5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
LA PITTURA È MORTA, VIVA LA PITTURA!
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Il Pittore Volante
Alla fine siamo riusciti ad ucciderla.
Bravi, tutti, tutti insieme siamo riusciti in quello che almeno 500 anni di storia dell’arte, non
avrebbe mai supposto.
Una bella bara, magari lucida e così i colpevoli del delitto l’avranno fatta franca.
Com’è successo? Come è potuto succedere che l’espressione più genuina del passaggio tra il
sentimento della natura e l’uomo, che la traduce, si sia diluita nel 900, fino all’oblio di tutto ciò
che concerne la pittura?
Pittura non Arte in senso lato. Parlo della pittura, della Grande Pittura. Parlo delle conquiste di
Velàzquez, di Tiziano, di Rembrandt.
Piano, piano, silenziosamente, anno dopo anno, il novecento, ha giocato la sua partita,
infiacchendo sempre più tutta la solidità dell’impalcatura, che uomini dalla gigantesca
determinazione avevano costruito.
Si, perché dipingere a “quella maniera” non è affatto semplice, come tutte le persone di sana
costituzione possono capire. Invece si è fatto passare, ma questo da tanti decenni (diciamo una
decina?), l’idea che quella maniera di vedere le cose della vita, della realtà fossero obsolete,
“vecchie” e quindi ci fosse bisogno del “nuovo”.
Ora il novecento di “nuovo” ce ne ha dato tanto, ma tanto che ce lo dobbiamo tenere… Ci ha
dato talmente tanto nuovo, che non sappiamo più cosa inventarci per stare al passo con le
“invenzioni”, con la qualità delle invenzioni che ci hanno preceduto.
Parlo sempre di pittura, perché non vorrei sconfinare nei meravigliosi progetti, che menti
illuminate ci stanno preparando per il nuovo millennio.
L’uomo non è mai stato così felice. Finalmente davanti a un bel dipinto, anzi davanti ad un
capolavoro, non sa più cosa dire. È distratto, non riesce ad entrare, fischietta, lo guarda e rimane
lì.
Ma tutto questo lo sappiamo, i nostri uomini più validi questi discorsi, li fanno anche loro e
giustamente sono diventati un po’ noiosi; non ci stimolano, non ci fanno andare avanti, però
rimane il fatto che la grande pittura è morta!
Chi l’ha uccisa? È un bel giallo. Ci si potrebbe fare un film, dove un uomo a cui era stato dato il
dono di entrare in comunione con le cose, di capire i segreti della luce, le belle ombre calde e
liquide, i massimi chiari, le mezze tinte, i segreti dei cieli azzurri e tempestosi, il suono del
silenzio rotto dalle acque dei torrenti, la qualità dell’amore portata a quella visione, la natura che
gli rivelava tutto, proprio perché riconosceva in lui una religiosità, che non è di nessuna
religione, che fa parte solo della sfera di riconoscimento del mistero delle cose; ecco
quest’uomo puro, senza ego, che in nome di sé stesso e delle sue paure, ansie, desideri, gelosie,
abbandona “lo stato” e si cala piano piano in una dolce abulia, che gli permetterà di non leggere
più e controllare i poteri che aveva, i poteri dell’uomo consapevole e attento.
Fine... Un buon regista, una distribuzione efficace e il successo è garantito.
Io sono un pittore e non me ne vergogno a dirlo, bisogna pure che mi presenti.
Sono tornato ieri dalla Spagna dopo un viaggio di 5000 chilometri, perché sono andato a
vedere un orecchio… un orecchio.
L’orecchio in questione è quello della Filandera di spalle, nel dipinto omonimo di Velàzquez al
Museo del Prado di Madrid.
Io l’avevo visto quest’orecchio, in una bella riproduzione, su un libro, a grandezza naturale, con
sotto i chiari del collo e lo spettacolo dei bianchi senza paura del corsetto della donna.
Quell’orecchio è fatto con due o tre pennellate; c’è una striscia di rosso e vicino, una striscia
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bianco-rosa e una mezza tinta fra i due toni-colore, sia a sinistra che a destra delle due strisce
(arcuata si intende per dare l’idea della forma dell’orecchio).
Io vi invito a verificare perché Velàzquez ha
fatto si, che nella carnalità dell’orecchio, si
intuisca, anzi sia prepotente la potenza della
carnalità della giovane donna.
Ma non è di questo che volevo parlare, la verità
è che quell’orecchio mette a nudo tante cose,
svela teneramente che Velàzquez all’età di
sessant’anni, come tutti gli uomini di quell’età,
non vedeva bene, vedeva sfocato. Ed è proprio
questa la visione sfocata, che è la forza del
dipinto.
Quando il pittore non vede nitido, o perché ci
sono solo candele che illuminano la scena del
soggetto, o perché non porta gli occhiali adatti,
diventa coraggioso.
Le pennellate non sono più esitanti, leccate,
Figura 1 - Velàzquez - Las Hilanderas (particolare)
non cercano più il contorno. Al contrario,
Museo del Prado Madrid
come ci insegna Delacroix diventano sfacciate ed estremamente audaci. La forma si compatta
solo guardando da una certa distanza, o da vicino senza occhiali.
L’orecchio miracoloso di Velàzquez visto con gli occhiali, è un pezzo di pittura astratta, ma
guardandolo come lui l’ha dipinto, cioè senza, o per chi ha una buona vista, sfocando, si ha la
sensazione assoluta dell’oggetto, della sua funzione, e soprattutto del suo messaggio all’anima
dell’osservatore…
Che bello fare 5000 kilometri per verificare dal vero le intuizioni del più grande pittore di tutti i
tempi. Sì perché (opinione personale), Velàzquez è la summa delle conquiste in pittura. La
Grande Pittura è portata a compimento con lui. Il tono-colore-forma, tanto cercato da tutti, in
lui è facilità.
Dipinge in stato di grazia sempre; ha capito il mistero delle cose; sì perché le cose sono
misteriose. Tutto ciò che esiste come forma è misterioso ed è compito del grande pittore
scardinare quel segreto che la natura ha così ben nascosto. Santa Teresa d’Avila diceva a
proposito di una piccola natura morta di Zurbaran: “Dieu circule entre les pots et les casseroles”.
Si può anche non essere d’accordo con quel Dio che circola fra le tazze e le casseruole di S.
Teresa, però che cosa è il potere di un grande dipinto?
Siamo tutti d’accordo che esistono in pittura i capolavori. Ma non I capolavori canonici, che il
condizionamento dei secoli ci ha abituato a riconoscere, come la Monna Lisa ad esempio… È
un bellissimo ritratto, d’accordo, ma ci hanno straparlato troppo sopra.
Ci sono moltissimi dipinti nascosti nei musei piccoli e grandi, che in silenzio sono lì che
aspettano solo gli occhi e l’animo illuminato di uno spettatore, che sappia decodificare la visione
perfetta dell’autore. Un fiore al bordo della strada emana il suo profumo indipendentemente dal
passante, che si fermi o no ad odorarlo.
C’è un passo bellissimo di un grande pittore dell’800 che è Fontanesi e che è chiarificatore
rispetto a che cosa fa grande e vero un dipinto. Dice Fontanesi: “Uno schizzo pieno di accento di
verità, non è ancora l’arte. Il paesaggio deve essere qualcosa di più che la verità positiva la quale,
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contentandosi di guardare la natura con gli occhi, vede di questa soltanto ciò che essa mostra a
chicchessia, al primo venuto. Il vero , il finito, altro non sono che l’infinito, e la natura è come
la donna, essa ha le sue intime bellezze e bontà, che nasconde con pudore ai borghesi e ai
fotografi… Affinché essa si riveli senza riserva, bisogna che non solo sia convinta della’more del
poeta, ma bensì della religione di questo amore”.
Quindi la natura è misteriosa, tende a nascondere i suoi segreti,
Dice Mengs nelle opere del 1783 a proposito di Tiziano: “Egli intese anche benissimo l’armonia
dei colori, che è una parte ideale e che non si vede nella natura, se prima non è compresa
dall’immaginazione”.
L’armonia dei colori. Intese benissimo l’armonia dei colori, che non si vede in natura.
Cosa vuol dire non si vede in natura?
Qui dovremmo addentrarci in un argomento, che nella mia esperienza di pittore, ho verificato
come la “teoria dei rossi”. Dico verificato, perché continuamente l’ho ritrovata nella pittura
antica. Cercherò di spiegarmi perché non sarà facile. Un giorno tornai da una seduta di pittura
nel bosco di Marino con il mio maestro come compagno. Nell’atelier, I due lavori, un interno
di bosco e un mio studio d’albero, erano vicini, solo che mentre il mio amico aveva fatto un
buon dipinto, il mio risultava drammaticamente sordo. Mi abbandonai nella sedia in preda allo
sconforto, ma proprio quello stato d’animo mi diede la forza di reagire con profondità.
Cosa era che rendeva il dipinto sordo? Grigio e senza vita mi guardava. Stanco e demoralizzato
fissavo, sfocando, il bordo in ombra del tavolo, in quel momento mi resi conto di una cosa che
già avevo notato tempo prima. Sfocando, leggevo toni caldi nelle ombre del bordo (dei rossi
diciamo così), che in condizioni di vista normali, non esistevano, non si riuscivano a leggere. Le
ombre erano la chiave della brillantezza dei dipinti.
Se un’ombra è sorda, grigia, spenta, il dipinto non decolla, ma basta scaldarla ed il tono in luce
accanto a lei, suo figlio, si accende e tutti e due gridano all’unisono la gioia di essersi ritrovati. Si
saturano a vicenda, trovano lo smalto.
Quindi è vero ciò che asserisce Tiziano, che la natura nasconde I suoi tesori e che in pittura
trovare degli escamotage per scardinarla, è necessario.
Ma torniamo all’orecchio di Velàzquez ed analizziamo le ombre della testa della Filandera.
L’ombra sotto il mento della ragazza è calda rispetto alla guancia in luce, ma venendo in avanti
in prospettiva aerea, l’ombra dell’orecchio è addirittura rossa rispetto alla terra di Siena del
mento. Velàzquez ha avuto bisogno di esagerare i rossi dell’ombra dell’orecchio, poiché non
aveva altra scelta. Soltanto farla un po’ più grigia, avrebbe fatto saltare tutta l’armonia potente
del modellato coloristico e della prospettiva aerea.
È bello parlare di Velàzquez e allora andiamo ad esaminare un altro suo capolavoro: l’Innocenzo
X della Doria Pamphili.
Lo vedremo però con gli occhi di un altro immenso pittore che fu Antonio Mancini…
Scrive Mancini nei suoi appunti, nel suo modo strampalato di esporre, davanti al dipinto: “Fatto
su tela spinata trasversale, quasi quadrato, di grandezza naturale, mezza figura sino ai ginocchi.
La posa comodissima del Pontefice con quella calma fina, dignitosa, incuriosita di vedere il
pittore lavorare, a cui sembra bello di mostrarsi instancabile, compiacente e di una realtà ideale,
sulla riuscita, non ambarocchito in simpatia di posa nel seggiolone, sicuro ne travede la riuscita
artistica e contento”.
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Figura 2 - Velàzquez - Innocenzo X Pamphili – 1650 - Galleria Doria Pamphili - Roma
“Il Papa ha un tipo di barbetta, piccoli mustacchi, il colorito italiano, quel colore della salute
speciale dei religiosi sanguigni. L’intonazione armoniosa del tutto sul fondo di panno rosso,
velluto, basso di tono, rende, aggiusta, tutte le bellezze in una pittura, cui lo spirito dell’artista
aggiunge l’uguale serenità del Pontefice… Non si conosce come sia fatto”.
E qui mi fermo anche se gli appunti interessantissimi continuano ad approfondire il dipinto.
Caro, grande, Mancini dice: “Non si conosce come sia fatto”. Come è misteriosa questa frase e
come è vera.
Velàzquez dipinge il tutto con il niente. Visto da vicino è un guazzabuglio di tocchi, colori,
impasti, passaggi; da lontano si fonde e il soggetto è più reale della realtà.
Sì, perché la pittura, la Grande Pittura è anche più importante della realtà. Provate a mettere
degli oggetti di una natura morta in posa e poi fatela dipingere a Velàzquez, a Caravaggio, a
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Tiziano. Poi confrontate il dipinto accanto agli oggetti, che risulteranno muti, vili, minuziosi,
veri, troppo veri. Il dipinto invece vivrà la sua vita indipendente solitaria, senza fronzoli; avrà in
sé solo il necessari che lo farà importante.
Il pittore avrà dipinto solo ciò che lo interessava e avrà scartato tutto ciò che non era necessario
dipingere. Sì perché se farai vedere tutto, se dipingerai anche le minime cose, perderai il mistero
di quelle, perderai ciò che fa grande la pittura: la sintesi.
Ma torniamo alle ombre colorate e calde. Non so se vi siete mai soffermati a considerare le
ombre. L’ombra di solito la rifuggiamo, ci inquieta; è scura nel nostro immaginario. Ma l’ombra
è un mondo a parte, vive di vita propria ed è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti
continuamente.
Di solito siamo esseri non attenti, non consapevoli, l’attenzione per noi è canalizzata solo a fini
speculativi. Ma essere attenti alle grandi ombre, camminare con la consapevolezza di essere in
ombra al limite della luce radente, vederle da lontano che si sfaldano nei colori azzurri, sentire
che arrivano improvvisamente confortate dalle nubi scure di un temporale, essere consapevoli
del senso di perdita quando improvvisamente ci sorprendono, aiutate dalla scomparsa della luce;
ecco, tutto questo è meditazione sul soggetto.
Il pittore quando guarda dovrebbe essere in uno stato di grazia, solo così riuscirà a capire a
fondo il mondo delle ombre.
Ora se esistono i capolavori in pittura e se ne contano a centinaia, il merito è anche gran parte
della meditazione che il pittore ha fatto sull’ombra.
Una sera molti anni fa, avevo uno studio in una piccola stanza in cima a una collina, posta a
chiudere una valle. La collina aveva davanti a sé una sua amica piena di boschi di lecci;
improvvisamente il sole calò dietro di lei, una grande ombra fredda si allargò su tutta la valle e
rapidamente raggiunse anche me e la mia stanza, lasciando in luce solo le cime degli alberi più in
alto.
Ora l’ombra aveva vinto e c’era un grande potere ch ci partecipava di lei. Dice Jiddu
Krishnamurti, che non era un pittore, ma che avrebbe potuto benissimo esserlo, se non avesse
avuto la ventura di essere uno dei più grandi pensatori del 90: “…Quindi il sole toccò le cime
delle montagne, un tocco gentile, come una carezza e la neve brillò della luce del primo
mattino. Le foglie cominciarono a scuotersi dopo la lunga notte e il fumo si levò sicuro verso
l’alto da uno dei cottages e il torrente corse via chiacchierando, senza nessuna remora. E
lentamente, con esitazione e delicata timidezza, le lunghe ombre si sparsero per il terreno, le
montagne gettarono le loro ombre sulle colline e le colline sui prati e gli alberi restavano in
attesa delle ombre, ma presto queste arrivarono, le pallide e le profonde, le leggere e le pesanti e
i pioppo tremuli danzavano; il giorno era iniziato”.
Il sacerdote dell’ombra chiaroscurale è Caravaggio.
Come vedeva le ombre Caravaggio? Come le sentiva?
Spostiamoci nella Chiesa di S.Luigi dei Francesi e al buio senza accendere quella luciaccia, che lui
non aveva certo previsto, andiamo a curiosare sotto il tavolo dove Matteo nella Vocazione, sta
contando le monete dei tributi. Quante cose accadono li sotto. Il chiaroscuro che divide i piani,
le gambe dell’uomo rispetto alla savonarola, i piedi che poggiano in terra, il piano del tavolo in
luce, ma che sottintende tutto quel putiferio di passaggi chiaroscurali, tutti nell’ombra. Ombre
che vivono nelle ombre; toni che si sfiorano infinitesimali e tutto rimane li sotto in castigo.
Caravaggio lo sapeva che nessuno si sarebbe mai accorto di quella meraviglia, viste le condizioni
di luce della Cappella e dà saggio di come sia lui il maestro del tono inteso come chiaroscuro.
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Però tutto ha un prezzo perché altri pittori avevano approfondito e approfondiranno quello che
a lui non interessa: il colore delle ombre.
Questo spetterà a Tiziano, a Veronese, a Velàzquez e ad un altro gigante del chiaroscuro:
Rembrandt.
Un giorno portarono a Roma l’Artemisia di Rembrandt, un avvenimento perché vedere
Rembrandt in Italia è estremamente difficile.
Figura 3 - Rembrandt - Artemisia - 16341634- Museo del Prado Madrid
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Figura
Figura 4 - Caravaggio - Madonna della Serpe - Galleria Borghese Roma
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Io andai a vederlo ed entrando nella stanza, era nella parete principale naturalmente. Era dipinto
con il sangue. Il rosso del velluto in primo piano e tutta l’intonazione coloristica, era immersa
nel sangue, tutto emanava vita.
Anche se la modella era brutta, sgraziata, con indosso collane e brutture di ogni tipo, la qualità
della pittura era talmente immensa, le ombre così smaltate, che girandomi a destra ebbro di
tanta grazia, mi accorsi di Caravaggio e della sua Madonna della Serpe, che a confronto, non è
una bestemmia, sembrava una grisaglia.
La stanza ridondava di quella brutta donna dipinta da Rembrandt, emanava calore, voglia di
vivere.
Mi chiedo come abbia fatto il pittore olandese a concepire una tale pienezza atomica di colore,
nel suo studio grigio e tetro.
Quante ore buone di luce possono avere in Olanda d’inverno?
Questa idea mi rallegrava e Rembrandt mi era ancora più simpatico.
La grande pittura è difficile, è immensamente difficile e il secolo scorso ha fatto di tutto per
farcela dimenticare.
Credo che il primo che abbia contribuito inconsapevolmente a questo, sia stato Cézanne.
Cézanne era un pittore molto particolare, disse una volta: “Come vorrei poter rendere quella
nuvola, Monet sì che lo può, egli ha i muscoli!”
Sentiva che più in là di tanto non sarebbe potuto andare e anche se i suoi sforzi erano
mastodontici (per fare un dipinto impiegava mesi e si stima che solo una quindicina di questi,
siano considerato da lui finiti), i suoi rimanevano più che altro degli studi mai finiti.
Quando morì, purtroppo, proprio quegli studi cominciarono ad essere osservati dalle nuove
generazioni di pittori, come la nuova via da seguire, il viatico da non lasciare mai più. Quanti
quadri, sono solo abbozzati con piccole pennellate piatte di diversa gradazione, che lasciano alla
tela grezza, gran parte dello spazio del dipinto. Studi, erano per lui solo studi.
Il maestro si accaniva su di una mela per giorni, cercava il tono, il colore, la forma, si consumava
e tutto quello che fu capito di lui furono le cose che aveva detto a proposito della natura da
interpretare come geometria, attraverso il cono, la sfera, il cilindro, e quelle piccole pennellate,
che fecero la fortuna di Braque.
Cézanne voleva solo fare quella nuvola…
Non sono queste solo mie considerazioni. Sentiamo cosa dice Emile Bernard del suo vecchio
maestro, a conclusione del suo poetico libretto, Cézanne, ricordi e lettere di E. Bernard: “Ho
raccontato in queste pagine tutto ciò che adesso ricordo di Paul Cézanne. Se ne è andato da noi
e quel che ci ha lasciato, è un’opera che egli continuamente accusava di non rappresentare tutto
il suo pensiero, un’opera che alcuni giudicano un fallimento.
Eppure, nonostante il giudizio fin troppo severo del mio vecchio maestro, su se stesso e
nonostante l’incompletezza di cui lo accusano, un po’ troppo sommariamente, certi pittori e
certa critica, io penso che Cézanne si è innalzato un monumento, che resterà a sua gloria, più
col suo lavoro, che con le dieci o quindici nature morte e paesaggi compiuti, che abbiamo di
lui…
Bisogna lasciare da parte gli schizzi, che del resto, Cézanne non mise mai in mostra. E sebbene
tutto ciò che ci viene da un artista che, come lui rappresentò un caso, sia estremamente
interessante, sarebbe assurdo giudicare su dei lavori incompiuti… quel che temo è che spesso
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certa gente si basi su quanto nella sua opera, è rimasto incompiuto per mancanza di tempo o di
modello e anche per via della salute…
…A questo punto, non mi resta che dire due parole a proposito delle indecenti imitazioni di cui
è stato vittima, delle deformazioni effettuate in suo nome, della totale incomprensione dei suoi
interessati contraffattori.
Da lodare invece quelli che lo hanno capito. Quanti quelli che hanno consentito a studiare
l’opera di Cézanne e a vedervi ben altro che anomalia?
E così ahimè che è divenuto di moda mettere le composterie di traverso, fare dei tovaglioli
legnosi, ammazzare in un bicchiere il senso del verticale e impiombare su fondi a fiori, mele
piattissime.
Ne risulterebbe dunque che, se Cézanne fosse stato capito, oggi avremmo meno croste in quelle
vetrine alla moda che si chiamano d’avanguardia e che sono le tenebre dei nostri giorni”.
E questo veniva scritto nel 1905.
Così inconsapevolmente, Cézanne darà il via a quella serie di pazzie, che cavalcheranno la pittura
per un secolo fino a farla sparire completamente. D’altronde un secolo che ha dato due
spaventose guerre, si è addentrato nei meandri della psiche e si è perso in ogni sorta di bruttura,
sfociando nel nostro nuovo mondo, non poteva che annientare tutto il suo sapere, che la
pittura aveva costruito per secoli su indicibili fatiche di centinaia di pittori.
A questo proposito è interessante aprire una parentesi su quell’incredibile voglia di pittura con
cui si è chiuso il novecento.
Questa è storia recente. A cominciare dalla Transavanguardia, che si riappropriava di strumenti
pittorici, mettendoli in mano ad artisti, che non sapevano dove mettersele le mani e che hanno
svicolato facendo come gli pareva e diventando così famosissimi, continuando con gli “isti”, che
sono venuti dopo, citazionisti, anacronisti, ecc…, che poverini volevano tornare alla grande
pittura, ma poiché erano ormai quasi quarant’anni che nelle Accademie e nei Licei artistici, non
si insegnava più a dipingere, annaspavano davanti a fotografie da copiare facendo dei finti
Caravaggio ed avevano quasi completamente escluso il modello.
Di cosa fosse realmente il tono, il colore, la forma, i freddi, i caldi e tutto ciò che si porta dietro
il bagaglio tecnico di un pittore, ne sapevano ben poco.
Non era colpa loro ripeto, se erano quarant’anni o giù di lì, che i professori delle Accademie
non sapevano più dipingere.
Quando frequentavo il Liceo artistico a metà egli anni sessanta, le giornate di lezione, si
diluivano in ore e ore di solitudine davanti ai cavalletti, senza che un solo professore ci
illuminasse su come si disegnasse o che si chiaroscurasse o come ci si districasse nel’acquarello. Si
faceva sì dal vero, ma i titolari delle cattedre erano latitanti e gli assistenti ne sapevano meno di
noi.
Ma i talenti esistevano in classe e una sola parola, consapevole, quanto avrebbe abbreviatola
strada delle difficoltà.
Evitai così d’acchito l’Accademia. Ci entrai una sola volta e ci regnava il caos. Chiunque faceva
qualunque cosa, meno che dipingere e disgraziatamente a me interessava dipingere!
Cominciai così alla cieca a cercare i Musei come fossero santuari,; mi seppellivo per ore,
chiedendo permessi per copiare Caravaggio, Tiziano e quello che mi piaceva. Ma non capivo più
di tanto, non arrivavo a leggere, nessuno mi aveva aiutato in questo.
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Finalmente trovai nelle amicizie di famiglia il frate pittore, Padre Gionfra, che amorevolmente,
mi accolse nel suo studio, sulla collina davanti al Colosseo, nel Convento di S. Bonaventura al
Palatino.
Con pazienza infinita il frate si dedicò anche a me ed io iniziai a passare gran parte delle mie
giornate, studiando e dipingendo dal vero piccole e umili cose; il suo mondo fatto di vasi, cocci,
bottiglie, che a sua volta credo derivassero dal suo amore per Giorgio Morandi.
Ma non bastò. Sapevo che se volevo progredire, dovevo frequentare i vecchi pittori, che allora
erano in grado di avere un bagaglio di conoscenze tecniche da tramandare…
Li scovavo, cercavo di apprendere il più possibile per poi confrontarmi con il vero. E proprio il
vero fu il mio maestro.
Ma per fare quelle povere cose di cui sono capace, impiegai un tempo lungo e sforzi enormi, per
colpa del novecento o ancora meglio del secondo novecento.
Ho conosciuto uomini, per mia fortuna, che erano i veri “moderni”;
plurinovantenni, morti solo qualche anno fa, menavano vite ancora alla fine del novecento
incredibili. Uno di questi era Iginio Gonni (1911 – 2003).
Gonni fu uno degli ultimi veri bohemièn sulla scena dello scorso secolo.
Nato a Capodistria e vissuto gran parte della vita in giro per l’Europa a vagabondare, fu uno
scrittore, giornalista, pittore, illustratore e nullafacente.
Figura
Figura 5 - Iginio Gonni - Il treno 71 - Collezione privata
Era stato segretario di Marinetti nel secondo futurismo, amico di Trilussa aveva negli anni 30
prima dell’avvento di Hitler al poter, incontrato come inviato del giornale della sua città, il
dittatore, che poi alla sua incoronazione come vincitore delle elezioni, nella rassegna stampa
europea, lo riconobbe e gli diede una pacca sulla spalla.
Uscì in Svezia con Greta Garbo, non ancora famosa ed una sua amica a cena, poiché era
interessato all’amica.
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Fu spedito al confine durante il fascismo in un paesino dell’Abruzzo, dove trovò modo, lui
grande gaudente, di fare quattro anni di vacanza gozzovigliando e facendosi amiche belle
contadine, che lo ospitavano.
Ebbe come amici tutti i grandi intellettuali della sua epoca.
Un bel giorno, negli anni cinquanta, al vernissage di una sua mostra a Firenze, entrò un famoso
critico d’arte e sentenziò: “Di pittori che dipingono come De Pisis, ne abbiamo a sufficienza, non
ce n’è bisogno di un altro”.
Sì perché Gonni dipingeva in maniera stenografa come De Pisis, solo che era più fine del
maestro, ma questo episodio decretò la fine della sua attività come pittore e si ritirò in una
piccola casetta baciata dal sole nella baia di Portoferraio, con la sua gattina, il frigo che non
funzionava e fungeva da libreria, il camino sempre acceso con una fiammella flebile per
risparmiare, la casetta invasa da ogni genere di paccottiglia possibile e la felicità che si era
materializzata in quell’angolo di Elba.
Sembrerebbe un racconto d’appendice ed invece è tutto vero.
Vorrei che lo aveste conosciuto quest’uomo modero, anticonformista, futurista, dadaista,
ironico, sarcastico, mangiatore, bevitore, casinista.
Ecco chi sono o chi erano i veri “moderni”: i morti.
Sì perché noi che dovremmo essere il futuro, che sbandieriamo ai quattro venti davanti alla
visione della vita e dell’arte, che avevano il Gonni e quelli come lui, che il novecento ci ha
regalato a profusione, siamo trasparenti, sbagliati, confusi, senza nerbo, senza consapevolezza,
tristi e soprattutto stupidi.
Mi viene in mente la vita che menava il pittore viareggino Lorenzo Viani a Parigi nel 1908,
durante il suo primo viaggio nella metropoli.
Dice Viani nel su libro Parigi: “Per varie vicende dopo qualche tempo, dovetti lasciare il
casamento ove abitavano i Fleury e mi portai nel quartiere di Vaugirard, uno dei più popolosi
della periferia, che si congiunge al ventre di Parigi con la serpe lunga della via omonima.
Vaugirard, non ha come gli altri quartieri il suo cimitero; nel passaggio Dantzig, un fondo di
strada per il quale si accede alla porta di Versailles, c’era allora un quadrato di terra recintato da
mura: terreno aspro, in cui ai tempi dei tempi, i pattumai rovesciavano la carra piena di
immondizia.
Su quel terreno grasso, impolpato di sostanze putrescenti, vegetavano alte le malerbe: cicerbite,
ingrassa-porci, ortica, gramigna e ruta selvatica.
Sparpagliati ovunque, c’erano pentoli fessi, brocche di smalto schiacciate, padelle dal fondo
crivellato, bricchi smanicato, filtri sfondati, casseruole, barattoli, pentoli, tutta la scampanata che
ruzzola dalla garetta della lordura. Nel mezzo di quella sterpaia, c’era una casa rotonda, qualcosa
che ricordava certe camere di incenerimento; era invece una casa battezzata col vezzoso nome
della”RUCHE”: l’alveare.
La Ruche era stata costruita con i rottami degli edifici abbattuti dopo la grande esposizione, e il
padrone si rese mallevadore che ivi avrebbero albergato soltanto gli artisti poveri. Così gli
inquilini della Ruche, quando erano installati dentro, non ce li levava nemmeno l’acqua
bollente; espulsi da una stanza, si ritiravano in un’altra, per poi poco tempo dopo, ritornare in
quella di prima.
Alcuni avevano albergato in tutti i sessantasei studi della Ruche, e questa gente poteva
paragonarsi ad un ago che penetra nella pelle, il quale gira per tutto il corpo come un
microscopico siluro. …
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… Io entrai alla Ruche sul tramontar del sole in un giorno degli ultimi di novembre, mi sedetti
sopra una panchina di fianco alla porta d’ingresso; il cielo al di sopra delle fortificazioni, si alzava
all’infinito, scalpellato dagli ultimi raggi del sole, sugli alberi lontani, la luce freddandosi
diventava violetta. La Ruche era silenziosa, si sarebbe detta una casa disabitata.
La concierge cianciava con alcune donne, doveva sciacquarsi la bocca con dei vituperi. Lo
intuivo dai colpi che si dava sulle natiche e dai gesti delle braccia; quando ebbe vuotato il sacco,
fischiano rufolò in un mazzo di chiavi per pescarvi quella dell’Atelier A, il mio.
Mi precedé sulle scale squadrasciando le natiche. I piani della Ruche erano tre, io fui assegnato
all’ultimo.
Gli studi per ogni piano, erano tanti quanto le lettere dell’alfabeto. L’atelier A rimaneva di
rimpetto alle scale.
La concierge schiavacciò l’uscio, con una pedata sbatacchiò la porta contro la parete e disse:
“Voilà, votre Atelier” e ripartì alla svelta.
Presi visione rapida della casa: le rampe delle scale erano sette come i peccati mortali; con sette
salti si poteva uscire all’aperto.
Lo studio sembrava la cella di un carcere duro, il foro di presa della stufa pareva il pertugio per il
quale in segregazione apparisce la ciotola della zuppa, le mura sfarinavano una tinta color pisello,
mosche e burbiglioni erano rimasti seccaricci sull’invetriate, nei canti alitava la bambagia che
fiorisce nelle case disabitate, dei ragni tessevano una tela sopra l’architrave, la stanza sapeva di
fame.
Rimasi sorpreso che il mio predecessore, il quale non doveva legare la vigna con le salsicce
perché in terra non c’era una briciola di pane, non avesse schiodato l’impiantito di legno
stagionato che doveva bruciare come l’anfisca, io lo sommai subito come una scala a pioli per la
quale si saliva in una piccola altana e totalizzai un mese di fuoco…
… Quella sera mi convenne sdraiarmi sull’intavolato: mi buttai sulle spalle il cappotto e mi feci
guanciale delle braccia.
La notte non ebbi tempo di cercar fresco nel letto, rimasi lì acciocchito e mi destai la mattina
con tutte le ossa rotte. Mi infilai il cappotto aggrinzito e uscìi sui poggi della sterpaia per godere
un po’ di sole.
L’ossa m’eran diventate vetrine e scricchiolavano come un armadio quando è lavorato dai tarli,
la carne s’era marmata sopra e il sangue pareva si fosse accagliato nelle vene. Dopo una mezzora
di sole tutto il corpo si dimorò.
Stando costì come un biacco sentìi chiavacci are l’usciolo d’uno studio a terreno, i quali davano
sull’orto; due figure di giovani, che non stentai a riconoscer di sotto due pittori foresti si fecero
fuori, erano anche loro infreddoliti e rimbozzoliti. Uno aveva indosso il sarocchino di Brandano,
rattoppato tanto che sembrava un tetto coperto con embrici vecchi; l’altro aveva il corpo scusso
di carne coperto con un vestito di rigatino che dava i brividi a guardarlo e al collo teneva
avvoltolata una sciarpa di lana ammencita.
Entrambi erano in capelli e sapevano di nido e di stabbio.
Quello vestito di rigatino era di statura piccola e segaligna, aveva gli occhi da corvo ed il naso
adunco e la bocca tagliata in giù come l’aquila reale, i capelli irti sulla fronte piatta sapevano di
selvatico, ma il tanfo di bestia non repelleva; parevano due fiere uscite di gabbia.
Il più alto aveva i capelli ricci come son sulla groppa di un becco, doveva dormire su del rusco
perché la capigliatura era vilucchiata di fili e di fogliette, gli occhi aveva cilesti come il mare,
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
limpidi e trasparenti, il naso tagliente, la bocca di fauno ed il mento accartocciato tendeva
disperatamente verso la punta del naso.
Si fecero innanzi su poggi più alti per godere meglio il sole.
Mentre ci si spollonava facendo frullare il corpo dentro la scorza delle vesti come si fa alle vette
di castagno quando sono in succhio, ci si guardava e si sorrideva, ma non si poteva ingranare
discorso perché io non conoscevo una parola di francese. Ma il sangue tira e l’acqua lava, ci
sentimmo uguali”.
Ecco chi erano i moderni, davanti a loro e alle loro esperienza d’artisti, alle loro sofferenze per
esserlo, dobbiamo meditare noi che cerchiamo di rifare finti Caravaggio dalle foto.
Io sono un pittore e sto andando a ruota libera, ma c’è chi ha meditato sulla questione della
modernità in maniera più dotta ed approfondita.
C’è un signore a Parigi, che è stato il direttore del Museo Picasso e che si è dato da fare in una
sua pubblicazione di alcuni anni fa, a castigare, investigare e portare alla luce le mistificazioni
dell’arte del novecento, la sua Critica della modernità, è una delle pochissime voci, che si sono
levate a favore di una ricerca del vero nel guazzabuglio politico-commerciale, in cui l’arte del
secolo scorso ha sguazzato.
Apre così Jean Clair: “La pittura alla fine di questo nostro secolo, va male. Per chi ama la patria
dei quadri, presto non resterà che il recinto dei musei, come per chi ama la natura non restano
ormai che le riserve, per coltivare la nostalgia di ciò che non è più.
A malapena di tanto in tanto, un’opera singolare come una specie resistente al pericolo; ieri
l’opera di Bonnard o di Giacometti, oggi quella di F. Bacon o di Balthus. I pazienti legami che i
secoli avevano intessuto fra la terra e quadri si sono dissolti davanti ai nostri occhi nello spazio di
qualche decennio.
Eppure mai come oggi la pittura ha goduto di tanta considerazione:cerimonie ufficiali,
istituzioni, maisons de la culture, fiere, vendite all’asta, ne alimentano il ricordo, ne coltivano il
rimpianto, ne esaltano gli ultimi sussulti, registrando le minime tracce della sua agonia.
Storici dell’arte, critici, sopraintendenti, sociologi, economisti, psicanalisti, universitari di ogni
razza e paese moltiplicano intorno ad essa ricerche, analisi, lavori d’archivio.
Poche epoche hanno conosciuto quanto la nostra un tale divorzio per la povertà delle opere
prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di essa riesce a suscitare.
Una certa “avanguardia” tuttavia occupa con un gran fracasso la ribalta, esposta religiosamente
dai responsabili dei musei, che stanchi del passato, trovano in essa il brivido della novità,
confortata a una critica, il più delle volte inetta, nell’idea di incarnare la legittimità
rivoluzionaria, vera e propria cuccagna infine di un mercato che trova in essa dei prodotti labili e
facilmente rinnovabili come in un qualsiasi altro settore commerciale, suscettibili di suscitare il
massimo profitto con la minima fatica.
Da un lato gli ultimi rappresentanti della pittura astratta e analitica moltiplicano all’infinito le
variazioni sull’invisibile e il “quasi nulla”.
E per mascheratale penuria del sensibile, la critica si gonfia in proporzione inversa al suo
soggetto: più l’opera diventa inconsistente tanto più dotta sarà l’esegesi.
Una piega della tela, un tratto, un semplice punto diventano pretesti per un discorso
incomprensibile in cui si intrecciano i diversi gerghi delle scienze umane. Dall’altro lato i
campioni della Pop Art e del Fotorealismo sembrano aver dato per un momento,
all’appassionato d’arte frustrato del puritanismo dell’astrazione, l’illusione di offrire le delizie
dell’immagine.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
È difficile tuttavia non accorgersi che l’abilità dei suoi rappresentanti, pubblicitari, grafici e
ritoccatori fotografici, riconvenirti nel commercio dell’arte, nasconde in realtà la loro carenza
pittorica.
La loro iconografia vistosa è senza dubbio, la più insipida che sia mai stata prodotta dall’epoca
Vittoriana in poi.
Altrove poi, i devoti dell’anti-arte sessant’anni dopo DADA continuano ad agitare i vessilli
derisori di una chiamata alle armi alla quale nessuno risponde, né mai ha risposto… Taluno si
appropria diciamo dei materiali del corpus universalis della pittura, il telaio, la tela, il pigmento,
la vernice, e pretende di fare un’opera di uno solo di quegli elementi; talaltro riduce il mestiere
all’abilità di un gesto che ingigantisce in maniera mostruosa, oppure si appropria della teoria, o
piuttosto ne rabbercia alla meglio i frammenti per costruire a caso un mostro di carta; altri
infine esaltano unicamente il proprio potere di stupire…
… In pochi anni si è creato, dal mercante al museo, dal critico al soprintendente, un perfetto
circuito chiuso in cu la circolazione accelerata di un qualsiasi prodotto artistico si è sostituita alla
considerazione dei valori che esso racchiude”.
Ma non intristiamoci e torniamo a Caravaggio.
Ebbi modo di studiare da vicino, in un mio viaggio per fare dei ritratti a Siracusa Il seppellimento
di S. Lucia, il tragico dipinto, già al museo Bellomo, ora tornato nella chiesa di Santa Lucia.
Sul finire della sua vita, Caravaggio ormai braccato da mesi, adotta una tecnica e dei colori ben
diversi dai suoi primi anni romani. Il bisogno di fare svelto nei suoi soggiorni brevi a malta,
Siracusa, Messina, Napoli, o spingono ad usare la preparazione rossiccia del fondo delle tele,
come vere e proprie mezze tinte.
Ormai a lui basta una luce grezza e un’ombra timbrata, utilizzando i rosso della preparazione
come tinta i passaggio.
Questo è evidente nell’Adorazione dei pastori, dove il monocromo è assoluto e nella S. Lucia.
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Figura 6 - Caravaggio - L'Adorazione dei pastori - Museo Nazionale Messina
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Lontani erano gli anni del Bacco, della Buona Ventura, dove i colori, anche smaglianti,
campivano drappeggi e cappelli. Monocromo confortato da un rosso cinabro, è anche La
Resurrezione di Lazzaro.
Figura 7 - Caravaggio - La resurrezione di Lazzaro - Museo Nazionale Messina
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Il Pittore Volante
Ma poiché questi grandi spesso alla fine della loro esperienza pittorica, diventano così parchi di
colore?
Anche il grande Tiziano ci lascia un testamento pittorico, portato a termine dal suo allievo
Palma, che in pratica è monocromo.
Figura 8 - Tiziano - Pietà - Galleria dell'Accademia Venezia
La verità credo, è che gli antichi intuivano che la natura non è colorata, ma solo intonata. Se si
mischiano tutti i colori della tavolozza, si ottiene un grigio. Così la retina, mischiando i colori
dello spettro della luce, nell’osservazione della natura, alla fine ottiene una perfetta intonazione,
che è colorata certamente, ma prossima al monocromo. Cioè i colori si fondono nella retina e
niente più stride.
Per questo se c’è un colore, che in un paesaggio è artificiale come una casa colorata al quarzo di
un arancio orrendo, dà fastidio all’osservatore e lo stesso, si permette di dare del brutto a quel
colore.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
In natura ciò non accade, tutto è intonato.
Gli antichi avevano capito questo principio e per questo usavano una tavolozza molto parca.
Due o tre terre, un nero o un bruno, per i colpi di grancassa e per freddare ed equilibrare i colori
caldi, e ovviamente il bianco, che avrebbe decretato tutte le variazioni tonali.
Per i panneggi si poteva usare un cinabro o un lapislazzulo, che cantava sull’intonazione
generale.
È solo con la modernità e con l’avvento dell’industria, che i colori diventano decine ed i
problemi di intonazione, diventano centinaia.
Ci sono pittori che nell’ottocento sono diventati maestri, nel dominare tavolozze multicolori.
Delacroix ne sa qualcosa.
Il vecchio leone riempie i suoi diari, che durarono tutta la sua vita pittorica, di annotazioni
folgoranti per generazioni di pittori.
E però pur rifacendosi a Rubens, che fu il suo riferimento, lo reinterpretò.
Rubens ottiene quella sua tavolozza in maniera antica; i suoi quadri sono divorati dal bitume e
dal cinabro, ma non azzarda più in là.
Delacroix al contrario usa mille “culurille”, come li chiamava Antonio Mancini per arrivare ai
suoi risultati più alti, ma il disegno non lo confortava ed avrebbe perso la gara con li grande
fiammingo.
Già il disegno; toccare l’argomento è scherzare con il fuoco.
Come si può parlare di qualcosa, che è magico e misterioso come un disegno?
Il dipinto è lì ormai completo, c’è dentro un pensiero, il disegno appunto, il colore, il
chiaroscuro, il sentimento; ma se si isola il disegno, si entra in una dimensione strana. Non so se
avete presente il cartone di Leonardo della Sant’Anna e il bambino alla National Gallery di
Londra.
Gli inglesi da quei grandi esteti e birbanti che sono, l’avevano presentato in una stanza buia da
solo, illuminando solo il perimetro del disegno e lasciando tutto il resto al buio.
Non è certo che Leonardo avesse bisogno di questa messa in scena, però nel buio della sala
l’intonazione azzurrastra del cartone, aumentava la sensazione che quella cosa fosse “altro”.
Ecco quel disegno è in un’altra dimensione, ma non perché la Sant’Anna è spettrale, in quel
chiaroscuro del viso insistito, ma per tutta l’indefinizione che aleggia intorno, un altro mondo,
una visione superiore, che il dipinto non raggiunge e che non potrà mai raggiungere.
Siamo ancora al tema del monocromo, ci proietta in un mondo che non conosciamo, in un
altro “stato”.
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Figura 9 - Leonardo - Vergine con Sant'Anna, il Bambino e San Giovannino - National Gallery Londra
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Un altro artista che mi fa questo effetto, è il grande scultore napoletano Vincenzo Gemito.
Un adolescente di 15 anni, esegue dei disegni “soprannaturali” dei suoi coetanei che pescano
sulle rocce; studi che precedono il suo capolavoro Il pescatoriello.
Figura 10 - Vincenzo
Vincenzo Gemito - Il pescatoriello - Museo di Capodimonte Napoli
Probabilmente la sua patologia latente, lo portò ad una visione così sconcertante e allo stesso
tempo profondissima.
Pochi segni zigzaganti, ci ridanno il mare del Mediterraneo, la bellezza di corpi classici nudi, il
senso del selvaggio, la libertà.
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Figura 11 - Vincenzo Gemito - Scugnizzo sulle rocce - Collezione privata
Molti si sono chiesti e si chiedono il perché non esiste un solo disegno di Caravaggio e come
facesse a dipingere, senza eseguire il disegno, cosa che del resto era naturale anche in Velàzquez.
Quando un pittore ha raggiunto una visione della realtà, del soggetto, del modello in modo da
poterli leggere come forma-tono-colore, non ha più bisogno del contorno da seguire; la forma
prenderà consistenza, attraverso la giustapposizione dei toni, e ciò che ha davanti, diventerà il
suo libro, la sua sicurezza, non potrà sbagliare, anzi se avrà anche un grande sentimento del
soggetto da portare parallelamente con sé, eseguirà la sintesi del medesimo e quindi estrarrà
l’ambrosia dalla natura, l’avrà scoperta.
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Il Pittore Volante
Alcuni pittori hanno affrontato il male. Non perché fossero di indole particolarmente malefica,
ma proprio perché arrivare in profondità di loro stessi, scardinare anche le ultime porte che ci
dividono dal nucleo più profondo, esorcizza la parte del male che ci appartiene.
Alcuni, come Goya, lo fanno sia per patologia incipiente e sia perché era arrivato per lui il
momento che lo facesse.
La pittura di Füssli, odora di zolfo, di presenze oscure, di atmosfere nere, di incubi.
Böcklin, affronta la morte con il piacere della sfida; la sua Isola dei morti, è un monumento
plumbeo.
Figura 12 - Arnold Böcklin
Böcklin - L'isola dei Morti - Kunstmuseum
Kunstmuseum Basilea
Tutto il buio del seicento pittorico, nasconde elementi inquietanti, che riflettono il secolo.
L’ignoranza, la stregoneria, la superstizione, il disagio della vita.
Tutta questa ricerca all’interno, è interessante prima dell’accadimento della psicanalisi. Poi tutto
diviene costruito e scontato, più superficiale ed eclatante.
Gli orologi si sciolgono, le piazze ammutoliscono, grandi occhi ci guardano, e tutto il resto.
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Ma torniamo a Füssli e al suo incubo.
Figura 13 - Johann Heinrich Fü
Füssli - L'Incubo - Detroit Institute of Arts
Füssli è particolarmente diverso dagli altri pittori del suo tempo. Il suo disegno giusto ed
imperfetto allo stesso modo, le figure allungate, le fanciulle dinoccolate, uomini con nasi
improbabili, arrivano nella sua pittura all’”altro”, di cui si parlava in merito alla Sant’Anna.
Queste figure, che non riusciamo a codificare come reali, immerse in quel putiferio di esseri di
fiaba, in quella luce bruno-verdastra, ci conducono a ciò che Aldous Huxley a riguardo: “La luce
e il colore tendono ad assumere una qualità preternaturale quando sono viste in mezzo ad un
ambiente oscuro.
La “crocifissione” di Frate Angelico al Louvre, ha uno sfondo nero.
E nero lo hanno gli affreschi della Passione dipinti da Andrea del Castagno per le monache di
S.Apollonia a Firenze.
Perciò la visionaria intensità, lo strano potere di trasporto di queste straordinarie opere. In un
contenuto artistico e psicologico completamente diverso, lo stesso mezzo fu usato spesso da
Goya nelle sue acqueforti.
Questi uomini volanti, quel cavallo sulla fune, l’immensa e spettrale incarnazione della paura, si
ergono tutti come illuminati, contro uno sfondo di notte impenetrabile.
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Con lo sviluppo del chiaroscuro nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, la notte uscì dallo
sfondo e si installò nel quadro, che diventò la scena di una specie di lotta manichea tra Luce e
Tenebre.
All’epoca in cui furono dipinte, queste opere devono aver posseduto un reale potere
travolgente. A noi che abbiamo visto troppo di questo genere di cose, la maggioranza di queste
sembrano meramente teatrali.
Ma alcuna conserva ancora la sua magia.
Figura 14 - Caravaggio - La deposizione nel Sepolcro - Pinacoteca Vaticana Roma
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Il Pittore Volante
Vi è per esempio La deposizione di Caravaggio, vi sono una dozzina di magici dipinti di La Tour,
vi sono tutti quei visionari Rembrandt, dove le luci hanno l’intensità e il significato di luce “agli
antipodi della mente”, dove le tenebre sono piene di ricche potenzialità in attesa del loro turno,
per diventare reali, per farsi luminosamente presenti alla nostra coscienza…
… Insieme alle luci e ai colori preternaturali, alle gemme ed agli schemi in continua
trasformazione, i visitatori degli “antipodi della mente”, scoprono un mondo di paesaggi di
sublime bellezza, di architettura vivente e di figure eroiche.
Il potere di trasporto di molte opere d’arte è attribuibile al fatto che i loro creatori hanno
dipinto scene, persone e soggetti, che ricordano allo spettatore, ciò che consciamente o
inconsciamente, egli sa dell’”Altro Mondo” dietro la sua mente;… e questo, Huxley.
Un pittore attento, che ha esercitato la qualità dell’osservazione per tutta la vita,
continuamente, poiché non potrà più farne a meno (il processo andrà avanti da solo), sa anche
che vede in maniera diversa.
La bellezza delle cose si manifesta in lui, in tutta la sua gloria; i colori soprattutto comandano
questa visione.
Io credo che si sviluppi con l’allenamento, uno stato percettivo coloristico, che si avvicina molto
a quello che si ha con l’assunzione di droghe lisergiche.
Quel senso di stupore verso i colori e di piena partecipazione alla loro gioia, è descritto in molte
sperimentazioni di studiosi delle droghe lisergiche.
La visione glorifica di cose insignificanti come la piega di un panneggio del suo pantalone ad
esempio, che sempre Huxley esamina sotto Mescalina, è molto vicina ai risultati
dell’osservazione che porta in un dipinto a fare di piccoli particolari, autentici capolavori. La
frogia fremente del cavallo del ritratto di Filippo IV di Velàzquez ad esempio; lo stesso orecchio
di Velàzquez, con cui abbiamo iniziato il nostro viaggio. Quindi senza droghe, il pittore attento
e sensibile, arriva agli stessi risultati della visione pura. Pura, perché in quell’atto c’è solo
attenzione perfetta e nient’altro. Noi guardiamo, ma quasi sempre non vediamo. Per questo gli
inglesi specificano l’atto del “guardare”, da quello del “vedere”. Essi dicono: “I see”, cioè vedo
dentro, vedo chiaro, ho la percezione della realtà senza condizionamenti.
In altre parole l’ego è messo a tacere.
Un contributo determinante a tutto quanto finora esposto, viene proprio da una nuova branca
delle neuro-scienze chiamata neuro-estetica, che sta chiarendo i meccanismi cerebrali implicati
nella percezione dei processi creativi, insomma tra arte e cervello.
Ma ciò che più interessa la presente trattazione di questo ancora poco conosciuto fenomeno, è
che è stato dimostrato che i diversi soggetti pittorici, attiravano aree cerebrali diverse, legate alle
esperienze delle diverse sensazioni. È da notare che i quadri astratti non attivano aree cerebrali
sensoriali, ma sono elaborati probabilmente solo da quelle più intellettuali; nella Grande Pittura
insomma, il sentire viene prima del pensare, mentre nell’arte astratta è il contrario.
L’ambiguità, (ad esempio il famoso sorriso della Gioconda), e il non finito (come nella Pietà
Rondinini di Michelangelo), richiedono l’intervento di aree cerebrali superiori, e per questo
sono più apprezzate delle opere “semplici”.
Ma torniamo al pantalone di Aldous Huxley. È significativo per comprendere la meraviglia, che
a volte è insita nei panneggi dei grandi pittori. Dice: “… Guardai giù per caso e continuai a fissare
appassionatamente per determinazione, le mie gambe incrociate.
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Il Pittore Volante
Quelle pieghe dei calzoni, che labirinto di complessità infinitamente significativa! E il tessuto di
flanella grigia, come era ricco e profondamente e misteriosamente sontuoso!
Ed eccoli di nuovo nel quadro della Giuditta di Botticelli…
Figura 15 - Sandro Botticelli - La Giuditta - Uffizi Firenze
… Ciò che noi vediamo solo sotto l’influenza della mescalina, l’artista è congenitamente
attrezzato a vedere sempre.
La sua percezione non è limitata a ciò che è biologicamente o socialmente utile. Un po’ della
conoscenza appartenente all’Intelletto in Genere, supera la valvola di riduzione del cervello e
dell’Io e arriva alla sua coscienza. Fissando la gonna di Giuditta, appresi che Botticelli, ma anche
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Il Pittore Volante
molti altri, avevano guardato i drappeggi con gli stessi occhi trasfigurati e trasfiguranti, dei miei
quella mattina. Essi avevano visto l’ISTIGKEIT, il tutto e l’infinito nelle pieghe degli abiti e
avevano fatto del loro meglio, per renderlo in pittura o in scultura”.
È chiaro però che un pittore, non potrebbe vivere continuamente in questo stato, impazzirebbe
o morirebbe abbandonandosi alla contemplazione, come accade ai monaci buddisti.
La natura ha predisposto il congegno dell’ego, che ci turba in maniera, che solo che sa
scardinarlo con un “clic” mentale, può volontariamente abbandonare diciamo così, lo stato
“normale”, verso quello di pura contemplazione delle cose e quindi tradurlo in arte.
Questo “stato” è più evidente e più facilmente identificabile nei grandi paesaggisti. È chiaro che
nel paesaggio, l’artista si perda e si dimentichi di sé stesso, più del pittore che analizza le minime
cose.
Ci vorrà più intensità per raggiungere la poesia del più piccolo, ma nel paesaggio, il pittore si
lascia trasportare dalla bellezza del creato; tutto è lì per lui e dovrà solo tradurlo. Già! Ma qui
cominciano i dolori.
Per sua natura il paesaggio ti frastorna.
Centinaia di elementi; dal più piccolo al più grande, foglie tremule, fili d’erba, vento, pioggia,
montagne, viottoli, case, umani che lo popolano.
Davanti a tutto questo ben di Dio, è difficile districarsi. Cosa fare? Da dove cominciare? Si rischia
di rimanere con il pennello inzuppato e l’aria perplessa davanti alla tela. Anche qui c’è la chiave
di volta.
Quando ci troviamo improvvisamente davanti al paesaggio che ci piace, in quel momento,
abbiamo un’esclamazione: “Quanto è bello!”, “Come mi piace questo!”, “È magnifico!” Ecco!
Semplicemente bisogna iniziare dal “Quanto è bello!”, dall’emozione forte suscitata in quel
primo momento. Facciamo un esempio: giro la curva, dopo una giornata di caccia al soggetto
andata a male, e mi ritrovo davanti ad un tramonto.
Le montagne controluce sono ormai violette, il sole è dietro le ultime nuvole dell’orizzonte e
lancia i suoi dardi invisibili, raccolti dalle nubi più grandi, che sono sopra di noi. Viola, rosa,
azzurro intenso, verde acqua, tutta la gamma dell’arcobaleno. Fulminati da quella vista,
dovremo fermarci, puntare il cavalletto ed iniziare dall’emozione. Che cosa era? Una piccola
nuvola d’oro sopra la montagna? Allora inizia da quella, non aspettare di dipingere il cielo, poi la
montagna e quindi gli alberi. No! Inizia da quella piccola nuvola d’oro! Quella è la tua
emozione, tutto il resto verrà di conseguenza…
È chiaro che sto parlando di quel genere di paesaggio, che è il più immediato, cioè il bozzetto
del vero. E però l’accento di verità che raggiungerà quel bozzetto, non potrà poi mai essere
eguagliato dal quadro finito che ne deriverà nello studio.
Corot per tutta la vita, nascose i bozzetti che faceva dal vero, lui che fu uno degli iniziatori dello
studio en plein air, mandando ai Salon solo i grandi quadri che ne derivavano, e solo alla sua
morte, il suo Atelier, svelò i segreti amori del pittore, che rimangono le sue cose più importanti.
John Constable ebbe medesima sorte.
Lunghi inverni nel gelido Sussex, passati in casa a finire l’unico lavoro, al quale si applicava per
mesi, sovrapponendo colore a colore, per terminare il dipinto da mandare all’esposizione, ma
nel frattempo, tempo permettendo, annotava diligentemente (e fu il primo), il passaggio di una
nuvola, la sua denominazione, l’ora, il vento.
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Il Pittore Volante
Oppure faceva un piccolo quadro, come il ritratto del tronco di una quercia, dal vero, la cosa più
strabiliante in tema di amore per un albero.
Figura 16 - John Constable - Studio del tronco di un Olmo - Victoria and Albert Museum Londra
Eppure tanta bellezza ti si può torcere contro all’improvviso.
Molti anni fa ebbi una strana avventura, che appuntai, e così riferisco: “Ero arrivato di
pomeriggio visibilmente eccitato all’idea di essere, dopo un lungo viaggio, nella terra di
Constable. Il parcheggio fu subito fuori misura e mi infilai tra due macchine, strusciandone una.
Poi, con la stessa stanchezza, infilai la porta del vecchio pub, non ancora aperto al pubblico
essendo le sei del pomeriggio e mi dettero una spaziosa stanza tutta rosa, con un gran lettone
centrale.
Il tutto sapeva di settecento povero inglese, ma molto decoroso.
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Il Pittore Volante
Giravo e rigiravo nella stanza, assimilandone quella qualità di sapore, prima sul letto, poi in
poltrona, quindi sulla sedia, vicino al caminetto. Sentivo la moquette morbida sotto i piedi, e gli
infissi di vecchio legno marcio; i vetri erano soffiati.
Bene non c’era più altro da assaporare e uscii a godermi la campagna a sera.
Il mulino di Flatford, quello era la prima cosa da vedere.
Figura 17 - John Constable - Il mulino di Flatford - Tate Gallery – Londra
Con il cuore in gola dall’emozione ritrovai, a furia di girare la campagna, quella parte del Sussex,
così magistralmente interpretata da Constable. Tutto era così fermo nel tempo, così rispettato.
Ero molto eccitato e proprio sul fare della sera, feci un acquarello, con un pallido sole che
languiva fra la nuvolaglia.
Fuori di me dalla contentezza, tornai al pub; cenai con un pezzo di anatra farcita di verdure, e mi
infilai poco dopo a letto, convinto della necessità di lavorare il mattino dopo alle otto in punto.
E alle otto, ero davanti al mulino che dipingevo.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Figura 18 - John Constable - The Hay Wain - National Gallery Londra
Quattro ore di lavoro molto intenso, poi pausa, mangiare, di nuovo al lavoro alle tre su un altro
soggetto; questa volta il Cottage di Willy Lott, altro motivo preferito da Constable. Altre tre ore
abbondanti di lavoro, poi esausto, a cena e a letto.
Il secondo giorno il lavoro andò avanti, spedito come il primo.
Con grande alacrità e consumo nervoso, cercavo di penetrare il paesaggio, ma i fantasmi, che lo
permeavano erano tanti e le loro energie più forti sicuramente delle mie. La mattina del terzo
giorno, iniziai un altro quadro di là dal fiume guardando il cottage. Alla fine della seduta ero
stanco, vuoto, molto stanco. Decisi di non proseguire la seduta pomeridiana. C’era qualcosa che
non andava. Una fuga di energia mi aveva innescato qualcosa all’interno, che mi inquietava.
Nella mia stanza, a letto, cercando un riposo che non riusciva ad entrare, sentivo la mia anima
irrequieta non più padrona di sé, oscurarsi mentre il tempo fuori si faceva nero, tetro e lo
sentivo in qualche modo, occuparsi di me, nel suo avanzare minaccioso. Un disagio spirituale mi
possedeva; era già successo, ma questa volta non l’avrei subito passivamente. Per parecchie ore
lottai con qualcosa di inafferrabile e soccombevo, poiché non ne capivo l’origine. Ecco!
L’”origine”, fu la parola che sciolse la tensione, mentre a tavola nel pub, mangiavo l’anatra.
Capii improvvisamente che dovevo lasciare quel posto; non l’indomani, ma subito. Era la
resistenza che facevo che aveva creato il disagio.
Avevo dato tutta la mia energia nervosa a “quel posto” ed ora dovevo fuggire, poiché era più
forte di me, certamente, e non avrei potuto resistergli.
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Stabilito questo, istantaneamente la tensione sparì ed io, di nuovo libero da me stesso e dal
luogo, partii senza una meta precisa la notte stessa”.
Mi rendo conto, che per un mondo che va a mille come il nostro, questo approccio alla visione
e al sentimento della natura, possa sembrare obsoleto e lento.
Infatti è mia ferma convinzione, che se questa disposizione della percezione delle cose, non sarà
cullata e presa in considerazione, entro due generazioni, la pittura, che è già morta, sparirà
completamente. Intendiamoci, i pittori ci saranno sempre, ma magari ci vorranno ancora anni,
prima di ritornare ad essere percettivi e svegli, davanti ad un paesaggio, e soprattutto, con le
chiavi per osservarlo e tradurlo giustamente.
Son bastate solo poche generazioni, (diciamo tre?), per alzare un muro su questa scienza esatta.
Già avevano pasticciato negli anni dopo la grande guerra, i pittori che in Italia, erano tornati ad
una pittura semplice del paesaggio, che richiamava i primitivi del quattrocento, facendola passare
così sporca e nera, per una rinascita del sentimento primitivo.
Poi le varie scuole, come la romana, si erano accartocciate su sé stesse cercando di ritrovare i fili,
che i loro padri avevano così saldamente tenuto in mano.
È in quel momento che gli artisti soffrono di più della loro condizione. La povertà, l’affiliazione
al potere vigente, il sentirsi moderni, e la coscienza che rimordeva per aver lasciato indietro gli
obiettivi, che avevano fatto grande l’arte. Allora, cercano la natura; la grande madre.
C’è un paesino al chilometro 52 da Roma, sulla via Tiburtina, che dall’inizio dell’ottocento,
veniva frequentato dai pittori che scendevano in Italia per il “Grand Tour”.
Chissà perché, lì, in quelle quattro case arroccate, misere, conviventi con le stalle, si concentrò
l’attenzione di generazioni di pittori.
All’inizio del secolo, intorno agli anni venti e trenta, si contavano più di settanta studi di
pittura.
Ci dipingevano già all’inizio del novecento, intorno agli anni dieci, i Gaudenzi, Attilio Selva,
Carena, Ferruzzi, Sartorio, che girerà molte delle scene del suo film Il mistero i Galatea, Arturo
Martini, che installerà il suo studio nella chiesetta della piazza del paese, sopportando inverni
durissimi, affogati nel duro lavoro e nella miseria più nera.
Nel 30 arriva Kokoshka, poi Pirandello e decine di altri. Trovano nel paese arcaico, immerso nel
verde più selvaggio, a cavallo tra il Lazio e l’Abruzzo, il loro ritorno alla natura.
Il 26 aprile 1959, Felice Carena ormai ottantenne, torna per l’ultima volta ad Anticoli, per
rivedere il suo studio, che aveva abitato dal 1919 al 1924.
Lo accompagna il vecchio Enrico Gaudenzi, a cui, ritornato a Roma, scrive una commossa
lettera: “Caro, caro amico, la giornata ad Anticoli è tutta nel mio cuore ed è tra le più belle, pure
e luminose giornate della mia vita; e tu caro Enrico, tra tutti, resti più vivo nel ricordo. Sei stato
veramente caro, di una bontà semplice, signorile, profondamente umana. Non lo dimenticherò
mai per tutta la vita. Grazie, grazie. Spero di vederti ancora e forse a voce, meglio che per iscritto,
dirti quale ricordo mi ha lasciato il tuo incontro e l’umanità di tutto il popolo di Anticoli, che
fu tanto, ed è nella mia vita di uomo e di artista. Ti abbraccio, Carena.”
Questa la comunione che avveniva tra gli artisti, che vivevano e frequentavano il paesino, che
disponeva gli uomini al rispetto e alla solennità dei sentimenti.
Lo storico dell’arte Valerio Marini, scriveva nel 1957 a proposito di Anticoli Corrado, questo è il
nome per esteso del magico luogo: “ Anticoli è quell’indimenticabile paese che tutti conoscono
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
come “il paese degli artisti”. Per molti, anzi, è addirittura una specie di “paese dei balocchi”,
sognato ardentemente come luogo ideale per la pittura, raggiunto poi nel desiderio di attuare
quella stretta comunanza tra vita di artista ed arte, immaginata in tempi trascorsi, così come può
farlo pensare Il concerto campestre di Giorgione. Ma se anche la vita degli artisti di più
generazioni e di tante parti del mondo, è trascorsa e trascorre, lassù, tra querceti e balzi, al calore
delle vecchie case battute da un tiepido sole di collina, nella suadente, semplicità arcadica
dell’antico Lazio, tutto ciò è molto più rustico e vero, molto più schiettamente paesano di quel
che non si possa immaginare della letteratura sorta attorno a questo pittoresco luogo fuori dal
comune, attraverso la stesura dei vari “ricordi di Italia” e la pittura “caratteristica” dell’ottocento.
Lassù dipingono un po’ tutti: come accade talvolta a Capri, anche ad Anticoli, non è raro trovare
un giovane modello che dipinge meglio di quel pittore straniero, che si è incaricato di
insegnargli i primi rudimenti dell’arte o di quel vecchio maestro, che gli aveva aperto lo studio
perché posasse per lui”; e ancora dal libro Un paese immaginario, Anticoli Corrado: “… Al
mugnaio, al pastore di pecore e di capre, al fornaio, all’artigiano, al contadino, si è aggiunto ora
nel paese, un tipo diverso di lavoratore: l’artista. Gli anticolani, inaspettatamente giudicano il
suo, un lavoro serio, e in qualche modo precario, che adesso coesiste insieme a quello dei campi,
un lavoro per un prodotto di esportazione: l’immagine del paese e dei suoi abitanti eternati
nell’arte.
Gli uomini saranno modelli per il Cristo, I senatori di Maccari, San Francesco (Francesco Toppi,
detto Pisciunittu, aveva già posato per il monumento di San Francesco davanti alla Basilica di
S.Giovanni in Laterano di Tonnini nel 1927) o il Tritone della Fontana delle Naiadi di Rutelli
(posò per il Tritone, l’anticolano Sisto Berardi), che chi scrive, ebbe modo di conoscere già
anziano alla fine degli anni settanta, una domenica di sole al bar nella piazza di Anticoli. Ancora
bello come il sole, somigliava a Errol Flynn; brindava alla vita, mentre i suoi antichi compagni,
lo chiamavano con il soprannome di “schizzo”, alludendo al getto che inonda le naiadi nella
fontana di Piazza Esedra.
Le donne saranno Agostina, di Corot, Le ragazze in processione di Stuckelberg, Le portatrici
d’acqua di Lendorff, Una madre di Pietro Gaudenzi, Una madonna di Attilio Selva.
In nome dell’arte nascono alleanze tra contadini ed artisti nel mezzo di una natura
incontaminata.”
Quando, chi scrive arrivò ad Anticoli, nel 1973, tutto questo non esisteva più già da tempo.
Qualche artista aveva resistito alla morte sino a lambire gli anni sessanta, poi il paese era tornato
piano, piano, ai suoi abitanti e degli ospiti illustri, ne rimaneva il ricordo nei dipinti lasciati nel
paese.
Presi uno studio e rimasi lì saltuariamente per alcuni anni, e conobbi l’amore che i vecchi
avevano avuto, per l’incredibile atmosfera, che avevano respirato. Sartine ormai anziane, avevano
in casa dipinti bellissimi di pittori per i quali avevano posato.
Il giornalaio della piazza, che era anche il proprietario del mio studio, aveva una sterminata
sequela di dipinti nella sua modestissima magione, guardati con sospetto dalla sua selvatica
moglie, che ancora vestiva di nero.
Il paese languiva sotto i ricordi. Di pittori neanche l’ombra; l’unico che ancora resisteva, era un
famoso falsario, che aveva casa però fuori dal paese.
Si nascondevano giovani americani, che non erano voluti partire per il Vietnam, e iniziavano a
rivalutare le vecchie stamberghe, i cittadini già stanchi della bolgia della città.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Drammaticamente si riproponeva il tema della pittura, non più frequentata dai pittori, come
madre ispiratrice.
A volte, come fantasmi, giravano per quei boschi fatati, personaggi novantenni, vestiti come
pastori del presepe, con le ciocie, il cappello di feltro e il giubbino di pecora.
Un giorno, che dipingevo, sperso in una radura del bosco, ne apparve uno con cui mi attardai.
Non parlava italiano; si esprimeva in anticolano arcaico e mi disse, che l’unica volta che aveva
lasciato quel posto selvaggio, fu per la visita militare settant’anni prima.
La natura del paese, che aveva visto tanta pittura, ora riposava tranquilla.
Cerchiamo la natura oggi come non mai.
Viaggiamo continuamente in luoghi meravigliosi; come possiamo fuggiamo dalle città per
nasconderci nelle campagne; tutta la sinfonia pubblicitaria è basata sulla solfa del ritorno alla
natura, ma siamo completamente ciechi!
Dovremmo nasconderci nei boschi, nudi, cercare i torrenti, vivere come eremiti, parlare con gli
gnomi, solo così potremo espiare tutto il male che ci siamo fatti, dimenticando ciò di cui si è
parlato.
Ma non succederà niente, perché le cose non cambiano, vanno avanti da sole e quindi andiamo
avanti anche noi.
Diceva un pittore simpatico come Anselmo Bucci ne Il pittore volante: “Quando ti senti
depresso e grigio in una grigia giornata, rifugiati nella natura morta.”
Gli uomini hanno bisogno di fare; darsi da fare ciecamente, facendo qualsiasi cosa: lavorare,
impegnarsi, fare sport, hobby, pur di non rimanere soli con sé stessi. Diceva un famoso filosofo
inglese: “Tutti i guai degli esseri umani, comprese le guerre, esistono perché non sanno starsene
comodamente seduti nelle poltrone dei loro salotti”.
Il bisogno di sicurezza è insito in noi, ancestrale. Rifugiarsi in una natura morta, quando è
apparecchiata sotto una luce fredda che viene dall’alto in una giornata invernale, significa
meditare, essere al sicuro.
Al contrario del paesaggio, che come abbiamo detto ti frastorna, gli oggetti muti ti guardano e i
pittore inizia il suo viaggio attraverso i toni ed i colori, con agio, tempo, silenzio.
La natura morta diventa terapeutica per chi la fa e per chi la fruisce.
Immaginiamoci comodamente a letto; davanti a noi il muro bianco, la pittura non è mai
esistita. Credo che dopo qualche settimana, cominceremo a dare testate a quel muro, cercando
di abbatterlo.
I paesaggi e le nature morte, sono nate in pittura, per permettere agli uomini ormai prigionieri
delle loro mura, di ritornare da dove erano venuti, dalla natura. Le bestie sentivano il bisogno
della loro madre, dei paesaggi lasciati, degli oggetti dimenticati.
È per questa ragione che hanno più mercato le nature morte ed i paesaggi e meno le figure.
L’uomo della strada sente inconsciamente, che nella sua casa vuole le cose da cui dipende nel
profondo.
Eppure la figura per un pittore, è sempre stata e sarà il suo campo di battaglia; dove si parrà la sua
nobilitate.
Essere davanti ad un modello e tradurlo in pittura (ma solo il modello che senti veramente), è
un’avventura.
Ricordo gli esseri umani che mi hanno permesso di entrare, di sfiorare diciamo, per un solo
dipinto, la vera pittura.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Io sono grato, vorrei riportarli in vita e ringraziarli per aver permesso questo transfert.
C’era uno spazzino, un bellissimo Cristo, con una criniera di capelli e un sorriso perenne, come
se gli avessero staccato le labbra. Stanco morto, provato dalle droghe, posava per me, per il solo
piacere di stare con me, alla luce delle candele.
Un imbianchino segaligno, tornava la sera dopo una lunga giornata di lavoro e io che lo
aspettavo nella sua poverissima casa, come un avvoltoio che vede la carne e senza pietà, lo
mettevo in posa a tavola con una tazza davanti ad un cucchiaio infilato, in quello che simulava
un pasto frugale, che era poi quello della sua vita reale.
Vecchi contadini elbani, con le facce che solo i vecchi hanno, posavano per me, solo perché
glielo chiedevo e loro, mansueti, con le vecchie mogli, che aspettavano la fine delle lunghe pose.
E poi c’era il rovescio della medaglia ben riassunto da Dario Cecchi nel suo volume su Antonio
Mancini e l a sua esperienza di ritrattista in Inghilterra. “Il pittore, la sera di quel primo
preoccupante giorno di posa, non si fece vedere a cena.
La signora gli mandò un biglietto in camera:”Si vous êtes trop fatigué, pourquoi ne descendez
vous pas après le diner dans la salle de billards ? Monsieur Charles vous envoie ses meilleurs
amitiés et regrette beaucoup de ne pas vous trouver à table ce soir. J’ai oublié mes ennuies à
cause des grilles !” E magari ella non immaginava affatto che per Mancini, orso come era,
qualsiasi appiglio pur di starsene tappato nella sua stanza, era una manna. Altri biglietti
seguitarono a fioccare in occasioni diverse.
Evidentemente il pittore trascorreva ore di vera segregazione e non era molto facile vederlo in
giro per casa o nel parco.
“Cher Monsieur, je serai dans l’atelier à dix heures. La lumière n’est pas bonne. Mais on peut faire
quelque chose peut-être et je peux poser toute la journée ! Mary Hunter “
Il lavoro procedeva alacremente, ora.
L’affascinamento e l’eccellente disposizione della modella, alimentavano la buona lena del
pittore. E il ritratto, magistralmente condotto, si avviava ad una prossima conclusione.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Figura 19 - Antonio Mancini - Ritratto di Mary Hunter - collezione privata
Dinanzi alla sostanziosa verità dell’opera pittorica, sciamanti in ammirazione, le figlie della
signora Hunt: Silvie, Phillys e Kitty.
E poi il ritratto compiuto, parenti e amici capeggiati da Charles Hunter, l’orgogliosissimo
padrone di casa, il quale elargiva frequenti inviti per partite di caccia.
Ricca di impasto, la figura della ritrattata in nero, accostata ad un divano giallo, si imponeva
autorevolmente agli occhi di qualsiasi riguardante.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Le tracce della graticola, (Mancini si serviva di una graticola di fili, che poneva dinanzi al
ritrattato e la stessa disposizione di fili, la riportava sulla tela, in modo secondo lui, da trovare
disegno, tono e colore più precisamente), e certi pezzetti di vetro con cui il pittore aveva fatto
maggiormente cantare, uno scintillio d’argenteria o di un gioiello, creavano è ovvio, una serie di
stupefatti commenti, di indagini, domande intelligenti o banali, che la signora Hunter,
affrontava entusiasticamente, illustrava minuziosamente e canalizzava puntualmente verso la più
concorde e totale ammirazione e approvazione.
Dopo di lei, tutti gli altri componenti della famiglia, smaltirono regolari pose dietro le ormai
famigerate “graticole manciniane”.
Ogni tanto vi era una breve interruzione, un giorno o due, perché a turno i componenti della
famiglia, dovevano fare una corsa a Londra.
Ma il pittore continuava a lavorare indefessamente ai fondi dei ritratti, o agli abiti dei modelli
assenti.
Di nuovo, a volte, le sue curiose “solitudini”, lo facevano rimanere segregato in camera.
Un biglietto scritto in italiano e firmato Ethel Morris (un’amica di famiglia probabilmente),
venne inviato in camera al pittore, una sera che lui se ne stava chiuso a scriver lettere, a
ciondolare, ad annoiarsi…
“Egregio signore, qualche cosa è successo alla luce elettrica e per stasera, non avremo che
candele. La signora Kitty, la prega di scendere se non le dispiace, perché crede che lei starà
meglio giù con noi, che in camera con le candele. Faccia come le piace, ma avrà più luce se sta
giù con noi.”
I soliti complicati maneggi per stanare l’orso.
Erano i mesi di ottobre e novembre, le giornate erano piuttosto corte per quel che riguarda la
luce naturale, che spesso non doveva neppure permettere al pittore, eccezionale agio di lavoro;
figurarsi quindi come gli restasse di impaccio, affrontare lunghe serate di convenevoli con i suoi
ospiti.
Si rinserrava in camera a scribacchiare appunti su quanto aveva veduto settimane avanti a
Londra, alla National Gallery per esempio: i bei Tiziano naturalmente. Oppure a rimuginare idee,
dando di pastello o a ritornare per l’ennesima volta, su verbosi appunti concernenti la propria
tecnica.
Ho riportato questo colorito passo di Cecchi, perché io che amo Mancini, mi ritrovo in quello
che lui passava, ospite di famiglie che lo adoravano, ma che inevitabilmente lo soffocavano.
È il prezzo da pagare per il ritrattista non mondano. Infatti per il ritrattista mondano, tutto
fiocchi e fru-fru, il supplizio di tantalo, non rappresenta una difficoltà anzi ci sguazza dentro.
Ma per il pittore al servizio dei potenti, un po’ schivo, riservato, tutto il rosario dell’etichetta,
diviene tragico, nascondersi diventa una necessità.
Per te contano solo quelle ore davanti al cavalletto, poiché sei lontano migliaia di chilometri da
casa, sei indifeso, sei al centro dell’attenzione continuamente; il fiore all’occhiello da esibire.
Circa trent’anni fa, ero un giovane pittore con pochi soldi, in una città come Roma divenuta
lugubre dalle ben note vicissitudini terroristiche. Le serrande si abbassavano presto la sera, la
gente aveva paura, girava nell’aria una malsana nuvole scura.
Vendere quadri non era la cosa più facile del mondo, soprattutto se sei giovane e fai (siamo
negli anni settanta), una pittura che va controcorrente e non è politicamente vista di buon
occhio.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Un giorno, mentre faticosamente avevo organizzato una mostra, entrò un critico e disse se non
mi vergognavo, giovane com’ero, ad attaccare ancora i quadri alle pareti, come se fossero
prosciutti. Sperimentazione ci voleva, la sperimentazione! Lo catalogai come un cretino, e
continuai per la mia strada. Ma torniamo a bomba.
In quel clima di grande depressione, ebbi un giorno la sfacciata fortuna, di incontrare un’anziana
signora che vide alcuni dei miei ritratti e mi ingaggiò seduta stante, per farne alla sua famiglia
nella lontanissima, come mi sembrava, Svizzera. Per non farla troppo lunga, iniziò da quel
giorno per me, protetto dalle grandi famiglie, che si passavano la palla, un tour de force,
attraverso l’Europa e non solo, che durò anni e che fu un’esperienza straordinaria, ma potrete
capire, dal comportamento del povero Mancini, cosa ne derivasse.
Ho studiato a fondo il pittore napoletano, che credo sinceramente sia, dopo la grande pittura
dei secoli XVII e XVIII, l’erede dei Velàzquez, dei Tiziano, dei Rembrandt.
Eppure stranamente, ancora oggi, dopo tante sviolinate sulla sua pittura, sul suo strano modo di
eseguire, sulla sua personalità così toccata dalla grazia della fanciullezza, non viene preso nella
giusta considerazione.
Mancini piace ai pittori, perché è pittore puro; gli altri lo capiscono poco. Raramente ad una
tornata di asta, i suoi prezzi arrivano alle vertigini, che manovali della pittura agevolmente
arraffano.
Eppure chi scrive ha inseguito le sue tracce per anni e anni.
Ha costretto amici a fare tesi di laurea su di lui, facendoli innamorare di questo immenso artista;
l’ho inseguito in Olanda, dove mandava i suoi più bei lavori ai collezionisti, in Inghilterra, in
America, ovunque andassi per piacere o per lavoro, cercavo le sue tracce.
E un bel giorno arrivai a sua nipote Enrica.
L’anziana donna, ormai novantenne, era stata la sua modella più fedele e con lei aveva fatto
decine di capolavori.
Nella sua casa delle Terme Deciane, passammo un’oretta insieme, parlando dello zio e capii la
venerazione, che ancora ne portava.
Tutta la casa era piena di dipinti meravigliosi; di un’intonazione rossa, rosa, grigia, c’era sul
camino una donna con guanti, che avrebbe fatto inginocchiare il più incallito dei miscredenti.
Ritratti a grandezza naturale, spumeggiavano di quella materia, che capiva solo lui e solo a lui era
concessa.
Ero frastornato da tanta sapienza. Lui che aveva iniziato a fare capolavori appena quattordicenne.
Nella povertà di una Napoli ottocentesca, insieme a Gemito, quasi bambini, sfornavano piccoli
capolavori, che la ragione non riesce a concepire, se non che le pittura è in contatto con
qualcosa di altro, quando è fatta da esseri inconsapevoli e straordinari.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Figura 20 - Antonio Mancini - Lo scugnizzo (terzo comandamento) - Collezione privata
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Mozart era così.
Non sarò certo io ad affrontare un argomento così delicato, anche perché fiumi di parole e di
inchiostro, non riusciranno mai a chiarire l’enigma della mente pura a cui tutto è concesso.
Del resto abbiamo sentito dalle sue parole, il modo intelligente, acuto con cui parla della pittura.
Non era acculturato Mancini, tendeva alla grafomania, era strambo, ma se parlava i pittura era
lapidario.
“La timidezza, dono divino nei colombi, è in arte peccato mortale. Guai ai timidi”. “Il vero, il
vero solo, unico maestro”. “È troppo difficile fare una buona pittura. La mia? Tentativi sbagliati”.
Dice ancora Cecchi:”Antonio Mancini scriveva da umile e nelle sue interminabili filastrocche
sconclusionate, gli argomenti sono quasi sempre scevri da auliche ambizioni; si dovrà dire anzi,
che non vanno molto oltre la stabile tematica della “semplicissima dignità del pane quotidiano”.
Aspetto codesto, di una disperata autenticità, e che fa trapelare a ogni piè sospinto, la tenace
lotta del pittore nel resistere, resistere ad oltranza, in mezzo a oceani di disordine, in mezzo a
calamità, a mortificazioni.
E quando, carta e matita si sforzò di guardare in alto, fu per captare i segreti arcani dell’arte di
uno dei più poderosi pittori del mondo: Velàzquez.
“Il dipinto è troppo alto per decidere dell’impasto”, annotava, come si è visto il Mancini dinanzi
al ritratto di Papa Innocenzo X e in tutta semplicità. Par di vederlo teso in quell’adorazione,
come tesa era la volpe verso l’uva dell’antica favola.
“La forma della luce in rilievo”, annotava ancora. E nel clima di tanto trepido fervore, ecco le
rivelazioni più incisive di tutta la sua esistenza d’artista. Per concludere poi, al termine della sua
parabola di grande lavoratore. “La mia pittura?... Tentativi sbagliati.”
Per mia fortuna feci un ritratto ai parenti di Mancini, figli, dei figli, dei figli di Enrica. Non volli
denaro, ma vista la mia devozione per il maestro, mi ripagarono con un piccolo autoritratto
detto “della follia”, su un fazzoletto di carta. Mancini con poche misteriose macchie, aveva
lasciato l’impronta indelebile del suo stato alterato.
La potenza di quello che aveva fatto in pochi centimetri quadrati, mi turbava ed esaltava allo
stesso tempo.
Con la curiosità di chi vuol capire, cercai documenti del suo passaggio al manicomio S.Francesco
di Sales a Napoli, e finalmente trovai una tesina del professor Michele Sciuti sulla “Malattia
mentale di Antonio Mancini”.
Il prof. Sciuti nel 1948 aveva scritto questo testo basandosi come lui stesso afferma nella
premessa, su ricerche compiute nell’Archivio dell’Ospedale Psichiatrico di Napoli e da
testimonianze di chi l’aveva direttamente conosciuto e frequentato in quel periodo, che va dal
1879 al 1883, dove per tre volte fu ricoverato nella casa di salute e curato dal dott. Buonomo.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Figura 21 - Antonio Mancini - Autoritratto della follia - Collezione privata
Nonostante il suo disagio, nel manicomio, eseguirà alcuni dei suoi più bei dipinti, a sé stesso e
agli infermieri.
Dice il dott. Sciuti nel 1948 nella sua esposizione sull’argomento: “Questo fa pensare che il
Mancini possedesse al massimo grado la rappresentazione visiva delle immagini, direi sotto
forma allucinatoria, per cui vedesse quasi effettivamente proiettata sulla tela, l’immagine del suo
cervello.
Del resto è un fatto generale che i grandi artisti, presentino un’alta tensione delle zone sensoriali
cerebrali, tali da spingerli alla creazione dell’opera d’arte. Ben a ragione si può dire che il Mancini
aveva delle vere allucinazioni creative, riconosciute come tali e valutate come uno sforzo
dell’intelligenza.
Esse non si possono ritenere morbose, perché le allucinazioni patologiche sono aderenti alla
personalità e materiate nella realtà, per una condizione di deficienza conoscitiva e critica. Tali
considerazioni si possono estendere alle altre categorie di artisti, ad esempio i musicisti, gli
scultori, i poeti.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
La sonata del diavolo di Tartini ne è un esempio; essa, si dice, fu creata quasi in stato
allucinatorio. L’estro dei poeti in fondo, non è che una scarica del potenziale corticale portato
ad alta tensione dalla cerebrazione”.
Alessandro Poerio a proposito del tormento creativo, penoso, del Bellini ha scritto:”Nell’alta
notte (io dal tuo labbro stesso lo appresi), insonne ti rompea l’interna prepotente armonia”.
Si dice che Goethe “fissava il tema e dirigeva il corso” attraverso una serie di allucinazioni
ipnagogiche; esse si devono considerare dei veri sogni creativi; egli, elevando il potenziale del
suo cervello, svolgeva nel sogno, come altri lo fanno in veglia, il tema prediletto proiettando poi
all’esterno le immagini.
È un fenomeno di attenzione interna su un dato tema, che probabilmente spinge il processo
allucinatorio.
E ancora Sciuti:”Gli autoritratti di Mancini, che fanno penetrare nella sua vita di uomo e d’artista
che aveva attinto alla fonte dolorosa dell’esistenza, dal tormento quotidiano della
insoddisfazione e dell’insonnia, dallo strazio dell’insania mentale, la forza della sua arte”.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Figura 22 - Antonio Mancini - Autoritratto - Già collezione Fassini
Mancini guarirà completamente da questa forma di schizofrenia e continuerà a lavorare dando
capolavori fino alla fine della sua vita.
Indubbiamente lo stupore della giovinezza verso l’arte e il mondo, porta a percepire alcune
essenze di questo.
Una mattina di pochi anni fa, mi sorpresi ad annotare: ”Cosa erano quelle atmosfere chiare,
lattiginose, che ritrovavo negli anni della mia formazione, continuamente sulla mia strada? Se
ero nello studio ottocentesco di Gonni a Firenze, quella luce lattea si spandeva dal grande
finestrone su tutto lo studio, le cose, e soprattutto su di me, sulla mia emozione.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Se ero nella casa di Adda, fra tutte quelle meraviglie, da solo, mi visitava di nuovo con la stessa
dolcezza e lo stesso candore; era la medesima luce, una luce tutta interiore, che forse afferravo
solo io per chissà quale magia.
La riconobbi molte volte, anche nei musei, nelle piccole stanze con piccoli quadri alle pareti che
lei accarezzava.
Chissà forse preferiva i piccoli capolavori (come quel Ruisdael) per farsi manifesta. Son molti
anni che non la vedo più, forse vuole il silenzio, l’amore religioso e disinteressato per le cose
belle, come le vede un occhio giovane e stupito.”
Ma purtroppo avevo voluto essere pittore in un momento sbagliato. Imparai l’enorme
solitudine artistica in cui mi ero cacciato.
Annotai: “I pittori non si cercano più, non si ritrovano in cenacoli come una volta; dissimulano
un penoso senso di disprezzo l’uno verso l’altro.
La ragione è che non si stimano più, perché non c’è più una vera pittura da stimare da quando
quella tradizionale è sparita. Quindi ciò che dipingono oggi sono autorizzati a ritenerlo, quello
che di meglio c’è sulla piazza.
Non c’è più un metro di riferimento, che rendeva umile il borioso.”
Ma non c’era più già da tantissimo tempo.
De Chirico si era fatto carico, dopo il suo periodo metafisico, di scrivere un ponderoso
volumetto su come si dipingesse; sulle tecniche, i perché.
Lui che era tornato a fare il falso seicento, dipingendo orribili autoritratti in costume e
noiosissime nature morte con Paul Newman di gesso e occhiali scuri.
A questo proposito è addirittura esilarante l’articolo di Palma Bucarelli sul L’INDIPENDENTE
nel maggio 1945, che conforta la nostra tesi sullo scombiccherato ritorno alla Grande Pittura in
quegli anni: “…ora col mettere quella stessa tecnica al servizio di un realismo, anzi verismo
ovvio e alquanto volgare, il De Chirico, ha scompagnato l’unità della sua pittura, è caduto nel
più caotico disordine.
Egli adesso porta tutto l’interesse per l’arte sulla materia in quanto materia, che è un assurdo
artistico, affermando di aver ritrovato e di voler praticare la tecnica degli antichi maestri; e il
risultato poiché i caratteri propri di un’epoca non si possono forzare, è quello che i francesi
chiamano “pastiche”, un falso.
Intendiamoci, non che si debba fare del verismo, ma allora ci vuole altro, bisogna saper
disegnare pulitamente e magari accademicamente (…), tutte cose che il De Chirico non sa fare;
il suo disegno è incerto e approssimativo come quello di un pittore popolare, senza quel sapore
di ingenuità.
Poco importa dunque, se sul villoso petto dell’autoritratto nudo si possono contare pressappoco
i peli, quando il disegno ne è così goffo e manchevole che non avrebbe interessato nemmeno la
buonanima di Vasari.
Quasi quasi, pensiamo che quel mattacchione di De Chirico, abbia voluto farci uno scherzo. Ma
intanto è uno scherzo che dura da troppo tempo…”
Sciltian addirittura eseguiva grandi dipinti ispirati a Caravaggio (che intanto si rivoltava nella
tomba), con i modelli che sembravano bambolotti vestiti con maglie del Milan, e accessori
banali, dei più variati.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Ancora vecchio, pace all’anima sua, lo visitai nel suo lugubre studio in via del Babuino, credo, e
la cosa che mi colpì di più, fu la sua tavolozza a riposo con monta rozzi di colore aggrumato,
dove uno zolfanello, avrebbe volentieri sparacchiato.
Per fortuna qualche vecchio pittore, aveva ancora il senso dell’umiltà; parecchie volte vidi il
vecchio Ziveri, frequentare la scuola libera del nudo, la sera, all’Accademia di Belle Arti i Roma,
disegnando tranquillamente come uno di noi.
Fuori, però, nelle gallerie romane, c’era il valzer dei pittori alla moda, che per fortuna avrebbero
avuto con il tempo, il loro ridimensionamento.
Lampi della vecchia gloria della pittura in quei primi anni settanta, brillavano ancora nelle nature
morte di anziani pittori, come il veneto Barbisan, nelle figure del sardo Fantini, nei bei dipinti di
Mazzonis e nei ritratti di Pietro Annigoni.
Ma di giovani da frequentare con i quali poter scambiare impressioni, parlare solo di pittura
consapevolmente, ce ne erano pochissimi; o io non li trovavo.
Un giorno all’Isola d’Elba, dove ormai vivo quasi da trent’anni, il vecchio Gonni, guardando il
mare, mi disse che era l’ora che affrontassi Parigi. Mi dovevo trasferire secondo lui, perché era il
centro del mondo artistico, ecc.ecc.; e io fesso, gli detti retta.
Non teneva conto, nel suo consiglio, che Parigi, sì, era stata il centro del mondo artistico, ma
alla sua epoca.
Comunque la fortuna mi sfiorò ancora una volta e un mi collezionista, ma soprattutto amico,
mi mise a disposizione un piccolo studio al 22 di Rue de Pot de Fer nel cuore della città.
Per otto anni cercai saltuariamente a Parigi quello che mi aveva prospettato Gonni, ma non lo
trovai mai.
Nella mia ricerca delle vestigia di vere vecchie glorie dell’arte, mi imbattei in Lila De Nobili. La
De Nobili era stata una grande scenografa; aveva lavorato per Visconti, nel cinema, e per molto
tempo, fu una delle grandi.
Schiva, semplice, era una Gonni al femminile.
Ora vecchia, dolce e mite, andava avanti e indietro, da casa sua al Louvre per prendere appunti su
di un quadro di Pannini, di cui doveva fare una copia nel suo studio per una riproduzione in
bianco e nero. Così lei tutti i giorni, andava nel museo a prendere appunti sul colore originale.
Era assurdo, ma era così!
Io la accompagnavo e con la coda dell’occhio la studiavo; era una barbona, una dolce, magnifica
barbona.
Fu proprio lei che mi indirizzò ad una famosa galleria parigina, quando senza voglia alcuna
giravo per Parigi per cercare di fare un’esposizione.
“In quella galleria esponeva un certo Paolini, uno degli anni sessanta.
Piccoli pezzi di riviste strappate incollate, su di un foglio di carta bianca; un foglietto a quadretti
dei quaderni delle elementari incollato su tela, e così via. Tutto minuscolo attaccato alle grandi
pareti bianche; sembravano vendessero l’aria.
Prezzi allora da 200 milioni in su; tutto veniva dato come se fosse l’ostia sacra.
Esco dopo che il gallerista mi aveva liquidato con: “bella pittura, ma non so proprio da chi potrei
mandarla!” (Poi mi manda da Claude Bernard)…
Arrivo davanti alla galleria, bellissima, mi fermo con il materiale in mano. Ci penso, poi mando
tutto a quel paese e non entro; meglio vivere alla giornata, un quadro a te, uno a lui, che
gettarsi a tuffo nel liquame.
La sera me ne andai al cinema.”
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Tutto quel tempo passato a Parigi mi diede, però, la possibilità di approfondire ciò che
veramente mi interessava: i romantici ad esempio, e soprattutto Delacroix e Gericault.
Gericault nella sua breve vita sperimentò varie strade. Pochissimi sono i suoi dipinti con una
linea ben precisa, e la sua strada, seguiva quella che andava all’inferno, come ci dice ancora
Huxley: “Fu un visionario negativo, perché la sua arte, sebbene quasi ossessivamente aderente
alla natura, fu aderente ad una natura magicamente trasfigurata nella sua percezione e
traduzione di essa in peggio. “Comincio a dipingere una donna”, egli disse una volta “ma essa si
conclude sempre in un leone”.
Più spesso infatti, essa si concludeva in qualcosa di molto meno amabile di un leone, un
cadavere, per esempio, o un demone.
Figura 23 - Gericault - La Zattera della Medusa - Parigi Louvre
Il suo capolavoro La Zattera della Medusa fu dipinto non dalla vita, ma dalla dissoluzione e dal
decadimento, da pezzi di cadavere fornitogli da studenti di medicina, dal torso emaciato, dal viso
itterico, di un amico che soffriva di una malattia al fegato.
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Il Pittore Volante
Figura 24 - Gericault - Frammenti anatomici - Montpellier Musée Fabre
Anche le onde, su cui galleggia la zattera, anche l’arco del cielo, sono cadaveri colorati. È come
se l’intero universo fosse diventato una sala anatomica. E poi vi sono i suoi quadri demoniaci:
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Il Pittore Volante
Figura 25 - Gericault - Il Derby di Epsom - Parigi Louvre
Il Derby di Epsom, è ovvio si corse all’inferno, contro uno sfondo fiammeggiante di visibile
oscurità.
Il cavallo pomellato spaventato dal fulmine, alla National Gallery, è una rivelazione in un
singolo gelido istante della bizzarria della sinistra o addirittura infernale diversità, che si
nasconde nelle cose familiari.
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Il Pittore Volante
Figura 26 - Gericault – Cavallo pomellato spaventato dal fulmine - Londra National Gallery
Al Metropolitan Museum, vi è un ritratto di bambino. E che bambino! Nella sua giacchetta di
un colore livido, il piccolo caro è ciò che Baudelaire amava chiamare “un satana in erba”. E lo
studio di un uomo nudo anche al Metropolitan, non è altro che il satana in erba cresciuto.
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Il Pittore Volante
Figura 27 - Gericault – Ritratto di bambino – New York Metropolitan Museum
Dalle notizie, che i suoi amici hanno lasciato di lui, è evidente che Gericault vide abitualmente il
mondo che lo circondava come una successione di apocalissi visionarie.
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Il Pittore Volante
Figura 28 - Gericault – Ufficiale dei Cacciatori a cavallo – Parigi Louvre
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Il cavallo impennato nell’Ufficiale dei Cacciatori a cavallo, tra i suoi primi quadri, fu visto una
mattina, sulla strada di Saint Cloud, in un raggio polveroso di sole estivo, mentre si impennava e
si divincolava tra le stanghe di un carrozzone pubblico.
I personaggi della Zattera della Medusa, furono dipinti in tutti i particolari, uno per uno nella
tela grezza.
Ogni particolare rivelazione di un corpo in decomposizione, un corpo malato al limite estremo
del pallore epatico, fu tradotta completamente come era stata vista e resa artisticamente. Per un
miracolo del genio, ogni successiva apocalisse, fu adattata, profeticamente, ad una armoniosa
composizione che esisteva quando la prima delle spaventose visioni fu trasferita sulla tela, solo
nell’immaginazione dell’artista.
Delacroix non fu infernale come il suo amico, piuttosto fu feroce.
Cacce meravigliosamente coloristiche (derivate da Rubens), animali esotici, leoni uccisi da
brutali beduini con scimitarre scintillanti, tigri in riposo; tutta la ferocia del mondo era nei suoi
dipinti.
Mi disse una volta Duilio Morosini, il critico d’arte, che con quei dipinti Delacroix si lavava la
coscienza, per il senso di rimorso che aveva, di dover frequentare i salotti Parigini.
Scaricava l’aggressività repressa nelle sue tele, grondanti di passione e ferocia…
Inspiegabilmente, mentre il colore in lui è puro e portato alla massima saturazione, capito sino
alla scienza (sarà lui il primo ad osservare le proprietà del colore, dei riflessi, che poi saranno
sviluppati dagli impressionisti, fino quasi alla dissoluzione della luce), il disegno in lui sarà
sempre cagionevole e ragione di scherno da parte dei critici della sua epoca.
Quando abbandonò quasi completamente il modello, che tanto lo aveva sostenuto nelle sue
grandi prove giovanili, come nel Massacro di Scio, La morte di Sardanapalo, L’entrata in
Costantinopoli, e la pittura da cavalletto prende il sopravvento, prima delle grandi opere in
fresco, il disegno è impacciato, le figure quasi disossate, ma ciò non toglieva nulla allo splendore
dei dipinti.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Figura 29 - Delacroix – Il massacro di Scio – Parigi Louvre
Probabilmente la sua diatriba con Ingres nel disegno e sul colore, lo spinse a trascurare ciò che
faceva grande il suo avversario in pittura.
Delacroix ci ha lasciato il testamento della sua vita di artista nei diari, che tenne per tutta la vita,
di ricchezza immensa di notizie, intuizioni, confessioni.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Per capire il rompicapo coloristico in cui era immerso, sentiamo dalle sue parole in quale
maniera affrontava la preparazione della tavolozza, per la Galleria dell’Apollo del Louvre: “… per
ridipingere il braccio della Minerva: sul vecchio fondo color carne, segnato le ombre con lacca, e
lacca gialla, impastata molto solidamente, forse metterci un po’ di terra verde. Tinte verde e
violetto messe crudamente qua e là nella luce scura mescolarvisi, ma a seconda del posto; tinte
d’un valore assai carico, per il limite dell’ombra. Alcune di queste tinte nell’ombra sulla leggera
sfregatura.
Sulla parte nella luce, aggiunto poi toni chiari bianco e cinabro, ocra di ruscello e bianco (che
basta se c’è il verde di cobalto di Edoardo), se c’è quello più ordinario, che assomiglia a terra
verde, aggiungervi del cobalto. Questo tono verde è molto tipico delle carni delicate, delle pelli
belle, e prende molto valore mischiato al tono lacca e bianco.
Per riprendere il tono giallastro dietro al serpente, leggera sfregatura di cobalto e cinabro. Chiari
di lacca gialla e tono malva di cobalto, cinabro, lacca bianca. Lunedì 5 maggio 1851.” Un vero
rompicapo!!
Ma per comprendere come riuscisse a leggere acutamente un dipinto, sentiamo questo passo del
suo taccuino, ora perduto, ma pubblicato nella prima edizione francese del Diario. Il passo si
riferisce al Colpo di lancia di Rubens, del Museo d’Anversa. “Soldato che trafigge il costato,
d’una tonalità più cupa del ladrone che sta dietro di lui, il che lo fa risaltare perfettamente.
Ladrone di un tono dorato; lini del medesimo valore che si confondono con il cielo grigio
caldo. Collo del cavallo più chiaro – vivissimo luccichio sull’armatura sotto il braccio del soldato
con la lancia, e il cielo molto azzurro fra le braccia dell’altro. Luce sfumata sulle gambe del
Cristo, dalle ginocchia in giù. Testa braccio e l’altra mano della Maddalena vivacissimi.
Piedi di Cristo, prevalentemente a mezzatinta, ma di mirabile leggerezza. Il ginocchio risalta
benissimo sul braccio e sulla mano della Maddalena. Ad eccezione di qualche lustro, ma tenue,
tutto il ginocchio del soldato che scende dalla scala, d’un valore quasi analogo ai piedi del
Cristo.. La scala contro le gambe del ladrone, le due gambe del ladrone (a eccezione del
ginocchio destro un po’ acceso di colore) ,a specie i piedi, meno la parte in ombra, del
medesimo tono grigio-bluastro, brunastro. Lo stesso, la croce vicino ai piedi. Cielo quasi del
medesimo valore. Il braccio del soldato risalta sulla gamba del ladrone, soltanto perché un po’
più rosso…” E ancora, “La testa della Maddalena, risalta magnificamente sulla parte a mezzatinta
chiara del legno della croce, e dietro sul cielo del medesimo valore; come ho detto, sublime
grappolo della scala ai piedi del ladrone, delle gambe del soldato, della corazza scura con il suo
luccichio che dà risalto a tutto”.
Ecco qui come va il mondo. Il grande Delacroix in meditazione davanti al suo pittore preferito, a
sua volta fulminato da Tiziano.
Analizzare a fondo un dipinto di un maestro, è fondamentale per imparare, ma imparare ad
osservare il vero, è ancora più importante.
Il pittore si basa soprattutto sull’osservazione attenta delle cose, della natura, dei volti, della
fisiognomica, dell’interagire fra la persone, per poi trasportarla nel suo mondo: quello della
pittura.
Quando si osserva direttamente, con tutta l’energia intellettuale a disposizione, ci
dimentichiamo di noi.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Tutto ciò che accade nella mente del pittore, che titanicamente tenta di controllare i mille
stimoli visivi che gli si propongono, sono solo equazioni matematiche.
Questo ton è alto, quindi abbassarlo; qui meno verde, lì più rosso, questa linea è più curva,
quella è più dritta, qui portare avanti il piano, lì arretrarlo di qualche centimetro in prospettiva
aerea, gli occhi non sono paralleli, l’asse del capo è da raddrizzare, ecc..ecc..
Mentre si fanno i calcoli, il pensiero, diciamo così utile, è al massimo dell’attenzione, mentre il
pensiero che si occupa della nostra sfera psicologica, quello per intenderci, che ci fa soffrire, che
ci da sensazione di paura, di dolore profondo, ci fa essere invidiosi ecc…, è completamente fuori
uso.
Quindi diciamo che l’ “ego” è ridotto ai minimi termini.
Se in questo stato di semivuoto, l’artista riesce a captare il senso profondo che emana
dall’oggetto, o modello, che osserva; se riesce a percepire tutto l’ “altro”, che c’è dietro, allora
può, se tutto in lui è equilibrato in quel momento (la sua sensibilità, la sua educazione, la
tecnica, la cultura, la predisposizione al bello e alla penetrazione del mistero delle cose), accedere
al quel “quid”, a quell’emozione, che poi sarà rimandata con la stessa intensità, che lui ha
percepito, all’osservatore del dipinto.
Se non c’è questa alchimia, il dipinto non avrà la sua forza traumatica. È per questa ragione, che
esistono tanti dipinti e pochi capolavori.
Imparare ad osservare, è un luogo da dove una volta innescato il processo, non si torna più
indietro.
Il pittore che guarda le cose, anche nel quotidiano, non potrà mai più fare a meno di osservare
pittoricamente il tutto.
La cassiera al supermercato, avrà per lui le più belle tonalità, rispetto al fondo in cui canta; il più
noioso dei chiacchieroni, si trasformerà, solo se l’artista lo vorrà, in un incanto di colori, e
quell’occhio acquoso, lo trasporterà nel regno dei più bei capolavori della storia della pittura.
Questa trasfigurazione delle cose, sarà alla portata del pittore, che avrà in sé tutti i requisiti per
sopportare la Grande Pittura; perché la grande pittura è così ponderosa ed ha un così tale potere,
da evocare in noi solo il meglio che ha dato l’umanità, ed è per questo che il grande artista, è
sempre stato visto come il taumaturgo, lo sciamano, il diverso e quindi sempre rispettato; in lui
c’è qualcosa, che riscatta l’umanità.
È interessante accostare quello che abbiamo appena accennato, a ciò che è l’osservazione attenta
per gli orientali e in particolar modo alla filosofia dell’osservazione dei grandi pensatori
Sentiamo ancora Krishnamurti: “Vedere senza il pensiero, senza la parola, senza la risposta della
memoria, è totalmente diverso da vedere con il pensiero ed il sentimento. Ciò che uno vede con
il pensiero, è superficiale; in questo caso il vedere è solo parziale, in realtà non è affatto vedere.
Vedere senza pensiero è totale. Vedere una nuvola su una montagna senza il pensiero e le sue
reazioni, è il miracolo del nuovo; non è “bello” è esplosivo nella sua immensità. È qualcosa che
non è mai stato e non sarà mai più” e ancora a proposito della sensitività: “La sensitività è
totalmente diversa dalla raffinatezza; la sensitività è uno stato integrale, la raffinatezza è sempre
parziale.
Non esiste sensitività parziale; o essa è lo stato dell’intero essere, la coscienza totale, o non c’è
affatto.
Questa sensitività è spogliata di ogni piacere e quindi contiene l’austerità, non del desiderio e
della volontà ma del vedere e del comprendere”
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Ora, anche se Krishnamurti ci annunzia che la pittura è un fatto intellettuale, epperò ci conduce
nella sua osservazione della realtà, inevitabilmente all’idea di “altro”, a cui tende il capolavoro.
In pittura, una delle cose più difficili in tutti i sensi, è fare un ritratto.
Il ritratto su commissione è una vera tortura. Si arriva sul luogo del misfatto dopo aver subito,
qualche giorno prima, una cena interminabile con il ritrattato, che ovviamente vuole sapere
tutto sulla tua vita e dire tutto sulla sua.
Se sei fortunato e il soggetto ti piace, tanto meglio, ma quasi sempre è una salsiccia se maschio;
e se donna, Dio te la mandi buona!!
Non vi dico se ci sono dei bambini allora è finita.
La fortuna sarebbe il modello muto, ma poi tutti vogliono parlare, alzarsi almeno una ventina di
volte; poi arrivano i parenti, gli amici, il gatto e tutti vogliono dire la loro. Quello più antipatico
di tutti dice: “Non ti somiglia per niente!”, senza tener conto del pittore, che è lì con un mezzo
sorriso, come se chi l’ha detto avesse solo scherzato. Il più simpatico dice: ”Sembra una
fotografia!” e lì ti cascano le braccia, anche perché nel frattempo il modello si è alzato per venire
a vedere se è vero. Ma il momento più drammatico è quando, facendo finta di aver compiuto
un’impresa colossale, il pittore dice: “È finito!”.
È a quel punto che non è finito per niente. Nessuno rispetta quella parola conclusiva, e tutto si
scatenano a trovare i difetti. Sì perché il dipinto, è diventato una caccia sfrenata a ciò che non va:
nasi, occhi, bocche, perfino divani, orologi, tappeti… Dio mio speriamo finisca presto!!
Una volta per fare un ritratto ad una adolescente antipaticissima, impiegai quattro ore,
dopodiché mi venne la febbre alta…
Un dipinto di oltre due metri per due finito da poco, me lo ritrovai completamente ridipinto dai
due modellini che avevano posato, poiché lasciai incustodita la tavolozza fino al giorno dopo.
Beato il pittore Anselmo Bucci, che così ci ride sopra:
“1) Chi non ha fatto un ritocco fotografico, non sa cosa sia un ritratto, quale lo chiede e lo spera
il volgo.
2) Il ritratto è una partita di boxe. Proporzionala alla persona, al tempo, al luogo e alle forze
dell’avversario e tue.
3) L’importanza che ha il colletto in un ritratto d’uomo è incredibile.
4) Baudelaire diceva: Tutto è facile in arte fuorché il ritratto di donna.
5) Il ritrattista ne sa quanto un confessore o un medico, e non ha segreto professionale che lo
leghi: deve essere quindi una persona onesta.
6) Punto primo: chi si muove è debole. I selvaggi, i bimbi, e i grandi maschi non sanno star
fermi. Le donne no, sono fortissime.
7) Punto secondo: chi non ti sa guardare negli occhi è falso, o timido, o non ti ama.
8) Quando copri e frughi una bocca, e quella non si spacca in uno sciocco sorriso, c’è del
carattere là dentro. Quella bocca non dirà che ciò che vuole.
9) Tu cominci una conoscenza con un ritratto. Dovresti finirla con un ritratto.
10) I pittori posano tutti malissimo.
11) Se lavori in casa altrui, sii durante le prime pose l’operaio, anzi “l’uomo del gas”. Quando
avrai rassicurato i domestici e il cane sarai “l’uomo del giorno”.
12) Puoi permetterti allora molte licenze e crearti manie, si indulgerà; ma guardati dal far cadere
il pennello sul tappeto.
13) Chiedi sempre in tutto “una settimana di tempo”.
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Il Pittore Volante
14) Il rapporto che si stabilisce tra il ritrattato e ritrattante è indefinibile e squisito. La sua natura
transitoria ne accelera lo sviluppo arditamente. Somiglia ai cenni affettuosi che il viaggiatore fa
dal treno in corsa allo sconosciuto intravisto per un attimo.
15) Per creare questo rapporto occorre subito sminestrare al cliente un’abbondante e sana
somiglianza, affinché se ne sazi”.
Ora non credo che tutto ciò succedesse a Velàzquez mentre dipingeva l’Innoenzo X, ma
sicuramente il confronto con li modello è sempre stato un’impresa.
In Svizzera, Riki Sprungli, della dinastia dei cioccolatieri, posò otto ore di seguito senza muovere
ciglio, perché il ritratto doveva essere finito in una sola seduta.
A Todi un ritratto di una nobildonna romana, andò avanti per giorni, senza che la modella
stesse più di cinque minuti in posa di continuo; con idraulici che arrivavano a chiedere consigli
sulle rubinetterie, cani che abbaiavano alla padrona, panini con il salame che andavano e
venivano, per non parlare dei maledettissimi telefoni.
Ma il ritratto che mi lasciò più interdetto, fu quello a U.G. Krishnamurti. Fu di pietra per
quattro ore abbondanti e quando alla fine, gli chiesi se era stanco dopo tutte quelle ore seduto
su un panchetto di legno, mi rispose: “Sono stato mesi seduto per terra in una caverna, come
potrei essere stanco dopo quattro ore?”
Ma c’è un tipo di ritratto molto diverso. È quando senti il bisogno di farlo, perché ti piace
infinitamente, perché lo ami, lo hai appena visto e già lo ami… Sapresti cosa fare. Segui i solchi
delle rughe, come se fossero cose tue, guardi negli occhi acquosi e già lo hai dipinto senza
toccare i pennelli. E quelli estremi sono i più belli da eseguire.
Il ritratto del pittore Francesetti alla fine dei suoi giorni, quello di mia nonna sul letto di morte,
quello del vecchio Stellini consumato dalla vecchiaia; o quelli alle persone disturbate o toccate
dalla grazia nel loro stato di eterni bambini. Ed anche qui torniamo al concetto di libertà; a
questo alla fine aspira l’uomo. Libertà, la liberazione dalle costrizioni.
Gainsborough, il pittore inglese, scriveva a Reynolds, che era stanco di ritratti e che l’unica cosa
che desiderava, era perdersi in campagna, nei piccoli villaggi e dipingere la dolce atmosfera.
Questo libro non è stato scritto per fare lezioni di pittura, ma qualcosa rispetto alla tecnica
bisogna pur dirla.
Credo che tutta la tiritera sui manualetti di pittura dei piccoli e grandi pittori, sulla
composizione chimica dei colori, che dura una buona parte del libro, sia oggi ormai
completamente inutile.
Certo cose fondamentali, come non mischiare il bitume come se fosse un colore normale, ma
usarlo solo liquido per fare le ombre, come veniva fatto anticamente, bisogna dirle. Sapete che il
cinabro non esiste più in commercio? È fuorilegge con mille scuse (le cave esaurite?).
Il colore più bello e importante dopo l’ocra gialla, che come diceva Delacroix, è il pane dei
pittori “Quando non sai cosa mettere, usa l’ocra gialla”, è stato tolto dalla circolazione perché
tossico. Se ne sono accorti ora, dopo che Rubens ci ha dipinto i più bei incarnati, la pittura del
settecento inglese, è stata divorata dai cinabri e i cinesi ne hanno fatto un culto da sempre.
Il meraviglioso cinabro puro, è stato sostituito con rossi slavati che lo imitano.
Ci sono stati pittori, nel ritorno alla pittura degli ultimi anni, come si diceva in un altro capitolo
di questo libro, che si sono dedicati anima e corpo a carpire i segreti dei medium da usare per
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
sciogliere i colori, le vernici più arcaiche per finirli, addirittura tornavano a pestare i colori come
se fosse un’operazione magica, quando l’industria ci offre colori ottimi, basta pagarli un occhio
della testa.
Dicevo, pittori si sono dedicati a questo, senza capire un’acca di ciò che dipingevano.
Quando sentii parlare per la prima volta dal mio maestro, di disegno, tono, colore, dei valori,
impiegai mesi a capire ciò che voleva dire, e quando ci capii qualcosa, mi accorsi che molti artisti
dipingevano solo da orecchianti. Ma questo è già stato detto.
Ho accennato ai valori che sono il fondamento della pittura. Prima il disegno, poi in quel
disegno nudo, metteremo il chiaroscuro, cioè i valori come li chiamava Corot, e in ultimo, in
quei valori, andrà il colore, che sarà ciò che personalizzerà il dipinto.
Ogni pittore vede i colori diversamente. È un fatto personale.
Dice Corot rispetto all’argomento: “Cerco sempre di vedere subito tutto l’effetto; faccio come
un bambino che gonfia una bolla di sapone; essa è piccolissima, ma è già sferica; poi egli gonfia
dolcemente finché teme di vederla scoppiare.
Così io lavoro contemporaneamente a tutte le parti del mio dipinto e perfeziono tutto
dolcemente, finché non raggiungo l’effetto completo.
Comincio sempre dalle ombre, ed è logico; perché essendo quello che vi colpisce di più, è quello
che dovete rendere per primo.”
“Ciò che si deve vedere nella pittura, o piuttosto quello che io cerco, è la forma, l’insieme, il
valore dei toni. Il colore per me viene dopo.”
“È come una persona che si riceve. Se è semplice, onesta e senza peccati, la si riceverà senza
timore, anzi con piacere. Se ha un cattivo carattere la sua onestà la renderà passabile. Se ha un
buon carattere, sarà un’attrattiva di più di cui si approfitterà, ma non è qui il punto essenziale.
Ecco perché il colore per me viene in seguito, perché a me piace prima di tutto l’insieme,
l’armonia dei toni, mentre il colore qualche volta mi urta, cosa che non mi va.
È forse l’eccesso di questi principi che fa dire che io ho di frequente dei toni plumbei.” “In un
quadro vi è sempre un punto luminoso, che deve essere unico. Potete metterlo dove volete, in
una nube nel riflesso dell’acqua, in un cappello, ma non vi deve essere che un solo tono di
questo valore.”
Come si evince dalle parole di Corot, il suo era un colore personale.
M non tutti la sentiamo così.
Torniamo a Delacroix e ascoltiamo cosa ne pensa: “Venerdì 13 novembre 1857.
È difficile dire quali colori adoperassero Tiziano e Rubens per dipingere quei toni carnei così
splendenti, rimasti tali, e in particolare quelle mezzetinte, in cui nonostante il grigio che
comporta ogni mezzatinta la trasparenza del sangue si fa sentire sotto la pelle.
Per conto mio sono convinto che per ottenerli, essi mescolassero i colori più splendenti.
Poiché la tradizione si è interrotta con David, il quale con la sua scuola, ha introdotto altre
maniere, è diventata regola che la sobrietà sia uno degli elementi del bello. Mi spiego: dopo le
licenze del disegno e le intempestive fastosità coloristiche, che hanno portato le scuole della
decadenza, a offendere in ogni senso la verità e il gusto, fu necessario tornare alla semplicità in
tutti gli elementi dell’arte.
Il disegno è stato ritemprato alla fonte dell’antico; e per conseguenza una via nuovissima s’è
aperta ad un sentimento nobile e verace.
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Il Pittore Volante
Il colore ha partecipato alla riforma; ma questa riforma è stata imprudente, nel senso che s’è
creduto che esso sarebbe sempre rimasto un colore attenuato e ricondotto, secondo quel che
credevano, ad una semplicità che non esiste nel vero.
In David (nelle Sabine, ad esempio, che sono il prototipo della sua riforma), c’è un colore
relativamente giusto: soltanto i toni che Rubens ottiene con colori freschi e virtuali come dei
verdi vivaci, egli oltremare, ecc, David e la sua scuola credono di ritrovarli con il nero e il bianco
per fare il blu, il nero e il giallo per fare il verde, dell’ocra rossa e del nero per fare il violetto, e
così via. E impiegarono anche colori terrosi, come terre d’ombra o di Cassel ecc…
Figura 30 - David - Le Sabine interrompono il combattimento tra Romani e Sabini - Parigi Louvre
Ognuno di questi verdi, di questi blu relativi giocano una tale gamma attenuata, specie quando
il quadro è posto in luce viva che, penetrando nelle loro molecole, dà loro lo splendore di cui
sono suscettibili; ma se il quadro è posto in ombra o sfuggente sotto la luce, la terra ridiventa
terra e i toni, per così dire, non “giocano più”.
Se specie lo si mette davanti ad un quadro colorito come quelli di Tiziano e di Rubens, esso
sembra ciò che è effettivamente: terroso, scuro e senza vita.
“Tu sei terra e terra ridiventi”.
Così, Delacroix rispetto al suo sentire il colore.
Come si vede chiaramente ogni pittore interpreta il colore a suo modo e questa è stata una
costante nei secoli.
Ci sono sempre stati pittori coloristi e pittori più interessati al tono chiaroscurale, ma mai come
all’epoca di Delacroix, la polemica infuriò di più.
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Il Pittore Volante
Ingres e Delacroix non si potevano sopportare. L’uno fautore del disegno e purista, l’altro tutta
passione e colore.
Ma c’è ancora una distinzione da fare, “colorista” non vuol dire “colorato”. Ci sono pittori
colorati come Monet o Van Gogh e pittori coloristi nati come Mancini, Tiziano o Rubens.
Cioè in toni anche giocati in registri bassi o bassissimi, il colore risulta sempre saturo e mai
grigiastro, sia nelle ombre che nelle luci.
A difesa della tesi di David, c’è da dire però, che con una tavolozza così sobria, l’intonazione sarà
quasi sempre perfetta, poiché si mischiano sempre quei quattro o cinque colori terrosi, cosa che
sarà più difficile usando una tavolozza composita di decine di colori come quella di Delacroix.
Un pittore molto spesso è interessato al tocco, alla pennellata, alla materia. Il tocco è sempre un
po’ guascone, e quindi va usato in maniera giusta. Se è equilibrato salterà agli occhi che è stato
dato con passione, senza esagerare, al contrario chi lo fa per gigione ria o per fare il bravone, sarà
punito dalla sua stessa sfacciataggine.
Ci sono stati pittori che aborrivano il tocco, come Ingres, per parlare dell’ottocento per
esempio. La sua è una pittura liscia, senza scabrosità, la pennellata è leggera e ben stesa.
Al contrario quel diavolo di Boldini è tutto un funambolismo di fuochi pirotecnici applicati alla
pittura.
Pennellate che sembrano date a casaccio, ma che invece rivelano solo la grande maestria di
tocco.
Tornando al seicento, Frans Hals, era una maestro della pennellata ardita. I suoi dipinti, quei
ritratti magnifici sembrano fatti con facilità inarrivabile. Fratto, ma allo stesso tempo robusto, il
suo pennello ci consegna la verità dipinta da un mago.
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Il Pittore Volante
Figura 31 - "Malle babbe" - Berlino Staatliche Museen
Caravaggio, ch all’inizio aveva una pittura piuttosto stesa, pur utilizzando a volte supporti
scabrosi (come la sabbia mista alla mestica nella Buona ventura), alla fine del suo percorso
pittorico, quando in fuga sente arrivare il suo momento, usa un tocco rapido e sintetico.
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Il Pittore Volante
Figura 32 - Caravaggio - La buona ventura - Parigi Louvre
Una luce, un’ombra, e la mezzatinta di fondo, sono sufficienti per eseguire
La negazione di Pietro, Il martirio di Sant’Orsola, La resurrezione di Lazzaro a Messina, e
soprattutto Il seppellimento di Santa Lucia a Siracusa.
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Figura 33 - Caravaggio - Il martirio di Sant'Orsola
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Figura 34 - Caravaggio - Il seppellimento di Santa Lucia - Siracusa Chiesa di Santa Lucia
Quadri enormi che vengono eseguito in poche settimane.
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Il tocco secondo Liotard, grande pastellista ginevrino dal trattato dei principi e delle regole
della pittura del 1781: “Il tocco è una pennellata di colore, chiaro o scuro, applicata sull’uno e
sull’altro dei due colori; sul primo si mette più chiara; sull’altro si mette più scura; ma più i
tocchi sono evidenti, più risultano duri, e più portano ad una bruttezza, che colpisce l’occhio
acuto di chi, penetrato dalle vere bellezze della natura, vuole ritrovarle nelle copie che gli
presenta l’artista; questa bruttezza dispiace anche a coloro che non hanno nessuna infarinatura
d’arte. I tocchi dunque, sono il procedimento più brutto e più lontano dalla natura, devono
non dirò il loro credito (poiché i grandi artisti non li hanno mai adottati), ma quella sorta di
tolleranza che si è loro concessa, all’idea che hanno quasi tutti i pittori europei, che
conferiscono alla pittura forza, vigore, risalto e vita. Cerchiamo di distruggere questi falsi e
pericolosi pregiudizi. Come vorreste rendere la compattezza di una bella pelle, la levigatezza, la
trasparenza dei corpi, il colore dei fiori, la lanugine, il vellutato dei frutti, tutte quelle parti
delicate, fini e leggere della natura, quegli innumerevoli e affascinanti particolari, infine che, se
ben resi, imitano la natura, e fanno della pittura la sua felice rivale?
Con i tocchi forse? Convenite in buona fede sulla loro impotenza e dite con me che sono un
modo di dipingere brutto e grossolano…”
“I pittori che hanno dipinto con molti tocchi hanno sempre della bruttezza, della rudezza, della
grossolanità, nonostante il merito delle loro opere.
Rembrandt, nei pochi ritratti finiti e senza tocchi, è infinitamente più gradevole ce nei ritratti
dove sono più numerosi. Finite quanto più potete…”
Molte volte si usa dire che alcuni pittori, hanno anticipato l’impressionismo di secoli. È vero!!
Guardiamo Velàzquez e le sue “filanderas”.
La mano della giovane di spalle che fila la lana, è di un azzardo impressionistico stupefacente; il
gatto sornione, che impassibile dà il tocco di quotidianità alla scena, è inarrivabile per qualità e
pennellata.
Tutto il dipinto vive in un vortice di pennellate impressioniste, da vicino, che miracolosamente,
vista de lontano si ricompattano
Per quanto riguarda la materia, e stiamo esaminando la grande pittura, e non le tele
bruciacchiate di Burri, il primato del parossismo materico, lo dobbiamo proprio dare a Mancini.
Nel suo delirio sulla materia, il pittore usa montagne di colore, che diventano sulla tela vista a
luce radente, come carte geografiche in rilievo, come ci dice Vittorio Pica: “Se mi si chiedesse di
definire il glorioso pittore romano in forma efficacemente sintetica, credo che risponderei:
“Antonio Mancini è un occhio”.
Quest’occhio, però, devesi subito soggiungere, possiede una retina eccezionale, di un acume, di
una sottigliezza, di una raffinatezza di sensazioni, assai diverse da quelle che riscontransi nella
comune dei mortali e per essa, quindi, tutti gli svariati aspetti della natura, tutte le sembianze
delle persone e delle cose, nei rilievi e nei rapporti di colore, gli appaiono intensificati e
magnificati.
Ed è appunto questa sua trasfigurata ed esaltata visione che egli si propone di trasmettere agli
altri mercé l’instancabile febbrile e sapiente sforzo della sua tavolozza, e di suoi pennelli, e tenda
tutti i mezzi per riuscirvi.
Ciò dà ragione e anche di strano presenta la sua particolarissima tecnica: grossi bioccoli di pasta
colorata che fanno rilievo e danno partiti di ombra, pezzettini di vetro, di madreperla, di metallo
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Il Pittore Volante
incrostati in essa per ottenere speciali riflessi luminosi; doppio largo reticolato posto
contemporaneamente sulla tela e dinanzi al modello per limitare volta a volta, il proprio lavoro
ad un dato rettangolo di realtà e di tela…”
Quindi Mancini anticipatore, anche se involontariamente, di tutte le sperimentazioni sui
materiali che il novecento ci ha dato, da Fontana a Burri.
Mancini, d’accordo esagerava, ma non era certamente sbagliata la sua intuizione portata al
parossismo; sapeva benissimo che tutta la Grande Pittura, aveva per così dire, codificato il fatto
che le ombre di un dipinto saranno leggere (e da qui l’utilizzazione del bitume, che ha la
proprietà di essere liquido, caldo e profondo allo stesso tempo), ma le parti in luce, più avranno
corpo di pennellata materica e più la luce stessa esploderà colpendole, creando su quella
corposità di colore, micro ombre, che la faranno preziosa.
Questi vantaggi non potranno averli altre due tecniche opposte: l’acquarello ed il pastello, che
useranno la luce a loro favore in altri modi.
Per sua natura il pastello è la tecnica più luminosa e resistente nel tempo.
Infatti i pigmenti finissimi aggrappati alla carta, non essendo mediati da nessun glutine o olio o
gomma, durerebbero come sono durati in alcuni esempi, per secoli, se non fosse la sua
debolezza proprio nel dovere essere difeso dal vetro della cornice, dagli agenti traumatici esterni.
Estremamente fine e delicato, il pastello può essere paragonato al velluto.
Disegni a pastello eseguiti su di una nuvola, sono i ritratti di Rosalba Carriera, del Lomazzo, di
Liotard.
M a è proprio con Liotard, che il pastello ha una brusca sterzata verso “l’altro”. In questo strano
pittore, che va in giro al suo ritorno da Costantinopoli, come ci riferisce da Londra Horace
Walpole il 4 marzo 1753: “È arrivato Liotard, il pittore… Liotard è ginevrino, ma poiché è stato
a Costantinopoli, porta un costume turco e una barba che gli arriva alla cintura.
Tutto ciò unito ai prezzi stravaganti, più alti di quelli che chiedeva a Parigi, gli procurano tutto il
denaro che desidera, perché è avido al di là di ogni immaginazione.
I suoi disegni a lapis e gli acquarelli, sono molto belli, lo smalto è duro, lui stesso è troppo
olandese e non apprezza niente più che un eccesso di compiutezza e ritocco”.
In questo strano pittore dicevo, c’è una dimensione che il pastello non aveva mai raggiunto. “Lo
smalto è duro” dice Walpole ingenuamente, non sapendo dare una definizione esatta di quella
strana, granitica, allucinata atmosfera che regna nel quadro, quasi sempre un ritratto.
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Figura 35 - Liotard - Ritratto di donna – Berna Aarau Kunsthaus
Il ritratto di donna alla Kunsthaus di Aarau a Berna, vive in una dimensione allucinata, che si
avvicina a certe atmosfere del regista Stanley Kubrick.
Sono ritratti terrificanti, somigliantissimi, scolpiti e terrificanti.
Se pensiamo che sono fatti poi con una tecnica, che prevede la leggiadria come fondamento, il
tutto è quanto mai eccentrico.
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5000 km per vedere un orecchio - Parte 1
Il Pittore Volante
Liotard era un artista superiore e la sua realtà superava di gran lunga, ciò che vedeva nel
soggetto.
A.Bory nella “Peinture suisse de 1600 à 1900“ dice di Liotard :
« Tale modo di concepire la pittura che presuppone un annullamento totale della personalità
dell’artista, che ricorre alle astuzie del mestiere soltanto per non giocare d’astuzia con le cose, e
in virtù del quale non si fa distinzione fra il vero di natura e la verità dell’arte, ha di volta in
volta, favorito e danneggiato Liotard. Hai suoi giorni cattivi in cui la purezza dell’espressione
diventa secchezza, la semplicità povertà, e l’uomo che si vanta di trarre in inganno il prossimo,
con il realismo della frutta, non ha ahimè lo stesso successo nei ritratti.
Ma accade anche che il suo ingenuo rispetto della realtà, il perfetto nitore dell’esecuzione,
assumono un valore così grande, da diventare addirittura uno stile. E la sua estetica non
pretendeva di giungere a tanto, e ci dà non so quale sensazione di assoluto.
Le sue opere migliori rivelano un pittore che sfugge alle contingenze del suo secolo e occupa un
posto fuori dal tempo».
Per accennare all’acquarello, vorrei introdurre un pittore da noi poco conosciuto ed apprezzato
nonostante la sua grandezza: Richard Parkes Bonington.
Bonington fu uno dei prototipi del romanticismo inglese.
Giovane, bellissimo, di un talento straordinario sin dall’adolescenza, morì a 26 anni lasciando
sulla sua scia, capolavori.
Figura 36 - Richard Parkes Bonington – Sulla costa d’Opale - Collezione privata
Gli acquarelli di Bonington hanno la sua forza dei suoi quadri a olio, e gli oli sono come i suoi
acquarelli migliori.
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Fu un grande amico di Delacroix: giovani e passionali, il loro sodalizio artistico durò fino alla
morte di Bonington.
Lavorarono insieme, ed insieme divisero lo studio a Parigi.
Una lettera che Delacroix scrive nel 1861 già anziano a Thèophile Thoré il 30 novembre
ricordando il suo giovane amico, spiega meglio di ogni altra parola a vita di un grande artista ed
il suo lavoro. “Caro amico, soltanto in ritardo e in campagna ricevo la lettera con la quale mi
chiedete particolari su Bonington: vi mando con piacere le poche informazioni che possiedo.
L’ho conosciuto molto bene, e l’ho amato molto.
La sua imperturbabile flemma britannica non gli toglieva nessuna delle qualità che rendono
piacevole la vita.
Quando mi avvenne di incontrarlo per la prima volta, ero anch’io giovanissimo e facevo degli
studi nella galleria del Louvre. Era verso il 1816 o il 1817.
Vedevo un grande adolescente (all’epoca Bonington aveva 14 anni n.d.r.) in giacca corta, che
faceva anche lui, e in silenzio degli studi all’acquarello, di solito dei paesaggi fiamminghi.
Figura 37 - Richard Parkes Bonington - La Costa Picarde vicino a De Saint Valery sul somme - Hull City
Museums Ferens Galleries
In questo genere che allora era una novità inglese, era già di un’abilità sorprendente.
Poco dopo da Schroth, che aveva appena aperto una bottega di disegni, e di quadretti (la prima
credo), vidi gli acquerelli incantevoli per colore e per composizione. C’era già tutto il sapore che
costituisce il suo tipico pregio.
A mio parere in altri artisti moderni si possono trovare qualità di forza e di esattezza nella resa
superiori a quelle di Bonington, ma nella scuola moderna, e forse anche prima di lui, nessuno ha
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posseduto quella leggerezza di esecuzione, la quale soprattutto nell’acquerello, fa delle sue opere
delle specie di diamanti, opere che, indipendentemente dal soggetto e dall’imitazione del vero,
piacciono all’occhio e lo rapiscono.
In quel tempo (verso il 1820, egli stava da Gros, dove non credo rimanesse a lungo; lo stesso
Gros gli consigliò di abbandonarsi completamente al suo talento, che egli di già ammirava.
Allora non dipingeva quadri ad olio, e i primi che fece furono delle marine, riconoscibili per il
grande impasto.
Poi egli rinunziò a questo eccesso, specie quando si mise a dipingere soggetti nei quali il
costume aveva gran parte: fu verso il 1824 o il 1825.
Ci rincontrammo nel 1825, in Inghilterra e facemmo assieme degli studi da un celebre
antiquario inglese, il dottor Meyrick, che possedeva la più bella collezione di armi che sia forse
mai esistita.
Durante questo viaggio facemmo molta lega e quando fummo di ritorno a Parigi, lavorammo
insieme per qualche tempo nel mio studio.
Non potevo stancarmi d’ammirare la sua meravigliosa conoscenza dell’effetto e la facilità della
sua esecuzione; non che egli si contentasse presto.
Spesso invece rifaceva dei pezzi completamente finiti che ci sembravano meravigliosi; ma tale era
la sua abilità, che ritrovava subito nuovi effetti incantevoli come i primi.
Sfruttava ogni sorta di particolari trovati nei maestri e li innestava son grande abilità nelle sue
composizioni. In esse si vedono delle figure prese quasi interamente da quadri che tutti avevano
sotto gli occhi; egli non se ne preoccupava affatto.
Tale abitudine non toglie nulla al pregio delle sue opere; i particolari di cui si appropriava (si
tratta soprattutto di costumi), presi dal vivo, direi quasi accrescevano l’apparenza di verità dei
suoi personaggi, e non avevano mai il sapore di un “pastiche”.
Verso la fine di questa vita spentasi così presto, sembrava in preda, alla tristezza, specie a causa
dell’ambizione di far quadri di grandi dimensioni.
Ch’io sappia, non fece tuttavia nessun tentativo per aumentare notevolmente le dimensioni dei
suoi dipinti; però quelli in cui le figure sono più grandi, datano di questo periodo, specie l’Enrico
III, esposto l’anno passato sul boulevard, che è uno degli ultimi.
Si chiamava Riccardo Parkes Bonington. Tutti gli volevamo bene.
Talvolta io gli dicevo: “Nel vostro campo voi siete un re; Raffaello non avrebbe fatto quello che
fate voi. Non preoccupatevi delle qualità degli altri, né delle proporzioni dei loro quadri, perché i
vostri sono capolavori.”
Tempo prima aveva fatto delle vedute di Parigi che non mi ricordo e che mi pare erano destinate
a degli editori: ne parlo soltanto per segnalare che il mezzo che aveva immaginato per far degli
studi dal vero senza essere disturbato dai passanti; si sistemava su un carrozzino e lì lavorava
tutto il tempo che voleva.
Morì nel 1828. Che opere squisite in una carriera così breve!
Seppi improvvisamente che era stato colto da una malattia di petto che prendeva una piega
pericolosa.
Era alto e in apparenza forte, sapemmo della sua morte con una sorpresa pari al dolore.
Era andato a morire in Inghilterra. Era nato a Nottingham.
Quando morì aveva soltanto venticinque o ventisei anni.
Nel 1837 un certo signor Brown di Bordeaux, vendette una magnifica collezione di acquarelli di
Bonington; non credo sia possibile trovar mai l’equivalente di quello splendido assieme.
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Ce ne erano di tutti i periodi, ma specie dell’ultimo tempo che è il migliore. Allora venivano
pagati somme enormi: da vivo egli vendeva tutte le sue opere, ma non le vide mai salire a quei
prezzi enormi che, per conto mio, trovo legittimi e corrispondenti al giusto apprezzamento
d’un ingegno così raro e così squisito.
Caro amico, m’avete dato occasione di ricordarmi momenti felici e d’onorare la memoria d’un
uomo che amavo e che ammiravo.
Ne sono tanto più lieto in quanto si è tentato di diminuirne l’importanza e in quanto, a mio
parere, egli è di molto superiore alla maggior parte di coloro che hanno cercato di anteporgli.
Fate la media tra le mie predilezioni e questi attacchi.
Se volete, attribuire ai miei vecchi ricordi e alla mia amicizia per Bonington la parzialità che si
potrebbe essere tentati di trovare in questi appunti.
Mille sincere cordialità da un vecchio compagno molto riconoscente. Eug. Delacroix.”
Il mistero del genio precoce e precocemente scomparso, ci commuove.
Credo che il giovinetto che compie prodigi in arte, abbia una ragione.
Il talento enorme che nicchia in lui, può esplodere solo se gli saranno date alcune indicazioni,
anche pochissime, da parte della figura di un maestro, che può essere anche un artista mediocre.
Ci vuole l’indicazione, perché esploda e fiorisca il giovane genio; poi per lui sarà tutto facile.
Non esiste il genio assoluto che nasce già con la conoscenza compiuta.
Ci vuole ciò che aveva Ramakrishna: “il tocco del maestro”. Il grande saggio, sapeva con un
tocco, del piede, o delle mani, risvegliare nell’adepto, la potenzialità che era in lui sopita.
Così la figura del maestro, in arte, è fondamentale anche per il genio.
Lo stesso Mancini a 16 anni lavorava, in un lurido suppegno (una soffitta) frequentato dalle
lavandaie e dalle meretrici della Napoli più povera e popolare, al suo Scugnizzo, o altrimenti
detto, Fremiti di desiderio.
La sua prova così matura, così incredibilmente in odore di capolavoro a soli sedici anni, con quei
toni bassi, tipici delle opere del seicento, che andava a vedere e studiare nei bui antri delle chiese
napoletane, è spiegabile solo con i due anni che aveva già frequentato all’Accademia delle Belle
Arti di Napoli, sotto la guida di Domenico Morelli, che ebbe a esclamare invitato nella soffitta a
vedere il capolavoro: “A chistu guaglione non gli aggio più gnente a ‘mparà”.
E Gemito, che modellava quei suoi amici mocciosi che posavano per lui, aveva solo quindici
anni, quando fece Il giocatore, ma già da due, si infilava a forza nello studio di Stanislao Lista, lo
scultore napoletano che, commosso dal suo talento, lo faceva disegnare per ore nel’atelier, alla
luce del lucernario, con una patina di gesso e polvere che impalpabile, imbiancava le cose e gli
uomini.
Conclusione
Abbiamo parlato in questo viaggio, dell’amore che si può portare alla Grande Pittura.
A ruota libera, senza un canovaccio preciso, ci siamo inoltrati nel suo mistero, così tanto per
parlarne, perché il solo parlare delle meraviglie che ci ha dato nei secoli, ci fa star bene, ci
riconcilia con l’umanità.
Per sottrazione, parlando della pittura, e facendo parlare i suoi protagonisti, ci siamo resi conto,
spero, di quanto ci manchi e quanto ci manchino i nuovi capolavori, che il novecento ci ha
centellinato.
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L’augurio è che i giovani interessati, presi di nuovo per mano, si avvicinino a questa avventura
che ha così tanto elevato l’umanità.
Non è troppo tardi! I talenti esistono ancora, l’espressione compiuta è ancora un bisogno, anzi
mai come oggi, forse.
Piccoli contributi possono essere determinanti, e voci consapevoli si devono levare per far cadere
l’ipocrisia delle mistificazioni.
Vorrei concludere, chiamando ancora come testimone Jean Claire, che così conclude il suo ed il
mio libro: “Da Critica della modernità. All’inizio del secolo Karl Kraus, aveva definito Vienna
come il laboratorio di un’apocalisse, Experiment Weltuntergang. (Cfr. C.Schorske, Fin De Siècle
Vienna, Politics and Culture, New Yorl, 1981).
L’effervescenza culturale, infatti, che invase allora il cuore dell’impero, nel centro geografico
dell’Europa, era un presagio a distanza di ciò che il mondo occidentale avrebbe in seguito, e su
vasta scala, sentito, saputo e pensato.
Luogo privilegiato in cui, da Gustav Klimt a Wittgenstein, e da Freud a Adolf Loos, si delineano
i tratti di una modernità utopica, ma dove si opera allo stesso tempo, la critica più violenta,
spesso premonitrice e disperata dei quella modernità.
Se fra il 1905 e il 1918, Vienna è il centro di una rinascita senza pari, questa rinascita,
contrariamente al Rinascimento o all’Aufklärung, non si situa più nell’ottica ottimistica dei
lumi: fonda la modernità, ma autoriflessiva, la fonda in quanto critica strumentale di sé stessa.
Popolato di uomini “senza qualità”, ma alla ricerca delle sensazioni più rare, lucido e
crepuscolare, acerbo e angosciato, cosmopolita e teatrale, il mondo intellettuale viennese,
eseguiva le prove generali di quanto si recita oggi in Occidente.
È a Vienna, in questo impero del Centro, che Schönberg, attingendo alle fonti della tradizione
classica viennese, fa rinascere il linguaggio musicale.
È a Vienna che Adolf Loos, vantando “l’insuperabile misura della tradizione di prima del
tradimento”, crea uno stile che fa di lui l’autentico erede del Palladio e di Schinkel.
Ed è ancora a Vienna che Egon Schiele, in prigione per immoralità, scrive nel suo diario il 22
aprile 1912, che l’arte, come la divinità: “che la si chiami Buddha, Zoroastro, Osiris, Zeus o
Cristo”, è eterna nel suo principio e non ubbidisce al tempo.
Lo stesso giorno dipinge un acquarello, rappresentando quello che vede nella sua cella: una sedia
raffigurata due volte e un secchio.
A quegli oggetti miserabili e fortuiti, egli dà una morfologia, una consistenza, un
atteggiamento, una presenza e infonde loro la propria vita come se non sopportasse che non
avessero senso.
In un angolo del disegno, scrive di nuovo quello che ha annotato nel diario:
“Kunst kann nicht modern sein. Kunst ist urewig”.
(L’Arte non può essere moderna. L’Arte ritorna eternamente all’origine).
FINE
Portoferraio, Isola d’Elba, inverno 2009.
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