E venne il terzo giorno, Bari, Levante, 1992, p. 59.
25
Ibid., p. 73.
26
Dietrich BONHOEFFER, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1988, p. 440. Sul problema
mi permetto di rinviare al mio Dio, il male e il postmoderno, in «Prospettiva Persona», 1998, 25-26.
27
Donato COCO, La ballata di fra Pio, Bari, Levante, 2000.
24
26
Antonio Vigilante
vita, che appare come l’ultimo momento della storia della salvezza. Il linguaggio, qui,
è semplice più che mai, adeguato alla figura del frate; dominanti il tema della lotta con
il Maligno e della sofferenza accettata e vissuta come dono a Dio.
In questa ultima produzione di Coco il verso breve cede il posto all’endecasillabo, e prevalgono i verbi all’imperfetto. Alla ricerca di maggiore perfezione formale e della suggestione dell’evocazione, la sua poesia rischia di smarrire quella
limpidezza e quel contatto appassionato con l’esperienza attuale (sia essa mistica o
politica) che sono i suoi pregi maggiori.
La poesia è per Donato Coco la naturale prosecuzione della sua ricerca teologica. E non v’è contraddizione tra le due cose, se è vero che la teologia è pensiero
su Dio, approssimazione alla realtà del Divino, meditazione sul rapporto tra il piano storico e quello della Trascendenza: una ricerca, insomma, che scopre un senso
nell’esistenza individuale, nel procedere della storia, nella stessa vicenda dell’universo (si pensi a Teilhard de Chardin). Una ricerca che non può che lasciare il campo alla commozione, alla celebrazione, all’inno, alla preghiera. La parola che cerca
di circoscrivere l’Essenza lascia il posto alla parola che evoca la Presenza, consapevole del suo stesso limite e della inevitabile prossimità con il silenzio.
L’opera di Donato Coco mostra come la poesia del teologo - la poesia del
teologo contemporaneo, che conosce l’oscuramento, il silenzio, la debolezza di Dio
- non possa essere che una poesia semplice, antiretorica, scarna anche, più vicina
all’austera spiritualità di una piccola chiesa romanica che allo splendore d’un tempio cinquecentesco.
27
28
Presente come cultura
30
Francesco Giuliani
Dal Mediterraneo a Leopardi.
Quattro libri di Franco Cassano
di Francesco Giuliani
1. Il peso della spada
Da tanti anni portiamo nella nostra mente un’immagine incontrata sul sussidiario della scuola elementare, quella di un uomo vestito da barbaro che, con modi
arroganti, butta sul piatto di un’enorme bilancia la sua pesante spada, tra lo sgomento dei romani circostanti. Stiamo parlando, ovviamente, di Brenno e della sua
celebre frase, “Guai ai vinti!”, rimasta come monito per tutti sulle dure leggi della
storia e sull’importanza dell’uso della forza.
Ma chi vince ha sempre ragione, come sostennero anche alcuni celebri
pensatori? E qual è la vera vittoria, quella di chi percorre una brillante carriera o di
chi rende la sua esistenza lineare, coerente e significativa?
È un punto cruciale, al centro di tante analisi e di tante discussioni, che ci
coinvolge tutti, volenti o nolenti.
Allargando la visuale e sintonizzandoci sul presente, dopo i bagni di sangue
del secolo appena archiviato, l’interrogativo porta a parlare della globalizzazione,
delle prospettive di un mondo sempre ricco di pericoli e tensioni, malgrado la caduta del muro di Berlino, ma anche della vittoria del modello occidentale, rapportato
ai valori del Sud del mondo.
Siamo stati abituati sin da piccoli a sentir parlare della questione meridionale,
muovendoci tra lamenti e critiche, tra carenze e pregiudizi, tra ottimismi interessati
e cifre realistiche ed inquietanti. Questa volta, però, il Sud non è solo l’antico Regno di Napoli, né ha solo i confini di un’Italia protesa nel Mediterraneo contrapposta alle nazioni europee centro-settentrionali, ma si allarga ulteriormente, sino a
comprendere l’intero Sud del mondo, in una realtà sempre più tentacolare.
Entriamo, così, in un campo che da anni è al centro anche delle analisi di
Franco Cassano, uno studioso diventato molto noto per il suo “pensiero meridiano”, che è poi, in estrema sintesi, l’idea che il Sud non deve solo imparare dal mondo cosiddetto sviluppato, che è quello nord-occidentale, ma ha anche qualcosa da
insegnare e da additare, chiedendo perciò rispetto e considerazione. Un pensiero
che ha affrontato in modo originale un argomento di fondamentale rilievo, spostando l’ottica dell’osservazione dall’esterno all’interno, mettendo in discussione
una serie di luoghi comuni che qualcuno considera erroneamente degli assiomi.
31
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
Di qui, tra l’altro, le reazioni che si sono registrate un po’ ovunque, in Italia,
nei paesi del Mediterraneo, ma anche in altri paesi del mondo, com’è facile verificare leggendo la pubblicistica internazionale.
Cassano, nato ad Ancona nel 1943, da madre marchigiana e da padre pugliese,
è un docente universitario ordinario ed insegna Sociologia della conoscenza
nell’Ateneo di Bari. Tiene corsi e lezioni anche all’estero, specie in Francia, ed ha al
suo attivo, sin dai primi anni Settanta, varie pubblicazioni, alle quali vanno aggiunti
saggi e contributi in lavori collettanei.
Tra i suoi ultimi testi, ricorderemo almeno Approssimazione,1 attento a
smontare i pregiudizi e gli errori che caratterizzano il rapporto con l’altro, attraverso una serie di acute osservazioni che spaziano in una vasta area interdisciplinare, dall’etologia alla letteratura, e Partita doppia,2 che è uno dei suoi lavori più
solidi e acuti.
Il sottotitolo di quest’ultimo libro, Appunti per una felicità terrestre, è eloquente: Cassano appare impegnato a delineare i limiti e i doveri dell’uomo, in una
realtà nella quale sono venuti meno i tradizionali punti di riferimento, a partire da
quelli religiosi. Il conseguente smarrimento viene trasformato in un’assunzione di
responsabilità, in uno stimolo a svolgere un ruolo più attivo e partecipe.
Al fondo, qui come altrove, nella sua esplicita scelta di un punto di vista
laico, Cassano rivela un suo animo “religioso”, legato a doppio filo all’etica.
Partita doppia sottolinea “la scoperta del doppio lato delle cose, dell’ambivalenza del mondo, dell’impossibilità di ricondurre le azioni e gli atteggiamenti dell’uomo nelle maglie di una contabilità semplice”;3 in altri termini, tutto ha un prezzo e la stessa felicità umana si ritrova a misurarsi con i suoi risvolti negativi, senza
poter alterare l’equilibrio complessivo.
Il vero obiettivo polemico, di questo come degli altri libri che seguiranno, è
la modernità, che crede, attraverso l’economia, l’industria e la tecnica, di poter disporre del nostro pianeta a suo piacimento, in nome delle proverbiali “magnifiche
sorti e progressive”, solo attualizzate ed adattate al bisogno. Un’idea insensata e
destinata ad un tragico fallimento, che Cassano respingerà con forza, rendendo il
suo pensiero sempre più lucido ed attento agli eventi che hanno segnato il trapasso
dal secondo al terzo millennio, che hanno portato in primo piano la globalizzazione
e le problematiche dello sviluppo e dell’ecologia.
Questo solido volume (in cui non manca un significativo capitolo intitolato
Essere vinti) è dunque una tappa importante per il pensiero del Nostro; esso anticipa, in particolare negli ultimi due capitoli, L’elezione fredda e Mediare le terre,
quelli che saranno i punti cruciali della sua analisi sul “pensiero meridiano”, dal
tema della lentezza alla centralità del ruolo del Mediterraneo, fino all’attenzione
1
Franco CASSANO, Approssimazione, Bologna, il Mulino, 1989.
Franco CASSANO, Partita doppia, Bologna, il Mulino, 1993.
3
Ibid., p. 8.
2
32
Francesco Giuliani
riposta sul senso del limite, che è un elemento sviscerato anche nel recente saggio su
Leopardi, uno dei suoi maestri, accanto ad Albert Camus.
In questo nostro scritto esamineremo proprio i suoi ultimi lavori, ossia Il
pensiero meridiano (Bari, Laterza, 1996, ma più volte ristampato), Paeninsula. L’Italia
da ritrovare (Bologna, il Mulino, 1998), Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (Bologna, il Mulino, 2001), e Oltre il nulla. Studio su Giacomo Leopardi (Bari, Laterza, 2003).
Si tratta di opere legate da molteplici fili, soprattutto le prime tre (ma anche
lo studio sul Recanatese, come vedremo, malgrado l’apparenza, ha un’inconfondibile
aria di famiglia), offrendo numerosi spunti di meditazione, attingendo al tesoro
sapienziale degli antichi e dei moderni.
Cassano è un personaggio per molti versi anomalo, che ama porsi in una
posizione di frontiera, di dialogo, da uomo di sinistra che ha attraversato la stagione dell’ideologia, alla quale si legano i suoi primi studi, finendo per ritrovarsi, dopo
aver bruciato molte certezze, accanto a pensatori che talvolta hanno seguito un
percorso ideologico opposto (si pensi a Franco Cardini, ad esempio); il vero traitd’union è rappresentato proprio dalla critica alla modernità, alla globalizzazione, al
pensiero unico, alla dittatura del mercato, ad un modello di sviluppo, insomma, che
vanta proseliti nelle file di tutti gli schieramenti politici ed ideali, sia pure con le
dovute accezioni e sfumature.
Egli è uno di quei pensatori che amano spezzare i fronti, che hanno i loro
nemici tra gli integralisti, tra i chierici abituati a vedere ovunque dei tradimenti e dei
compromessi in realtà inesistenti, tra gli zelanti pronti ad alzare una coltre di fumo
intorno a chi pone dei problemi concreti, che vanno conosciuti e approfonditi, per
acquistare una maggiore consapevolezza della realtà.
2. Il pensiero meridiano
La tesi di partenza de Il pensiero meridiano è di una chiarezza esemplare: se si
vuole discutere di Sud assumendo il punto di vista dominante ed esterno, allora non
è nemmeno il caso di addentrarsi nell’analisi. La conclusione è scontata: il Sud si
può salvare solo diventando altro da sé, solo inserendosi in modo amorfo nelle
maglie del mondo occidentale. Ma tutto questo non è possibile, come avverte l’autore, denunciando i danni causati dalla modernizzazione, da quest’infezione che
pretende di essere la cura del male.
Con sempre maggiore lucidità, fino al volume apparso nel 2001, Cassano
rimarcherà i guasti prodotti dalla civiltà nord-occidentale, che pensa di poter risolvere i problemi del nostro pianeta imponendo la propria visione e i propri metodi,
bollando come sorpassate o dannose le altre culture. Un atteggiamento di sufficienza che non è utile a nessuno, tanto meno all’Occidente, che in questo modo non
supera gli ostacoli, bensì ne crea degli altri, favorendo lo sradicamento, l’integralismo
e il risentimento, che così tanti danni stanno producendo nei nostri giorni.
33
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
Ne consegue che la reductio ad unum dei punti di vista non è possibile. Di
qui la necessità del “pensiero meridiano”, che vuole, come si legge nella Introduzione all’omonimo libro, “restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero,
interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri”.4 “Un pensiero del sud - aggiunge poco dopo Cassano- un sud che pensa il sud, vuol dire guadagnare il massimo di autonomia da questa gigantesca mutazione, fissare criteri di
giudizio altri rispetto a quelli che oggi tengono il campo, pensare un’altra classe
dirigente, un’altra grammatica della povertà e della ricchezza, pensare la dignità di
un’altra forma di vita”.5
Il meridione in questo modo ritorna al centro della discussione, ma in un
contesto universale, strappando l’analisi ai limiti della difesa dello status quo, al
timore di voler, in fondo, tessere l’apologia di una parte del mondo, negando l’evidenza dei problemi esistenti al suo interno o ritenendoli solo effetti di cause
estrinseche.
Non si tratta, come ha inteso qualcuno, di facili assoluzioni, di sogni romantici o puramente teorici, né bisogna rifiutare internet ed il computer per cullarsi
nelle nostalgie del passato, privandosi delle notevoli potenzialità dei nostri tempi,
che hanno permesso di realizzare dei sogni di antica data, sia pure a caro prezzo.
Cassano dà al suo pensiero un taglio equilibrato, guardandosi bene dal difendere quanto la ragione ha rifiutato nelle civiltà orientali e meridionali, quanto è
stato giustamente o necessariamente abbandonato e condannato nel corso dei secoli. Il problema, semmai, è cogliere nel Sud, accanto al degrado e all’oscurantismo, le
gemme esistenti, gli aspetti positivi, utilissimi e preziosi per quel riequilibrio tra le
culture che rappresenta l’unica soluzione esistente, e per giunta né meccanica né
semplice.
Il metodo, infatti, va poi adattato caso per caso e non rappresenta una facile
panacea.
Equilibrato ma anche provocatorio, lo scrittore non nasconde comunque la
sua pretesa di abbattere tutti gli idoli della modernità, tutti i presunti dogmi propagandati dai sacerdoti del modello occidentale, ovunque essi siano.
Di qui il successo di queste tesi, che hanno avuto il merito di riaprire un
dibattito che rischiava di chiudersi in una unanimità di facciata, suggerendo, invece,
l’esistenza di diverse soluzioni, di fronte ad un argomento complesso e problematico. Sull’altro lato della medaglia, poi, c’è un invito a dare un giusto valore all’orgoglio meridionale, da intendere nella sua più corretta formulazione, lontano dalle
insidie del vittimismo e della spersonalizzazione, spronando gli intellettuali del sud
del mondo a far sentire sempre più alta la propria voce.
Non è un caso, insomma, che il testo edito dalla Laterza si sia imposto sin dal
primo momento come libro cult, come testo di riferimento per una vasta area. A
questo successo hanno contribuito di sicuro le doti di scrittore di Cassano, che
4
5
Franco CASSANO, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 2003 (Economica Laterza), p. 3.
Ibid., p. 5.
34
Francesco Giuliani
riesce a trasmettere le sue qualità di studioso e di saggista in una prosa attraente e
leggibile, che possiede il giusto ritmo. Egli spezza la trattazione in brevi capitoli che
si chiudono senza stancare, concedendo un attimo di pausa, prima di riprendere
l’analisi.
Scrittore asciutto e chiaro, egli possiede una indubbia misura giornalistica,
nel senso migliore del termine, e non a caso nel 2001, come vedremo, darà alle
stampe Modernizzare stanca, che è proprio una silloge di interventi apparsi sulle
pagine di due quotidiani nazionali.
Il pensiero meridiano, ben lontano dal trattato ostico e scostante, è un lavoro
rassicurante sin dal primo impatto visivo, che consta di tre parti, Mediterraneo,
Homo currens e L’attrito del pensiero, nelle quali l’autore riprende anche, con pochi
cambiamenti, alcuni saggi precedenti.
Nel complesso, si tratta di un’opera unitaria, il cui filo rosso viene esplicitato
nelle pagine dell’Introduzione, Per un pensiero del sud, che ben compendiano il
senso complessivo del libro. Come avverrà anche nei tre libri successivi, l’introduzione è così completa da poter quasi sostituire (sia detto cum grano salis) la lettura
dell’opera.
Cassano vi riversa il suo realismo, ma anche il suo entusiasmo, la sua cordialità, consapevole di non presentare parole di circostanza o di mera testimonianza,
ma di lanciare una sfida possibile, malgrado le prevedibili parole di scherno dei
sacerdoti della modernità.
Il “pensiero meridiano” fa riferimento a tutte e tre le dimensioni temporali,
dal passato greco ad un futuro auspicabile, badando bene (e le puntualizzazioni
sono esplicite) di non mescolarsi alle grette polemicucce leghiste, chiuse in un orizzonte asfissiante, di terra, direbbe lui, come quello di una valle opulenta che pretende di tagliare fuori la realtà.
Le prime due sezioni del libro teorizzano direttamente il “pensiero meridiano”, e sono, a nostro modo di vedere, quelle più avvincenti, mentre la terza si
sofferma su due autori-maestri, come Camus e Pasolini, che hanno offerto un modello di sfida alle idee dominanti della modernità e che per questo vengono esaminati criticamente.
Mediterraneo si apre con un capitolo, Andare lenti, che ci offre un esempio
delle provocazioni alle quali abbiamo già accennato.
Si può fare, nel nostro mondo dai ritmi forsennati e vorticosi, in cui il tempo
è denaro, in cui la gente si affanna per produrre di più, per programmarsi una giornata sempre più densa e produttiva, un elogio della lentezza? Sono passati quasi
cento anni dal primo manifesto del Futurismo, ma Cassano non ha dubbi: “Bisogna
essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come
chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare
il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina”.6
6
Ibid., p. 13.
35
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
In una prosa che assume cadenze liriche, come non di rado avviene nella
produzione del Nostro, troviamo un’apologia di un modo di vivere che vuole andare al fondo delle cose, gustando il mondo in profondità. Non è un invito all’ozio
e al disinteresse, bensì uno stimolo a non diventare schiavi delle cose.
È uno dei temi più ricorrenti nel pensiero dello studioso, che in Modernizzare stanca ricorda che “La globalizzazione, di cui tanto si parla, non è che un’intensificazione del dominio della velocità su tutte le sfere della nostra esistenza”.7 Tutto
avviene ad un ritmo accelerato, rendendo lo stesso uomo vittima di un gigantesco
meccanismo che lo trasforma in un oggetto da usare e gettare, come un rifiuto.
Ecco, allora, l’importanza della lentezza, una delle più importanti “terapie”
appartenenti ancora alle culture cosiddette sconfitte, ed in particolare a quella meridionale. Di fronte all’ottundimento dell’uomo, la lentezza è un momento di respiro, una forma di difesa, una riappropriazione della propria vita da un meccanismo che per certi versi appare schopenhaueriano.
Non è mancato chi, sui giornali, ha ironizzato su questo tema, ricadendo, a
ben pensarci, nei soliti stereotipi, in visioni sterili ed oleografiche, quando non di
comodo. Un dato significativo è che le critiche sono giunte da meridionali come da
settentrionali, anzi, forse più dai primi che dagli altri.
In molti casi non è difficile scorgere il mero richiamo di un conformismo
meridionale dal fiato corto, che denota l’esistenza di antichi complessi d’inferiorità
e spera di salvarsi allineandosi acriticamente ai nuovi dogmi.
Da parte nostra riteniamo che se anche il “pensiero meridiano” si potesse
ridurre ad una semplice provocazione, esso avrebbe comunque colto nel segno,
illuminando errori, ipocrisie e ottimismi infondati.
Già molto tempo fa, d’altra parte, in una realtà tanto diversa dalla nostra, un
pensatore come Seneca ha difeso il valore dell’interiorità, soffermandosi sulla necessità di sfuggire alle mille distrazioni, anzi, ai “divertimenti”, per riprendere Pascal,
un altro pensatore ricordato più volte da Cassano, anche se per lo più per segnarne
la distanza.
La lentezza del Sud, nell’attuale fase storica, sostiene il sociologo, può essere
una risorsa, e dunque non va buttata via o sottovalutata.
Nell’Introduzione del libro del 1996 l’autore chiarisce preliminarmente che
“Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il
mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il
mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con
l’altro diventa difficile e vera”. 8
Nel secondo capitolo di Mediterraneo, Di terra e di mare, Cassano va proprio alle radici di questo pensiero, soffermandosi sul mondo greco, visto come culla
della civiltà.
7
8
Ibid., p. 42.
Ibid., pp. 5-6.
36
Francesco Giuliani
Laddove il mare si trasforma in oceano, senza più contatto con la riva, prevalgono lo sradicamento e il nichilismo, argomenta lo studioso; dove invece la terra
regna assoluta, si impone la chiusura sulle proprie radici, l’imperialismo aggressivo,
il fondamentalismo. L’equilibrio greco, frutto di un’armonia favorita dalle condizioni fisiche, è una preziosa eredità da attualizzare.
Si tratta di pagine interessanti, in cui le argomentazioni lasciano spazio a citazioni da pensatori del calibro di Heidegger e Nietzsche, e a riferimenti ad eroi sempreverdi come Ulisse, insieme avventuroso e desideroso di ritornare nella propria
isola, che si chiudono riaffermando la vocazione dell’uomo mediterraneo ad unire,
a costruire ponti e contatti.
Il Mediterraneo, insomma, non è solo un mare del passato e l’unico faro non
può provenire dalla modernizzazione occidentale. Il centro non è unico.
L’analisi controcorrente dello studioso diventa ancora più serrata e coinvolgente nella seconda parte del libro, Homo currens, che si apre con delle pagine suggestive sul tema del confine. È un quadro ampio, aperto a tutto il mondo, quello
che Cassano ci presenta, rimarcando che “Tutti noi siamo gettati nella grande religione universale della corsa, veniamo sradicati dalle nostre culture, abitudini, vizi e
siamo chiamati ai blocchi di partenza. Gli economisti sono i teorici dell’homo currens,
i medici sapienti che non si stancano mai di ripetere che per la nostra salute è necessario correre in ogni momento della giornata e in ogni momento della vita”.9
Ma il modello occidentale non è esportabile ovunque, questo Cassano ce lo
ha già detto, e le prove sono in molti dei fenomeni che caratterizzano i nostri tempi.
Di fronte all’estensione della modernità ci sono due tipi di risposte, entrambe segnate dal fallimento: da una parte, quella di chi si “prostituisce” di fronte al modello occidentale, provocando l’aumento del potere criminale, dell’economia illegale e
dei fenomeni di disgregazione sociale (e Cassano fa l’esempio del Brasile); dall’altra, c’è la risposta del fondamentalismo, che rifiuta in blocco i modelli esterni, con
tutte le conseguenze legate alla repressione, ai pregiudizi, alla mancanza di ogni
diritto civile (e anche in questo caso gli esempi potrebbero essere tantissimi, con in
testa i paesi musulmani). Mutuando la terminologia di Toynbee, Cassano parla di
“erodiani”, che prendono l’altro come modello, imitandolo, e di “zeloti”, che si
chiudono a riccio nella propria stretta identità.
Le eccezioni a questa duplice scelta sono davvero poche ed isolate, permettendo in ogni caso di trovare conferma alla regola generale, che delinea uno scenario inquietante, che purtroppo è sotto i nostri occhi e che ha trovato conferme
anche in eventi successivi al 1996. L’autore, in verità, non si abbandona a toni
apocalittici, ma non rinuncia a chiamare lucidamente le cose con il proprio nome,
lasciandoci delle pagine da meditare con attenzione.
La corsa dissennata in atto a livello mondiale provoca danni, si badi bene,
pure all’interno del mondo occidentale, togliendo protezioni e garanzie ai ceti più
deboli, smantellando i paracadute dello stato sociale in nome di un imperativo della
9
Ibid., p. 61.
37
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
vittoria che ignora le regole della partita doppia, riprendendo il titolo del volume
del 1993 (anche in questo caso ci sembra superfluo soffermarci sui tanti esempi dei
nostri tempi). È un processo di privatizzazione del mondo, che è sotto i nostri
occhi.
L’analisi di Cassano però non si ferma qui, trovando le sue conclusioni nel
quarto capitolo di questa seconda parte de Il pensiero meridiano, che si intitola, con
felice scelta, L’integralismo della corsa. Qui il Nostro, oltre a tirare le fila del discorso, indica anche l’unica strada necessaria per bloccare o almeno arginare questa
infezione mondiale che crea perdenti (sarà lo stesso tema, come vedremo, di
Modernizzare stanca).
In particolare, si ponga attenzione a questo passo:
[…] il dovere di ogni intellettuale è quello di condannare il terrorismo omicida
degli integralisti e di salvare tutte le voci che dall’interno di altre culture hanno
cercato un dialogo creativo con la nostra. Ma da solo questo atteggiamento è
insufficiente. L’Occidente può fare un passo decisivo contro l’integralismo altrui solo avviando la decostruzione del proprio, di quella camicia di forza imposta sia all’interno che al mondo intero instaurando la legge della corsa e della
competizione.10
Da una parte, dunque, c’è la condanna netta della violenza, dall’altra la consapevolezza che anche l’Occidente deve fare la propria parte. Quando ha scritto
questo passo Cassano ovviamente ignorava cosa sarebbe accaduto l’11 settembre
2001, ma proprio questi eventi dimostrano, in fondo, la necessità di una correzione
di marcia, o almeno di una riflessione a più voci capace di incidere sugli sviluppi
della realtà, senza cullarsi su fantomatici allori o sulla parzialità di certe aride cifre.
Di fronte a quanti pensano che tutto vada bene nel migliore dei mondi possibile,
bisogna far sentire alto il proprio dissenso.
Lo studioso chiude la sezione ponendo l’accento sull’esistenza di un altro
integralismo, questa volta occidentale, definito “freddo”, che usa strumenti diversi,
ma non è meno duro di quello delle altre culture (“Il nostro integralismo non assassina: rende obsoleti, licenzia, mette fuori mercato. Esso ha altri templi, altri breviari,
altre pene, altri inferni”).11
È la seconda faccia della medaglia, che non può essere ignorata, anche se c’è
chi vorrebbe nasconderla sotto i dati del PIL o della diffusione di computer ed
antenne paraboliche, sotto il fumo di una retorica adattata alle circostanze: “Solo
smascherando la repressione mimetizzata nell’integralismo freddo della competizione e nell’inquieta religione del possesso e del consumo il dialogo può tornare ad
essere paritario, può evitare che una cultura sia obbligata a scegliere tra la rinunzia
alla propria dignità e la demonizzazione dell’Altro”.12
10
Ibid., p. 77.
Ibid., p. 78.
12
Loc. cit.
11
38
Francesco Giuliani
L’analisi dunque va condotta in ogni direzione, all’esterno come all’interno,
alla ricerca dei mezzi più idonei per invertire la china.
Da questo quadro generale, in fondo, non è difficile ritornare indietro, a quell’orizzonte mediterraneo che ha dominato nella prima parte del libro, a quell’incontro di mare e terra che non rappresenta l’idillio, ma dove ci sono anche delle
risorse preziose, che in questa fase dello sviluppo possono essere utili alla modernità. È un ritorno mentale che permette di gustare con più forza il calore di quel mare
tra le terre, così centrale nella nostra storia.
La terza parte del libro, L’attrito del pensiero, può apparire, per certi aspetti,
meno coinvolgente, legata com’è dal filo rosso di due personaggi, del calibro di
Camus e Pasolini, visti come modelli di un pensiero estraneo al conformismo e agli
idoli della modernità. Ma è anche vero che Cassano non perde, neanche in queste
pagine, l’occasione per riaffermare le proprie convinzioni, pagando nel contempo il
suo tributo di ammirazione e di emulazione verso degli intellettuali coraggiosamente disposti a svolgere il proprio dovere, pagando di persona.
Particolarmente felice e sentito ci è sembrato il primo saggio, intitolato Albert
Camus: necessità del pensiero meridiano, dedicato al celebre autore de Lo straniero,
il cui nome si ritrova più volte nei testi di Cassano.
In Partita doppia, in particolare, c’è un capitolo, Santi e inquisitori, dove il
sociologo confessa la propria vicinanza a Camus e ai medici de La peste, che lottano
in un mondo impazzito, nel quale Dio non fa sentire la propria voce, tutto sembra
assurdo, ma nulla autorizza il disimpegno dalla lotta e dalla solidarietà verso il prossimo.
La santità dell’uomo, in una realtà segnata dal silenzio di Dio, è un tema
molto avvertito da Cassano. Non a caso anche nel saggio su Leopardi, Oltre il
nulla, e proprio nel finale, ricorrerà il nome del premio Nobel del 1957: “Si riapre la
strada per la grandezza: i migliori tra gli uomini sono, come i medici della Peste di
Camus, quelli che trasformano il sentimento della nostra fragilità in una battaglia
comune, che non trasferiscono l’odio sugli altri uomini, ma sanno trasformarlo in
solidarietà”.13
Non stupisce, pertanto, la presenza di Camus anche ne Il pensiero meridiano, con argomentazioni per molti versi simili, in cui si esprime ammirazione per il
nemico delle ideologie totalitarie, per il pensatore che aveva ben chiara l’esistenza
del senso del limite, senza folli sogni di onnipotenza, ma che non rinunciò alla sua
missione di uomo aggrappato fattivamente al suo grido di rivolta.
Il saggio prende le mosse da una citazione tratta dai Taccuini, “se Dio non
esiste, non è permesso nulla”,14 che nega ogni possibilità al nichilismo, in ognuna
delle sue versioni. L’uomo deve assumersi le sue responsabilità, senza finzioni e
furbizie.
13
14
Ibid., pp. 84-85.
Ibid., p. 81.
39
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
Cassano pone anche l’accento, per ovvi motivi, sui passi in cui lo scrittore
francese esalta il Mediterraneo, che ha addolcito il cristianesimo giudaico con la
componente ellenistica, che possiede il segreto della misura, dell’accordo tra l’uomo e la natura. “Il pensiero di Camus - si legge, in polemica con lo storicismo di
Hegel - va nella direzione opposta: il Midi si ribella all’Abend-land, a quella concezione che pretende che tutto culmini in quella terra della sera che è l’Occidente”.15
Lo scrittore francese, insomma, è un maestro non solo per la sua etica laica
della responsabilità, ma anche per le sue osservazioni sulla meridianità.
Cassano nel corso del saggio non si lascia sfuggire delle amare notazioni su di
un Sud che ha aumentato il suo reddito in maniera esponenziale, ma che appare,
malgrado tutto, più povero. Le ingiustizie e le esclusioni si sono solo trasformate,
mentre persino il mare e il sole stanno perdendo il loro carattere di bene pubblico
per diventare proprietà privata (“Più danaro, più recinti, più rabbia per le nuove
esclusioni: il sud si è venduto ma ha perso se stesso”).16
Anche da queste pagine viene fuori, com’è facile verificare, la necessità di
evitare una negativa replicazione del Nord.
Meno stringente ci sembra la presenza del saggio su Pasolini, più sfuocato
rispetto al cuore del “pensiero meridiano”, pur offrendo, ovviamente, una serie di
interessanti spunti critici.
Lo scritto riprende un lavoro apparso nel 1994 su «Democrazia e diritto». Il
titolo, Pier Paolo Pasolini: ossimoro di una vita, si propone di spiegare i motivi
dell’attualità del personaggio, che rivela, a vari anni dalla sua scomparsa, delle
profetiche doti di osservatore e di indagatore della società, da fermo nemico delle
ovvietà dei suoi tempi.
Cassano pone l’accento sulla vitalità delle sue contraddizioni, sul suo spirito
di polemista portato a spezzare fronti, a smentire previsioni, a suscitare clamori, la
cui eco non si è ancora spenta.
Uno spirito libero ed inquieto, un modello nella sua singolarità, di cui si
cerca di offrire un ritratto a tutto tondo, a partire dal cruciale rapporto tra colpa e
omosessualità. Nel terzo paragrafo, in particolare, La diversità della diversità di
Pasolini, si ricorda, con opportune precisazioni, la sua estraneità alla cultura gay:
“L’ossimoro pasoliniano è invece inchiodato sulla convinzione che la diversità debba proprio al suo carico di scandalo, sofferenza e contraddizione la possibilità di
una parola sul mondo capace di raggiungere l’umanità di tutti, debba alla sua straordinaria e “patologica” dipendenza dall’ “altro” una capacità di parlare non destinata al solo universo omosessuale”.17
Nelle pagine successive ritroviamo il suo rifiuto dell’umorismo in nome della passione, il suo difficile rapporto con il padre, lo scontro con le convenzioni, le
tradizioni e le autorità, il suo legame con il sacro: il tutto sempre letto sulla base di
15
Ibid., p. 92.
Ibid., p. 100.
17
Ibid., p. 115.
16
40
Francesco Giuliani
quella vitale contraddizione, di quell’ossimoro assunto come tema dominante nell’indagine sulla vita di un uomo coraggioso e acutamente polemico, il cui messaggio
contiene per Cassano ancora molte gemme da valorizzare.
Il pensiero meridiano è, nel complesso, un libro denso di analisi, di riflessioni, di slanci sentimentali, ma anche di proposta di modelli, che ha saputo offrire una
consapevolezza ed una inedita ed ariosa base di discussione, in una realtà nella quale non abbondano i veri punti di orientamento, capaci di reggere all’entusiasmo del
momento.
3. L’Italia debole ma forte
Nel 1998 Cassano dà alle stampe Paeninsula, che reca come sottotitolo L’Italia
da ritrovare. Si tratta di un testo che si pone nella scia de Il pensiero meridiano, di
cui riprende gli assi portanti, anticipando alcuni spunti che saranno ripresi e sviluppati in Modernizzare stanca.
Rispetto ai due libri appena citati, Paeninsula rappresenta un lavoro più agile e
meno complesso, di poco meno di cento pagine di piccolo formato, inserito nella collana dei Saggi tascabili della Laterza, ma non per questo privo di interesse. Tutt’altro.
Cassano, di cui abbiamo già ricordato la scarsa propensione per una scrittura
fluviale e ridondante, a favore di una dimensione saggistica, pone in primo piano la
nostra nazione, scegliendo, come al solito, un punto di vista inusuale, che lo porta a
conclusioni gravide di interesse. Qual è il futuro dell’Italia nel nuovo contesto europeo ed internazionale? Esiste la possibilità di recuperare il lato valido del suo
passato, attualizzandolo e valorizzandolo?
Il tema dell’identità italiana ha stimolato nel tempo autorevoli analisi (si pensi solo a quelle di Leopardi e Machiavelli), giunte alle più diverse conclusioni, numerose delle quali registrate da Cassano, a partire dalla definizione, poco lusinghiera, di “espressione geografica” data dal Metternich.
L’Italia è senza dubbio la nazione più propensa a denigrarsi, più incline a
sottostimarsi, ad invidiare le altre realtà statali. Lo studioso si guarda bene dal negare questo dato di fatto, parlando di “identità debole”,18 ma il suo punto di partenza
è altrettanto chiaro: “essere italiani non è una disgrazia, un errore da riparare. L’italiano non possiede solo difetti ma, spesso come loro controfaccia, anche qualità,
che occorre saper riconoscere con intelligenza ed equilibrio”.19
Una nazione del genere è infatti lontana dai fondamentalismi, dagli eccessi,
dal potere disumano e spietato, dalla chiusura secca alle ragioni degli altri. Per questo motivo, l’Italia, nell’attuale fase storica, può ritagliarsi un suo ruolo come nazione ponte, come cuore mediterraneo di un’Europa che ha bisogno di scendere
sempre più giù, verso le rive bagnate dal sole. È una tesi già presente nel testo del
18
19
Franco CASSANO, Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. V.
Loc. cit.
41
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
1996, ma che ora assume rilievo dominante, fungendo da leit-motiv per un viaggio
tra storia ed attualità.
Il ruolo dell’Italia risalta in modo ancor più vivido se si pensa al fallimento di
quanti, nel corso del tempo, da D’Azeglio a Mussolini, da De Sanctis a Gramsci,
hanno provato, in vari modi, a fare gli italiani, con in mente modelli inadatti, senza
immaginare che i limiti potevano diventare dei punti di forza. “L’Italia - si leggepotrà esistere e non solo resistere se saprà reinterpretare creativamente il proprio
nazionalismo debole, trasformarlo nella capacità di costruire legami al di là delle
appartenenze di fede o di lingua, in una solidarietà che scatta di fronte alla semplice
precarietà e nudità della condizione umana”.20
Nelle pagine che lo studioso dedica alla forma fisica dell’Italia troviamo confermata la grande attenzione assegnata ai condizionamenti geografici, alle peculiarità del territorio, che invece oggi si tendono sempre più ad ignorare, in nome di
una modernità in grado di superare ogni limite. Seguiremo ancora questo discorso
nel saggio su Leopardi, ma intanto segnaliamo la cura nel definire le conseguenze
della forma peninsulare, che porta ad una duplice infedeltà, rispetto alla terra ed al
mare. La “geofilosofia dell’Italia”21 per Cassano è ricca di aspetti interessanti, che
possono dare risposta a molti quesiti.
Il capitolo più acuto del libro ci sembra L’anima italiana, attraversato da un
non facile lavoro di sintesi, ma anche di proposta di personaggi emblematici, tratti
dal nostro patrimonio comune. Oltre che dell’amato Leopardi, Cassano si ricorda
di Boccaccio, contrapponendolo a Pascal e al suo severo giansenismo.
La gioia del Decamerone non può essere mai intesa a fondo senza ricordare
l’esistenza del flagello della peste, del negativo al quale reagiscono i dieci giovani
della brigata. Quella dei personaggi dell’opera non è una fuga, ma un modo per
celebrare con intensità la forza della vita. La villa risuonante di canti e racconti nel
mezzo della tragica epidemia viene accostata alla celebre ginestra minacciata dalla
lava del Vesuvio.
È uno schema che, nella sua sostanza, Cassano utilizza altre volte (ad esempio a proposito di Camus), arrivando ad una conclusione che lascia pensare, anche
se non la si volesse condividere in toto: “L’anima italiana sa che l’universo non è
stato creato per l’uomo, ma sa anche che conviene rappresentarlo nel modo contrario, come se esso fosse stato fatto per l’uomo”.22
Lo studioso lavora, pertanto, sulla dolcezza italiana, sul dominio del ruolo
della madre nella nostra cultura, definendo sempre più l’idea. La finzione, tra gli
estremi del cinismo e dell’illusione, spinge tutti, quando c’è equilibrio, a “recitare le
loro parti migliori, incoraggiando quella lieve esagerazione dei sentimenti che fa
sentire meno soli di fronte alla morte”.23
20
Ibid., p. VII.
Ibid., p. 3.
22
Ibid., p. 17.
23
Ibid., p. 22.
21
42
Francesco Giuliani
Il “come se”, insomma, è una buona terapia contro il negativo del mondo,
trasformandolo in forza attiva, pur senza poter annullare la realtà stessa, e di questo
bisogna essere consapevoli.
Che l’anima italiana sia distante da quella germanica, che in certi momenti
funge da ideale contraltare, pur senza vis polemica, appare evidente anche pensando al senso dell’ironia e dell’autoironia, che trova un punto di riferimento in un’altra sfera, quella teatrale, con il personaggio di Totò. L’abbondanza dei riferimenti,
che inglobano anche l’ambito cinematografico, ci permette di rimarcare una volta
di più la capacità di Cassano di spaziare a trecentosessanta gradi, con naturalezza e
senza presunzione accademica.
Il richiamo ad un “rapporto morbido” con la vita si ritrova pure nel capitolo
successivo, Una tradizione da reinventare, con il suo richiamo alla forza della fantasia, dell’immaginazione, della creatività, per riscoprire, attualizzare e valorizzare
la tradizione italiana. Un discorso che ha come corollario il rifiuto “dell’idea
depressiva che il meglio sia alle spalle e ci si trovi di fronte solo a repliche scadenti in
un inarrestabile involgarimento del mondo”.24 Un invito chiaro, dunque, rivolto
alle giovani generazioni, “a mettersi in gioco”, senza falsi alibi.
Nelle pagine di Sapere cardinale, invece, il quadro si amplia ad una dimensione
planetaria, che coinvolge i popoli di tutta la terra, seguendo lo schema di una divisione ispirata dalla bussola, dal nord al sud. I quattro punti cardinali sono anche all’interno di ogni uomo, nota Cassano, e dunque l’orizzonte diventa più complesso.
In ogni caso, lo studioso spezza una lancia a favore del riequilibrio delle culture, ricordando i danni prodotti dalla dismisura, dal prevalere del nord e dell’ovest.
È un tema che troverà una sua più organica sistemazione in Modernizzare stanca, e
non a caso il paragrafo La conquista del centro di Paeninsula sarà in gran parte
riproposto proprio nel volume del 2001, nel brano Equilibri cardinali, che è l’ultimo dell’opera.
Da quest’elogio di una diversità messa duramente in crisi il discorso si sposta, in Provaci ancora, Sud, a quello che è forse il capitolo più animato da una confidente fiducia nel futuro prossimo.
La situazione storica offre l’occasione, per dirla con un termine machiavelliano
(e proprio il modello dell’ultimo capitolo del Principe sembra ora operante, con le
sue suggestioni, in Cassano), per una vera crescita, garantita dalla felice situazione
geografica dell’Italia, ma anche dal sorgere di una nuova classe dirigente, che ha il
suo simbolo nei nuovi amministratori dell’era del maggioritario.
Spesso è stato evidenziato il problema della debolezza della tradizione civica
nel Sud, e il rilievo è sensato per l’autore, che spera nella possibilità di inserire la
“ricostruzione delle identità locali”25 in un saldo quadro di riferimento nazionale.
L’autonomia dal potere centrale non deve travalicare dai giusti limiti, e per questo
24
25
Ibid., p. 39.
Ibid., p. 67.
43
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
motivo Cassano boccia severamente, parlando di “razzismo ben temperato”,26 la
proposta del senatore Miglio di qualche anno fa, favorevole ad una tripartizione
dell’Italia in macroregioni.
Troviamo qui una conferma della distanza tra certe formulazioni leghiste e
l’apertura che intende darsi il “pensiero meridiano”. Va anche chiarito, d’altra parte, che nella mente del sociologo la dimensione mediterranea dell’Italia porta con sé
la revisione di certe linee della tradizionale politica estera nazionale.
L’ultima considerazione del capitolo è di natura più specificamente culturale,
vedendo il Sud d’Italia in armonia con i caratteri dell’epoca postmoderna, che ha
bruciato tante concezioni della storia e tante illusioni ideologiche. Dunque anche
da questo punto di vista ci sono le premesse necessarie per un’idea di sviluppo che
va senz’indugio riempita di contenuti.
Aggiunge poco ai concetti finora ricordati la sezione successiva, L’Europa e il
pensiero meridiano, che funge da ricapitolazione del quadro generale, sia storico che
geografico. Ritroviamo il riferimento ai greci, al mare, alla nascita della filosofia, alla
condanna della “dismisura”, alla necessità che ha l’Europa di scendere fino alle rive
del Mediterraneo. Le argomentazioni portano lo studioso a ribadire un caloroso invito: “Riscoprire il sud, il Mediterraneo, ricondurre a valore il suo innato politeismo,
il sapore di una misura che ci viene da questa antica destinazione all’incrocio delle
genti, questo oggi è possibile, l’unica cosa giusta. Qui e non solo qui”.27
È questo il vero finale saggistico di Paeninsula, che presenta ancora le sei
pagine di Italia-Italiae, una sorta di scanzonata ballata sui tanti volti della nostra
nazione. Un modo per congedarsi con quel sorriso autoironico, che vuol essere un
segno di saggezza.
Le intenzioni di Cassano ci sembrano chiare, anche se nutriamo qualche dubbio sull’opportunità di una tale scelta.
Ogni verso si apre con il nome dell’Italia, aggiungendovi una definizione che
ne evidenzia uno dei tanti e contradditori volti. L’Italia è tutto ed il contrario di
tutto, è “donna” e “madonna”, ma in questa presunta ed apparente debolezza è
forte e preziosa, come sappiamo e come l’autore ha dimostrato nei vari capitoli del
libro, con il suo gusto degli sguardi e delle argomentazioni inconsueti.
La ballata si chiude così:
…l’Italia che vuole vivere,
l’Italia che dimentica,
l’Italia che la sa lunga,
l’Italia che frana a valle,
l’Italia che tocca con mano,
l’Italia tarallucci e vino,
l’Italia che riscopri,
26
27
Ibid., p. 68.
Ibid., p. 90.
44
Francesco Giuliani
l’Italia che ti sorprende,
l’Italia che ti vergogni,
l’Italia che ci è invidiata,
l’Italia che se ne frega,
l’Italia che non è una sola,
l’Italia che meno male.28
L’ultimo verso è eloquente e segna il logico epilogo del “divertimento” di
Cassano.
Nel complesso, Paeninsula non nasconde qualche “stiracchiamento” atto a
far rientrare il lavoro nella dimensione di libro, pur apparendo una tappa logica nel
cammino del suo autore. Il tema, che conosce momenti di straordinaria intensità,
come nelle pagine di L’anima italiana, lascia spazio anche a momenti di dispersione
e di calo di tensione, motivo per cui l’opera, pur nel suo indubbio interesse, ci sembra meno felice rispetto a Il pensiero meridiano e a Modernizzare stanca.
4. Il difficile equilibrio
Modernizzare stanca29 racchiude testi apparsi su «Avvenire» e «L’Unità»,
due quotidiani evidentemente diversi, per idee, lettori e tradizioni storiche, ad ulteriore conferma della posizione dell’autore, che ama spezzare i fronti; a questi brani
giornalistici, egli affianca alcune altre pagine inedite, con felice scelta.
Ne viene fuori un testo di 173 pagine, una sorta di breviario laico (ma offerto
sin dall’inizio anche ai lettori cattolici, confidando nella comune sensibilità ai temi
etici) da assaporare un po’ alla volta, riflettendo sulle due paginette circa che formano
i singoli contributi. In questo libro trovano una organica e più matura collocazione
tutti i temi del pensiero di Cassano seguiti attraverso Il pensiero meridiano e Paeninsula,
con uno sforzo di decantazione e di chiarezza senz’altro coronato dal successo.
È un lavoro di grande leggibilità, che ha il merito di amplificare le doti di
scrittore dell’autore, ben distante dall’immagine del sociologo incendiario, abile a
vendere fumo, o del propagandista del vuoto, usando magari a sproposito parole
tecniche o difficili; ma il Nostro, al contrario, non è neanche un personaggio che
riesce a far credere che le banalità siano succhi concentrati di sapienza, da vendere al
miglior offerente.
In queste prose, nate nell’arco di un triennio, Cassano riesce ad essere, insieme, semplice e profondo, esauriente ed originale, acuto e capace di far sentire il suo
palpito al lettore. Una cordialità che si apprezza e si desidera, anche, anzi soprattutto, quando non si condividono tutte le opinioni espresse.
28
29
Ibid., p. 96.
Franco CASSANO, Modernizzare stanca, Bologna, il Mulino, 2001.
45
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
Modernizzare stanca, che ha come sottotitolo Perdere tempo, guadagnare tempo, è articolato in sei sezioni, che disegnano un cammino in cui l’analisi riesce a lasciare spazio anche ai consigli concreti, ai suggerimenti da mettere immediatamente in
pratica. Più precisamente, possiamo riconoscere una divisione in due parti uguali,
ognuna di tre capitoli, concluse, rispettivamente, da Piccole salvezze e da Terapie.
Il tutto, poi, è preceduto da una lucida Premessa, L’equilibrio e la modernità,
che focalizza, con le già evidenziate qualità di sintesi, la posizione dell’autore, sempre attento non ad una mera critica distruttiva, ma ad illuminare i due lati della
proverbiale medaglia; non per questo, però, egli vuole praticare sconti a quello che
è l’obiettivo polemico per eccellenza del libro, ossia “la mitologia della modernità”.30 È l’idea, sempre più forte e radicata, per cui la civiltà nord-occidentale pensa
di poter risolvere i problemi del nostro pianeta modernizzando, imponendo la propria visione e i propri metodi su tutte le altre culture. Un grave errore, come sappiamo, che non favorisce la risoluzione dei problemi, bensì “allarga progressivamente
le legioni degli sradicati, moltiplica le forme del risentimento, gli integralismi reattivi”.31
Il titolo del libro, dunque, richiama proprio questa situazione di disagio prodotta dalla modernizzazione.
La soluzione, com’è noto, per quanto non agevole, è legata all’equilibrio tra
le culture del sud e dell’est con quelle attualmente vincenti.
Il confronto può nascere solo dal dialogo, dall’incontro in quelle Terre di
nessuno (è questo il titolo della prima sezione del libro), dov’è possibile imparare
tanto, abbattendo i muri che ci separano dagli altri. Si tratta di pagine da gustare,
ricche di un antimodernismo intriso di umanità, di un vivo rapporto con la realtà,
ma anche di un afflato ideale che non deve mai spegnersi.
Nell’articolo Antipodi l’autore chiarisce, a scanso di equivoci, che confronto
non significa recidere le proprie radici (“Non si tratta di rinnegarle, ma solo di non
murare tutta la vita nella ripetizione passiva di ciò che esse insegnano, di evitare di
diventare i bigotti della nostra tradizione”).32 Tutto va inteso con il proverbiale
granello di sale.
L’uomo, evidenzia Cassano, escludendo dal suo orizzonte Dio ha assunto
una precisa responsabilità; ma il mondo è ancora pieno di dogmi, per quanto laici: è
il caso della triade “competizione-innovazione-progresso”,33 che occulta la verità e
che i sacerdoti del modello culturale occidentale difendono con ogni mezzo.
C’è poi il dogma della velocità, già al centro delle belle pagine di Andare
lenti, ne Il pensiero meridiano (si veda il secondo paragrafo di questo nostro saggio), sul quale Cassano concentra ora i propri attacchi nella seconda sezione di
Modernizzare stanca, Ossessioni.
30
Ibid., p. 7.
Ibid., p. 8.
32
Ibid., p. 18.
33
Ibid., p. 16.
31
46
Francesco Giuliani
È una parte ricca di brani interessanti e vivaci, forse i più densi e problematici
di tutti, in cui persino fatti ed eventi apparentemente secondari e privi di senso
vengono illuminati da una luce nuova, che sorprende. Sono scomparsi i telefoni
pubblici, ad esempio, di fronte all’avanzata dei cellulari, e questo è un dato positivo, ma Cassano inquadra il cambiamento nell’ambito di un fenomeno più generale,
“l’irresistibile tendenza verso la scomparsa dei beni pubblici”,34 e il lettore attento
non può non fermarsi a considerare l’emergere dell’ennesimo risvolto negativo.
L’affermarsi, in forme sempre più radicali ed aggressive, dell’individualismo
porta i cosiddetti vincitori a concepire egoisticamente il proprio benessere, senza
badare ai costi, disinteressandosi dell’utilità generale. Si tratta di una denuncia che
abbiamo già incontrato nel volume laterziano del 1996, dove si lamentava la rapida
scomparsa di tutto ciò che è collettivo, un processo che non produce nulla di positivo e che non si può certo giustificare, come vorrebbero alcuni, come forma di
sacrosanta reazione al crollo del socialismo reale. Un eccesso non può essere la
giusta risposta ad uno di carattere opposto.
Riflettendo con calma (non a caso il sottotitolo del libro è Perdere tempo,
guadagnare tempo) diamo un giusto valore alle cose, riprendiamo il dominio di noi
stessi, assumiamo anche un buon rapporto con il senso del limite, che ci aiuta a
comprendere e ad accettare con minore difficoltà una triste verità: la scienza ha
aumentato la durata della vita dell’uomo, la tecnica lo ha reso più potente, ma la
morte è sempre lì a ricordarci la nostra finitezza, come notò un secolo fa Giovanni
Pascoli.
A ben pensarci, il prezzo pagato dall’uomo, privato per giunta delle consolazioni oltremondane del passato, è stato finora altissimo. A suo tempo, nota Cassano,
la scelta è caduta su Cartesio ai danni di Montaigne; ora l’attenzione al senso del
limite è l’unico palliativo rimasto.
Segnaliamo, tra gli altri, il brano La libertà vista di spalle, dove si parte da un
pregnante riferimento al buzzatiano Deserto dei tartari, che rinvia all’inesorabile e
subdolo passare del tempo, per chiudere con un accorato appello a riscoprire il
valore del legame con gli uomini.
Lo scrittore, nel complesso, smonta lucidamente, tassello dopo tassello, i fondamenti della modernità, avendo cura di chiarire i termini della sua critica.
Il linguaggio chiaro e pregnante fa appello alla componente razionale del lettore, ma non solo ad essa. L’arco di Cassano ha infatti numerose frecce a disposizione, e lo dimostra la sezione Piccole salvezze, dove risuonano note più liriche,
dove si gusta quella poesia delle piccole cose, dai toni vagamente crepuscolari, che
trasporta la pagina dalla saggistica verso le terre della letteratura.
La fuga può essere più semplice di quanto sembra in un primo momento;
basta liberarsi dal vortice per riassaporare il gusto della provincia, dove sono nati i
grandi poeti (e Cassano, oltre al solito Leopardi, cita Fellini, sacerdote della decima
34
Ibid., p. 53.
47
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
musa), dove nascono le idee, anche se in apparenza la bilancia sembra pendere a
favore delle città.
La salvezza può venire, altresì, dalla nostalgia, dal silenzio, dall’osservazione
degli altri esseri, che ci spinge ad apprezzare le qualità del cane, visto come un “essere profondamente religioso”,35 con la sua grande fiducia negli uomini.
Il brano più bello e riuscito, dal punto di vista artistico, ci sembra Ci sono
giorni, che apre la sezione di cui ci stiamo occupando. Qui la viva e acuta curiosità
verso tutti gli aspetti del reale si esprime utilizzando una prosa poetica ricca di
enumerazioni, sostenuta da un vistoso, quasi martellante, uso dell’anafora (Ci sono
giorni/ Ci sono i giorni).
Si pensi, per esempio, a questo brano:
Ci sono giorni di altri che una volta erano anche i tuoi e che adesso non sono
più nel tuo calendario, giorni che non ritornano. Ci sono giorni burrasca, che ti
sorprendono al largo mentre stai facendo le solite cose e devi pregare per riuscire a tornare. Ci sono i giorni più duri, bui anche a mezzogiorno, degli strappi improvvisi, quelli dei congedi definitivi, delle cose che non puoi cambiare, i
giorni in cui paghi tutto e con gli interessi, quelli in cui una fitta che avevi
dimenticato torna a farsi sentire. Ci sono i giorni che si sciolgono al sole: sono
belli al mattino, ma poi non accade nulla. Ci sono i giorni-destino, in cui tutto
ti accade e tu non hai scelto nulla, i giorni che decidono anche per quelli successivi senza averli consultati. Ci sono i giorni tagliati in due, quelli in cui devi
strapparti via mentre vorresti rimanere oppure riesci a passare tra le sbarre e sei
libero all’aperto. Ci sono i giorni in cui voli leggero ad alta quota e quelli in cui
anche camminare stanca, giorni da giovani e giorni da vecchi.36
L’anafora scandisce la varietà dell’esistenza, fino alla malinconica conclusione, all’amaro succo della consapevolezza della fine: “C’è un giorno in cui ti accorgi
che una vita è una successione di giorni diversi, una collezione di fotografie che
lascerai ad altri nella speranza che ne conservino qualcuna”.37
Anche Piccolo grande epos ha un finale dolente ed ispirato, dopo aver descritto la varietà di cose e di uomini che scorrono davanti agli occhi di un passeggero seduto nello scompartimento di un treno. Il tempo necessario per giungere a
destinazione non è speso invano, anzi, rappresenta un momento prezioso per acquisire consapevolezza della propria vita, che passa rapida e leggera come le immagini viste durante il viaggio.
Enumerazioni ed anafore ricorrono altre volte nel libro (ad esempio, nella
stessa sezione, in Le città visibili: esercizi spirituali per viaggiatori), sempre con
effetti felici, variando, con queste accensioni di lirismo, il panorama del libro. Le
Piccole salvezze non sono poi tanto piccole!
35
Ibid., p. 89.
Ibid., pp. 67-68.
37
Ibid., p. 68.
36
48
Francesco Giuliani
Più legati alla politica e all’attualità appaiono gli undici brani che formano
Storie comuni. I primi articoli si collegano al dibattito che ha fatto seguito all’epocale
crollo del socialismo reale e alla fine del timore della rivoluzione del popolo. Cassano
prende posizione contro il ridimensionamento dei diritti sociali, chiedendo alla
politica più entusiasmo, più passione, ben al di là dell’interesse individuale e del
protagonismo spicciolo.
Una similitudine ci ha colpito su tutte per la sua assiomatica evidenza: “I
politici sono un po’ come i professori, non possono trasmettere l’amore per una
poesia se non fanno vedere ai ragazzi senza pudore il loro amore. Se non si fa vedere
la propria passione, non la si riesce a trasmettere agli altri. I movimenti nascono
dalle commozioni”.38 Un pensiero limpido, che non ammette troppe disquisizioni
e che gireremmo volentieri a quanti pensano che la scuola possa cambiare attraverso parole alla moda o alchimie gattopardesche.
Il mondo ha bisogno di persone che esprimono quel che sentono nel cuore,
venendo messe nelle condizioni di farlo.
Si noti, in La sinistra e il papa, come la visuale laica dell’autore non gli impedisca
di riconoscere i meriti del pontefice da poco scomparso, che brillano nei confronti di
certo laicismo poco accorto e cieco, per niente disposto a correzioni di rotta. Giovanni
Paolo II è la più grande dimostrazione di un occidente che non si identifica con il consumismo, i potentati economici ed il militarismo, e dunque si tratta di un punto sul
quale fare leva, nella convinzione che la battaglia non è irrimediabilmente perduta.
Particolare attenzione merita l’ultimo brano della sezione, L’immortalità del
cretino, contro i profeti del verbo liberista, ma soprattutto contro coloro che sono
pronti a diffamare ed a screditare i nemici della modernità. Un discorso che coinvolge direttamente l’autore, com’è facile comprendere, ma che pone anche una più
generale questione di metodo: se qualcuno chiede di capire, non gli si può rispondere invocando una cieca obbedienza o passando sul piano delle offese. È un concetto apparentemente scontato, ma che nella vita quotidiana si dimentica facilmente, specie in certi ambiti intellettuali. Il re può essere nudo e qualcuno, magari l’ultimo della classe, potrebbe ricordarcelo.
Che certe idee siano trasversali, poi, si può notare dalle pagine della quinta
sezione, Ri-orientamenti, correzioni di rotta, dedicate al processo europeo. Anche
nella costruzione della grande casa europea, sottolinea Cassano, viene applicato il
solito schema, che vede la civiltà moderna risiedere a nord, tra i popoli germanici,
mentre a Sud ci sono solo persone da incivilire, da “normalizzare”.
L’Italia ha sempre recitato la parte della parente povera, che deve entrare in
Europa, magari in punta di piedi e recitando un mea culpa, mentre le altre nazioni
già ci sono e possono svolgere il ruolo di giudici inflessibili. La posizione mediterranea della nostra nazione viene vista solo come problema, come fastidiosa vicinanza con l’Africa e l’Asia.
38
Ibid., p. 108.
49
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
Questa concezione è errata e pericolosa. “L’Europa - scrive il Nostro - non
riuscirà mai a camminare se si amputerà del suo sud, se non riuscirà ad immettere
nella sua logica di movimento accanto all’ascetismo dei governatori delle banche
centrali un’idea della buona vita, il suo distendersi al sole”.39
Si tratta di un’affermazione che suggerisce una visuale molto più aperta e
sensata, nell’ambito della quale anche le carenze e le contraddizioni degli italiani si
trasformano in pregi, come abbiamo visto in Paeninsula. L’et et può essere più proficuo di certi teutonici aut aut.
Il che non significa che tutto vada bene da noi, ovviamente, ma nemmeno si
può affermare che l’Italia (e, a maggior ragione, nell’ambito della nazione, il Sud)
sia solo una periferia di Bruxelles.
I pregi del Meridione, d’altra parte, salgono in primo piano, come già anticipato, nelle ultime pagine, quelle di Terapie, dove abbondano nuovamente i momenti lirici. Nel brano d’apertura, Passeggiare non stanca, troviamo un elogio del
contatto con la strada e con il prossimo. “Passeggiare - si legge - è un’arte povera,
un far niente pieno di cose, il piacere di scrivere una pagina bianca, una risacca dolce
della nostra vita minima”.40 La conclusione segna ancora una volta la sua distanza
dal pensiero di Pascal: “Diceva Pascal che tutti i guai dell’uomo derivano dal fatto
che non è capace di stare da solo tra quattro mura. Per noi invece nascono dal fatto
che non scende in strada per passeggiare”.41
E che dire del gusto della pausa, della pennichella? Oggi persino i manager
più agguerriti e produttivi stanno scoprendo che perder tempo è un modo per guadagnarlo, proprio come, aggiungiamo noi, da un po’ di tempo i medici e gli studiosi
di alimentazione hanno riscoperto i pregi della dieta mediterranea, accusata a lungo
di essere un relitto dell’atavica e gretta civiltà contadina, di fronte all’avanzata dei
Mc’Donalds.
Perché allora la modernità deve privarsi di queste qualità? Perché deve seguire una frenetica ed insensata velocità, che trasforma gli essere viventi in automi?
Sono questi i quesiti posti da Cassano, con un duplice, prezioso risultato: da una
parte, fornisce ai meridionali di tutto il mondo, che sono tanti, la consapevolezza
che non è adeguandosi a modelli estrinseci che si risolvono i problemi di fondo;
dall’altra, invita proprio i “vincitori” a piegarsi di più sulle ragioni degli altri.
Il “pensiero meridiano” fa risaltare i suoi pregi proprio perché mette in discussione i presunti assiomi, impone l’assunzione di altri punti di vista, restando
lontano dall’essere un mero strumento di difesa dello status quo meridionale. I
talebani, più o meno interessati, non sono solo i sacerdoti laici della tecnologia
nordista, ma anche quelli che pensano che tutto vada bene nelle terre del sole, per
perpetuare privilegi ed ingiustizie.
39
Ibid., p. 126.
Ibid., p. 150.
41
Ibid., p. 151.
40
50
Francesco Giuliani
Lo scrittore riassume le sue ragioni negli ultimi due paragrafi del libro, Fratelli del sombrero, ricco della poesia di un Sud che sfugge alle due alternative, apparentemente draconiane, della fuga sdegnosa e della trasformazione in Nord, ed Equilibri cardinali, elogio della diversità tra gli uomini, che si chiude con l’anelito a
cercare un’armonia che possa rendere il mondo più giusto e tranquillo.
Modernizzare stanca, insomma, con la sua equilibrata posizione di critica
della modernità, va gustato a piccole dosi e tenuto a portata di mano, per rileggerlo,
a distanza di tempo.
Il volumetto, ricordandoci che la questione meridionale, ben lungi da certe
grette impostazioni in chiave leghista, non è più un problema di rapporto tra regioni dell’Italia continentale e dell’ex Regno di Napoli, ma ha assunto una rilevanza
mondiale, è un testo laico nel senso più alto del termine, ossia che riesce a parlare a
tutti, che si può centellinare ed apprezzare anche se non si condividono le posizioni
di partenza o non tutte le soluzioni. Non è poco per un libro!
5. Leopardi: dai massimi ai minimi sistemi
Dopo Modernizzare stanca Cassano è ritornato in libreria nel 2003 con un
testo incentrato sul grande poeta di Recanati, Oltre il nulla. Studio su Giacomo
Leopardi.42
Si tratta di un cambiamento che può inizialmente disorientare il lettore, ma
dopo lo sconcerto iniziale ci si accorge che anche questo lavoro presenta un’indubbia aria di famiglia. Chi lo legge dopo aver familiarizzato con i capisaldi del “pensiero meridiano”, infatti, finirà, benché l’argomento non manchi di un’intrinseca
difficoltà e complessità, per scorgervi la presenza dei temi più cari al professore.
Anche stavolta, poi, si tratta di un lavoro di dimensioni contenute, poco più
di novanta pagine, di piccolo formato, ma ricche di argomentazioni e di motivi di
interesse.
Leopardi è un autore che sta conoscendo una sempre crescente fortuna critica. Dopo Dante, è ormai lo scrittore più studiato in Italia, mentre all’estero aumentano in modo costante i segnali di attenzione verso la sua opera, rendendola sempre
più nota, sia nella lingua originale che attraverso le traduzioni.
Una tendenza rafforzata di recente da due ricorrenze, il centocinquantenario
della morte, nel 1987, e il bicentenario della nascita, nel 1998, che hanno offerto
ovunque l’occasione per manifestazioni, giornate di studio e pubblicazioni di notevole livello. Un’esplosione di attenzioni che qualche vecchio leopardista ha accolto
con malcelato disappunto, ma che evidentemente non può che rappresentare un
dato positivo, di cui tenere conto.
Leopardi nel tempo è stato capace di attrarre le attenzioni di numerosi stu-
42
Franco CASSANO, Oltre il nulla. Studio su Giacomo Leopardi, Roma-Bari, Laterza, 2003.
51
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
diosi, italianisti, ma anche filosofi, storici e scienziati, attratti dallo spessore e dalla
poliedricità del genio del Recanatese.
Il pensiero di Giacomo, in particolare, con la sua maturazione e le sue
comprensibili oscillazioni, è una miniera di osservazioni e spunti per saggi che ne
fanno risaltare la profondità e la significatività, ma è anche un terreno di scontro,
intellettuale, s’intende, viste le diverse conclusioni alle quali sono giunti i vari e
spesso autorevoli interpreti.
Un terreno da tastare con attenzione, ma forse proprio per questo ancor più
stimolante, nel quale si è inserito Cassano, con un saggio tutto giocato sulla quasi
profetica attualità di Leopardi, sulla sua capacità di parlare alla nostra razionale e
tormentata epoca, che ha bruciato per sempre le illusioni degli antichi.
Giacomo, così, rivela i pregi del suo pensiero ad uno studioso che si china a
sviscerarne gli aspetti, riconoscendo le sue ragioni e cogliendo il destro per completare la disamina con le proprie posizioni.
Se proprio vogliamo trovare una pecca in questo lavoro, è proprio in questa
simbiosi tra Leopardi e Cassano, che talvolta non lascia distinguere dove finisce
l’uno ed inizia l’altro; ma in generale si tratta di un lavoro di notevole rilievo e ben
caratterizzato.
Il Leopardi affrontato dal Nostro è soprattutto quello dello Zibaldone, il
frutto di un uomo che si interroga sui perché della vita, stendendo nel corso degli
anni un ponderoso “scartafaccio”; ma nel finale del saggio si accampa al centro
della scena anche La ginestra, l’ultimo approdo di Giacomo, la poesia ricordata in
un passo di Modernizzare stanca, nell’articolo La libertà vista di spalle, che vale la
pena di richiamare:
Se non vogliamo consegnare i giovani a una solitudine insostenibile, dobbiamo
ripensare il valore del legame con gli altri. La morte, anche da sola, è già abbastanza potente: non si capisce perché noi le allarghiamo gli spazi procedendo in
ordine sparso verso di essa. Solo la nostra capacità di legarci in quella che Giacomo Leopardi chiamava “social catena” potrebbe attutire lo strapotere che la
moderna solitudine regala alla morte.43
Leopardi, come sappiamo, al pari di Camus, è un costante punto di riferimento per Cassano, oggetto, tra l’altro, del saggio Il valore e la sventura: la fondazione materialistica della virtù in Giacomo Leopardi, apparso sulla rivista «Democrazia e diritto» nel 1991, che, rielaborato, costituisce proprio la seconda parte del
libro laterziano.
Oltre il nulla, frutto di un amore di vecchia data, si apre con un’illuminante
Premessa, Il pensiero e i luoghi, che racchiude, specie nel secondo paragrafo, tutti i
temi sviluppati nello studio.
43
Ibid., p. 61.
52
Francesco Giuliani
Nella prima parte, Marchingegno, giocando con la parola, Cassano, come a
voler rispondere allo sconcerto del lettore di fronte all’argomento, solleva il velo su
alcune motivazioni autobiografiche. Egli ci parla del forte legame esistente tra lui e
le Marche, regione d’origine della madre, oltre che sua, descrivendo questa terra,
cara sin dagli anni giovanili, come “una dolce e quasi continua successione di vallate
e colline affacciate sul cielo, dalla cui sommità è possibile cogliere, lontano ma fortemente presente, l’azzurro dell’Adriatico”.44
Un ambiente che spiega le caratteristiche dei suoi abitanti e che ha condizionato lo stesso Giacomo, marchiandolo indelebilmente, prima del distacco. Recanati,
si sa, resta sempre il paese dell’anima del poeta.
Ancora più importanti, come già detto, sono le pagine del secondo paragrafo, Lo sguardo da lontano. Leopardi ci ha lasciato una grande lezione, quella di
“Sapersi far carico della verità senza rassegnarsi”.45 Il titolo del libro, del resto, Oltre il nulla, ben chiarisce il senso della interpretazione leopardiana del Nostro, lontana da certe restrizioni di crociana memoria, come anche da certe ricostruzioni
piattamente materialistiche o, peggio, che ripropongono, per altra via, l’esaltazione
delle “magnifiche sorti e progressive”.
Cassano, che non manca di rilevare i limiti del Leopardi progressivo di Luporini
e Binni, laddove “toglie peso proprio alla riflessione leopardiana sulla politica”,46 non
nasconde le suggestioni esercitate da Bruno Biral, autore, tra l’altro, di un fortunato
libro, La posizione storica di Giacomo Leopardi, dove troviamo il pensatore corrosivo verso il mondo moderno, ma ancora capace di spingere alla resistenza e all’utopia.
In Giacomo, nota Cassano, “il nulla ha un ruolo cruciale, ma è solo la penultima parola”,47 evidenziando il suo sforzo di andare al fondo delle cose, sgombrando il campo da tutte le false illusioni e da ogni finzione, con coerenza. È un Leopardi che non rinuncia all’aspetto civile del pensiero, alla volontà di sentirsi legato con
gli altri uomini, avvertendo una comunanza di destino.
Ma cosa resta alla fine di questa rigorosa operazione di demistificazione?
Cosa produce questo sforzo doloroso ma necessario? Qual è, in altri termini, “l’ultima parola”? Cassano non ha dubbi: è lo “sguardo da lontano”, tante volte presente negli scritti del Recanatese, la capacità di osservare gli uomini con una distanza
che è spaziale e temporale, come abitanti di una piccola sfera sperduta nell’universo, destinata a sparire senza lasciare traccia.
Una visione che rimarca la debolezza umana, ma mostra anche l’unica, possibile grandezza, ponendo le basi per un vero amore universale, non basato sui falsi
ideali di fraternità dei nostri giorni, che nascondono, sotto la coltre di un illimitato
solidarismo, un sostanziale egoismo, e neppure legato ai tramontati e limitati ideali
di nazione del passato.
44
Ibid., pp. V-VI.
Ibid., pp. VIII-IX.
46
Ibid., p. 54.
47
Ibid., p. IX.
45
53
Dal Mediterraneo a Leopardi. Quattro libri di Franco Cassano
Questo “sguardo da lontano”, che non tradisce la verità, può offrirlo solo
l’immaginazione, ragion per cui Cassano ha buon gioco nel concludere: “È l’insegnamento paradossale di Leopardi: solo l’immaginazione potrà ricondurre gli uomini alla realtà”.48
Ma se l’immaginazione è una dote soprattutto dei popoli del Sud, ritorniamo, per questa via, all’autore del “pensiero meridionale”, che smonta l’idea di una
civiltà basata solo sui valori del Nord, che pretende di plasmare il mondo a sua
immagine, cancellando i tesori del Sud, sottraendoli all’intero mondo. Di qui una
nuova, sostanziale critica alla dittatura del pensiero unico, alla globalizzazione, che
non può portare alla felicità del mondo, ma consolida l’ingiustizia.
Merito di Cassano, nella prima parte del libro, intitolata Il problema dell’eminenza meridionale, è di aver posto l’attenzione sulle tante riflessioni dedicate da Leopardi alle caratteristiche delle civiltà meridionali e settentrionali. Il dato appare ancor
più evidente se utilizziamo un’edizione su cd rom, che ci permette di verificare quanto cospicue siano le occorrenze di termini come “meridionale” e “meridionali”.
Giacomo a più riprese, non senza oscillazioni nel tempo, ha sottolineato le
differenze esistenti tra i popoli del Sud e quelli del Nord. La civiltà è nata nei paesi
baciati dal sole, che ebbero la supremazia finché durarono le illusioni; col tempo,
però, la situazione è cambiata, sancendo l’egemonia del razionale Nord.
Lo stesso Leopardi finisce per affiancare gli antichi ai meridionali, da una
parte, e i moderni ai settentrionali, dall’altra; ma mentre la differenza tra antichi e
moderni è presente su tutti i testi scolastici, anche nelle sintesi più rapide, l’altra
diversità è rimasta molto più in ombra, considerata, suggerisce il sociologo, come la
conseguenza di pregiudizi pseudoscientifici dell’epoca, taciuta forse proprio per
complice amore verso Giacomo.
Questa spiegazione, che riteniamo condivisibile, offre comunque lo spunto a
Cassano per evidenziare la netta sottovalutazione dell’importanza dell’ambiente
nella nostra epoca, permeata, non a caso, da una esagerata fiducia nella tecnica. È un
tema già colto nei tre libri esaminati in questo nostro saggio.
In poche ma dense pagine, lo studioso segue un cammino che porta a rivalutare l’immaginazione andando al di là della modernità: “Nell’età moderna la scienza e la tecnica hanno trasformato il mondo, riempiendolo con le loro conquiste, ma
proprio questi grandi successi hanno dato modo di sperimentare i loro limiti: le
disuguaglianze e l’ostilità non sono diminuite, anzi forse è accaduto il contrario”.49
Di qui la necessità di “provare a ridimensionare la loro arroganza e a riconoscere
l’importanza dell’immaginazione”.50
Cassano amplia poi il discorso, soffermandosi sulla “dittatura del ‘qui’ ed
‘ora’”,51 ricordando che “Un mondo capace di muoversi solo in base a ciò che è
48
Ibid., p. XI.
Ibid., p. 17.
50
Loc. cit.
51
Ibid., p. 19.
49
54
Francesco Giuliani
sicuro ed esperibile direttamente, è prigioniero del presente, non riesce a trascenderlo, è una vita misera, chiusa in un piccolo tempo e in un piccolo spazio”.52
Altrettanto acute sono le pagine della seconda e più ampia parte del libro,
Non mentire né rassegnarsi, un titolo che ha la secchezza di uno slogan politico o
pubblicitario, con il quale viene definito l’atteggiamento di Leopardi, il suo serrato
esame del mondo e degli uomini, ma anche il suo rifiuto del cinismo e dell’egoismo.
Ogni rigo di Giacomo, si legge, “rinnova la protesta, l’incapacità di rassegnarsi all’assurdità della morte, alla destinazione del genere umano al silenzio infinito dell’universo”.53
Leopardi non mente quando ricorda che gli uomini sono sempre scontenti
perché sono sempre infelici, cercando ovunque dei capri espiatori, come i politici,
ai quali vengono dedicate delle osservazioni di straordinaria efficacia, né quando
segue i segni camuffati dell’individualismo.
L’opera di costante demistificazione del Recanatese culmina, e non poteva
essere diversamente, con il messaggio de La ginestra, trasferendo l’odio dagli uomini alla Natura, in cambio dell’unica, vera solidarietà possibile. Della celebre opera
in Oltre il nulla vengono non a caso riportati i versi 111-135, che poeticamente non
hanno convinto tutti i critici, specie quelli più nostalgici del poeta dell’idillio, ma
che, dal punto di vista ideologico, sono senza dubbio alti e chiari, oltre che veri.
È un messaggio la cui forza è ancora immutata, che richiama in causa lo sguardo da lontano: “Tutti gli uomini dovrebbero, con una preghiera laica, ripetere il
gioco infantile di Leopardi, allontanarsi da questo globetto, per scoprire, da quella
enorme distanza, la loro comune condizione”.54
La vera grandezza è figlia dell’avvertimento della fragilità umana, ricorda
Cassano, che arriva all’epilogo di questo studio quasi con un complice cenno d’intesa allo scrittore di Recanati, di cui si evidenzia, una volta di più, la straordinaria,
anzi, la pressante e profetica attualità per l’uomo moderno.
Oltre il nulla è pertanto un attento studio su Leopardi, che si chiude con una
lezione sui massimi sistemi che può facilmente tradursi anche in un insegnamento
spicciolo di vita, in un appello alla vera saggezza, che porta a non fermarsi alle
apparenze e a non montarsi troppo la testa, senza per questo mai rinunciare alla
propria testimonianza, al proprio sincero impegno in questo piccolo granello chiamato Terra.
52
Ibid., p. 21.
Ibid., p. 44.
54
Ibid., p. 84.
53
55
56
Saggi
58
Pasquale e Tiziana di Cicco
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860) *
di Pasquale e Tiziana di Cicco
1. Premessa
La letteratura storica relativa a questo interessante tema, quasi tutta di data
recente, resta ancora alquanto scarsa e si compone di non molti autori fra cui è
Alfonso Scirocco che per primo ha richiamato l’attenzione degli studiosi sugli atti
dei Consigli provinciali del regno di Napoli, sottolineandone la valenza di notevole
fonte storica.
In effetti l’importanza degli atti dei Consigli era nota anche prima - già Angela
Valente se ne era servita per il suo Gioacchino Murat e l’Italia meridionale (Torino,
Einaudi, 1941) - ma resta un merito dello Scirocco aver valorizzato, con un apposito
lavoro, tale fonte ne I problemi del Mezzogiorno negli atti dei Consigli provinciali
(1808-1830), apparso nell’ «Archivio Storico per le Province Napoletane» nel 1970.
Successivamente con rinnovato impegno è ritornato sul medesimo tema, trattandolo da un punto di vista particolare, con il lavoro I corpi rappresentativi del
Mezzogiorno dal Decennio alla Restaurazione: il personale dei Consigli provinciali,
apparso in «Quaderni storici» (1978).
Dopo questi si annoverano i seguenti studi: Renata De Lorenzo, Una fonte
per la conoscenza del Mezzogiorno nel Decennio francese: gli atti dei Consigli distrettuali del 1808, edito in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XVII,
n. s. (1978); Vittorio Di Donato, Note sul personale e sul funzionamento del Consiglio Provinciale di Terra di Lavoro (1806-1861): premesse all’inventario della serie
Intendenza-Consigli Provinciali e Distrettuali, conservate nell’Archivio di Stato di
Caserta, in «Rivista Storica di Terra di Lavoro», IV (1978); Renato Lalli, I Consigli
dei Distretti del Molise, 1808-1819 (Isernia, Libreria Editrice Marinelli, 1980); Renato Lalli, I Consigli della Provincia di Molise, 1806-1814, tomo I (Campobasso,
Editoriale Rufus, 1993) 1815-1820, tomo II (Campobasso, Editoriale Rufus, 1993),
1821-1841. Agricoltura, Commercio, Industria, Strade, Pubblica Istruzione, tomo
III (Venafro Edizioni Vitmar, 1997), 1821-1841. Amministrazione e Servizi, Giustizia ed Ordine Pubblico, Assistenza e Beneficenza, Finanze, Vita quotidiana, L’ambiente culturale, tomo IV (Ripamolisani, Arti Grafiche La Regione, 2000); Francesco D’Agostino, Il Consiglio Provinciale di Terra di Bari, in L’età della Restaura*
I paragrafi 1, 2, 3 sono di Pasquale di Cicco; i paragrafi 4 e 5 e l’appendice sono di Tiziana di Cicco.
59
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
zione (1815-1830), Atti del 3° Convegno di studi sul Risorgimento in Puglia, (Cassano Murge, Bracciodieta Editore, 1983); Maria Sofia Corciulo, I Consigli generali
e distrettuali di Terra d’Otranto dal 1808 alla rivoluzione del 1820-21, in Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, a cura di Angelo Massafra (Bari,
Dedalo, 1988); Sugli atti dei Consigli generali e distrettuali di Principato Citra durante il decennio francese 1806-1815, in «Clio», 1989; Dall’amministrazione alla Costituzione. I Consigli distrettuali di Terra d’Otranto nel Decennio francese (Napoli,
Guida, 1992); Enrica Di Ciommo, Élites provinciali e potere borbonico. Note per una
ricerca comparata, in Il Mezzogiorno preunitario…; Paolo Muzi, La presenza borghese nei Consigli Generali e distrettuali di Abruzzo Ulteriore, II, 1808-1830, in Il
Mezzogiorno preunitario…; Luigi Calabresi, Il personale politico dei Consigli provinciali in Basilicata (1808-1821), in «Bollettino della Basilicata», XVII (2001).
Quasi nessuno di questi autori, dunque, nell’utilizzo della menzionata fonte,
ha spinto le sue ricerche oltre il 1830, privilegiando il periodo detto comunemente
“Decennio francese”, come quello in cui i Consigli ebbero modo di svolgere un ruolo
maggiormente significativo, date le più rilevanti attribuzioni loro riconosciute.
Quanto alla Capitanata, i suoi Consigli provinciali e distrettuali non sono
stati oggetto sinora di alcun lavoro a stampa. Gli atti che ad essi si riferiscono, conservati nell’Archivio di Stato di Foggia, sono purtroppo molto lacunosi.
E non sempre ha successo il tentativo di colmare i vuoti documentari facendo capo alle “Risoluzioni sovrane espresse sui voti consiliari”, sia perché anche la
serie delle Risoluzioni non è integra, sia perché lo schematico e freddo contenuto
del provvedimento adottato dal re nel Consiglio ordinario di Stato è incapace di
dare il quadro talvolta vivace e complesso offerto invece dai verbali assembleari.
2. Nomina, composizione, competenze
Nel 1806 Giuseppe Bonaparte, fratello dell’imperatore Napoleone, diviene
re di Napoli, sostituendosi a Ferdinando I di Borbone che ha trovato rifugio in
Sicilia, come già nel 1799.
Comincia allora nel regno meridionale il cosiddetto Decennio francese, che i
Borbonici dopo la Restaurazione definiranno “periodo dell’occupazione militare”,
giudicando usurpatori ambedue i sovrani napoleonidi, Giuseppe (1806-1808) e
Gioacchino Murat (1808-1815).1
La nuova monarchia “volle impersonare la Rivoluzione con le sue maggiori conquiste: uguaglianza civile, nuovo ordinamento amministrativo, abolizione della feudalità
1
Sul regno di Napoli durante il Decennio sono tuttora validi i lavori di Jacques RAMBAUD, Naples sous Joseph
Bonaparte (1806-1808), Paris, Plon-Nourret et C., 1911, e di Angela VALENTE, Gioacchino Murat e l’Italia
Meridionale, Torino, Einaudi, 1941, cui si è aggiunto di recente quello a cura di Aurelio LEPRE, Studi sul regno di
Napoli nel Decennio francese (1806-1815), Napoli, Liguori, 1985. Stigmatizzando la mentalità dei politici della
Restaurazione, il Colletta scriveva: “Un governo di dieci anni, riconosciuto in Europa, consolidato da’ codici,
ordini di Stato e bene pubblico, era chiamato occupazione militare”; cfr. Pietro COLLETTA, Storia del reame di
Napoli, a cura di Nino Cortese, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1957, 3 voll.: vol. III, p. 11.
60
Pasquale e Tiziana di Cicco
e dei fedecommessi, riduzione della potenza del clero, sviluppo dell’istruzione ecc., in
una parola, la possibilità di progresso immediato”.2 E con le riforme che mise subito in
atto seppe dare al regno di Napoli un nuovo e più ordinato assetto statuale.
Nei primi anni del periodo francese i governanti si adoperarono molto per
conoscere le esigenze della popolazione, al fine di poter attuare con adeguatezza le
necessarie riforme.
Basti ricordare in proposito la maggiore indagine sulle condizioni economiche e sociali del regno allora avviata, che va sotto il nome di Statistica murattiana,3
per convenire che gli uomini di governo del Decennio perseguivano il progresso
del paese non sulla base di ideologie o principi teorici, ma sulla scorta della concreta
conoscenza delle reali condizioni della popolazione.
Tra le riforme che si attuarono un posto eminente è occupato da quella amministrativa decisa con legge dell’8 agosto 1806. Per essa il regno di Napoli era
diviso in tredici province, ognuna ripartita in distretti. Le prime erano rette dagli
intendenti, i secondi dai sottintendenti.4
La medesima legge del 1806 istituzionalizzava l’elezione dei Consigli comunali, i cui membri, chiamati decurioni, sarebbero stati eletti in pubblico parlamento
dai capi di famiglia compresi nel ruolo delle contribuzioni dirette (tit. IV, art. 2).
Ma ciò rappresentava una grossa deroga al generale principio dell’accentramento cui si informava il nuovo sistema statuale d’influenza francese e, pertanto, ad
essa fu dato pochi mesi dopo, con legge 18 ottobre 1806, un sostanziale correttivo (i
decurioni non sarebbero stati più eletti a sorte solo tra proprietari con una determinata rendita) e posto del tutto fine con legge del 20 maggio 1808, che faceva cessare
ogni forma di elezione o di sorteggio per le amministrazioni comunali, assoggettandole invece ad uno stretto controllo burocratico.5 Nel processo innovatore per-
2
Domenico DEMARCO, La borghesia fondiaria del Regno di Napoli nel secolo XIX: le origini, i problemi, in
«Rassegna storica del Risorgimento», XXXVIII (1951), p. 357.
3
Le relazioni statistiche dell’inchiesta murattiana solo di recente sono state tutte pubblicate integralmente,
con benemerita fatica del Demarco; cfr. Domenico DEMARCO, La Statistica del Regno di Napoli nel 1811,
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1988, 4 voll. Parecchie di esse in precedenza e per diverse province
avevano visto la luce a cura di vari studiosi, quali Vincenzo Ricchioni e Tommaso Nardella per la Puglia,
Alfredo Zazo per il Principato Ultra, Leopoldo Cassese per il Principato Citra, Umberto Caldora per la
Calabria, Tommaso Pedio per la Basilicata, Carmine Cimino per la Terra di Lavoro.
4
Sulla nascita delle Intendenze, che furono elemento portante dell’organizzazione statuale accentrata del
regno meridionale, cfr. Carlo GHISALBERTI, Contributi alla storia delle amministrazioni preunitarie, Milano,
Giuffrè, 1963; Carlo GHISALBERTI, Dall’antico regime al 1848, Bari, Laterza, 1974; Pasquale VILLANI, L’Italia
napoleonica, Napoli, Guida, 1978; Armando DE MARTINO, La nascita delle Intendenze, Napoli, Novene,
1984; Raffaele F EOLA , La monarchia amministrativa, Napoli 1984; Raffaele FEOLA , Accentramento
giurisdizionale. Il progetto amministrativo nel primo Ottocento napoletano, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XXIV (1985), pp. 451-474.
5
“Per i comuni maggiori i decurioni sarebbero stati scelti dal ministro dell’Interno su terne presentate
dall’intendente, per i minori sarebbero stati designati dell’intendente stesso. Il sindaco ed i due eletti che lo
coadiuvavano erano nominati rispettivamente dal ministro o dall’intendente su terne presentate dal decurionato.
Si chiudeva così la breve vita della rappresentanza elettiva a livello comunale e si inaugurava un ferreo controllo delle autorità statali sui municipi, destinato a durare fino al 1860, con la brevissima parentesi del 18201821”; cfr. Alfonso SCIROCCO, I corpi rappresentativi nel Mezzogiorno dal ‘Decennio’ alla Restaurazione: il
personale dei consigli provinciali, in «Quaderni Storici», 1978, 37 (gennaio-aprile), pp. 102-103.
61
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
seguito dai nuovi governanti una parte di gran rilievo, assieme alle Intendenze e alle
Sottintendenze, ebbero i Consigli generali di provincia ed i Consigli distrettuali,
con funzioni puramente consultive. Questi Consigli, nonostante la limitatezza delle attribuzioni, rappresentarono una delle migliori novità nella pubblica amministrazione del Mezzogiorno.
Essi permisero alle province di uscire dal precedente isolamento, di far conoscere alle autorità centrali le proprie necessità e di creare, con suggerimenti e precise
informazioni, i presupposti per una proficua opera di interventi governativi.
Le norme dell’8 agosto 1806 ed altre successive determinavano le precise competenze di questi nuovi organismi,6 mentre istruzioni a stampa del ministro dell’Interno del 24 settembre 1808 ribadivano che il loro compito primario consisteva nel
“far pervenire al Governo il quadro fedele dei bisogni delle Province e l’espressione
dei loro voti e dei loro pensieri”.7
La ripartizione della contribuzione fondiaria fra i distretti della provincia, la
trasmissione al ministro delle Finanze dei reclami volti ad ottenere l’alleggerimento
della tassazione, l’esame dei reclami fatti dai Consigli distrettuali per la diminuzione
del carico fiscale, la determinazione del numero delle grana addizionali per supplire
alle spese a carico della provincia e l’esame del conto dell’intendente relativo alle dette
spese, formavano le maggiori attribuzioni dei Consigli generali o provinciali.8
Questi cinque “oggetti” (così prescrissero le menzionate istruzioni a stampa,
trasmesse alle Intendenze dal ministro dell’Interno, monsignor Capecelatro, arcivescovo di Taranto) sarebbero stati trattati dai Consigli provinciali secondo l’indicato ordine e con lo stesso ordine avrebbero trovato il loro riflesso nei processi
verbali delle sedute, formando un primo capitolo diviso in cinque titoli.
Non meno importante l’oggetto che avrebbe composto il secondo capitolo
di detti processi verbali, e cioè l’opinione del Consiglio sullo stato e sui bisogni
della provincia.
Anche questo capitolo sarebbe stato suddiviso in titoli (sei per l’esattezza:
agricoltura e commercio; soccorsi pubblici, prigioni; ponti, strade e navigazione;
istruzione pubblica; popolazione, amministrazione; salute pubblica); ma diversamente dal primo che a cura dell’intendente doveva essere rimesso al ministro delle
6
Con queste norme fondamentali sui Consigli (che non furono subito riuniti giacchè da Roederer, ministro
delle Finanze, si temeva che essi cercassero di far ridurre il contingente d’imposta, come si legge in J. RAMBAUD,
Naples sous Joseph Bonaparte…, cit., p. 385 e segg.), sono da ricordare i decreti del 15 gennaio 1808 (nomina
dei membri dei Consigli provinciali e distrettuali di tutte le province, tranne le due Calabrie), i due successivi
del 10 e del 13 settembre (le riunioni dei Consigli distrettuali in due tempi, dal 5 al 9 ottobre e dal 15 al 26
ottobre), e l’altro dell’11 ottobre (i Consigli possono deliberare anche se il numero dei consiglieri intervenuti
non è quello prescritto).
7
ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA, Intendenza e Governo di Capitanata, Consigli provinciali e distrettuali, b.
1, fasc. 5. (d’ora in poi ASFG, Consigli).
8
“Queste competenze di carattere finanziario erano notevolmente importanti poiché attribuivano a tali
istituzioni non solo un potere di ripartizione delle imposte tra i distretti, bensì anche di sindacato sull’entità di
esse e, in definitiva, sulla legittimità dell’operato governativo, potere, questo, tipico delle assemblee rappresentative”; cfr. Maria Sofia CORCIULO, Sugli atti dei Consigli generali e distrettuali di Principato Citra durante
il Decennio francese (1806-1815), in «Clio”, XXV (1989), 1, p. 111.
62
Pasquale e Tiziana di Cicco
Finanze, il secondo capitolo sarebbe stato inviato direttamente dal presidente del
Consiglio provinciale al ministro dell’Interno.
Le istruzioni stesse spiegavano il motivo di una tale diversa prescrizione,
chiarendo che “l’oggetto di siffatta immediata comunicazione è di far pervenire al
governo il quadro fedele de’ bisogni della Provincia, e l’espressione sincera de’ loro
voti, e de’ loro pensieri. Quindi il capitolo II deve fare conoscere non solo i mali da
ripararsi, o il bene da farsi in ciascuna Provincia, ma ancora le vedute, e le idee di
pubblica utilità, non che i mezzi di prosperità generale”.
La normativa sui Consigli stabiliva che quelli distrettuali tenessero la loro
sessione in parte prima ed in parte dopo la sessione del Consiglio provinciale.
I Consigli distrettuali “nella parte […] che precede quella del Consiglio generale […] debbono limitarsi ad esprimere le doglianze, se ne hanno da fare, su la quota
della imposizione territoriale, a cui trovasi ora tassato il rispettivo Distretto, ed a
formare il quadro dello stato del medesimo con la indicazione de’ mezzi che offre per
migliorarlo”. Il processo verbale relativo sarebbe stato pertanto diviso in due titoli,
uno “finanziero” con le eventuali doglianze per riduzione del carico fiscale, l’altro
“amministrativo” sulla situazione del distretto. E nel secondo titolo, a sostegno del
reclamo che venisse fatto nel primo, conveniva che i consiglieri distrettuali offrissero
“saggio della conoscenza che debbono avere del loro paese, e de’ bisogni di esso, non
meno che di perspicacia, di saviezza, e di moderazione, coll’indicare i mezzi onde
riparargli, e fargli cessare”.
Gli stessi consiglieri, nella seconda parte della loro sessione destinata unicamente alla ripartizione fra i comuni della quota fiscale imposta al distretto giusta le
istruzioni del ministro delle Finanze, avevano il solo obbligo di essere imparziali:
“debbono far rilucere la più stretta, scrupolosa imparzialità. Ogni personale interesse, ogni particolare veduta a pro del proprio Comune dee tacere, e sopprimersi,
perché il peso ricada con giusta proporzione fra tutte le università”, recitavano le
istruzioni di monsignor Capecelatro, per poi concludere: “Così i Consigli potranno in questa prima loro riunione conciliar verso di loro l’autor de’ popoli, e la
fiducia del Sovrano”.
Secondo la legge dell’8 agosto 1806 i Consigli provinciali dovevano riunirsi
una volta l’anno per non più di venti giorni, i distrettuali per non più di quindici
giorni;9 il numero dei componenti i primi oscillava tra 15 e 20, quello dei componenti i secondi non poteva superare i 10.
La legge del 18 ottobre dello stesso anno stabiliva le modalità per l’elezione dei consiglieri. Questi venivano proposti dai Decurionati e scelti dalle
autorità competenti tra i proprietari che avessero una rendita imponibile di una
9
Sino al 1820 i Consigli si riunirono nel mese di ottobre; dal 1821 in poi, su richiesta del Consiglio provinciale di Napoli accolta dal Governo, cominciarono a riunirsi nel mese di maggio. La decisione di convocare in
maggio le assemblee produsse inconvenienti e disagi in Capitanata, favorendo l’assenteismo dei consiglieri.
Molti di essi, infatti, proprio in quel mese si trovavano maggiormente impegnati nelle loro attività agricole e
commerciali, ed allora si celebrava anche la ricca fiera di Foggia, dove avevano smercio i prodotti agricoli e
pastorali del Tavoliere; cfr. ASFG, Consigli, b. 3, fasc. 41.
63
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
certa entità: quella di ducati 200 per poter essere consiglieri distrettuali, e di
ducati 400 per poter essere consiglieri provinciali (ducati 240 e 480 dopo la legge 20 maggio 1808).
La rendita dei consiglieri doveva quindi superare di dieci o venti volte quella
che era prevista per essere elettori, mirando il legislatore a formare i Consigli con le
persone più facoltose e rappresentative delle province, per il “preciso interesse politico di consolidare il nuovo regime servendosi dell’aiuto istituzionalizzato del
notabilato locale”.10
I Decurionati comunali attendevano all’operazione loro spettante della proposta dei consiglieri vari mesi prima della convocazione dei Consigli, dopo che
l’intendente, tramite i sottintendenti ed il sindaco del primo distretto - quello in cui
era l’intendente stesso - aveva dato l’opportuno avviso di riunire i decurioni.
Sulla base della “lista degli eleggibili” alle cariche pubbliche,11 i Decurionati
facevano le loro proposte: una terna di nominativi per i comuni con meno di 3000
abitanti, due terne per i comuni da 3000 a 6000 abitanti, tre terne per i comuni con
più di 6000 abitanti.
Ai comuni più piccoli, ai quali poteva mancare la possibilità di designare propri
cittadini aventi la rendita richiesta dalla legge, competeva la facoltà di indicare anche
cittadini di altri comuni. Tutte le proposte dei Decurionati erano inviate all’intendente e
questi, con il parere del Consiglio d’Intendenza, formava a sua volta varie terne di nominativi e le trasmetteva al ministro dell’Interno per il successivo inoltro al re.
La scelta del sovrano di solito cadeva sul primo nominativo delle terne, in quanto
esso rappresentava il candidato risultato preferibile agli occhi dell’intendente.
Una procedura alquanto complessa, ma molto chiara nel fine che con la sua
adozione si intendeva conseguire, e cioè la formazione di Consigli i cui membri,
grazie alla selezione fatta dai Decurionati prima e dal Consiglio d’Intendenza poi,
fossero persone non solo autorevoli per censo e per qualità personali, ma anche
attaccate al sistema politico e fedeli al sovrano.
Come è chiaro la rappresentatività dei consiglieri restava parecchio condizionata dal meccanismo procedurale imposto per la loro nomina e certamente tale
da consentire il pilotamento delle candidature.
Anche i presidenti dei Consigli venivano scelti dal sovrano sulla base di terne,
redatte dall’intendente per il capo del consesso provinciale, dai sottintendenti per i
capi dei consessi distrettuali. Ed al solito la scelta sovrana privilegiava il primo nominativo della terna, la quale, specie se si riferiva al Consiglio provinciale, era costi-
10
M. S. CORCIULO, Sugli atti dei Consigli generali e distrettuali di Principato Citra…, cit., p. 113.
L’inclusione nelle liste era il presupposto per il godimento dei diritti politici da parte del cittadino, che fosse
domiciliato da almeno cinque anni in un comune e vantasse un censo variabile secondo il numero degli abitanti
del comune. Tali liste erano compilate provvisoriamente dal sottintendente e pubblicate nel distretto, potendo
essere oggetto di reclamo da parte di ogni cittadino. Trascorso un mese dalla pubblicazione, le liste ed i reclami,
unitamente ai pareri del sottintendente, erano rimesse all’intendente. Questi, dopo la discussione in Consiglio
d’Intendenza, rendeva definitive le “liste degli eleggibili” e le inviava ai sindaci. Cfr. Guido LANDI, Istituzioni di
diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie (1815-1861), Milano, Giuffrè, 1957, 2 voll.: vol. II, pp. 699-706.
11
64
Pasquale e Tiziana di Cicco
tuita da personaggi di spicco, da nobili o da alte autorità, per sottolineare l’importanza che andava riconosciuta all’assemblea.12
La menzionata legge del 18 ottobre stabiliva inoltre che i Consigli provinciali
e distrettuali durassero in carica un quadriennio, rinnovandosi per metà alla scadenza. In seguito, la legge sull’amministrazione civile del 12 dicembre 1816 innovò
su questo punto, fissando che ogni anno un quarto dei consiglieri cambiasse.
Nessun consigliere pertanto poteva restare in carica per più di un quadriennio,
ma era prevista la rieleggibilità due anni dopo la cessazione della carica.13
Con il rinnovo dei suoi componenti veniva assicurata ai Consigli una capacità di ricambio e l’immissione di nuove energie, utili per il miglior funzionamento
delle assemblee.
Spettava all’intendente inaugurare la sessione del Consiglio provinciale, assieme al segretario generale dell’Intendenza; l’apertura dei Consigli distrettuali era
competenza dei sottintendenti, anch’essi coadiuvati dai segretari delle sottintendenze.
All’apertura del Consiglio provinciale l’intendente era tenuto a rimettere al
presidente “tutti i documenti, tutti i materiali, tutti i lumi di cui possono aver bisogno i consigli per le loro occupazioni”.14
Una delle prime operazioni delle assemblee era la scelta del segretario, figura
essenziale perché destinata fra l’altro alla stesura dei verbali delle sedute. Data l’importanza della funzione che egli era chiamato a svolgere, anche la scelta del segretario cadeva su elementi esperti e di valore e la nomina era fatta dal presidente.
In caso di bisogno, poteva fungere da segretario il consigliere più anziano, il
quale, se necessario, sostituiva anche il presidente.
Del Consiglio provinciale di Capitanata furono segretari uomini di grande
levatura e di solido prestigio, come Giantommaso Giordani, Vincenzo Angiulli,
Onofrio Bonghi, Giuseppe Cutino, Felice Maria Zanni, Gaetano Barone, Raffaele
Cassitti, Vincenzo Zaccagnino. Talvolta un consigliere che in precedenza aveva rivestito il ruolo di segretario di un Consiglio, in seguito ne diveniva presidente.
12
Presidenti dei Consigli provinciali furono, tra gli altri, i principi Gerardo di Sangro (1828, 1832),
Giambattista Muscettola (1834), Vincenzo Ruffo (1841), Augusto Cattaneo (1853), i marchesi Domenico de
Luca (1808), Giovanni Antonio Filiasi (1812, 1822, 1826, 1830), Antonino Maresca (1847), il conte Carlo
Guevara (1854), il barone Felice Zezza (1829, 1833), il cav. Gaetano de Nicastro (1817) ed il figlio Pasquale
(1825) di Lucera, il colonnello della guardia civica Luigi Mastrolilli di Foggia (1818, 1827). I due de Nicastro
presiedettero anche il Consiglio distrettuale di Foggia, il primo nel 1813, il secondo nel 1828. La presidenza
dei Consigli distrettuali toccò talvolta a nobili (marchesi Francesco Saverio Freda nel 1852, Vincenzo Corigliano
nel 1853, Liborio Celentano nel 1859 a Foggia), ma più solitamente a grandi proprietari del distretto che
spesso erano anche affermati professionisti. Così, ad esempio, Vincenzo Perrone (1809, 1811), Domenicantonio
Rosati (1827), Roberto Siniscalchi (1830), Giuseppe Cutino (1837), Giuseppe Barone (1842), Giovanni Battista Nocelli (1856) a Foggia; Antonio Fania (1812, 1819), Antonio del Sordo (1818), Rocco del Sordo (1826,
1845), Carlo Tondi (1832, 1837), Prospero Fania (1846, 1852) a San Severo; Nicolantonio de Filippis (1817),
Michele Barone (1828), Gianvincenzo Rocco (1830), Vincenzo de Maio (1831, 1833), Giacomo Curato (1836,
1858), Ascanio Ripandelli (1840), Luigi Varo (1841, 1857) a Bovino.
13
Diversamente dai consiglieri, i presidenti dei Consigli provinciali e distrettuali duravano in carica un solo
anno; cfr. ASFG, Consigli, bb. 8, 9, fascc. 97, 108, 109.
14
ASFG, Consigli, b. 1, fasc. 5.
65
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
Il Consiglio provinciale si riuniva nel capoluogo della provincia, e propriamente nella sede dell’Intendenza o in altro edificio “il più prossimo e comodo”; il
Consiglio distrettuale nel capoluogo del distretto, nella sede della Sottintendenza o
in altro edificio “il più contiguo e conveniente”.15
L’apertura del Consiglio provinciale avveniva con adeguata solennità e tutti i
funzionari pubblici e le varie autorità civili e militari erano invitati ad assistere al
discorso che allora pronunciava l’intendente. Alla seduta inaugurale talvolta aggiungevano lustro con la loro presenza anche personalità di passaggio per la città,
che venivano appositamente invitate.
Le spese che i Consigli sostenevano durante le varie sessioni di attività formavano oggetto di un particolare conto che l’intendente e i sottintendenti si
premuravano di redigere e di trasmettere al ministro dell’Interno.
La creazione dei Consigli provinciali e distrettuali, nel contesto politico istituzionale del tempo che prevedeva contenute forme di decentramento, significò in
particolare la valorizzazione della borghesia terriera e l’affidamento di importanti
cariche provinciali agli elementi di punta di questo ceto, destinato a divenire sempre più influente ed a ricavare i maggiori vantaggi dalla soppressione del feudo.
La rendita fondiaria era il presupposto per la nomina ai Consigli, e solo essa:
il possesso di rendite provenienti da altri cespiti, come il commercio, la professione
o l’impiego, risultava infatti insufficiente ed inidoneo.
Il commerciante, il professionista, l’impiegato potevano aspirare alla nomina
solo se fossero stati anche possessori di una rendita fondiaria, e soggetti quindi al
pagamento della relativa imposta.16
Il possesso della terra era visto come elemento di stabilità, come garanzia di equilibrio comportamentale e di convenienti scelte ideologiche da parte del consigliere.
Naturalmente non poteva essere l’unico requisito di questi ed era perciò compito essenziale dell’autorità preposta alla formazione delle terne, l’intendente, operare in maniera tale che la scelta definitiva potesse farsi tra candidati che all’indispensabile requisito censitario unissero anche doti culturali, capacità ed esperienza
amministrative e lealismo politico (“sufficiente abilità, vantaggiosa morale, pubblica opinione ed attaccamento al Real Trono”, oltre alla rendita, ribadivano sovente
le ministeriali dell’Interno e le note intendentizie.17
15
ASFG, Consigli, b. 1, fasc. 2.
A. SCIROCCO, I corpi rappresentativi nel Mezzogiorno…, cit., p. 105. Interessanti e precise le notazioni di
Carlo Zaghi sul carattere e sul significato della proprietà nel regime napoleonico, che possono leggersi in
Carlo ZAGHI, Proprietà e classe dirigente nell’Italia giacobina e napoleonica, in Nicola RAPONI (cura di), Istituzioni e società nella storia d’Italia. Dagli stati preunitari d’antico regime all’unificazione, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 258-294.
17
ASFG, Consigli, b. 6, fasc. 80. Tuttavia in parecchie occasioni il richiesto requisito dell’attaccamento al
trono venne eluso nella nomina, quando si stimavano preponderanti altre qualità del candidato e non si disponeva di candidature realmente alternative, come prova la presenza nei consessi di consiglieri dal passato allarmante sotto il profilo politico (massoni e carbonari).
16
66
Pasquale e Tiziana di Cicco
La selezione attuata dall’intendente, se era facile a praticarsi con le candidature proposte dai grandi comuni, non lo era altrettanto con quelle dei piccoli comuni, i cui Decurionati molte volte erano costretti a segnalare persone in possesso del
solo requisito della rendita, non avendo ampie possibilità di scelta nella “lista degli
eleggibili”.
Per non dire che spesso si trovavano nella necessità di segnalare nominativi
di elementi di comuni vicini, non essendovi in loco nessun cittadino fornito di idonea rendita.
Per i Consigli infatti non esisteva la possibilità che la legge del 20 maggio
1808 aveva previsto per le amministrazioni comunali, e cioè che potessero essere
nominati decurioni anche coloro che esercitavano una professione, senza essere
proprietari.
E d’altronde non poteva esistere, impedendolo il fatto concreto che la carica
di consigliere, sia provinciale sia distrettuale, era puramente onorifica, ma il suo
esercizio - peraltro non ambito da tutti coloro che ricevevano la nomina - comportava spese per vetture, vitto, alloggio ecc. che ricadevano esclusivamente sugli interessati, costretti in maggioranza a portarsi per diversi giorni dell’anno dal loro paese di origine al capoluogo della provincia o del distretto ed a trascurare i propri
affari. “Ed ecco perché ha S.M. nominati per composizione de’ Consigli i maggiori
proprietari delle Provincie”, spiegava chiaramente sin dal 1808 il ministro dell’Interno all’intendente di Capitanata.18
Fin dal primo disegno del legislatore dunque il requisito della proprietà nei
consiglieri fu inteso come un elemento indispensabile per ottenere il regolare funzionamento dei nuovi organismi di rappresentanza, ben realizzabile quando a quel
requisito poteva farsi accompagnare una buona cultura ed una buona esperienza
amministrativa. E difatti sia nei Consigli maggiori che nei minori, grazie all’oculata
scelta operata dall’intendente, prevalevano i laureati in giurisprudenza, i patrocinatori, i notai, gli impiegati dell’amministrazione statale (civile, giudiziaria e persino
di quella militare) e municipale, pur abbondando altri professionisti, tra cui in maggioranza i medici. Massiccia addirittura la presenza di consiglieri che avevano interessi nelle campagne e di esse, conoscendone problemi e necessità, si facevano portavoce. Minima invece la rappresentanza del mondo del commercio. Né vi mancarono gli elementi più rappresentativi della cultura e della nobiltà della Capitanata,
anche quando essi non coincidevano con i maggiori esponenti della proprietà fondiaria: ciò si verificò specialmente nel Consiglio provinciale e nel Consiglio distrettuale di Foggia.19
18
Ibid., b. 1, fasc. 2.
Del Consiglio provinciale furono membri autorevoli, ad esempio, il noto letterato Giantommaso Giordani
di Monte Sant’Angelo, con una rendita accertata nel 1817 di appena 60 ducati o il legale foggiano Felice Maria
Zanni, ricco di molti talenti, ma con una rendita al 1816 di ducati 155, al 1831 di ducati 264 o il legale di Lucera
Giambattista Gifuni, con una rendita di ducati 203 al 1830, che nel 1845 presiederà il Distrettuale di Foggia.
Francescantonio Gabaldi, consigliere provinciale e distrettuale e presidente del Consiglio distrettuale di
19
67
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
La presidenza dei Consigli è spesso appannaggio della nobiltà, qualche volta
di quella minore, recente e presente in provincia più solitamente di quella antica,
che vive nella capitale e che in molti casi ha interessi fondiari in Capitanata.
Avviene di rado che un consigliere, insignito di un titolo nobiliare, non riceva almeno una volta la nomina a presidente del consesso cui appartiene. In particolare, è il Consiglio provinciale ad avere un nobile per presidente.
Negli anni molte persone ricoprirono la carica di consiglieri provinciali e di
consiglieri distrettuali, talvolta a breve distanza di tempo fra l’una e l’altra carica.
Diversi consiglieri del distretto di Foggia divengono consiglieri provinciali o
lo sono già stati, realizzando così fra i due organismi un fruttuoso interscambio di
capacità e di competenze.20 Sono molti invero i personaggi che occupano per lunghi
anni la ribalta dei Consigli e si ritrovano ora nel Provinciale ora nei Distrettuali.
La situazione opposta è rappresentata dai consiglieri che, una volta finito il
periodo di carica, non ricevono più la nomina e scompaiono dall’orizzonte dei
Consigli. Era questo il destino immancabile per coloro che, non intervenendo alle
sessioni, mostravano di non avere interesse per la carica, ma poteva capitare anche a
chi intervenendo si era reso scarsamente partecipe ai lavori o non aveva offerto
contributi apprezzabili.
Le proposte elaborate dai sottintendenti sottolineavano questi comportamenti
di indifferenza, stigmatizzandoli, e le correlate terne degli intendenti o escludevano
i nominativi di coloro che erano stati consiglieri non impegnati oppure li presentavano al terzo posto. La riproduzione degli stessi nominativi, specie per l’assemblea
provinciale, implicava un indubbio riconoscimento delle positive qualità dei candidati, della loro capacità amministrativa e della loro preparazione anche per incarichi di diversa responsabilità.
Sia nei consessi maggiori sia nei minori si rinvengono spesso consiglieri con
lo stesso cognome. Talvolta si tratta di semplici omonimie, ma, come si è potuto
acclarare, in molti casi si tratta di consiglieri che appartengono al medesimo nucleo
familiare, di figli che subentrano ai padri o di nipoti che percorrono la stessa strada
del nonno o di fratelli che si alternano nella carica consiliare, avvicendandosi nello
Foggia, aveva nel 1816 una rendita fondiaria di soli 128 ducati, nel 1831 di ducati 175.50; Giovanni Francesco
Almergogna, legale di Carpino, consigliere distrettuale (1830) e presidente (1831) a San Severo, aveva una
rendita di appena 40 ducati; e lo stesso marchese Tommasantonio Cementano, consigliere distrettuale a Foggia (sarà presidente del Provinciale nel 1821 e nel 1823), poteva vantare nel 1820 solo una rendita di ducati
1800, da stimare alquanto modesta, se rapportata a quella che negli stessi anni possedevano altri consiglieri
fregiati di titoli nobiliari e che ammontava a più decine di migliaia di ducati.
20
Il cav. Gaetano de Nicastro, ricco proprietario di Lucera, già consigliere (1808) e presidente (1813) del
Consiglio distrettuale di Foggia, diviene presidente del Consiglio provinciale nel 1817 e di questo sarà componente sino al 1824; Giambattista Gifuni, legale lucerino, è consigliere distrettuale di Foggia nel 1826, consigliere provinciale nel 1828 e nel 1834; il barone Giacomo Cessa di Manfredonia è consigliere distrettuale di
Foggia nel 1831, provinciale nel 1856; Gaetano della Rocca di Foggia è consigliere distrettuale nel 1841, provinciale nel 1853. Gli esempi potrebbero facilmente moltiplicarsi, e diversi potrebbero addursene per attestare
i percorsi inversi compiuti dai consiglieri, prima provinciali ed in seguito distrettuali.
68
Pasquale e Tiziana di Cicco
stesso consesso 21 e facendosi presumibilmente portatori nelle assemblee di cui entrano a far parte di esperienze e di interessi dello stesso genere. Va aggiunto ancora
che parecchio simile appare in più casi il loro curriculum: la carriera di molti consiglieri presenta sovente tappe fondamentali analoghe anche se non coincidenti nell’ordine, fra cui quelle rappresentate da una carica comunale (decurione, eletto o
sindaco) e dall’ammissione alla Reale Società Economica di Capitanata.22 La svariata provenienza e quindi la differente esperienza ed il diverso bagaglio culturale
dei consiglieri costituirono fattori positivi e presupposti di buona funzionalità per
degli organismi che erano tenuti ad occuparsi di questioni molteplici ed eterogenee.
Caduto il regime murattiano, il restaurato governo borbonico conservò in
vita queste assemblee, riconoscendone l’importanza.
In attuazione della linea politica allora adottata, per la quale molte delle innovazioni istituzionali ed amministrative del periodo francese vennero mantenute
così com’erano o appena modificate,23 i Consigli vennero convocati provvisoriamente con reale decreto del 23 agosto 1815 e poi confermati con la legge sull’amministrazione civile del 12 dicembre 1816.
In quegli stessi anni, poiché la formazione dei catasti provvisori allora in redazione permetteva ormai di fondare su di essi il carico fiscale dei singoli comuni,24
scomparve quella che in passato aveva rappresentato la più rilevante competenza del
Consiglio provinciale, la ripartizione di quel carico fra i distretti.
E difatti la citata legge sull’amministrazione civile riferiva ai Consigli maggiori
quasi solo queste attribuzioni (art. 30): esame e discussione dei voti dei Consigli
21
Alcuni esempi. Sono fratelli Ignazio e Raffaele Centola di San Marco in Lamis che negli anni 1840-50
rivestono l’uno la carica di consigliere provinciale, l’altro quella di consigliere distrettuale di San Severo;
Filippo, Giacomo e Nicola d’Alfonso, presenti nel Provinciale e nel Distrettuale di San Severo e figli di Matteo
che più volte ha fatto parte della stessa assemblea minore; e sono fratelli Francesco e Giuseppe Gabaldi di
Foggia, consigliere distrettuale il primo nel 1852, il secondo nel 1859, ambedue figli di Francescantonio, anch’egli più volte consigliere e presidente; e così pure Antonio e Gaetano Rocco, consiglieri distrettuali a
Bovino negli anni ’30, come il loro genitore Gianvincenzo nel 1828. Giacomo Cessa, consigliere provinciale
nel 1857, ripercorre le orme del nonno Giovanni Battista, antico capitano del porto di Manfredonia e più volte
consigliere provinciale tra il 1808 ed il 1826; e Prospero Fania che nel 1852 presiede il Consiglio provinciale,
porta lo stesso nome del nonno che di quel Consiglio ha fatto parte nel lontano 1808.
22
Gaetano Barone di Foggia, membro della Reale Società Economica, III eletto comunale (1828), consigliere provinciale (1833-36), sindaco del capoluogo dauno (31 gennaio 1841), consigliere distrettuale (1857-58)
compie un cursus che equivale a quello di Luigi Celentano, anch’egli foggiano, membro della Società Economica, consigliere provinciale (1819-24), sindaco (30 ottobre 1837), consigliere distrettuale (1841).
23
Le riforme del Decennio, osserva lo Scirocco, avevano profondamente trasformato il Mezzogiorno e i
ministri borbonici si rendevano conto della validità delle istituzioni introdotte dai francesi e della irreversibilità
delle modifiche subite dalla società. Di qui la “politica dell’amalgama” perseguita dal Medici e vincente su
quella opposta del principe di Canosa, a seguito della quale politica, dalla fine del 1816, si ebbe una serie di
provvedimenti che confermavano in pieno l’assetto dato dai Napoleonidi; cfr. A. SCIROCCO, Governo assoluto e opinione pubblica a Napoli nei primi anni della Restaurazione, in «Clio», XXII (1986), 1, pp. 203-224.
24
Sulla contribuzione fondiaria, sugli atti preliminari del catasto e sulla compilazione e descrizione di questo, nonché sul suo valore come fonte storica sono da tener presenti le sintetiche ma esaurienti e chiare note
che si possono leggere in Leopoldo CASSESE, Le fonti della storia economica dell’Ottocento, Salerno, Pietro
Laveglia, 1984, pp. 100-108; vedi anche G. LANDI, Istituzioni di diritto pubblico…, cit., vol. I, pp. 305-306.
69
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
distrettuali; votazione della quantità della sovraimposta facoltativa per le spese particolari della provincia; progetto dello stato discusso provinciale; presentazione al re
di terne per la nomina dei componenti della Deputazione provinciale per l’amministrazione delle opere pubbliche creata con reale decreto del 7 maggio 1813.
Un ampliamento di queste attribuzioni si ebbe con norme successive, come
quella contenuta nella legge organica dell’ordine giudiziario del 29 maggio 1817,
all’art. 206, per la quale si attribuiva al Consigli provinciali la facoltà di presentare
terne di nomi per l’elezione dei giudici e dei supplenti del Tribunale di commercio,
ricavandoli dalla lista dei negozianti, banchieri e manifatturieri della città (a Foggia
questo Tribunale fu istituito con reale decreto del 10 dicembre del 1817).25
Altre facoltà si videro poi conferire i Consigli dal reale decreto del 18 aprile
del 1820 (proposta di terne per i membri della Camera consultiva di commercio),26
dal reale decreto del 11 aprile del 1822 (proposta di terne per le Deputazioni addette alla sorveglianza del funzionamento dell’amministrazione delle acque e foreste),
mentre già rientrava nelle loro competenze sia la nomina delle Deputazioni per
l’acquisto e la manutenzione dei mobili in dotazione all’Intendenza, alle Sottintendenze ed ai Tribunali, sia, dal 1818, l’esame del conto morale del Consiglio generale
di beneficenza.
Titolari di tutte queste competenze, i Consigli provinciali svolsero una rilevante attività nel cosiddetto Quinquennio, ma durante il Nonimestre seguito alla
rivoluzione carbonara del 1820 vennero aboliti e, per l’art. 325 della Costituzione,
sostituiti dalle Deputazioni provinciali.
Formarono questi nuovi organismi, che erano presieduti dall’intendente, il
direttore delle contribuzioni dirette e sette membri nominati dagli elettori di partito, come previsto dagli artt. 328 e 329 della Costituzione.
Le Deputazioni dovevano occuparsi dei conti morali di tutte le amministrazioni provinciali (il conto materiale continuava ad essere di competenza del Comitato d’Intendenza) ed esprimere il proprio parere sull’amministrazione degli ospi-
25
Già previsti dall’ordinamento giudiziario stabilito con reale decreto del 21 maggio 1808 e poi dalla legge
organica del 1817, i Tribunali di commercio furono istituiti, nei Domini al di qua del Faro, a Napoli, Foggia,
Monteleone e Reggio, ed erano composti di un presidente, di quattro giudici, di tre o cinque supplenti e di un
cancelliere. Formati da magistrati onorari, costituivano la speciale giurisdizione del ceto mercantile e giudicavano in tutte le controversie relative ad obbligazioni ed operazioni tra commercianti quando non fosse dimostrata la natura prettamente civile dell’affare. Le loro sentenze erano appellabili dinanzi alle Gran Corti Civili.
Cfr. LANDI, op. cit., vol. II, pp. 842, 856 e segg. Per le “liste degli eleggibili” al Tribunale di commercio di
Foggia, vedi ASFG, Consigli, bb. 5-9, fascc. 68, 72, 76, 87, 97, 98, 113, 124; per un ampio studio d’insieme, cfr.
Carmine DE LEO – Daniela DE LEO, Il Tribunale di Commercio. Un’antica magistratura a Foggia, Foggia,
Camera di Commercio, 2000.
26
Quella di Foggia fu istituita con reale decreto del 20 ottobre 1818, subito dopo l’istituzione della Camera
consultiva di commercio di Napoli (reale decreto dell’11 marzo 1817), e prima di quelle di Palermo e di
Messina. Le Camere consultive, dipendenti dal Ministero dell’Interno, avevano lo scopo di indagare e proporre tutto ciò che potesse giovare agli interessi del commercio. Erano presiedute dall’intendente e, nei luoghi
diversi dalla capitale, formate da sei membri che si rinnovavano per un terzo ogni anno. Uno dei membri era
vice presidente, e vi era un segretario perpetuo. A Foggia l’istituzione ebbe nel tempo due prestigiosi segretari, colti e dinamici, Casimiro Perifano e Francesco Della Martora.
70
Pasquale e Tiziana di Cicco
zi, valutando l’opportunità della soppressione o della sola riforma dei Consigli generali degli ospizi.27
Diversamente dai Consigli, le Deputazioni non ebbero competenza in materia di pubblica istruzione, che venne invece demandata ad un’apposita Commissione di tal nome.28
Dopo il Nonimestre costituzionale il reale decreto 26 maggio 1821 richiamò
in vita i Consigli provinciali e distrettuali, ma, secondo lo Scirocco, avendo la rivoluzione infranto il rapporto tra la monarchia ed il paese, essi “vissero una vita fiacca, restando a raffigurare di fronte all’Europa […] la finzione di uno Stato in cui il
governo dava ascolto alla voce della pubblica opinione”.
L’autore di questo severo giudizio storico - che forse merita qualche ridimensionamento e non pare potersi accettare in tutta la sua assolutezza, sembrando
troppo riduttivo e declassando a deboli larve i Consigli provinciali e distrettuali aggiunge che la mediocrità dei designati per i Consigli ed il maggiore accentramento burocratico dei tempi di Ferdinando II fecero impossibile dopo il 1821 “la formazione intorno ai Consigli provinciali di un ceto di notabili, non realizzato nel
Decennio e nel Quinquennio, quando la scelta dei consiglieri era stata indirizzata
verso uomini di un certo prestigio”.29
In effetti, dalla nostra indagine emerge che i consiglieri della Capitanata, provinciali e distrettuali, sia quelli dell’intero ventennio che lo precede sia quelli del
periodo ferdinandeo, ebbero spesso fra loro uomini di notevole valore e seppero
farsi validi portavoce dei tanti problemi ed esigenze delle popolazioni daune. E
frequentemente con i loro voti ebbero la capacità di incrinare erronei convincimenti
delle autorità di governo e di ottenere talvolta mutamenti delle soluzioni adottate
in sede centrale. Muovendosi nell’ambito di competenza e nonostante i limiti dello
stesso, essi portarono la loro attenzione e richiamarono quella del sovrano sulle
maggiori necessità di una provincia apparentemente ricca, ma in cui gli squilibri
economici e sociali, le carenze culturali, sanitarie, assistenziali erano tanto profondi
ed antichi da pregiudicarne il vero e reale progresso.
3. Necessità e speranze nei verbali consiliari
Agricoltura, industria, commercio, lavori pubblici e pubblica istruzione furono le materie cui maggiormente attesero i Consigli nelle loro fatiche, che però
non mancarono nel contempo di impegnarsi anche in altre, quali la beneficenza, la
pubblica amministrazione, la sanità, l’ordine pubblico.
Può dirsi, sulla scorta dei verbali dei Consigli, che nessun lato della vita eco27
Per la Deputazione di Capitanata, cfr. ASFG, Consigli, b. 4, fascc. 58 e 61.
Per la Commissione di Capitanata, con sede a Lucera, cfr. M. D’AMBROSIO, Collegio-liceo e Università in
Capitanata. 1807-1862, a cura dell’Ufficio Stampa del Comune di Foggia, 1970, p. 154.
29
SCIROCCO, op. cit., pp. 121-122.
28
71
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
nomica e sociale della Capitanata venne trascurato e non divenne destinatario, sia
pure in varia misura, delle periodiche occupazioni dei consiglieri provinciali e
distrettuali. In quei verbali, purtroppo non tutti pervenutici,30 ritornano di continuo i molti problemi dell’agricoltura, dell’industria, del commercio della Capitanata,
provando in tal modo come essi fossero sentiti dai componenti delle assemblee
maggiori e minori, buona parte dei quali peraltro era personalmente dedita a quelle
attività ed allo sviluppo delle stesse vedeva legate anche le proprie fortune.31
Vi si sottolinea lo stato di arretratezza delle campagne daune, causato dalla
mancanza di capitali, dopo il rastrellamento di risorse conseguente alla legge di
censuazione del Tavoliere del 1806 ed alla legge transattiva del 1817,32 dalla scarsa
conoscenza ed applicazione delle moderne tecniche agrarie,33 dalla primordiale situazione viaria, funzionale esclusivamente ai bisogni della capitale.
Vi si denuncia frequentemente l’inesistenza di un’industria locale e l’impossibilità di lavorare nella provincia persino i prodotti di cui la Capitanata è più ricca, come la
lana, ed ancora lo stato asfittico del commercio, costretto, quello di via terra, a contare
solo sul reale cammino di Puglia, e quello di via mare, solo sul porto di Manfredonia.
Di pari passo con l’abbondanza delle denunce di questo stato di cose, va nei
Consigli l’abbondanza delle proposte e dei suggerimenti per porvi rimedio, ma essi
30
Nella serie intendentizia Consigli provinciali e distrettuali dell’Archivio di Stato di Foggia si rinvengono
i verbali delle riunioni del Consiglio provinciale dal 1808 al 1829 (mancano solo quelli del 1810). Sono andati
ormai perduti, forse negli ultimi eventi bellici che finirono di sconvolgere l’istituto archivistico, già da vari
decenni in grave disordine, o forse prima, tutti i verbali del Consiglio provinciale di Capitanata dal 1835 al
1845, mentre si sono resi incompleti quelli degli anni 1830-1834. Perduti un tempo si ritenevano anche i
verbali degli anni 1846-1852, poi invece rinvenuti presso la Biblioteca Provinciale di Foggia, della cui consistenza erano entrati indebitamente a far parte dopo l’ultima guerra, e rivendicati all’Archivio di Stato nel
1981. Definitivamente scomparse, infine, le prime 17 delle deliberazioni adottate dal Consiglio provinciale nel
1854 (dal 23 al 25 maggio), essendo mutilo il registro che le conteneva. Non muta molto la situazione, quando
la si riferisce ai Consigli distrettuali. I verbali delle loro sessioni, superstiti solo per un certo numero di anni
dell’epoca pre-ferdinandea, sono invece del tutto inesistenti e per tutti i distretti per gli anni 1844-1845 e
1851-1857, con la precisazione che mancano, inoltre, quelli del distretto di San Severo per l’anno 1830, del
distretto di Foggia per l’anno 1847, di tutti i distretti per l’anno 1859. Né può sperarsi di poterli reperire in
altri luoghi di conservazione archivistica, come l’Archivio di Stato di Napoli, dal momento che i verbali dei
Consigli distrettuali – diversamente da quelli dei Consigli provinciali – restavano nell’archivio dell’Intendenza e non venivano trasmessi a Napoli.
31
In ogni epoca nei Consigli provinciali compaiono i nomi dei maggiori latifondisti dauni, tutti censuari del
Tavoliere, come ad esempio, i de Luca, i Filiasi, i Saggese, i Celentano, i Rosati, i Barone, i della Rocca di
Foggia, i de Nicastro, gli Zunica, i Nocelli di Lucera, i del Sordo, i Masselli di San Severo, gli Angiulli, i de
Benedictis di Ascoli, i Gala, gli Zezza, i Chiomenti di Cerignola, i Curato, i Varo di Troia, i delli Santi di
Manfredonia.
32
Cfr. Pasquale DI CICCO, Censuazione ed affrancazione del Tavoliere di Puglia (1789-1865), Roma, [s.n.],
1964, pp. 44-45 e 71.
33
L’ignoranza, l’empirismo, i molti pregiudizi dell’agricoltore dauno già nel 1790 erano stati duramente
stigmatizzati da Francesco Longano, acuto osservatore della realtà contadina della Capitanata nel suo Viaggio
per la Capitanata, a cura di Renato Lalli, Campobasso, Editoriale Rufus, 1981, pp. 92-93. Contro questo stato
di cose svolse una lunga e meritoria azione, purtroppo non sempre coronata dal successo, la Reale Società
Economica di Capitanata, dal tempo della sua istituzione a Foggia sino alla sua cessazione (1810-1892). In
proposito, cfr. Pasquale e Isabella DI CICCO, La Reale Società Economica di Capitanata, in «la Capitanata»,
XLI (2003), 14 (ottobre), pp. 103-147.
72
Pasquale e Tiziana di Cicco
solo in minima parte riescono a trovare udienza presso gli organi di governo e nelle
sedi decisionali, il cui comportamento, sotto questo aspetto, non pare molto difforme
nei vari periodi.
E difatti i Consigli dauni, molto spesso inutilmente, sono indotti a ripetere
voti che già in anni precedenti hanno deliberato, e questo nonostante la prescrizione sovrana di non riprendere in esame e di non deliberare nuovamente su questioni
altre volte affrontate.
Questi sono alcuni dei temi già ricorrenti nei più antichi verbali consiliari:
gravosità dell’imposta fondiaria e critica dei tempi di sua scadenza, pesanti effetti
della normativa speciale sul Tavoliere, necessità di impiantare e diffondere le manifatture, di favorire l’uso di nuove tecniche e di nuove macchine, di impedire i
dissodamenti indiscriminati, di agevolare l’incremento commerciale mediante un
sistema viario più razionale e soddisfacente, capace di coinvolgere e vitalizzare territori della Capitanata, come il Gargano, rimasti ai margini di un moderno processo
economico.34 Ed ancora, richieste al governo di agevolazioni e di sostegni per i coloni ed i pastori, le cui intraprese risentono troppo di fattori estranei e spesso esiziali,
come il cattivo andamento meteorologico, le invasioni delle cavallette, la diffusione
del morbo degli animali detto schiavina.
Fin dal 1809 il Consiglio distrettuale di Foggia, e cioè quello del primo e del
più ricco distretto della Capitanata, compilava per il ministro dell’Interno una memoria, a firma del presidente Vincenzo Perrone e del segretario Giuseppe de Angelis,
che dava un quadro esauriente dei bisogni del distretto e richiedeva varie provvidenze. Molte delle situazioni che vi si espongono si attagliano all’intera Capitanata
come era allora e come continuò ad essere poi, per lunga serie di anni.35
E come a favore dell’agricoltura, della pastorizia, delle manifatture e dei prodotti della Capitanata, ugualmente molto impegnata e responsabile fu l’attività dei
Consigli in materia di lavori pubblici, specie dopo il 1813, quando, come si è detto,
si ebbe l’istituzione di un’apposita Deputazione di vigilanza sulle opere pubbliche
di interesse provinciale.
La Deputazione, presieduta dall’intendente, aveva per componenti quattro
notabili proposti dal Consiglio provinciale con il consueto sistema delle terne e
nominati dal re.36
34
Di una rotabile del Gargano, atta a far uscire questo vasto comprensorio da una grave situazione di isolamento
per mancanza di comunicazioni con il resto della Capitanata (per gli spostamenti poteva contarsi su soli tratturi),
cominciò a parlarsi tardi. Auspicati dal Consiglio provinciale sin dal 1814, i lavori iniziarono solo nel 1825 e nel
1843 risultavano approntate appena 14 miglia di strada tra San Giovanni Rotondo e Monte Sant’Angelo. In seguito
verrà realizzata un’altra Garganica, con tracciato diverso, che partiva da San Severo e arrivava a Vico, ma al 1860
non era ancora arrivata a Cagnano. In proposito, cfr. ASFG, Consigli, bb. 2, 5, 6, 8, fascc. 29, 66, 79, 92.
35
Ibid., b. 1, fasc. 3.
36
Solitamente il Consiglio proponeva per deputati alcuni consiglieri provinciali o distrettuali. La prima
Deputazione, nominata nel 1813, risultò composta dal marchese Giovannantonio Filiasi, Domenico Donadoni,
Matteo Nannarone e dal marchese Tommasantonio Celentano; quella del 1859, l’ultima dell’epoca ferdinandea,
era formata da Vincenzo Zaccagnino, Andrea Villani ed Antonio Pepe. Cfr. ASFG, Consigli, b. 2, fasc. 26;
«Giornale della Intendenza di Capitanata», 1859, supplemento al n° 2.
73
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
Non è esagerato forse affermare che nessun Consiglio provinciale o distrettuale omise mai di interessarsi ai problemi della viabilità, sempre visti in stretto
collegamento con quelli dello sviluppo economico e delle molte altre opere pubbliche di cui la Capitanata necessitava.
Grandi carenze invero presentava la situazione viaria dauna nei primi decenni del XIX secolo: ben poche erano le strade, frequenti i percorsi malfatti e disagevoli,
rare le vie esterne agli abitati che rimanessero percorribili anche d’inverno 37.
Centri importanti, come Foggia, San Severo, Cerignola, Manfredonia, nella brutta
stagione restavano quasi isolati fra loro, dopo che le piogge o i torrenti in piena avevano
reso impercorribili ed a grave rischio gli itinerari soliti, che per gran parte utilizzavano
terreni saldi e lunghi tratti non rotabili.38 Lo stesso regio cammino di Puglia, la grande
arteria di collegamento con Napoli si presentava in cattivo stato per mancanza di manutenzione adeguata ed in molti punti non era di agevole transito a causa dei forti dislivelli
altimetrici, senza dire che esso passava anche per luoghi molto impervi, come il pauroso
Vallo di Bovino, costante ricettacolo di comitive brigantesche.39
Fu appunto nel Decennio che i governanti, ponendo termine al sistema degli
interventi frammentati e quasi occasionali che aveva caratterizzato il secolo precedente, ed anche per l’opera di informazione e di sensibilizzazione attuata dai Consigli di Capitanata con i loro voti, elaborarono un preciso piano operativo finalizzato al razionale ammodernamento dell’assetto viario provinciale. Ciò avvenne con
il reale decreto del 28 aprile 1813 che fissò chiare priorità esecutive, prevedendo
anzitutto la costruzione della strada Foggia-Cerignola e poi delle strade FoggiaSan Severo, Foggia-Manfredonia, Foggia-Montecalvello.
Si programmava in tal modo una rete provinciale a raggiera, con al centro il
capoluogo che mediante percorsi rotabili si sarebbe collegato con le zone di maggior produttività agricola (Cerignola, San Severo) e di più intenso smercio (Manfredonia e Montecalvello sulla via per Napoli).40 Costante da allora in poi sarà l’opera
37
Frequenti denuncie in proposito e continue lamentele si rilevano nei verbali dei Consigli del tempo; cfr.
ASFG, Consigli, b. 5, fascc. 64, 65, 66.
38
Entro il 1830, delle varie rotabili “di fabbrica” provinciali, solo la Foggia-Orta risultava completata, e da
circa un decennio. Le altre, intraprese dopo la Restaurazione, avevano avuto solo un parziale perfezionamento (la Foggia-Lucera nelle prime 5 miglia; la Foggia-Manfredonia per 7 miglia; la Foggia-San Severo per 10
miglia). Cfr. Angelo MASSAFRA, Campagne e territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Bari, Dedalo, 1984, pp. 314-315.
39
I briganti erano capaci persino di entrare negli abitati, portando a compimento, indisturbati, le loro
malefatte e nel 1814 assassinarono lo stesso sottintendente del distretto di Bovino, Procacci. E proprio a causa
della permanente insicurezza dei luoghi, il Consiglio distrettuale di Bovino sovente fece voti perché capoluogo distrettuale diventasse Troia. Cfr. ASFG, Consigli, bb. 2, 3, 6, 7, fascc. 22, 44, 77, 88; Nicola BECCIA, Il
Sottointendente di Bovino assassinato il primo giorno dell’anno 1814. Brigantaggio e spirito pubblico al tempo
dei Napoleonidi, in «Il Popolo di Roma» del 28 giugno 1942.
40
In realtà, però, si portarono a compimento prima le rotabili per Napoli e per Manfredonia e poi le altre. Nel
1819, infatti, risultava già terminata la strada Foggia-Montecalvello e data in appalto la Foggia-Manfredonia. La
strada Foggia-Cerignola, subito iniziata nel 1814, ebbe il suo completamento solo nel 1821; e la Foggia-San Severo, avviata nel 1816, non era ancora completata nel 1830. Cfr. ASFG, Consigli, bb. 2, 3, 4, 6, 8, fascc. 22, 34, 36, 47,
76, 96; nel «Giornale fisico agrario della Capitanata», I (1830), 10 (20 maggio), vedi il discorso pronunciato dall’intendente Santangelo il 15 maggio 1830 all’apertura del Consiglio provinciale.
74
Pasquale e Tiziana di Cicco
di pungolo che svolgeranno i Consigli, tramite la Deputazione delle opere pubbliche, perché gli intrapresi lavori stradali vengano portati a termine, con il superamento di ogni difficoltà, e più volte le assemblee o la Deputazione si porranno in
atteggiamento critico rispetto all’operato del Corpo degli ingegneri di ponti e strade cui compete la programmazione e l’esecuzione delle opere.
I Consigli dimostrano molta attenzione per tutto ciò che attiene alla viabilità, sia esterna che interna agli abitati: discutono circa la convenienza dei
tracciati e delle varianti che vengono proposte, affrontano le questioni delle competenze delle opere (se di conto regio o provinciali o comunali), segnalano soluzioni alternative, propongono nuovi tracciati in vista di dichiarati bisogni delle
popolazioni e dei traffici. Ed arrivavano persino a rigettare piani governativi,
se non coincidenti con gli interessi della provincia, come nel caso della strada
Egnazia.41
Con la Restaurazione il loro ruolo in materia diventa ancora più forte ed
incisivo, a seguito dell’affidamento alle Deputazioni da loro espresse anche della
tutela sulla gestione dei fondi destinati alle opere pubbliche.
Ma nei verbali consiliari di quegli anni riguardanti le opere pubbliche non si
parla naturalmente solo di strade, anche se esse restano al primo posto nei voti
assembleari. Frequente oggetto di deliberazione sono difatti anche i ponti sui vari
fiumi della provincia, perché alcuni sono crollati e vanno ricostruiti, altri abbisognano di consolidamento, altri vanno eretti per la prima volta, e altri ancora, come
quello di Varano, sono fatti in legno e di uso rischioso, come più volte si è riscontrato.42
Sarà così possibile fra l’altro ottenere la costruzione di un ponte sul fiume
Carapelle, molto necessaria,43 la ricostruzione del ponte dei Massari sul lago Salpi,44
ed ancora l’edificazione di quattro altri ponti sui vari torrenti fra San Severo e
Lucera,45 mentre nel 1826 si darà avvio alla ricostruzione dell’importante ponte di
Civitate.46
Negli stessi anni si progetta la bonifica della Salsola,47 da parte del Consiglio
distrettuale di Bovino si auspica l’incanalamento del disordinato corso del Carapelle,
41
Cfr. ASFG, Consigli, bb. 3, 6, 7, fascc. 36, 71, 76, 87; A. MASSAFRA, Campagne e territorio nel Mezzogiorno
fra Settecento e Ottocento…, cit., p. 217 e segg.
42
ASFG, Consigli, bb. 7 e 9, fascc. 85 e 118.
43
Le acque di questo fiume frequentemente straripavano, inondando non solo i fondi di vari proprietari,
ma anche il tratturo che era nelle vicinanze e che in parte era al servizio della viabilità ordinaria da Foggia a
Cerignola, con gli intuibili disagi ed inconvenienti; cfr. ibid., b. 2, fasc. 34.
44
Era tra i più importanti della regione perché, posto sul tragitto da Manfredonia a Barletta, assicurava il
traffico fra Capitanata e Terra di Bari. La ricostruzione, proposta dal Consiglio provinciale nel 1816, con il
pieno favore dell’intendente, avvenne solo nel 1819; cfr. ibid., b. 4, fasc. 47.
45
Ibid., bb. 6 e 9, fascc. 79 e 129.
46
Ibid., bb. 7 e 8, fascc. 81 e 92.
47
Portata a compimento nel 1830, dopo un lavoro durato quasi vent’anni; cfr. il discorso pronunciato
dall’intendente Santangelo il 15 maggio 1830 all’apertura del Consiglio provinciale di Capitanata il 15 maggio
1830, in «Giornale fisico agrario della Capitanata»…, cit., pp. 155-157.
75
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
e viene proposto anche il riatto del porto di Rodi, distrutto nel secolo precedente
dai briganti.48
Mentre il Consiglio provinciale delibera in relazione ad opere pubbliche di
conto regio o di interesse provinciale, quelli distrettuali di Foggia, Bovino e San
Severo esprimono voti circa le opere di interesse particolare del distretto o di
qualche suo comune.
Negli anni 1819-1822 si costruisce nel capoluogo il carcere centrale, nei vari
paesi della provincia si tracciano molte traverse interne e parecchie vengono lastricate, e nel 1824 il Consiglio distrettuale di San Severo delibera sulla costruzione di
varie rotabili fra il capoluogo distrettuale e i comuni di Apricena, San Paolo e Torremaggiore.49
Altro campo in cui i Consigli ebbero modo di spendere utilmente le proprie
energie fu quello della pubblica istruzione, consapevoli come furono che il progresso delle genti non era scindibile dalla loro crescita educativa e culturale.
Quanto misero fosse in Capitanata, ancora alla fine del XVIII secolo, l’insieme dei mezzi e delle risorse a scopi educativi è il Galanti a farcelo sapere a chiare
lettere.50
Alla misera situazione, persistente agli inizi del secolo XIX, si sforzarono
energicamente di porre rimedio i Napoleonidi che si succederono sul trono di Napoli con la loro politica scolastica, frutto del pensiero di Cuoco, di Galdi e di Delfico,
la quale in primo luogo creava un’organizzazione dell’istruzione pubblica molto
capillare e quale mai si era vista nel regno.
Istituito con determinazione di Giuseppe Bonaparte, nel marzo del 1806, il Ministero dell’Interno cui, fra le altre attribuzioni, competeva “l’istruzione, le scuole pubbliche ed universitarie degli studi, i musei e biblioteche pubbliche”, con decreto del 15
agosto dello stesso anno si gettavano le fondamenta della riforma dell’istruzione.
In virtù di esso “tutte le città, terre, ville ed ogni altro luogo abitato di questo
regno saranno obbligate a mantenere un maestro per insegnare i primi rudimenti e
la dottrina cristiana a’ fanciulli; saranno inoltre tenute a stabilire una maestra per far
apprendere, insieme con le necessarie arti donnesche, il leggere, scrivere, e la numerica alle fanciulle” (art. 1) e “nei comuni con meno di 3000 abitanti sarà permesso ai
maestri di serbare il metodo ordinario antico. Ove la popolazione è maggiore, i
maestri dovranno insegnare col metodo normale” (art. 3).51
48
ASFG, Consigli, b. 8, fasc. 96.
Ibid., b. 7, fasc. 85.
50
Giuseppe Maria GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di Franca Assante e
Domenico Demarco, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1969, 2 voll.: vol. II, p. 538.
51
Il metodo ordinario antico consisteva nell’insegnare le lettere alfabetiche secondo il loro ordine, per
passare poi alla composizione e lettura delle sillabe e delle parole; il metodo normale, invece, insegnava a
leggere e a scrivere, fondandosi su altri criteri e mezzi, fra cui preminente quello della memoria visiva (al
discente si presentava una cosa o una immagine di essa e se ne diceva il nome. Molto interessante al riguardo
è un opuscolo dal titolo Compendio del metodo normale, in ASFG, Intendenza, Governo e Prefettura di
Capitanata, Pubblica istruzione, b. 7, fasc. 88.
49
76
Pasquale e Tiziana di Cicco
Fra grandi difficoltà, la riforma anche in Capitanata conseguì i suoi primi
stentati successi, come si trae notizia da alcuni documenti dell’Archivio di Stato di
Foggia.
Anche re Gioacchino diede un decreto fondamentale in materia scolastica,
quello del 15 settembre 1810, che stabiliva scuole primarie in tutti i comuni del
regno, affidandole ai parroci, nei comuni di terza classe, o a istitutori nominati dal
Ministero dell’Interno negli altri comuni. Ai comuni era fatto proprio l’obbligo di
fornire i locali e di corrispondere gli stipendi ai maestri; ai genitori quello di mandare alle scuole i figli dell’età di almeno 5 anni.
A Lucera allora funzionava già da un triennio con regolarità un Real Collegio, aperto sullo scorcio del 1807;52 a Foggia erano in attività, oltre a quella normale, le Scuole pie degli Scolopi, in cui si insegnavano italiano, latino, storia, geografia,
lettere umane, filosofia, etica, matematica e fisica, e principi di religione con cenni
storici, nonché la scuola in cui, sotto la guida di Giuseppe Rosati, s’insegnavano i
rudimenti di agricoltura e di fisica.53
I verbali dei Consigli del Decennio evidenziavano con quanta attenzione sia
i consessi maggiori di rappresentanza sia quelli minori seguissero le vicende del
mondo della scuola, deplorandone i difetti, indicando rimedi, chiedendo interventi.
Con la Restaurazione la struttura scolastica della Capitanata, così come quella
del resto del regno, rimase con i caratteri che aveva avuti sino al 1815. Le scuole,
istituite nei vari comuni della provincia, conducevano vita grama, non tanto perché
- come assumeva qualche Consiglio - trascurate dalle amministrazioni comunali e
poco sorvegliate, quanto piuttosto per la cronica deficienza degli “stati discussi”
comunali, per la difficoltà di trovare persone disposte ad insegnare (mancavano
specialmente le maestre, reputandosi dalle donne l’insegnamento un mestiere mortificante), per il malumore diffuso dei docenti che, per farsi corrispondere il loro
avere, spesso erano costretti a piatire l’intervento delle autorità statali.
In quegli anni la Capitanata, per quanto lo potevano consentire i tempi, cercava di dotarsi di scuole particolari che in qualche misura le permettessero di non
essere ulteriormente alle dipendenze di Napoli.
Fin dal 1813 invero il Consiglio provinciale, nella seduta del 13 settembre,
aveva richiesto l’istituzione di una scuola di diritto, nei luoghi di residenza dei tribunali, di una scuola veterinaria nel capoluogo, di una di medicina in San Severo, di
una di botanica in Lucera e San Severo e di una scuola di agricoltura nei comuni con
circa 10.000 abitanti.54
52
Cfr. Vittore ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, Foggia, Stab.
tipo-litografico Pollice, 1884, p. 14.
53
Frequentata da trenta alunni, la sua istituzione risaliva al 1804 ed era stata voluta dal comune di Foggia
che corrispondeva all’insegnante uno stipendio di ducati 180 l’anno e gli forniva il locale presso il Collegio
degli Scolopi. Cfr., in proposito, l’atto del notaio Michele Taliento di Foggia, datato 18 giugno 1804, conservato nella Sezione di Archivio di Stato di Lucera (Archivio notarile, prot. 1103).
54
ASFG, Consigli, b. 2, fasc. 26.
77
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
La richiesta di una scuola di agricoltura nei comuni principali e di una scuola
di veterinaria veniva poi rinnovata dal Consiglio provinciale del 1818, ma anche da
quelli del 1821 e del 1822.55
E sempre nel 1821 il Consiglio distrettuale di San Severo deliberava sull’istituzione di una cattedra di ostetricia nel capoluogo,56 e nel 1822 di uno stabilimento
scientifico a Vico del Gargano.57
4. I Consigli nell’epoca ferdinandea
Come già avvenuto nel 1820 a causa dei moti carbonari, anche nel 1848 la
situazione politica generale del momento indusse il governo a non convocare i
Consigli, per la loro potenziale “pericolosità liberale”. In essi, si è avuto modo di
dirlo, l’elemento lealista, attaccato al trono, non raramente si vedeva affiancato da
quello con un passato rivoluzionario e settario, anch’esso ammesso nei Consigli
per penuria di elementi più graditi. E, proprio con l’aggiunta di elementi tratti dai
Consigli provinciali, un disegno governativo del 1847 aveva progettato di modificare la natura e la composizione della Consulta generale del regno perché l’organismo divenisse più rispondente ai tempi nuovi.58
Neppure negli anni di maggiore reazione, il 1849 ed il 1850, durante i quali
coloro che si erano più compromessi negli avvenimenti politici conobbero le tristi
galere borboniche o la non meno triste via dell’esilio in terra straniera, i Consigli
furono convocati. Fatta eccezione però per questo triennio, le assemblee provinciali e distrettuali durante il periodo ferdinandeo si riunirono regolarmente in tutto il
regno, avendo normale ed ordinato funzionamento e svolgendo la funzione istituzionale di organi di rappresentanza dei bisogni della popolazione.
Il Consiglio provinciale di Capitanata continuò a tenere le sue sessioni nel
mese di maggio, riunendosi a Foggia nel palazzo dell’Intendenza, già palazzo dell’antica Dogana delle pecore di Puglia, e propriamente nel salone dell’Archivio provinciale.
Convocato dall’intendente, questi riceveva nelle sue mani il giuramento del
presidente e dei nuovi consiglieri nominati dal re.59 Espletato questo essenziale adempimento, l’intendente dichiarava installato ed aperto il Consiglio e, dopo aver pronunciato un discorso cui faceva seguito quello del nuovo presidente e letto le sovra-
55
Ibid., b. 3, fasc. 42.
Ibid., b. 5, fasc. 62.
57
Ibid., bb. 6 e 9, fascc. 75 e 118.
58
Cfr. Pietro CALÀ ULLOA, Il regno di Ferdinando II, a cura di Giuseppe Francesco de Tiberiis, Napoli,
Edizioni scientifiche italiane, 1967, pp. 125-126.
59
Il presidente del Consiglio provinciale che veniva dalla capitale prestava, però, il suo giuramento nelle
mani del ministro dell’Interno e, una volta in provincia, riceveva direttamente il giuramento dei consiglieri,
alla presenza dell’intendente. Così per l’art. 38 della legge del 12 dicembre 1816 n. 570.
56
78
Pasquale e Tiziana di Cicco
ne risoluzioni sui voti degli anni precedenti, si allontanava, consentendo in tal modo
all’assemblea di avviare i lavori.60
Il discorso della prima autorità provinciale all’apertura del Consiglio mirava ad
essere una sorta di resoconto dell’attività che il suo ufficio, l’Intendenza, aveva svolto
negli ultimi tempi nell’interesse della provincia ed un mezzo per segnalare ai consiglieri problemi e materie su cui conveniva che portassero prioritariamente l’attenzione e l’esame. In qualche caso le “proposizioni per il miglioramento del distretto”
o i “ricordi per i consiglieri” accennati dall’intendente risultano delle vere e proprie
imbeccate.
Di norma il discorso di risposta del neo presidente era meno argomentato,
più di occasione e sostanzialmente, al di là della magniloquenza espressiva, si riduceva ad una promessa di far bene operare il Consiglio e a ringraziamenti ed auguri
per il re e per colui che lo rappresentava in provincia.61 Munito dei poteri riconosciutigli dalla legge, nella sua prima sessione il Consiglio, dopo aver scelto il consigliere segretario, passava a designare gli impiegati che dovevano formare l’ufficio di
segreteria, di solito una decina di persone. Ciò fatto, si stabilivano i giorni delle
riunioni e l’orario dei lavori. Il presidente, a sua volta, designava i consiglieri relatori
e questi, con la “commessa per riferire”, ricevevano tutti gli atti necessari per conoscere le questioni loro affidate e poter così fare le successive proposte.
La prima sessione, di solito dedicata ad incombenze di tipo amministrativo,
si chiudeva con ringraziamenti per il sovrano e con altre manifestazioni di fedeltà e
di ubbidienza.
Le altre sessioni in parte servivano per deliberare su “oggetti” segnalati dall’intendente o da altre autorità, in parte per esaminare e discutere sui voti dei Consigli distrettuali.
Le discussioni e le deliberazioni potevano avvenire a porte aperte o chiuse, il
voto doveva essere sempre palese.62
60
L’intendente poteva intervenire al Consiglio solo se invitato da questo e comunque senza prendere parte
alle deliberazioni, giusta l’art. 39 della legge del 12 dicembre 1816 n. 570. Di nessun altro impiegato dell’Intendenza è ammessa la presenza nelle riunioni consiliari, ribadirà nel 1844 il ministro dell’Interno Santangelo; cfr.
ASFG, Consigli, b. 3, fasc. 31.
61
Si menzionano, a mo’ di esempio, i discorsi tenuti dal marchese Giovanni Antonio Filiasi e da Paolo
Tonti, presidenti del Consiglio provinciale nel 1830 e nel 1846, pubblicati rispettivamente nel «Giornale fisico
agrario della Capitanata» e nel Rapporto dell’intendente Patroni di quegli anni, e quello del Duca di Serracapriola
tenuto nel 1852, inedito; cfr. ASFG, Consigli, b. 20, fasc. 274. Non si conosce, invece, il discorso tenuto dal
marchese Brancia al Provinciale del 1835, riguardo al quale il diarista locale Villani potè scrivere: “La risposta
del Presidente però non ha corrisposto a quanto eruditamente si è esposto dall’Intendente, ma invece ha
destato il riso generale, poiché quanto noiosamente ha detto non ha avuto né principio né fine”. Cfr. «Giornale Patrio Villani» del 15 maggio 1834 (parte manoscritta ancora inedita conservata presso il Museo Civico di
Foggia e, in copia fotografica, nell’Archivio di Stato di Foggia).
62
Così il Consiglio provinciale del 1959 nella sua prima riunione decise che le sessioni si tenessero a porte
chiuse, perché “il concorso del pubblico poteva portare un ritardo al disbrigo degli affari ed essere di ostacolo
al voto libero di ciascun consigliere”; cfr. ASFG, Consigli, b. 24, reg. 327, c. 237t. Secondo la norma originaria
i voti che i Consigli esprimevano, assumevano validità se adottati con la maggioranza dei 2/3 dei consiglieri.
In seguito, però, essendosi verificata spesso l’impossibilità di mettere insieme tale maggioranza per la scarsa
partecipazione dei consiglieri alle sedute, una nuova disposizione riconobbe validità anche ai voti espressi
senza la detta maggioranza. Cfr. Ibid., b. 1, fasc. 4.
79
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
L’esame dei voti distrettuali avveniva in apposite sessioni, generalmente due
o tre, e con sequenza gerarchica: si cominciava con i voti del distretto in cui era il
capoluogo provinciale (I distretto, Foggia), si proseguiva con quelli del II distretto
(San Severo), si terminava con il III distretto (Bovino).
Una delibera consiliare concludeva ogni esame e non sempre era adottata
all’unanimità.
Essa o raccomandava alla valutazione e decisione sovrana il voto del Consiglio distrettuale, oppure, non condividendolo, non riteneva di appoggiarlo oppure
manifestava l’astensione.
Solitamente il Consiglio provinciale adottava questo ultimo tipo di delibera
per quei voti che i Consigli distrettuali emettevano su questioni estranee o esorbitanti rispetto alle proprie competenze, voti peraltro emessi di frequente e causati sia
dalla volontà di trovare rimedi per i tanti emergenti bisogni dei distretti sia dalla
scarsa conoscenza delle proprie attribuzioni e facoltà.
In generale il Consiglio provinciale di Capitanata non tenne molte riunioni:
mediamente sette o otto all’anno, con le punte massime di sedici sessioni nel biennio precedente al 1848, quando la sua attività rimase interrotta, e di quindici sessioni nel 1851, anno di ripresa di detta attività.
E forse non è fuor di luogo ipotizzare che il notevole incremento delle sessioni consiliari in anni particolarmente significativi, quelli che precedono e seguono l’anno dei moti per la Costituzione liberale, non sia un fatto puramente casuale,
ma piuttosto il segno di una maggiore partecipazione dei consiglieri dauni ai bisogni e ai problemi della Capitanata di allora, in un contesto generale di più intensa
vivacità culturale e di più profonda attenzione per le questioni del regno.
Una verifica della fondatezza di una tale ipotesi potrebbe aversi però solo
con la conoscenza del numero delle sessioni tenute in quegli stessi anni dagli altri
Consigli generali del Mezzogiorno.
Il verbale dell’ultima sessione dell’assemblea si concludeva con gli encomi
alle pubbliche autorità e con la nota delle gratificazioni agli scribenti, cioè gli impiegati scelti per la redazione degli atti e appartenenti alla segreteria.
Dichiarato chiuso il Consiglio, il presidente trasmetteva tutti gli atti al Ministero dell’Interno, escluse quelle delibere che, per motivate ragioni, avevano preso
“forma staccata” ed erano già divenute oggetto di particolari trasmissioni.
Sin dal 1841 gli atti originali di ogni adunanza venivano trascritti in un apposito registro o protocollo il cui uso, richiesto per primo dal Consiglio provinciale di
Capitanata, il sovrano aveva ammesso in tutte le province.63
Presso il Consiglio esisteva anche un altro protocollo detto “di censura”, in
63
Questo protocollo, invece, non fu mai in uso presso i Consigli distrettuali, e solo nel 1858 il Consiglio del
distretto di Bovino espresse il voto di poter impiantare un registro “a rendere duratura la memoria dei
deliberamenti”, così come era consentito al Consiglio provinciale. Questo, poi, nella sessione del 12 maggio,
deliberava un voto uniforme; cfr. Ibid., b. 24, reg. 327, c. 194r.
80
Pasquale e Tiziana di Cicco
cui si riportavano le opinioni che l’assemblea manifestava a proposito delle autorità
della provincia e dei pubblici funzionari. Giusta il reale rescritto del 19 maggio
1841, questi e altri atti del Consiglio andavano consegnati al segretario generale
dell’Intendenza. Da ciò potevano derivare inconvenienti e ad essi intese porre rimedio la proposta del consigliere Zaccagnino, in data 27 maggio 1846, “di stabilirsi
un archivio fisso in una delle officine dell’Intendenza per la conservazione degli atti
del Consiglio medesimo, ma bensì per le carte tutte che servir debbono alla preparazione dei lavori annuali”.
L’armadio riservato per le sole scritture del Consiglio sarebbe stato chiuso con
doppia chiave, una tenuta dal segretario generale che l’avrebbe consegnata al presidente
nella successiva riunione dell’assemblea, l’altra per un consigliere prescelto da questa.
Si è detto che le attribuzioni, le “materie” dei Consigli provinciali erano fissate dall’art. 30 della legge del 1816 sull’amministrazione civile. Tra le più impegnative di esse vi era l’esame del progetto dello stato discusso provinciale, l’esame di
vari conti morali e le proposte delle terne per le diverse Deputazioni.64
I Consigli, però, esorbitavano frequentemente dalle loro attribuzioni e, come
scriveva nel 1828 il ministro dell’Interno al presidente del Consiglio provinciale di
Capitanata, “per effetto di un trasporto di zelo pel bene della Provincia spesso si diffondano in proposizioni che o per mancanza di mezzi o per la qualità di essi non possono
avere effetto” con la conseguenza che “la M.S. con dispiacere è costretta a non approvarla”.65 In effetti già una precedente circolare dell’Interno del 30 marzo 1825 aveva
partecipato a tutti i Consigli la sovrana determinazione che con rigore si preoccupava di
stabilire varie delimitazioni da rispettare in sede deliberante, come quelle di:
a - non proporre nuove strade fin quando quelle in costruzione non fossero
state terminate o vicine a terminarsi;
b - non tornare su argomenti già risoluti, a meno che nuove circostanze non lo
esigessero;
c - non proporre nuovi stabilimenti di beneficenza, di educazione, di reclusione, se
non si fossero prima ben basati i fondi necessari tanto per le spese di primo
stabilimento quanto per il mantenimento successivo delle opere;
d - non immischiarsi nelle opere comunali, dipendendo queste dalle deliberazioni dei rispettivi decurionati e secondo regole stabilite dalla legge, eccetto quando
tali opere potessero aver nesso con quelle della provincia.
L’11 aprile 1829 il ministro dell’Interno ritenne necessario ribadire questi
divieti, aggiungendo ancora che il Consiglio non doveva ritornare sugli oggetti
64
Il Consiglio provinciale di Capitanata esaminava, tra gli altri, il conto morale dell’Intendenza e delle
Sottointendenze, del Reale Collegio di Lucera, della Reale Società Economica di Capitanata, del Consiglio
generale degli ospizi, dell’Orfanotrofio provinciale, e i progetti di stati discussi dei fondi comuni e dei fondi
speciali della provincia, delle opere pubbliche provinciali, della bonifica dei torrenti, della strada AppuroSannitica, della Garganica, ecc.
65
ASFG, Consigli, b. 9, fasc. 113 (il marchese Amati, ministro dell’Interno, a Gerardo di Sangro, principe di
San Severo, presidente del Consiglio provinciale di Capitanata).
81
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
proposti ultimamente, se mai non giungessero in tempo all’intendente le risoluzioni sovrane sugli atti deliberati l’anno precedente.66
E tuttavia nel tempo fu indispensabile più volte richiamare i Consigli all’ordine e al rispetto di queste prescrizioni, come fa intendere il verbale della sessione
del 1° maggio 1852 che si apre con la lettura al consesso provinciale di Capitanata di
una ministeriale dell’Interno avente proprio questo contenuto.67
Quanto alle risoluzioni che il re, nel Consiglio ordinario di Stato e spesso
dopo aver inteso la Consulta, adottava sui voti dei Consigli provinciali, va detto
che esse venivano comunicate dal ministro dell’Interno all’intendente. A cura di
questi erano partecipate ai Consigli, alla loro apertura, e per estratto a chiunque
altro potesse avere interesse a conoscerle.
Alcuni Consigli provinciali implorarono perché le risoluzioni sovrane prese
di anno in anno sulle varie proposte fossero comunicate a tutti i comuni ed ai Consigli distrettuali. E il 7 ottobre 1832 Santangelo, ministro dell’Interno e già intendente di Capitanata, poteva informare Gaetano Lotti, suo successore a Foggia, dell’ordine emanato dal re nel Consiglio ordinario di Stato del 5 ottobre, secondo il
quale per regola generale le risoluzioni dovessero parteciparsi a tutti i Consigli
distrettuali, rimettendosi per il resto alla prudenza degli intendenti.68
Qualche anno dopo, nel 1835, su voto del Consiglio provinciale di Calabria
Ulteriore, gli intendenti dei domini al di qua del Faro, dopo aver preso dal Ministero dell’Interno gli ordini superiori, ebbero il permesso di poter inserire nel Giornale d’Intendenza le sovrane risoluzioni provocate dai Consigli provinciali relativamente ai conti morali, alle opere pubbliche, alle industrie e manifatture, alla pubblica istruzione ed ai pubblici stabilimenti.69
Il funzionamento dei tre Consigli distrettuali della Capitanata ripeteva su
scala ridotta quello dell’assemblea provinciale. Il Consiglio del I distretto, che rappresentava ventitré comuni, era convocato ed installato dall’intendente e, in caso di
impedimento, dal segretario generale dell’Intendenza. Così avvenne ad esempio nel
1835 e nel 1837.
Quelli del II e del III distretto, rispettivamente rappresentativi di venticinque e di ventuno comuni, venivano invece convocati dai sottintendenti.70
66
Ibid., b. 3, fasc. 31. Le deliberazioni dei Consigli provinciali diventavano esecutive solo quando ottenevano l’approvazione sovrana.
67
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 303-304.
68
Ibid., b. 3, fasc. 31.
69
Loc. cit.
70
Formavano il primo distretto i comuni di Foggia, Orta, Ordona, Carapelle, Stornarella, Stornara, Cerignola,
Casaltrinità, Reali Saline, Manfredonia, Zapponeta, Montesantangelo, Mattinata, Vieste, Lucera, Biccari,
Alberona, Roseto, Volturara, Volturino, Motta, San Bartolomeo e, dal 1848, San Ferdinando. Componevano
il secondo distretto i comuni di San Severo, San Marco in Lamis, Rignano, San Giovanni Rotondo, Sannicandro,
Cagnano, Carpino, Vico, Peschici, Rodi, Ischitella, Apricena, Lesina, Poggio Imperiale, Torremaggiore, San
Paolo, Serracapriola, Chieuti, Castelnuovo, Casalvecchio, Casalnuovo, Pietra, Celenza, Carlantino, San Marco la Catola. Costituivano il terzo distretto i comuni di Bovino, Panni, Castelluccio dei Sauri, Savignano,
Deliceto, Santagata, Ascoli, Candela, Troia, Celle, Castelluccio Valmaggiore, Faeto, Castelfranco, Montefalcone,
Ginestra, Accadia, Monteleone, Anzano, Orsara, Montaguto, Greci.
82
Pasquale e Tiziana di Cicco
Per l’art. 48 della legge sull’amministrazione civile, le sessioni dei Consigli
distrettuali non potevano oltrepassare i quindici giorni. Dalla nostra ricerca emerge
che le tre assemblee minori della Capitanata rimasero sempre ben lontane da questo
limite.
Come avveniva anche per il Provinciale, l’ultima delle riunioni assembleari
dava al Consiglio distrettuale di Foggia l’occasione di congratularsi con l’intendente e con il segretario generale dell’Intendenza per la tranquillità e la sicurezza del distretto ed ai Consigli di San Severo e di Bovino di esprimere lodi e
ringraziamenti per i sottintendenti e le altre autorità.
Le deliberazioni, alla chiusura delle sessioni, erano fatte pervenire al Consiglio provinciale, per il tramite diretto dell’intendente (quelle del I distretto) e
indiretto del sottintendente (quelle degli altri distretti).
Il Consiglio distrettuale di Foggia si riuniva nell’ampio palazzo dell’Intendenza, quello di San Severo nell’edificio della Sottintendenza, comodamente ubicata
nel palazzo degli ex Celestini: essi, quindi, non ebbero mai come un problema da
risolvere il luogo in cui riunirsi. Ciò invece non avvenne per il Consiglio distrettuale
di Bovino, obbligato a tenere le sue riunioni presso la Sottintendenza, che disponeva di pochi locali condotti in fitto, e per di più periferici. Tra i voti più ricorrenti di
questo Consiglio c’è quello di poter acquistare o far erigere un fabbricato per sede
della Sottintendenza: così nel 1833, nel 1836, nel 1841, nel 1843.71
Nel 1844 una risoluzione sovrana autorizza infine l’acquisto della casa Barone per sede della Sottintendenza, ma essa non troverà mai modo di portare a risultati concreti. Sul voto espresso in proposito ancora nel 1856, il Consiglio di
Capitanata dava un parere negativo, causa la ristretta finanza provinciale, e si dichiarava disponibile ad aumentare da 200 ducati a 250 ducati la somma per il fitto di
locali della Sottintendenza, onde consentire di almeno fittare casa Barone.72
E questo parere negativo, sempre per mancanza di mezzi, sarà manifestato
nuovamente nella sessione del 24 maggio 1859.73
Sin dal 1815 il Consiglio provinciale si occupava della nomina della Deputazione per la manutenzione ed acquisto dei mobili dei locali dell’Intendenza, delle
Sottintendenze e dei Tribunali.74 La legge del 1816 sull’amministrazione civile gli
affidò la nomina delle Deputazioni per la direzione e la vigilanza delle opere pubbliche provinciali e di uno o due deputati scelti dal suo seno o fuori per sollecitare
presso l’Intendenza o presso i Ministeri la risoluzione ed il compimento delle sue
deliberazioni (art. 30).
Queste Deputazioni, proposte dal Consiglio ed approvate dal sovrano, svolsero un importante ruolo perché, diversamente dall’assemblea provinciale che aveva vita breve, esse duravano almeno un anno, potendo essere riconfermate anche
71
ASFG, Consigli, bb. 11, 12, 14, fascc. 153, 165, 189, 195.
Ibid., b. 24, reg. 327, c. 98t.
73
Ibid., c. 248t.
74
Ibid., b. 4, fasc. 47.
72
83
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
più volte, e quindi erano in condizione di svolgere con buona continuità i compiti
loro affidati.
Quanto ai singoli deputati “per assistere” presso l’Intendenza o presso i Ministeri, una risoluzione sovrana del 3 maggio 1836, valida per tutte le provincie, ma
provocata da una memoria che era stata trasmessa dal Consiglio provinciale del 2°
Abruzzo Ultra, ne precisava le facoltà e i caratteri.
Essa difatti chiariva che i deputati potevano riunirsi almeno una volta presso
l’intendente e sotto la sua presidenza, per sollecitare il compimento delle deliberazioni del Consiglio, ma senza redigere alcun verbale; che era vietato loro ogni corrispondenza ufficiale; che potevano assistere alle riunioni della Deputazione delle
opere pubbliche; e che nel disimpegno delle loro funzioni andavano considerati
consiglieri provinciali.75
A seguito delle nostre ricerche è possibile affermare che nelle varie Deputazioni daune il turn over avveniva con lentezza e che solitamente gli avvicendamenti
si collegavano a dimissioni, o morte dei componenti o anche al loro inserimento in
altre Deputazioni.
Il consigliere Vincenzo Zaccagnino fa parte della Deputazione presso l’Intendenza di Foggia dal 1847 al 1855, il marchese Lorenzo Filiasi è eminente membro della Deputazione per le opere pubbliche provinciali dal 1830 al 1837, Dionisio
della Bella è presente nella Deputazione per la strada garganica dal 1844 al 1858,
Matteo Mascia negli stessi anni 1851-1859 è componente delle Deputazioni per il
ponte di Civitate, per le strade San Severo-Foggia, San Severo-Lucera, San SeveroAppulo Sannitica, per il mobilio della Sottintendenza di San Severo.
Questi organismi rappresentativi del Consiglio provinciale erano formati
in genere da tre persone, ma qualche anno prevalse la tendenza a costituirli con
un numero ben maggiore, sino ad otto, quante ne vennero proposte nel 1836 perché componessero la Deputazione per le opere pubbliche provinciali. Ma il re
non approvò la proposta ed invitò a “riformare perché il numero è contro la norma”.76
Il proposito di tutelare l’interesse dei censuari del Tavoliere a veder salvaguardati i propri fondi dagli allagamenti dei corsi d’acqua in piena consigliò di
formare sempre con elementi pugliesi ed abruzzesi la Deputazione per la bonifica dei torrenti. E dalla Deputazione per la strada Appulo-Sannitica (o strada
dei censuari, che alla sua costruzione contribuivano in maniera sostanziosa,
pagando un’apposita tassa) uno dei tre componenti non veniva proposto dal
Consiglio di Capitanata, ma direttamente dalla Deputazione generale degli ex
locati.
Quasi sempre nobili i deputati per “assistere” presso i Ministeri.
75
76
Ibid., b. 3, fasc. 31.
Ibid., b. 12, fasc. 168.
84
Pasquale e Tiziana di Cicco
Anche dopo il 1820 ed il 1848 il reclutamento dei consiglieri si effettua sulla
base della vecchia normativa. Requisito primario richiesto al candidato resta la rendita fondiaria, ma egli nell’epoca ferdinandea deve risultare anche “idoneo sotto il
triplice profilo” (morale, religioso e politico), secondo si legge negli elenchi delle
proposte dei sottintendenti e degli intendenti. E molti documenti attestano il continuo impegno profuso da autorità laiche ed ecclesiastiche per stabilire se esistano o
meno in un candidato le richieste qualità.
Altra dote irrinunciabile, dopo il possesso del censo, è l’attaccamento al trono dell’aspirante consigliere. Ciò comporta l’esclusione dalle candidature per coloro che nel 1820 si sono maggiormente compromessi sul piano politico ed hanno
rivestito cariche importanti durante il Nonimestre costituzionale. Tuttavia, come
si è detto prima, il bisogno di provvedere a certe scadenze al ricambio dei consiglieri e la carenza di soggetti completamente idonei 77 favoriscono l’ammissione
nei Consigli anche di personaggi dal passato politico non tutto gradito alle autorità
del tempo.
E difatti i consiglieri che nei documenti consultati si definiscono “settari”, sia
pure con la differenziazione di “prima del Nonimestre” e di “dopo il Nonimestre”,
o di “effervescente” e di “non effervescente”, formano un numero cospicuo, circa
una cinquantina.78
Fra loro emergono i nomi di Agnello Iacuzio, Francesco Antonio Gabaldi,
Matteo Nannarone di Foggia, Delfino Massari e Giuliano Villani di San Marco in
Lamis, Domenico Giordano di Monte Sant’Angelo, Pasquale de Nicastro di Lucera, Francesco delli Santi di Manfredonia, Vincenzo de Ambrosio di San Severo,
Ascanio Ripandelli di Candela, Matteo Paolella di Castelluccio Valmaggiore e Gaetano Rocco di Bovino.
Dopo la rivoluzione del 1848 la dote della fedeltà al sovrano viene richiesta
con maggior rigore e sono ben pochi, appena una decina, gli elementi che entrano a
far parte dei Consigli, pur avendo le informazioni dei sottintendenti o dei giudici
regi riferito loro la qualificazione di “liberali”.79
Nei Consigli di Capitanata, dal 1808 alla caduta del regno, si avvicendarono
diverse centinaia di persone, originarie di molti comuni della provincia, ma specie
di quelli maggiori. Raramente infatti i centri minori ebbero un proprio rappresentante nei detti consessi, per carenza di candidature fornite dal necessario requisito
censitario, e parecchi piccoli comuni non furono mai rappresentati da un proprio
77
Un caso emblematico: nel 1830 il Decurionato del comune di Orsara, vista la “lista degli eleggibili”, si
trova nella necessità di proporre per il Consiglio distrettuale di Bovino il solo Michele Chiella, un proprietario sessantenne con una rendita di ducati 256.52, ma analfabeta (“illetterato”). Cfr. ibid., b. 13, fasc. 183.
78
Le autorità di polizia reputavano meritevoli di più occhiuta vigilanza, perché ritenuti più pericolosi, i
settari di “prima del Nonimestre” in quanto veri autori del moto rivoluzionario.
79
Cfr., in proposito, la “riservatissima a lui solo” che il direttore del Ministero dell’Interno spediva il 5
febbraio 1851 all’intendente di Capitanata Guerra con istruzioni per l’elezione dei consiglieri e la raccomandazione “di prestare massima attenzione alla valutazione della condotta politica e morale ed ai sentimenti di
attaccamento al sovrano”, in ibid., b. 20, fasc. 270.
85
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
concittadino. E intanto sono proprio le amministrazioni comunali il maggior serbatoio dei consiglieri. Ricevono infatti la nomina ai Consigli provinciali o ai distrettuali molti individui che sono stati o saranno sindaci, eletti, decurioni, cassieri
comunali.
Come può intuirsi, la carica consiliare, meramente onorifica, non aveva
agli occhi di tutti lo stesso valore, si faceva più o meno gradita a seconda della
personalità culturale di colui che riceveva la nomina a consigliere, del suo impegno pubblico, dei mezzi finanziari di cui disponeva, e persino a seconda del
luogo in cui viveva.
Ambita da molti per il prestigio che era capace di attribuire al consigliere sul
piano sociale e quale trampolino, per così dire, per successive cariche, da molti altri
veniva malvista e subita, perché nel suo esercizio riuscivano a vedere solo l’occasione che li costringeva per un certo tempo e in vari anni a trascurare i propri affari, ad
affrontare viaggi talvolta lunghi e rischiosi, data la situazione viaria del tempo e le
abbondanti comitive di malfattori, a sostenere spese da nessuno rimborsate.
Di qui i fenomeni di assenteismo che afflissero sempre sia le assemblee maggiori sia quelle minori della Capitanata ma, riteniamo, anche delle province tutte
del regno.
Senza dire dei casi limite, in cui certe assemblee non riescono neppure a riunirsi il giorno della convocazione perché troppi pochi consiglieri vi sono intervenuti (è il caso del Consiglio distrettuale di San Severo nel 1827 e nel 1830), le assemblee daune possono contare sempre e solo su una ridotta partecipazione dei consiglieri, rispetto al numero previsto.
Qualche esempio. Al Consiglio distrettuale di Foggia del 1831, l’8 aprile, giorno della convocazione, si presentano solo il presidente Gabaldi e tre consiglieri;80 nel
1836 intervengono sei consiglieri ma non il presidente, Giuseppe de Nisi;81 e nel 1856
si presentano, con il presidente Giambattista Nocelli, soltanto i consiglieri Paolella e
Ardito;82 al Distrettuale di San Severo nel 1847 intervengono cinque consiglieri ed è
uno di loro, Gabriele Michele, a funzionare da presidente, in assenza del titolare Vincenzo Pazienza.83 Al Consiglio provinciale del 1834, presieduto dal principe di Leporano, su venti consiglieri convocati se ne presentano dodici.84
I consiglieri giustificano la loro assenza in molti modi, per evitare di subirne
le conseguenze che le autorità in più occasioni minacciano. Il 18 aprile 1846 il ministro dell’Interno Santangelo chiarisce che coloro che si rifiutano di intervenire ai
Consigli vanno cassati dalle “liste degli eleggibili”,85 ma già molti anni prima il re,
80
ASFG, Consigli, b. 10, fasc. 146.
Ibid., b. 12, fasc. 165.
82
Ibid., b. 26, fasc. 352; e l’attento cronista locale, redattore del citato «Giornale Patrio», annota sotto la
data 10 aprile 1856: “Si sono spediti corrieri per chiamare in fretta gli altri mancanti”.
83
Ibid., b. 16, fasc. 226.
84
Ibid., b. 11, fasc. 159.
85
Ibid., b. 3, fasc. 31.
81
86
Pasquale e Tiziana di Cicco
dopo l’avviso della Consulta generale del regno, nel Consiglio ordinario di Stato
del 17 agosto 1830 ha deciso che “tutti quei consiglieri provinciali o distrettuali che
astenendosi per avventura dall’esercizio delle loro funzioni, non faranno costare
nel modo e tempo convenevole la legittimità delle ragioni che glielo avranno impedito, saranno trattati come dimissionari volontari, già decaduti da qualsiasi diritto,
esenzione e prerogative dell’amministrazione civile”.86
Alcuni consiglieri motivano la loro assenza alla prossima sessione assumendo inderogabili impegni che le tratterranno fuori sede, a Napoli, a Roma o altrove,
altri, e sono la maggior parte, accampano reali o fittizie ragioni di salute, proprie o
di familiari.87 Alle malattie reali di alcuni consiglieri si accompagnano quelle “diplomatiche” di altri, ma anche queste, attestate da medici comprensivi e pur note
nella loro reale natura, non provocano alcuna conseguenza a carico dell’interessato.
Nel 1855 al Consiglio distrettuale di Foggia il marchese Orazio Cimaglia,
che ne è il presidente, non interviene, certificando di essere ammalato in Manfredonia. E il cronista locale Villani così commenta: “Poco credibile: non era stato accontentato nell’essersi ricusato di accettare tale carica”.88 Le autorità adottano i rimedi
che possono per evitare che le assemblee operino con troppo pochi consiglieri.
Nel 1844, su una questione mossa dal Consiglio provinciale di Palermo, il
ministro dell’Interno invita gli intendenti a seguire “l’antica consuetudine di chiamare qualche consigliere distrettuale a sedere invece de’ mancanti o assenti in un
Consiglio provinciale”.89
5. I voti dei Consigli
L’elencazione di alcuni dei più significativi voti espressi dai Consigli di Capitanata, ripartita secondo i “titoli” previsti dalle istruzioni ministeriali del 1808, può
essere utile per dare un’idea dell’attività e dell’impegno di questi consessi.
a) Agricoltura e commercio
- Ristagno dell’economia provinciale a seguito della chiusura del commercio attuata dal blocco continentale (1808). 90
- Danni alle campagne provocati dal brigantaggio (1809). 91
86
Cfr. «Giornale degli atti dell’Intendenza di Capitanata», 1830, 34 (4 settembre), pp. 241-242.
Per alcune delle tante lettere giustificative delle assenze: ASFG, Consigli, b. 1, fasc. 14 (Vincenzo Angiulli);
b. 6, fasc. 80 (Clemente Santoro); b. 8, fasc. 108 (Giambattista Gifuni); b. 11, fascc. 150 (Gianvincenzo Mattei)
e 159 (Vincenzo de Maio, Giambattista Specchio); b. 12, fasc. 163 (Giuseppe Rinaldi, Lorenzo Venditti).
88
Cfr. «Giornale Patrio Villani», 12 aprile 1855.
89
ASFG, Consigli, b. 3, fasc. 31.
90
Ibid., b. 1, fasc. 1.
91
Ibid., b. 1, fasc. 10.
87
87
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
- Necessità di piantagioni di alberi in Capitanata per combattere la siccità
(1809).92
- Stasi del commercio via mare, fatto rischioso dagli attacchi dei corsari, e
del commercio interno per la mancanza di strade e la presenza dei briganti
(1811).93
- Flagello dei bruchi (1812).94
- Distruzione dei boschi da parte degli abitanti della Puglia alla ricerca di
legname da ardere (1812). 95
- Agricoltura e pastorizia del Tavoliere (1816).96
- Vivai in ogni comune di alberi silvani e fruttiferi da distribuirsi gratis ai
proprietari (1819). 97
- Cassa di sovvenzione per gli agricoltori a Foggia con un capitale non inferiore a 250.000 ducati e non superiore a 500.000 ducati (1821).98
- Sui lavori di manifattura eseguiti dalle “donzelle” nei Conservatori (1821).99
- Progetto per l’introduzione delle arti negli orfanotrofri della provincia
(1821).100
- Reale Società Economica di Capitanata e sua azione poco incisiva per scarsità di mezzi (1821).101
- Cause della decadenza e miseria della Capitanata e mezzi per farla risorgere (1821).102
- Calo del commercio dei grani del regno (1821).103
- Dura condizione dei proprietari terrieri costretti a vendere prematuramente i loro prodotti a poco prezzo nella fiera di Foggia, per le spese di
coltivazione e per gli obblighi con il Fisco (1822).104
- Si lamenta che il pastore è costretto a vendere a prezzi irrisori la propria
lana all’estero e poi a ricomprarla nel prodotto lavorato, caricata di forti
aumenti (1822).105
- Deputazione stabilita in ogni provincia per impedire la devastazione dei
boschi (1822).106
92
Loc. cit.
Ibid., b. 1, fasc. 17.
94
Ibid., b. 2, fasc. 22.
95
Loc. cit.
96
Ibid., b. 2, fasc. 34.
97
Ibid., b. 4, fasc. 47.
98
Ibid., b. 5, fasc. 62.
99
Ibid., b. 5, fasc. 69.
100
Ibid., b. 5, fasc. 62.
101
Loc. cit.
102
Loc. cit.
103
Ibid., b. 5, fasc. 68.
104
Loc. cit.
105
Loc. cit.
106
Loc. cit.
93
88
Pasquale e Tiziana di Cicco
- Per agevolare il commercio dei prodotti della pastorizia, diminuzione del
prezzo dei merinos e premi per le iniziative di esportazione (1823).107
- Per tutelare l’allevamento equino nazionale, in crisi per la mancanza di
pascoli e per le razze deteriorate, proibizione di introdurre via mare
nei Reali Domini di qua del Faro i cavalli e le giumente cosiddetti schiavotti di Dalmazia (1826).108
- Incoraggiamenti a favore della pastorizia (1831).109
- Conservazione della cassa di sussidio a favore dei censuari del Tavoliere,
istituita nel 1822 con un fondo di 300.000 ducati (1832).110
- Aumento del premio per gli uccisori di lupi, numerosi in Capitanata e
continua minaccia per l’uomo ed il bestiame (1832). 111
- Acquisto di cavalli esteri per il miglioramento delle razze (1833).112
- Istituzione in ogni comune di una cassa di sovvenzione rurale (1833).113
- Stato delle monete circolanti nel distretto di Foggia (1833).114
- Premio di ducati 1.500 a carico dei fondi delle opere pubbliche per colui
che fra dieci pozzi forati con l’uso della trivella, comunemente detti artesiani, ne porterà a termine almeno uno, ottenendo cioè una fonte zampillante (1834).115
- Trasferimento a Monte Sant’Angelo nel Gargano “che abbonda di boschi,
e quei naturali mancano di mezzi come renderli utili”, della fabbrica di
liquirizia insediata in tenimento di Foggia e causa di una forte distruzione
di piante con la sua attività (1836).116
- Inclusione in ogni stato discusso comunale di un fondo per premi di incoraggiamento agli agricoltori che coltivano piante di gelsi (1837).117
- Distribuzione a spese della Reale Società Economica di olivastri del Gargano per una maggiore diffusione dell’olivicoltura (1842).118
- “Mezzi per sovvenire agli industriosi della colonìa e della pastorizia” (1842).119
- Il disboscamento di terre in pendio va permesso dopo aver sentito non
solo le autorità forestali, ma anche il Decurionato interessato (1843).120
107
Ibid., b. 6, fasc. 76.
Ibid., b. 8, fasc. 94.
109
Ibid., b. 10, fasc. 140.
110
Ibid., b.10, fasc. 166.
111
Ibid., b. 10, fasc. 147.
112
Ibid., b. 11, fasc. 152.
113
Loc. cit.
114
Ibid., b. 11, fasc. 153.
115
Ibid., b. 11, fasc. 159.
116
Ibid., b. 12, fasc. 178.
117
Ibid., b. 13, fasc. 175.
118
ASFG, Reale Società Economica di Capitanata, b. 3, fasc. 96.
119
ASFG, Consigli, b. 14, fasc. 194.
120
Cfr. Risoluzioni sovrane del 1845, in «Giornale degli atti dell’Intendenza di Capitanata», 1845, 7.
108
89
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
- Necessità di promuovere le manifatture nel distretto di Bovino, essendone esso assolutamente privo (1843).121
- Facoltà della Reale Società Economica di distribuire, con un fondo di 300
ducati, annualmente alberi fruttiferi ai proprietari dauni (1845).122
- Marmi scoperti nel Gargano da Antonio Bramante di San Giovanni
Rotondo (1846).123
- Porto di Manfredonia, un tempo florido per i traffici, ora ridotto a semplice caricatoio (1846). 124
- Estensione a tutti gli agricoltori della provincia dei benefici della nuova
cassa di sussidio accordata ai censuari del Tavoliere (1847). 125
- Regi sensali che obbligatoriamente per legge devono intervenire nelle contrattazioni (1847).126
- Necessità di modificare l’esistente mappa dei terreni in pendio, giacché
essa, come è stato rilevato dal Distrettuale di Bovino, desta generali lamentele e non risulta più rispondente alla nuova realtà (1847).127
- “Immegliamento delle razze equine” (1847).128
- Fondazione di un monte frumentario in ogni comune (1851).129
- Privativa dei misuratori di derrate da sopprimere, creando essa gravi inconvenienti alla speditezza del commercio (1852).130
- Attivazione presso il Ricevitore generale di una cassa fornita di capitali
contanti e di fedi del governo per agevolare, a seconda dei bisogni, nelle
fiere foggiane di maggio e di novembre, le importanti contrattazioni dei
commercianti (1852).131
- Istituzione della Compagnia della Daunia, società anonima a beneficio
delle industrie agricola e armentizia (1852).132
- Ripresa annuale delle mostre “industriali” organizzate dalla Reale Società
Economica e da tempo interrotte (1854).133
- Istituzione a Foggia di una cassa di Corte del Banco delle Due Sicilie per
favorire il commercio (1858).134
121
ASFG, Consigli, b. 14, fasc. 195.
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 312-314.
123
Ibid., pp. 47-49.
124
Ibid., pp. 56-60.
125
Ibid., p 105.
126
Ibid., pp. 118-119.
127
Ibid., pp. 123-125.
128
Ibid., p. 152.
129
Ibid., pp. 201 e 443.
130
Ibid., pp. 275-276.
131
Ibid., pp. 340-341.
132
Ibid., pp. 406-411; vedi anche b. 22, fasc. 297.
133
Ibid., b. 24, reg. 327, c. 31r.
134
Ibid., cc. 216r-217t.
122
90
Pasquale e Tiziana di Cicco
- Destinazione dell’orto agrario sperimentale della Società Economica,
ampliato, all’educazione teorico-pratica di una parte degli allievi chiusi
nell’Orfanotrofio provinciale (1858).135
b) Soccorsi pubblici, prigioni
- Istituzione a San Severo di un monte di pietà con l’impiego dell’eredità di
1200 ducati lasciata da Antonio Greco (1833).136
- L’orfanatrofio provinciale “Maria Cristina” da erigere sull’area del convento di Gesù e Maria (1835).137
- Prigioni locali da dividere a norma di legge in prigioni di pena, case di
deposito e case di arresto (1835).138
- Emanazione di un regolamento che provveda meglio al mantenimento
dei proietti (1838).139
- Aumento delle mercedi delle nutrici dei proietti (1839).140
- Istituzione di un orfanotrofio femminile nel monastero degli ex Celestini
di Manfredonia (1841).141
- Carcere distrettuale in San Severo (1846).142
- Questione del cognome da assegnarsi ai bambini abbandonati, tutti chiamati “Esposito” con gravi inconvenienti (1847).143
- Modificazione del sistema di ripartizione fra i comuni delle spese di mantenimento dei proietti (1857).144
- Istituzione a Foggia di un asilo per i vecchi indigenti (1859).145
c) Ponti, strade e navigazione
- Regio cammino di Puglia e strada Egnazia (1808).146
- Strade intrafficabili ed insicure per la presenza dei briganti (1809).147
135
Ibid., cc. 227r-229r.
Ibid., b. 11, fasc. 153.
137
Ibid., b. 10, fasc. 142.
138
Ibid., b. 12, fasc. 162.
139
Ibid., b. 13, fasc. 176.
140
Ibid., b. 14, fasc. 185.
141
Ibid., b. 14, fasc. 189.
142
Ibid., b. 16, fasc. 224.
143
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 133-134.
144
Ibid., b. 24, reg. 327, c. 169 r e t.
145
Ibid., cc. 239t-240r.
146
Ibid., b. 1, fasc. 3.
147
Ibid., b. 1, fasc. 10.
136
91
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
- Priorità della costruzione delle strade Foggia-Cerignola e Foggia-San Severo per ragioni militari e delle strade che facilitano il commercio interno della provincia (1813).148
- Costruzione di un braccio di strada da Manfredonia a Monte S. Angelo
(1813).149
- Inalveamento delle acque della fontana “della gavita delle belle donne” per
riattivare il traffico sul tratturo fino alla porta di Foggia a Lucera (1818).150
- Cattivo stato delle strade del Gargano (1821).151
- Costruzione dei ponti di Varano e di Civitate (1823).152
- Costruzione di rotabili fra S. Severo, Apricena, S.Paolo e Torremaggiore
(1824).153
- I ponti sulla strada S. Severo-Lucera, utili per i collegamenti con il Gargano
e con il tribunale della provincia da ritenere opere provinciali e da realizzare
con fondi provinciali (1829).154
- Completamento della strada Foggia-Manfredonia, da considerare regia e
con manutenzione a carico della R. Tesoreria (1830).155
- Canalizzazione della fontana del Salice sino a Foggia a spese del comune
(1831).156
- Costruzione di un ponte in muratura sulla foce del lago di Varano, sostitutivo di quello di legno (1835).157
- Completamento in fabbrica della strada Foggia-Lucera (1836).158
- Costruzione di una fontana al passo d’Orta lungo la strada Foggia-Cerignola, là dove è una sorgente di acqua potabile (1837).159
- Collegamento diretto tra S. Severo e Manfredonia (1841).160
- Costruzione di una strada che ponga in comunicazione con Foggia l’intero distretto, con spesa a carico dei comuni interessati (1845).161
- Costruzione di un ponte sul Vulgano, che attraversa la rotabile da Lucera
a Troia (1845).162
148
Ibid., b. 2, fasc. 26.
Loc. cit.
150
Loc. cit.
151
Ibid., b. 5, fasc. 65.
152
Ibid., b. 6, fasc. 76.
153
Ibid., b. 7, fasc. 85.
154
Ibid., b. 9, fasc. 129.
155
Ibid., b. 10, fasc. 131.
156
Ibid., b. 10, fasc. 140.
157
Ibid., b. 12, fasc. 162.
158
Ibid., b. 12, fasc. 165.
159
Ibid., b. 13, fasc. 171.
160
Ibid., b. 14, fasc. 189.
161
Ibid., b. 16, fasc. 219.
162
Ibid., b. 14, fasc. 189.
149
92
Pasquale e Tiziana di Cicco
- Costruzione della strada S. Severo-Lucera con spesa a carico dei fondi
provinciali (1846).163
- Lavori di consolidamento dell’orfanotrofio provinciale (1851).164
- Costruzione con fondi provinciali di una rotabile da San Paolo al ponte di
Civitate, di modo che il distretto di San Severo venga a congiungersi con
quello molisano di Larino (1852).165
- Costruzione di un nuovo ponte a Civitate sul Fortore (1852).166
- Incanalamento delle acque dei maggiori fiumi e torrenti della Capitanata
e distribuzione delle stesse a tutti i comuni della provincia (1852).167
- Ponte di Canosa (1853).168
- Nuova rotabile da Torremaggiore a San Paolo, finanziata dalla Provincia
(1855).169
- Prosciugamento del Pantanello di Vieste da farsi a cura dell’Amministrazione generale delle bonifiche (1856).170
- Modifiche della tassa per l’allineamento dei fiumi e torrenti (1859).171
d) Istruzione pubblica
- Collegio di Lucera, “mal servito, non vi concorrono giovani e non vi sono
buoni maestri” (1809).172
- Proposta di abolizione delle scuole normali e di destinazione dei fondi
comunali “alla pubblica istruzione che sia di grado superiore alle scuole
elementari (1811).173
- Richiesta di istituzione di scuole di diritto nei luoghi di residenza dei tribunali, di una scuola veterinaria nel capoluogo, di una di medicina a San
Severo, di una di botanica a Lucera e a San Severo, di una di agricoltura
nei comuni con popolazione di circa 10000 abitanti (1813).174
- Adattamento ad uso di liceo del locale di S. Gaetano, sede del Collegio
degli Scolopi a Foggia (1816).175
163
Ibid., b. 17, reg. 227, p. 13.
Ibid., b. 18, fasc. 247.
165
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 326-327 e 375-379.
166
Ibid., pp. 375-379.
167
Ibid., b. 20, fasc. 272.
168
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 491-492.
169
Ibid., b. 24, reg. 327, c. 75t.
170
Ibid., b. 24, reg. 327, cc. 133t-135r.
171
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 242-243.
172
Ibid., b. 1, fasc. 10.
173
Ibid., b. 1, fasc. 17.
174
Ibid., b. 2, fasc. 26.
175
Ibid., b. 2, fasc. 34.
164
93
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
- Necessaria divisione in due classi dell’istruzione pubblica: licei, collegi,
convitti e non convitti, case dei preti, scuole elementari (1816).176
- Provvidenze necessarie per il Collegio degli Scolopi di Foggia (1818).177
- Istituzione nei principali comuni della provincia di una scuola di agricoltura e nel capoluogo di una scuola di veterinaria (1816).178
- Istituzione di un R. Collegio a Foggia nel Conservatorio “Il Salvatore”
(1819).179
- Competenza dei Decurionati, e non più del clero, nella scelta dei maestri
delle scuole primarie (1819).180
- Istituzione nel Collegio di Lucera di una cattedra di antichità greche e
romane, storia, geografia e di una cattedra di diritto e procedura criminale, oltre quella di diritto e procedura civile (1821).181
- Arretratezza dei comuni del Gargano: stabilimento scientifico da istituire
nel monastero degli ex Domenicani di Vico (1822).182
- Peggiorata situazione scolastica del distretto di Bovino (1822).183
- Per una scuola di veterinaria a Foggia (1822).184
- Per l’istituzione nel capoluogo di una cattedra di scienze fisiche e matematiche (1830).185
- Riapertura di tutti i seminari diocesani del distretto di Bovino; scuola secondaria per le giovani gentildonne (1834).186
- Destinazione del locale degli ex Carmelitani di Monte S. Angelo a convitto dove i giovani di dodici comuni garganici vengano istruiti nelle scienze
(1836).187
- Concessione delle piazze franche del R. Collegio di Lucera solo ad individui della provincia (1837).188
- Creazione di un fondo provinciale per “arti e scienze”, mediante il quale
due giovani promettenti possano inviarsi a Napoli a perfezionarsi nei loro
studi artistici e scientifici (1840). 189
176
Loc. cit.
Ibid., b. 3, fasc. 43.
178
Ibid., b. 3, fasc. 42.
179
Ibid., b. 4, fasc. 56.
180
Ibid., b. 4, fasc. 48.
181
Ibid., b. 5, fasc. 62.
182
Ibid., b. 6, fasc. 75.
183
Ibid., b. 6, fasc. 73.
184
Ibid., b. 6, fasc. 71.
185
Ibid., b. 10, fasc. 135.
186
Ibid., b. 11, fasc. 156.
187
Ibid., b. 12, fasc. 165.
188
Ibid., b. 13, fasc. 171.
189
Ibid., b. 14, fasc. 186.
177
94
Pasquale e Tiziana di Cicco
- Per l’elevazione a liceo del Collegio di Lucera, essendo in possesso di tutti
i necessari requisiti (1846).190
- Istituzione a Foggia di un istituto agrario, diretto dalla Società Economica (1847).191
- Onorario dei maestri e delle maestre (1851).192
- Per l’istituzione di un liceo a Foggia (1852).193
- Dotazione al R. Collegio di Lucera di altri locali con i fondi della provincia (1854).194
- Istituzione di quattro cattedre nel Collegio delle Scuole Pie di Foggia (1858).195
e) Popolazione, amministrazione
- Permanenza a Lucera dei tribunali della provincia (1816).196
- Aumento del numero delle parrocchie (1830).197
- Concessione in censo al comune di Foggia dei fabbricati disabitati del R.
Corpo del Genio perché possano essere destinati a diversi usi (1830).198
- Padiglioni militari da istituirsi in ogni comune del distretto di Foggia atti
ad ospitare gli ufficiali e locali per i soldati di passaggio (1833).199
- Necessità di farsi Rodi capoluogo di circondario, perché Dogana di I classe, fondaco di diritti riservati e centro del commercio marittimo (1834).200
- Regolamento per la caccia dei lupi (1835).201
- Sparo dei mortaletti dannoso per la sicurezza pubblica e per l’integrità
degli edifici (1836).202
- Trasferimento in Capitanata di una Camera della Gran Corte Civile sedente in Napoli (1837).203
- Necessità di demolire i mignali nei comuni, “avvanzi di antica barbaria”
(1837). 204
190
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 72-74.
Ibid., b. 17, reg. 227, p. 138.
192
Ibid., pp. 274-275.
193
Ibid., pp. 390-394.
194
Ibid., b. 24, reg. 327, cc. 23t-25r.
195
Ibid., cc. 165t-166r.
196
Ibid., b. 2, fasc. 34.
197
Ibid., b. 10, fasc. 135.
198
Loc. cit.
199
Ibid., b. 11, fasc. 153.
200
Ibid., b. 11, fasc. 158.
201
Ibid., b. 10, fasc. 162.
202
Ibid., b. 12, fasc. 165.
203
Ibid., b. 13, fasc. 171.
204
Loc. cit.
191
95
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
- Esazione indebita di diritti da parte del clero (1837).205
- Modificazione di alcuni articoli riguardanti l’amministrazione della giustizia (1838).206
- Vacazioni esagerate percepite nel Tribunale di commercio, che talora eguagliano il valore della causa (1839).207
- Riscossione del contributo fondiario fatta in gennaio ed agosto, da ridurre a metà (1839).208
- Per una statistica della provincia (1840).209
- Necessità di un IV eletto, come aggiunto al I, a Foggia, data la crescita del
comune (1840).210
- Mancanza in Lucera di un locale per il Giudicato d’istruzione (1841).211
- Fondazione di un nuovo monastero a S. Severo (1842).212
- Promozione delle scienze e delle lettere (1842).213
- Stabilimento di un posto telegrafico in Bovino tra quelli di Panni e Montecalvello (1846).214
- Per le terre demaniali addette ad uso civico di pascolo (1852).215
f) Salute pubblica
- Proibizione dei “fusari” utilizzati per la macerazione della canapa e del
lino, nocivi per la salute degli uomini e degli animali (1819).216
- In osservanza dei primi regolamenti, i defunti siano inumati e non tumulati
nei cimiteri, con la sola eccezione delle monache, alle quali comunque la
sepoltura non va data nelle chiese, ma entro il recinto dei conventi (1831). 217
- A spese dei rispettivi comuni siano migliorati gli ospedali civili, se ne formino dove mancano e l’assistenza agli infermi diventi più efficace (1832). 218
- Per lo stabilimento di un ospedale per infermi poveri nei locali di San
Domenico a Bovino (1832). 219
205
Loc. cit.
Ibid., b. 13, fasc. 178.
207
Ibid., b. 13, fasc. 181.
208
Ibid., b. 13, fasc. 182.
209
Ibid., b. 14, fasc. 186.
210
Loc. cit.
211
Ibid., b. 14, fasc. 189.
212
Ibid., b. 14, fasc. 194.
213
Loc. cit.
214
Ibid., b. 16, fasc. 224.
215
Ibid., b. 21, fasc. 286.
216
Ibid., b. 4, fasc. 52.
217
Ibid., b. 10, fasc. 144.
218
Ibid., b. 10, fasc. 147.
219
Loc. cit.
206
96
Pasquale e Tiziana di Cicco
- Possibilità di riconoscere una giusta gratificazione ai più zelanti dei medici e chirurghi condottati per l’assistenza agli infermi poveri (1833).220
- Per l’istituzione di una farmacia condottata in ogni comune (1839).221
- Istituzione di ospedali distrettuali a Foggia e a San Severo (1841).222
- A carico dei fondi comuni la spesa per l’istruzione delle ostetriche, procurata a Napoli oppure nei capoluoghi di provincia o di distretto (1853).223
- Progetto di ampliamento dell’ospedale provinciale femminile con l’utilizzo dei cespiti esuberanti dell’orfanotrofio “Maria Cristina” (1858).224
L’elencazione che precede, pur con il suo carattere di limitatissima campionatura, prova tuttavia che le deliberazioni delle assemblee daune trattavano non
solo i piccoli ma anche i grandi problemi economici e sociali. Tali deliberazioni
invero riflettevano le reali necessità e le molte speranze della Capitanata, richiamando su di esse l’attenzione dei governanti.
Che il governo centrale non sempre accogliesse il voto dei Consigli - di quelli
dauni e di quelli delle altre province napoletane - e non sempre aderisse alle proposte, conta relativamente, specie se non viene omessa la considerazione che la maggior parte di queste proposte, che erano in sostanza la voce di una periferia, diversamente quasi muta, comportavano il più delle volte nuovi e talvolta ben onerosi
impegni finanziari, non agevolmente sostenibili dalle casse statali, senza dire che
dall’anno 1831 in poi “soffiò sul reame un gran vento di economia”, per usare l’efficace espressione del Ciasca.
A nostro avviso, resta in ogni caso valida ed apprezzabile la funzione informativa ed insieme stimolante nei confronti delle sedi decisionali che i Consigli svolsero in maniera istituzionale, continua, configurandosi come portavoce di istanze e
di aspettative sociali, come espressione della pubblica opinione e del controllo dei
cittadini sull’operato dell’amministrazione.
220
Ibid., b. 11, fascc. 152 e 153.
Ibid., b. 13, fasc. 182.
222
Ibid., b. 14, fasc. 187.
223
Ibid., b. 17, reg. 227, pp. 478-479.
224
Ibid., b. 24, reg. 327, c. 185t.
221
97
I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (1808-1860)
6. Appendice
I presidenti dei Consigli di Capitanata*
CONS. PROV.
1808
1809
1810
1811
1812
1813
1814
1815
1816
1817
1818
1819
1820
1821
1822
1823
1824
1825
1826
1827
1828
1829
CONS. DISTR.
FOGGIA
CONS. DISTR.
S. SEVERO
CONS. DISTR.
BOVINO
Domenico de Luca1
Giuseppe de Angelis
Vincenzo Perrone
Vincenzo Perrone
N. Maria Cimaglia
N. Maria Cimaglia
Pasquale Rocco
Giuseppe Scassa
G. Antonio Filiasi
Raffaele Giordano
Michele Sarcinella
Michele Sarcinella2
Domenico de Luca
Gaetano de Nicastro
Luigi Mastrolilli
T. Antonio Celentano
Vincenzo Perrone
Domenico de Luca
Gaetano de Nicastro
Gaetano de Nicastro
Matteo d’Alfonso
Antonio Fania
Antonio Fania
Matteo d’Alfonso
Donato Tricarico
G. Ferrante d’Alessandro
G. Ferrante d’Alessandro
Boezio del Buono
Antonio de Luca
Giuseppe Cutino
Domenico Mazza
Antonio del Sordo
Antonio Fania
N.Antonio de Filippis
Gennaro Santoro
F. Saverio Rinaldi
Principe di S.Severo
G. Antonio Filiasi
T. Antonio Celentano
Marchese del Vasto
Pasquale de Nicastro
G. Antonio Filiasi
Domenco Cappelli
Principe di S.Severo
Felice Zezza
T. Antonio Celentano
Giuseppe Cutino
Stefano la Piccola
G. Battista Specchio
D. Antonio Rosati
Giuseppe Rio
D. Antonio Rosati
Pasquale de Nicastro
F. Antonio Gabaldi
Giuseppe Galiberti
Matteo de Rensi3
Michele Magnati
Domenico Petrulli
Francesco P. Masselli
Rocco del Sordo
Luigi Pazienza
Carlo Fraccacreta
Francesco P. Masselli
Leonardo Santoro
Gaspare Salandra
Giuseppe Salandra
Franc. Sav. Capozzi
Marco de Benedictis
Giov. Vinc. Rocco
Giov. Vinc. Rocco
Michele Barone
Marco de Benedictis
* Agli inizi del XIX secolo la Capitanata era divisa nei distretti di Foggia, Manfredonia e Larino. Dal 1811, per la
legge sulla nuova distribuzione territoriale, fu divisa nei distetti di Foggia, San Severo e Bovino.
1
Sostituisce il Duca di Rodi.
2
Sostituisce il Conte d’Anversa.
3
Sostituisce il Marchese Domenico de Luca.
98
Pasquale e Tiziana di Cicco
1830 G.Antonio Filiasi
Roberto Siniscalchi
1831 Gianvincenzo Mattei
F. Antonio Gabaldi
1832 Principe di S. Severo
G. Battista Specchio
1833 Felice Zezza
Antonio Sorrentino
1834 Principe di Leporano
F. Antonio Gabaldi
1835 Michele Brancia
Angelo Siniscalco
1836 Lorenzo Filiasi
Bartolomeo Baculo5
1837 Pasquale de Nicastro6 Giuseppe Cutino
1838 Principe di Torella
Antonio Sorrentino
1839 Michele de Luca
Vincenzo Celentani
1840 Carlo Zezza
Domenico Frascolla
1841 Principe di S. Antimo Luigi Celentano
1842 Giamberardino Buontempo7 Giuseppe Barone
1843 Michele de Luca
Francesco P. de Peppe8
1844 Carlo Vinc. Barone
Raffaele Basso
1845 Principe di Leporano
Giambattista Gifuni
1846 Paolo Tonti
Vincenzo Celentano
1847 Antonino Maresca
Donato Paolella
1848-1850
1851 Principe di Ardore
Carlo Vinc. Barone
1852 Vincenzo Zaccagnino
Francesco S. Freda
1853 Principe S. Nicandro Vincenzo Corigliano
1854 Conte di Savignano
D.Antonio Siniscalco
1855 Francesco Maresca
Francesco Gabaldi11
1856 Principe di Carpino
G. Battista Nocelli
1857 Luigi Cappelli
Vincenzo Celentano
1858 Luigi de Luca
Domenico Frascolla
1859 Vincenzo di Sangro
Liborio Celentano
1860 Duca di Bovino
Gaetano La Rocca
4
Sostituisce Marco de Benedictis.
Sostituisce Giuseppe de Nisi.
6
Sostituisce il Principe di San Severo.
7
Sostituisce il Marchese del Vasto.
8
Sostituisce Giuseppe Barone.
9
Sostituisce Baldassarre Curato.
10
Sostituisce Vincenzo Pazienza.
11
Sostituisce il marchese Orazio Cimaglia.
5
99
Giuseppe Galiberti
G.Francesco Albergogna
Carlo Tondi
Michelangelo del Sordo
Luigi Pazienza
Pasquale d’Alfonso
Leonardo Croce
Carlo Tondi
Raffaele Masselli
Vincenzo de Ambrosio
Francesco P. Masselli
Scipione Gervasio
Francesco P. Masselli
Giambattista Dardes
Carmine Ripoli
Rocco del Sordo
Prospero Fania
Michele Gabriele10
Giov. Vinc. Rocco
Vincenzo de Maio
Pasquale Belmonte
Vincenzo de Maio
G. Maria Capozzi4
G.Pietro d’Alessandro
Giacomo Curato
Luigi Varo
Benedetto de Paolis
Matteo Paolella
Ascanio Ripandelli
Luigi Varo
Rocco de Paolis
Rocco de Paolis
Gioacchino Visciola
Angelo M. de Matteis
G. Clemente de Stefano9
Baldassarre Curato
Francesco P. Masselli
Prospero Fania
Francesco Maresca
Vincenzo Palma
Pasquale Iuso
Vincenzo Palma
Francesco P. Masselli
Matteo Mascia
Vincenzo Reverterra
Vincenzo Palma
Gaetano Varo
Francesco Ripandelli
Domenico de Paolis
Vincenzo Ripandelli
Giovanni Rocco
G. Maria Cirelli
Luigi Varo
Giacomo Curato
Gaetano Rocco
Rocco Vassalli
100
Giuseppe De Matteis
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore:
memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
di Giuseppe De Matteis
Chi ci ha offerto un ampio panorama delle aspre lotte contadine, della resistenza antifascista e della più adulta tradizione meridionalista è stato Tommaso Fiore,
nato ad Altamura il 7 marzo 1884 e deceduto a Bari il 4 giugno del 1973. Siamo,
dunque, al trentesimo anno dalla sua scomparsa ed è stato giusto che qui si ricordasse oggi la sua bella e grande figura di intellettuale e di meridionalista. Io, dopo
averlo conosciuto a Bari, tra il 1964-1965, quando svolgevo il mio servizio militare
presso la caserma “Milano” e frequentavo alcuni corsi universitari sul Leopardi
presso la Facoltà di Lettere con il prof. Mario Sansone, di cui divenni poi assistente
volontario, e dopo averlo frequentato a casa sua, in via Quintino Sella, per oltre due
anni, ascoltandolo rapito dalla sua facondia verbale, ma soprattutto entusiasta e
seriamente determinato ad esprimere, con grande naturalezza e franchezza, il suo
parere su ogni argomento in discussione, dopo un po’ osai definirlo, in un mio
“ritratto” scritto per una rivista della Capitanata, “uomo tenace, laboriosissimo,
ruggente, un vero intellettuale di sinistra”, insomma – come scrisse di lui Michele
Palmieri nel noto saggio La Puglia di Tommaso Fiore – “uno scrittore-conversatore,
ricco di umori giacobini”.
Nato in questa splendida cittadina, in questo “paesaggio – come egli ha scritto – che nella sua desolata sconfinatezza, nella sua assenza di linee forti, suggestiona
ed invita a frugare con uno struggimento di morte”, dopo aver compiuto il corso
degli studi medi e superiori, vinse il concorso come allievo alla Scuola Normale di
Pisa, dove ebbe come maestro insigne Giovanni Pascoli; e della consuetudine con la
grande cultura classica e umanistica della Normale di Pisa sono testimonianza, come
credo che molti sappiano, gli studi da lui condotti su Sainte-Beuve, su Tommaso
Moro, il celebre saggio su Virgilio, ossia quella sua originalissima interpretazione
della poesia dei “vinti” e non dei vincitori, degli “umili” e non dei potenti, la poesia
insomma delle lacrimae rerum.
Fiore comincia, intanto, ad avere contatti, subito dopo essersi laureato e dopo
aver lasciato Pisa, con i grandi meridionalisti Giustino Fortunato e Gaetano
Salvemini; si interessa di temi storici, sociali ed economici, che sviluppa prima sulla
“Rassegna” e successivamente su “La Critica”, diretta, quest’ultima, da Benedetto
Croce; vi sarà, poi, l’incontro con Piero Gobetti, Augusto Monti, Guido Dorso,
Carlo Rosselli, Adolfo Omodeo e Antonio Gramsci.
101
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore: memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
Dalla frequentazione con questi importanti uomini di cultura, impegnati soprattutto politicamente, Tommaso Fiore fu attratto ad occuparsi delle condizioni
del nostro Mezzogiorno, specie dei contadini; e a questo proposito fu fondamentale per lui il suggestivo esempio o la grande lezione di Gaetano Salvemini.
Dopo aver partecipato come interventista alla prima guerra mondiale, tornò
nella sua terra e fu a fianco dei contadini nella rivendicazione dei loro diritti, che
difese sempre strenuamente e con sincerità. All’avvento del fascismo, Fiore, allora
sindaco di Altamura, si dimise dall’incarico sei mesi prima che avvenisse la marcia
su Roma; lasciò la deputazione provinciale, rifiutando ogni sorta di candidature
politiche. È di questo periodo la pubblicazione su “Rivoluzione liberale” di Gobetti
delle Lettere pugliesi di Tommaso Fiore, che, ripubblicate ventisette anni dopo come
Un popolo di formiche, gli valsero il primo premio Viareggio. Anche la collaborazione con Rosselli fu proficua di grossi risultati: sulla rivista “Quarto Stato”Fiore
dettò il programma per il Mezzogiorno, con l’approvazione di Claudio Treves. Gli
scritti di Tommaso Fiore rivelarono grande capacità di penetrazione e di analisi
nella vita della provincia meridionale, tanto è vero che il volume Arsa Puglia fu
ritenuto da Lombardo Radice come il migliore di quanti fossero in circolazione
allora in Italia.
Ciò naturalmente impedì che il libro potesse liberamente circolare ed essere
adottato nelle scuole; all’autore non restò altro spazio che quello di ritornare agli
studi classici, abbandonando un po’ i problemi d’ordine sociale e politico. Fiore
tornò ad un antico amore: alla poesia latina e agli studi filologici.
Nel 1930, presso Laterza di Bari, verrà infatti pubblicato il libro La poesia di
Virgilio, opera originalissima come impostazione filologica e critica, ammirata dai
lettori e dalla critica nazionale, tanto da meritare il primo premio nazionale dell’Accademia di scienze lombarde e della Facoltà di Lettere di Milano.
Il percorso della “classicità” di Tommaso Fiore registrò ancora la realizzazione di altre importanti opere di filosofia e di filologia: i saggi su Baumgarten,
Spinoza e Russel, ad esempio, ma anche la sua intensa collaborazione a “La Critica” crociana, a “La cultura” del De Lollis, all’“Archivio storico calabrese”, ad “Argomenti”, ecc., fino a quando egli si accorgerà che è necessario far ritorno ad un
discorso politico serio, veramente calato nel “reale” della storia recente o contemporanea. E, infatti, nello studio su Saint-Beuve, del 1939, Fiore, attento studioso di
letterature antiche, si cimentò assai bene, con competenza nel campo della civiltà
culturale e letteraria del romanticismo francese, non tralasciando alcune istante
politiche di rilievo, così come, del resto, farà a proposito dell’Utopia di Tommaso
Moro, un’autentica, chiara dipintura dei molti “problemi della civiltà europea” di
quell’epoca, come osservò l’Omodeo, recensendo l’opera sulla “Critica”.
Intanto, in questo rapido excursus non vanno dimenticate le altre opere di
Fiore, a partire dalle memorie di guerra, intitolate Uccidi (Torino, Gobetti, 1924),
dall’andamento prosastico liricheggiante. Solo dopo quest’opera, Fiore andrà sempre più sliricandosi e adotterà o orienterà il suo discorso in modo piano, agile, scarno, scattante, assecondando così la sua natura “bolliente”, come ho detto all’inizio
102
Giuseppe De Matteis
di questo mio “ritratto d’autore”; e in questo ductus stilistico appaiono, di tanto in
tanto, punte di estrosità e di arguzia: egli eviterà, d’ora in poi, le divagazioni accademiche o le secche dell’eruditismo. È proprio dal momento in cui Fiore si sarà liberato dalla suggestione della prosa rondista che riuscirà a mettere a frutto, in opere
davvero fondamentali, tutto il suo ardore di uomo politico, di attento spettatore e
registratore del “male di vivere” della classe contadina meridionale e pugliese in
particolare. Ma, ad una prosa meno liricizzata e più realistica lo indurranno anche,
in senso più lato, s’intende, le ben note, tristi vicende che caratterizzarono la sua
vita: partenza come volontario alla prima guerra mondiale, l’ostracismo del fascismo, le persecuzioni, l’arresto assieme ai tre figli, di cui uno, Graziano, appena
diciottenne, ucciso. Certo è che le prove esemplari di Fiore come scrittore autentico, moderno, con una sua forte carica di umanità e di novità, sono oggi concordemente riconosciute dalla critica nelle sue lettere edite da Laterza nel 1952 (Un popolo di formiche, con prefazione di Gabriele Pepe), nei servizi giornalistici e nelle
inchieste pubblicate da Einaudi nel 1956 (Il cafone all’inferno), nei medaglioni critici, affettuosissimi, su alcuni suoi conterranei (Formiconi di Puglia, Manduria,
Lacaita, 1963).
Ma, insieme a queste opere, vanno ricordati anche gli altri scritti, le relazioni,
le numerose conferenze, come quella famosa alla torinese Unione meridionali emigrati in Piemonte, sviluppata e stampata nel 1967; gli scritti, infine, sul poeta di
Capitanata Umberto Fraccacreta e sul premio a lui intitolato; la commemorazione
di Luigi Tamburrano; le prefazioni a Gli anni lunghi di Maria Ricci Marcone; all’Amore di un carro merci del “medico-narratore” di Trinitapoli Domenico Lamura,
fatto conoscere sul piano nazionale come valido scrittore della Daunia proprio da
Tommaso Fiore; la collaborazione alla rassegna “Puglia” e al volumetto miscellaneo La legge di Vailant, (Foggia, Società Dauna di Cultura, 1958).
Tutte le opere di Tommaso Fiore, oltre a farci individuare le tappe della singolare carriera di un saggista ricco di risorse, ci offrono un quadro della Puglia delle
aspre lotte contadine, della resistenza antifascista e della più adulta tradizione
meridionalista. Ricordo bene quando affermava, alcuni decenni fa, Michele Palmieri
in una conferenza che tenne a Bitonto su Tommaso Fiore. Egli sosteneva che, nel
panorama della vita morale e culturale della nostra regione, alla Puglia di quell’“asceta
della bellezza” che fu Armando Perotti, era subentrata la Puglia di Tommaso Fiore,
intellettuale di sinistra: il primo mitizzava i luoghi del paesaggio pugliese con una
prosa lirica di sapore rondesco, elegantissima, il secondo testimoniava un altro tipo
di amore per la sua terra, un amore cioè virile e scontroso, che non conosce soste,
stanchezza, tentennamenti o cedimenti; che è, anzi, caratterizzata da scatti di impazienza e da una trepidazione di fondo che sollecita il “consenso operoso alle lotte
per la giustizia e la libertà”. La Puglia di Fiore si configura così ai nostri occhi come
la regione di uno scrittore-conservatore ricco di umori giacobini, che mitiga l’ardore della passione libertaria con la severità e il rigore degli studi e, “percepita l’ansia
di giustizia delle formiche sobrie e laboriose che soffrono e premono per le tremende necessità cui sono esposte”, appare a noi come un personaggio inconsueto, con103
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore: memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
notato sì di aggressività e di spirito polemico, ma in sostanza “generoso, estroso e
cordiale”.
Ciò che più interessa, però, di questo autore, oltre al riconoscimento ormai
unanime di pubblico e di critica, è che egli è uno scrittore veramente di razza, moderno e vivo, un antifascista convinto e tenace; egli è, soprattutto, un uomo che ha
saputo restare al proprio posto, prima, durante e dopo il ventennio nero, quando
cioè il nostro Paese sembrava travolto dall’ignominia e dall’abulia; egli si dimostrò
sempre aperto alla tolleranza ed operò molto, con la parola, con l’apostolato del
professore di liceo, con il proselitismo, nella scuola e fuori, a contatto con generazioni e generazioni di giovani, “gettando – come bene osservava Tommaso Pedio –
ovunque il seme dell’entusiasmo, della fermezza, dell’incitamento ad operare bene,
lontano dalle fazioni e dagli interessi egoistici”. Legato a Benedetto Croce negli
anni più oscuri della dittatura fascista, Tommaso Fiore comprese che la dottrina del
grande pensatore abruzzese non era sufficiente a lottare contro le prepotenze e gli
abusi della classe padronale. Egli mantenne i contatti con i fuorusciti e fu tra i responsabili, come ricorderemo, del movimento “giustizia e libertà” nell’Italia meridionale. Gli eventi succedutisi dopo la caduta del fascismo provocarono in Fiore
una grande delusione: sotto il manto della Democrazia Cristiana o dei partiti di
governo si continuò a sperperare il danaro pubblico e molti si arricchirono illecitamente, con grande rabbia naturalmente di Don Tommaso che, pensate un po’, quando
egli divenne Sindaco di Altamura, si fece carico di pagare i debiti di quel Comune
con le lezioni private impartite ai giovani.
Salveminiano o crociano, azionista o socialista, una cosa è certa: Tommaso
Fiore è rimasto sempre, fino alla morte, il “giovane pugliese” interessato a formare
le coscienze e a soddisfare le aspirazioni e i bisogni della classe operaia.
Mario Sansone scrisse di lui, in forma sintetica ma incisiva, che “Se molti
degli studiosi e scrittori pugliesi vivono fuori di Puglia, altri vivono in Puglia, ora
come cittadini plenissimo jure della repubblica italiana delle lettere; a Bari vive
Tommaso Fiore, studioso di letteratura classica e moderna, scrittore incisivo e personalissimo, sempre in prima linea, fino agli ultimi anni della sua lunga vita, in ogni
battaglia di rinnovamento civile e particolarmente nel Mezzogiorno, interprete affascinante delle miserie e delle speranze di Puglia”.
Nella sua dirittura morale e politica, Fiore rimane uno degli uomini più rappresentativi della fine del secolo scorso: con la sua parola appassionata, con le sue
opere originalissime e, soprattutto, con il suo esempio, ci ha insegnato ad amare la
libertà, a difendere la dignità umana, a contrastare e a combattere con determinazione
e fermezza l’arbitrio e gli abusi che sono stati compiuti, anche in nome della libertà e
della giustizia. E da noi qui, in Italia, il problema più scottante, purtroppo, è stato ed
è ancora quello della giustizia sociale: è necessario accompagnare al progresso economico delle regioni più depresse una reale crescita che modifichi il costume; solo così
(e Don Tommaso lo suggeriva sempre ad amici e conoscenti, giovani e meno giovani)
si può sperare di liberare le coscienze, trasformando il “cafone” in “uomo e in cittadino” che sappia conquistare e difendere con dignità il proprio avvenire.
104
Giuseppe De Matteis
Egli è stato un uomo memorabile per onestà, intelligenza, coraggioso senso di
solidarietà con i più poveri, e noi abbiamo oggi non solo il dovere di ricordarlo, ma di
assecondare il suo pensiero attraverso la lettura e l’approfondimento delle sue opere,
accogliendo in pieno il suo messaggio, sempre attuale, di umanità e di vita.
Tommaso Fiore fu, come si è detto, tracciando il suo “profilo”, uomo di straordinaria qualità. Chi, come me, ha avuto l’occasione di conoscerlo e di stargli accanto (lo frequentai quasi quotidianamente per circa due anni, 1965-1967, quando svolgevo il mio servizio militare a Bari), deve convenire che il modo suo di pensare, di
agire, soprattutto il suo pensoso ascoltare si scioglievano quasi sempre in confidente
calore di umanità: egli dimostrava una disponibilità umana umile e insieme ricca ed
avvertita. La sua conversazione, quasi sempre calorosa, sincera, polemica, era una
lezione di umanità e di dottrina, alimentata da una fede profonda nella funzione civilizzatrice delle lettere e da una fervida tensione etica e civile, ma anche di grande
impegno politico e sociale. Ricordo con particolare ammirazione la sua dedizione
allo studio, l’ordinato rigore del suo lavoro quotidiano nella sua bella casa di Via
Quintino Sella 78, stracarica di libri antichi e moderni, molti recentissimi, inviati a lui,
questi ultimi, da varie case editrici di ogni parte d’Italia, perché egli si degnasse di
leggerli, di vagliarli attentamente e di stilare qualche nota critica sulla terza pagina
della “Gazzetta del Mezzogiorno”, quotidiano barese e pugliese che accoglieva spesso i suoi elzeviri. E tutto egli faceva con scrupolo, con equilibrio, soprattutto con
signorile capacità di comprensione dei problemi soprattutto giovanili (la povertà, la
disoccupazione, la scuola), analizzati con forte senso etico e scientifico.
Colgo qui l’occasione per far conoscere ai lettori, a mo’ di appendice di questo
mio “ritratto” d’autore, alcune missive, dell’allora più che ottantenne scrittore, indirizzate a me, ventiquattrenne, che testimoniano quanto calore ed impegno egli ponesse nella discussione sui problemi di attualità, dimostrando di saper passare con
estrema disinvoltura dalla battuta rapida, che qualche volta si racchiudeva in un’osservazione surreale, con note tra l’ironico e il grottesco, qualche altra volta assumeva
accenti vivi e sferzanti (ciò soprattutto quando la discussione era più impegnativa e
stringente, e quando era necessario far ricorso all’appassionata difesa delle sue convinzioni e dei suoi principi, ispirati sempre a grande onestà e rettitudine).
Bari, 22 febbraio ’65
Caro De Matteis,
c’è una lettera di voi altri che giace dinanzi a me da più mesi. Quando risponderò? Sono stato nel dicembre in Albania e in Toscana, poi sono stato afferrato da un
lavoro che non mi lasciava un minuto di respiro. E ora rispondo immediatamente,
perché… le cose tue e di voi tutti m’interessano.
C’è un solo uomo, a mia conoscenza, che può aiutarti nella tua tesi di laurea e
correggerla quando l’hai finita. È il prof. Francesco Lala, via Fatebenefratelli, 1,
Lecce, che ha pubblicato l’anno scorso un’antologia della poesia moderna, da D’An105
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore: memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
nunzio in qua, con note e commento assai fini. Naturalmente si è occupato di
Cardarelli, senza riscaldarsi, si capisce, ma qualcosa ha pur trovato. Questo signore,
come sai, ha voluto fare una restaurazione della forma, e solo per questo si ricorda il
suo nome. Socialista? Nemmeno per sogno. Collere? E contro chi. Accademia dunque, anche se molto fine; di ciò egli viveva. È vero che i poeti moderni, da Pascoli e
D’annunzio agli altri hanno gran cura di lingua, stile, metro ecc., ma sono molti
cubiti sopra a Cardarelli. Te ne sei accorto subito, mi pare.
Non ho altro da dirti. Abbracciami il povero Caruso, malato non so di che. Io
sono più malato di tutti, secondo il detto ciceroniano, morbus ipsa senectus, ma spero
di farcela ancora per parecchio tempo, dopo gli 81 anni che ho. A primavera, se ci sei
anche tu, conto di far una capatina ad Alberona, per il solo piacere di sentirvi parlare.
Non altro. Buon lavoro e un abbraccio dal tuo vecchio
Tommasone
Bari, 2 aprile ’65
Caro De Matteis,
la prego di scusarmi; la sua lettera è stranamente senza data, ma io non ho
perduto il senso della realtà; tacere più a lungo sarebbe scortesia.
Ho infatti un subisso di cose da fare e una corrispondenza così vasta che a
volte mi passa tutta la mattinata a dettar lettere. Pazienza! Dacché c’è stata una
vita letteraria, non si può fare a meno di scrivere e ricevere lettere.
Ad una ad una le sue quistioni.
Anzitutto lo studio su Cardarelli e i consigli di Lala. Gli ha scritto? A che
punto è il suo lavoro?
La mia aspirazione a venire nel Subappennino foggiano e per di più ad
Alberona non è che un sogno di poesia. Cosa verrei a fare costà? Che cosa potrei
imparare? Le condizioni dei contadini le conosco, non sono diverse nei vari punti del
Subappennino. Dei borghesi non ho voglia di vederne nessuno, se non c’è costà qualche
uomo singolare. Mi sarebbe assai grato trattenermi con lei, col suo amico Caruso e,
possibilmente, con l’altro1 poeta, di cui ho scritto, e che avrà letto, spero, il mio articolo. Che ne dice lei a riguardo? Se il giovine non ha avuto l’articolo, me lo dica e mi
dia il suo indirizzo, glielo manderò senza dubbio.
Caruso è malato? Spero si tratti di cosa da nulla. Caruso è malinconico “per la
nostra povera esistenza di mortali”, come dice lei. Ma nella vita non tutto è male,
come non tutto è bene, pure si lotta, si sogna un mondo migliore, quello per esempio
della fratellanza universale, come faceva il povero Leopardi. Bisogna nutrirsi, dica
al giovane collega, di senso critico sì, ma coraggioso, della vita. La vita è retta dalla
Provvidenza, quella cristiana per i cristiani, quella vichiana per noi filosofi.
1
Si tratta del compianto Vincenzo D’Alterio, di Alberona (Fg.), poeta in lingua e dialettale anche.
106
Giuseppe De Matteis
Non so come rispondere a proposito dei problemi che possono interessare lei. I
problemi sono tanti! Quelli che interessano me sarebbero la storia, la critica, la filosofia, la politica, il meridionalismo, il mondo del lavoro, l’atteggiamento dei partiti
di sinistra in tutto il mondo.
Come forse avrà letto sui giornali, or sono due inverni, ho guidato verso
Altamura la marcia della pace. E domenica guiderò qui a Bari la marcia per la pace
nel Vietnam.
Un uomo moderno non può ignorare questi problemi, un meridionale poi, se
non conosce le cose del Mezzogiorno, se non ha una visione razionale di ciò che va
fatto, se non capisce che cosa è stato per noi Giustino Fortunato o Carlo Levi, vuol
dire che dorme e che è difficile svegliarlo.
Come mai poi chiede di lavorare in qualche rivista letteraria diretta da me?
Se c’è qualche rivista quaggiù, non è certo diretta da me, lo sanno tutti. Questo di lei
è come mettere il carro dinanzi ai buoi. Che cosa ha scritto sinora? Io non lo so, ma
so che la critica è forse più difficile della poesia: si nasce poeta, si diventa critici a via
di studio e di buona volontà.
Chi sono i colleghi Petrucciani e Parronchi? Me li saluti cordialmente.
Auguri per la sua laurea. E le ricambio i migliori saluti,
T. Fiore
Bari, 27 aprile ’65
Carissimo De Matteis,
grazie della tua e scusami se rispondo con quasi 2 settimane di ritardo. Pensa
un po’ che poeti e romanzieri che si rivolgono a me ne incontro non di rado e quindi
svolgo con loro una conversazione assai impegnata…
Ho piacere che il tuo lavoro su Cardarelli va innanzi e che il tuo professore ne
approva ciò che hai scritto. Scrivi senz’altro al prof. Lala, che è un po’ schivo, come
di solito gli studiosi, però in materia è più che competente.
Non ti preoccupare della mia attività letteraria, dacché son ridotto a scrivere
quasi sulla “Gazzetta” solamente. Spiego anche un’attività politica, di cultura politica; non c’è settimana che io non sia in giro a tener discorsi.
Ho scritto al tuo amico Caruso2 per confortarlo. Che ragioni ha di essere
malinconico? Non insegna? Basta una professione come questa, volta a formare i
giovani, per non trovar più tempo per affliggersi.
Salutami il collega Petrucciani ed abbimi affettuosamente tuo,
T. Fiore
2
Si tratta del poeta dialettale alberonese, maestro Michele Caruso, all’epoca settantenne, coautore con il
sottoscritto e con Vincenzo D’Alterio della fortunata raccolta di canti popolari e di poesie alberonesi intitolata Aria ed arie di Alberona, Foggia, Studio editoriale dauno, 1963.
107
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore: memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
Torino, lì 21 settembre 1965
Carissimo De Matteis,
la tua mi è stata rinviata qui, dove mi trovo per gli esami autunnali di Maturità.
Profondamente mi addolora la malattia dell’amico Caruso, cui porgerai il più
caldo abbraccio mio e il dolore di non poterlo venire a salutare di persona. Verrà
presto l’inverno, e come farà a resistere? Chi lascia? Ha figlioli? È viva sua madre?
Quando tu venisti a Bari e ti recasti a non so quale ospedale, pensai che fossi
tu il malato e che non ti fossi fatto vedere quasi per vergogna. Ti chiedo scusa dell’errore, ma ciò avviene quando non ci si conosce di persona. Pensavo che saresti venuto
alla fiera e invece…
La “Gazzetta” è tutt’altro che favorevole a uno scrittore socialista e di temperamento aspro, come sono io. Il direttore, dopo un mese che teneva un mio moderato
articolo su un recente volume di Sacco, un meridionalista di Matera, mi ha chiesto
gli rimandassi l’articolo; l’aveva smarrito, dice lui. L’aveva invece perduto, cioè
cestinato, e io non gli ho risposto. Anche adesso un articolo sul prodigioso studio su S.
Francesco d’Assisi del sommo storico Gabriele Pepe se lo tiene da più di due settimane. Vedremo se se ne ricorderà…
Pasquale Soccio è un uomo di cultura, ma un reazionario. Cosa ci azzeccava
la filippica contro gli abitanti di Sannicandro Garganico? E l’esaltazione del Medioevo per il Medioevo? Questo assurdo atteggiamento macchia la poesia del suo ultimo volume,3 la sua arte di descrivere, che non è poca.
Come vedi ho lasciato tutto per risponderti. Se hai bisogno di scrivermi, indirizza sempre a Bari.
Con grande affetto tuo,
T. Fiore
Bari, 6 dicembre ’65
Caro De Matteis,
mi dispiace che la tua lettera mi abbia trovato a Roma. Son tornato ieri sera
alle 19 in aereo e soltanto questo pomeriggio posso rispondere. Perché tanta fretta?
Dunque non ho nessuna difficoltà a che tu introduca il mio giudizio sulla
poesia moderna, dove meglio ti pare. I giudizi dei critici sono a disposizione del
pubblico e tanto più degli amici.
Leggerò con piacere la pubblicazione dei nuovi versi, e, intanto, ti saluto caramente,
Tommaso Fiore
3
Fiore si riferisce qui al noto libro di Pasquale SOCCIO Gargano segreto, Bari, Adda, 1965.
108
Giuseppe De Matteis
Bari, 27 giugno ’67
Caro De Matteis,
solamente ieri son riuscito a strappare due minuti al prof. Sansone, alla fine di
una giornata di lauree. Mi ha detto subito che ti vedrà volentieri ad ottobre, che
puoi presentarti senz’altro a lui e parlargli delle cose tue. Non gli ho dato il volume
di versi, perché facilmente lo avrebbe smarrito in mezzo a tanti altri. Glielo porterai
tu stesso.
Segui la “Gazzetta”, vedi che non ha pubblicato quasi nulla di me. Un mio
articolo su Sansone ha suscitato una tempesta e non so ancora perché: nessuno parla,
nessuno si sbottona, nessuno risponde. Io ho protestato per iscritto al direttore del
giornale per questa maniera di agire in silenzio ermetico e magari adoperando le
forbici alla pazza. Ancora una volta, silenzio di tomba. Sarei tentato di andarmene
lontano quando daranno la Targa dell’Amicizia anche a me. Premi sciocchi quelli
dati ad un 84enne. Ma darli ai giovani, come si dovrebbe, comporta responsabilità.
Come mai hai dimenticato nella tua busta due mila lire? Non ricordo di aver
fatto delle spese per te e perciò te le rimando.
Fatti vivo ogni volta che hai bisogno. Cordialmente tuo,
don Tommaso
P.S. Mi sai dire chi è il presidente del Consiglio Provinciale della tua Daunia?
E quanti sono i consiglieri?4
4, agosto ’67, codice postale 70122
Caro De Matteis,
la rivista “Incontri Meridionali.” ha subito uno scontro: gli operai sono in
vacanza. Ciò vuol dire che se ne riparla dopo ferragosto.
Quanto al tuo articolo, a me par buono, ma il direttore Catarinella preferisce
che dei propri scritti parlino gli autori, direttamente. Si vedrà.
Sarei lieto che tu intervenissi al premio Monticchio, che si terrà sul posto il 20
o 27 corr., come decide l’amministrazione. Non mancheranno uomini di valore e
amici, ad ogni modo.
In questi giorni esce anche un grosso volume della “Rassegna Pugliese”, dedicato al sottoscritto. Ma ciò che importa è che il saggio di Michele Palmieri è ottimo,
che ce n’è uno di Gabriele Pepe e non mancano altri assai significativi.
Buon riposo! Io mi riposo correndo di qua e di là e lavorando instancabilmente.
Tuo con affetto,
don Tommasino
4
L’allora presidente della Provincia era l’avv. Berardino Tizzani, di Manfredonia e i consiglieri provinciali
erano trenta.
109
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore: memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
Bari, 26 ottobre 1967
Caro De Matteis,
non esiste un tempo determinato per scrivere lettere: quando è necessario si
scrive magari due volte al giorno, quando non è necessario, ci si regola, un mese,
direi, non più, se si vuol conservare l’amicizia.
Non capisco che cosa ti tiene tanto occupato.
L’affare di Lucera mi fa ricordare quello del tuo colonnello, che voleva una
conferenza all’esercito e poi se ne scordò, non ne parlò più! E io ebbi così del tempo
perduto per uno smemorato. Dunque non bis in idem. Anche mi ricordo di essere
stato una volta invitato proprio a Lucera, ad una conferenza repubblicana, se mal
non ricordo. Ma quella brava gente dei signori del circolo5 se l’era squagliata, e io
non trovai nessuno, che mi dicesse “buon giorno”.
Nella speranza che la cosa non si ripeta, trattandosi di un circolo, che puzza di
borghesia locale e reazionaria lontano un miglio, preferirei parlare di argomenti
vari, come meglio piace ad ogni interrogante. In tal modo più che l’oratore parlano
gli spettatori ed ognuno è contento di quel che gli si risponde, ma più di quello che
dice lui stesso! Con questo non voglio dire che non ti farei la conferenza letteraria
sulle condizioni della nostra cultura in Puglia, ma… pensaci bene. Un’altra condizione, cui non posso derogare, è che la mia fatica venga ricompensata, modestamente, con due biglietti da diecimila, il che non ha bisogno di giustificazioni. Se no,
preferisco fare una passeggiatina nella villa Garibaldi e vedere le ragazze sfarfallare
uscendo dalla scuola.
Cari saluti,
don Tommaso
Bari, 15 maggio 1968
Carissimo Peppino,
non avrei mai creduto che mi facessi questa improvvisata, delle tue poesie,
nuove e imprevedibili. Non è solo che non me ne hai parlato mai, anzi hai insistito
sempre sul problema dell’insegnamento presso Sansone, come se ciò potesse essere
tutto per te; quanto a poesia io ero quindi autorizzato a ricordare i tuoi vecchi versi
a stampa, che restano nella tradizione paesana.
Non so quindi come leggere nel tuo animo, se riesci a prepararmi delle sorprese. Ma non voglio pensare a nulla di male, anzi, qualunque sia stato il motivo del tuo
segreto, i versi, ti dicevo, sono nuovi e belli. E ciò può bastare.
Più che l’elegia, il “Ricordo di te” e “l’Autoritratto” mi hanno colpito per la
loro serietà, per l’impegno, per il senso nuovo della vita, ben lungi dalle paesanerie
di Alberona.
5
Fiore si riferisce al notissimo Circolo “Unione”, in piazza Duomo, a Lucera.
110
Giuseppe De Matteis
“Autoritratto” è insieme solitudine, bisogno di liberazione e quindi travaglio
dell’anima. Tutto ciò è irragionevole, tu pensi e vuoi abbandonare il passato, che
unisci con la sorte capricciosa; “Voglio riconoscermi uomo… in un veracissimo dibattito interiore”. La poesia dunque è grave di motivi seri e dolenti, che non sempre
si trovano così concentrati nei moderni. Poi la tua tristezza si collega al “Ricordo di
te”, cioè a una forma di amore sconvolgente. Il poeta non può accettare la calma, il
paesaggio notturno, non gli piace più meditare sul singulto dell’uccello notturno. La
sua attenzione è rivolta alla voce della natura, crudele e dolente. La sua notte estiva
si popola di piante e il suo sogno non avrà termine. Insomma, forse questo sogno non
si definisce con la precisione di un’arte sicura, ma piuttosto con oscillazioni e vibrazioni. Ma questa è una forma della poesia di oggi. Non mi ha persuaso la tua “Elegia”, la tua aspirazione a “vivere un giorno da leone” echeggia d’Annunzio in maniera inopportuna. E sei ben lungi dal sistemare un’espressione ritmica persuasiva.
La metrica libera è una grande conquista, quando si è poeti, ma tu ti esprimi capricciosamente, o almeno questo è il tuo dattiloscritto, con l’articolo a fine del verso!
Ho finito. Mi aspetto da te che ti concentri nell’arte, dimenticando qualsiasi
altra cosa, la filologia, la letteratura e tutte le tentazioni altrui.
Mi resta l’ansia di sapere e ti prego di scrivermi presto, se hai qualcosa da
dirmi, in verso o in prosa.
Fraternamente tuo,
don Tommaso
Bari, 18 novembre 1970
Amato figlio,
ti ringrazio assai per tutto ciò che mi scrivi e il tuo articolo vedrà la luce nel
prossimo numero, il primo dell’anno seguente sulla rivista.
Tu hai compreso però, anche se il foglio uscirà in settimana, spero (gran tempo
si perde coi correttori e io non mi fido di me, leggo a memoria!), che io ho già pubblicato i tuoi versi.
Tu avevi fatto l’abbonamento per £. 3.000; mandami ora, ti prego, altre 7.000,
come promettesti.
Intanto ti annunzio due cose: che quell’antologia non è buona affatto, come ti
dimostrerò fra giorni, e io ne farò immediatamente un’altra: ciò è avvenuto perché il
miliardario Macinagrossa ha i suoi vecchi legami, che giudica di poesia coi piedi. Ti
aggiungo ora che stiamo facendo un’associazione libraria o casa editrice e che quindi
tu potrai farne parte come vedrai dalla circolare che racchiudo in questa lettera. Se stai
con noi, non potrai che farmi nuovo piacere. Siamo intesi dunque che tu non scrivi il
tuo articolo, se non appena finito il mio volume, che certamente venderò o regalerò ad
amici di Francia, d’Inghilterra, di Germania, di Russia e di ogni libero paese.
Un abbraccio dal tuo,
don Tommaso
111
L’impegno politico e culturale di Tommaso Fiore: memoria di un Amico a trent’anni dalla morte
Bari, 1 aprile 1971
Caro Peppino,
mi dispiace assaissimo dei tuoi disturbi, tanto più che sei un giovine aitante di
forme e fresco di salute. Io penso che l’aria primaverile della collina dove sei nato
potrà giovare alla tua salute e ad ogni modo non mancare di darmene notizie settimana per settimana.
Ma vedi cosa vuol dire scriversi di rado? È come una lebbra che si stende
attaccando un corpo, non fa pensare più a nulla. Così io non saprei più dove trovare
la tua nota sul poeta Urrasio,6 che mi riesce completamente nuovo.
Chi mai ti consiglia di leggere uomini piccolini? Se lo fa il tuo professore di
Università è certamente un pedante… Cosa ha fatto di buono questo scrittore? Comunque… Mandamelo, perché io possa giudicare se è degno di essere conosciuto da
noi meridionalisti o magari da noi uomini.
Perdonami la franchezza, che è la virtù più bella dell’uomo.
Per “La Rassegna Pugliese”, non so perché tu non l’abbia preso dalla biblioteca pubblica o da quella universitaria. Ma insomma devi scrivere, scrivere, scrivere,
come faccio io.
Cordialmente dal tuo,
don Tommaso
6
Tommaso Fiore nel 1971 ancora non conosceva le prime prove poetiche di Michele Urrasio, maestro
elementare a Lucera ma nativo di Alberona, la cittadina del Subappennino dauno definita da Mario Petrucciani
e da Mario Sansone “il paese dei poeti”. Vari anni dopo, leggendo la produzione poetica di Urrasio, Fiore
espresse parere favorevole.
112
Tommaso Palermo
Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino
Studio codicologico, paleografico, testuale
di Tommaso Palermo
1.Analisi codicologica del manoscritto
Il ms. Casin. 218 è un manoscritto composto da settantaquattro carte
pergamenacee. Presenta una legatura moderna realizzata intorno al 1950 durante
un’operazione di restauro reso necessario a causa del mediocre stato di conservazione della materia scrittoria; strutturato in dieci fascicoli provenienti da codici
frammentari del X secolo, contiene prevalentemente glossari, di cui uno solo completo, ed un frammento dell’ Interpretatio nominum haebreorum di Eucherio.
Il codice misura mm 250x200 e presenta una coperta in pelle marrone scuro,
decorata a secco con cornice a tralci e posta su assi di cartone; sul dorso è la segnatura
218, impressa in oro. Due fogli di guardia cartacei sono posti all’inizio ed uno alla
fine del codice; il primo reca due annotazioni del XVI sec. circa in latino, di mani
diverse, che fanno riferimento una alla datazione e l’altra ad una rassomiglianza con
un glossario cassinese del X sec., il ms. Cass. 402: Seculi X codex, et fortasse etiam
IX seculi (vergata con inchiostro marrone scuro) e Scriptura omnino similis videtur
Cod. 402 (realizzata con inchiostro marrone chiaro);1 le annotazioni poste in alto a
destra su questo foglio sono note informative moderne sulla collocazione archivistica
del codice. A destra di queste è visibile la cifra 218 riferita all’attuale segnatura, ben
leggibile al centro del margine superiore del recto della prima carta. Ancora alla c.
1r si legge, in basso a sinistra, una nota di possesso: Iste liber est sacri monasterii
Casinensis N.772, sicuramente databile al XVI secolo.
Le carte del manoscritto risultano divise in dieci fascicoli, così composti: otto
quaternioni, un ternione ed un binione.
Fascic. 1: (cc. 1-8)
Fascic. 2: (cc 9-16)
Fascic. 3: (cc. 17-24)
1
Il foglio iniziale di guardia cartacea del ms. Casin. 402 reca invece la dicitura: Seculi X codex forsano eadem
manu Cod. 218 confr etiam Cod. 160. Il ms. Casin. 402 è databile, secondo il Cavallo, alla seconda metà del X
secolo, e fu forse realizzato nella Montecassino ricostruita da Aligerno. Si veda: Guglielmo CAVALLO, La
trasmissione dei testi nell’area beneventano-cassinense, in La cultura antica nell’occidente latino dal VII all’XI
secolo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto 18-24 aprile 1974), Spoleto,
presso la sede del Centro, 1975, tomo I, pp. 372-373.
113
Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
Fascic.4: (cc. 25-32)
Fascic.5: (cc. 33-40)
Fascic.6: (cc. 41-48)
Fascic.7: (cc. 49-56)
Fascic.8: (cc. 57-64)
Fascic.9: (cc. 65-70)
Fascic.10: (cc. 71-74)
La fascicolazione non corrisponde però a quella originale giacché, come riferito
dalla Orofino nel suo citato lavoro,2 durante i lavori di restauro del 1950 è stato invertito l’ordine tra i fascicoli VIII e IX: infatti nella struttura primaria il codice presentava,
nell’ordine, l’unico glossario completo del codice (Glossarium ab Abeston ad Zacharias),
quindi il frammento dell’Interpretatio nominum haebreorum di Eucherius (attuali fascicoli I-VII e IX), e i frammenti di altri glossari (attuali fascicoli VIII e X).
Sul verso dell’ultima carta di ogni fascicolo è presente la segnatura, al centro
del margine inferiore (fanno eccezione solo il primo e l’ultimo fascicolo), vergata in
numeri romani; il nono fascicolo (il ternione) presenta il numero VIII anziché VIIII
poiché posto in origine, come si è detto, dopo il settimo fascicolo.
Nel manoscritto si rileva una moderna numerazione, incompleta, delle pagine;
apposta infatti solo sul recto (1, 3, 5, 7...), da c. 66 a c. 70v si presenta eseguita anche sul
verso e, tra le cc. 67r e 68v è posta tra parentesi tonde; la numerazione solo su recto
riprende da c. 71 sino alla fine del manoscritto; la rifilatura dei margini ha portato alla
caduta di alcuni numeri di pagine. Altra apposizione moderna risulta essere la numerazione di alcune carte (cc. 20, 27, 30, 40, 50, 60, e c. 68, che reca il numero 70 poiché
sono stati contati evidentemente anche i fogli di guardia cartacei posti all’inizio del
codice); entrambe le numerazioni sono in cifre arabe, poste sul recto in alto a destra.
La segnatura dei fascicoli, invece, è coeva al confezionamento del manoscritto ed è
stata eseguita forse da più mani. Tutti i dieci fascicoli sono stati rilegati con una cucitura interna ben visibile al centro delle carte: tre tratti di filo, di cui quello centrale più
lungo rispetto agli altri due di eguale lunghezza (cm 8,5 contro cm 4,5).
Il binione finale è un fascicolo fittizio: secondo la Orofino, il bifolio formato
attualmente dalle cc. 72/73 non sarebbe nel suo stato originale ed esisterebbe solidarietà originale tra le cc. 72 e 74, fogli esterni di un fascicolo.3
Nella confezione originaria del codice è stata adottata la scelta, puramente
d’ordine estetico, di disporre i lati pelo e carne delle carte in maniera tale che apparissero a coppie alternate, secondo la regola individuata dal Gregory per cui a due
carte affrontate che mostrano il lato pelo seguono due che mostrano il lato carne e
così via. Dalla tavola VI è possibile vedere la rappresentazione schematica di questa
2
Giulia OROFINO (a cura di), I codici decorati dell’Archivio di Montecassino, Roma, Istituto poligrafico e
Zecca dello Stato, [s.d.], 2 voll.: vol. I, p.77.
3
Ibid., p. 77.
114
Tommaso Palermo
disposizione. La regola del Gregory è interrotta nel ternione, a c. 67, e non viene
rispettata assolutamente nel binione. Gli interventi di restauro apportati alle parti
mancanti di alcune carte sono stati condotti con l’accortezza di rispettare il relativo
lato della membrana.
La pergamena presenta una superficie ondulata, piuttosto spessa ma non eccessivamente rigida. Si tratta di una materia scrittoria di bassa qualità e lavorazione,
e di colorazione non uniforme. Le parti ondulate si presentano a volte leggermente
lesionate lungo la mezzeria e ciò a causa della pressione a volume chiuso (si veda c.
28v). La colorazione è generalmente giallognola sul lato pelo e più chiara sul lato
carne, non sempre uniforme; sono inoltre presenti striature biancastre (cc. 20r, 13r)
o di colore marroncino (c. 51r) e carte più scure poiché esterne (cc. 1r e 74v). Di
frequente sono individuabili sulla superficie i follicoli piliferi (cc. 13r, 27r, 35r, 44v),
mentre del tutto assenti sono i residui di peli. Alla mancanza di un accurato lavoro
di preparazione e lisciatura delle carte è imputabile la presenza di piccolissime grinze che si distinguono, anche al tatto, sul verso di molte carte, soprattutto del primo
glossario, (si vedano ad esempio le cc. 13v e 29v). A queste caratteristiche comuni a
tutti i fascicoli se ne aggiungono altre più specifiche per alcuni: per i primi sette
fascicoli, più il ternione, il lato pelo è giallognolo, lucido e più liscio rispetto al lato
carne che è di poco più chiaro, non sempre soffice al tatto ma sempre opaco e ricco
di asperità; il quaternione ottavo si distingue, invece, per il lato carne molto bianco
e liscio e il lato pelo leggermente più chiaro rispetto ai precedenti. Del binione si
distinguono le cc. 72 e 73 per la loro colorazione leggermente marroncina e la c. 74
dal lato pelo di colore giallo intenso, notevolmente macchiato, e dal lato carne
grigiastro e molto soffice al tatto.
In diversi punti la pergamena presenta pieghe schiacciate di varia lunghezza
che coprono parte di alcuni righi di scrittura, occultando parzialmente il testo. In
alcuni casi, come ad esempio per la piega più in basso di c. 17, esse dovevano essere
già presenti al momento del lavoro dello scriba che ha quindi dovuto, per necessità,
disporre il testo a debita distanza. Sono presenti inoltre fori di forma irregolare (si
vedano le cc. 9, 10, 12, 38) e carte con spigoli rifilati (cc. 3, 17, 21), uno solo dei
quali, a c. 17, integrato con nuova pergamena in sede di restauro. Il margine superiore di c. 58 presenta una conformazione “a falce lunare”, mentre tre piccoli occhi
vetrosi sono visibili a c. 29 sul margine esterno, in alto.
L’umidità ha lasciato numerose macchie di varia estensione, tutte nella metà
superiore delle carte: i danni conseguenti hanno influito sulla qualità del supporto
(cfr., ad esempio, le cc. 38r, 66, 73r), sull’integrità di alcune iniziali decorate, che
hanno subito diluizione e spargimento di pigmento (c. 13), e sulla leggibilità del
testo (c. 69); in quest’ultimo caso gli inchiostri hanno resistito meglio sul lato pelo
piuttosto che su quello carne (ove si presentano scoloriti e molto sbiaditi): in entrambi i lati il pigmento delle iniziali ornate si è però espanso, come nel caso del
verde acquerellato che ha lasciato uno scialbo alone verdastro a c. 13.
Alcune carte presentano zone leggermente abrase (si vedano ad esempio le
cc. 19v, 24v, 42r, 70r).
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
Esempi visibili del recente intervento di restauro sono: la legatura, le integrazioni in pergamena (cc. 9, 17, 58, 71, 74), i listelli preservatori in garza telata bianca
e le applicazioni di rinforzo e protezione in sottilissimo film protettivo (si vedano
le grandi A iniziali di c. 1r e di c. 72r, per esempio).
Le carte hanno un formato medio compreso tra 250-245 x 197-190 mm; le cc.
44 e 45 presentano, sul bordo inferiore, leggere imperfezioni dovute alla rifilatura.
Per delimitare lo specchio grafico sono stati praticati, tramite punctorium,
fori guida sui bordi laterali per le linee rettrici nonché fori nei margini superiore ed
inferiore per le linee marginali delle colonne di scrittura. Tracce dei primi sono
rilevabili soltanto nelle carte esterne di ogni fascicolo, dei secondi è superstite un
esempio a c. 24; completamente privo di fori è il binione.
I fori, analizzati in controluce, appaiono via via più piccoli a seconda della
distanza dal punto in cui è stato poggiato il punctorium, a sezione triangolare. Le
cc. 9 e 17, infine, presentano qualche traccia di una seconda leggerissima e quasi
impercettibile serie di fori. La rigatura delle carte è stata dunque eseguita per lo più
a secco, ma nel codice sono presenti anche tracce di rigatura a piombo (nel binione).
Dall’analisi della rigatura è emerso che per i primi nove fascicoli è stata eseguita una
rigatura a fascicolo aperto, giacché i solchi appaiono marcati solo sulle carte esterne
di ognuno di essi, mentre seguono solchi sempre più lievi verso l’interno (Tavola
VII). Lo specchio grafico è del tipo illustrato a tavola VIII e prevede due colonne di
trentacinque righi ciascuna le cui dimensioni sono di mm 197 x 140 (Tavole IX e X);
le cc. 71 - 74 mostrano uno specchio leggermente diverso: le due colonne di scrittura presentano infatti una doppia linea di margine. Nelle cc. 1r-56v il numero strettamente osservato dai copisti è di trentacinque righi di scrittura per colonna, con
rare variazioni: ad esempio, la colonna di sinistra di c. 48v presenta trentatré righi;
la scrittura è vergata al di sopra della linea di testa. A partire da c. 57r fino a c. 64r i
righi diventano trentasei, ma anche qui si registrano eccezioni: la c. 62r presenta la
colonna A di trentasette righi e la colonna B di trentacinque; trentacinque righi per
colonna si contano invece da c. 65r sino a c. 70v.
Integrazioni marginali alle glosse sono vergate nell’interlinea o negli spazi in
bianco a fine rigo mediante l’utilizzo di diversi sistemi e segni grafici come la croce
greca (cc. 25v, 26r, 27v) e la croce greca potenziata (cc. 35v, 36r); altri segni di richiamo sono visibili alle cc. 50v e 51r: nel primo caso, in corrispondenza della glossa
primus, è visibile, anche se leggermente scolorito, un cerchio tagliato orizzontalmente da una linea che fuoriesce dalla circonferenza (esso introduce una nota vergata alla fine della colonna destra, in scrittura gotica).
A c. 51r, in corrispondenza della glossa Polimitum è visibile il segno ... , che
introduce una glossa posta in alto, nella colonna di sinistra; infine a c. 52v si rilevano una x con quattro punti tra gli assi. Nel caso il copista voglia integrare il testo di
nuove glosse o citazioni, il metodo più diffuso è quello ben visibile nel primo glossario ove, negli spazi bianchi lasciati fra i gruppi alfabetici delle glosse si inserisce
l’intervento di un secondo scriba: un esempio di questo lavoro è evidente alla c. 9v,
nella quale sono state aggiunte nuove glosse ed è stato creato anche un nuovo grup116
Tommaso Palermo
po alfabetico cominciante con Aq. Un secondo sistema consiste nell’inserire le glosse
negli spazi bianchi alla fine del rigo di scrittura (cc. 5v, 15v); raramente si incontrano glosse o integrazioni inserite nell’interlinea (cc. 5r, 21v, 22v, 71v); è egualmente
raro il caso di glosse vergate sul margine laterale esterno delle carte (cc.7v, 8v, 23v,
71v).
Qualora il copista si trovi a vergare a fine rigo una parola che richiederebbe
di essere vergata al rigo successivo, egli preferisce spostarla, per economia di spazio, al di sopra o al di sotto del rigo sfruttando l’interlinea e delimitando la parola
stessa con una linea ondulata e continua (Fascenina, c. 29v), puntiforme e spezzata
(Adeps, c. 4r), spezzata e curva (Acolithi, c. 73v), zigzagante (Adulterium, c. 5r).
Le citazioni presenti nel testo si inseriscono fra i lemmi rispettandone, con la
loro prima parola, l’ordine alfabetico; per evidenziare la loro presenza si pone, in
corrispondenza dell’inizio o della fine di esse, il nome abbreviato dell’autore e molto raramente il titolo dell’opera o il riferimento al passo; il nome figura di norma:
sul margine esterno della colonna o nello spazio dell’intercolonna (cc. 44, 45r) o,
ancora, nello spazio superiore o inferiore lasciato a fine glossa (cc. 25v, 28r).
Molto articolata è la gamma degli autori citati nei glossari: essa spazia da
Galeno a Beda il Venerabile, da Isidoro il Giovane a Isidoro di Siviglia, da Clemente (forse alessandrino) ad Eucherio episcopo di Lione (e poi santo), da San Gerolamo
e Sant’Ambrogio ad Origene e Solino, fino a Seneca; gli autori maggiormente citati
risultano Sant’Agostino (trentanove citazioni) e San Gerolamo (ventitré citazioni).
Non ben identificati, sempre in riferimento agli autori, sono i nomi abbreviati con
le lettere: GG (cc. 12v, 29r), G.P. (c. 39v), GR (cc. 37r, 61v), GS (c. 15v), Ambr
Lucan (c. 47r), G (cc. 53r, 55r, 56v). Raramente i nomi sono vergati senza abbreviazioni: Augustinus (c. 62r), Beda (cc. 25r, 43r, 52r, 54v), Clemens (c. 25r), Galenus (c.
62v), Isidorus (cc. 10r, 12v), Solinus (c. 39v) e a volte si possono presentare vergati
verticalmente: Isidorus c. 10r, Augustinus c. 9r, Hir c. 26v, Euche eps c. 45v, Eucherius
c. 5r, Beda c. 52r, Orosis c. 56r. Per alcuni autori infine esistono anche diverse abbreviazioni del nome; Sant’Agostino viene citato per esempio come: Augustinus,
Aug (anche con le prime due lettere in nesso), Ag, Agus.
Testi identificati grazie alla presenza del titolo dell’opera o in base al contenuto sono: commenti a brevi passi biblici tra cui quello al Vangelo di Luca (Lc 21,34
vedi Attendite c. 11r), all’Apocalisse di Giovanni (Ap 16,15 e 20,6 vedi Beatus c.
12v), al salmo 17(18) (Sal 17, 26-27 vedi Cum sancto c. 15v), quelli relativi ad alcuni
passi della Genesi (In principio c. 34r, relativo ai primi versetti e Cum venisse c. 16v,
relativo a Gn 3, 8-17), al libro di Osea (Os 13,14 vedi Ero mors tua c. 26r) ad un
passo dell’Epistola ai Galati dell’Apostolo Paolo (Gal 5,25-6,7 vedi Si spiritu vivimus
c. 71v) e a quella ai Romani con commento di Sant’Agostino (Rom 9,18.21 vedi Cui
vult c. 15v); si identificano inoltre alcune sentenze di Gregorio Magno (Sent GG c.
68v); di Sant’Agostino: il De civitate Dei (c. 33r, In libro vicesimo De civitate Dei),
il De anathemate in codice questionum libri numerorum Tituli XLI (c. 45v) e
Aug(ustinus) In libro re tractationum c. 70r; quest’ultima, costituita da pochi righi
a c. 70v, riporta un passo esposto all’interno del Liber Secundus delle Ritrattazioni,
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
nel capitolo XVI intitolato: De consensu evangelistarium. Altre citazioni riportano
i titoli dei capitoli di opere attualmente non identificate: De furti et adulterio c. 41v,
De superbia et umilitate c. 63v, Aug(ustinus) De diversitate m[...], Regu c. 26r. Alla
c. 74r sono presenti diverse probationes pennae, tra le quali rilevanti appaiono alcuni neumi sparsi e tre notazioni musicali neumatiche, una con testo relativo; un’altra
notazione neumatica si trova alla c. 71v (per l’analisi di tali notazioni rimandiamo al
capitolo ottavo).
Brevi note di mano recente, vergate a matita, si rilevano frequentemente in
quasi tutto il codice.
2. Analisi paleografica del manoscritto
La scrittura del Casin. 218 è una beneventana cassinese del X secolo; eccezionalmente nel manoscritto compaiono glosse vergate intorno all’XI secolo (cc. 25v e
26r); sono inoltre presenti mani gotiche alle cc. 50v e 51r. Le lettere in beneventana
sono state vergate con una penna a punta stretta e taglio leggermente obliquo a
sinistra che permette di realizzare un leggero contrasto ma non ancora quel tratteggio spezzato tipico della fase matura, cui si accompagna la caratteristica cordellatura;
il ductus si rivela posato per tutte le mani.
Gli inchiostri presenti nel codice variano di composizione e colore spaziando
dal marroncino chiaro al marrone scuro sino al nero corposo e uniforme (saranno
analizzati in dettaglio in correlazione ai vari copisti).
Le lettere risultano così tracciate:
la a è realizzata in forma di o e c accostate, in quattro tratti. Può anche presentarsi in due tratti, come due c continue: per questa forma aperta, tipica del primo
periodo (secc. VII-IX), si vedano gli esempi: Avitus: antiquus c. 11v, Augurium...
avium c. 11v, Bachar c. 12r, Bachanal c. 12r, Origo au c. 45v, Labefactare c. 37v,
Bargine c. 12r. Raro, ma non eccezionale, è l’uso di vergare la a onciale e, più frequentemente, il tipo maiuscolo con funzione distintiva: la parola connarratio, nella
glossa Quinque di c. 53v, presenta entrambe le forme. La a onciale viene usata nelle
abbreviazioni nel nome degli autori di cui si riportano citazioni (vedi Ag c. 22v e
Aug c. 43r): essa si presenta con l’occhiello più o meno schiacciato, (si vedano, ad
esempio, le glosse: Abingruentes: ab c. 1r, Abstrusa... abscondita c. 1v, Aniles c. 8r,
Catholicus c. 14r, Abrus c. 39r, Sedat... placat c. 57v) e il tratto discendente ondulato
(Drama... fabula c. 21r, Prestantior... altior c. 50r, oppure diritto (Hier... Ka__E c.
55v, Semicinctum... cincat c. 57v); se la lettera è preceduta da una r si lega ad essa
grazie al tratto finale discendente di questa consonante (Manes... pulcra c. 40r, Aerarium... erarium c. 5v), mentre se preceduta da t, il legamento avviene tra il tratto
orizzontale della t beneventana ed il tratto ondulato della a onciale (Et dixit... nec
prophetas c. 25v, Gnosius... iuxta c. 31v).
Rarissimo è l’uso della a minuscola con l’asta spezzata a 90°, come altrettanto rari sono i casi in cui il tratto discendente e curvilineo della a onciale si presenta
118
Tommaso Palermo
diritto e fortemente inclinato sul rigo di scrittura tanto da sfiorare quasi il parallelismo con esso, (Gnosius... fornicationis c. 31v). Inoltre molto raro è l’uso di accentare la lettera, per lo più nei vocaboli greci (Gymnáside seu gymnásile c. 32r).
La b si presenta vergata in due tratti: il primo costituisce l’asta ed il secondo
l’occhiello. Raramente si verifica un prolungamento dell’asta al di sotto dell’occhiello (Plebs c. 50r). Nell’uso maiuscolo la b si presenta sempre in tre tratti nella
forma capitale.
La lettera c è costituita da due tratti; è presente anche in forma spezzata,
realizzata come due c sovrapposte (Accessit, Accola, Accio, Accisis, Accito c. 3r, Adeas:
accedas c. 4r, Eccla...eccle c. 25v, Facdicas c. 29v, Achademici c. 73v, Abram... scilic&
c. 72r). La c spezzata viene utilizzata raramente per le abbreviazioni e mai per i
legamenti. Un caso unico di c spezzata altissima, di tipo cancelleresco, si presenta a
c. 57v nella parola placat della glossa Sedat. Secondo il Lowe la forma spezzata è
frequente specialmente in manoscritti più tardi e meno in quelli del X e XI secolo,
non esistono regole per il suo utilizzo ed è comune soprattutto ove ricorrano due c
consecutive.
La lettera d viene eseguita secondo due tipologie: quella minuscola ma con
pancia a sinistra; e con asta di varia lunghezza, (Componit: ordinat c. 17 v; Dardani:
Troiani c. 21r, dove è più alta della i intervocalica; Lecebra: seductio c. 38r); quella
onciale, (questo tipo diverrà praticamente l’unico nel periodo desideriano), con l’asta
si presenta di norma corta e inclinata a sinistra (Cubat...insidiatur c. 19r, Coniectura...
iudicium c. 18v), e solo di rado, lunga (Acolithi...effugandu2...mundu2 c. 73v). Come
per la c può qui verificarsi uno sporadico uso contemporaneo delle due forme
(Discernit: diiudicat c. 23v, Ramenta quodda2 c. 54r). Se la d si presenta tagliata, ad
esempio nell’abbreviazione di quod (qd), o di David (dd), allora è sempre minuscola (Hir...dd c. 26v, Incentor... qd c. 35v). Queste ultime due caratteristiche valgono
per tutte le mani. La d di tipo onciale è usata con evidente funzione distintiva (c. 10r
Isidorus), al pari della forma capitale (Isidorus c. 24r e Beda c. 54v); caso unico è una
particolare forma di d spezzata (Beda c. 25r).
La e è tracciata in tre tempi; rarissimo è il tipo onciale (E...e littera c. 28r),
anche con occhiello chiuso (Aerarium...equibus c. 5v). In un solo caso la e si presenta molto disarticolata nella forma (Procerus c. 52r).
La lettera f appare vergata in tre tempi: tratto verticale, tratto curvo in alto a
destra e piccolo tratto sottile orizzontale al centro. Compare anche la forma maiuscola.
La g è vergata in cinque tratti: due per l’occhiello, due inferiori che descrivono la curva verso sinistra ed il quinto per il legamento a destra. La g maiuscola è
identica al legamento ci con la i enclitica (Aug c. 45r).
Per la realizzazione della h sono necessari due tratti.
La i è vergata in un tratto o perfettamente verticale (Abusi c. 1r) o leggermente ondulato (Nimirum c. 42r), quasi preludio dei due tratti a losanga del periodo
maturo della scrittura beneventana.
Compare anche la i alta (Actualis...SubIecta c. 3v, Discernit: diIudicat c. 23v),
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
utilizzata in posizione intervocalica all’inizio di parola seguita da tratti brevi.
La l è realizzata come una i alta con base ricurva verso destra (Radiatus
Illuminatus c. 54r).
La m è composta da tre minuscoli tratti con leggero ispessimento alle estremità. Solo in rarissimi casi i tre tratti non si toccano superiormente (Exequie:
mortuorum c. 28v).
La n segue lo stesso tratteggio della m, ma prevede naturalmente due aste. La
o è costituita semplicemente da due tratti curvi.
La lettera p viene realizzata in due tratti: il primo è rappresentato dall’asta
verticale, che presenta all’estremità superiore un piccolo ispessimento, il secondo
dal tratto curvo che chiude l’occhiello. (Discer p sit c. 23v).
Non molto dissimile per tratteggio dalla p è la q, vergata però in tre tratti.
Esistono due forme di r: quella in due tratti, il primo dei quali verticale, il
secondo discendente verso destra, e quella utilizzata in fine di parola e non di rado
anche all’interno. In quest’ultimo caso si tratta della forma di origine minuscola
corsiva costituita da un tratto verticale seguito da uno ondulato terminante in un
leggero svolazzo verso l’alto; quest’ultimo si restringe di molto se la r è soprascritta
(Atomorum...inrumero c. 11r, Adamas c. 4r, bargine c. 12r). La glossa Adamas a c.
4r presenta i due tipi contigui.
La s viene vergata in due tratti: il primo è verticale ed il secondo è dato dalla
curva superiore tendente verso il basso. È interessante notare la s presente alla glossa
sorosius (c. 59v) nella parola filius, che mostra il tratto curvo a mo’ di voluta.
Lettera caratteristica della scrittura beneventana, la t differisce dalla a solo
per il tratto superiore destro che si allunga orizzontalmente. Raro è l’utilizzo della
forma maiuscola all’interno di parola (Semicinctum... cingaT c. 57v, Serpillum...
prohepTa c. 58r, Sopit...ArdebaT c. 60r).
La lettera u è costituita da due i accostate.
La lettera v è realizzata come la precedente.
La x viene vergata di solito in tre tratti: il primo è costituito da una linea
sinuosa discendente da sinistra verso destra, il secondo parte all’incirca dalla metà
superiore di questa ed è realizzato da sinistra verso destra; l’ultimo è tracciato in
basso, da destra verso sinistra (Subsidit: auxilia c. 60r, Pseudopropheta: mendax c.
52r, Strenuus: velox c. 57r, Axia c. 11v, Axioma c. 11v).
La lettera y, non molto frequente all’interno del glossario, è costituita da una
parte simile a una v e da un tratto verticale al di sotto della linea di scrittura (Abba
syre c. 1v, Adamas...yrcino c. 4v, Anubies deus egyptiorum c. 8v).
La lettera z, usata di rado, differisce nella forma per il primo e l’ultimo tratto
ora vergati orizzontalmente ora curvi verso l’esterno (Parma...amazonicum c. 47v,
Exordium c. 55v, Corbana: Gazofilacium c. 69v).
I copisti del manoscritto utilizzano i medesimi legamenti ma non sempre le
stesse abbreviazioni. Le legature adottate si dividono in obbligatorie (ei, fi, gi, li, ri,
ti sordo e ti spirantizzato), e facoltative (ci, et, ma, na, mi, ni, nt, or, rp, sp, st, sti, te,
tu, ur), assenti quelle per ae, ec, rit. La legatura ei si realizza tracciando, alla fine del
120
Tommaso Palermo
tratto orizzontale della e, un tratto discendente verso sinistra (Scriptura...eius c.
11v); il legamento fi è realizzato curvando verso l’interno la terminazione superiore
della f e facendo seguire, al di sotto di questa curva aperta, una curva similare (Specifica c. 58r).
Allo stesso modo la legatura gi è ottenuta vergando dal tratto superiore della
g un tratto discendente verso l’interno che costituisce la forma prolungata della i
(Suffragium c. 60v, Candus...regia c. 14r, Legitur c. 39v).
La legatura ti del suono sibilante si realizza a forma di beta rovesciato
(Sententia c. 57v).
Il legamento ri, invece, è dato da una r la cui parte marginale anziché volgere
all’insù, si piega in basso e discendendo sotto la linea forma un tratto sinuoso a mo’
di s capovolta (Agus...mereri c. 33v).
La e cedigliata è usata in funzione del dittongo ae ed è talvolta presente sotto
il tratto più basso (Celides c. 15v, Ne eligas...elemosyne c. 41v).
Il legamento ci viene realizzato facendo discendere dall’estremità del tratto
curvo inferiore, un tratto verticalizzato (Lecitus c. 38v, Acinus: hiacini c. 3r, Raphael:
medicina c. 54r).
Il legamento et, utilizzato per la congiunzione sia a fine parola ed evitato
invece nel corpo di parola, è costituito da una e il cui tratto centrale si inclina obliquamente verso la linea di base incrociandosi con il prolungamento verso l’alto del
tratto di base della lettera t (Delubra...et c. 22r, Insimulat...finget c. 36r).
I legamenti ma e na presentano la vocale aperta verticalizzata (Nabat... firmabat c. 41r, Sen...manducaverimus c. 41r, Prandeum... a romanis c. 48r,
Parsimonia...tenacitas c. 47v); i legamenti mi e ni sono realizzati tracciando, all’estremità inferiore dell’ultimo tratto della consonante, un piccolo tratto verticale per la
i (Semipes c. 57v, Dimidium...definitionem c. 24r). Rarissimo è il legamento pu
(Aevum...tempus c. 5r).
La legatura nt è presente unicamente a fine parola (Scolaces: dicunt c. 60r,
Audant c. 11v, Bispillus...portant c. 13r, Hier...deduxerant c. 34r).
I legamenti or, ur nascono dalla combinazione della vocale o con una r a
forma di uncino (Abba...genitor c. 1v, Prestantior...altior c. 50r, Gaza...vocantur c.
31v, Gazophilacium...servantur c. 31v).
La legatura rp viene realizzata tramite una r dal cui tratto superiore discende
una linea curva spezzata al centro, e terminante verso destra (Intercalare: interponete c. 36v); nel legamento sp invece, il tratto curvo della s si congiunge in basso
all’asta verticale della p (Crustula...conspersus c. 20v).
Nel legamento st la cui terminazione superiore curva della s prosegue verso il
basso formando l’asta della t, tagliata orizzontalmente dalla traversa (Natis...est 41r).
Le forme delle legature te e tu, che nascono come adattamenti della t corsiva,
si presentano sempre più raramente nel X secolo. Nella legatura te la curva superiore, o tratto a croce della t, forma la curva superiore della e (Esto...tempore c. 28r);
nel legamento tu, invece, la continuazione dell’occhiello superiore della t costituisce il primo tratto della u (Inclitum...ornatum c. 35r).
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
Il sistema abbreviativo contemplato dai copisti del ms. Casin. 218 comprende i seguenti diversi segni:
- Il punto e virgola posto a fine parola abbrevia il suffisso -us dopo b
(Suspicibus c. 60v), m (Expromimus c. 29r), n (Epicurei: genus c. 27v, Ulna...manus
c. 71r) o il gruppo ue dopo q (Undique c. 71v).
- Un segno simile a un numero 2 esponenziale indica (se posto accanto alle
vocali a, e , o, u) una m (Compulit c. 17v, Complectitur c. 17v, Conflictum c. 18r,
Excidium c. 28v, Urbanus...urbem c. 71v, Era...item c. 27r) o, vicino alla sola a una
n (Exanguis c. 28v); se posto sopra o unito al tratto orizzontale della t, abbrevia ur
(Non frustabitur...reprobabitur c. 42v, Hier...interpretantur c. 55v).
- Il semplice trattino che, vergato nell’interlinea al di sopra di una lettera, con
funzione generica può indicare una contrazione (per esempio: ee , Stultus...esse c.
61v, nr, Aug non enim...Deus noster c. 42v, omia , Panfagi sunt...omnia c. 48r, sps ,
Pneuma: spiritus c. 48v) o troncamento (ap, Aceron...apud c. 3r, au, Noctua...autem
c. 42v,). Un trattino che taglia l’asta superiore o inferiore di alcune lettere può indicare i compendi per qui (Secunda...tranquilla c. 57r, Succentor: qui c. 60v), quid
(Hier...quid c. 25v), per (Perculit c. 49r), bis, eccetera (Ecce...nobis c. 27r). Varie poi
sono le abbreviazioni rese con il taglio dell’asta della d: ad esempio per id est
(Deposcit: id est rogat c. 22r, Aug non descedant... id est c. 42v), dicitur (Essentia...
dicitur c. 27v), Deus (Helias: dominus deus c. 70r).
- Due simboli abbreviativi di origine insulare: quello per la forma verbale est,
(Parandrum: animal est c. 48r, Unguis...est c. 71v), e quello per indicare enim,
(Aug...enim c. 45r). Abbreviazioni rare sono: quella per e(ius), con taglio obliquo del tratto discendente della i in legamento (Excetra...eius c.29r); il compendio
di p(ro) con il prolungamento a sinistra del tratto discendente dall’occhiello:ooo
(Expromimus c. 29r), la caratteristica abbreviazione del suffisso verbale r(unt):
(Hier...oppresserunt c. 55v). Molto raro si rivela anche l’uso di letterine
soprascritte, non ancora frequente nel X secolo (Qui vero c. 53v, Qui habet...ergo c.
53v). Sono presenti molti Nomina Sacra (Ero mors...Xps c. 26r, Jhs c. 70v, Helias:
dominus Deus c. 70r); assenti invece le abbreviazioni tramite segno a forma di accenti e quella per il genitivo plurale -r(um) (formata dal tratto orizzontale della r a
uncino intersecata da una lineetta: ), caratteristiche non ancora adottate nel periodo di confezione del codice e ricorrenti soltanto in rari interventi di annotatori
successivi al lavoro dei copisti (Attendite...vero...m’ c. 11r, Examin’ti c. 28v). Di
particolare interesse infine è l’uso, adottato da pochi copisti, di abbreviare gruppi di
parole a sola iniziale preceduta e seguita da punto (Aug...i.x.i.d.n c. 62v, Aug...e.in.a.
c. 33r, Hier...e.m.e.s.s.n.i. c. 27r).
L’analisi paleografica si rivela articolata nella distinzione fra mani di copisti,
di correttori e di annotatori sporadici, operanti in epoche diverse, ma per quanto
concerne il testo del manoscritto appare evidente essenzialmente la presenza del
lavoro di un copista, che per convenzione sarà contraddistinto come copista “A”
(Tavola XI).
La mano “A” è quella che verga infatti la maggior parte del manoscritto, cioè
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Tommaso Palermo
la quasi totalità del primo glossario, Glossarium ab Abeston ad Zacharias (Inc.:
Abeston lapis arcadiae coloris ferrei dictus ab igne. - Expl.: roseum sanguinem passionis
praefigurantem.) e dell’ Interpretatio nominum Haebreorum di Eucherius (Inc.:
Adonai dominus in latino significat. - Expl.: Iosaphat domini iudicium. Ioram qui
excelsus.). Essa è attestata per tutti i primi cinque quaternioni, è sostituita nel VI
fascicolo, ricompare quindi nel VII e nel ternione (fascicolo VIII in origine). Non
ci è dato, purtroppo, sapere quale fosse l’estensione reale del lavoro della mano A,
considerando che il codice raccoglie frammenti di manoscritti.
Le caratteristiche che contraddistinguono questa mano sono: l’utilizzo di una
penna con taglio leggermente obliquo a sinistra, come rilevabile dal leggero contrasto dei tratti delle lettere; il ductus posato che conferisce verticalità ai tratti e un
buon parallelismo tra i righi di scrittura; un modulo molto piccolo di scrittura (il
più piccolo fra quelli presenti nel codice) e di grandezza costante; una scrittura
ordinata, dal disegno sicuro e composto; spazi ristretti tra le parole; aste molto
slanciate rispetto al corpo delle lettere (c. 6v Alluvione: inundatione); spazi bianchi
tra i gruppi alfabetici delle glosse, in base a una scelta finalizzata all’eventuale inserimento di successive glosse o citazioni.
L’inchiostro utilizzato dalla mano A è di colore marroncino che si va scurendo
lentamente verso l’interno del codice.
Analizziamo ora le lettere tipiche della mano A:
la a onciale è quasi inesistente (Aries...machinae c. 10r, Detestabilis...
execrandus c. 21v, Samum...aput, c. 56r, Thema...materia c. 66r), mentre più frequente è il tipo maiuscolo (Agustinus c. 9r), e rara la forma beneventana aperta.
La b mostra l’asta allungata ed in rarissimi casi assume forma maiuscola all’interno del testo ( c. 16 r Cyrogrillus...haBens).
La c è presente in maggior misura in forma corta, ma non di rado anche in
quella spezzata, nel caso di due c consecutive (Accio c. 3r).
La forma più diffusa di d è quella onciale; nella forma minuscola la lettera ha
invece l’asta molto alta sul rigo (Deposcit...id c. 22r).
La e può presentarsi anche rotondeggiante, di tipo onciale (εucherius c. 5r).
La lettera h presenta sempre l’asta molto alta (Abrogans c. 1v) e, quando è di
modulo ingrandito, presenta il medesimo disegno di quella minuscola (Eucher c.
28r).
La i corta è leggermente ispessita in alto ed in basso; risulta alta in posizione
iniziale seguita da lettera breve, ed intervocalica (Abimo c. 1v). In legatura enclitica,
la i si estende poco al di sotto del rigo di scrittura, talora curvandosi leggermente
verso sinistra (Affabilis c. 6r), ma a volte anche esageratamente (è il caso raro di
regalis alla glossa auleum di c. 11v).
La l, vergata in un unico e slanciato tratto presenta la base tondeggiante
(Absistit c. 1v).
La mano A inoltre usa vergare dopo la q, di solito, la vocale u in alto, a guisa
di esponente (Essenorum gens...nisiqem c. 28r, E...pro qestore c. 28r).
La lettera s viene tracciata a volte in forma maiuscola (Batillum...portandos
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
carbones c. 12r, Aemulus...invidus e Aemula...seu c. 5r, Allegoria...similitudo c. 7r).
Una delle caratteristiche più evidenti di questa mano consiste nell’uso di abbreviare solo raramente est, vergato anche con le lettere in legamento st (Fiat lux...est
c. 30v, Aethera...est c. 5v, Fornicatio...est c. 5r), con la e sormontata da un piccolo
tratto orizzontale; molto raramente la stessa forma verbale appare rappresentata
mediante il segno di origine insulare dato da un trattino e due punti (Primivirgius...est
c. 50v, Portentum...est c. 51v, Querquera est c. 53r). Sporadiche sono le abbreviazioni tramite letterina soprascritta (Qui vero c. 53v, Qui habet...ergo c. 53v). L’abbreviazione per il suffisso r(um) (Augustorum: sanctorum c. 6r, Aprasia...indorum
c. 9v, Arnon...eorum c. 10r) è resa talvolta con la u sormontata da un segno a forma
di piccolo 2 (Arbitrerium c. 10r).
Il suffisso -us viene spesso abbreviato tramite punto e virgola (culmis
gallionibus c. 19v ); nel caso del termine genus questo segno è però adoperato molto
di rado (Rastrum: genus c. 54 r, Retica: genus c. 54v, Sambucae: genus c. 56r). Raro
è l’uso di abbreviare t(er), con la t sormontata da un piccolo tratto orizzontale
(Interpres: coniector c. 36v, Intercapedo: interiectio c. 36v ove ricorrono la forma
sciolta e quella abbreviata); invece t(ur) (Ardescit c. 9v, Bacchanalia c. 12r) e t(us)
(Crenus c. 19v) non si presentano mai abbreviati. Non molto frequente è l’uso del
legamento -nt (Demones c. 22v, Audent: capiunt c. 11v, Catillare...arcuant c. 14r).
Rarissimo è l’uso fatto da questo copista di legare la n con la i seguente (Religio
vera: non nisi c. 54r); indecisioni caratterizzano inoltre la scelta di vergare il pronome huius, per esteso (Huius c. 34r), o in forma abbreviata con i alta tagliata da
piccolo tratto orizzontale (Humatus...huius c. 34r). Per l’abbreviazione di enim la
forma consueta prevede il compendio solo della m.
La mano principale del VI fascicolo è la mano B (Tavola XI): intervallata da
altri interventi tra le cc. 41r e 43r, prosegue il suo lavoro sino alla fine del quaternione
(c. 48 v). Utilizza una penna che determina un contrasto più netto tra i tratti delle
lettere rispetto alla mano A; adopera un tratteggio più fluente e rotondeggiante,
maggior spazio fra i termini ed utilizza un inchiostro marrone scuro.
Si evidenziano i primi sintomi di una prossima maturità grafica: basti vedere
le m e le n della glossa Nonne, a c. 42v, con i tratti simili a piccoli rombi sovrapposti
(ma la scrittura B è ancora lontana dal cordellato e dalla regolarità grafica propria
del periodo post-capuano).
Il modulo presenta leggere oscillazioni e si presenta come uno fra i più grandi tra quelli presenti nel codice. Fra le lettere tipiche della mano B sono la a, che
ricorre in entrambe le forme (beneventana ed onciale) in rari casi, nella forma onciale
(nell’ultima sillaba della parola, a fine rigo, seguita talvolta da t maiuscola,
Opulentia...abundanTia, c. 45v, Opima:...egregia c. 45v); molto rara è la forma aperta
(Parius c. 47r, Opima...ampia c. 45v). La a ingrandita ha forma onciale con occhiello schiacciato (Aug c. 45r).
La b, come a volte la d e la l, si presenta talvolta con asta leggermente clavata
(Nutatio: Ire c. 43r); la c compare indistintamente nelle due forme (Occulit c. 44r);
la d è usata maggiormente nella forma onciale (Nitor: splendor c. 42r) e raramente
124
Tommaso Palermo
ricorrono le due forme in una stessa parola (Obsolitus: sordidus c. 43v, Opulentia:
divitiarum abundantia c. 45v); la e quando è ingrandita ha forma minuscola (Hier
c. 45r); la r finale si presenta spesso con il tratto orizzontale terminante in un lungo
svolazzo verso l’alto (Parce: frugaliter tenaciter c. 47v; talvolta ciò avviene anche
per la r posta nel corpo di una parola, Nitelle...par vi c. 42r, Noctua...cor vus c. 42v);
la lettera t presenta a volte maiuscola all’interno di parola: è il caso di alcuni termini
posti a fine rigo (Nuncupat...volat c. 43r, Oblatrat...obstrepit c. 43v,
Obnuerat...obvolverat c. 43v, Parsimonia...tenacitas c. 47v). La forma verbale est,
presente anche in forma estesa (Obstetrix...est c43v, Ob est 44r), è compendiata
tramite il simbolo insulare (Sen...hoc est c. 41r, Aug c. 43r) e mai tramite una e
sormontata da un breve tratto orizzontale: e. La mano B utilizza il simbolo , di
origine insulare, per indicare enim (Aug...enim c. 45r).
La mano C (Tavola XII) verga il quaternione ottavo (all’interno del suo lavoro si rilevano piccoli interventi estranei realizzati in un secondo tempo); utilizza
una penna a punta stretta, dotata di una certa flessibilità che determina una certa
rotondità nel disegno e poco contrasto, ed usa un inchiostro marrone scuro. Verga
con generosa larghezza i termini, lasciando spazi fra le parole ma non fra le glosse.
Il suo lavoro si estende ad un gruppo di glosse, vergate non sempre in successione
alfabetica, comprese tra le cc 57r e 71v, tutte incipienti per s: ad esse fa seguito una
fitta gamma di citazioni fino a c. 63v, dove ha termine il lavoro di questo copista.
La sua lettera a si presenta anche in forma onciale, in posizione sillabica finale di una parola a fine rigo (Sopit...ardebat c. 60r); sono presenti le due forme di c
(Segmenta...εirculi c. 57r) e vengono utilizzate maggiormente d onciali (Secunda c.
57r); la h ingrandita presenta il disegno di quella minuscola (Hieron c. 63r) e la e
può presentarsi anche rotondeggiante (Hieron c. 63r). La r finale mostra il tratto
orizzontale curvo verso l’alto (Spirabile...spiratur c. 59v). Come abbreviazione per
est figura soprattutto il simbolo insulare (Solum: est c. 60r); è presente inoltre
l’abbreviazione per l’infinito esse:ee (Stacten...esse c. 61v). Il suffisso finale -us viene
abbreviato con una certa frequenza e tramite il segno ; .
La mano C talvolta abbrevia di alcuni termini a livello di sola iniziale
(Aug...i.x.i.d.n c. 62v, Aug...e.in.a. 33r, Hier...e.m.e.s.s.n.i. c. 27r) e appone un segno
simile a un piccolo 2 sopra il pronome della proposizione interrogativa (cc. 25v, 36r,
37r).
La parte finale del testo del fascicolo, contraddistinta dal titolo: De superbia
et umilitate (cc. 63v, 64r) sembrerebbe attribuibile ad un’altra mano: brusco e netto
si rivelano infatti il cambiamento del modulo, il disegno delle lettere e l’uso degli
spazi fra i termini. Ad un attento esame delle carte è emersa la presenza, nei primi
sette fascicoli, di interventi di una mano molto simile alla mano C, nello spazio fra
i gruppi alfabetici delle glosse vergate dalla mano A: si tratta di citazioni (Ero mors
c. 26r, Erugo c. 27v, Gr c. 37r), per la maggior parte di Sant’Agostino (cc. 15v, 33r,
33v, 36r, 37r, 41v, 42r, 42v, 43r) e San Gerolamo (cc. 25v, 26r, 27r, 31v, 34r, 41r, 42r,
55v), vergate con inchiostro marrone. Il raffronto ha messo in evidenza somiglianze nel modulo e nel disegno delle lettere (la r e la t ad esempio), nell’uso degli spazi,
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
oltre che una somiglianza fra i nomi degli autori posti a fianco delle citazioni.
Dopo il ternione, vergato dalla mano A, il binione, fascicolo finale del codice, rivela l’intervento di due mani diverse: mano D e mano E. La c. 71, vergata dalla
mano D (Tavola XII), cui segue sul verso un intervento successivo, contiene glosse
incipienti per u e v, ma non in perfetta successione alfabetica (Inc. acefalo: ...clamor
predicationum. - Expl.: Utrubique utraque parte). Le due colonne di scrittura, inoltre, non sono in perfetto parallelismo tra loro. La mano D utilizza un inchiostro
nero corposo e rende un leggero contrasto tramite una punta flessibile a sezione
non molto stretta con la quale verga una scrittura rotondeggiante dal disegno pesante. Le aste si presentano slanciate e clavate (Umentum: ultra c. 71r, Urbanus:nobilis
c. 71v). La caratteristica è la forma della d onciale con l’asta piegata; inoltre la a si
presenta in un solo caso di forma onciale (Unguis...ungula c. 71v) e la forma verbale
est viene abbreviata tramite il simbolo insulare (Unguis...est c. 71v).
La mano E (Tavola XIII), invece, verga l’inizio di un altro Glossarium ab
Abeston ad Zacharias (Inc.: Abeston lapis arcadiae coloris ferrei dictus ab igne. Expl.: Accusator dicitur quasi ad causator quia ad causam vocat eum quem appellat.)
di cui ci restano soltanto le prime due carte (72 e 73). L’inchiostro presenta una
pallida colorazione marroncina; la scrittura, di disegno sicuro e modulo costante, si
mostra ordinata ed in perfetto parallelismo; uno spazio è lasciato fra i gruppi alfabetici
Ab e Ac. La a onciale ricorre raramente (Abingruentes: ab c. 71v, Abdidit...abscondita
aut c. 72v); frequente invece è l’uso della c spezzata (Aprica c. 72r, Abactus c. 72r);
sono adottate le due forme di d (Absurdum c. 72v, Abdidit c. 72v); rara è infine la
forma estesa di est (Abominatus...est c. 72r, Abactor...est c. 72r) in confronto al simbolo insulare (Absintina...est c. 73r, Acuta...est c. 73v).
Un intervento interessante è quello della mano F (Tavola XIII), che ha operato integrazioni di glosse all’interno dei primi cinque fascicoli (cc. 6v, 7r, 8r, 9v, 10r,
10v, 11v, 12r, 13r, 13v, 14r, 15r, 15v, 16v, 17r, 18r, 19v, 20r, 22v, 23v, 24r, 26r, 26v, 27r,
27v, 29v, 30r, 30v, 32v, 34r, 34v, 36r, 36v, 38r, 39r, 39v, 40v), del sesto (cc. 41r, 41v,
42r), poi del settimo (cc 49 v, 51r, 53v) ed infine del quaternione VIII (c 57r).
La caratteristica più evidente di questa mano è data dal suo inserimento negli
spazi bianchi fra i gruppi alfabetici vergati dalla mano A talvolta creandone di nuovi (il gruppo alfabetico Aq a c. 9v, per esempio) o dopo gli interventi della mano C
nei primi sette fascicoli (cc. 10r, 11r, 15v, 17r, 27v, 41r); ove ciò non sia possibile si
inserisce nell’interlinea (Confrages: sunt c. 18v). Essa utilizza un inchiostro nero e
verga una scrittura tozza mostrando notevoli affinità grafiche con la mano D (nel
disegno delle lettere si confrontino, per esempio, la v di Vitricus a c. 8r con quelle di
c. 71v e la forma della d con asta perfettamente identica a quella della mano D o,
ancora, la forma della r con svolazzo a punta lunga); adopera inoltre le medesime
abbreviazioni. Questo copista utilizza il simbolo insulare (Alveus c. 7r) per abbreviare est e, molto raramente, la forma e (Epicidion 27v)
Altre mani presenti nel codice ricorrono con minore intensità e rappresentano interventi sporadici di annotatori successivi all’intervento delle mani principali
(Hie c. 9r, Isidorus c. 10r, GG...Idem c. 12v, Cum venisse c. 16v, Cum autem c. 17v,
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Tommaso Palermo
Poenitentia c. 52v), l’intervento a c. 11r (Attendite) rivela l’uso di letterine soprascritte
(Attendite...vero...vero) e l’accento sulla m per compendiare il suffisso mus. Si notino la mano beneventana matura presente alle cc. 25v e 26r e che verga le glosse
eiam con splendido effetto cordellato, quelle più vetuste e di disegno incerto di c.
52r (Procerus) e c. 71v (Si spiritu) ed infine le mani gotiche alle cc. 50v e 51r. Il
lavoro dei copisti rivela interventi di correzione ravvisabili di frequente nel manoscritto (Acathe c. 3r, A culmin e c. 3r), si segnala, inoltre, la presenza sporadica di una
R (abbreviazione di require)4 che funge da segno di richiamo soprattutto per passi
di incerta lettura o dubbia interpretazione (Cleanthas c. 20r, Equidem c. 27v, Ligustra
c. 38v), talvolta accompagnata dalla rispettiva correzione (Innocuus c. 35v). Rarissimo è l’uso di espungere le lettere tramite trattino (Euripus: piscina longna c. 26r).
Alcuni copisti (A, B, C), secondo l’uso proprio nel X secolo, usano apporre,
talvolta, due tipi di accenti: quello acuto, su monosillabi brevi o sulla terz’ultima
sillaba (Gymnáside c. 32r), e quello circonflesso, più raro, sui monosillabi lunghi
(In rê c. 10v, Abolitio: rês c. 1r) o sulla penultima sillaba purché lunga e seguita da
sillaba breve (Infîdus c. 35v, Instîgat c. 36r).
I termini ebraici che ricorrono nel manoscritto sono tutti vergati nei caratteri
dell’alfabeto latino (Inoth c. 28r, Aaron c. 69r), ciò vale anche per la maggior parte
dei termini greci (Argós c. 10r, Cinós c. 16r, Gelás c. 32r, Chronos c. 25v) e l’accento
acuto ne facilita la corretta pronuncia. Altri termini greci, invece, vengono vergati
in maniera più distintiva tramite caratteri greci e lettere beneventane ed onciali
(Talpas...ACφΤΛΑΚΑ c. 65v, Hie...PABdONANTIAN c. 52v, Erucam...KA2Πεc.
55v, Fatue...ΑΠΟΚΨΝε c. 70v).
I numeri cardinali sono vergati in cifre romane (Gomor...XV c. 32v,
Adolescentia...XV...XX c. 4v),5 il numero quattro viene realizzato tramite quattro i
consecutive e non tramite IV; inoltre la i finale discende al di sotto del rigo
(Era...DCCCCIIII c. 27r, Item...XLI c. 45v, IIII c. 32v segnatura posta al centro
del margine inferiore), secondo l’uso adottato dall’inizio del X secolo.6
3. Analisi sillabica e ortografica
I copisti del ms. Casin. 218 non utilizzano un sistema di regole ben preciso
per la divisione in sillabe, tuttavia si possono individuare alcuni accorgimenti piuttosto ricorrenti.
Nel caso di doppia consonante, per esempio, il copista divide la parola lasciando una consonante a fine rigo e riportando l’altra all’inizio del rigo seguente
4
Elias Avery LOWE, The Beneventan script, rist. anast., Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1980, pp 294295.
5
Ibid., p. 296.
6
Ibid., p. 296, nota 5.
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Il Ms. Casin. 218 dell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino. Studio codicologico, paleografico, testuale
(bel-lum c. 65v, Adam...im-maculatus c. 3v, Acolithi..ef-fugandum c. 2v); uguale
fenomeno si verifica per due vocali contigue (Abominatus...su-um c. 72r) o quando
all’interno di una parola sono presenti due consonanti diverse e contigue
(Adamas...in-decorus c. 4v, Acolithi...evan-gelio c. 73v, Sofista...sapien-tiae c. 60r).
L’analisi del manoscritto ha rilevato l’inserimento, nell’uso classico della trascrizione del testo, dei seguenti mutamenti fonetici tipici del periodo medievale:7
- Il mutamento, tuttavia rarissimo, del dittongo oe nel monottongo e (Ius
iurandum: fedus c. 34r, Prelium c. 50 r, glosse successivamente corrette con l’apposizione, sopra la e, di una o).
- L’uso della vocale o al posto della u (Humatus: sepoltus c. 34r) e quello,
raro, della u anziché della i (Clupeum c. 20v).
- L’eliminazione della lettera h (Sceda c. 57r, Acerontea c. 2v, Cartago c. 14r,
Cymera c. 16r), un suo inserimento arbitrario (Michahel c. 40v, Solitudo: heremus
c. 55v) o il suo rafforzamento tramite la lettera c (Nichil c. 63r).
- L’uso di mutare consonanti dentali (d, t), in fine di parola, da sonore a sorde
(aput anziché apud: Samum...aput c. 56r).
- L’uso della p invece della b (Scriba...puplicas c. 59r); della v anziché della b
(Diocesis: guvernatio c. 23v, Sequus...vocavulum c.58r); della b al posto della v
(Benustus c. 12r, Cadaber c. 14r, Essenorum...abdicaberunt c. 28r); della c anziché
della g (Lugubre c. 39 r, Antagonista c. 8v); della n invece della m (Conplectitur c.
17v, Collibuit:conplacuit c. 17r); della y anziché della i (Cristallum c. 20r) e della m
invece della n (Antistes: primceps c. 8r).
- Il raddoppiamento (Eximietas: subblimitas c. 29r) o lo scempiamento di
consonanti (Perduellio. Rebelator c. 49v).
4. Analisi della punteggiatura
La punteggiatura presente nel ms. Casin. 218 comprende essenzialmente tre
segni che Tommaso Capuano, vissuto nel XIII secolo, chiama: comma, colon e
periodos.8 Si tratta di segni tipici del periodo della scrittura beneventana sviluppata,
non corrispondenti al valore degli attuali segni di punteggiatura, che rappresentano
tre tipi di pause:
Il comma consiste in un punto sormontato da un trattino vergato obliquamente da sinistra verso destra: . e funge da subdistinctio, ossia da pausa sospensiva
posta fra le subordinate e le proposizioni principali di un testo oppure, nel caso dei
glossari, interposta fra il lemma e la sua spiegazione.
La cosiddetta distinctio media, rappresentata da un semplice punto detto colon,
costituisce una pausa breve atta a separare più elementi elencati nel testo, siano essi
7
8
Ibid., pp. 282-285.
Ibid., p. 228, nota 4.
128
Tommaso Palermo
cose o concetti. La posizione del colon non è sempre definita, collocandosi ora al
centro del rigo di scrittura (Opibus c. 45v), ora sulla linea di scrittura (Geniatus c.
32r). Nel Casin. 218 esso viene utilizzato, talvolta, anche come segno di distinctio
finalis in alternativa al periodos, il tipico simbolo per la pausa finale: quest’ultimo è
costituito da una virgola sormontata da due punti affiancati: .,. (Seminarium c. 57v).
Tali segni rimarranno in uso dalla fine del IX secolo sino alla fine del XIII; ad
essi va aggiunto il segno interrogativo, che nella fase capuana è a guisa di un piccolo
2, posto sopra il pronome della proposizione interrogativa (Hier...quid c. 25v,
Aug...quis c. 36r, Aug...quid c. 37r). Secondo il Lowe, il ms. Casin. 218 costituisce il
primo esempio datato in cui tale tipologia compare nell’uso più regolare.9
I copisti del ms. Casin. 218 mostrano di rispettare, non sempre costantemente, l’uso dei suddetti segni; se si rivela praticamente stabile l’uso del comma per la
subdistinctio, più incerta è invece la scelta optata per indicare la distinctio finalis che
presenta, infatti, ora il periodos (Natus c. 41r), ora il colon (Adsolitum, c. 4v), ora
nessun segno di pausa (Nuncupatio c. 43r).
9
Ibid., pp. 243-244.
129
130
Luigi Gatta
Mattinata e la guerra di Spagna
di Luigi Gatta
1. La guerra di Spagna (1936 – 1939)
Dopo la vittoria repubblicana alle municipali di Madrid nel 1931 il re Alfonso
XIII lasciò la Spagna che pertanto divenne una Repubblica. I contrasti sociali intanto si acuivano sempre più e la maggioranza repubblicana e anticlericale doveva
fronteggiare l’opposizione anarchico-sindacalista, ma soprattutto quella dei clerico
conservatori. Inoltre, nella regione basca e nella Catalogna agivano forti movimenti
autonomistici; anche in Spagna, poi, ben presto si organizzarono veri e propri partiti fascisti, come la Falange di José Primo de Rivera.
E siamo alle elezioni politiche del 1936 che videro la netta affermazione del
Fronte Popolare: socialisti, comunisti, borghesi democratici e sindacati. I primi provvedimenti del governo repubblicano furono decisamente anticlericali (scuole confessionali, beni ecclesiastici, ecc…) e d’altra parte la Chiesa spagnola, arroccata nei
suoi antichi privilegi, rimaneva del tutto insensibile alle istanze sociali dei ceti popolari, così come alle esigenze di rinnovamento civile e laicizzazione della società
spagnola. Eppure proprio la Chiesa era l’unica istituzione che avrebbe potuto evitare gli orrori della imminente guerra civile; ma sicuramente era priva, ad esempio,
di una pastorale del lavoro, non poteva capire, quindi, il profondo disagio dei lavoratori spagnoli, con tutte le tragiche conseguenze; intanto molti religiosi venivano
uccisi e chiese, conventi e canoniche assaltati dalle milizie repubblicane, e non solo!
Il 17 luglio 1936 dalle guarnigioni del Marocco iniziava la rivolta militare,
alla testa della quale ben presto si poneva il generale Francisco Franco Beamonte,
già noto per le feroci repressioni antioperaie nelle Asturie. Franco si riteneva difensore della fede e della religione, fu subito appoggiato, perciò, dalla maggioranza del
clero spagnolo e i cattolici diventeranno così la sua massa di manovra contro la
Repubblica e una sicura base sociale dei militari golpisti. In poco tempo l’insurrezione militare conquistò la Spagna occidentale, ma la regione basca e la rossa
Barcellona, capoluogo della Catalogna, opposero una strenua e valorosa resistenza.
Temendo una Spagna rossa alleata della Francia del Fronte Popolare, in aiuto
di Franco intervenne la Germania nazista e soprattutto l’Italia fascista con un forte
contingente militare, il C.T.V. (Corpo Truppe Volontarie), al comando del generale
Roatta: 72 mila unità tra esercito e milizia fascista, in contrasto col principio del
non intervento: era la prova generale del secondo conflitto mondiale. La Repubblica, invece, era appoggiata dalla opinione pubblica progressista del mondo, Francia
131
Mattinata e la guerra di Spagna
e Inghilterra, però, si guardavano bene dall’intervenire in aiuto del legittimo governo spagnolo. Generosamente, invece, accorsero in Spagna antifascisti da tutto il
mondo, 4000 dall’Italia, tra clandestini e fuoriusciti: andranno a costituire le “Brigate Internazionali” che dall’8 al 23 marzo 1937 a Guadalajara infliggeranno ai franchisti e soprattutto ai fascisti italiani una cocente sconfitta.
Con l’aiuto della Unione Sovietica alla Repubblica la situazione militare si
cristallizzò in una tremenda guerra civile: da entrambe le parti non si facevano prigionieri! Anche chi combatteva per la Spagna cattolica ignorava del tutto la pietà
cristiana! Il grande poeta Federico Garcia Lorca, una delle vittime più illustri di
Franco, solo colpevole di simpatie repubblicane, fu ucciso malgrado avesse trovato
rifugio in una casa di amici franchisti.
Nel 1939, grazie anche alle gravi divisioni interne alle forze repubblicane, tra
socialcomunisti e anarco-trotzkisti del POUM (Partito Operaio di Unità Marxista),
si arrivò addirittura allo scontro armato, Franco vinse e instaurò in Spagna un duro
regime clerico-fascista. Dal 1936 al 1947 e oltre, tra caduti in combattimento, da
entrambe le parti, e giustiziati dai tribunali franchisti o dalla milizia repubblicana,
la guerra civile spagnola significò 1.375.000 vittime! In gran parte sulla coscienza
del cattolicissimo Francisco Franco!
Purtroppo anche da Mattinata partirono legionari “volontari” per la Spagna.
In realtà erano dei lavoratori che si arruolarono volontari nella milizia unicamente
per una buona paga, e alleviare così i disagi di una cronica disoccupazione: £ 3000
al reclutamento e £ 40 la paga giornaliera. Forse anche alcuni dei nostri lavoratori
furono ingannati dal fascismo: infatti, invece che nell’A.O.I, nelle colonie italiane
cioè, per far fortuna, si trovarono “volontari” a combattere in Spagna una feroce
guerra civile, come i soldati della “Littorio”. Comunque, combatterono valorosamente, perché convinti dalla propaganda fascista di difendere la religione e la Chiesa cattolica, “contro i nemici di Dio, della Patria e della civiltà”; in realtà contro altri
lavoratori che difendevano le loro conquiste sociali e un governo legittimo.
Analizzando l’elenco dei nostri militari di leva e non fino al 1939 risulta che
almeno sei legionari di Mattinata partirono in tempi diversi per la Spagna. Il primo
a imbarcarsi, il 17 febbraio 1937 è stato Vincenzo Di Bari fu Bartolomeo e di Sacco
Filomena (1902 – 1973 ); fece parte della prima divisione camice nere “Dio lo vuole”, comando genio, prima compagnia radiotelegrafisti, agli ordini del generale Rossi.
Il Di Bari forse prese parte alla battaglia di Guadalajara che, come accennato, significò una grave e umiliante sconfitta per i fascisti italiani; infatti per la prima volta, e
con sorpresa, si trovarono a combattere contro altri italiani, antifascisti, però. Per la
verità le truppe di Mussolini dovettero combattere su un terreno sfavorevole,
infangato e con pessime condizioni atmosferiche, ma soprattutto isolate dai reparti
franchisti; così non pochi legionari disertarono o furono fatti prigionieri dagli
antifascisti e trattati, secondo precise direttive, con umanità e comprensione.
Di sicuro, invece, Vincenzo Di Bari prese parte alla battaglia del fiume Ebro,
da luglio a settembre 1937. Nella fase iniziale della battaglia i miliziani della Repubblica riuscirono a oltrepassare vittoriosi l’Ebro, ma poi, proprio con l’aiuto degli
132
Luigi Gatta
italiani, i franchisti conseguirono una decisiva vittoria che significherà l’inizio della
fine per la Repubblica spagnola. In queste vicende belliche, per il suo valore di
combattente, il Di Bari meritò due Croci di Guerra e la promozione a caposquadra
della compagnia; sarà congedato il 10 giugno 1939.
Il 10 ottobre 1937 si imbarcò per la Spagna anche Esposito Giambattista, di
Michele e Tomaiuolo Rosa, classe 1914, vivente; faceva parte del 1° Reggimento,
divisione “Littorio”. Un vero eroe durante l’offensiva franchista in Aragona nel
marzo del 1938 e più che meritata la sua Medaglia d’Argento al Valor Militare,
conferitagli da Franco con questa motivazione:
Vedetta avanzata di una importante posizione dopo aver dato l’allarme al profilarsi di un attacco nemico, da solo si avventava sulla pattuglia nemica più
avanzata catturando due prigionieri. Sopraggiunta la sua squadra combatté con
essa incitando alla lotta con la parola e con l’azione.
Visti due compagni feriti cadere nelle mani di un nucleo nemico, non esitava
ad attaccarlo a colpi di bombe a mano, riuscendo nel generoso intento di porre
in salvo i compagni. (Km. 8 strada di Torrevelilla).1
Congedato il 14 giugno 1939, con l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno
1940, venne richiamato alle armi e assegnato al 10° reggimento “La combattente”
operante a Rodi Egeo. Dopo l’8 settembre 1943, fatto prigioniero dei tedeschi fu
condotto prima ad Atene e poi in un campo di concentramento in Polonia. Non volle
aderire alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) di Mussolini e perciò fu trasferito in un
campo di concentramento in Germania, dove i soldati italiani non collaborazionisti
erano trattati molto duramente. Venne liberato il 1945 all’arrivo dei Russi, coi quali
poi ha collaborato per circa un anno. Nel febbraio 1946 Esposito Giambattista tornò
finalmente in Italia e all’arrivo a Mattinata non fu quasi riconosciuto dai suoi cari.
Ancora nel 1938 soldati di Mattinata furono imbarcati per la Spagna: il 26
gennaio Minuti Antonio di Giuseppe e Armiento Maria, nato il 13 aprile 1915; il 5
aprile 1938, poi, si imbarcò Guerra Michele, di Michele Matteo e Di Mauro Maria,
nato il 18 gennaio 1916. Non sappiamo se anch’essi presero parte alla battaglia
dell’Ebro, certamente parteciparono all’ultima offensiva franchista in Catalogna,
che il 26 gennaio 1939 si concluse con l’occupazione di Barcellona, ultima vera
roccaforte della Repubblica.
Gli ultimi due soldati di Mattinata ad essere inviati nel fuoco della guerra
civile spagnola furono Di Bari Giuseppe, fu Pietro e di Clemente Francesca, nato
l’8 febbraio 1903, imbarcato il 24 gennaio 1938, che prese parte al momento finale
della battaglia dell’Ebro, e alla successiva offensiva contro la Catalogna, meritando
due Croci di Guerra; Armiento Giambattista, di Michele e Quitadamo Maria Lucia, nato l’8 febbraio 1915, che, imbarcato il 22 luglio 1938, partecipò all’ultima batta-
1
ISTITUTO DEL NASTRO AZZURRO, Albo d’oro. Decorati al valor militare della Capitanata, Foggia, Provincia
di Foggia, 1990, p. 76.
133
Mattinata e la guerra di Spagna
glia per occupare Madrid, il 28 marzo 1939. Con la fine della guerra civile, il 1° aprile,
il Di Bari sarà congedato il 14 giugno e Armiento Giambattista già il 20 maggio 1939.
I nostri soldati certamente in Spagna hanno combattuto per una causa sbagliata, come quella franchista, ma si batterono valorosamente e con onore, come i
loro padri durante la Grande Guerra; almeno per questo devono essere ricordati
dalle future generazioni. Ma non tutte le camice nere in Spagna hanno lasciato un
buon ricordo. Nelle Baleari, ad esempio, la feroce repressione contro i repubblicani
ad opera degli squadroni della morte, agli ordini del fascista Arconvaldo Bonaccorsi,
mise in crisi le stesse coscienze cattoliche che appoggiavano Franco.
E significativa, poi, la vibrata protesta del rettore dell’Università di Salamanca,
lo scrittore basco filonazionalista Miguel De Unamuno, contro i fascisti e gli slogan
del generale franchista, invalido di guerra, Millon Astray: “Viva la morte e Abbasso
l’intelligenza”:
Voi vincerete perché avete la forza bruta, ma non convincerete. A voi manca
ragione e diritto nella lotta.
2. Michele Rignanese (1897 – 1937)
Nacque a Monte Sant’Angelo, da Matteo e Maria Michela Piemontese, il 19
dicembre 1897. Secondo la descrizione del foglio matricolare aveva gli occhi castani,
capelli lisci, il naso greco e il mento regolare; scrivano era la professione annotata,
che poi cambierà negli anni.
Chiamato alle armi con la classe del 1897, nel settembre 1916 è assegnato al
deposito del 1° Reggimento bersaglieri. Col grado di caporale del 4° battaglione
bersaglieri nel 1917 partecipa a diversi fatti d’arme e il 30 novembre rimane gravemente ferito alla fronte. Malgrado ciò il 6 agosto 1918, come si legge sempre nel suo
foglio matricolare, “è deferito al Tribunale Militare di Roma per insubordinazione
verso gli ufficiali” e in seguito sarà condannato a un anno e un mese di reclusione
militare. Logicamente per questa condanna al momento del congedo definitivo, il
17 maggio 1920, non avrà la “dichiarazione di buona condotta”.
La burocrazia ed essenziale letteratura militare del foglio matricolare non
spiega i motivi reali di un così severo provvedimento, né conosciamo le giustificazioni del Rignanese, quindi non possiamo esprimere un giudizio in merito. È opportuno ricordare, però, che una certa storiografia sul primo conflitto mondiale ha
accertato non pochi casi di eccessiva severità (cfr. Emilio Lussu, Un anno sull’altopiano, Torino, Einaudi, 1997) e autentiche ingiustizie degli ufficiali italiani verso i
soldati semplici, specialmente in occasione di rovesci militari, imputabili spesso
solo alla imprudenza delle nostre più alte gerarchie militari.
Sicuramente il Rignanese si ribellò a un ordine che riteneva ingiusto, a un
comando che poteva inutilmente mettere in pericolo la sua vita e quella dei commilitoni. Ma può anche darsi che il nostro bersagliere, come tanti altri fanti, proprio al
134
Luigi Gatta
fronte abbia abbracciato gli ideali del socialismo e manifestato in più occasioni le
sue idee, magari anche con considerazioni critiche sulla tremenda realtà della guerra.
Comunque, una volta tornato a Mattinata continuerà certamente a professarsi socialista, anche in pieno regime fascista. Nei primi anni ’20 fu uno dei responsabili della Lega Miglioramenti e poi della cooperativa “Laboremus”, che si aggiudicò alcuni lotti della costruenda strada statale Mattinata-Vieste.
Una volta emigrato clandestinamente in Francia, rivelò anche delle interessanti
capacità tecniche e doti inventive. Infatti, alla Direzione della Proprietà Industriale
del Ministero del Commercio e Industria di Parigi, in data 26 agosto 1936, risulta
depositato il brevetto di una invenzione a nome di Alessandro Azzaroni, questi poi
in una dichiarazione del 15 settembre successivo, attribuisce la vera paternità del brevetto al nostro concittadino Michele Rignanese. Dalla Francia, però, non dette più
notizie di sé, neanche ai familiari, che già dal settembre 1937 lo consideravano
introvabile, e le stesse autorità italiane ne persero in seguito, e per anni, le tracce.
Molte congetture si fecero così a Mattinata sulla sua fine, anche se qualcuno
giurò di averlo visto in Africa. Ma il 1938 arrivò a Mattinata, forse proprio dalla
Francia, una lettera anonima che chiariva “come aveva raggiunto il suo ideale trovando la morte sul fronte di Spagna, anche se amava tanto la sua famiglia”. E naturalmente i familiari, la moglie Ida e le figlie Jole, Annita ed Elena, non vollero mai
credere alla sua morte, anzi per decenni attesero un suo messaggio, anche se invano:
per loro sembrava proprio sparito nel nulla!
Come vedremo in seguito, dopo 40 anni di inutile e rassegnata attesa il nipote
Matteo Rignanese volle iniziare una sua ricerca dello zio scomparso, verificando
per prima cosa la sua eventuale morte come combattente antifranchista in Spagna.
Militante comunista, Matteo Rignanese pensò bene di interessare il suo partito, il
PCI, per avere notizie certe dello zio scomparso. Scrisse all’on. Pajetta e dopo pochi mesi finalmente la verità su Michele Rignanese, antifascista e tra i primi socialisti a Mattinata: effettivamente era caduto in combattimento in Spagna, in difesa
della civiltà contro la barbarie nazifascista.
3. Michele Rignanese: “Morire per la libertà del mondo”
Non abbiamo elementi per poter parlare di una presenza socialista a Mattinata
anche nei primi anni della dittatura fascista. Certamente, però, il segretario della cooperativa “Laboremus”, Michele Rignanese, era un socialista e considerato ‘sovversivo’ dalle autorità fasciste, anche se in realtà non esplicò alcuna attività di propaganda
in Mattinata, paragonabile, per esempio, a quella della cellula comunista.
Non è escluso, però, che facesse dell’antifascismo attivo quando si recava a
Roma dai parenti della moglie Ida Morghen. Infatti, nel settembre 1929 venne arrestato proprio in Roma e senz’altro per motivi politici; giunto il 1° ottobre in traduzione dalla capitale come ‘sovversivo’, dalla Regia Questura di Foggia fu poi conse135
Mattinata e la guerra di Spagna
gnato al comando della Compagnia dei RR.CC. affinché “con l’ordinaria corrispondenza dell’Arma” fosse fatto proseguire per Mattinata e “consegnato a quel
Delegato Podestarile”.2
Il Questore di Foggia, Caruso, dispose altresì che il Rignanese, proprio perché “diffidato dalla Questura di Roma, ai sensi dell’articolo 158 della Legge di P.S.”
(in caso di espatrio clandestino), fosse rigorosamente vigilato, per non perdere le
tracce, e segnalato immediatamente nella eventualità che si allontanasse dalla sua
residenza. Il Delegato del tempo Michele Giordani (che in realtà era l’amanuense
della Delegazione ed evidentemente sostituiva il Delegato Giovanni Malagoli nelle
funzioni) dové assicurare una particolare vigilanza sull’antifascista Rignanese, che
certamente fino a quando non emigrò in Francia nel 1936, forse in forma clandestina, non gli procurò alcuna noia.
Intanto in Spagna, come già detto, da qualche anno infuriava la guerra civile
tra repubblicani e franchisti. Dopo aver soggiornato per alcuni mesi tra Parigi e
Versailles, agli inizi del 1937 il socialista Michele Rignanese, originario della borgata Mattinata, accorre in Spagna, come tanti altri volontari, per combattere contro
Franco e il fascismo italiano.
È uno dei tanti garibaldini che formano la compagnia italiana del Battaglione
“Dimitrov” (XV Brigata Internazionale). Appena giunto in Spagna, evidentemente
dopo qualche settimana di addestramento, forse ad Albacete, lui già esperto di armi
in quanto reduce del 1° conflitto mondiale, col suo battaglione prende parte alla
battaglia di Morata De Tujunia, per respingere l’offensiva franchista tesa a isolare
Madrid. Oltre la metà furono le perdite del “Dimitrov”, tra dispersi, feriti e morti,
nell’elenco dei caduti sul fronte dello Jerama figura anche il nostro concittadino
Michele Rignanese (Rignanesi, senz’altro per un errore di trascrizione), deceduto il
12 febbraio 1937, e le cui spoglie riposano ancora nel cimitero spagnolo di Morata.3
La resistenza e il valore soprattutto delle Brigate Internazionali fecero fallire
l’offensiva nemica: franchisti e fascisti saranno poi ancora sconfitti, come già detto,
nel marzo del 1937 a Guadalajara. Il comunista Luigi Longo, ispettore generale
delle formazioni internazionali, esaltò commosso l’eroico comportamento della
compagnia italiana del Battaglione “Dimitrov”, della XV Brigata Internazionale,
“per il grave tributo di sangue dato per difendere la terra di Spagna”.4
Certamente non sfugge il significato della morte di Michele Rignanese nell’inferno della guerra civile spagnola. Eppure il suo sacrificio è rimasto ignorato a
2
ARCHIVIO COMUNALE MATTINATA, b. cat. XV, P.S., 1929.
Il suo nominativo è riportato in GIACOMO CALANDRONE, La Spagna brucia, Roma, Ed. Riuniti, 1974, pp.
88-90-93.
4
Ibid., p. 93. La prima Brigata Internazionale ad essere formata è stata l’XI, comandata da E. Lister (un ex
cavapietre), con 3 battaglioni, uno dei quali in ricordo de La Comune di Parigi. La seconda formazione internazionale, la XII Brigata Internazionale, al comando del Generale ungherese Lukas, comprendeva 3 battaglioni,
uno dei quali era il “Garibaldi” (di Italiani); la XII Brigata ha partecipato alla battaglia di Madrid e Guadalajara.
La XV Brigata Internazionale comprendeva anche il battaglione “Lincoln” (volontari Americani, tra i quali E.
Hemingway). Non più di 40 mila erano complessivamente i volontari internazionali in Spagna.
3
136
Luigi Gatta
Mattinata per decenni. Pensando alla sua gloriosa fine ci viene in mente il motto dei
volontari polacchi in Spagna: “Per la vostra e la nostra libertà”.
Il fascio di combattimento di Mattinata il 19 marzo 1939 fece celebrare una
messa in suffragio di tutti i valorosi caduti italiani nell’A.O.I. e in Spagna.5 Senz’altro
i nostri fascisti quel giorno non potevano mai immaginare che l’unico caduto di
Mattinata in terra di Spagna fosse proprio il sorvegliato speciale, da mesi irreperibile, Michele Rignanese.
Dobbiamo considerare, inoltre, che solo il tempo ha evitato nella già cruenta
guerra civile spagnola anche l’eventualità di uno scontro fratricida tra Mattinatesi:
il Rignanese, infatti, era già caduto in combattimento quando partirono per la Spagna i nostri soldati e camice nere, che, come abbiamo visto, presero anch’essi parte
ai fatti d’arme della grande “battaglia dei 3 fiumi” (lo Jerama, il Manzanarre e il
Tajunia) per isolare e occupare poi Madrid.
Queste le cifre dell’intervento italiano in Spagna: 100 mila uomini, 1930 cannoni, 113 automotrici, 7688 automezzi e 763 aerei; risultato: 6 mila caduti.
4. Matteo Rignanese: alla ricerca dello zio antifranchista
Riteniamo interessante riportare lo scambio di corrispondenza che ha permesso a Matteo Rignanese di sapere, finalmente dopo tanti anni, la verità sulla scomparsa dello zio Michele Rignanese.
-IAl Compagno
Giancarlo Pajetta
CAMERA DEI DEPUTATI
Roma
Caro compagno,
mi scusi se sto a darti un po’ di noia.
Sono un compagno comunista, segretario di sezione e Consigliere comunale
del Comune di Mattinata (Foggia-Gargano).
Sempre nell’ambito del possibile, vorrei attingere eventuale notizia riguardante un mio zio (fratello di mio padre) tale Rignanese Michele, fu Matteo e fu
Piemontese Maria Michela, nato a Monte Sant’Angelo (Fg) il 19-12-1897 e residente a Mattinata (Fg), che in occasione della Guerra di Spagna nel 1936 abbandonan5
La Voce del Pastore, «Bollettino Parrocchiale di Mattinata», aprile 1939.
137
Mattinata e la guerra di Spagna
do tutto riparò in Francia e precisamente a Versailles e poi in terra di Spagna a
combattere il fascismo. Il 1938 arrivava a Mattinata forse dalla Francia una lettera
anonima, “come aveva raggiunto il suo ideale trovando la morte sul fronte di Spagna, anche se amava tanto la sua famiglia”.
Noi famigliari quella lettera anonima non l’abbiamo mai creduta con la speranza che un giorno fosse ritornato ma invano!
Ora sono trascorsi quasi quarant’anni e non facendo più ritorno mio zio è
stato necessario rivolgermi al nostro Partito con la speranza di ottenere qualche
eventuale informazione necessaria.
Penso che il Partito avrà una specie di brogliaccio e compagni che lo possono (bensì che sono passati tanti anni) ricordare? Ad esempio il compagno Vidali,
Longo, Terracini.
[…]
Mi voglio augurare tutto bene e ringrazio immensamente inviando i più fraterni saluti. Prego farmi sapere sempre nell’ambito del possibile.
Compagno
Matteo Rignanese
Mattinata, 18 gennaio 1974
-IIPARTITO COMUNISTA ITALIANO
DIREZIONE
Roma, lì 28 marzo 1974
Via delle Botteghe oscure
Prot. N. 833/ra
Compagno Matteo Rignanese
Via Amicarelli 65
MATTINATA (Foggia)
Caro compagno,
Ecco le notizie che tanto desideravi. Ti allego la lettera che è stata inviata al
compagno Pajetta dal compagno Vanelli. Puoi metterti direttamente in contatto
con lui per avere gli oggetti appartenuti a tuo zio.
Scusami se rispondo io, ma in questi giorni, come puoi immaginare, il com138
Luigi Gatta
pagno Pajetta è molto impegnato ed ho pensato che questa notizia era bene comunicartela subito, tanto più che la lettera da Bologna è arrivata a Roma con molto
ritardo. Queste poste proprio non funzionano!
Cordiali saluti e auguri di buon lavoro.
p. la segreteria di
Giancarlo Pajetta
Anna Rasetti.
- III FRATELLANZA EX GARIBALDINI DI SPAGNA
Comitato Promotore
… Espana e Italia
… di Prot.
… Caduto RIGNANESE Michele
Bologna 24 febbraio 1974
Via Rizzoli, 9 (40125)
Al Compagno
Giancarlo Pajetta
Direzione del P.C.I.
ROMA
Caro compagno,
le notizie che ti trasmetto in merito al Comp. Combattente in oggetto sono
brevi in quanto le ricerche effettuate tra i combattenti viventi non hanno dato il
risultato che noi speravamo, in quanto il suo nome non è stato citato da nessuno e
penso che la ragione di ciò sia dovuta al fatto della sua breve permanenza a Parigi ed
anche che tutti i combattenti che hanno fatto parte alla Compagnia Italiana del
Battaglione Dimitrov (XV Brigata Internazionale) sono giunti in Spagna nel gennaio 1937 e che nel loro primo incontro con il nemico – che era in piena offensiva –
avvenuto il 12 febbraio 1937 a Morata de Tajunia, oltre la metà furono le perdite in
morti e feriti, e nell’elenco dei caduti figura anche il comp. RIGNANESE Michele.
Le notizie della sua morte sono state pubblicate su libri e su riviste sociali:
Garibaldini in Spagna di Estella (Teresa Noce), sul libro Quaderni Italiani volume
3° pubblicato a New York nel 1943, sul libro La Spagna brucia di G. Calandrone e
contengono solo il nominativo, data e luogo di morte.
Qui in deposito, tra gli oggetti appartenenti ai caduti, abbiamo il portafoglio
139
Mattinata e la guerra di Spagna
con alcune lettere – che il Rignanese non poté leggere – alcuni documenti e fotografie che potremmo, se richieste, trasmetterle a qualche famigliare. Questo è tutto.
Saluti fraterni
In allegato ti invio Copia della Patente
di Guida del Rignanese
il Segretario
Lorenzo Vanelli
- IV ASSOCIAZIONE ITALIANA COMBATTENTI VOLONTARI
ANTIFASCISTI DI SPAGNA
COMITATO REGIONALE EMILIA ROMAGNA
PRESIDENZA D’ONORE
I Caduti nella Guerra di Spagna
E nella Lotta per la Libertà
Bologna, lì 18 aprile 1974
Via Rizzoli, 9
Giaele ANGELONI
Enrica BATTISTELLI
Arrigo BOLDRINI
Piero CALEFFI
Luigi LONGO
Emilio LUSSU
Pietro NENNI
Ferruccio PARRI
Sandro PERTINI
Giovanni PESCE
Mario RICCI
Umberto TERRACINI
Al comp. Matteo Rignanese
Via Amicarelli, 65
71030 MATTINATA
Caro compagno,
esaudendo il tuo desiderio, espresso nella tua del 15 aprile 1974, ti spedisco,
in pacchetto raccomandato, i documenti relativi al tuo zio, Compagno Michele,
dispiacendomi di non poterti rilasciare notizie più ampie di quelle già rilasciate
nella mia precedente.
Per quanto riguarda i libri che desidereresti avere solo uno di essi potresti
venirne in possesso, ed è il più importante: si tratta del libro Garibaldini in Spagna
140
Luigi Gatta
di Teresa Noce (Estella), contenente articoli e corrispondenze dal fronte sia di combattenti e di comandanti che potrai trovare presso l’Editore Feltrinelli il quale ne ha
fatto una ristampa in questi ultimi anni.
Abbiti i miei sinceri auguri
Lorenzo Vanelli
-VIl 31 ottobre 1983, l’allora Sindaco di Mattinata Insegnante Giuseppe Argentieri prese una lodevole iniziativa. Conoscere con esattezza il luogo della sepoltura
in Spagna del combattente repubblicano Michele Rignanese, ed eventualmente ottenere il ritorno della salma a Mattinata.
Scrisse perciò prima all’Ambasciata spagnola in Roma e poi al Consolato
italiano di Madrid; la risposta non tardò: il nostro antifascista Rignanese era sepolto
in una fossa comune a Morata de Tujunia, impossibile, quindi, il rimpatrio dei poveri resti.
141
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Antonella Iacobbe
Dalla poetica della “terra” alla traduzione:
Umberto Fraccacreta e Marthe Yvonne Lenoir
di Antonella Iacobbe
Nella poliedrica attività intellettuale ed impegno di studio di Umberto
Fraccacreta, credo che un rilievo particolare debba essere dato alla sua qualità di
traduttore. Non si può affermare che il Fraccacreta abbia una posizione fra i poeti
italiani, nonostante le sue numerose opere; egli è una di quelle figure cosiddette
minori di letterati e scrittori dei quali per offesa del tempo, incuria o esclusione dal
canone, si è quasi perduta la memoria. Con la sua morte vi è stata una svalutazione
della sua produzione letteraria, pur se egli seppe essere un poeta aperto alle lezioni
della letteratura europea, farle proprie ed esprimerle in modo autentico e sincero.
Umberto Fraccacreta, poeta di San Severo, uomo colto ed intellettuale del
primo ‘900, è ristretto nella formula “Poeta del Tavoliere” poiché espressione della
letteratura georgica della Capitanata.
Ebbe una vita semplice e poco movimentata, uomo introverso, riflessivo, riuscì
a cogliere e ad esprimere le sofferenze e i dolori legati ai lavori dei campi.
La sua fanciullezza fu segnata da una forte malinconia determinata dalla severità con cui fu educato. Ben presto si rivelò in lui un forte interesse per gli studi
umanistici; riprese contro la volontà del padre gli studi letterari, mostrando una
particolare ammirazione per le letterature straniere tanto da seguire corsi di inglese
e tedesco a Roma e per perfezionarsi si recò nel 1922 all’estero.
Il suo interesse per la letteratura straniera si evidenzia già nell’esaminare la
sua raccolta libraria privata, ove si possono trovare libri come Discorso del Metodo,
Meditazioni filosofiche di René Descartes, Preziose ridicole e Il Tartufo di Molière,
La tragica storia del Dottor Fausto di Marlowe, Don Chisciotte di Miguel de
Cervantes, ma Umberto Fraccacreta predilesse autori di fine ottocento, inizi novecento come: Edouard de Goncourt, Guy de Maupassant, Charles Baudelaire,
Mallarmé, Dickens, Kipling.
Di modeste abitudini, tipiche di un paese meridionale, si sentiva fortemente
legato alla sua terra, la Puglia, il cui paesaggio imperverserà nel suo poetare.
Verso il 1917 incominciò a far leggere qualche sua poesia ai suoi maestri, nei
quali non trovò nessun incoraggiamento, solo da Benedetto Croce, nel 1919, ricevette degli elogi per quelle poesie, trovandole “molto pregevoli per semplicità e
garbo, come ormai fatte rarissime!”.
Per dieci anni rimase in silenzio, ma sotto invito di Ezio Levi riprese il suo
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Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
scrivere e fece del suo poetare il canto della sua terra, ed ecco che troviamo poesie
pregne di riconoscenza verso il contadino, verso il suo lavoro, e verso la prime
forma nutrizionale per l’uomo: Il Pane.
Negli anni in cui il Fraccacreta incominciò a scrivere (1928-1929) in Italia
imperversava una forte letteratura provinciale, basti pensare ad autori come Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Enrico Pea, Ettore Allodoli abili nel saper rappresentare il paesaggio e la gente della propria terra.
Per il nostro autore la sua terra non è momento di contemplazione o occasione di rimembranze ma diviene il vero fulcro, il vero soggetto del suo poetare.
La campagna ha enormemente influenzato gli autori di tutti i tempi, basti
ricordare Virgilio, Pascoli, Carducci da cui il nostro autore fu enormemente influenzato, o autori che furono voce della loro regione facendola diventare voce
universale come Giovanni Verga, Grazia Deledda, Sebastiano Satta.
Le opere del Fraccacreta, inoltre, si collocano nel periodo fascista pur non
presentando alcun elemento di propaganda, solo la prima guerra mondiale lascerà
dei segni all’interno di esse. In tale periodo imperversava il futurismo, la cui poetica
andava contro il sentimentalismo, gli scrittori si abbandonarono all’analogia presentando un interesse verso la velocità, la rapidità di comunicazione che impone
certamente un abbandono della sintassi. Ecco il motivo per il quale le poesie del
nostro autore non piacquero in quel periodo ai suoi maestri. Egli non seguirà le
tendenze del momento, ma conserverà una eleganza ed una forbitezza stilistica tipiche dello scrivere classico. In lui vi è romanticismo, classicismo, realismo ed elementi della poesia crepuscolare, del loro gusto per i toni e gli oggetti dimessi e
minori. Il crepuscolarismo presentava il desiderio di un ritorno alle più intatte sorgenti di vita naturale, una stanchezza dell’esistenza faticosamente impegnata nelle
lotte del presente.
Il Fraccacreta sentiva dentro di sé l’angoscia di vivere, il passare del tempo, il
senso di solitudine, l’incapacità ad adeguarsi alla vita circostante, temi che caratterizzano fortemente il romanticismo e che hanno portato molti critici ad avvicinare
il Fraccacreta al Leopardi.
I temi delle sue opere, e romantici e crepuscolari, sono improntati da un fervente realismo che va a caratterizzare la descrizione della vita campestre e ciò fece sì
che il Fraccacreta fosse ingiustamente accusato da alcuni critici di “immobilismo
sociale”; ingiustamente poiché il nostro autore non si interessa esclusivamente della
sua terra, ma nella sua produzione letteraria troviamo dei poemi che ci presentano
un nuovo volto del poeta, il suo grande interesse per l’amore.
Pur se appartenente ad una famiglia aristocratica, seppe avvicinarsi alla sua
gente con profonda sensibilità, ed esprimere le loro sofferenze, la loro miseria, il
loro dolore.
Anche se non seppe levarsi alle altezze espressive e sentimentali di poeti a noi
noti, il suo poetare ebbe notevole importanza come scoperta di un mondo rurale
tipico nei suoi costumi e nella sua mentalità, come valorizzazione delle tradizioni
locali nel momento in cui si tendeva a creare un costume di vita unitario che fatal144
Antonella Iacobbe
mente si sarebbe sovrapposto alle caratteristiche regionali soffocando gli aspetti
genuini e spontanei di forme sociali che avevano radici secolari nella vita autonoma
delle nostre regioni.
Tutta la sua opera ha un solo protagonista: il Tavoliere, col suo popolo e
soprattutto il suo paesaggio. Egli ci descrive una società di miseria contadina, che
non gli apparteneva, facente parte di una famiglia aristocratica allora importanti,
ma proprio ciò gli permise di avere acuto e pungente il senso che la vita vera bisognava cercarla al di fuori della propria cerchia sociale, dove non si combatteva con
fisime e con ombre, ma con cose salde e con bisogni inesorabili, col pane quotidiano.
Umberto Fraccacreta godette ai suoi tempi di una grande notorietà, ottenuta
per tre delle sue opere: Poemetti, Elevazione e Nuovi Poemetti.
Tre volumi scritti in quindici anni, questo indica una certa serietà da parte
dell’autore.
Nel 1935 i Poemetti furono tradotti in francese da Yvonne Lenoir, con il
titolo di Chants d’Apulie; nel 1938 toccò ad altre due opere del Fraccacreta, ad
Ignota e Straniera, resi in francese da Pierre de Montera, divenendo Deux poèmes
d’amour.
All’estero l’opera del Fraccacreta ebbe molta fortuna soprattutto in Francia e
Spagna, ma anche i rumeni Alexandru Marcu e Alexandru Balaci e la belga Suzanne
Misset scrissero sull’argomento. La prof. Venturo Lamedica afferma che le antologie delle scuole medie e del ginnasio superiore usate per i suoi studi riportavano La
tomba d’oro, Il gelsomino, Nevicata e brani da Il Pane.
Francesco Flora comprese Fraccacreta nella sua Storia della letteratura italiana, ponendolo tra coloro che sono nell’aura della tradizione, pur con sensi moderni; e il volume sul Novecento della Storia letteraria d’Italia della Vallardi, curato dal Galletti, dedica al nostro lo stesso spazio che ha Saba.
Nel 1937 l’Accademia d’Italia premia il poeta per la sua opera. Fra il 1934 e il
1948 saranno pubblicate: Motivi lirici, Antea, Amore e Terra, Vivi e morti, Sotto i
tuoi occhi, Ultimi canti.
Nei Poemetti e Nuovi Poemetti si evidenzia la fatica contadina, vi sono in
risalto gli elementi naturali; Fraccacreta insiste sul concetto di terra, la terra che non
è la materia tout-court coglie gli elementi materiali nel legame con l’originario, la
terra si fa parola.
All’apice di tali opere epico-liriche1 vi è Il Pane. La lirica si apre e si svolge
sulle sponde del Tavoliere, dal quale si delinea la figura di un vecchio coltivatore
che, fiducioso, dopo anni di cattivo raccolto, si ostina ancora a seminare quel poco
che gli rimane nel suo granaio e quasi non regge quando sente che il figlio vuole
abbandonare la terra ed emigrare.
1
Cfr. Pierre RONZY, L’oeuvre poètique d’Umberto Fraccacreta, in Cahiers franco-italiens “Ausonia”, 1936,
3 (lug. - sett.), pp. 3-4.
145
Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
Lirica che ricevette le migliori critiche, basti citare l’affermazione di Manara
Valgimigli: “Le poème du pain, […], est vraiment le poème du grand Tavoliere chargé
d’épis”.2 Ecco troviamo una terra piena di “spirito”, un sentimento religioso della
terra; sin da Virgilio la terra era considerata come elemento di creazione e di distruzione, “grembo e sepolcro delle razza”,3 sentimento pagano presente in Umberto
Fraccacreta mescolato con un forte sentimento cristiano.
Fu proprio la vasta pianura pugliese che diede al Fraccacreta quella malinconia e quella purezza che lo caratterizzano.
Il lavoro dei campi, rappresentato nelle diverse stagioni e cicli cosmici, diventa materia inesauribile nella sua produzione letteraria, ed è proprio dalla semplicità della terra, pregna della solitudine e di silenzi, che è caratterizzata l’opera del
nostro autore. Quella del Fraccacreta si presenta come un’anima pensosa, pronta a
meditare sulla vita della sua terra, e per far ciò il poeta popola le campagne, immerse
nella notte, con i suoi pensieri ed i suoi sentimenti.
Con queste caratteristiche nasce L’Assiolo, da molti associato a Il Passero
solitario del Leopardi, una specie di canto dipinto di romanticismo, dove il tutto
viene espresso con una emozione ed una purezza che coinvolgono il lettore.
La Puglia, regione d’Italia, viene rappresentata come una delle regioni in cui
la vita è basata sulla terra e gli uomini sono legati da una sorta di legame religioso
primitivo e sacro. Meditazioni melanconiche e religiose, cose viste e contemplate
dagli occhi del corpo e interpretate con un cuore vibrante.
Fraccacreta ha fatto per la Puglia ciò che Brizeaux sperava di fare per la sua
Bretagna e ciò che Mistra è riuscito a fare per la Provenza.
La costruzione, la lingua, il verso, lo stile, derivano tutti dal mondo classico.
Il Fraccacreta si appropria della cultura classica durante il periodo trascorso presso
il Liceo classico di Lucera.
Grande ammiratore del Pascoli, tanto da subirne l’influenza in ciò che concerne i contenuti.
Nel Fraccacreta, come nel Pascoli è presente il sentimento dello spazio e del
tempo familiare, il passato fatto di memorie e tradizioni certe, il presente colmo di
opere fiduciose, il futuro preveduto sicuramente nel succedersi uguale delle stagioni e dei lavori agresti.
Altra caratteristica che accomuna i due autori è la limitazione estrema ad un
ambito sociale, quella che nel Pascoli sarà poi la riduzione della famiglia al “nido”.
La tragedia avviene nel momento dell’abbandono di tale “nido” o per forzatura
dall’esterno o per violenza, in questo caso bisogna ricollegarsi all’importanza in Il
Pane di non abbandonare la propria terra.
Lo stile è di derivazione classica, ma il vedere le cose che lo circondano gli dà
la modernità.
2
Manara VALGIMIGLI, Prefazione a Umberto FRACCACRETA, Poemetti, Bologna, Zanichelli, 1929.
Cfr. Rafael CANSINOS ASSENS, Critica Spagnola della poesia italiana, prefazione di Ezio Levi, Milano,
Edizioni Terra di Puglia, 1932.
3
146
Antonella Iacobbe
La poesia del Fraccacreta presenta un ritmo tranquillo, plasticità scultorea,
esametro classico.
La proporzione tra le forme date e la materia da esprimere è evidente, vi è
una soluzione metrica di carattere classicistico e un impasto linguistico di stampo
carducciano, ma questo non significa che le opere di stampo classicistico, ispirate
alla civiltà, contadina non possano incontrare il favore anche dei lettori dell’epoca
postindustriale.
Le sue poesie sono segnate da un ritmo tranquillo, e i sonetti e le poesie
segnate da tale ritmo sembrano che si adattino meglio all’andatura naturale del suo
pensiero malinconico.
Dunque compostezza di ritmi, uso degli endecasillabi caratterizzano ancora
L’Assiolo e Cantoria, i poemetti che meglio esprimono il tono lirico dell’arte del
Fraccacreta.
La prima raccolta è quella che risente maggiormente della vena classica, mentre in poemi come l’Ignota, la Straniera ed Antea troviamo descrizione e riassunti
delle proprie impressioni, la natura mescolata con espressioni di sentimenti dal tono
melanconico.
In tali poemetti troviamo la natura, il sentimento imperniato di una gran
nostalgia, la passione espressa con gioia e rimpianto, l’anima femminile presente
quasi in figura d’ombra.
La natura e l’amore sono in completa armonia. Egli ha voluto soprattutto
prendere un soggetto di studio nella vita reale, creare, plasmare dei tipi veri nella
classe contadina, presentando al lettore il quadro vero di quello che si trova più
spesso nel mondo.
Non abbiamo la semplice descrizione, ma attraverso gli elementi della natura
sentiamo l’anima di essa, messa ancora di più in risalto dalla presenza delle creature
e dei contadini.
Nel Fraccacreta è presente anche un forte sentimento religioso.
Il sentimento cristiano di Fraccacreta sarà presente in quasi tutte le sue opere, ci sarà l’omaggio alla Madonna del Soccorso, la Madonna Nera patrona di San
Severo, la descrizione delle edicole votive, la rimembranza dei pellegrinaggi al Santuario dell’Angelo.
Inoltre bisogna pensare alla corrispondenza tra il calendario religioso e quello agreste, sembra quasi che il lavoro dei campi voglia essere lavoro offerto a Dio, e
sembra mettere in risalto come l’uomo possa essere redento da Dio.
Anche attraverso minuzie di particolari riesce a cogliere il significato dell’esistenza.
Il Fraccacreta non è solo il poeta del Tavoliere, ma le sue ultime poesie sono
ambientate a Como e a Roma.
La sua forma poetica si svolse con una fraseologia che segue le movenze dei
maggiori poeti italiani e latini come: Carducci, Virgilio, Ovidio. Non è una poesia
varia di tono né ricca di spunti, anzi un po’ uniforme e senza sorprese.
Ad ogni modo ritroviamo la fedeltà a certi temi, che dove li esamina, rispon147
Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
dono in modo limpido. Più che da certe parole la bellezza di tali opere nasce dal
movimento del canto coinvolgente, e dal sentimento e non dal linguaggio, poiché
quest’ultimo avvolte cade in pedanteria.
In Fraccacreta vi è un distacco dalla polemica civile e politica della sua società, questa rinuncia porta ad una celebrazione aperta della vita.
L’arte del nostro autore non consiste né nella forma esteriore, come volevano
i classici, né nel contenuto o idea, come ritenevano i romantici, ma è la sintesi di
entrambi gli elementi: è un contenuto, un’idea, una somma di pensieri o di sentimenti che trovano la loro perfetta espressione in una forma poetica, con la quale
sostanzialmente si identificano.
Con addentellati di carattere tradizionale, gli scritti di Fraccacreta assumono
un sapore folclorico che deriva dall’analisi e dalla descrizione attenta e minuziosa di
un luogo provinciale e di piccoli borghi.
È la vita del paese con le sue tradizioni, in tutta la sua carica di vitalità, che
viene alla luce in un’armonica espressione definitivamente lucida e chiara, che ne
avvalora la freschezza e la genuinità. La ricerca estetica, lungi da formalismi, tenta,
attraverso una forte introspezione, di scrutare nell’animo umano per denudarlo e
scoprirne le più intime tribolazioni.
In lui vi è un unico grande desiderio, di permeare la vita di una spiritualità
che nella sua genesi reale ha profonde radici nella sofferenza, nel dolore. La vita è
espressa e attraverso canoni veristi, e romantici, e classici, e realistici.
La descrizione della vita umile del paese, della sua realtà semplice, del suo
folklore romantico dà all’opera del Fraccacreta una validità sia storica, sia letteraria,
che, a prescindere di giudizi superficiali, può considerarsi molto attuale e moderna
nella sua trattazione spontanea.
Per tali caratteristiche, l’opera del Fraccacreta ebbe molta fortuna all’estero,
in Francia e in Spagna.
Gli scritti del Fraccacreta ebbero una tale risonanza da destare l’interesse del
critico spagnolo Rafael Cansinos Assens.
Egli dedica a Poemetti ed Elevazione due scritti: La poesia del pane creatrice
di miti e di riti (in «Libertad» di Madrid, novembre 1929) e Sensi pagani e sensi
cristiani (ibid., agosto 1931).4
Egli considererà i componimenti del nostro autore come: “Sonetti di fattura
impeccabile, di un ritmo tranquillo che li fa solenni col solo incanto della loro intima malinconia, senza però che dell’imponenza abbiano alcuna pretesa od ostentazione. La plasticità scultorea viene loro dall’idioma stesso in cui sono espressi e non
da alcuno impiego di speciale ceselli”.5
Rafael Cansinos Assens mette in evidenza come il Fraccacreta, con le sue
determinazioni concrete e i suoi limiti, non mortifica l’ampiezza e la profondità
4
5
Ibid., p. 32.
Ibid., p.14.
148
Antonella Iacobbe
della poesia classica; strofe saffiche, dall’esametro classico, che però non ostacolano
l’espressione del suo temperamento giovanile.
Con la sua semplicità d’animo riesce ad esprimersi con un verso chiaro, pur
rifacendosi a Carducci, Pascoli, d’Annunzio.
“È sempre bene che sorga un poeta che sia intento alla bellezza antica e canti
come un usignolo, invece di fischiare come fanno i merli. Sul piano di Puglia,
Umberto Fraccacreta eleva la sua poesia con gesto grave e puro”.6
Se è vero che il Fraccacreta pone i classici e il passato come modello, è altrettanto vero che egli descrive una realtà viva, esperenziale e non un concetto astratto.
Infatti, di per sé non esiste la sua poesia, ma essa va a servizio dei miti, dei riti,
del lavoro del contadino visto come “fede”; il lettore sente che esiste colui che vive
in quel particolare atteggiamento dello spirito che è la fede.
Questa crescita e sviluppo della fede, considerata come attaccamento al lavoro, si attua, in Umberto Fraccacreta, in una triplice direzione: nella conoscenza
diretta del lavoro della gente umile, nell’amore, nell’azione. Sembra esserci un’opposizione o netta distinzione fra elementi pagani ed elementi cristiani, ma il nostro
autore non si allontanerà mai dalla fede cristiana, presente in modo esplicito in
molte sue poesie.
Il rifarsi agli antichi, non significa pedante erudizione retorica, ma l’evocazione dell’altro permette una maggiore evocazione di se stesso, resa possibile da
una preparazione morale fatta dalla conquista effettiva di una consapevolezza critica della condizione umana.
Il poema Il Pane permise di far conoscere il nostro autore e la terra pugliese
in Italia e all’estero. Paul Guiton affermò che, dopo Mistral, nessun poeta ci aveva
dato canti siffatti in onore della terra e dei suoi coltivatori.
All’estero, l’opera del Fraccacreta ebbe molte fortuna; nel 1935, Pierre De
Montera, in “Etudes Italiennes”, scriverà: “Tout cela est écrit dans une langue claire,
infiniment souple, où l’on ne sent jamais l’effort ni la recherche, où les plus beaux
effets naissent de la semplicité de l’expression. Les vers coulent si amples, si naturels
qu’on se prend à croire, en les lisant, que la vraie poésie n’est pas tout à fait morte”.
Un anno dopo Maurice Muret, nell’avant propos de Chants d’Apulie, dirà: “Je ne
vois personne parmi les jeunes poètes d’Italie qui méritat à l’égal de l’auteur des
Poemetti et d’Elevazione d’être connu hors de sa patrie”. Anche Misset Suzanne
rivela il talento dell’autore e l’epopea della sua terra, “dalla quale come un atto di
fede attinge il cielo”.7
Pierre Ronzy suddivide, in L’oeuvre poétique d’Umberto Fraccacreta, l’opera poetica del nostro autore in una parte epico - lirica ed una esclusivamente lirica,
entrambe caratterizzate da una profonda originalità. Da uno scrittore così ricco di
offesa pietà per gli umili, ci si sarebbe aspettato veramente un approfondimento
6 Ibid., p.19.
7
Suzanne MISSET, Chants d’Apulie par Umberto Fraccacreta, traduit par Yvonne Lenoir, in «Terres Latines»
IV (1936), 10 (dicembre), p. 362.
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Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
delle sue preferenze sentimentali e delle sue convinzioni morali, una loro chiarificazione e certificazione in una sia pure rudimentale ideologia sociale.
Ma questo non avvenne, sia per l’ambiente sociale in cui si era formato il suo
carattere, sia per la politica fascista del tempo, sia per la sua concezione artistica.
Tutta l’ispirazione del Fraccacreta passa attraverso tre momenti: un momento di
abbandono fantastico, più propriamente lirico; un momento meditativo ed illustrativo; e un momento poetico vero.
Quando si asserisce che il Fraccacreta ritorna alla tradizione letteraria, non si
deve pensare che questa intervenga come un freno, non è che si tratti di una coazione,
non immette in uno stato passivo.
Se il Fraccacreta e i suoi contemporanei francesi sono ricorsi alla tradizione,
è perché hanno sentito la necessità di un discorso grammaticale che potesse esprimere, nel migliore dei modi e in tono melodico, la sintesi tra immagini di natura e
sentimento.
A volte la sua poesia è eccessivamente piena, carica di preziose trovate, tanto
da rasentare la stucchevolezza; ma dove la sintesi è più viva presuppone un suo
vivo contenuto poetico.
Nel Fraccacreta migliore è sempre presente comunque la sua bravura, la sua
umanità attenta e profonda.
Certamente le opere del Fraccacreta non presentano il carattere di provocazione, non danno adito a laceranti giudizi.
Varrebbe la pena forse di cercare di capire, attraverso quali esperienze Umberto
Fraccacreta abbia sempre più affinato in sé l’esperienza letteraria.
L’affinamento della sua ricerca artistica è dato da un continuo scambio di
idee con amici francesi, in particolar modo con Yvonne Lenoir e Pierre de Montera.
Questo interscambio culturale potrebbe essere considerato un aspetto minore ed intimo della vita del Fraccacreta, ma vanno ricordati perché permettono anch’essi di ricostruire quella totalità artistica e stilistica che è alla base del nostro
autore. Egli è riuscito, nelle varie traduzioni, ad esprimere mirabilmente il pensiero
dei suoi amici e viceversa.
Certamente nella traduzione scompaiono le stesse architetture, ma il sentimento, il linguaggio, la musicalità conserva la medesima parvenza.
Prendendo in considerazione le poesie tradotte da Pierre de Montera notiamo la sua indecisione nella scelta dei termini, egli vuole utilizzare una forma e degli
idiomi che facciano emergere l’ispirazione musicale del Fraccacreta.
Pierre de Montera rimane fedele al testo, riuscendo a far trapelare quella profonda tristezza e solitudine che il nostro poeta voleva esprimere attraverso immagini, come la chiesa vista come rifugio, o sensazioni date dalla musica, dai cipressi, dal
tramonto.
Nella versione italiana il verso si fa aggrovigliato per la ricerca di termini e la
necessità di strofe rimate, nel passaggio al francese si perde la ricercatezza di rima
rimanendo, comunque, la musicalità. L’atteggiamento del Poeta nei riguardi del
mondo e dei suoi simili, la sua solitudine espressa per mezzo della natura, fa sì che
150
Antonella Iacobbe
la produzione lirica di Fraccacreta possa essere accostata alle poesie del poeta francese La Martine.
Egli si avvicina a tali autori francesi per l’ugual modo di intendere l’arte. Essi
la considerano come mezzo per sottrarsi alla vita quotidiana, per evadere dal proprio tempo e spazio, pervasi dai postumi della guerra.
Sia nelle opere del Fraccacreta che in quelle di Yvonne Lenoir, cogliamo il
gusto romantico del colore, il piacere delle parole come suono ed immagine anche
se circoscritte in una determinata forma. Inoltre, leggendo le loro opere si può riscontrare una particolare attenzione per la tecnica poetica, espressa in maniera scrupolosa e paziente. Essi si avvicinarono per tendenze ed affinità.
In Francia, l’episodio della guerra, dell’Occupazione e della Resistenza (1939
- 1945) provocarono un vero rilancio poetico.
Nel XX secolo la poesia riacquista grande importanza. La Francia esce dalla
guerra esaltata dalla vittoria ma spossata dal gran numero dei morti; anche per questo
la vita culturale dal periodo successivo è caratterizzata da tendenze individualistiche.
La poesia diventa il solo linguaggio capace di esprimere la libertà; questa
insieme alla Natura, a Dio, alla Vita, alla Morte, all’Amore, alla Patria e alla pena
degli uomini dovuta alla guerra, diventano i temi fondamentali che si eternizzano
per mezzo della poesia.
Le riviste diventano un mezzo per diffondere la cultura, ed i nostri autori
pubblicano molte delle loro poesie in alcune di esse.
La nostalgia, le inquietudini, le disperazioni di un periodo di crisi riprendono posto nel poetare di questo periodo.
Anche l’amore, la natura, rivestiti di una nuova freschezza lirica, diventano
elementi caratteristici.
Attenzione al quotidiano, comunione con la natura, interesse e riscoperta
per gli oggetti e le cose semplici, epopea interiore sono le prerogative fondamentali
del rilancio poetico di allora.
Ancora una volta la poesia fa spazio alla solitudine come grande ispiratrice.
Era proprio questo tipo di poesia che avvicinava il nostro autore alla cultura
francese conosciuta maggiormente per mezzo di Marthe Yvonne Lenoir.
La poesia della Resistenza insegnava, secondo la formula di Pierre Emmanuel,
una «sensibilità spirituale» al destino dell’uomo nella solitudine del dopoguerra.
È il caso di ricordare Pierre-Jean Jouve (1887 - 1976) contemporaneo di
Umberto Fraccacreta, anch’egli affidava la musicalità del suo poetare al verso il
quale, con ritmo armonioso, passa dall’oscurità verso la luce.
La poesia dell’avvenimento può essere decifrata in queste parole: “Se la poesia è creazione, anzitutto è creazione di una vera vita attraverso la vera parola oppure dell’autentica parola attraverso l’autentica vita”. (Parole di Gaetan Picon, uno
dei migliori commentatori di Jouve).
Il nostro autore può essere accostato maggiormente a Guillevic, il quale come
il Fraccacreta, pone la sua attenzione alla realtà semplice: le rocce della sua Bretagna
natale, gli alberi.
151
Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
I regimi autoritari cercano di reprimere e di sottomettere l’intellettuale al
potere, trasformandolo in strumento di propaganda.
Tutto questo porterà una chiusura verso nuovi pensieri e non permetterà la
diffusione incontrollata della letteratura e la conoscenza di autori anche minori.
Forse questa potrebbe essere considerata una delle cause, per la quale il nostro
autore non ebbe risonanza all’interno di quella schiera di poeti famosi di inizio
novecento.
La Francia e Parigi venivano ancora considerate come punto di riferimento
di tutta la cultura europea e promotrice del futurismo.
La poesia crepuscolare, infatti, ricevette notevole influenza da quei
poeti solitamente chiamati intimisti e simbolisti belgi come Georges Rodenbach e
Maurice Maeterlink e dai francesi Paul Verlaine, Jules Laforgue e Francis Jammes.
Tali autori furono conosciuti in tutta Europa, e i loro libri rientrano anche
nella biblioteca personale del nostro autore.
Anche i motivi e i significati del mondo simbolista francese furono, per il
nostro autore, fondamentali poiché i simboli favorivano la descrizione degli stati
d’animo.
Come diceva Pierre Ronzy “Le poète méritait d’avoir l’audience du public
français et il faut sauhaiter que cette audience s’accroisse encore.”8
Dunque il nostro autore fu conosciuto in Francia, con la quale mantenne i
contatti grazie ad Yvonne Lenoir. Ella, attraverso la sua traduzione, ha saputo esprimere, in modo commovente, l’originale poesia del Tavoliere.
Marthe Yvonne Lenoir si servì per la propria produzione letteraria della sua
lingua natale, e come traduttrice predilesse il passaggio dalla lingua italiana a quella
francese.
Ricordiamo alcune delle sue più importanti traduzioni come: Chanson son
tour 1934 (Il Turno 1902), romanzo di Pirandello ed ancora del medesimo L’Exclue
1928 (L’Esclusa 1901); di Curzio Malaparte L’Italie contre l’Europe 1927; di
Guglielmo Ferrero Les femmes de Césars 1930; di G.A. Borgese La maison dans la
plaine 1931 e Rubé 1928; di A. Aniante Mustapha Kemel. Le Loup gris d’Angorà
1934; di G. Prezzolini Vie de Nicolas Machiavel, florentin 1929.
Yvonne Lenoir ha dimostrato di essere un’ottima traduttrice, infatti è riuscita a far passare il messaggio del Poeta dalla lingua italiana a quella francese, ha reso
il messaggio d’origine conforme alla sensibilità collettiva d’arrivo.
Certamente il testo ha perso qualcosa nell’essere tradotto, come la spontaneità specifica di ogni lingua, ma in ogni parte si riesce a trovare l’essenzialità del
messaggio.
Ella riesce a leggere in profondità le poesie del nostro autore, pesando e apprezzando ogni parola e ogni immagine; ogni qualvolta non ne comprendeva il
senso chiedeva spiegazioni direttamente ad Umberto Fraccacreta, avvolte ne inviava abbozzi per averne consenso (tecnica usata anche da Pierre de Montera).
8
P. RONZY, L’oeuvre poétique d’Umberto Fraccacreta…, cit., p.1.
152
Antonella Iacobbe
Infatti nella lingua d’arrivo la cosa più difficile è il “rendre”, scegliere il termine e la struttura appropriata, per evitare “le faux sens” e “le contresens”.
Il continuo interscambio epistolare tra i due autori permise ad Yvonne Lenoir
la massima comprensione del vero senso delle poesie, ciò che permetterà una traduzione la più fedele al testo d’origine.
Elaborazione, abilità, saggezza, penetrazione, bellezza sono abilmente fuse
all’interno di tale traduzione.
L’ambiente emerge con verosimiglianza straordinaria, ma l’effetto complessivo è meno soddisfacente di quello più lieve, ma squisitamente armonioso dell’originale.
Leggendo a caso parti di qualsiasi poesia ci si accorgerà che la traduttrice è
solo episodicamente fedele alla versificazione dell’originale, alle strutture metriche
adottate dal Fraccacreta.
L’infedeltà è solo apparente, infatti pur se non ne abbiamo il calco, i suoni e i
significati risultano essere gli stessi, i termini usati risultano appartenere al
Fraccacreta.
Nella traduzione di Yvonne Lenoir ritroviamo una terminologia precisa, un
incontro tra termine letterario e termine realistico, usati con critica oculatezza.
Tale poesia non può essere definita realistica, se per realismo si intende il
tentativo di rendere la realtà esteriore. Ciò che diventa fortemente realistico sono le
immagini della realtà che sorgono in lui. Il lavoro della terra assume una forte
connotazione tanto da poter rappresentare delle qualità simboliche. Il grano, e di
qui il pane, è un prodotto tipico pugliese, sanseverese, ed in questa poesia serve per
legare il paesaggio naturale ad una atmosfera umana e locale. Il paesaggio, acquista
anch’esso i caratteri sentimentali della classe contadina. Ben difficilmente una traduzione può restituire al lettore straniero gli artifici con cui una poesia è scritta.
Lessico letterariamente assai nobile, la misura dei versi è variabile, la rima è
assente. Vi è quindi una notevole libertà metrica, alla quale corrispondono, comunque, raffinatissimi effetti musicali che Yvonne Lenoir riuscirà mirabilmente a mantenere nella sua traduzione. Il senso di ogni parola è arricchito dalla collocazione
metrica, che crea in noi un senso di eco. Il verso, che isolatamente potrebbe sembrare banale, ritrova, in quella precisa sequenza, tutto il suo significato. Le parole
utilizzate si arricchiscono reciprocamente; se noi togliamo quella parola, sostituendola con un’altra, il senso non è più il medesimo. Dunque è corretto dire che Yvonne
Lenoir ha saputo riscrivere un bel testo poetico, certamente non identico ma affine
all’originale. Tale testo presenta una ricchezza di artifici fonici che difficilmente
possono essere trasferiti identici in francese.
La stessa Yvonne Lenoir sente tali poesie vicine al suo modo di poetare e per
diverse analogie, e per forma e per pensiero. Ella comprende totalmente il sentimento del Fraccacreta perché vicino al suo. Entrambi sono pervasi da solitudine,
amore per la propria terra, per la natura. La poesia del Fraccacreta, nella versione
tradotta, rimane una poesia seria, di lenta ed ardua lettura.
Yvonne Lenoir riesce a mantenere l’equilibrio tra il momento di abbandono
153
Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
fantastico, più propriamente lirico, il momento meditativo ed illustrativo, ed infine
il momento religioso; proprio grazie a questo equilibrio riesce a raggiungere la migliore versione di tale poesia.
L’artista partecipa intensamente alla sua poesia, e nello stesso tempo la contempla in una sfera distaccata.
Attraverso i versi del Fraccacreta, condivisi pienamente da Yvonne Lenoir,
possiamo risalire agli elementi caratteristici del loro poetare: unità di creazione,
materialità e spiritualità delle creature, corrispondenza tra mondo materiale e mondo spirituale per mezzo dei simboli (analogie universali), corrispondenza tra i diversi ordini di sensazioni.
La poesia diviene testimone del senso misterioso degli aspetti dell’esistenza.
Spesso un’aggettivazione esatta, essenziale, ricavata da quella del Fraccacreta per
via di sfrondamenti, ha reso più asciutto il tono di certe composizioni: non per
desiderio della traduttrice, ma per salvare, nel testo della traduzione, il nucleo poetico.
Sono presenti ben pochi difetti nella traduzione, in quanto, in più di un caso
la Lenoir ha saputo far tesoro dei suggerimenti datigli con tanto affetto e tanta
competenza direttamente da parte dell’autore.
Si è voluto rimanere scrupolosamente fedeli al testo italiano, rispettando, fin
dove lo consentono le differenti peculiarità e le diverse esigenze delle due lingue,
anche la punteggiatura, per lasciare il più possibile, almeno nelle intenzioni, il sapore, per così dire, delle scritture originarie.
La produzione artistica di Umberto Fraccacreta e la sua presenza nella vita
culturale francese, mettono in risalto la complessità dell’ispirazione culturale di
questo autore.
Quel complesso di atteggiamenti sia interiori, sia pratici, che caratterizzano
il Fraccacreta, in una parola i valori spirituali, le forme e le strutture della vita individuale, sono presenti nuovamente nelle poesie di Marthe Yvonne Lenoir e Pierre
de Montera, tradotte dal nostro autore.
Anche nelle poesie di Yvonne Lenoir [Avec une ombre; da Romances: Le
villane, Litanies de la mort; da Nés de l’écume: Le Lac, Lac Majeur, De soi seul…;
Fresole (Mystère du plein d’été, I,II; Jardin de Paris, inédits)], vi è espressione dell’istinto musicale, l’immersione delle sue osservazioni nel silenzio, evocando indirettamente la solitudine remota in mezzo a cui meditava.
Le situazioni ed i termini proposti sono quelli della realtà quotidiana; il nostro poeta acquisisce e riproduce, in un quadro che gli è familiare, le strutture francesi.
Il Fraccacreta si è dimostrato un abile traduttore, infatti la perdita del passaggio dal francese all’italiano è poca cosa. Questo minimo calo è dovuto non solo alla
bravura del Fraccacreta, ma anche alla natura del testo, scritto con un linguaggio
semplice e con termini usuali.
Il nostro poeta ha in se le tre caratteristiche del buon traduttore: oltre a possedere le due lingue, capisce ciò che traduce. Egli riesce a leggere veramente il testo,
154
Antonella Iacobbe
lo legge in profondità, in tutte le sue pieghe, comprendendo ogni parola, ogni immagine. Inoltre in lui è presente la sensibilità linguistica, che gli permette di calarsi
nella personalità dell’autore del testo da tradurre, e si rende conto quando vi è qualcosa di superfluo o sfasato. La forza espressiva del testo originale viene mantenuta
dal nostro autore. La struttura delle poesie d’origine è mantenuta nella traduzione,
ma la rima, l’omotelèuto, molte figure retoriche, nel passaggio all’italiano, vengon
meno. Logicamente le assonanze, le rime non possono essere mantenute nella traduzione, ma queste sono sostituite da un profondo equilibrio e musicalità resi in
tutta la strofa. Gli imperfetti numerosi della poesia, esprimono gli indugi della memoria, conferiscono durata alla contemplazione.
Yvonne Lenoir canta soprattutto il sentimento espresso per mezzo della poesia nell’ambiente tipicamente romantico, il lago. L’acqua diviene mezzo per esprimere toni malinconici, una malinconia calma come le acque di un lago, per utilizzare un’espressione di Huysmans, l’acqua è l’élément mélancolisant. Da sempre l’acqua è elemento ambivalente di nascita e di morte. La natura diviene simbolo delle
emozioni dell’anima. Trae la sua ispirazione dalla natura, rievoca con la fantasia il
passato, esprime i sentimenti dell’animo: gioia, dolore, meraviglia, lode. La natura
come fonte di ispirazione, e il sogno sono ancora presenti in: Jardin de Paris. Lo
stile è ricchissimo di immagini, di sostantivi e di aggettivi che si accumulano e si
rispondono in un sapiente gioco di echi.
Nelle poesie di Yvonne Lenoir vi è la comunione dell’anima umana con quella delle cose; si immedesima con la vita, con i mari, con i fiumi, con gli alberi.
Si ritraggono figure ricche di immagini, colori e suoni; figure ricche di una
intensità appassionata.
In tali poesie ritroviamo molti elementi che hanno caratterizzato la poesia di
Proust e la poesia decadente: l’importanza simbolica del sogno, v.1-2 Le plus joli
jardin/ qui flotte entre mes rêves (Il più grazioso giardino/ che ondeggia nei miei
sogni), la fertile vita dell’istinto, la memoria rievocata dai sapori, dagli odori, v. 8 - 9
- 10 - 11 - 12 Les cailloux y sont ronds/ amoureux à la bouche/ car je les suce
perfidement,/ y trouvant je ne sais/ quelle saveur farouche (Rotondi sono i ciottoli/
graditi alla mia bocca;/ perfidamente li succhio,/ e ci trovo non so che/ sapor selvaggio), e l’infanzia, v.5 je m’y promène enfant (io m’aggiro bambina).
È nell’infanzia che si vive in comunione con la natura, non si ha nozione del
tempo e dello spazio, si vive nella sicurezza delle cose familiari; non è ancora nata la
consapevolezza della vita.
Ricercare l’infanzia significa ricercare il proprio essere vero, aldilà delle angosce e delle nevrosi procurate dagli adulti con la realtà storica e sociale.
Inoltre, ritroviamo il tipico elemento romantico, «la solitudine», cercando di
infrangere ogni barriera nella ricerca di una possibile comunione con l’infinito.
Poesie dalle caratteristiche autobiografiche che riescono a raggiungere altezze universali.
Dalla poesia Jardin de Paris, riusciamo a comprendere il significato che Yvonne
Lenoir attribuisce alla poesia.
155
Dalla poetica della “terra” alla traduzione: U. Fraccacreta e M. Y. Lenoir
La poesia è sentita come voce del sentimento ed in quanto tale deve essere
libera, spontanea, immediata. Alla vigorosa trama di pensieri e di sentimenti risponde adeguatamente lo stile. La lingua, senza forzature, asseconda la rapidità
dello stile.
Nell’esaminare la produzione poetica dell’autrice francese si riesce a comprendere come il Fraccacreta si fosse sentito così vicino e per temi, e per sentimenti,
e per cultura ad Yvonne Lenoir.
Quello che bisogna sottolineare è che la forma passa in sottordine rispetto al
contenuto. Yvonne Lenoir filtra in forma d’arte, impressioni, considerazioni sulla
Francia e sul grande amore che prova per l’Italia (A l’Italie), pur non disdegnando
la sua terra natia.
I motivi da loro cantati trovano armoniosa unificazione nel concetto e nel
valore della TERRA, nel significato del valore umano.
Il loro poetare non è solo questione di intelletto, anzi è, come dice Blaise
Pascal, raisons du coeur.
156
Rosanna Curci
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
di Rosanna Curci
1. Introduzione
Julia Kavanagh nacque il 7 gennaio 1824 a Thurles, in Irlanda, unica figlia
di Bridget Fitzpatrick e Morgan Peter Kavanagh, poeta e filologo, autore di alcune curiose opere sull’origine e la scienza del linguaggio. Quando aveva circa dodici anni, accompagnò i suoi genitori a Londra, dove risiedette per poco tempo,
trasferendosi presto in Francia, dove visse e studiò fino ai vent’anni. Questo lungo periodo di residenza, cui si aggiunsero diverse altre visite in seguito, le consentì
una comprensione della vita e del carattere francese, che ritrasse con fedeltà in molte sue opere. Nel 1844, Julia tornò a Londra ed iniziò a dedicarsi alla carriera di
scrittrice, dapprima scrivendo racconti e saggi per alcune riviste, poi pubblicando,
nel 1847, il suo primo libro, The three paths, un racconto per bambini. A questo
seguirono Madeleine, che le diede la fama, basato sulla storia di una giovane contadina di Auvergne, e alcuni saggi storici e letterari, riguardanti soprattutto le donne:
Women in France during the Eighteenth Century (1850), Women of Christianity
exemplary for Acts of Piety and Charity (1852), French Women of Letters ed English
Women of Letters (1862). La sua opera comprende nel complesso circa venti romanzi, che ebbero grande successo soprattutto in Inghilterra e America, ma che
furono tradotti anche in francese. La sua vita fu, tutto sommato, priva di eventi
importanti, e trascorse per la gran parte tra gli impegni della scrittura e la cura della
madre, vedova e invalida.1 Prima della morte del padre, comunque, Julia poté intraprendere, nel 1853, un lungo viaggio sul Continente, esperienza di cui diede conto
nel diario A Summer and Winter in the two Sicilies, pubblicato nel 1858.
2. Il diario di viaggio
Il diario di viaggio si rivela per la Kavanagh, fin dall’inizio, per il suo carattere di narrazione in prima persona, un lavoro ben diverso dagli scritti cui si era dedi-
1
Per le notizie biografiche cfr. The Catholic Encyclopedia, New York, Robert Appleton Company, 1910,
15 voll.: vol. VIII.
157
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
cata fino a quel momento: “in a personal narrative, the unfortunate pronoun “I”
must necessarily occur oftener than I cared to use it” (trad.: “in un resoconto personale, lo sfortunato pronome “io” deve necessariamente ricorrere più spesso di quanto
volessi usarlo”).2 L’irresistibile desiderio, comune ad ogni viaggiatore, di raccontare ciò che ha visto, la aiuta però a superare il disagio, dovuto alla mancanza di personaggi immaginari attraverso i quali filtrare la propria esperienza. Un altro ostacolo si oppone, tuttavia, all’intenzione di rendere pubblico il suo resoconto: “What
was there to say about Italy that had not been said?”3 (trad.: “Cosa c’era da dire
sull’Italia che non fosse stato detto?”). Anche quest’obiezione è rimossa con facilità, appurato che l’Italia è, in realtà, un soggetto inesauribile. Infatti, il diario della
Kavanagh riesce ad essere nuovo e originale, non solo per quanto dice delle bellezze paesaggistiche dell’Italia meridionale, ma soprattutto per le riflessioni di carattere sociale e politico, riguardanti in special modo la condizione della donna.
L’occhio della viaggiatrice si posa spesso sulle figure femminili che incontra nel
corso del viaggio: osserva con curiosità il loro aspetto fisico, le loro movenze, il vestiario, e ancor più il loro stile di vita, non mancando di indicarne la durezza e le
difficoltà. Le donne napoletane appaiono nel complesso poco attraenti: “they are
large, coarse, heavy, without grace or softness”4 (trad.: “sono grosse, rozze, pesanti,
prive di grazia o dolcezza”). E nessuna differenza vi è, quanto a bellezza, tra le popolane e le donne dell’aristocrazia: “Neapolitan princesses, though dressed in the last
Parisian fashion, are just as plain as the bareheaded girls who saunter here in the
evening”5 (trad.: “le principesse napoletane, sebbene vestite secondo l’ultima moda
francese, sono tanto brutte quanto le ragazze a capo scoperto che gironzolano qui la
sera”). Anzi, la grazia spontanea e genuina che si trova, seppur raramente, tra le contadine, rende il loro portamento invidiabile anche per una duchessa inglese. La bellezza sembra quasi un lusso che le donne del sud non si possono permettere, affaccendate come sono e costrette in attività che mortificano la loro femminilità. Più di
una volta, leggiamo l’indignazione della Kavanagh di fronte a spettacoli pietosi di
popolane curvate sotto gravosi carichi, che trasportano per lunghi tragitti lungo il
ciglio delle strade: “we met women carrying such burdens as I could not have imagined that women could carry - logs of wood, some of them entire trees […] They bent
beneath the weight; it was a painful and pitiable sight” 6 (trad.: “incontrammo donne
che portavano fardelli tali che non avrei immaginato che donne potessero portare tronchi di legno, alcune alberi interi […]. Esse si piegavano sotto il peso; era una vista
dolorosa e pietosa”). Spesso giovani ragazze, o addirittura bambine, bruciate dal sole,
malformate e di bassa statura, vestite dei più miseri stracci e schiacciate da pesi che
2
Julia KAVANAGH, Preface to A Summer and Winter in the two Sicilie, Leipzig, Bernhard Tauchnitz, 1858, 2
voll.: vol. I, p. 5.
3
Loc. cit.
4
Ibid., vol. II, p. 96.
5
Ibid., vol. II, p. 97.
6
Ibid., vol. I, p. 201.
158
Rosanna Curci
affaticherebbero anche gli uomini più forti, esse non possono avere né la delicatezza
né la grazia del loro sesso: “they seemed to me the saddest objects I had ever seen”7
(trad.: “mi sembrarono la cosa più triste che avessi mai visto”).
La condizione della gentildonna meridionale, invece, è illustrata nel modo
più organico nel capitolo dedicato alla società sorrentina: “When they are ladies
their life is retired, domestic and dull”8 (trad.: “quando sono gentildonne, la loro
vita è ritirata, domestica e monotona”); il loro destino non lascia scelta: “They marry,
they enter a convent, or they become house-nuns; that is to say, they take the vows,
but live at home”9 (trad.: “si sposano, entrano in convento, oppure diventano suore di casa, cioè prendono i voti, ma vivono in casa”). In una terra così popolosa qual
è quella meridionale, scrive la Kavanagh, è improbabile che ogni donna riesca a
trovare marito, ed è perciò frequente che chi resta sola entri in convento solo per
avere una posizione sociale, e non per vera vocazione. Ogni giovane donna è così
destinata ad un futuro di reclusione, sia che la prigione si identifichi con le quattro
mura di un convento, sia che essa corrisponda alla casa in cui dovrà onorare suo
marito. Per meglio comprendere la posizione della donna, la Kavanagh cerca di
sapere quanto può sui matrimoni italiani, sforzandosi di carpire informazioni dalle
conversazioni con le donne del popolo: “I am sorry to say that Italian wives are not
very happy”10 (trad.: “Sono spiacente di dire che le mogli italiane non sono molto
felici”) - è la conclusione cui ella giunge -“Their husbands rarely trust or honour
them, they treat them like children, and are as jealous as Turks”11 (trad.: “I loro
mariti raramente si fidano di loro o le onorano, le trattano come bambini, e sono
gelosi come Turchi”). La moglie italiana raramente conosce il prezzo dei prodotti
di cui usufruisce, neppure della carne o della verdura, perché è l’uomo che compra,
anche nelle classi medie. A Sorrento e, in generale, in tutto il Sud, inoltre, è ancora
una regola tra i contadini, che la donna possa essere capace di leggere ma non di
scrivere: “the reason is obvious: if these frail and dangerous creatures knew how to
write, they would indite love-letters at once”12 (trad.: “la ragione è ovvia: se queste
fragili e pericolose creature sapessero scrivere, esse redigerebbero immediatamente
lettere d’amore”). La mancanza di fiducia e la gelosia dei mariti del Sud, inoltre, si
traduce spesso in atti di violenza nei confronti delle mogli, che essi obbligano a una
vera e propria prigionia, vietando a volte perfino la frequenza alle funzioni religiose. Significativa è l’osservazione di Carmela, la contadina della masseria di Sorrento
presso cui alloggia la Kavanagh: “A man is like this apple; he is fair and smooth
without, but there is a worm within”13 (trad.: “Un uomo è come questa mela; è
7
Ibid., vol. I, p. 196.
Ibid., vol. I, p. 99.
9
Loc. cit.
10
Ibid., vol. I, p. 108.
11
Loc. cit.
12
Ibid., vol. I, p. 110.
13
Ibid., vol. I, p. 111.
8
159
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
bello e dolce fuori, ma c’è un verme dentro”). La Kavanagh, che nella sua vita scelse
l’autonomia e l’indipendenza, e non si sposò mai, scorge le cause del cattivo funzionamento dell’istituto matrimoniale in Italia, nelle scarse occasioni che si concedono
alla donna per sviluppare una propria personalità. Ad un napoletano istruito, ma
dotato di tutta la semplicità dei meridionali, il quale depreca il matrimonio quale
fonte di delusione per gli uomini che, dopo il primo entusiasmo, presto si stancano
delle loro mogli, la Kavanagh suggerisce: “Then perhaps […] the low state of female
education makes wives dull company at home”14 (trad.: “Allora, forse […] il cattivo
stato dell’istruzione femminile rende le mogli una compagnia monotona in casa”).
L’uomo approva con prontezza: “our women are not naturally inferior. They are
good-natured, amiable, and lively”15 (trad.: “le nostre donne non sono naturalmente inferiori. Sono benevole, amabili, e vivaci”); riconosce, però, che quella vivacità è destinata a spegnersi col tempo, man mano che la donna si accostuma ad
una vita piatta e priva di stimoli.
L’interesse della Kavanagh si rivolge anche ad altri aspetti contraddittori della società meridionale. A Sorrento ella osserva come “The social life of this little
place is as un-English as its external aspect”16 (trad.: “La vita sociale di questo piccolo posto è tanto antiinglese quanto il suo aspetto esteriore”). Mancano biblioteche, libri, club, concerti, sale da ballo e passeggiate pubbliche. La gente si incontra
soltanto in sporchi caffè, nelle strade, nelle piazze e nelle chiese. L’unica vera fonte
di divertimento per il popolo è la festa, “and a festa is the only token of public life
which a place like this exhibits to a stranger’s eye”17 (trad.: “e una festa è l’unico
segno di vita pubblica che un posto come questo può esibire agli occhi di uno straniero”). Essa è l’unica occasione capace di riunire, per un unico proposito, rappresentanti di tutte le classi sociali: “Take away the festa, and what remains to the
people?”18 (trad.: “togliete la festa, e cosa rimane al popolo?”) La festa ha un doppio
aspetto, quello devozionale e quello gioioso, “and both are thoroughly southern”19
(trad.: “ed entrambi sono completamente meridionali”). Le spese per realizzarla
sono volontariamente sostenute dai cittadini, tanto ricchi quanto poveri. Decorazioni di ogni tipo adornano le case e le chiese della città, tanto che, a volte, queste
ultime assumono un aspetto simile alle colorate pagode cinesi, mentre le cornici
dipinte e le false colonne con capitelli corinzi ostentano un palese cattivo gusto.
“We like them”20 (trad.: “ci piacciono”) è la risposta della gente, che non ammette
repliche, viste le spese sostenute per comprare tanto ciarpame.
Trattandosi di un’irlandese, pertanto più vicina a quelle pratiche religiose
14
Ibid., vol. II, p. 175.
Loc. cit.
16
Ibid., vol. I, p. 66.
17
Ibid., vol. I, p. 73.
18
Loc. cit.
19
Ibid., vol. I, p. 66.
20
Ibid., vol. I, p. 67.
15
160
Rosanna Curci
degli italiani che i viaggiatori protestanti schernivano o addirittura deprecavano, la
Kavanagh coglie nella religiosità della gente del Sud anche elementi positivi. I
festeggiamenti rumorosi, i fuochi d’artificio, o l’orgoglio di un padre che vede il
suo figlioletto prescelto per impersonare il Bambin Gesù nella rappresentazione
del paese per il giorno di Natale, sono “worthy of a poetic people, whose thoughts
must ever take a visible and poetic form”21 (trad.: “degni di un popolo poetico, i cui
pensieri devono sempre prendere una forma visibile e poetica”). È questo un modo
per rendere tangibile il significato di misteri religiosi che, vissuti in modo troppo
esclusivamente spirituale, rischiano di far perdere di vista il loro senso ultimo: “Do
we, indeed, always remember that Christ became a weak little child for our sakes?
We know it, but do we think much of it?22 (trad.: “Ricordiamo noi sempre, invero,
che Cristo si fece piccolo e fragile bimbo per noi? Lo sappiamo, ma ci pensiamo
molto?). I costumi religiosi degli Italiani, “now Italian and once European”23 (trad.:
“ora italiani e una volta europei”) le appaiono belli e toccanti: “Eighteen hundred
and fifty years have passed away, and yet not a day goes by but this people remember
how Christ was born of woman and died for man”24 (trad.: “diciotto secoli e cinquant’anni sono passati, e tuttavia non passa un giorno senza che questo popolo
ricordi come Cristo nacque di donna e morì come uomo”).
A Napoli, comunque, la situazione è diversa dalle altre città meridionali, perché le feste religiose non sono affatto l’unica forma di divertimento a disposizione
del popolo: “Pleasure of all kinds come easily to the Neapolitans, if we may judge
by the quantity of cheap theatres and public shows in the popular parts of the city”25
(trad.: “Piaceri di ogni tipo vengono facili ai Napoletani, a giudicare dalla quantità
di economici teatri e spettacoli pubblici nelle parti popolari della città”). Un’altra
piacevole occupazione dei Napoletani è, poi, la lotteria, per cui in ogni angolo della
città si può incontrare un “lottery-ticket office”26 (trad.: “rivendita di biglietti della
lotteria”). Esso si presenta alla viaggiatrice come un negozio ospitalmente aperto e
privo di porta, decorato con festoni di carta su cui sono scritti numeri e frasi che
invogliano il giocatore a puntare su di essi: “Italian genius shines here in all its
glory”27 (trad.: “Il genio italiano brilla qui in tutta la sua gloria”). Per il popolo è
una vera e propria passione e, come tutte le passioni dei meridionali, ha le sue abbondanti superstizioni, perché “There is still plenty of old superstition here”28 (trad.:
“C’è ancora tanta vecchia superstizione qui”).
La vita quotidiana del Mezzogiorno fa capolino nella narrazione della Kava-
21
Ibid., vol. I, p. 270.
Loc. cit.
23
Ibid., vol. I, p. 13.
24
Loc. cit.
25
Ibid., vol. II, p. 147.
26
Ibid., vol. II, p. 144.
27
Loc. cit.
28
Ibid., vol. II, p. 145.
22
161
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
nagh continuamente; i quadretti pittoreschi, scorci di vita arcaica e fascinosa, riempiono pagine e pagine del diario: donne sporche, con gli scialli in testa, intente a
salire e scendere le scale di una chiesa; fruttivendoli che dispongono arance e limoni
sulle loro bancarelle; venditori ambulanti che danno sfogo a tutta la loro voce per
attirare i clienti; maiali che scorrazzano per le strade in mezzo a bambini che giocano nel fango; mucche portate da una casa all’altra perché ogni famiglia possa mungerne il latte; tutto questo si alterna alle riflessioni sociologiche, offrendo un assaggio del colore locale. Di tanto in tanto, poi, si ode un tamburello in lontananza,
segno che da qualche parte qualcuno sta ballando la tarantella, danza che l’autrice
vede come una reliquia pagana, un misto di ballo e pantomima, una sorta di rustico
corteggiamento, in cui l’uomo ammicca alla donna ed ella “lures him on, laughs at
him, and jilts him, or will do some day”29 (trad.: “lo alletta, gli sorride, e lo pianta in
asso, o lo farà un giorno”). Il significato della tarantella non può essere frainteso,
così diversa com’è dalle quadriglie, il cui senso non va al di là del semplice movimento. I ballerini della tarantella che si esibiscono dinanzi a lei, invece, “danced
admirably - their bare feet kept better time than many dainty feet in satin shoes their gestures, though concise, were most expressive”30 (trad.: “danzavano in modo
mirabile - i loro piedi nudi tenevano il tempo meglio di tanti piedi delicati in scarpe
di seta - i loro gesti, sebbene concisi, erano i più espressivi”).
In questi modi primitivi di vita c’è una poesia che i paesi più avanzati hanno
dimenticato. In una terra minacciata da un vulcano che potrebbe risvegliarsi in qualsiasi momento, e devastata dal colera, che riempie di vittime i cimiteri, il cocchiere
napoletano cui la Kavanagh chiede se queste cose non gli incutano timore, può
rispondere: “Afraid! No, Signora. When the Lord wants a flowers, he gathers it”31
(trad.: “Paura! No, signora. Quando il Signore vuole un fiore, lo coglie”). L’autrice
osserva: “could he had answered better? - but, alas! Fancy a London cabman calling
himself a flower!”32 (trad.: “avrebbe potuto rispondere meglio? - ma, ahimè! Immaginate un vetturino londinese che chiami se stesso un fiore!”). I popoli più moderni riservano la loro poesia solo per i libri, esiliandola dal quotidiano, quasi per
paura che qualcuno possa riderne; nel concreto, poi, “do a hundred foolish things
that draw on them the ridicule of their poetic neighbours”33 (trad.: “fanno cento
cose sciocche che gettano su di loro il ridicolo dei loro poetici vicini”).
Non c’è traccia di razzismo in queste pagine. In più di un’occasione, ad
esempio, la Kavanagh smentisce la fama negativa dei napoletani: “The vice, the
cruelty, of which they are accused, we have not seen. We have even gained no
practical knowledge of the disonesty for which they are so famous”34 (trad.: “Il
29
Ibid., vol. II, p. 206.
Ibid., vol. II, p. 205.
31
Ibid., vol. II, p. 107.
32
Loc. cit.
33
Ibid., vol. II, p. 108.
34
Ibid., vol. II, p. 164.
30
162
Rosanna Curci
vizio, la crudeltà, di cui sono accusati, non li abbiamo visti. Non abbiamo avuto
alcuna conoscenza pratica della disonestà per cui sono così famosi”). Sono gli
stessi italiani delle altre città a metterla in guardia, o a volte perfino napoletani
snob, come la signora che a Sorrento sussurra a Julia, con un gesto di disgusto:
“Neapolitan are such animals […] and foreigners are so amiable”35 (trad.: “I napoletani sono dei tali animali […] e gli stranieri sono così amabili”). In realtà
l’atteggiamento dell’autrice tende ad essere sempre benevolo, come quando si
mostra comprensiva verso i bambini che saccheggiano con fare vandalico la vegetazione del giardino botanico di Napoli: “At first, it annoyed me”36 (trad.: “All’inizio, mi diede fastidio”), ma il pensiero che i cespugli e gli alberi denudati
impiegheranno poco tempo a rivestirsi nuovamente dei loro frutti, le fa pensare
che sia “a pity to grudge the poor children their cheap and pleasant treat”37 (trad.:
“un peccato serbar rancore ai poveri bambini per il loro economico e piacevole
banchetto”). In realtà l’autrice viene a conoscenza, sebbene per interposta persona, di storie terribili di rapine e furti finiti nel sangue, avvenuti nel napoletano, ma
a chi le racconta “wonderful stories of the dexterity of Neapolitan pickpockets”38
(trad.: “storie meravigliose sulla destrezza dei borsaioli napoletani”) ella risponde con “stories as wonderful of the London pickpockets”39 (trad.: “storie altrettanto meravigliose dei borsaioli londinesi”). Con acume, ella analizza il problema
della delinquenza napoletana, rilevando come ciò che la caratterizza sia il fatto
che la polizia non fa nulla per contrastarla, anzi è in lega con essa, ed è perciò
“more pernicious than useful”40 (trad.: “più perniciosa che utile”). L’unico limite
a questa alleanza tra ladri e polizia è che quest’ultima non ammette il possesso di
armi da fuoco, proibito a tutte le classi di cittadini. È per questo che, chi riesce
ugualmente a possedere una pistola, può ritenersi davvero al sicuro, per le strade
della città: “The Neapolitan thief fears neither the stick nor the knife, but firearms, which he has never handled and rarely seen, inspire him with mortal dread”41
(trad.: “Il ladro napoletano non teme né il bastone né il coltello, ma le armi da
fuoco, che non ha mai maneggiato e raramente visto, lo riempiono di un terrore
mortale”). In conclusione, le vie di Napoli appaiono alla scrittrice insicure quanto lo erano le grandi città cento anni prima, e quanto ancora lo sono alcune parti
di ogni città.
I Napoletani, poi, sono dotati di uno spirito proverbiale, che si esprime spesso nei soprannomi satirici, come quelli che usano per definire gli inglesi, che sono
35
Ibid., vol. I, p. 273.
Ibid., vol. II, p. 102.
37
Ibid., vol. II, p.103.
38
Ibid., vol. II, p. 164.
39
Loc. cit.
40
Ibid., vol. II, p. 165.
41
Ibid., vol. II, p. 166.
36
163
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
“sea-robbers”42 (trad.: “predoni del mare”), e quello per gli austriaci, “who are
cordially detested here as in the rest of Italy”43 (trad.: “che sono cordialmente detestati qui come nel resto d’Italia”), e che sono chiamati “tallaw-eaters”44 (trad.:
“mangiatori di sego”). In effetti, nel sud l’odio per gli austriaci non prende le forme
tragiche che esso assume nel nord, ma “the Swiss soldiers, whom the king keeps,
nourish them in the hatred of the Tedesco, and that hatred often takes the form of
insult”45 (trad.: “i soldati svizzeri, che mantiene il Re, li nutrono dell’odio del Tedesco, e quell’odio spesso prende la forma dell’insulto”). Parlare delle questioni politiche napoletane, confessa la Kavanagh, non è facile: ella può gettare solo “glimpses
of things”46 (trad.: “occhiate di sfuggita delle cose”), perché si può parlare
diffusamente solo di ciò che si è visto e conosciuto a fondo, soprattutto quando si
tratta di “great questions”47 (trad.: “questioni importanti”), e non è questo il caso,
perché a Napoli “As a rule, politics are not spoken […] it is not safe”48 (trad.: “Di
regola, di politica non si parla; non è sicuro”). Lo stesso odio che i napoletani hanno per gli oppressori austriaci, osserva la scrittrice, è rivolto verso i napoletani stessi dai siciliani. A Napoli, infatti, anche i liberali guardano con compiacimento alla
soggezione dell’isola, e nei loro sogni di indipendenza politica, la Sicilia non ha
diritti. Il turista, nota la Kavanagh, deve essere un osservatore esterno, ma in questo
caso è facile comprendere il motivo di questi sentimenti: “just as the Neapolitan
hates the German, who hates the Russian, who hates the Turk, who hates the
Christian, and so on, ad infinitum, all the world over”49 (trad.: “proprio come il
Napoletano odia il Tedesco, che odia il Russo, che odia il Turco, che odia il Cristiano, e così via, ad infinitum, in tutto il mondo”).
L’organizzazione della società meridionale negli ultimi decenni del Regno è
spiegata esaustivamente nello studio su Sorrento: “The most important person in
the place is the archbishop”50 (trad.: “La persona più importante del luogo è l’arcivescovo”), seguito dal Barone, di antica e ricca famiglia, come la Contessa, “another
specimen of Sorrento aristocracy”51 (trad.: “un altro esemplare dell’aristocrazia
sorrentina”), la quale, pur mantenendo il contegno e l’atteggiamento altezzoso richiesti dal suo titolo, è invero ridotta alla povertà. Queste sopravvivenze della nobiltà feudale italiana sono il ricordo di tempi andati, prive come sono, ormai, del
potere politico di cui godevano prima dei cambiamenti che vennero con il governo
di Murat; essi, però, incuriosiscono la scrittrice come “fair illustrations of a peculiar
42
Ibid., vol. II, p. 158.
Loc. cit.
44
Loc. cit.
45
Ibid., vol. II, p. 159.
46
Ibid., vol. II, p. 156.
47
Loc. cit.
48
Ibid., vol. II, p. 157.
49
Ibid., vol. II, p. 36.
50
Ibid., vol. I, p. 72.
51
Ibid., vol. I, p. 76.
43
164
Rosanna Curci
little world”52 (trad.: “belle illustrazioni di un peculiare piccolo mondo”). E in questo piccolo mondo, non solo non è sicuro parlare di politica, ma neppure leggere
libri, di qualsiasi argomento essi trattino. L’ignoranza che regna tra la popolazione,
dunque, non è solo conseguenza della diffusa povertà e arretratezza, ma soprattutto degli atteggiamenti oppressivi del governo, che persegue e tiene d’occhio chi
legge, perché sospettato di essere un repubblicano.
Al contrario, il governo tollera le piccole forme di corruzione, come la cosiddetta “bottiglia”, l’offerta di denaro che è parte del sistema sociale di tutto il
sud, e che garantisce la realizzazione di qualsiasi impresa: “The bottle is a wonderful
thing in Italy, as wonderful as ever was Alladin’s lamp in the celestial empire”53
(trad.: “La bottiglia è una cosa meravigliosa in Italia, tanto meravigliosa quanto la
lampada di Aladino lo era nell’impero celeste”). Benché diffusa in tutta l’Italia, in
nessun luogo essa si svolge così liberamente e alla luce del sole come nel Regno di
Napoli. Qui essa si attua anche alle varie dogane: per una somma che può variare
da pochi carlini a molte piastre, a seconda delle circostanze, questo espediente
consente di evitare noiose perdite di tempo e il fastidio di vedere i propri bagagli
aperti ed esaminati. “They do not do those dirty things in your country”54 (trad.:
“Non si fanno queste cose sporche nel vostro paese”), osserva un napoletano,
“But poor fellows, it is not their fault; they are not well paid, and they must live”55
(trad.: “Ma, poveretti, non è colpa loro; non sono ben pagati e devono campare”).
I controlli si succedono spesso a brevi intervalli e, sebbene il cambio favorevole
agli inglesi consenta loro di fare offerte generose senza che ciò costi loro troppo,
quando le richieste di denaro diventano troppo insistenti, c’è la possibilità, con
un po’ di pertinacia, di riuscire a superare indenni gli sbarramenti, senza controlli
né ulteriori spese: infatti, “if travellers hate to have their luggage visited, they
may be sure that the lazy Neapolitan Gabelliere hates the whole affair as much as
they do”56 (trad.: “se i viaggiatori odiano che i loro bagagli siano esaminati, possono star sicuri che il pigro Gabelliere napoletano odia l’intero affare tanto quanto loro”).
Vale la pena, però, di affrontare i piccoli sacrifici di una ricezione turistica
ancora imperfetta, per vedere lo spettacolo che i paesaggi meridionali offrono allo
sguardo del viaggiatore: “The lightness of the air, and the brightness of everything
seem to me to breathe happy cheerfulness and the spirit of content”57 (trad.: “La
leggerezza dell’aria, e la luminosità di ogni cosa mi sembrano infondere gioia felice
e spirito di letizia”). I Sorrentini dicono della loro aria natia che ridarebbe vita ai
52
Ibid., vol. I, p. 81.
Ibid., vol. I, p. 284.
54
Ibid., vol. I, pp. 285-286.
55
Ibid., vol. I, pag. 286.
56
Ibid., vol. I, p. 288.
57
Ibid., vol. I, pp. 144-145.
53
165
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
morti, ma “it certainly doubles the sense of life to the living”58 (trad.: “essa raddoppia certamente il senso della vita nei viventi”). L’effetto sulla mente, infatti, è fortissimo: tutto è colore, nettezza di linee e, soprattutto, luce: “Light literally paints
in Italy - every object is drawn in keen lines, in strong colours”59 (trad.: “La luce
letteralmente dipinge l’Italia - ogni oggetto è disegnato in linee vive, in forti colori”). Ciò che distingue il paesaggio italiano non è il vago terrore e il rapimento che
genera il senso del sublime: il piacere che si prova quando si rivive in “forma di
diletto colmo d’orrore”60 il terrore suscitato dal dolore e dal pericolo, è sconosciuto agli italiani. I popoli del nord hanno imparato ad amare “the wild heath, the
barren peak, the cold, grey lake and the barrier of mountain and mist”61 (trad.: “la
brughiera selvaggia, l’arida vetta, il lago freddo e grigio e la barriera della montagna
e della nebbia”); gli italiani, invece, sanno che gli stranieri cercano questi scenari,
che si deliziano con il pittoresco, ma non ne intendono la ragione: “no Italian that
I ever met with really liked mountain scenery […] High wind has no music for
them”62 (trad.: “a nessun italiano che abbia mai incontrato piaceva lo scenario montano. […] Il vento forte non ha musica per loro”). Le nuvole che si accumulano
scure e minacciose sopra le montagne sono solo motivo di angoscia per gli italiani,
i quali sopportano la pioggia in quanto “a necessary evil”63 (trad.: “un male necessario”) che serve a rendere fertile la terra, ma giudicano che “a storm is a calamity”64 (trad.: “una tempesta è una calamità”) e un’eruzione del Vesuvio li riempie
soltanto di orrore: “it is with a shudder that Carmela tells me of the three fiery
moaths […] which opened last year in the flanks of the mountains”65 (trad.: “È con
un fremito d’orrore che Carmela mi racconta delle tre bocche infocate […] che si
sono aperte l’anno scorso sui fianchi della montagna”). I paesaggi in cui essi si deliziano sono gli stessi che rapivano i sensi degli antichi: gli scenari calmi e imperturbati che si disegnano nelle pagine di Virgilio, la valletta incantata e il Paradiso terrestre di Dante, sono ciò che più può cullare il loro spirito.
Il gusto moderno per il pittoresco ed il sublime non ha attecchito fra gli italiani, restando escluso anche dalla loro immaginazione letteraria: è per questo che
un libro come I Promessi Sposi non è divenuto popolare fuori d’Italia, perché “it is
too calm, too serene”66 (trad.: “È troppo calmo, troppo sereno”). C’è, nelle sue
pagine, tutta la natura del popolo italiano: “only in Italy, and by an Italian, could
these pages have been written”67 (trad.: “solo in Italia, e da un italiano, avrebbero
58
Ibid., vol. I, p. 145.
Loc. cit.
60
Mirella BILLI, Il gotico inglese, Milano, il Mulino, 1986, p. 23.
61
J. KAVANAGH, Preface to A Summer and Winter in the two Sicilie…, vol. I, p. 155.
62
Loc. cit.
63
Ibid., vol. I, p. 156.
64
Loc. cit.
65
Loc. cit.
66
Ibid., vol. I, p. 158.
67
Ibid., vol. I, p. 157.
59
166
Rosanna Curci
potuto essere scritte queste pagine”). Si avvertono in esso i costumi di questa gente,
in cui c’è la stessa grazia e la stessa poesia che si trova nel paesaggio: “they are clear
and positive, like it, in their feelings and in their actions”68 (trad.: “sono sereni, vivi
e positivi, come esso, nei loro sentimenti e nelle loro azioni”). Le loro passioni e le
loro sensazioni, nel bene e nel male, possono essere acute, ma “not becuse they are
romantic, but because life flows swiftly through them like light through their skies”69
(trad.: “non perché siano romantici, ma perché la vita fluisce dolcemente attraverso
di loro come la luce attraverso i loro cieli”). Una volta sfogata la passione, però,
“the Italian returns to that masterdom of himself which is his greatness”70 (trad.:
“l’Italiano ritorna a quel dominio di sé che è la sua grandezza”). Questo stesso
controllo di sé si trova anche tra i personaggi manzoniani, i quali sopportano troppo pazientemente e parlano troppo quietamente. Inoltre “Lucia is too simple, Renzo
is too calm, Don Abbondio is too pitilessly commonplace”71 (trad.: “Lucia è troppo
semplice, Renzo è troppo calmo, Don Abbondio è troppo pietosamente ordinario”), ragion per cui essi “disappoint imaginative minds”72 (trad.: “deludono le menti
immaginose”). Il carattere nazionale riflette perciò la natura paesaggistica dell’Italia: in entrambi c’è la stessa pacatezza e placidità, così diversa dall’impeto e dal
furore romantici in voga in tutto il nord d’Europa.
Ma “This is the charm of Italy”73 (trad.: “Questo è il fascino dell’Italia”): il
cielo limpido, l’ampiezza dell’orizzonte, lo splendore dei tramonti, la fertilità dei
giardini, il profumo degli aranceti, il dolce canto dei merli e degli usignoli, e soprattutto “the sun from morning until night”74 (trad.: “il sole dal mattino alla sera”). La
luce solare, riflessa sulle mura delle case bianche e sparsa sui vigneti, diventa a volte
abbagliante: “We looked with rapture, and at last turned away, dazzled with so
much light and beauty”75 (trad.: “Guardammo con rapimento, e alla fine ci voltammo, abbagliati da tanta luce e bellezza”). Nei giardini di Palermo si può vedere
crescere liberamente una vegetazione che nei paesi settentrionali si può ammirare
solo nelle serre, dove quegli stessi splendidi alberi e fiori che qui incantano il viaggiatore proprio perché “unsheltered by glass prisons, unfostered by the heat of stove”76
(trad.: “non protetti da prigioni di vetro, non nutriti dal caldo della stufa o del
vapore”) sono “associated with prison-like confinement and suffocating heat”77 (trad.:
“associati con un confino simile a una prigione e con un caldo soffocante”).
68
Ibid., vol. I, p. 152.
Loc. cit.
70
Loc. cit.
71
Ibid., vol. I, p. 159.
72
Loc. cit.
73
Ibid., vol. II, p. 182.
74
Ibid., vol. I, pp. 155-156.
75
Ibid., vol. I, p. 204.
76
Ibid., vol. II, p. 81.
77
Loc. cit.
69
167
Julia Kavanagh nelle Due Sicilie
Quello del sud è, dunque, un paesaggio arcadico e incontaminato, in cui lo
stato di benessere prodotto dal clima e dalla purezza dell’aria si associa ad un ritrovato senso di libertà, un risvegliarsi delle sensazioni, un diverso modo di sentire la
vita, tanto più importante quando la viaggiatrice è una donna. L’identificazione
dell’Italia come il luogo di un sentire totale, nel quale il rigoglio spontaneo della
natura si accompagna ad altrettanto franchi e spontanei stili di comportamento,
ridesta nella scrittrice la consapevolezza del proprio diritto ad esistere in quanto
donna, come soggetto umano dotato di sensibilità e volontà, e la esorta a denunciare i modi in cui questo stesso diritto è negato alle donne italiane.
Qui sta, appunto, l’originalità di questo diario di viaggio, in come esso offra
una lettura del tour nel meridione da una prospettiva prettamente femminile. La
sensibilità verso la condizione della donna percorre tutto il resoconto, promuovendo riflessioni di genere anche quando le visite ai siti archeologici le richiamano alla
mente il destino della donna nel mondo romano,78 o quando l’immagine di Briseide
le sembra incarnare “the ancient ideal of woman’s loveliness”79 (trad. “l’antico ideale della grazia della donna”), intesa com’è solo a suscitare il piacere e l’ammirazione dell’uomo, per cui “respect, tenderness, love, she never can command” (trad.:
“rispetto, tenerezza, amore, ella non può mai comandare”).80 L’autrice di tante inchieste sulla politica di genere nella storia, sulla letteratura delle donne in Inghilterra e in Francia, dunque, è qui visibilmente presente, in questa personalissima lettura
del Regno delle Due Sicilie alla metà dell’Ottocento, ingiustamente trascurata e
dimenticata, pur entro il crescente interesse della critica verso la letteratura odeporica.
78
Ibid., vol. I, p. 293.
Ibid., vol. I, p. 299.
80
Ibid., vol. I, p. 300.
79
168
Felice Clima
Il processo contro Firenze
ne la Procìna del XIII secolo1
tra palazzi e domus imperiali di Capitanata
di Felice Clima
A la Procìna correva l’anno dell’incarnazione di Nostro Signore Gesù 1232,
nove del mese di dicembre e il dodicesimo del Nostro Signore Federico, per Grazia
di Dio, Imperatore sempre Augusto dei Romani.
1. Il Castellum
Nell’Aula Magna delle Udienze Imperiali nell’ala nord verso la torre rotonda nel Castello di Procinae,2 esposto sul colle alla fresca brezza della Maiella, spruzzata già della prima neve dell’inverno e baciato dal sole ormai levatosi da qualche
ora dalla chiostra dei monti del Gargano, emergenti dall’Adriatico luminoso e che
si specchiavano nell’azzurro metallico del suo cielo, il brusio del popolo variegato,
1
Liberamente ispirato dalla sentenza della Gran Corte dell’Imperatore Federico II il 9 dicembre 1232 nella
Domus Procina. La sentenza è uno dei 25 documenti e provvedimenti così come raccolti in Jean Louis HUILLARD
BREHOLLES, Historia Diplomatica Federici Secundi, Parigi, Plon fratres, 1852-1861. Essa venne emessa in
Apricena alla presenza dell’Imperatore, del Logoteta Pier delle Vigne e dei dignitari della cancelleria imperiale
e coinvolse le Università di Siena e Firenze, all’epoca fieramente antagoniste. Cfr. ARCHIVIO DI STATO DI SIENA,
Pergamena, Diplomatico Riformazioni, scheda n. 257 e ARCHIVIO STORICO DI APRICENA, Pergamena di mm.390
x 450 ora conservata nella scheda n.11 curata da G. Brunetti.
2
Cfr. Dankvart LEISTIKOW, Castelli e Palazzi nella Capitanata del XIII secolo, Foggia, Amministrazione
Provinciale, 1989, in cui è indicato in Apricena l’esistenza di una Domus (ma anche quale Castrum?) ai margini
settentrionali del Monte Gargano, quale luogo di soggiorno preferito dall’Imperatore Federico II (con i resti di
una costruzione sveva nella torre rotonda, tuttora esistente (?)), Arthur HASELOFF, Architettura sveva nell’Italia
Meridionale, traduzione di Leopoldo Bibbò, Bari, Adda, 1992, e Consalvo DI TARANTO, La Capitanata al tempo dei Normanni e degli Svevi, a cura di Antonio Ventura, Foggia, Edizioni del Rosone, 1994. Sull’ipotesi di
suddivisione degli ambienti della residenza imperiale di Apricena vedi: Felice CLIMA, Apricena ...percorsi, Foggia, Tipografia Litostampa, 1998. La domus solaciorum Precinae era terra regia, frequentata abitualmente dall’imperatore svevo a conferma dell’ “Exemplum Apuliae, cum solatiis nostris Capitanatae provinciam frequentius
visitemus et magis quam in aliis regni nostri moram saepius trahimus ibidem”. Nell’istruttoria del procedimento
e soprattutto nella stesura delle sentenze, molta influenza ebbe l’elemento laico dei membri della Curia, di provenienza non necessariamente nobile, ma purché di provata valentia, formatasi alla scuola siciliana o bolognese
e perfezionata alla giovane università di Napoli; sull’argomento vedi: Antonio DE STEFANO, La cultura della
Corte di Federico II, Imperatore, Bologna, Zanichelli, 1950.
169
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
assiepato in attesa del processo, a stento trattenuto oltre la transennatura dalle guardie
saracene, cessò d’incanto all’apparire del Gran Cerimoniere.
Un fragoroso squillo di tromba dagli spalti e, spalancata la porta del Salone,
dagli appartamenti imperiali nell’ala di sud-est della opulenta Domus, preceduto
dal nuncius, incedeva il Rex Romanorum Federico II di Svevia.3 Avvolto nella lunga veste cremisi bordata d’oro4 delle grandi occasioni, con la stola di leopardo ad
abbracciargli il collo, biondo, con sfumature ramate il crine, appena smosso, sguardo tagliente nel volto glabro e serio, s’assise in alto sul trono eburneo.5
Dalle finestre screziate tra le lamelle di vetro colorate e martellate nelle
incernierature metalliche di congiunzione, i raggi obliqui del primo sole accendevano vieppiù le vestimenta arabescate di rito indossate con gran pompa dai Giudici
del Tribunale dispostisi negli scranni del salone.
2. La caccia al cinghiale
Per i boschi fitti a piè del Colle di Bellumvideri6 prima di S. Annea7 sulle rive
ubertuose, tagliate dalla corrente tiepida del Caldulo,8 in groppa a “Biscrane”,9 lo
stallone arabo che conosceva gli antichi sentieri attraverso le forre delle aspre colline del monte e ancor più degli stagni delle paludi della Sacca ad oriente di Alesinae,10
il giorno antecedente, con al fianco il fido scudiero del borgo, Taddeo de Procìna,
che stentava a tenergli il passo, il biondo sire aveva lungamente rincorso la turba di
cani alla scova del grosso cinghiale fulvo, appena intravisto tra i macchioni di rovi,
ginestre e salicornia11 e tra gli ‘sguacci’ fangosi e i cutini umidi del bosco.
3
Gli Svevi erano gli originali abitanti della Svevia, in Germania, ove possedevano il castello di Zaringhen.
Che ricordava sotto molti aspetti il “manto d’oro”, la veste indossata da Federico II per la sua incoronazione, tessuta dagli arabi nel 1134 per il nonno Ruggero II (ora conservata a Vienna presso il Museo Storico;
cfr. Angela PICCA, Syfridina, Roma, Ed. CIAC, 1999. Cfr. anche infra Felice CLIMA, Leggende, microstorie e
storie di Capitanata, Foggia, Bastogi, 1999, cap. II, “La cena del cinghiale dell’Imperatore Federico II nella
Domus Precinae”.
5
Sui caratteri somatici dell’Imperatore, cfr. Renato RUSSI, Federico II, Barletta, Rotas, 1934.
6
Il tenimento di Bellumvideri era ubicato in agro di Apricena, approssimativamente nell’area d’attorno
all’attuale chiesa della Madonna della Selva della Rocca (vedi innanzi Castelli, tenimenti, abazie... legati alla
Domus).
7
Dell’insediamento monastico alto medioevale di S. Annea esistono tutt’ora le vestigia nella masseria sul
bordo della collina, oltre Sannazario, in fronte quasi alla masseria detta dei “Cinque balconi” ben visibili dalla
S.S.V. del Gargano.
8
Il Caldulo è un piccolo fiumicello che porta al lago di Lesina, creato dalle sorgenti calde e terapeutiche che
sgorgano ai margini dell’areale della chiesa di Sannazario, che anticamente alimentavano i mulini già citati in
una disputa tra i monasteri di Santa Maria di Tremiti e quelli di San Giovanni in Piano sin dal ‘300.
9
Letteralmente “dalla testa grande”, quasi doppia, per indicarne la possanza, da collegarsi in qualche modo
ai famosi puledri arabi, discendenti dalle cavalle di Maometto: Abbajah, Habdah, Hamdanjak, Kobailah,
Sakliwijah.
10
Tutt’ora l’area della Sacca orientale del lago di Lesina, ormai bonificata, esiste, e la parte del lago così
indicata è stata oggetto di secolari dispute tra i comuni di Lesina e Sannicandro G.co.
11
Detta volgarmente sav’zaridd’ , pianta che cresce spontanea nelle zone salmastre.
4
170
Felice Clima
L’apparire e scomparire del grosso suide che sfuggiva alla muta, aveva invasato il gruppo dei cacciatori. Cortigiani audaci e cavalieri temprati anche alla pugna, e
la scorta tutta, si erano dispersi ed inseguivano a loro volta e la preda nella disperata
fuga liberatoria e l’Augusto cacciatore che li precedeva, tutto preso ormai nel
“braccaggio”.
Nel buio dei cappuccetti, i falchi sballottolati sul braccio dei falconieri fedeli,
che seguivano il sire nella scorribanda ormai irrefrenabile, erano rimasti questa volta inoperosi..., e tortore e colombacci dei declivi olivetati delle prime balze del belvedere potevano volare sicuri nell’aria fredda del primo mattino di quell’inverno
della prima metà del ‘200.
E finalmente nell’ultima radura, prima del cutino di Podalirio,12 in cui si era
inconsciamente cacciato, spinto ormai dai cani alle prossime terga, il cinghiale offrì
il fianco alla freccia precisa e ferale del Signore.
Scarrocciando sulle zampe, un ultimo inutile balzo, e la ressa della muta abbaiante vi fu d’attorno sulla ghiaiata, che presto si arrossò di sangue...!13
3. La corte
Sin dalle lontane terre di Piemonte e di Germania, da Teati nell’Abruzzo
Citeriore e dalla Terra del Lavoro erano convenuti a la Procìna ed ora alla destra
del Signore sedevano i Magistrati: Gherardo de Arnstein,14 Simone Teatino,15
12
La polla sorgiva, che ora viene nomata di Sannazario è stata per millenni utilizzata per bagni termali.
Nell’antichità era dedicata al culto di Calcante e Podalirio.
13
Lo stesso nome di Apricena, per secoli è stato - peraltro impropriamente - legato alla caccia del cinghiale
da parte dell’Imperatore; vedi tra le leggende in F. CLIMA, Apricena…percorsi…, cit., “La cena del cinghiale
dell’Imperatore Federico II nella Domus Precinae. Sapori e colori della Daunia sul desco imperiale”, p. 102. I
sovrani altomedioevali erano a capo di un sistema sociale in cui la guerra e l’uso delle armi ricoprivano un
ruolo predominante e la caccia era intesa - solo marginalmente come ludes -, bensì come momento finalizzato
a mostrare e a riconfermare ai sudditi (ma anche a se medesimi) la forza e l’audacia indispensabili ad adempiere alle funzioni del proprio ruolo. La caccia veniva praticata con armi da guerra, soprattutto con spade e
pugnali, talora con l’arco. Peraltro, così come per molti altri usi e costumi - oltre che per esperienze filosofiche
e scientifiche - Federico II ha attinto a piene mani dal mondo arabo che privilegiava la caccia con i rapaci. Una
dimostrazione è data dal trattato De arte venandi cum avibus dello stesso Imperatore; cfr. Ortensio ZECCHINO,
Prefazione, in FEDERICO II, De arte venandi cum avibus, a cura di Anna Laura Trombetti Budriesi, Bari,
Laterza, 2000.
14
Gherardo de Arnstein o Gaybarro, nobile turingio del folto seguito di Federico II, nominato Legato
Imperiale di Toscana, è noto per aver concluso un accordo con Firenze, sì da consentire il passaggio della
Toscana tutta nelle salde mani dell’Imperatore. Con Ermanno de Salza, Gran Maestro dell’Ordine Teutonico
venne messo a capo della Città di Verona, e quindi unitamente ad Ezzellino da Romano occuparono Padova
e Treviso, cosicché tutta l’Italia settentrionale ad est della linea Ferrara/Verona, passava all’Impero; cfr. Ernst
KANTOROWICZ, Federico II, Milano, Garzanti, 1976, pp. 382, 417, 429, 434.
15
Troviamo un Simone Teatino (cfr. E. KANTOROWICZ, Federico II…, cit., pp. 356 e 351) accanto ad un
Cipriano de Theati, tra i Vicari Generale e Podestà Imperiali dopo la divisione dell’Italia del nord in Vicariati,
quali podestà di Padova nel 1237. Queste e le altre cariche più elevate di preferenza assegnate ai pugliesi (intesi
in senso lato quali provenienti da tutta l’Italia meridionale) cresciuti nell’ambiente imperiale. Il Salimbene
171
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
Manfredo Lancia,16 Thoma de Aquino, comite Acerranum. 17
Dai boni homines del borgo erano stati convocati e quindi alla sinistra sedevano i Giurati di Procìnae:18 Johannes Maynardus, baiulus, Roberto De Maiorano,
dominus, Robertus De Manfredo, de Madalberto Silvester.
Petrus De Vinea,19 il Logoteta e Primo Giudice a latere dextrum,
- letto lo sguardo loquace dell’Imperatore nel suo viso, appena piegato nell’assenso;
- accertata la regolare costituzione della Gran Corte Imperiale;
- constatata l’assenza dell’Università di Firenze regolarmente citata dal funzionario imperiale Giudice Pellegrino e giudicanda in contumacia, imputata della mancata osservanza dell’ordine dell’Imperatore di non muovere
guerra all’Università di Siena;
- nominato quindi difensore di ufficio dell’Università di Firenze l’Avvocato e Giudice de Procìna Giovanni de Gigura,20 chiamato in udienza;
- rilevata la presenza di Guidottus Luccensis,21 denunziante anche per l’Uni-
tracciando un quadro dell’amministrazione Appula in Italia designa i Vicari come Principi. Cfr. Antonio
MORSOLETTO, Giovanni da Apricena, un capitano imperiale de Apulia nella Vicenza del Duecento, Vicenza,
La Serenissima, 1995, “Miles omni morum honestate preclarus”.
16
Dell’antica famiglia piemontese dei Lancia, unitamente al fratello Giordanino, fu uno dei fedelissimi
dello Svevo. Alla stessa famiglia apparteneva Bianca, quarta moglie dell’imperatore, più amante che moglie, e
quasi certamente, la più amata; cfr. Joseph MUHLBERGER, Donne sveve, traduzione di Leopoldo Bibbò, Bari,
Adda, 1979. Da non confondersi con lo zio Manfredi Maletta (? - 1270), gran cerimoniere e poeta. Al suo
nome è forse legata la costruzione della torre costiera in agro di Sannicandro G.co, tutt’ora esistente e nota
con il nome di Torre Mileto; cfr. A. PICCA, Syfridina…, cit.
17
Per penetrare nel suo Regno del sud-est dell’Italia meridionale, diretto a Capua l’Imperatore si appoggiò ad
alcune famiglie nobili dell’area cassinese, fra queste le famiglie dei Cicala, degli Eboli, ma soprattutto degli Aquino.
Di questa, Tommaso venne nominato Gran Giustiziere di Terra di Lavoro e delle Puglie oltre che della Contea di
Acerra. Ritroviamo lo stesso quale Vicario Imperiale in Siria, durante la Crociata; successivamente quale inviato
speciale a Capua con il comando di quella guarnigione a resistere alla truppe fedeli al Papa che assediavano la
piazzaforte; e sempre vicino all’Imperatore in molte altre circostanze, anche quale suo fedele rappresentante
unitamente a Taddeo da Sessa, Enrico Morra e all’Arcivescovo di Palermo nel Governo della Sicilia.
18
Ipotizzati quali Giurati, anche se non riscontrati nel documento esaminato ma si riferiscono peraltro a personaggi storicamente certi che si ritrovano nel Quaternus excadenciarum di Federico II di Svevia (nella traduzione di
Giuseppe De Troia, edita nel 1994 dalla Banca del Monte). I Giurati possono essere considerati dei funzionari
pubblici in grado di conoscere leggi e regole da far rispettare e gli uomini tenuti al rispetto delle stesse e delle
“scadenze”. Per gli altri Giurati e gli altri personaggi tenuti al rispetto delle scadenze, (rectius delle obbligazioni!) e
sulle contrade di Apricena rilevabili dal sopraddetto Quaternus, cfr. CLIMA, Apricena… percorsi…, cit.
19
Pier Delle Vigne (Capua 1190 - Torre di San Miniato di Pisa 1249), noto anche quale astrologo di Corte,
addottoratosi a Bologna fu notaio presso la Corte di Federico II, giudice della Magna Curia (1225-1234) e uno
dei più fidati collaboratori dell’Imperatore. Peraltro, sospettato di aver partecipato alla congiura di Sala e
Capaccio, fu imprigionato e rinchiuso nella torre di San Miniato, ove, pare, si suicidò. Altro astrologo alla
Corte dell’Imperatore (e di quella di Ezzellino da Romano) era anche Guido Bonatti ; cfr. PICCA, op. cit..
20
È indicato tra i Giurati nello Scadenziario federiciano.
21
Di Guidotto di Lucca, così tradotto dal tardo latino Guidottus Luccensis non si hanno notizie storiche atte
ad individuarlo con esattezza. Nel Quaternus il De Troia, indica un Guido quale Judex. Si deve ritenere sia stato
un personaggio imparziale, comunque dotato di acume critico e osservazioni obiettive del mondo toscano dell’epoca, incaricato dell’accertamento dei fatti di cui è causa dallo stesso documentate e prodotte in udienza.
172
Felice Clima
versità di Siena, parte offesa, e del Giudice Pellegrino, inquirente imperiale;22
- nominato Cancelliere il Gran Camerario Riccardo,23 diede inizio all’Udienza nell’aula gremita, in cui - pur anche - spiccavano ospiti di rango in gran
pompa nel matroneo di fondo, sospeso sulla turba variegata e rumorosa
alquanto, di borghigiani incuriositi dall’insolito avvenimento.
4. Il borgo24
L’ultima pia donnetta del borgo, abbracciato al castellum, gonna scura scampanata sin sulle pianelle appuntite e foderate, stretta in vita nel corpetto dalla
“baschina” chiara, di lana frusta, tirata al collo sottile da cui pendeva l’immagine
devozionale della Madonna di Lurito25 della Murgetta vicina, che appariva e scompariva tra le pieghe del pesante facc’l’tton26 che le ricadeva sulle spalle coprendole le
trecce nere raccolte in canestro sul viso compunto e gentile, chiuso sotto il mento
dalle due dita piegate, rigiratasi sui gradini del sagrato dell’antica chiesa di San
Martino per il saluto al Signore, guardò quasi timorosa verso il ‘Palazzo’.
Incessante era, nel cortile, l’arrivo e il movimento di cavalli e cavalieri, e per
le ampie scalinate e per i corridoi di accesso ai saloni la vita e l’andirivieni di paggi,
scudieri, e personaggi di alto rango per la Gran Corte.
Cessati botti e falò festosi, celebrativi per l’arrivo dell’Augusto ospite, sul
cardo,27 l’antico cuore del vecchio borgo, che da Capo Terra menava alla Porta del
Signore, la vita aveva ripreso il ritmo di sempre: le botteghe avevano riaperto le
porte, inastate le insegne; il “carratino”28 esponeva le “formaggiere” di San Sabino
e della Torre e le ultime olive delle chiuse d’ sott’ i’mmerz;29 l’ortolano la verdura
22
Non si hanno notizie sul “Giudice Pellegrino” che deve ritenersi un funzionario della Curia, presente tra
i numerosi personaggi di Corte, con mansioni ispettive - corrispondenti a quelle demandate attualmente al
Pubblico Ministero.
23
Siciliano, Camerlengo Imperiale. Lo troviamo sempre assieme all’Imperatore sin dalla Crociata del 1220.
Un suo nipote fu creato dallo Svevo, Vescovo di Squillace.
24
Vedi pianta del centro storico di Apricena, in CLIMA, Apricena…percorsi, cit.. Doverosamente va precisato che il primo nucleo urbano della Universitas identificata con il nome di Procìna, addossato al Castellum,
era individuato con il termine “Terra” ed era circondato da mura. Extra moenia, era stato di poi aggregata, a
tale primo nucleo, una addizione a sud, ed ancora in periodo successivo un altro quartiere a nord, costituito
dal “Casale”, abitato da Albanesi e Schiavoni.
25
L’attuale Madonna dell’Incoronata.
26
Antica mantella nera, molto ampia di panno pesante.
27
La strada centrale - ora Corso Garibaldi di Apricena - che taglia di netto il centro storico da “Capo
Terra” detta anche “Porta al Piano” (ora For la Croc) a “Capo Palazzo” (ora For u’ Palazz - Castello).
28
Venditore di generi alimentari, originariamente di soli prodotti caseari, proveniente da Corato dai piani
prativi nella valle dell’Ofanto, ricca di armenti.
29
Letteralmente “terre emerse” (che si elevavano dalla pianura) chiamate così quelle a piè di monte.
173
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
degli orti del Vallone, il “chianchero”,30 il primo maiale dell’inverno, squartato,
appeso testa in giù alla ’ng’nagghiera,31 il “vinattiere”, il vino novello delle chiuse
d’Murrich e delle coppe di Manfrino.32
Il Curato della Parrocchiale e lo speziale lì da presso; il medico dell’ospedale,
nel vicolo verso la strettoia di “Capo Terra” ripresero ad attendere alla cura, il secondo del corpo e il primo dell’anima dei borghigiani operosi.
“Funicheri”33 armeggiavano nei fondaci del centro con tele e pezzi di stoffa,
finanche di sciamito; nell’immediato suburbio a piè di colle, mastri d’ascia con incudine e martello sin sul piazzale d’accesso tra stanghe di carri al cielo e cataste di
tavoloni; fabbri e maniscalchi tra il tramestio di asini e cavalli e lo scalfio sonoro di
mazzola e scalpello del marmorario34 tra massi enormi e chianghett35 modeste delle
murgette all’opera; sarti, barbieri e il cerusico financo, tra le quinte socchiuse d’affaccio nei vicoli e negli angiporti, con aghi, pennelli e strumenti del mestiere, animavano l’antico borgo diramantesi dall’abbraccio della Domus Imperiale. Nella
taverna alla bocca di Porta al Piano, intra mura,36 s’era aperto l’ampio varco per
l’ultimo cavaliere e l’odore di stallatico risaliva per i vicoli d’attorno e sullo slargo
di poco fuori le mura del Convento di San Francesco37 .
Solamente il curiale ed il baiulo, frammisti già alla calca degli spettatori del
processo, non avevano aperto lo studiolo (del primo si leggeva fiducioso, per i pochi che erano in grado di leggere: “torno subito!”).
5. Gli altri ospiti
Eran giunti, alcuni per l’antico tratturo38 che dal Palatium di Foggia menava
a la Procìna, nomato “dell’Imperatore”, altri per la costiera Via Traiana, a rendere
30
Equivale a macellaio, che normalmente utilizzava una pesante lastra di pietra detta “chianca” per sezionare la carne macellata. È una probabile volgarizzazione del termine francese plance che era il luogo (rectius i
luoghi) esterno all’abitato, ove erano ubicati i mattatoi (così regolamentati nel giugno 1231; cfr. la traduzione
del De Troia).
31
L’asta a cui si appendevano gli uncini che sostenevano i quarti degli animali macellati.
32
Contrade, le prime verso S. Severo nella valle del Candelaro, le seconde verso San Nazzario, quest’ultima
- in specie - richiamante nella dizione volgarizzata il nome di Manfredi?!.
33
Venditori di stoffe.
34
Letteralmente lavoratore del marmo. Nel caso dell’area delle cave di Apricena deve intendersi più precisamente “scalpellino”, che equivale a lavoratore con lo scalpello. Tra questi vi sono veri e propri artisti capaci
di opere di alto ingegno. Sull’argomento, cfr. Domenico POTENZA, Laboratorio Progetto Cultura. Sulla promozione e valorizzazione dei marmi e della pietra di Apricena (03.08.2000); ed anche C LIMA ,
Apricena…percorsi…, cit., “La pietra di Apricena”.
35
Basole di pietra viva.
36
Sulle antiche mura di Apricena, cfr. Teresa DE CANDIA-Giuseppina CLIMA, Apricena ed il suo territorio
durante il medioevo, inedita, Biblioteca Comunale di Apricena.
37
Ove ora sorge la chiesa di Sant’Antonio con a lato Piazza Campo di Fiori.
38
Cfr. CLIMA, Leggende, microstorie…, cit., “Il Tratturo dell’Imperatore”, p. 31 e segg..
174
Felice Clima
omaggio al Sire, ma anche a riferire su affari di Stato e, per aver Udienza attendevano la conclusione del processo: il Maestro supremo dell’antico ordine alemanno
Ermanno de Salza,39 il dotto consigliere Vescovo Berardo di Palermo,40 il Conte
normanno di Lesina, già deposto e impetrante; da Lucera era giunto il capo della
guarnigione della piazzaforte e della comunità araba fedele,41 e dal Castrum Pagani, 42 vigile sul monte, Mohan Ibn Saud, il bellicoso suo capo; dalla collina di
Bellumvideri in fronte alle Tremiti verso Sanctum Nicandrum, il suo maestro
teutonico. In groppa alla povera mula eran pure arrivati per i sentieri sulla murgia
petrosa Roberto, l’Abate di San Giovanni in Pane,43 opulenta e operosa, gratificata
dall’Imperatore e quello dell’Hostium Jani, nella prima gola verso l’Honor Montis
Sancti Angeli per il tracciato dell’antica strada dei Longobardi.44
Si intrattenevano gli ospiti nell’ampia biblioteca, ridondante di codici e
pandette nel salone vicino agli appartamenti privati, nell’area opposta del Castello
mentre la numerosa servitù sciamava, discreta, per le numerose incumbenze della
Corte,45 già da alcuni giorni stabilmente quivi insediatasi proveniente da Lucera
per trascorrere alla Procìna il Natale del Signore.
Dai monti dell’Abruzzo, per Larinum e Teanum, i bianchi cani pastore di
guardia scortavano ormai l’ultimo numeroso gregge di bovini e ovini frammisti,
diretti ai pascoli ubertuosi della Puglia Piana o a quelli ridenti degli altopiani del
Gargano, attraversati i folti boschi dell’Alta Daunia, eran già sull’antico polveroso
tratturo che rasentava il bordo del fossato sotto il Castello, riempiendo il salone del
suono sordo e costante dei loro campanacci, dando così un tono domestico alla
solenne celebrazione.
39
Ermanno de Salza, Gran Maestro dell’Ordine Teutonico (1170-1239), ottenne dal Papa il bando di una
crociata e da Federico II, amico ed alleato suo, il titolo di principe dell’Impero.
40
Su segnalazione del Papa, l’Arcivescovo di Bari Berardo di Castacca entrò a far parte del Consiglio di
Reggenza dell’Imperatore, di cui divenne amico e confidente (con Ermanno De Salza cui era superiore per
cultura ed ingegno). Gli sarà vicino fino alla morte; cfr. R. RUSSI, Federico II…, cit..
41
La Lucera Saracenorum, non solo quale enorme caserma, ma anche autonoma colonia islamica in piena
regola con una popolazione di varie decine di migliaia di persone, con una propria organizzazione civile e
religiosa, con artigiani variamente e abilmente specializzati: orafi, argentieri, armaioli; sul punto cfr. Luciana
CATALDO, Lucera nella storia in «Gazzetta di San Severo» del 25.09.00.
42
I Saraceni di Castelpagano non vanno confusi con quelli di Sicilia, trasferiti nella Puglia Piana (Lucera) a
viva forza dall’Imperatore durante la sua dominazione, ma rappresentavano un gruppo autonomo - insediatosi
già da qualche secolo antecedente sulle prime alture del Gargano a dominio della pianura sottostante. Questi
provenivano quasi certamente dal mare di Siponto a seguito delle non infrequenti incursioni turchesche e
proseguite sulle montagne dell’interno. Tali penetrazioni erano già avvenute dalla costa del Golfo del Leone,
in Francia fin in Provenza e da lì - oltrepassate le Alpi - addirittura in Piemonte.
43
Per ingraziarsi l’imperatore che con provvedimento emesso apud Tarentum il 9 aprile 1221 riconfermò al
monastero di San Giovanni gli antichi privilegi allo stesso concessi dal Conte normanno di Lesina.
44
Di questi personaggi, non indicati nel documento in esame, i primi erano Consiglieri fidati dell’Imperatore
e quindi di sua costante frequentazione; gli altri, legati al luogo, erano tenuti a riferire su fatti e vicende relative.
45
Vedi RUSSI, op.cit., ed anche Marcello ARIANO, Federico II tra storia e mito, in «Il Provinciale», dicembre
2000: “[...] Alla sua Corte si respirava [...] sfarzo e opulenza, odalische e falconieri, eunuchi, animali esotici,
cavalieri cristiani e guerrieri saraceni, letterati e matematici, giuristi e scienziati, architetti e astronomi, cantori
con vesti di porpora e - quando il giorno volgeva al termine - fiaccole ardenti accese qua e là, facevano della
notte, giorno, fra gare degli attori [...]”.
175
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
6. Madonna Angiola
Madonna Angiola, l’ultima dei Bronte46 del Casale fortificato nella valle
di Stignano a bordo rivo sul Candelaro fluente, la giovane donna dello Svevo
dagli occhi profondi nell’ovale perfetto nel carnicino del suo viso, quasi da cherubino, avvolto dalle ciocche di neri capelli debordanti dalla reticella a raccoglierli sulla nuca, intratteneva gli ospiti in paziente attesa, mentre negli ampi e
profondi camini robusti ceppi delle non lontane forre delle coppe di Manfrino e
della Castelluccia, riscaldavano l’ampio salone di rappresentanza con i loro accoglienti e profumati tepori. D’infilata dalla cucina - non lontana - provenivano
sottili, invitanti aromi della cacciagione di caprioli e fagiani, intensamente aromatizzati!47
Qualche piccolo crepitio, quasi di protesta, dei “ripolli”48 secchi di un antico
olivastro, già piegato dal vento della costa verso Maletta,49 ancor non domo alla
bisogna, sprizzava nell’aria luccicanti, pazzarelle stelline!
Sul collo ceruleo riluceva un sottile filo di perle, che s’adagiava sul seno appena accennato, eppur prepotente nel corpetto di raso nero stretto sulla gonna scampanata di velluto amaranto. Era stato l’ultimo regalo che l’Augusto suo Signore le
aveva offerto, tratto dal suo forziere, tra i monili cesellati dagli orafi della Fenicia,
ormai saracenizzati, che il sultano Al Kemal aveva a sua volta donato al Re di
Gerusalemme... nell’ultima sua Crociata.
46
Del variegato e molteplice mondo femminile, legato all’Imperatore, in relazione alle sue costanti abitudini di circondarsi di belle donne dei vari luoghi frequentati, dispensando una cospicua progenie di figli, quasi
sempre illegittimi, ma pure amati e cresciuti nella sfera d’influenza della sua Corte, considerate le sue numerose frequentazioni e le lunghe permanenze nella Domus Precina - pur in mancanza di documenti attendibili da
cui rilevarsi la presenza certa ed ufficiale delle regine delle varie epoche, né di qualsiasi altra donna - possiamo
legittimamente ipotizzare che anche quivi avesse la sua donna; cfr. J. MUHLBERGER, Donne sveve…, cit.. Madonna Angiola è un personaggio puramente inventato, non rintracciabile nella storia, così come non è mai
esistita una famiglia Bronte, che, infatti, è una voluta deformazione della famiglia Brancia; cfr. CLIMA, Leggende, microstorie..., cit.. Ovviamente l’aver legato la famiglia Brancia è una libertà ulteriore, se non proprio un
arbitrio, di cui chiedo venia. Ritroviamo infatti questa famiglia solo incidentalmente, dopo il terremoto dell’epoca quando - nel 1650 - acquistò quello che restava dell’originario Castello federiciano di Apricena. La
ricostruzione che ne fece, e tuttora esistente, ne alterò sostanzialmente le linee architettoniche, ma conferì
loro il titolo di Principi di Apricena (successivamente anche se per breve tempo, questa chiamata Casalmaggiore).
Il Feudo di Apricena fu acquistato nel 1593 da Ferrante Lombardo, conte di Gambatesa, barone di Roseto e
Troia da cui passò al figlio Ascanio e al nipote Giovanni Berardino. Questi lo vendette ai Brancia nel 1613
(così come gentilmente trasmessomi con e.mail da Francesco Lombardi di S. Chirico - fonte: Giovanni MARESCA,
Le ultime intestazioni feudali del Cedolario di Capitanata”, in «Rivista araldica» 1954; Annibale FACCHIANO,
Roseto Val Fortore, Sant’Agata di Puglia, Casa S. C. di Gesù, 1971).
47
Per sapori e colori di Capitanata sul desco imperiale, cfr. Clima, Apricena... percorsi…, cit., “La cena del
cinghiale nella Domus Precinae”, p. 102.
48
Virgulti selvatici.
49
Oltre Manfrino verso il mare.
176
Felice Clima
7. Le inchieste a Siena di Ser Guidotto; a Firenze del Giudice Pellegrino
a) Le requisitorie - La difesa
Dall’Assise si levò grave Ser Guidotto, l’inquirente, chiamato dalla nativa
Lucca a indagare sulla fondatezza della denunzia dell’Università di Siena, nella
Cancelleria Imperiale, in ordine all’affermata proditoria azione di guerra mossa contro la stessa dai vicini, eterni nemici, fiorentini.
Riferì delle non facili indagini; delle raccolte testimonianze dei cittadini del
contado e delle valli della Chiana e delle colline luminose e gaie delle Crete e delle
Fonti d’attorno a Siena, che gli attestarono della invasione delle milizie fiorentine
per i casali e i coltivi della fertile campagna, tutto razziando, depredando e distruggendo; gli attestarono del sacco e della distruzione dei borghi e dei castelli di Selvula
e di Quercegrossa, nell’agro senese, fin sotto le mura della stessa; e del sangue versato, dei difensori e dei cittadini della stessa e del danno provocato agli abitanti e
all’Università di Siena.
L’inquirente imperiale, Giudice Pellegrino, confermò le accuse di Ser Guidotto
e riferì che non v’era stata giustificazione alcuna da parte dei Capitani di Firenze, da
sempre impegnati al rafforzamento di quelli che ritenevano propri diritti sulle città
e sulle popolazioni della Toscana, non riconoscendo ingerenze esterne, vuolsi di
Pontefici che di Imperatori... .
Entrambi concludevano, pertanto, anche richiamandosi ai principi affermati
in più occasioni da Taddeo da Sessa,50 per l’affermarsi della responsabilità esclusiva
dei fatti di sangue e di guerra avvenuti, a carico dell’Università di Firenze, con la
conseguenza della punizione della stessa, e quindi per il risarcimento dei danni provocati a quella di Siena.
Attento, in silenzio, il Collegio ascoltò le requisitorie; Gherardo de Arnstein
richiese alcuni chiarimenti sull’iter dell’azione bellica e sulla documentazione raccolta e prodotta, Thoma de Aquino, che rivedeva nelle verdi colline senesi, invase e
saccheggiate, i monti e le colline d’attorno ad Acerra, la propria città, i Simbruini e
i Lattari, aspri e selvaggi, s’interessò alla quantificazione dei danni ai borghi e castelli e al contado stesso... .
Il brusio del volgo riprese il sopravvento!
Cessò, allorché Giovani De Gigura, il difensore di ufficio dell’Università di
Firenze, prese la parola.
Pur non conoscendo approfonditamente i particolari dell’intera controversia
in quanto, sostanzialmente, non aveva avuto modo di contattare alcun emissario di
quella città, sostenne coraggiosamente un’appassionata difesa. Sollevò alcune obiezioni procedurali - peraltro subito rigettate dalla Corte - sull’inefficacia della con-
50
Taddeo da Sessa (1190-1247) ricoprì la carica di Gran Giustiziere e, quale esperto giurista, contribuì alla
rinascita del diritto.
177
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
vocazione al processo della città dell’Arno; adombrò una carenza di legittimazione
passiva della stessa all’osservanza dell’ordine Imperiale; nel merito, eccepì - sia pure
senza crederci molto - l’inefficacia delle prove addotte dall’Accusa, non essendo in
grado di confutare quanto evidenziato e documentato dal Guidotto Luccense e
dall’inquirente imperiale.
8. Le aree d’attorno alla Domus
Le ogive delle ampie finestre screziate di fondo sala, si aprivano sul sottostante
lussureggiante parco della Domus, dai rivi fluenti lievi tra le ricche serre e i gazebo
moreschi e le aiuole ancor illeggiadrite nel dolce inverno di Capitanata dai fiori
esotici delle terre dei Bruzzi e degli Enotri e sin della Fenicia51 e consentivano di
spaziare lo sguardo tra i boschi fitti della Difesa, oltre il Candelabro,52 sino ai borghi di Terra Majoris e di Civitate53 tra i rilievi montuosi dell’ultimo Appennino,
serrati dalle balze e con le essenze dei monti del lontano Sannio.
Ancora più oltre, nel baluginio della luce quasi metallica del sole invernale di
mezzodì - appena accennati e percettibili - s’intravedevano i tetti di Foggia Imperiale e - più netti - quelli della Luceria Saracenorum sui primi contrafforti preappenninici oltre la Puglia Piana.
Dai ventiquattro rettangoli di vetro policromi dell’ampia porta che dava sul
balcone della sala, sporgente sul profondo fossato, il sole invernale luminoso e freddo
dell’ora sedicesima, che già sulla prima fascia dei monti del Gargano aveva inondato il mastio di Castelsaraceno,54 vigile sul colle, e accarezzato i prati e i boschi di
Monte Castello e Voltapianezza e la gola di Stignano verso il Sacro Monte, penetrava nella grande sala e infiammava, alle spalle, ancor più le casacche scarlatte di rito
dei Giurati, i boni homines di Procìnae, intenti ormai già a formulare il responso.
Sul seggio di capo sala, in trono, si proponeva il Rex Romanorum che aveva
attentamente seguito il dibattimento; diede il suo assenso al logoteta Petrus De Vinea,
in piedi al proprio fianco, perché concludesse il processo e venisse emessa la sentenza.
9. La sentenza
Sentito il parere dei Giurati, i Giudici della Gran Corte, levatisi tutti in piedi,
solennemente pronunziarono la sentenza accogliendo in pieno le accuse formulate:
51
Con riferimento rispettivamente alla Calabria, alla Sicilia e ai luoghi sacri delle crociate.
Val la pena ricordare l’amoenitas loci. Nei periodi storici in esame tutta la piana di Capitanata era ben
diversa da quella arida attuale; cfr. G. SALVIOLO, Contributi alla storia economica dell’Italia nel Medioevo.Sullo
Stato e la popolazione dell’Italia prima dell’invasione barbarica, in A. HASELOFF, Architettura sveva nell’Italia Meridionale…, cit.
53
Con riferimento a Torremaggiore e a S. Paolo Civitate.
54
L’originario nome che indicava l’antico borgo e la fortezza di Castelpagano.
52
178
Felice Clima
l’Università di Firenze, riconosciuta colpevole, veniva condannata al pagamento
di cento mila marche d’argento in favore dell’erario imperiale, oltre ad altre dieci
mila per non essersi presentata all’udienza dibattimentale; ed altresì al risarcimento dei danni a favore dell’Università di Siena in seicento mila libbre di denari
senesi.55
D’infilata nei corridoi del castello sin nella Gran Corte penetrarono le bave
del vento freddo della Maiella a smuovere le fiaccole accese nell’ora ormai tarda;
il fiato robusto dei trombettieri sugli spalti alimentò le trombe a chiusura del
processo; al lume di fioche torce, i borghigiani fedeli abbandonarono il castello
riguadagnando i vicoli e gli angiporti del borgo; nel buio e nel silenzio della piana, solamente il castellum risplendeva ancora di luce e risuonava di vita... .
“Questi atti sono ad Apricena e nello stesso luogo presente il signore nostro
Imperatore, prescritti nell’anno, nel mese e nella indizione.
Io come sopra Pietro, Giudice della Grande Curia Imperiale.
Io sottoscritto Dino, notaio una volta del notaio Ser Azzini, cittadino di Siena
presi due copie prescritte immediatamente da autentici mezzi duplicati e fedelmente ritrascrissi.”
Appendice
Historia Diplomatica. Friderici secundi
Gebhardus de Arnesten imperialis in Italia legatus et magister Petrus de Vinea
imperialis curiae judex, in praesentia imperatoris, ex conquestione syndici
universitatis Senensis universitatem Florentiae condemnant in centum milIibus
marcis argenti fisco imperiali solvendis, pro eo quod ab impugnatione Senensium
non destiterunt, item in decem millibus aliis marcis pro eo quod ad curiam responsuri
venire contempserunt; mittuntque commune Senensium in possessionem bonorum
communis Florentiae usque ad sexcenta millia librarum denariorum Senensium pro
reparatione damnorum quae a Florentinis fuerunt perpessi.
(Edidit MURATORI, Antiquit. Italic. med. aevi, tom. IV, p. 481, ex transumpto
anni 1236, 9 decemb.; nunc accurate collatum cum altero transumpto authent. in
archivo comm. Senensis , Caleffo dell’ Assunta , mater. terza, fol. 59-61)
In nomine Domini nostri Jesu Christi, anno ab incarnatione ejus millesimo
55
Franco TARDIOLI, Le Costituzioni di Melfi di Federico II, Roma, Nuovi Arrivi, 1985, Libro I, titolo IV
“Delle Decisioni del Re Ruggero II”: “Non si devono discutere le leggi del Re” ; vedi anche Libro I, titolo
XCIX , “La pena per i contumaci”; ed ancora Libro I, titolo LXXXIII, “Sulla istituzione degli avvocati”;
Libro I, titolo LXXXIV, “La funzione degli avvocati”.
179
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
ducentesimo trigesimo secundo et duodecimo56 anno imperii domini nostri
Frederici, Dei gratia Romanorum imperatoris semper augusti, Jerusalem et Sicilie
regis invictissimi, anno vero regni Sicilie trigesimo quinto et Jerosolymitani
septimo, 57 mense decembris, sexte indictionis, domino Frederico, Dei gratia
Romanorum imperatore, Jerusalem et Sicilie rege, ad Precinam solemnem curiam
regente, presentibus ibidem Gaybarro de Arnesten in Ytalia legato, Thoma de
Aquino comite Acerrarum, Simone Theatino, Manfredo Marchione Lancea et
Riccardo imperialis aule privato camerario, nec non infrascripto magistro Petro de
Vinea magne imperialis curie judice et quampluribus aliis nobilibus et probis viris,
Guidottus Luccensis sindicus seu actor comunis seu universitatis Senensis, nomine
dicti comunis, de cujus auctoritate et sindicatu legiptime et perfecte curie constitit,
proposuit contra comune seu universitatem Florentie quod ipsum comune et
universitas pro motu proprie voluntatis destruxit duo castra comunis seu universitatis
Sene, videlicet castrum de Selvula et castrum de Quercegrossa; in quorum castrorum
destructionem dicit universitatem Sene damnificandam in ducentis milibus librarum
denariorum Sene; item quod ipsa universitas Florentie in predictis cabellicatis et
aliarum rerum destructione et ablatione damni-ficavit dictum comune in
quadragentis millibus libris ejusdem monete, eundo etiam cum exercitu super dictum
comune et terras universitatis ejusdem et comitatus ipsius et incendendo et devastando res et bona Senensium et eorum comitatus; quam injuriam nollet substinuisse
dictum comune, melius vellet dedisse de suis quadrigenta millia librarum ejusdem
monete; unde dictus sindicus seu actor pro parte et vice universitatis et comunis
Senensis a predicta universitate Florentie seu comuni petit sibi fieri justiciam de
omnibus supradictis, salvo jure addendi et minuendi. Item accusavit idem Guidottus
Luccensis sindicus comunis et universitatis Sene comune et universitatem Florentie
quod ipsum comune et universitas pro motu et arbitrio proprie voluntatis movit
guerram contra ipsam universitatem, cum exercitu, gente et manu armata assedit
castra eorum et expugnavit, videlicet castrum de Selvula et castrum de Quercegrossa,
incendia supponendo terris et rebus eorum, omicidia in quamplures de Senensibus
committendo, capiendo eosdem et privatum carcerem exercendo in quos captivos;
unde petit sindicus ipse pro parte universitatis Sene ipsam universitatem seu comune Florentie de guerra taliter mota secundum jura puniri. Hec acta sunt hoc anno
de mense junii proximo preteriti in ter-ritorio et comitatu ipsius Sene. Item alio
libello petit idem sindicus de incendiis taliter factis universitatem Florentie secundum
jura puniri. Item alio libello petit idem sindicus dictam universitatem de exercitu
seu gente taliter congregata secundum jura puniri. Item alio libello petit ipsam
universitatem de expugnatione taliter facta secundum jura puniri. Item alio libello
idem sindicus petit dictam universitatem Florentie de omicidiis taliter commissis
secundum jura puniri. Item alio libello idem sindicus petit ipsam universitatem
Florentie de eo quod privatum carcerem taliter exercuit in homines Sene, secundum
56
57
Recte tertio decimo.
Recte octavo.
180
Felice Clima
jura puniri. In quibus omnibus libellis intelligatur facta repetitio ejusdem temporis
et loci. In eadempreterea curia judex Petrus de Sancto Germano, advocatus fisci,
denunptiavit imperiali curie quod cum universitas Florentie fuisset citata ex parte
domini imperatoris sub peremptorio sub pena decem milium marcarum argenti ut
veniret factura justitiam comuni seu universitati Sene super quibusdam damnis datis,
injuriis et rebus aliis, et non venerit in termino sibi prefixo, petit ipsa decem milia
marcarum ad opus surie a dicta universitate seu comuni Florentie auferri et exigi
seu extorqueri. Denunptiavit etiam idem judex Petrus de Sancto Germano quod
cum comuni seu universitati Florentie fuisset injunctum et prohibitum ex parte
domini imperatoris sub pena centum millium marcarum argenti ne universitatem
seu comune Sene offenderet, spreta tali prohibitione et defensa facta, destruxit castra eorum, expoliavit, homines cepit ipsius comunis seu damna multa intulit ipsi
universitati Sene. Unde petit dictus judex Petrus ad opus domini imperatoris dicta
milia marcarum argenti ab universitate seu comuni dicte Florentie exigi seu
extorqueri, cum fuerit ipsa universitas Florentie super hoc citata sub peremptorio
et non venerit justiciam factura. Quibus accusationibus, denunptiationibus et
petitionibus in ipsa curia propositis, edicto comone (sic) facto et solempniter proposito, quesitum est si in curia ipsa sindicus, procurator aut actor aliquis pro parte
Florentinorum aut aliquis alius qui se defensioni ipsorum offerret inveniretur. Nullus
apparuit qui vel sindicatum aut procurationem seu aliquam auctoritatem assereret
aut defensioni Florentinorum etiam se of-ferret. Cumque prenominatus Guidottus
actor et sindicus universitatis seu comunis Sene, necnon antedictus magister Petrus
advocatus et denunp-tiator pro parte curie instanter instarent adverse partis
absentiam et contumaciam incusando, cumque etiam ex rememoratione et testimonio domini nostri imperatoris plene et manifeste constaret antedictum Guidottum
actorem et sindicum necnon prefatum magistrum Petrum advocatum fisci et
denunptiatorem pro parte curie in resto Omnium Sanctorum, quem terminum judex
Peregrinus ejusdem domini nostri imperatoris nunptius partibus sub peremptorio
et Florentinis sub banno decem milium marcarum prefixerat, prout per instrumenta
publica inde facta in ipsa curia presentata manifeste constabat, se coram presentia
ipsius domini nostri imperatoris et curie presentasse et per dies aliquot adverse
partis expectando presentiam fuisse moratos, nos suprascripti Gaybardus de
Arnesten imperialis in Italia legatus et magister Petrus de Vinea magne imperialis
curie judex, de speciali mandato domini nostri imperatoris, curiam solemniter
fecimus congregari de comitibus et baronibus et jurisperitis qui in curia ipsa erant,
et diligenti cum eis consilio habito, pronunptiamus in hac forma: Quia constitit
nobis per publica instrumenta juris solepnitate vallata nec non ex rememoratione et
testimonio judicis Peregrini cui per dominum nostrum imperatorem specialiter
commissum fuerat bannum centum millium marcarum imponere Florentinis ne
cabalcatas facerent contra Senenses et ne eis damna, injurias vel molestias aliquas
facerent, sed jura sua in imperiali curia ordine judiciario persequerentur, prout hoc
ipsum etiam de mandato et commissione facta judici Peregrino predicto fuit plene
probatum, quod bannum predictum per prenominatum judicem Peregrinum fuit
181
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
legiptime impositum, prout curie constitit, et est etiam notorium [quod] predicti
Florentini et comune Florentie fecerunt cabalcatas, damna, injurias et molestias
antedictas Senensibus et comuni Senensium intulerunt; condempnamus ipsum comune et universitatem Florentie in predictis centum millibus marcarum argenti in
banno contentis fisco imperiali solvendis, parte ipsius comunis absente per
contumaciam habita pro presenti, utpote cum per instrumenta etiam predicta de
citatione facta et per judicem Peregrinum etiam constitisset quod de hoc etiam comune Florentie sub peremptorio citatum fuisset ut coram imperiali presentia in
termino supradicto veniret de banno predicto in judicio responsurum. Item quia
constitit nobis et imperiali curie plene de citatione predicta facta potestati et comuni Florentie sub pena decem millium marcarum argenti per peremptorium ut in
prescripto termino ad curiam venire deberent, nec venerunt ut predictum est, spretis
banno et pena predictis; condempnamus ipsum comune Florentie in ipsis decem
milibus marchis imperiali fisco solvendis. Item quia in evidenti contumacia tam in
civilibus petitionibus quam in criminalibus accusationibus contra predictum comune Florentie propositis per sindicum et actorem predictum pro parte comunis
Senensium, ipsum comune inventum est formam juris comunis secutum,
pronunptiamus ipsum comune Sene mictendum in possessionem bonorum comunis
et universitatis Florentie pro mensura debiti declarati sexcentarum millium librarum
denariorum Senensium pro damno illato universitati ipsius in destructione castrorum
Silvule et Quercegrosse et pro damno illato ipsi universitati in comitatu ipsius per
devastationes, incendia et depopulationes rerum et bonorum Senensium et comitatus
ipsorum, declaratione ipsius debiti facta imperiali curie coram nobis per sacramentum
antedicti Guidotti sindici et actoris Senensium, qui specialiter habebat, prout per
instrumentum sindicatus et auctoritatis constitit, de jurando mandatum.
Pronunptiamus etiam bona comunis et universitatis ipsius Florentie adnotanda juxta
ordinem juris, quia peremptorie citati et requisiti pro criminalibus accusationibus
antedictis in statuto termino se, ut dictum est, minime presentarunt. Ad cujus rei
memoriam et perpetuam firmitatem, hec omnia qualiter gesta fuerunt nos antedicti
Gaybardus et judex Petrus tibi Angelo imperialis curie publico notario in scriptis
commisimus redigenda, nostris subscriptionibus roborata.
Acta sunt hec apud Precinam, ibidem domino nostro imperatore presente,
anno, mense et indictione prescriptis.
Ego qui supra Petrus magne imperialis curie judex.
Ego Dinus notarius olim Ser Azzini notarii civis Senensis infrascriptus
prescripta proxime duo exempla ex auctenticis instrumentis duplicatis sumpsi et
fideliter suprascripsi.
182
Felice Clima
Historia Diplomatica. Friderici secundi
In Precina, dicembre
Gherardo di Arnesten ambasciatore imperiale in Italia e il consigliere Pier
delle Vigne, giudice della curia Imperiale, in presenza dell’imperatore, a seguito
della denuncia della comunità di Siena condannano la comunità di Firenze a pagare
al fisco Imperiale centomila marchi d’argento, per il fatto che non desistettero dall’assalto ai Senesi; altri diecimila marchi per il fatto che disdegnarono di venire a
comparire dinanzi alla Curia; inoltre pongono il Comune di Siena in possesso di
beni del comune di Firenze per un totale di seicentomila libbre di denari a titolo di
rimborso per i danni che furono causati ai senesi da parte di Firenze.
(Muratori pubblicò, Antiquit. Italic. Med. Aevi, libro IV, p. 481, dalla trascrizione dell’anno 1236, 9 dicembre; di qui in poi accuratamente confrontata con
altra trascrizione autentica dall’archivio del comune di Siena, Califfo dell’Assunta,
mater. Terza, fogli 59-61)
In nome del Signore nostro Gesù Cristo, nell’anno 1232° della sua incarnazione e 12°58 anno dell’impero del nostro Signore Federico, per grazia di Dio imperatore sempre augusto dei Romani, re invittissimo di Gerusalemme e di Sicilia, nell’anno altresì 35° del regno di Sicilia e 7°59 del regno di Gerusalemme, nel mese di
dicembre, della sesta dichiarazione, sotto il regno di Federico, per grazia di Dio
imperatore dei Romani, re di Gerusalemme e di Sicilia, che qui presiede la solenne
Curia di Precina, qui presenti Ghebardo di Arnesten ambasciatore in Italia, Tommaso
d’Aquino Conte di Acerra, Simone Teatino, Manfredi Marchese Lancia e Riccardo
ciambellano privato della corte imperiale, nonché il sottoscritto consigliere Pier
delle Vigne giudice della grande curia imperiale e parecchi altri nobili e probiviri,
l’avvocato Guidotto di Lucca in qualità di attore del comune e della Comunità di
Siena, in nome della dichiarazione comune, della cui autorità e giudizio si fonda la
curia legittimamente e completamente, propose contro il comune ossia la popolazione di Firenze, perché la stessa popolazione per impulso della propria volontà
distrusse due castelli della popolazione ossia della popolazione di Siena, vale a dire
il castello di Selvula e il castello di Quercegrossa; per la distruzione di questi castelli
ordina di dover indennizzare la popolazione di Siena di 200.000 libbre di denari di
Siena; parimenti perché la stessa popolazione di Firenze, per le predette azioni e per
la distruzione e l’appropriazione di altre cose condannò la detta popolazione a
400.000 libbre della stessa moneta anche con l’esercito che andava sopra la detta
popolazione e le terre della stessa popolazione e dello stesso seguito e incendiando
e devastando le cose e i beni dei Senesi e il loro seguito, che la popolazione non
volesse sopportare questa offesa, volesse meglio aver dato delle sue 400.000 libbre
58
59
Correggi tredicesimo.
Correggi ottavo.
183
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
della stessa moneta; anche il detto inquirente sia che avvocato di parte e della vicenda della popolazione e del comune di Siena dalla predetta popolazione di Firenze
sia che chiese al comune che gli fosse fatta giustizia di tutte le cose sopradette, salvo
il diritto di aggiungere e di diminuire.
Parimenti lo stesso Guidotto di Lucca inquirente del comune e della popolazione di Siena accusò il comune e la popolazione di Firenze che lo stesso comune e
la popolazione per incitamento e arbitrio della sua volontà mosse guerra contro la
stessa popolazione con l’esercito, con gente e mano armata assediò ed espugnò i
loro castelli, vale a dire il castello di Selvula e il castello di Quercegrossa, aggiungendo incendi alle terre e alle loro cose, commettendo omicidi contro parecchi dei
Senesi, catturando gli stessi e usando il carcere privato contro quei prigionieri; onde
lo stesso imperatore chiese da parte della popolazione di Siena che la stessa popolazione ossia il comune di Firenze fosse punito secondo le leggi della guerra in tal
modo mossa.
Questi atti sono di quest’anno il prossimo mese di giugno passato nel territorio e seguito della stessa Siena. Parimenti con un’altra denunzia lo stesso inquirente
degli incendi in tal modo fatti chiese che la popolazione di Firenze fosse punita
secondo le leggi. Parimenti con un’altra denunzia lo stesso inquirente chiese che la
detta popolazione dell’esercito sia della gente radunata fosse punita secondo le leggi. Parimenti con un’altra denunzia sull’espugnazione in tal modo fatta la stessa
popolazione fosse punita secondo le leggi. Parimenti con un’altra denunzia lo stesso inquirente chiese che la detta popolazione di Firenze fosse punita secondo le
leggi degli omicidi in tal modo commessi. Parimenti con un’altra denunzia lo stesso
inquirente di quel carcere privato che usò contro gli uomini di Siena chiese che la
stessa popolazione di Firenze fosse punita secondo le leggi. In tutte queste denunzie si comprenda la ripetizione fatta dello stesso tempo e luogo. Inoltre nella stessa
adunanza il giudice Pietro di San Germano, avvocato del fisco, denunciò alla curia
imperiale che essendo stata citata la popolazione di Firenze da parte del signor Imperatore sull’annullamento circa la pena di 10.000 marchi d’argento affinché venisse fatta giustizia al comune e alla popolazione di Siena su certi danni fatti, offese ed
altre cose, e non venisse fatta in un termine di sé prefisso, chiese che gli stessi 10.000
marchi fossero imposti e comunque requisiti con la forza alla detta popolazione e al
comune di Firenze.
Denunciò anche lo stesso giudice Pietro di San Germano che al comune e alla
popolazione di Firenze fosse stato ingiunto e proibito da parte del Signore Imperatore sotto pena di 100.000 marchi d’argento affinché non danneggiasse il comune e
la popolazione di Siena disprezzata tale proibizione e fatta la difesa, distrusse i loro
castelli, li spogliò, prese gli uomini dello stesso comune ovvero arrecò molti danni
alla stessa popolazione di Siena. Onde il detto giudice Pietro chiese al comune della
detta Firenze sia di esigere sia di estorcere per la difesa del signore Imperatore le
dette migliaia di marchi d’argento della popolazione essendo stata la stessa popolazione di Firenze citata intorno a ciò sull’annullamento e non venendo a fare giustizia. Proposte nella stessa curia queste accuse, denunzie e petizioni, fatto il pubblico
184
Felice Clima
avviso comune e propostolo solennemente, si chiese se nella stessa curia si trovasse
un inquirente, un procuratore e qualche avvocato da parte dei Fiorentini o qualche
altro che si offrisse per la loro difesa. Nessuno si presentò che confermasse o la
richiesta o la procura sia qualche autorità o anche si offrisse per la difesa dei Fiorentini.
E quando il suddetto Guidotto denunciante ed inquirente della popolazione
ossia del comune di Siena inoltre il predetto consigliere Pietro avvocato del Fisco e
denunciante per parte della curia imminentemente insistessero nell’accusare l’assenza e la contumacia della parte avversa, e quando anche dalla memoria e dalla
testimonianza del Signore Nostro Imperatore pienamente e manifestamente fosse
palese che il predetto Guidotto accusatore e inquirente avesse parlato e anche il
consigliere Pietro avvocato del Fisco e accusatore da parte della Curia nel giorno
festivo di tutti i Santi, il quale termine il giudice Pellegrino ambasciatore dello stesso signore nostro Imperatore, divisi anche i Fiorentini sull’annullamento, aveva
fissato con decreto 10.000 marchi, in quanto che si constatava chiaramente attraverso mezzi pubblici di poi fatti presentati nella stessa curia, che egli si presentasse
davanti allo stesso signor nostro Imperatore e alla curia e indugiando aspettando
per alcuni giorni la presenza della parte avversa, noi sopraccitati Gherardo di
Arnesten ambasciatore imperiale in Italia e il consigliere Pier delle Vigne giudice
imperiale della grande curia, da uno speciale mandato del signor nostro Imperatore
facemmo solennemente radunare nella curia quelli del seguito, baroni e giureconsulti
che erano nella stessa curia e tenuto un diligente consiglio con essi, ci pronunziammo in questa forma: Poiché noi sappiamo attraverso mezzi pubblici confermata la
solennità della legge e anche della memoria e della testimonianza del giudice Pellegrino a cui per il signor nostro Imperatore era stato specialmente affidato di imporre ai Fiorentini il decreto di 100.000 marchi affinché non imponessero le gabelle
contro i senesi e non facessero danni, offese o alcune molestie, ma perseguissero i
loro diritti nella curia imperiale secondo l’ordine giudiziario, in quanto questo stesso
anche fu pienamente approvato dal mandato e dalla commissione fatta al predetto
giudice Pellegrino, il quale predetto decreto fu legittimamente imposto per mezzo
del nominato giudice Pellegrino in quanto fu palese alla curia ed è anche noto che i
predetti Fiorentini e il comune di Firenze fecero gabelle, danni, offese e arrecarono
le anzidette molestie ai senesi e al comune dei Senesi; condanniamo lo stesso comune e la popolazione di Firenze ai predetti 100.000 marchi d’argento da essere pagati
compresi nel decreto al fisco imperiale, essendo la parte dello stesso comune assente ritenuta come presente per contumacia, vale a dire essendosi anche saputo per i
mezzi anche predetti sulla citazione fatta e per mezzo del giudice Pellegrino che di
questo fosse stato sull’annullamento il comune di Firenze affinché venisse davanti
alla presenza imperiale nel termine sopradetto per rispondere in giudizio sul predetto decreto. Parimenti poiché consta a noi e alla curia imperiale pienamente fatta
la predetta citazione all’autorità e al comune di Firenze sotto la pena di 10.000 marchi d’argento per annullamento affinché nel termine prescritto dovessero venire
alla curia ne vennero come fu predetto disprezzando decreto e pena predetti; con185
Il processo contro Firenze ne la Procìna del XIII secolo
danniamo lo stesso comune di Firenze agli stessi 10.000 marchi da pagare al fisco
imperiale. Parimenti perché nella evidente contumacia tanto nelle petizioni civili
quanto nelle accuse criminali contro il predetto comune di Firenze proposte per
mezzo dell’inquirente e denunciante predetto a favore della parte del comune dei
Senesi, fu trovato che lo stesso comune seguisse la forma della legge comune, dichiariamo che lo stesso comune di Siena in possesso dei beni e della popolazione di
Firenze deve mandare per la quantità del debito dichiarato di 600.000 libbre di denari Senesi per il danno recato alla popolazione della stessa nella distruzione dei
castelli di Selvula e di Quercegrossa e per il danno recato alla stessa popolazione nel
seguito per devastazioni, incendi e saccheggi delle cose e dei beni dei senesi e loro
seguito con la dichiarazione dello stesso debito fatta alla curia imperiale davanti a
noi per mezzo del giuramento del predetto Guidotto inquirente e accusatore dei
Senesi che aveva specialmente notificato del giuramento in quanto si seppe per mezzo
dell’inquisizione e dell’autorità. Dichiariamo anche che i beni del comune e della
stessa popolazione di Firenze si devono annotare a lato dell’ordine della legge, perché perentoriamente i citati e requisiti per le anzidette accuse criminali non si presentassero affatto nel termine stabilito, come è stato detto. Per la memoria e la perpetua conferma di questa cosa, ugualmente vi furono tutti questi fatti noi predetti
Gherardo e giudice Pietro, a te Angelo, pubblico notaio della curia Imperiale, abbiamo affidato da redigere negli scritti confermati dalle nostre sottoscrizioni.
Questi fatti ad Apricena e nello stesso luogo presente il signor nostro Imperatore prescritti nell’anno, nel mese e nella dichiarazione.
Io come sopra Pietro giudice della grande curia imperiale.
Io sottoscritto Dino notaio una volta del notaio Ser Azzino cittadino di Siena
presi due copie prescritte immediatamente da autentici mezzi duplicati e fedelmente sottoscritti.
186
Luigi Paglia
Il sistema analogico del primo tempo luziano 1
di Luigi Paglia
II procedimento analogico che intuisce in vertiginosa folgorazione la sotterranea somiglianza degli oggetti, egualmente vibranti della stessa vita cosmica (“il
lampo che candisce / alberi e muri e li sorprende in quella / eternità d’istante [...]”
scolpisce Montale in La bufera), dichiara in modo evidente l’atmosfera mistica che
circola nelle pagine delle prime opere luziane.
L’attuazione stilistica di quell’ideologia simbolista che è l’analogia, viene declinata da Luzi secondo i dettami tipici della letteratura ermetica che prevedono le
raffinate strutture metaforiche dell’analogia portata dal verbo e delle ‘immagini di
serra calda’ accanto alla metafora appositiva, a quella copulativa ed alla comparazione, nella gradualità di manifestazione della vita noumenica, della realtà assoluta.
Gli elementi apportatori di oscurità, presenti nell’analogia introdotta dal verbo, riportano tutto l’enigma delle apparenze visibili che si pongono come sacramento metafisico, in quanto manifestano e, nello stesso tempo dissimulano, l’essenza profonda del reale.
Nel caos degli oggetti e delle esistenze umane, il poeta scopre la ragione di
questa “simbolistica universale”, affiorante dall’oscurità mimetica del mondo.
La sostanziale equivalenza, statisticamente accertabile, di questo tipo d’immagine e delle analogie più scoperte, è uno degli elementi che concorre a svelare
l’orizzonte umano e fenomenico della poesia di La barca, l’immersione nel caos
esistenziale precedente l’individuazione dell’orizzonte metafisico, nella rivelazione
del fermento dialettico sempre presente nella poesia di Luzi (anche nella prima fase,
più aperta alle suggestioni metafisiche).
Abbastanza lunga è la serie delle analogie portate dal verbo nelle pagine della
Barca:
1
Il presente saggio, che riguarda un aspetto particolare della poesia di Mario Luzi, è da inserirsi in un
quadro più ampio di cui fanno parte i miei lavori già pubblicati in volume e riviste: I segni inquieti della vita
e del tempo nelle prime stagioni luziane, in Poesia italiana del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp.
95-110 (FM 1993, Annali del Dipartimento di Italianistica, Università di Roma “La Sapienza”); Le strutture
del dialogo nella poesia di Luzi, in «Rapporti», 1974, 2-3, (sett.), pp. 216-228; La parabola del dolore nella
poesia di Mario Luzi, in «Vita e pensiero», 1974, 4-5-6 (lug.-dic.), pp. 298-302; Appunti per un’analisi semiotica
del sistema ‘analogico’ luziano, in «Paragone-Letteratura», 1975, 300, (febbr.), pp. 80-92 (che rappresenta
l’antecedente diretto di questo saggio); La fuga e l’ascesa nel primo tempo luziano, in «Lingua e stile», Bologna, il Mulino, 1993, 3 (sett.), pp. 401-430.
187
Il sistema analogico del primo tempo luziano
II fantasioso viale
voga nella sua nuvola verde
(Serenata di piazza D’Azeglio);
[...] i visi perdono il loro tremulo fuoco
per sempre nelle lacrime del perdono
(Lo sguardo)
in cui si nota, accanto alla sotterraneità, anche la continuità analogica;
Le creature s’immergono nei campi
ebbre di quella forza che li infiora
(Fragilità)
da cui è facile la deduzione della forza cosmica che regge il mondo ed accomuna i vari regni della natura, la cui figurazione ritorna anche nelle altre analogie
della stessa poesia:
e la verginità profuma ancora
quest’anno con quei fiori che ritornano
e il vento preme il cuore
col suo passo uguale ora e sempre
con l’identificazione della vita umana e di quella naturale;
S’inondano di dolce sofferenza
il cuore [...]
(Ragazze)
i corpi si spengano un giorno
della stessa poesia che richiama “dagli occhi che si spengono” di I fiumi, in
cui è anche presente l’immagine “il sangue ha una sponda”; ancora, in L’immensità
dell’attimo si nota:
[...] l’estate
rapisce il canto agli armenti
e in La sera:
[...] le strade
emerse dal vento [...]
mentre in Terrazza avviene la triplice confluenza delle analogie verbali:
188
Luigi Paglia
Un giorno troppo povero d’amore
s’è spento e tace
nello spazio ed intorno il cielo giace
in un passo emblematico dell’estrema rarefazione di vita derivante da carenza d’amore, scandito dai verbi: s’è spento, tace, giace.
Il procedimento dell’analogia portata dal verbo raggiunge in Avvento notturno la massima espansione giustificata dal colore “notturno” della raccolta, dalla
imperscrutabilità dei segni della vita metafisica che fermentano oscuramente il mondo
fenomenico e da cui deriva il carattere prevalentemente sacramentale e, nello stesso
tempo, mimetico della poesia di Avvento notturno.
La contiguità e lo scambio vitale delle diverse presenze del cosmo sono fissati
già nelle quattro analogie introdotte dal verbo della prima poesia della raccolta:
Cuma.
Il sintagma
[...] Caravelle
vagabonde di sé scaldano i mari
fa vibrare gli elementi appartenenti al mondo marino (ed, inoltre, il termine
caravelle allude al travaglio del lavoro umano, e porta la suggestione della dimensione storica), oltre che della carica affettiva dell’aggettivo e del verbo, della vita del
fuoco e della luce.
Gli altri due sintagmi inseriti nel testo con un parallelismo di strutture
sintattiche ed anche di disposizione tipografica:
E umanamente il sole
tocca il fianco ai villaggi [...]
Lacrimevole il vento
palpa ancora le case [...]
propongono, incentrandosi sul verbo, la sintesi folgorante degli aspetti del
mondo atmosferico e di quello umano e delle opere dell’uomo (case e villaggi) in
cui è anche presente il mondo minerale.
Il quarto sintagma:
[...] S’annuvolano i corvi
chiude, con l’identificazione tra il mondo animale e quello atmosferico, le
possibili combinazioni dei vari aspetti della vita cosmica.
Nella seconda strofa di Bacca:
Dal cielo penderà invano alle branche
189
Il sistema analogico del primo tempo luziano
la frasca lacrimosa di settembre
presso le porte chiuse le tue tempie
imporporando di meteore stanche
dall’incontro delle due immagini introdotte dal verbo viene disegnato un
paesaggio allucinante e metafisico mediante la riduzione folgorante dell’elemento
vegetale in quello astrale-atmosferico (con l’arditissima impennata verticale) e con
l’accostamento, egualmente straordinario, tra l’evento umano e quello astronomico-vegetale (con i versi della quartina seguente: “[...] nero / alle pergole assurge / il
tempo dell’uve [...]”, quasi a suggerire l’abbagliante visione delle meteore che cingono la fronte come pampini) così che è introdotta nel quadro un’aria di fissità e di
straniamento che il desolato sintagma “presso le porte chiuse” e il verbo pieno di
vita (imporporare), che decade nella stanchezza, sottolineano intensamente.
Il paesaggio di miraggi astrali, di freddi deliri, si riperpetua nella quinta
quartina della stessa poesia:
Se un giorno tacerà la bionda voce
ch’inesistenti soli educa e lune
frante [...]
con la straordinaria immagine della voce che ammaestra un panorama sconfinato di soli e lune allontanati o perduti nel cosmo.
Ma il catalogo delle immagini metamorfiche suggerite dal verbo è, in Avvento notturno, quasi inesauribile. Un breve campionario di tali immagini, trascurando
tantissimi altri esempi, viene presentato da Saxa:
quando rossa più esubera la caccia?
[...]un bramito gelava
[...]esulava
sulle sabbie il cavallo fortunoso
e la sua mano già trasecolava
dalle briglie celesti all’orizzonte.
Un corno trafelato sull’altura
fuochi dei pastori aduna, aduna
e da Vino e ocra:
la città dell’amata s’arrovella
[...] s’imperna la luna [...]
[...] esita il vento
190
Luigi Paglia
discorrono cavalli forsennati
e presso l’onda annusano le nuvole
nelle cui immagini quattro poli della vita del cosmo si stringono con misteriosi legami.
Ma la più misteriosa e balenante delle figure di Avvento è costituita dall’innesto sulla metafora verbale di quella fondata sulla preposizione:
e le tue mani cercano la notte
lungo lenti cristalli [...]
(esitavano a Eleusi i bei cipressi)
in cui l’analogia, in contiguità con la figurazione tattile verbale, viene suscitata dal contrasto della preposizione che implica l’idea del movimento a contatto del
sostantivo di gelida immobilità, con l’ulteriore mediazione dell’aggettivo che, pur
continuando nell’azione del fluire, preannuncia la fine del movimento. L’immagine
del lento scorrere fluviale è costruita con sapientissime e progressive variazioni d’intensità, emergendo misteriosamente nel silenzio della parola dichiarata (con un pallido riferimento al verso 5: “Lungo i fiumi silenti [...]” di cui ripete il disegno
compositivo).
Le metafore portate dal verbo di Un brindisi possono essere riguardate come
elemento discriminante delle due diverse stagioni poetiche e psicologiche che coesistono nella raccolta o, meglio, del diverso grado di presa di coscienza ideologica,
e ne rappresentano (come le metafore di tipo diverso) il terreno di passaggio. Dalla
vibrazione dialettica dei due poli ideologico-espressivi discende la contemporanea
presenza di immagini come quella della poesia Un brindisi:
Un nitrito s’impiglia tra le nuvole
di quella di Passaggio
l’ala del cielo torrido ed arborato
di fulmini cristallini
(nella concentrazione metaforica - mediante la figura prepositiva: l’ala del
cielo e l’arcaismo verbale: arborare - delle vite più lontane degli uccelli, delle stagioni, degli alberi, dell’atmosfera, nel cerchio sconfinato della cupola celeste) e
delle altre nella stessa poesia:
sente una rossa luna perniciosa
liquefarsi nelle acque della Fiora.
il mio sguardo addolcito dai tiepidi equilibri
delle nuvole appese sul deserto
191
Il sistema analogico del primo tempo luziano
che ci riportano alla musica più folgorante di Avvento notturno; mentre, in
contrasto, si accampano le immagini in cui si avverte il tremore sotterraneo che
mina il mondo (“Un raggio s’affatica [...]” in Fenice; “[...] le catene / si smagliano
[…]” nella stessa poesia; “E di suoni una siepe costernata” in Passaggio) o l’arresto
desolato della vita (“il tuo viso svapora [...]” e “Le cascate languiscono […]” in
Fenice; “Sui muri impallidiscono le tracce / ed i lampi graffiti [...]” e “Gli sguardi si
disciolgono [...]” in Impresa; “con le nubi ancorate agli acroteri, / le orifiamme
sopite dentro il cielo” in Labilità); e tali duplici e contrastanti espressioni rappresentano le due reazioni fondamentali allo stesso evento del dolore dell’esistenza.
Nelle “immagini di serra calda” così dette perché realizzanti, come in rarefatte atmosfere di serre, sottili e vertiginosi trapianti linguistici, si attua l’accostamento
e la confusione della vita degli oggetti dell’universo in modo fulmineo ed intenso.
Gli elementi metaforici sono raccordati di solito mediante la preposizione “di”, ma
anche con le altre preposizioni. Nella Barca spiccano le arditissime figure di Serenata di piazza D’Azeglio:
la levigata prora del giorno
s’incaglia nelle foreste
in cui l’immagine della nave (in rappresentazione di sineddoche), identificata
col giorno, subisce una nuova torsione metaforica, arenandosi nelle foreste (confusione della sfera temporale / botanica / marina), rivelando nuovamente quella dissonanza, questa volta sul piano del movimento, che si manifesta nell’arresto della
linea di tensione.
Inoltre, in Natura si legge
[…] la veloce fiamma dei passeri
con la sintesi delle tre coordinate spaziali; ed in Le fanciulle di S. Niccolò:
[…] l’onda evanescente
della notte […]
in cui il trittico sintagmatico si svolge in una zona sempre più diradata ed
allusiva; mentre avviene la collisione tra elementi di concretezza e di astrazione in
Terrazza:
sull’orlo dell’estate
e in Giovinetta, giovinetta:
sulle livide pietre dei crepuscoli.
A tali esempi bisognerà aggiungere le locuzioni prepositive “al silenzio dei
192
Luigi Paglia
porti” (La sera) e quella gemella “nel silenzio delle strade” (Giovinetta, giovinetta),
“dei cieli d’acqua di polvere” e “nei fiumi tenui di cenere” di Toccata, in cui il
ritorno insistente su sintagmi che accostano termini contrastanti di aridità e di
umidità (acqua-fiumi / cenere-polvere), col risalto dato ai colori neutri, dichiara
quella carenza esistenziale, quella stasi vitale che, tuttavia, allude ad una presenza
più piena.
In Avvento notturno le “‘immagini di serra calda”, come le analogie portate
dal verbo, assumono la massima importanza, sia come dato numerico, sia come
definizione ideologica della prevalenza della misteriosità e notturnità dei processi
di confusione mistica (sulla più spiegata chiarezza di tale identificazione espressa
dalle comparazioni).
Il testo di (esitavano a Eleusi i bei cipressi) presenta due immagini di notevole
condensazione metaforica:
[…] Ma già assente
sul vetro della sera un viso spazia
di donna […]
in cui la fissità ghiacciata del mondo minerale è attribuita all’evento atmosferico-luminoso e, di riflesso, anche al mondo umano; ed anche
[…] un gregge sfuma
d’incenso in nostalgia d’alpi e di grotte
in cui la metafora arditissima, dei vapori di incenso condensati nell’immagine del gregge, continua nella suggestione delle grotte e dei monti a
cui tendono egualmente, con nostalgia umana, entrambi i soggetti della metafora.
In Bacca oltre ad “[…] anca delle strade” v’è l’immagine straordinaria di
[…] alto in un velo
australe l’Arno turge
le efemeridi sperse degli scalmi
in cui si realizza l’identificazione tra il paesaggio terrestre e quello celeste
(Arno, fiume stellare) derivante dall’uso sottilmente ambiguo di termini come alto,
velo australe, efemeridi. In Cimitero delle fanciulle il sintagma
[…] tace
il mare delle vostre ombre al mio piede
propone l’immagine, continuata nel verbo e nella dislocazione (al mio piede),
dell’opaca vita marina (abissale) delle fanciulle morte, mentre nell’altro sintagma
193
Il sistema analogico del primo tempo luziano
de’ miei sguardi infecondi
l’intenta umanità delle sue stelle:
si realizza un doppio scambio tra l’umano (infecondo) e lo stellare (fecondo)
nel rispecchiamento dello scambio presentato in absentia tra l’umano (fecondo) e
l’inumano (infecondo) e nella sottolineatura del processo dialettico configurato in
simmetria strutturale.
Ma tutto il libro di Avvento notturno è così gremito di “immagini di serra
calda” e di locuzioni prepositive da rendere problematica la loro semplice citazione.
Anche Un brindisi contempla una serie abbastanza ampia di “immagini di
serra calda”, ma tutte attraversate da un brivido, già avvertibile in Avvento notturno anche se sottomesso alle finalità della vita metafisica. È da notare in Un brindisi
la portata limitativa e vibrante che l’elemento dell’aggettivazione, spesso impiegato, inserisce, implicando una più larga dissonanza, nell’incontro-scontro con il veicolo metaforico.
Ecco la serie di: “[…] brio pallido d’ulivi” (II cuore di vetro); “[…] occhio
inerme/ della luna […]” (Un brindisi); “i cavalli di febbre […]”(Un brindisi); “E
di visi una nuvola errabonda” (Giardini); “fuoco scuro della mia stella” (A un
fanciullo); “[…] fuoco fievole dell’aria” (Prima estate); “[…] pallide transenne/ di
cipressi […]” (Fenice); “[…] precipita/ il vento della mia vita in un turbine” (Non
so come); “E di suoni una siepe costernata” (Passaggio); “[…] dolore delle stanze”
(Quinta); “[…] le brume/ degli sguardi […]” (Fenice), in cui o il valore del sostantivo (febbre / brume / precipita il vento / dolore) o l’aggettivo applicato (pallido,
per due volte, / inerme / errabonda / scura / fievole / costernata) immettono nel
sintagma metaforico il senso del tremore, o l’oscurità e il dolore, o la caduta della
vitalità.
Nella serie delle analogie una più svelata chiarezza della vita cosmica, con
una progressiva tendenza alla dialettica fenomenologica, viene toccata con la metafora appositiva, con la metafora copulativa e, soprattutto, con la comparazione.
Della metafora appositiva si può citare nella Barca:
misteriosa stella che invia
la morte, il viso
d’una donna in un esule sorriso
(Scendono primavere eteree)
Molto più ricco nella prima raccolta luziana è il novero delle comparazioni,
in cui si attua l’estrema chiarezza analogica (e “l’immersione creaturale”), come si
può osservare nel Canto notturno per le ragazze fiorentine:
Come acque di un fiume sepolto rampollano dalla notte
le immagini addormentate
(Canto notturno per le ragazze fiorentine)
194
Luigi Paglia
in cui sembra ovvio il riferimento psicoanalitico che è evidente anche nei
versi della stessa poesia:
[…] del vostro corpo che dorme
e dormendo naviga senza dondolare al suo porto;
un’altra comparazione si nota in Le meste comari di Samprugnano, nei versi:
esse salendo a Dio
saranno nelle sue mani come un fiore
in cui il riferimento metafisico esplicito si somma a quello umano, come avviene anche nella composizione Alla vita:
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.
Inoltre, la globalità della vita è espressa nei Fiumi:
[…] il vuoto
di sé l’opprime come un’infeconda
primavera i ruscelli
in cui la comparazione si estende e poggia tutta sull’epiteto “infeconda”; in
La sera:
e la sera come vergini paschi
lambisce fuggitiva gli occhi [...]
con il dissonante motivo della sera fuggitiva e della fissità degli occhi che,
nella comparazione con i pascoli, perdono, o limitano, la caratteristica del movimento (dello sguardo), mentre l’immobilità della sera, al contrario, si muta in capacità motoria; in Natura:
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
in cui l’identificazione voci-uccelli si riverbera sul piano fonico-ritmico nel
profilo discendente del novenario su cui si staccano l’andamento ascendente del
ritmo giambico del successivo endecasillabo (con l’ulteriore impennata dell’accento proparossitono di balzano) e la scansione affrettata e segmentata del verso che
195
Il sistema analogico del primo tempo luziano
segue: “sopra noi come uccelli folli di tornare”; ed, infine, la totalità vitale è rimarcata
in Scendono primavere eteree:
[…] il tempo vola
dai corpi al cielo
come un liquido autunno oltre il suo velo.
con la corrispondenza analogica moltiplicata (e complicata) nel parallelismo
spaziale.
È interessante notare che, nelle strutture analogiche luziane di cui si sono dati
gli esempi precedenti, il secondo termine della comparazione è sempre tratto dal ciclo
della vita naturale (acque / fiore / rose / paschi / uccelli / primavera / autunno) a voler
sottolineare la dialettica della vita cosmica e mistica e degli elementi naturali.
Metafore appositive, copulative e comparazioni risultano mezzi espressivi di
evidente chiarezza nell’affermazione della somiglianza (o legame) della vita degli
oggetti, come già si è detto, ma Luzi ricorre in Avvento notturno anche per queste
tipologie analogiche alle metafore di luce più sfumata, o addirittura notturna (in cui
l’ambiguità è un dato fondamentale poiché dichiara e nasconde nello stesso tempo
la misteriosità dei rapporti delle cose), nella subordinazione della figurazione di
dissonanza dialettica rispetto a quella dell’armonia sintetica.
Anche le rarissime comparazioni di Avvento notturno:
[…] passano su voi
epoche e donne poi come su un’onda
i successivi venti senza sponda
(Cimitero delle fanciulle)
[…] sapevi tu che vivere
dimenticanza è solo come il labbro
delle rose ai cancelli della Brenta
(Allure)
mostrano nella struttura avvolgente, nella complessità del paragone, elementi di oscurità che ne riducono notevolmente la portata esplicativa.
Ed anche le metafore appositive sono generalmente portate in modo insidioso, come in Miraglio:
Voi librate sugli indachi perversi
dei muschiosi angiporti, oasi d’amore,
voi città, draghi insorti dal profondo
della mia vita ancipite e indolore!
con la giustapposizione a contatto di due strutture appositive, o come in (se
musica è la donna amata):
196
Luigi Paglia
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
con l’espediente della parentesi, o come in Già colgono i neri fiorì dell’Ade:
Nel vento il tuo corpo raggia infingardo
tra vetri squillanti stella solitaria
in cui i due termini appositivi sono allontanati dal sintagma “tra vetri squillanti”.
La chiarezza delle metafore copulative: “[...] un’ombra temporale / fu la tua
mano [...]”(Periodo); “la sua voce nell’aria era una roccia” (Avorio), contrasta, in
Avvento notturno, con altre immagini di più insidiosa portata, rilevabili solo in
relazione al contesto e che possono essere definite ‘immagini sotterranee’ e di cui
possono essere portati come esempi: “la falange odorosa a primavera” (Saxa); “[...]
ma già eterna / la vedova di sé avvolge le tombe” (Vino e ocra); “[...] Nel tepore / dei
lattici notturni[...]” (Vino e ocra) con cui viene iniziato un quadro di estrema suggestione metafisica che si prolunga nei versi seguenti: “[...] esita il vento / cercandosi
nel solco delle aduste /Orse d’un tempo[...]”.
La portata già limitata in Avvento notturno delle comparazioni, metafore
appositive e copulative si riduce in Un brindisi, le cui scarse immagini esemplificano ancora una volta il tema di differenziazione o, meglio, di accentuazione, rispetto
ad Avvento notturno, del dolore vibrante e del silenzio, nelle metafore appositive:
Fra i visi inorriditi che si volgono
per non vedere, il tuo sporge più intenso,
più alta rocca di lagrime confitta nel silenzio,
un debole sorriso quasi un’acqua latente
(Viso, orrore)
[...] i palazzi,
gelidi testimoni [...]
(Continuità)
nella metafora copulativa:
La mano nei rovi vizzi è una fiamma
crepitante di febbre vitrea semiviva
(Già goccia la grigia rosa il suo fuoco)
e nella comparazione:
[…] il piede freddo come il prisma
(Passaggio).
197
Il sistema analogico del primo tempo luziano
L’analisi semiotica del sistema metaforico (sul terreno “analogico”, del “primo tempo” della poesia di Luzi conduce alla rilevazione di due linee di tendenza, in
posizione di interferenza e di scambio reciproco: una linea, esplicitamente dichiarata, che si rifà all’ideologia simbolista, nella raffinatissima formulazione del momento mistico, di comunione universale di tutte le presenze del cosmo; e un’altra
linea, più sotterranea ma non per questo meno incisiva (e corrosiva), che revoca,
oscuramente e violentemente, in dubbio le strutture precostituite del sistema letterario vigente, insinuando lo scambio, la violenza dialettica tra le “persone separate”
(e il sentimento della crisi e del dolore universale), e segnando un ulteriore procedimento dialettico fra le due linee di condensazione poetica, così che “il fermento
dialettico” può essere riguardato come struttura portante, elemento di aggregazione della costellazione tematico-espressiva della poesia di Luzi.
Lo scandaglio metaforico-tematico porta, inoltre, all’ulteriore rilevazione (in
sede di motivazione della solidarietà strutturale dei testi) della corrispondenza
stratigrafica del piano figurativo (opposizione o scambio della raffigurazione antropologico-oggettuale e del rarefatto disegno metafisico) con la disposizione delle strutture metaforiche (dialettica delle immagini sotterranee e di quelle più scoperte).
Le strutture poetiche luziane appaiono, quindi, come “il luogo” di manifestazione di una lotta interna tra l’ideologia apparente e la visione del mondo di
profondità (in un processo di affioramento dell’inconscio che lievita e sostanzia la
“Persona” o “maschera”, secondo le ipotesi della psicologia analitica di C. G. Jung),
motivando, sul piano poetico ed ideologico, l’importanza del poeta fiorentino che
riesce a presentare nella sua opera il “correlativo oggettivo”, in forma estremamente drammatica (perché sotterranea ed implicita), delle forze spirituali e del pensiero
del mondo contemporaneo.
È quasi superfluo aggiungere che la linea dialettica luziana, sotterraneamente
viva nelle prime opere del poeta, ha lievitato in decisa coscienza di sé la sostanza del
“secondo tempo” luziano (fino a giungere alla violenta affermazione di Nel magma
e di Ipazia, il primo “poemetto drammatico” del poeta), mentre la seconda traiettoria (metafisica) ne ha fermentato il fondo poetico (in una specie di bilanciamento
simmetrico) convertendosi (o stabilizzandosi) dall’astrazione folgorante alla cocente concretezza dell’amore per gli uomini.
La mappa della figurazione poetica luziana rappresenta, pertanto, una serie
di rapporti (di contraddizione e scambio) che possono essere definiti nella loro
omologia (piano verticale) ed opposizione (piano orizzontale), e con la confluenza
del tema 2a in 3b, nello schema seguente:
1 a Ideologia ermetico-simbolista
<———> 1 b Visione del mondo
di profondità (dialettica)
2 a Armonia / sintesi / comunione <———> 2 b Dissonanza / analisi
/ scontro
3 a Astrazione / metafisica
<———> 3 b Concretezza / umanità
/ amore
198
Luigi Paglia
Essi disegnano sul piano poetico quella figurazione di incontro di assi
cartesiani cosmici, del Dio verticale del cristianesimo e del Dio orizzontale del
marxismo, vaticinato da Teilhard de Chardin.
199
200
Attività della Biblioteca
202
Grazia Carbonella
Il trionfo della castità di Santo Alessio.
Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
1. Introduzione
Dalla fine del Seicento, e poi per tutto il Settecento, grazie ai finanziamenti e
al sostegno manifestato dal viceré, il duca di Medinaceli, Napoli conquistò un indiscusso primato nella produzione operistica.1 E così, le classi dominanti che nel Seicento frequentavano il teatro San Bartolomeo per assistere all’opera seria per svago
e per coltivare relazioni sociali,2 dall’inizio del Settecento cominciarono a recarsi
anche al teatro dei Fiorentini, dove a partire dal 1709 iniziarono ad essere rappresentate le prime commedeje pe mmuseca.3 Si trattava di uno spettacolo in due o tre
atti destinato ad entrare ben presto in concorrenza con l’opera seria. Interamente
scritto in dialetto napoletano portava sulle scene quadretti di vita quotidiana tratti
dalla realtà popolare. Oltre alla protezione delle autorità e dei ceti nobiliari anche
l’ottimo sistema di istruzione musicale praticato dai celebri Conservatori,4 in cui si
rappresentavano drammi sacri come saggi finali della carriera scolastica degli allievi
più meritevoli, concorse a favorire la produzione operistica napoletana.
1
Per una panoramica sulle prime apparizioni dell’opera a Napoli cfr. Michael F. ROBINSON, L’opera napoletana, Venezia, Marsilio, p. 20 e segg.
2
Le famiglie più altolocate affittavano i palchetti, che venivano arredati con mobili e stemmi di famiglia,
e si recavano tutte le sere a teatro, soprattutto nel periodo di carnevale – che cominciava il 26 dicembre e
terminava il martedì grasso. Nei singoli palchi non si faceva solo conversazione, ma si allestivano anche
rinfreschi e, talvolta, vere e proprie cene che i servitori potevano preparare in locali appositi. Cfr. Mario
CARROZZO - Cristina CIMAGALLI, Storia della musica occidentale, Roma, Armando, 2001, 3 voll.: vol. II, pp.
290-291.
3
Il capostipite comunemente riconosciuto di questo genere fu La Cilla di Francesco Antonio Tullio, rappresentato con musica di Michelangelo Faggioli il 26 dicembre 1707 nel palazzo dei principi di Chiusano, al
cospetto del viceré. Cfr. Paolo GALLARATI, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino, EDT,
1984, p. 107.
4
Nati nel Cinquecento per accogliere i bambini poveri, abbandonati o orfani, i Conservatori napoletani
divennero ben presto celebri per la formazione musicale impartita grazie alla presenza di musicisti di prim’ordine in qualità di insegnanti. Col passare del tempo agli ospiti indigenti si affiancarono allievi a pagamento,
i cosiddetti pensionisti. A partire dal Settecento l’insegnamento fu organizzato a piramide, per cui gli alunni
più valenti, designati sotto il nome di “mastricelli” insegnavano agli alunni principianti. Per la storia dei Conservatori cfr. Francesco FLORIMO, La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatori, Bologna, Forni, 1969, 4
voll.: vol. II; Carlantonio VILLAROSA, Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia Reale, 1840, pp. VIII-XV; Fabrizio DORSI - Giuseppe RAUSA, Storia dell’opera italiana, Milano, Bruno
Mondatori, 2000, p. 77.
203
Il trionfo della castità di Santo Alessio. Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
Oggetto della nostra indagine è per l’appunto il libretto di uno di questi saggi: Il trionfo della castità di Santo Alessio,5 del giurista Nicola Corvo6 con musiche
di Leonardo Leo,7 dramma allestito nel 1713 presso il Conservatorio Santa Maria
della Pietà dei Turchini di Loreto. L’allestimento di questi drammi, interamente
composti, eseguiti e messi in scena dagli allievi dei Conservatori che, del resto, erano largamente impiegati dalle principali istituzioni civili, ecclesiastiche e private
della città8 durante il corso dei loro studi,9 faceva parte, come già accennnato, a
pieno titolo delle attività didattiche.
Il nostro libretto è un esempio di dramma sacro, genere che, a cavallo tra Sei
e Settecento, ha risentito profondamente dell’influenza del teatro spagnolo attraverso l’impiego di modelli di riferimento quali gli autos sacramentales e le comedias de
5
Sul frontespizio del libretto si legge: Il / trionfo / della castità / di / Santo Alessio / dramma / di Nicola
Corvo / dedicato / All’illustriss. ed Eccellentiss. Sig. / la Sig. Contessa / CAMILLA BARBERINI BORROMEI
/ Vice-regina nel regno di Napoli. / Da Rappresentarsi nel Real Conservatorio, / detto delli Turchini, / con
musica /di Lionardo LEO / Figliuolo dello stesso Conservatorio. Il libretto è citato nel catalogo Sartori dove
sono indicati solamente due esemplari conservati rispettivamente presso il Civico Museo Bibliografico Musicale e presso la Biblioteca Universitaria di Bologna. In realtà un esemplare è conservato anche presso la Biblioteca Provinciale di Foggia, rilegato in un unico volume insieme a Il Gaudio de’ pastori o sieno I sette doni
dello Spirito Santo di Marco Pasquale Garzillo, Il Goffredo o sia La Gerusalemme liberata, tragicommedia e
Il simbolo della Grazia ovvero La Cassilda di Filippo Itto. Sono tutti drammi sacri, ma solo Il trionfo della
castità di Sant’Alessio è destinato alla musica. Nel catalogo Sartori viene riportato anche il frontespizio di una
seconda impressione risalente al 1719: Drama sacro di Nicola Corvo dedicato all’eminentissimo […] cardinale
Wolfango Annibale di Scrattenbach […] viceré, luogotenente e capitano generale in questo regno. Seconda
impressione. Per rappresentarsi nuovamente nel regal Conservatorio detto de’ Turchini in quest’anno 1719.
Con musica del sig. Lionardo Leo in tempo ch’egli era figliolo dello stesso conservatorio. Di questa edizione
sembra ci sia un solo esemplare conservato presso la Thomas Fisher Rare Book Library dell’Università di
Toronto.
6
Avvocato, fu anche Presidente della Regia Camera della Sommaria. Per ulteriori notizie su Nicola Corvo
cfr. Pietro MARTORANA, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Bologna,
Forni, 1972, pp. 159-174.
7
Compositore di origine pugliese (S. Vito dei Normanni (Brindisi) 1694 - Napoli 1744) visse a Napoli al
servizio della cappella reale, prima in qualità di organista, poi come maestro di cappella. Insegnò in vari Conservatori napoletani ed ebbe tra i suoi allievi Jommelli e Piccinni. Esponente della ‘scuola napoletana’, che
dominò le scene dei palcoscenici settecenteschi di tutta Europa, compose oltre settanta opere tra serie e comiche, oltre a sette oratori, musica sacra e strumentale. Cfr. M. CARROZZO - C. CIMAGALLI, Storia della musica
occidentale …, cit., pp. 298 e 326.
8
“Cresciuto di molto il numero degli ammessi [nei Conservatori], fu necessario di rinvenire nell’opera
stessa i mezzi come sostenere le spese del mantenimento del pio luogo […]. Fu dunque messa a profitto
l’opera degli alunni medesimi, dei quali, alcuni dei più piccoli furono destinati a servir le messe in diverse
chiese della città […]; altri fra i piccoli medesimi furono destinati a fare da angioletti attorno ai cadaveri dei
fanciulli; ed altri più grandicelli, a trasportarli nelle bare, sulle spalle o a mano, ed a seppellirli. Fra i mezzani
ed i più grandi di età, divisi in più sezioni che si chiamavano Paranze, c’erano alcuni piccoli Sopranelli e
Contraltini, addetti all’esecuzione delle musiche pagate. […] Pertanto non vi era giorno in cui non uscissero
da ciascun conservatorio, oltre i ragazzi suddetti pel servizio delle messe e per le esequie dei morticelli, tre o
quattro di dette paranze, non solo per eseguire le musiche da chiesa […], ma ben anche per andare avanti alle
processioni dei santi e far delle musiche che si chiamavano flottole, per cantare il Libera me Domine attorno ai
cadaveri nelle case private, per andare nelle medesime a sonare nelle feste da ballo o altri divertimenti, passandovi l’intera notte, per andar recitando commedie, in tempo di carnevale nei monasteri di frati e di monache,
trattenendosi nei luoghi lontani per un mese o due, e finalmente per servir da coristi nei teatri […]”. Cfr. F.
FLORIMO, La scuola musicale ..., cit. pp. 75-76.
9
Cfr. F. DORSI - G. RAUSA, Storia dell’opera…, cit., p. 77.
204
Grazia Carbonella
santos, in cui i personaggi napoletani sostituivano i graciosos.10 Grazie alla mediazione dei Conservatori, dove abbiamo visto questi drammi essere rappresentati periodicamente,11 si definì un repertorio di situazioni musicali legate al linguaggio e
ai tipi partenopei, destinato a confluire poi nell’opera buffa.
In realtà, lo stesso Croce ricorda come questi drammi si rappresentassero “un
po’ dappertutto, nei conventi, nei collegi, nelle case private, nel palazzo reale e nei
teatri pubblici durante la quaresima”.12
All’interno di questa produzione, che ebbe larghissima fortuna, soprattutto tra
le classi più umili fino all’Ottocento, è inoltre possibile individuare echi di un’altra
tradizione teatrale: quelli del teatro gesuitico.13 Del resto, nella stessa Ratio studiorum
della Compagnia del Gesù,14 redatta tra il 1580 e il 1630, in cui si definivano le caratteristiche di ogni nuova istituzione educativa e le basi della formazione da impartire,
si ribadiva l’importanza della retorica, considerata un fondamentale segno di distinzione e di prestigio, insistendo prevalentemente sul suo aspetto orale. Per questo
presso la Congregazione la retorica stabilì ben presto una proficua osmosi con il
teatro, tanto che nel 1727 Francesco Lang realizzò una specifica Dissertatio de actiones
scenica. Era infatti largamente condivisa la convinzione che il forte impatto della rappresentazione scenica sull’immaginazione degli spettatori potesse esaltare l’espressione del pensiero, che assumeva così, sebbene temporaneamente, un’efficacia superiore ad altre forme di espressione, quali ad esempio, il foglio stampato. In realtà già
nel Medioevo fu riconosciuto pieno valore didattico agli exempla e ben presto ci si
accorse che quella narrazione, se ridotta a rappresentazione visiva, poteva acquistare
una più incisiva potenzialità di penetrazione da parte del pubblico.15 Per cui il teatro
non era soltanto un’occasione per gli allievi di verificare la propria preparazione retorica, ma era anche un modo per raggiungere la persuasio del pubblico, obiettivo perseguito costantemente durante tutta la storia della Compagnia.16 La commistione tra
lingua dialettale e temi sacri presente in questi drammi non deve stupire se pensiamo
10
Si deve a Lope de Vega l’impiego sistematico della “figura del donaire” o “graciosos”, che probabilmente
risale al pastore “parvo” del Cinquecento iberico, impiegato nelle egloghe drammatiche da Encina. Sarà tuttavia solo nel teatro seicentesco che questo personaggio diventerà il fulcro della commedia, favorendo la mescolanza e la confusione di situazioni comiche e serie, tipica della tragicommedia. Cfr. Spagna, in Silvio D’AMICO,
(a cura di), Enciclopedia dello spettacolo, Roma, Sadea/Le Maschere, 1954-1962, 9 voll.: vol. IX, p. 168.
11
Il primo di questi sembra sia stato Il fido campione di Giovan Francesco del Gesù detto Apa, rappresentato nel 1656 presso il Conservatorio di S. Maria di Loreto. Cfr., F. DEGRADA, L’opera napoletana, in Storia
dell’opera, Torino, UTET, 1977, 6 voll.: vol. I, p. 281.
12
Cfr. Benedetto CROCE, I teatri di Napoli dal rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Bari, Laterza,
1926, p. 110.
13
Cfr. F. DEGRADA, L’opera napoletana, cit., pp. 280-281.
14
La potente Congregazione ebbe un ruolo notevole nella formazione del clero post-tridentino, nello svolgimento di una poderosa attività missionaria e nell’acculturazione delle masse popolari, ponendosi sempre come
guida spirituale delle classi dirigenti. Cfr. Gian Paolo BIZZI, (a cura di), La “Ratio studiorum”. Modelli culturali
e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 8-9.
15
Cfr. Josè Antonio MARAVALL, Teatro e letteratura nella Spagna barocca, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 13-14.
16
Cfr. G.P. BIZZI, La “Ratio studiorum”…, cit., pp. 78-92.
205
Il trionfo della castità di Santo Alessio. Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
al dichiarato scopo di educare il popolo propugnata dai gesuiti che veicolavano il
tema della vittoria del bene sul male attraverso il messaggio controriformistico, affidato ad angeli, diavoli e santi, commisto a forme di cultura popolare, con la funzione
di catturare l’attenzione del pubblico e di alleggerire l’azione teatrale.17
Il libretto de Il trionfo della castità di Santo Alessio testimonia inoltre anche
una stretta parentela con la commedia per musica e, quindi, con la commedia
napoletana in prosa che proprio in questi anni nasceva come ulteriore frutto della
ricca letteratura napoletana. E lo stesso Nicola Corvo altri non è che il misterioso
Agasippo Mercotellis18 autore della prima commedia dialettale in musica Patrò
Calienno de la Costa, rappresentata al Teatro dei Fiorentini nel 1709 con musica
di Antonio Orefice, inaugurando una lunga stagione che darà origine, in un secondo tempo e in seguito alla diffusione nazionale, all’ ‘opera buffa’. L’identificazione si basa in gran parte sul fatto che lo stesso Corvo era l’autore di La Perna,
una commedia che con pochi tagli è per l’appunto il Patrò. Quindi, sul tronco
drammaturgico della commedia in prosa sembrano essersi innestate le forme dell’aria e del recitativo, mentre l’uso del dialetto va interpretato come il rifiorire di
una tradizione culturale autoctona, in opposizione alla dominazione spagnola.
Artefici di questo innesto furono in gran parte autori appartenenti al ceto forense
che per il loro stesso ruolo professionale conoscevano profondamente e direttamente la vita del popolo.19
Da questa panoramica appare chiaro come nel dramma sacro siano confluite tradizioni molto diverse: il teatro gesuitico, la commedia musicale e la commedia in prosa. Ognuna di queste ha lasciato una traccia in un genere teatrale, quello
religioso, che ha potuto così vantare una vasto e sommerso passato, senza avere
un vero futuro.
2. Il libretto
Il trionfo della castità di Santo Alessio è un dramma in tre atti in cui si muovono quindici personaggi: il Coro di Demoni, che interviene poco e solo all’inizio
del dramma, Lucifero, Astarot, Levietan, Asmodeo, Angelo, Alessio, Eufemiano
(padre di Alessio), Aglesia (madre di Alessio), Ersilia (sua promessa sposa), Valerio
17
Cfr. Pino SIMONELLI, Lingua e dialetto nel teatro musicale napoletano del ‘700, in Lorenzo BIANCONI Reato BOSSA (a cura di), Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, Firenze, Olschki, 1983, pp. 225-235.
18
L’identificazione è stata fatta da Benedetto Croce. Cfr., B. CROCE, I teatri di Napoli…, cit., p. 135. Per
ulteriori notizie relative alla produzione di Corvo cfr. Vittorio VIVIANI, Storia del teatro napoletano, Napoli,
Guida Editori, 1969, pp. 26-27 e pp. 250-291.
19
“[…] lo spettatore non è più trasportato su terre straniere, in tempi remoti; ma qui sulla scena è sempre un
sobborgo di Napoli, con in fondo la nostra marina e i nostri poggi infiorati. Vi si sente la viva voce del popolo,
il frizzo indigeno e la canzone popolare; e si assiste non più al succedersi di scene bislacche e stravaganti, bensì
di tanti bozzetti colti dal vero”. Cfr. Michele SCHERILLO, L’opera buffa napoletana, Napoli, Remo Sandron,
1916, p. 56.
206
Grazia Carbonella
(pretendente di Ersilia), Masullo (servo napoletano di Eufemiano), Calista (vecchia
di casa), Cecchino (paggio) e Giampietro (servo calabrese). Si tratta di personaggi
seri, comici e di mezzo carattere che conducono l’azione intrecciando la vicenda
religiosa e intima della fedeltà al voto compiuta da Alessio e la disperazione dei suoi
cari per la sua assenza, con elementi comici e leggeri. Sul libretto mancano indicazioni sceniche particolari: sono infatti elencate solo cinque vedute: l’inferno con il
trono di Lucifero, il cortile di Eufemiano, l’anticamera, la stanza di Alessio e la
scena finale dell’estati. Non sono previsti quindi molti cambi di scena, né tanto
meno l’impiego di una sfarzosa scenografia. Non è certo il luogo dove questo dramma fu rappresentato.20
La storia è quella della tradizione basata sulla leggenda orientale diffusasi in
Occidente nel X secolo in una redazione prosastica latina, parafrasata in versi nella
Vie de saint Alexis francese dell’ XI secolo. La leggenda ebbe molta fortuna in Italia
e alimentò prose, versi e canti popolari, tra cui il noto Ritmo di Sant’Alessio.21
Alessio, appartenente ad una nobile famiglia romana, conduce una vita agiata e
spensierata, ma in fondo al suo animo già è forte il richiamo alla vita religiosa. Poco
prima di convolare a nozze con Ersilia, sua promessa sposa, parte romito per terre
lontane. Dopo molti anni di assenza, ritorna come pellegrino ospite della sua famiglia;
ovviamente nessuno lo riconosce, eppure tutti nutrono una forte simpatia nei suoi confronti. Durante la sua permanenza è continuamente tentato dal demonio Asmodeo
affinché riveli la sua vera identità, ma confortato dalla preghiera e dall’intervento di un
Angelo riesce a mantenere il suo segreto fino a quando subentra il momento del trapasso in cui rivela alla sua famiglia, tramite una lettera, la sua vera identità.
Questa è la trama essenziale, così come era stata sostanzialmente impiegata
nel celebre antenato di questo dramma: Il Sant’Alessio di Giulio Rospigliosi rappresentato con musiche di Stefano Landi a Roma nel 1632.
Il nostro libretto si apre con una lunga scena ambientata nell’inferno in cui i
demoni al cospetto di Lucifero raccontano, in una sorta di prologo, la storia di Alessio
e di come abbiano cercato di insidiarlo senza successo. Quindi Lucifero affida nuovamente ad Asmodeo l’incarico di far recedere Alessio dal voto di castità. In questi versi
traspare chiaro il richiamo alla tradizione gesuitica e alla loro disciplina:
20
Ralf Krause dice che prima che Leo concludesse i quattro anni di studio compose due drammi sacri: S.
Chiara o L’infedeltà abbattuta e, per l’appunto, S. Alessio che trovarono unanime plauso nelle esecuzioni al
teatro del Conservatorio e al Palazzo Reale nella stagione di carnevale del 1712 e del 1713. Cfr. Ralf K RAUSE,
La musica sacra di Leonardo Leo. Un contributo alla storia musicale napoletana del ‘700, Brindisi, Provincia
di Brindisi, p. 3. Fétis, dal canto suo, parla de Il Santo Alessio cantata religiosa eseguita dagli alunni del Conservatorio di Sant’Onofrio davanti alle porte del monastero di Santa Chiara. Cfr., Francois Joseph FÉTIS,
Biographie universelles des musiciens et bibliographie générale de la musique, Paris, Firmin Didot, 1868-1869,
8 voll.: vol. V, p. 274.
21
Si tratta di un esemplare unico legato all’ambiente benedettino marchigiano, risalente alla fine del XII - inizio
XIII sec., copiato nei primi anni del Duecento all’interno di un codice del monastero di Santa Vittoria in Matenano,
nella diocesi di Fermo. Il testo, che ci è giunto mutilo, è considerato una delle prime testimonianze della letteratura
italiana in lingua volgare, probabilmente una registrazione di un testo orale, ad uso dei giullari. Cfr. Enrico MALATO
(a cura di), Storia della letteratura italiana, Roma, Salerno, 1995, 12 voll.: vol. I, pp. 244-245.
207
Il trionfo della castità di Santo Alessio. Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
Levietan
Non vuol del Padre il Giovan discreto
Contraddire ’l disìo:
Di veste ricche, e d’oro
In nobile lavoro
Sagace non ricusa,
Che apparisca fra gli altri ’l corpo adorno;
Ma poi di sotto intorno
Sopra la nuda carne
Con duri ferri aspre punture innesta;
In passatempi, e’n sesta
Tra compagni, ed amici non ischiva
Ritrovarsi per poco;
Ma nel più chiuso loco
Di sua Casa ridotto, quivi piange
Colli suoi l’altrui falli,
Al suo Signore orãdo, in chi sol si trova
Vero contento, e pace,
E così noi deride, e al Ciel piace.
(I,1)
3. Arie
Dall’analisi del libretto risultano impiegate 35 arie con da capo,22 di cui 6 di
sortita23 e 9 di entrata.24 Negli altri casi l’aria è collocata al centro della scena, nel
bel mezzo del recitativo che precede e segue come in un discorso diretto: siamo
ancora lontani da quella tendenza che si stava diffondendo nel melodramma serio
in cui, grazie alla riforma di Zeno, l’aria era separata dall’azione drammatica. Così
Eufemiano canta piangendo, proprio con lo stesso Alessio, il figlio disperso:
Eufemiano
*Alessio25
E non dovev’almeno
Sia da vicina, o da lontana parte
Scrivermi un foglio?
Oh Dio
22
Si tratta di una forma che ebbe un enorme successo nel Settecento e comprendeva due sezioni nettamente
distinte, seguite dalla ripetizione della prima parte (forma aba). Da un punto di vista musicale le due sezioni a
e b sono totalmente indipendenti e quasi sempre la sezione b non si conclude nella tonalità iniziale, ma in una
vicina, rendendo quindi necessaria la ripresa della sezione a per riconquistare la tonalità d’impianto. Cfr.
CARROZZO - CIMAGALLI, op. cit., p. 308.
23
È l’aria che apre la scena, in cui il personaggio uscendo dalle quinte sul palcoscenico si presenta. Ha una
funzione propulsiva rispetto alla vicenda. Cfr. ibid., p. 84.
24
È l’aria che chiude la scena, dopo di che il personaggio rientra fra le quinte; ha una funzione drammaturgia più statica perché quasi sempre il personaggio commenta quanto accaduto in scena. Cfr. ibid.
25
L’uso dell’asterisco, così come compare sul libretto, indica che il personaggio parla da parte.
208
Grazia Carbonella
Eufemiano
Da’ forza al petto mio
Figlio amato
Se sei vivo,
Non più ingrato
Mi far privo
D’un avviso almen di te:
E se morte
L’aspra sorte
Gia ti die,
Per consuolo
Del mio duolo
L’ombra bella veng’a me:
Figlio & c.
(I,3)
In questo libretto, così come nelle prime commedie in musica napoletane, è
forte l’influsso della commedia recitata, in cui il comico si accompagna al gusto per
il mezzo carattere, tanto da sfumare in momenti di malinconia e di introspezione. È
una comicità piuttosto lontana da quella della commedia dell’arte, impostata su
topoi e su personaggi fissi, sul gioco di parole e su allusioni oscene. L’elemento
comico qui agisce su due piani diversi: quello di Masullo e di Giampietro, e quello
di Cecchino. Se con i servi gli episodi comici nascono dalla rappresentazione del
quotidiano - e si tratta di buffonerie leggere e schiette - con Cecchino si avverte
tutto il Barocco e la sua dissimulazione, il servire con astuzia e con circospezione.
Così, rimproverando ad Alessio di mangiare pane a tradimento da ben diciassette anni in casa dei suoi padroni, Masullo dice:
Masullo
Mperzone
Commico statte zitto,
Già che te vene bona, tira nnante,
Ca è na bell’arte fare lo berbante.
A me che so de Napole,
Ammico de Salemme,
Co fà lo ghiemme ghiemme
Non me la suone no:
Sto ntiso de ste trapole;
A stì patrune racchie,
Rechiamme de vernacchie
Puo dì chello che buo.
A me che so & c.
(I,4)
È una comicità fresca quella di Masullo, è la voce del popolo che si esprime
con toni di accesa misoginia deridendo l’innamoramento di Valerio per Ersilia:
209
Il trionfo della castità di Santo Alessio. Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
Masullo
Chi fid’a femmena
Malanne femmena
Cridel’a me
Accossi dissero
Chille che morzero,
Accossi diceno
Chille che campano
E lo mmedesemo
Derranno ll’autre
Ch’appriesso veneno,
Ch’accossi è
Chi & c.
(II,8)
Diversa è la comicità di Cecchino, più sottile e più subdolo il personaggio.
Quando rivela di derubare puntualmente il cesto del pranzo destinato ad Alessio
così canta, chiudendo la scena:
Cecchino
Mangia pur’ a tuo piacere,
E puoi bere a sazietà
Ah, Ah, Ah
Che tu mangi, io mangerò,
E tu bevi, io beverò
Ma la pancia io m’empirò,
La tua vuota resterà.
Ah, Ah, Ah
Mangia & c.
(I,8)
Dello stesso stampo è l’aria in cui Cecchino descrive Alessio dopo che
Asmodeo, in forma umana, ha accusato di diffamare Eufemiano e tutti gli abitanti
della casa, suoi benefattori:
Cecchino
Vero, verissimo:
Certo, certissimo:
Tutt’e malizia,
Tutt’è tristizia,
da capo a piè:
Quel languidetto
Umil visetto,
Quell’occhio basso,
Quel tardo passo,
Per ingannare,
210
Grazia Carbonella
Per funfantare
Fatto sol’è.
Vero & c.
(II,4)
Ma Cecchino è anche portavoce di una forte critica sociale:
Cecchino
[…]
Perché piange il Padrone
Ha da pianger la Corte? e pur’è questa
Del corteggian la vita.
Se vita puo chiamarsi
(Come disse colui) quella, che in Corte
È registrata al libro della morte:
Se non fosse in ver peccato,
Chi mi pose in questo stato
Vorrei sempre maledir:
Star soggetto de’ Padroni
Agli umori, or mali, or buoni
È un tormento da morir:
Se non fosse, & c.
S’essi piangon, s’ha da piangere,
S’essi ridon, s’ha da ridere,
E di piangere,
E di ridere,
Non avrai forse disir.
Star, & c.
Nella Corte in conclusione
Regna solo la finzione,
Non v’è amor, ne carità,
E chi fingere non sa
Mille torti ha da soffrir.
Se non fosse, & c.
(II,11)
Ed è indicativo come c’era ancora una certa cautela a esprimere palesemente
idee come queste, tanto che sul libretto è indicato di non mettere in musica questa
sezione. In queste parole si percepisce ancora tutto il peso del secolo appena trascorso, in cui la pratica della dissimulazione26 aveva contraddistinto qualunque atteggiamento di vita sociale.
26
“Affrontata dal pensiero classico e medievale come un problema eterno dell’uomo, del rapporto tra apparenza e realtà, tra menzogna e verità, essa fu considerata nel tardo Cinquecento e nel secolo successivo soprat-
211
Il trionfo della castità di Santo Alessio. Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
4. Concertati
Ci soffermiamo ad analizzare le due scene di alterco che nel Il trionfo della
castità di Santo Alessio chiudono i primi due atti con il terzetto Calista-MasulloGiampietro e il duetto Masullo-Giampietro.
Calista
Giampietro
Calista
Masullo
Calista
Masullo
Calista
Giampietro
Masullo
Giampietro
Calista
Masullo
Calista
Così parli briccone
Di una Donna mia pare?
Un fare llu smargiassu
Cca dintra, jammu fora,
Se boui brutto anemale,
Che cuomo pittu srappa ssu gangale.
E ti farò ancor io
Assagiar l’ira mia.
Facitev’a tenere
Ca mme facite torcere.
Arrogante:
O’ sio Roggiero mio, sia sbratamente.
O’ che brave nnamorate
N’autra cocchia addove ll’ascie:
Bella razza de verlascie
Potarriano certo fa:
Mala lingua, furfantone
Ti farà questo bastone
Dir’assè la verità.
Cuzzalune malandrinu
Puorcu, fintu, cannaijnu
Và ti mbizza de parrà;
Calista comincia a bastonare Masullo
Ma ve siti allecordate
Troppo a tardo: chiano, chiano.
Dalle buono a ssu berbante.
Prendi questa ch’è galante
Te sia cionca quella mano
To quest’altra.
Masullo procurerà sempre
tutto come un aspetto della vita politica e del costume del tempo.” Nel 1641 Torquato Accetto scrive Della
dissimulazione onesta, libretto che sarà ripubblicato nel 1928 da Benedetto Croce che individua il fulcro di
quest’opera nel voler salvaguardare “con la pratica del “viver cauto”, la libertà interiore dell’individuo ed
esaltarne il valore”. Per la durezza dei tempi e l’oppressione politica e culturale, la verità doveva rifugiarsi
nell’intimo, giustificando così il paradosso dell’accostamento tra dissimulazione e onestà. Cfr. Rosario VILLARI,
Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Bari, Laterza, 1987, pp. 18 e 30.
212
Grazia Carbonella
Masullo
Giampietro
Masullo
Giampietro
Calista
Giampietro
Masullo
di risparmiar’ esso dalle bastonate, e che
colpiscano Giampietro.
Scappa, scappa.
Zuc’alleffe, sbruffa pappa
Un fa arruri, jeu sulu piscu.
Dalle forte.
Stignu friscu.
Oimè stanca son giá.
Ahi, Ahi.
Ah, Ah, Ah, Ah, Ah, Ah, Ah
(I,11)
Questo concertato in ottonari e l’altro “Jeu signu nnuzente” (II,15) in quinari
variamente rimati per la loro stessa struttura testuale presuppongono una forma
musicale altrettanto chiusa. Si tratta di concertati dialogici d’azione che nascono
proprio nelle scene d’alterco: “vivacissime scene di confusione dove la stratificazione
polifonica ‘imita’ ancora il sovrapporsi delle voci nel brulichio sonoro del battibecco; solo in seguito, nella loro progressiva emancipazione, i pezzi d’assieme giungeranno invece a rappresentare le situazioni e i sentimenti più diversi, sino agli abissi
del dolore e della tragedia spalancati dal teatro di Mozart dove i concertati si estenderanno a macchia d’olio”.27
5. Conclusioni
Diversamente da quanto si potrebbe pensare per l’impiego del dialetto e per
la presenza di personaggi comici, il libretto di questo dramma è il frutto di una
precisa volontà di rinnovamento, compiuto in piena consapevolezza culturale. Si
tratta di un testo colto quindi, in cui le stesse citazioni dantesche ribadiscono una
solida formazione umanistica dell’ autore.
Nella scena sesta del primo atto Asmodeo a Valerio, che confida le sue pene
d’amore per Ersilia, risponde proprio con le parole di Francesca da Rimini (Inferno, canto V).
Asmodeo
Amore’n cor gentil ratto s’apprende.
(I,6)
E ancora echi danteschi risuonano nella falsa lettera di Ersilia che Asmodeo
consegna a Valerio contenente una sua falsa dichiarazione d’amore:
27
P. GALLARATI, Musica e maschera…, cit., p. 117.
213
Il trionfo della castità di Santo Alessio. Il dramma religioso come antenato dell’opera buffa
Valerio
Asmodeo
Valerio
Ersilia scrive?
Appunto.
O note care,
Dolce nome adorato.
Amor, che a un cor’amato
Non perdona l’amar, dalla mia mente
Sgombrato ogn’altro affetto
Gia m’accese ’l desio
D’esser tua serva, e sposa.
(II,2)
Legge
Così sembra di risentire Catullo e il suo amore per Lesbia,28 quando Valerio
s’illude per la confessione d’amore dichiarata nella falsa lettera da Ersilia e così
canta:
Valerio
Con cento baci, e cento
Pegni del mio contento,
Ricevo del mio ben
L’amato foglio:
E un di se bacerò
La man, che lo vergò
Per sempre nel mio sen
Tener lo voglio
Con, & c
(II,2)
Il carattere colto della composizione si evince dalla stessa dedica del dramma. Si tratta della contessa Camilla Barberini Borromei, vice regina del regno di
Napoli, come si legge sul frontespizio del libretto. Pronipote di Urbano VIII e
figlia del principe di Palestrina, aveva sposato nel 1689 Carlo Barberini che dal
1710 al 1713 era stato insignito della carica di viceré di Napoli, dopo che gli antichi
domini spagnoli d’Italia erano passati all’Austria.29 La dedica è firmata dal delegato
e dai governatori del Conservatorio e questo ci fa capire che il dramma era chiaramente un dono di riguardo e che non poteva che essere frutto di un accorto lavoro
tanto musicale che letterario.
28
29
Ovviamente si tratta del celebre Carmina V.
Cfr. http://www.borromeo.it/storia.htm, dicembre 2004.
214
Recensioni
216
Pasquale di Cicco
Cristanziano Serricchio: Siponto-Manfredonia
di Pasquale di Cicco
Il posto di spicco che Cristanziano Serricchio occupa nel panorama culturale, non solo dauno e meridionale, non è certamente immeritato.
Esso trova infatti solide fondamenta in un’intensa ed apprezzata attività intellettuale, documentata in particolare da un lungo, fecondo magistero e da una
notevole serie di pubblicazioni che riflettono la molteplicità degli interessi del loro
autore, spaziando fra poesie, narrativa, storia ed archeologia.
Nel tempo, dopo la significativa fatica letteraria degli anni ’60, G. T. Giordani
ed il liberalismo dauno nel 1820, nutrita ed impegnata è stata la sua produzione
nelle due ultime discipline. Gli studi storici ed archeologici del Serricchio riguardano specialmente la città in cui egli ha più vissuto ed operato, Manfredonia. A questo
centro garganico, a molte sue vicende ed a molti suoi personaggi, egli ha dedicato
attente ricerche, condotte con rigoroso metodo ed utilizzo accorto non solo delle
fonti librarie ma anche di quelle documentarie, quali si conservano negli Archivi di
Stato di Napoli e di Foggia o nell’Archivio storico comunale o in quello della Curia
arcivescovile di Manfredonia, e di cui mostra adeguata padronanza.
I suoi lavori restano connotati dalla validità delle documentazioni usate e
degli argomenti addotti e risultano riusciti saggi di storiografia locale, sul cui valore, può dirsi, il primo giudizio di merito viene espresso implicitamente dalla stessa
loro sede di stampa e di divulgazione, che di solito è una rivista d’indiscusso prestigio.
Recentemente un buon numero di studi del Serricchio, apparsi per lo più in
«Archivio Storico Pugliese», «Rassegna di Studi Dauni» e «Vetera Christianorum»
negli anni dal 1961 al 1998 e spesso costituiti da atti di convegni e seminari tenutisi
a Manfredonia o a Bari, è stato con grande opportunità raccolto e ripubblicato in
un apposito volume, intitolato Siponto-Manfredonia, ed inserito nella collana “Città
e Paesi di Puglia” delle Edizioni del Rosone.
Dei sedici scritti compresi, integralmente o parzialmente, piace qui ricordare
con distinzione almeno i più importanti, dicendone solo quel tanto che si fa utile
per una loro brevissima presentazione.
Iscrizioni romane paleocristiane e medievali di Siponto, in cui per la prima
volta - al 1978 - si raccolgono tutte le epigrafi latine, sia quelle già note sia altre
inedite, che riguardano Siponto e sono databili dal II secolo a. C. al XV secolo d. C.
217
Cristanziano Serricchio: Siponto-Manfredonia
La cattedrale di S. Maria Maggiore di Siponto e la sua icona, ove si fa l’ipotesi
che la prima chiesa medievale di Santa Maria venisse impiantata, tra la fine del XI ed
il principio del XII secolo, sul battistero eretto dal vescovo Lorenzo in onore del
beato Giovanni Battista, e, fra l’altro, si può leggere una minuziosa e puntuale descrizione dell’icona, attribuibile al secolo XI, raffigurante la Madonna che regge il
Bambino sul braccio sinistro, in una “composizione che si richiama all’Odigitria” e
che dal 1972 si conserva nella cattedrale di Manfredonia.
Federico II e il “De arte venandi cum avibus”, che è un attento e completo
studio del trattato di ornitologia e di falconeria dovuto all’imperatore svevo e considerato “una delle più importanti opere di zoologia del medioevo”.
Manfredi e la fondazione di Manfredonia, nel quale si dimostra che la data di
nascita effettiva della “Nuova Siponto” è l’anno 1256, così come precisato nei suoi
Diurnali da Matteo Spinelli da Giovinazzo, e non il 1263, quale si evince dal diploma “Datum Orte” di re Manfredi e che va inteso solo come quello della nascita
ufficiale della città.
Il sacco turco di Manfredonia nel 1620 in una relazione inedita, che è quella
di Antonio Nicastro, riportata integralmente e di grande valore documentario perché dovuta ad un testimone oculare dell’evento.
Si tratta di uno studio basilare sulla tragica vicenda nel quale, anche con il
ricorso ad ogni altra fonte disponibile, vengono chiariti, fra l’altro, i comportamenti allora avuti dalle varie autorità manfredoniane e provinciali e si precisano i gravi
danni subiti dalla città, ancora evidenti più di mezzo secolo dopo.
La rivoluzione del 1820 a Manfredonia e in Capitanata, nelle cui pagine,
stralciate da un’opera maggiore e fondata principalmente su documenti dell’Archivio di Stato di Foggia, si ricostruisce un importante avvenimento storico, così come
si realizzò in Capitanata, e si sottolinea il ruolo da protagonista allora svolto da
Gian Tommaso Giordani, che proclamò la Costituzione prima a Manfredonia e poi
a Monte S. Angelo.
I pochi studi, ora succintamente segnalati, bastano per intendere il valore
della pubblicazione, peraltro lodevole anche per la sua veste tipografica.
218
Luigi Paglia
Studi in onore di Michele dell’Aquila
di Luigi Paglia
Venerdì 6 febbraio 2004, nella Sala degli Affreschi del Palazzo dell’Ateneo di
Bari, con l’intervento del Magnifico Rettore dell’Università barese, prof. Giovanni
Girone, del Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, prof. Giovanni
Massaro, e dello scrittore Raffaele Nigro, sono stati presentati da parte degli autorevoli professori Maria Luisa Doglio, dell’Università di Torino, e Andrea Battistini,
dell’Ateneo bolognese, gli Studi in onore di Michele dell’Aquila.
I due densissimi volumi miscellanei, fascicoli speciali della rivista «La Nuova
Ricerca» n. 11/2002 e 12/2003, pubblicati in onore dello studioso, ben conosciuto a
Foggia, per i suoi quarant’anni (1962-2002) di attività scientifica e per il compimento del suo insegnamento universitario, si configurano, per l’alta qualità complessiva
dei contributi, come una straordinaria storia per saggi di buona parte della letteratura italiana, con sapide escursioni in quelle spagnola e inglese (nonché nella cultura pugliese).
Il primo dei volumi (di 372 pagine) abbraccia il periodo che va dal Duecento
al Settecento, mentre il secondo (di 396 + 60 pagine) è dedicato all’Ottocento e al
Novecento, con il contributo complessivo di ben 53 studiosi quasi tutti d’Italianistica, di varia estrazione culturale e collocazione geografica, tra cui sono individuabili molti allievi e colleghi dell’Ateneo di Bari (di cui Michele dell’Aquila è stato
prestigioso docente e Preside di Facoltà), ma anche professori di molte altre università italiane: da Milano e Torino a Palermo e Lecce, da Trieste e Ferrara a Roma e
Napoli, da Pisa e Perugia a Pescara e Palermo, per finire con la neonata facoltà di
Lettere di Foggia.
È un’impresa ben ardua render conto, anche solo sommariamente, della straordinaria costellazione letteraria squadernata nei due nitidi ed eleganti volumi, pubblicati dagli Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali (I.E.P.I.) di Pisa, curati da
un nutrito gruppo di studiosi coordinati da Ruggero Stefanelli al quale si deve anche la presentazione degli obiettivi e delle finalità della compilazione.
Per quanto riguarda il primo volume, il saggio introduttivo di Giuseppe E.
Sansone si distende sull’arco temporale che va dal Medioevo alla contemporaneità.
I cinque studi successivi illustrano alcune tematiche fondamentali dei “padri” della
letteratura italiana: si va dal lavoro di Leonardo Terrusi su Guittone d’Arezzo alle
due stringenti indagini, dedicate ai Canti XXIV del Purgatorio e XXXIV dell’Inferno, di Ruggiero Stefanelli e di Raffaele Giglio e alle investigazioni di Leonardo
219
Studi in onore di Michele dell’Aquila
Sebastio e di Rosaria Amendolara sulle quarta e quinta giornata del Decameron del
Boccaccio. La letteratura tra ’500 e ’700 è l’oggetto di alcuni puntuali studi: il Rinascimento è riguardato con l’obiettivo puntato sul femminile nei due saggi di Roberto Fedi e di Maria Stomeo; Pasquale Guaragnella si sofferma sui Pensieri medicomorali di Paolo Sarpi; Federica Troisi individua la presenza del modello senechiano
nel Sogno di una notte di mezza estate; Giulia Dell’Aquila documenta la fluttuazione
della critica per le opere di Benvenuto Cellini; Alfonso Falco cura la pubblicazione
di testi poetici del Marino conservati nella Biblioteca Nacional de Madrid, mentre
Grazia Distaso esamina le valutazioni sul teatro nel trattato Del verso tragico del
1709 di Pier Jacopo Martello.
Una sostanziosa parte del volume è dedicata al Sud e, in particolare, alla letteratura e alla cultura pugliese. L’indagine di Alberto Granese, si riferisce agli scrittori meridionali Salfi, Lomonaco e Cuoco, mentre si devono a Francesco Tateo le
notazioni sulla storia antica di Taranto dello scrittore Giovanni Giovane, forse nativo di Grottaglie, ed a Pietro Sisto quelle rivolte ad illustrare l’attività dell’arcivescovo di Trani Giuseppe Davanzati, figura di spicco del pensiero riformatore in
Puglia, e, inoltre, Mariateresa Colotti investe il campo teatrale regionale, analizzando il “substrato” linguistico della Rassa a bute.
Al panorama storico, politico e culturale della Daunia sono dedicate le investigazioni di Vitilio Masiello, che prende il esame il Viaggio per la Capitanata (1790)
di Francesco Longano, e di Giuseppe De Matteis che puntualmente delinea, nei
suoi aspetti e nei suoi scrittori più rappresentativi, il variegato scenario culturale
daunio del Settecento a cui dettero vigore e movimento le accademie letterarie. L’Ottocento è rivisitato in otto contributi: dedicati al Foscolo sono i due saggi di Carmen
Di Donna Prencipe e di Silvana Ghiazza, che aprono il secondo gremitissimo volume, sull’influenza pariniana sul poeta, e sulle strutture strofiche e metriche dei Sonetti; Arnaldo Di Benedetto, analizzando le opere storiche di Manzoni, precisa che
la dimensione “contemplativa” dello scrittore non eclissa la sua capacità di misurarsi con la storia; il saggio di Wanda De Nunzio Schilardi illumina la figura di Ranieri,
nel suo rapporto con Leopardi; Marziano Guglielminetti traccia un sintetico profilo dell’opera di Arturo Graf e dei Poeti di Medusa; il valore rivelativo dell’onomastica
è lumeggiato da Davide De Camilli sulle connotazioni tenebrose dei personaggi di
Fosca del Tarchetti e di Malombra del Fogazzaro; l’analisi di Marocco di Edmondo
De Amicis di Maria Pagliara evidenzia l’immagine stereotipata di colori e di spettacoli dell’Africa, mentre sono al centro dell’indagine di Sebastiano Martelli i temi
dell’emigrazione transoceanica presenti nella letteratura della fine dell’Ottocento.
I grandi poeti tra Ottocento e Novecento sono oggetto di indagine di ben
otto saggi: Giorgio Bàrberi Squarotti rivela la figura del Cristo nelle pagine di Pascoli e di D’Annunzio; Gianni Oliva presenta il tema della malinconia nel Fuoco
dannunziano; Anna De Macina rende conto delle numerose stratificazioni simboliche delle Vergini delle rocce di D’Annunzio; l’intervento di Paolo De Stefano illustra la celebrazione del mare e dell’Ammiraglio di Saint-Bon, operata dal pescarese;
due poemetti pascoliani che hanno per protagonista Ulisse sono analizzati da
220
Luigi Paglia
Antonino Sole; l’intervento di Bruno Porcelli si concentra sulla poesia di Gozzano;
Ungaretti è al centro delle indagini di Mario Petrucciani (sul tema dell’aurora) e
dell’estensore di questa nota sugli Ultimi cori per la Terra Promessa.
Una vasta area della narrativa del Novecento è analizzata da ben nove sondaggi critici: Raffaele Cavalluzzi individua alcuni temi della narrativa (e del teatro)
di Pirandello; il saggio di Gigliola De Donato è dedicato alla trilogia dei romanzi
siloniani dell’esilio; Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi è l’oggetto degli interventi di Giovanni Battista Bronzini e Franco Vitelli, condotti con gli strumenti
dell’indagine narratologica e antropologica; l’analisi di Francesco Mattesini mette a
confronto i romanzi Le città del mondo di Elio Vittorini e Le Città invisibili di
Italo Calvino; Giovanna Zaccaro, analizzando La tregua di Primo Levi, ne rileva il
carattere di “giornale di viaggio”, di esperienza antropologica; infine, rendono conto delle ricerche narrative di un’area del Nord-Est i sondaggi di Giorgio Baroni su
Pier Antonio Quarattotti Gambini, di Irene Visintini su Franco Vegliani, e di Bruno Maier su Nino Di Giacomo. La riflessione sulle modalità della critica di Anceschi
e di Tozzi su Pirandello ricorre nei contributi di Donato Valli e di Pasquale Voza.
Anche il secondo volume, come il primo, presenta un panorama abbastanza
ampio della cultura e della letteratura pugliese, indagate in alcuni aspetti significativi della modernità e della contemporaneità: Antonio Iurilli presenta il quadro dell’evoluzione civile e sociale della Ruvo ottocentesca; Fernando Schirosi ricorda le
tappe poetiche di Umberto Fraccacreta, il poeta della Capitanata; Domenico Cofano cura la pubblicazione di dieci lettere del poeta tarantino Raffaele Carrieri ad
Hrand Nazariantz; il saggio di Mario Marti è dedicato a lumeggiare l’opera del
poeta salentino Salvatore Toma, e quello di Ettore Catalano esamina la produzione
letteraria di Franco Tilena e di Anna Santoliquido, due scrittori di origine lucana,
ma con forti legami con la Puglia.
Infine, Giovanni Dotoli proietta la sguardo nel futuro (e nel presente) della
poesia e riflette sulla sua funzione nell’era tecnologica. Completa i due volumi in
onore di Michele dell’Aquila la compilazione, a cura di Franco Vitelli e di Giulia
Dell’Aquila, della vastissima bibliografia degli scritti dello studioso nel quarantennio 1962-2002, per un totale di ben 959 titoli, tra monografie, saggi, articoli e recensioni che spaziano dal ’200 fino alle ricerche letterarie in atto (con una predilezione
particolare per Leopardi, oggetto di ben 80 interventi), luminosa testimonianza del
suo fecondo lavoro scientifico e della sua costante presenza nel panorama culturale
italiano e pugliese.
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Gli autori
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Gli autori
Gli autori
Grazia Carbonella nasce a S. Giovanni Rotondo il 25 maggio 1974. Dopo la
maturità classica, consegue il diploma di chitarra presso il Conservatorio di musica
“Umberto Giordano” di Foggia. Nel 1997 si laurea in Storia della musica presso la
facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma, con la tesi L’uso del basso
ostinato nella musica italiana del Seicento, relatore il prof. Pierluigi Petrobelli. Nel
1999 frequenta il corso di perfezionamento in “Filologia musicale” organizzato dalla
Fondazione Rossini di Pesaro e nel 2000 il corso di “Iconografia musicale” organizzato dalla Fondazione Italiana per la Musica Antica di Urbino. Nel 2001 segue il
corso regionale “Esperto in tecnologie di sistemi multimediali” presso la KnowK. Di
Foggia. Dal 2002 collabora con la cooperativa “Mediateca200” per la catalogazione
dei documenti sonori della Biblioteca Provinciale di Foggia. È giornalista pubblicista.
Angelo Cavallo nasce a Foggia il 07.05.1960. Negli anni ’70 è cantautore, e
oltre alle sue composizioni, nei concerti pubblici, canta le ballate tratte dal repertorio di Matteo Salvatore (cantastorie di Apricena) ed Enzo Del Re (cantastorie
di Mola di Bari).
Dopo la metà degli anni ’80 l’attività artistica diventa professione. Inventa,
dal nulla, una delle prime attività di servizi per il turismo e lo spettacolo in provincia di Foggia. Insegna ai corsi di animazione turistica organizzati dal – Cesan
- Camera di Commercio di Foggia. Nel 1989 inizia la collaborazione con Antonio Albanese; per lui scrive testi e produce i suoi primi spettacoli, con la collaborazione di Nicola Rignanese.
Si concede un “gioco letterario” scrivendo il romanzo Il Paese della nave
felice per conto della casa editrice Books&New; una storia fanta-politica, metafora del sud, ambientata in un paese del mezzogiorno d’Italia.
Dal 1991 in poi sarà ancora la musica al centro della sua attività. Svolge
l’attività di agente e produttore artistico. Tra i tanti impegni, in quegli anni, l’organizzazione del tour pugliese di Roberto Murolo, la produzione e l’organizzazione di tournèe di svariati artisti dell’area mediterranea..
Nel 1997 insieme a Rocco Draicchio crea l’etichetta discografica La Voce
del Gargano, produce l’omonima antologia musicale e cura la direzione artistica
del “Carpino Folk Festival” sempre con Draicchio. Dopo l’esperienza di Carpino,
intensifica e specializza la sua professione come operatore musicale nella World
Music e nel lavoro di rivalutazione del suo intimo amico, il cantastorie Matteo
Salvatore.
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Gli autori
Già personal manager, produttore ed assistente del cantastorie, nel 2001
scriverà, per conto della casa editrice Stampa Alternativa il libro Matteo Salvatore la luna aggira il mondo e voi dormite autobiografia raccontata ad Angelo Cavallo (con allegato CD).
Al grande cantastorie dedicherà il Caffè del bando, di sua proprietà, piccolo ritrovo letterario e musicale, sito in Foggia. Il ruolo ovviamente sarà quello di
animatore culturale.
Nel 2004 è direttore palco dello spettacolo “Craj” di Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti, dove l’artista Matteo Salvatore ha il ruolo di protagonista. Collabora al film omonimo sulla musica pugliese “Craj domani” di Davide Marengo.
È direttore artistico delle rassegne musicali: “Suoni dal Mondo”, presso il
sito archeologico di Canne della Battaglia a Barletta, “Madre Terra” presso il Comune di Santa Croce di Magliano in Molise, “Le notti di Pizzomunno” a Vieste e
“Tamburi dal Mare” a Foggia.
Attualmente lavora alla costruzione del “Premio Matteo Salvatore” quale
riferimento ufficiale futuro per la divulgazione e l’informazione sulla figura del
grande cantastorie della Capitanata, deceduto il 27 agosto 2005. Un lavoro indirizzato alla conoscenza musicale pugliese, nel panorama nazionale ed internazionale.
Felice Clima, avvocato, è nato ad Apricena nel 1930 e si è laureato in legge
a Napoli nel 1955.
Appassionato di viaggi, ha da sempre alternato viaggi in ogni dove a
frequentazioni assidue e costanti nella sua Apricena.
Suoi articoli ed interventi di natura professionale, ma anche umanistica,
economica e politica, sono stati pubblicati oltre che sui giornali della sua città
d’origine («La Matricola», «La Voce» negli anni ’50 e da ultimo «Il Torrione»,
«Apricena», «Città viva»), anche su «Il Gargano», «Il Provinciale», «La Gazzetta
del Mezzogiorno» e «La Virgola», rivista del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Tra i volumi pubblicati: Apricena…percorsi (Litostampa, 1998), Leggende,
Microstorie e storie di Capitanata (Bastogi, 2000), Amazzonia e… dintorni (Bastogi,
2001). In corso di pubblicazione: L’altra metà del paradiso.
Rosanna Curci, nata a San Giovanni Rotondo il 26 giugno 1975, si è laureata con lode in Lingue e Letterature Straniere. Attualmente frequenta corsi di
specializzazione di didattica della lingua inglese. Particolarmente interessata alla
vita sociale delle donne tra Ottocento e Novecento, ha condotto studi approfonditi sulle viaggiatrici inglesi nell’Italia meridionale di questo periodo.
Giuseppe De Matteis è nato ad Alberona. Ha insegnato presso le scuole
superiori di Foggia e di Bari prima di passare all’Università di Pisa come docente
di Lingua e Letteratura Italina sino al 1986. Da quell’anno si è trasferito a Pescara
dove gli è stata affidata la cattedra di Storia della critica letteraria e contemporaneamente, la supplenza di Lingua e Letteratura Italiana, insegnamento che attual226
Gli autori
mente continua a svolgere presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti in
Qualità di Titolare.
Collabora a varie riviste letterarie nazionali: («Galleria», «Italianistica»,
«Studium», «Esperienze Letterarie», «Aevum», «Opinioni», «Merope», «Proposte», ecc...). Ha pubblicato numerosi volumi, tra i quali: Cultura e poesia di Vincenzo Cardarelli (1971), Critica, poesia e comunicazione (1978), Il nomade illuso:
letture e sondaggi cardarelliani (1983), Cultura letteraria contemporanea in
Capitanata (1984), Dittico pirandelliano (1989), Ragioni e certezze della poesia
(1990), La narrativa di Italo Calvino (1991), Lettura di «senilità» di Italo Svevo
(1992), Edizione critica dell’opera omnia (poesie dialettali) di Giacomo Strizzi
(1992), Il segno e l’enigma (itinerario poetico) di Michele Urrasio (1993), protagonisti della cultura letteraria meridionale (1993), Il fantastico nel Decamerone (1996),
Lettura dei «postuma» di Olindo Guerrini (1996), Sondaggi foscoliani (1998),
Manzoni e altri studi (1999), Istanze della narrativa italiana contemporanea (2002),
Vincenzo Cardarelli.Un sogno: lo stile assoluto (2005), Una «lunga fedeltà»: aspetti
e figure della Puglia letteraria contemporanea (2005),
De Matteis ha organizzato e curato molti convegni nazionali di letteratura,
tra i quali si ricordano tre convegni su Leopardi, uno su Pietro Giannone e un
convegno di carattere internazionale sul tema: Dante in lettura.
Pasquale di Cicco, (Maddaloni 1930), attualmente Ispettore Onorario
Archivistico per la Puglia, ha diretto l’Archivio di Stato di Foggia e la Sezione di
Lucera dal 1959 al 1994.
È autore di molte pubblicazioni, fra cui Censuazione ed affrancazione del
Tavoliere di Puglia 1789-1865 (1962); Il Libro rosso della città di Foggia (1965); il
Tavoliere della Puglia nella prima metà del XIX secolo (1966); I documenti antichi dell’archivio comunale di Foggia (1970); L’archivio del Tavoliere di Puglia
(1970-1991, 5 voll. I primi 4 in collaborazione con Dora Musto); Gli statuti economici dell’Università di Lucera (1972); Il Libro rosso dell’Università di
Manfredonia (1974); I manoscritti della Biblioteca Provinciale di foggia (1977);
Notizie per il buon governo della R. Dogana della mena delle pecore di Puglia di
Andrea Gaudiani (1981); Atlante delle locazioni della Dogana delle pecore di foggia di Antonio e Nunzio Michele (1984); Il “Giornale Patrio Villani” 1801-1810
(1985); Il Molise e la Transumanza. Documenti dell’Archivio di Stato di Foggia
(secoli XVI-XX) (1997).
Tiziana di Cicco è nata a Napoli nel 1964. Si è laureata in Lettere moderne
presso l’Università di Chieti e diplomata in grafologia presso l’Università di
Urbino. Insegna a Foggia.
Luigi Gatta è nato a Mattinata (FG) nel 1945. Al lavoro di “routine” per
Poste Italiane, affianca una puntuale ricerca storica, fatta sulle fonti documentarie negli archivi pubblici di Capitanata (di Stato, comunali e privati).
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Gli autori
Ha pubblicato Mattinata, frazione di Monte Sant’Angelo, tra ‘800 e ‘900,
vol. I, Foggia, Claudio Grenzi Editore. Ha collaborato con la rivista del Centro
Studi Garganici di Monte Sant’Angelo «Gargano Studi». Ultimamente ha pubblicato [«la Capitanata», XIL (2002), 11 (febbraio)] i saggi Dalle Poste borboniche
alle Poste Italiane; Raffaele Bisceglia e l’antifascismo a Mattinata [«la Capitanata»,
XLII (2004), 15 (febbraio)].
Francesco Giuliani, laureato in Lettere presso l’Università di Bari, insegna
nel Liceo Classico “Fiani” di Torremaggiore.
Dal 1998 è Cultore della Materia presso la Cattedra di Letteratura Italiana
e Storia della Critica, nella Facoltà di Lingue dell’Università di Pescara.
Nell’ambito dell’Italianistica svolge un’attività di ricerca imperniata, da una
parte, sullo sforzo di valorizzare le ricchezze letterarie del territorio pugliese, in
un’ottica quanto più ampia possibile, dall’altra, sull’analisi critica di personaggi e
momenti della storia letteraria nazionale.
Giornalista pubblicista, dirige da alcuni anni «Il Giornale di San Severo».
Dal 1998 è socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia per la
rilevanza dei suoi studi.
Dal 2000 è consulente della Città di San Severo per l’attivazione dei corsi di
laurea decentrati dell’Università di Foggia. Tra le sue pubblicazioni, Il rondò, le
torri e la Certosa.
Antonella Iacobbe si è laureata con il massimo dei voti presso l’Università
degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti – Pescara. È cultore di Letteratura italiana e
di Storia della critica e storiografia letteraria da febbraio 2000 presso l’Università
degli Studi di Pescara e dottoranda all’ultimo anno in Lingua, Testo e Letterarietà
(XIII ciclo) presso la stessa Università. Ha tenuto diversi seminari per la cattedra di
Letteratura italiana.
Dopo varie recensioni ha pubblicato un saggio dal titolo: Lettura gotica dei
Promessi Sposi, Quaderni del Dottorato: Lingua, Testo e Letterarietà, a cura di
Alfonso De Petris (Editrice Itinerari, 2005).
Luigi Paglia svolge la sua ricerca soprattutto nel campo della Letteratura
contemporanea. È docente di “Teoria e prassi dell’intertestualità” nella Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Foggia. Ha anche insegnato “Scienze dell’Informazione”, “Metodologia e critica letteraria”, “Laboratorio di scrittura”, ed
è stato Formatore-Tutor nel progetto R. eT.E. del Ministero della P. I., per l’introduzione delle tecnologie informatiche nella didattica dell’Italiano.
Ha pubblicato in volume: Invito alla lettura di Martinetti, Milano, Mursia,
1977; Poeti in Puglia, in Inchiesta sulla poesia, Foggia, Bastogi, 1979; Luzi, in
Poesia italiana del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1993; Ungaretti, in Letteratura italiana ed utopia, Roma, Editori Riuniti, 1995; L’incendio della terra a
sera, in Studi in onore di Michele Dell’Aquila, Pisa, I.E.P.I., 2003; L’urlo e lo stu228
Gli autori
pore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria (con una testimonianza di Mario Luzi),
Firenze, Le Monnier, 2003; Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio. Le
prose daunie di Giuseppe Ungaretti, Foggia, Grenzi, 2005.
Ha collaborato con le più qualificate riviste letterarie («Vita e pensiero»,
«Rapporti», di cui è stato membro della direzione, («Paragone-Letteratura»,
«Otto/Novecento», «Annali dell’Università di Roma “La Sapienza”», «Critica
letteraria», «Lingua e Stile», «Nuova Antologia», «Strumenti critici», «Rivista di
Letteratura italiana», «Quaderni di didattica della scrittura», «Forum Italicum»,
«Italica», ecc…) con saggi e studi su Dante, G. Ungaretti, T.S. Eliot, G. Grass, C.
Wolf, M. Luzi, L. Pirandello, U. Betti, ecc…
Tommaso Palermo è nato a Roma nel 1976. Da sempre appassionato di
ricerche storiche, si è laureato con lode in Codicologia presso l’Università di Bari.
Ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole secondarie di primo e
secondo grado; è attualmente in attesa di iscriversi ai corsi abilitanti per insegnanti di sostegno.
Antonio Vigilante è nato a Foggia nel 1971. Docente di Filosofia e scienze
umane presso il liceo “Federico II” di Apricena, è studioso della nonviolenza e
membro del consiglio scientifico della rivista «Quaderni Satyagraha» di Pisa. Ha
pubblicato: La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999; Il brigantaggio fra il 1799 e il 1865, Napoli, Procaccini,
2000 (con M. Battaglini, D. Donofrio e V. Caruso); Quartine, Foggia, Edizioni
del Rosone, 2001.
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2005
presso il Centro Grafico Francescano
1a trav. Via Manfredonia - 71100 Foggia
tel. 0881/728177 • fax 0881/722719
www.centrograficofrancescano.it
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