H HH HHH FORUM H H Anno XX H HHH Il GAT aderisce a: GRUPPI ARCHEOLOGICI D’ITALIA FORUM EUROPEO DELLE ASSOCIAZIONI PER I BENI CULTURALI Riservato ai Soci - Edizioni GAT CENTRO NAZIONALE PER IL VOLONTARIATO PROTEZIONE CIVILE REGIONE PIEMONTE UNIONE VOLONTARI CULTURALI ASSOCIATI Numero 1 - Gennaio 2005 Agosto 2004 1° Campo di ricognizione archeologica Monti del Fiora (Sorano-Pitigliano-Manciano) Sommario Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Editoriale Periodico di Informazioni del Gruppo Archeologico Torinese Direttore Responsabile: Feliciano Della Mora • TAURASIA è un periodico distribuito gratuitamente ai Soci del Gruppo Archeologico Torinese; viene composto, impaginato e stampato interamente a cura dell’Associazione. Riassunto di un anno intenso II di copertina Campo archeologico “Monti del Fiora” 1 La Collezione Dianzani 7 Un parco archeologico a Torino 9 GAT - Convenzioni e accordi di collaborazione 10 I predatori del patrimonio culturale perduto 11 Archeologia a Torino - Piazza San Carlo 14 I Taurini invadono Pecetto 16 La Danza delle Spade 17 S.O.S. mura di Augusta Taurinorum 18 I rapidi scavi di Pariol 19 Archeocarta: Maometto in Val Susa 20 Il “Maometto” e l’Alta Velocità 21 I Longobardi a Collegno 22 Un pannello per Bric San Vito 23 I Liguri, gente da scoprire 24 Acquedotti romani in Piemonte 26 Ritorno al passato: Cropani 28 Un parco per le terramare 28 Programmi 2004 29 SCHEGGE Casa del Senato Un esempio di grave degrado ancora irrisolto… Hanno collaborato a questo numero: La responsabilità dei contenuti degli articoli è dei rispettivi autori. Valter Bonello Gianfranco Bongioanni Enrico Di Nola Fabrizio Diciotti Valentina Faudino Anna Ferrarese Marina Luongo Manuela Mazzon Gabriella Monzeglio Luca Nejrotti Alberto Perino Tiratura: 500 copie Chiuso in Redazione il 4 Febbraio 2005 Stampa: Tipolitografia Noire Torino - Febbraio 2005 Le attività del GAT si sviluppano ulteriormente grazie al costante contributo dei Soci Riassunto di un anno intenso C’è davvero di che essere soddisfatti: il 2004 è stato per il GAT un anno estremamente proficuo sotto il profilo dei programmi svolti e delle nuove iniziative intraprese. Pur riproponendo le iniziative già programmate negli anni passati, i soci GAT si sono mossi con generosità per venire incontro a nuove esigenze e per realizzare nuovi progetti. Tra le attività già consolidate negli anni abbiamo ritrovato il monitoraggio e la manutenzione del sito archeologico di Bric San Vito, le visite guidate nell’ambito della manifestazione “Torino e oltre”, le gite archeologiche (Museo di Alba, Casale, Trino, Abbazia di Lucedio, Genova…), la partecipazione ai periodici lavori della Consulta Comunale del Volontariato nella Protezione Civile, i collaudatissimi cicli di conferenze “Archeoinsieme” (10 lezioni, più 4 per “Archeomateria”) e “Serate d’Egitto” (6 lezioni). Tra le nuove attività sono da segnalarsi la collaborazione con l’Unitre di Torino, per la quale abbiamo predisposto e presentato un ciclo di 12 lezioni, e l’avvio del dialogo con il Centro Servizi per il Volontariato “Idea Solidale”, che si affianca così al nostro storico fornitore di servizi, il VSSP. Con la collaborazione fondamentale di “Idea Solidale” abbiamo potuto organizzare e gestire, con la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, il 1° campo estivo di ricerca archeologica “Monti del Fiora”, in merito al quale trovate un lungo articolo nelle prossime pagine. Taurasia stessa è “risorta” (seppure con uscita annuale, che ci piacerebbe divenisse più frequente) grazie al contributo di “Idea Solidale” (quest’anno, invece, Taurasia è “finanziata” dai soci stessi, ossia grazie alle loro quote d’iscrizione). La collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte si è consolidata grazie al progetto di ricognizione dell’area collinare, sostenuto dalla Provincia di Torino. Nel mese di ottobre si è svolta nel comune di Pecetto un’iniziativa (“Il Ferro degli Eroi”) che ha visto nuovamente l’appoggio della Soprintendenza e soprattutto la collaborazione con Terrataurina, elemento trainante dell’iniziativa stessa (cfr. pag. 16). L’informazione costante ai soci dei programmi è stata garantita dall’invio periodico via Internet del notiziario InfoGAT. In merito ad Internet, oltre ad aver provveduto all’aggiornamento del sito www.archeogat.it, i soci GAT hanno infine portato a termine la prima sessione di lavoro inerente il grande progetto Archeocarta (www.archeocarta.it - cfr. pag. 20), sostenuto dalla Regione Piemonte. Il 2004 ha visto l’avvio dei lavori per la realizzazione della mostra “Storia e Archeologia tra Torino e Collegno” (prevista per l’autunno 2005), per la quale abbiamo ottenuto il sostegno da parte del VSSP. Le attività per la realizzazione di questa esposizione, che vede come partner le associazioni Ad Quintum e Amici del Villaggio Leumann, sono in pieno fermento; tutti i soci sono invitati a partecipare alla stesura dei testi e alla realizzazione dei plastici previsti (primo fra tutti, una porzione di strada romana). Queste e altre iniziative appena sbocciate (una per tutte: la collaborazione con il Parco della Mandria per un progetto triennale di ricerca) non possono che rallegrarci! Non ci rimane dunque che augurarci: Ad maiora, ad meliora. Fabrizio Diciotti Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Campo “Monti del Fiora” Un primo bilancio dell’iniziativa congiunta GAT - Soprintendenza - Cesvol Ricognizione “a pettine” sui Pianetti di Sovana (Gr) L’ideazione del campo: aspetti progettuali e organizzativi dall’organizzazione di un campo archeologico (per quanto alcuni di noi avessero svolto mansioni tecniche, scientifiche e organizzative in svariati campi archeologici negli anni passati, ultimo in ordine di tempo quello di Cropani in Calabria) ma a ciò si aggiungeva la sfida di dover programmare quindici giorni di ricognizione (dunque non di scavo) su un territorio a noi pressochè sconosciuto e con l’incombente rischio di arrivare alla fine del campo senza che fosse stato rinvenuto neppure il proverbiale spillo… Paradossalmente, sarebbe stato decisamente più semplice prevedere un’attività di scavo intensivo (ma sicuro), piuttosto che una serie di prospezioni dall’esito incerto. Nonostante questa considerazione, il progetto è stato immediatamente avviato e si è provveduto a concordare le modalità di indagine con la dottoressa Barbieri e con il dottor Camilli; parallelamente ci siamo mossi per cercare collaborazioni economiche esterne in modo che il costo complessivo del campo gravasse al minimo possibile sulle spalle (anzi, sulle tasche) dei partecipanti, trovando fin da subito nel Cesvol “Idea Solidale” di Torino un partner ideale ed entusiasta. Il progetto “Campo di ricognizione archeologica dei Monti del Fiora” si è trasformato dunque in una collaborazione a tre GAT-Cesvol-Soprintendenza che ha datto frutti eccezionali: la disponbilità del Cesvol ha consentito di adottare la quotacampo più bassa in assoluto nel panorama delle attività dei G.A. d’Italia, la collaborazione della Soprintendenza (va qui rimarcata l’abnegazione personale della dott.ssa Barbieri) ha La progettazione di un campo di ricerca archeologica necessita di molteplici attività: ricerca documentaria, ricognizione dell’area, individuazione delle priorità tecniche e scientifiche, contatti con le autorità locali, ricerca di eventuali sponsor, pubblicizzazione dell’evento, gestione del campo, verifiche post-campo, operazioni didattiche e via discorrendo. Prima di giungere a tutto ciò, però, occorre che sorga la possibilità concreta di fare un campo archeologico, ovvero che si individui un’area sufficientemente interessante – sia per la scienza che per dei volontari in cerca di vacanze intelligenti – sulla quale poter intervenire con la supervisione e la benedizione della Soprintendenza competente. Occorre, per dirla più chiara, che a qualcuno venga in mente di proporre alla Soprintendenza un’attività archeologica “sostenibile”. Bisogna dire che in questo caso la dea bendata ha giocato ad occhi scoperti: non solo nessuno di noi volontari ha dovuto proporre alcunché alla Soprintendenza ma, al contrario, è stata quest’ultima a interpellarci per prima. Un caso abbastanza insolito ma che ha alcune ragioni d’essere. Anzitutto chiariamo che la Soprintendenza in oggetto è quella per i Beni Archeologici della Toscana, retta dal Soprintendente Angelo Bottini; qui lavora il valentissimo dottor Andrea Camilli formatosi, ancor prima degli studi universitari, alla scuola dei Gruppi Archeologici d’Italia, dove ha appreso come volontariato e archeologia possano convivere felicemente. Alcuni di noi hanno conosciuto personalmente il dottor Camilli proprio durante i campi estivi organizzati dai G.A. d’Italia, parecchi anni fa. Ecco che questa antica amicizia e la stima reciproca consolidatasi negli anni hanno trovato un inaspettato sbocco nella proposta congiuntamente realizzata dal dottor Camilli e dalla sua collega dell’ufficio di Siena, la dottoressa Gabriella Barbieri; quest’ultima, nel mese di gennaio 2004, ha contattato il GAT proponendo una collaborazione per la prospezione archeologica di una vasta area compresa tra i Comuni di Sorano, Pitigliano e Manciano. La piacevole sorpresa ha generato una scossa di entusiasmo nei soci del GAT che, comprendendo l’eccezionalità del caso, hanno immediatamente colto al volo l’occasione e accettato la proposta. L’impegno si presenta subito piuttosto complesso: n o n s o l t a n t o i l G AT e r a s o s t a n z i a l m e n t e d i g i u n o 1 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 permesso di espletare con relativa sveltezza le pratiche burocratiche che sono sfociate nella firma di una Convenzione e, infine, la partecipazione entusiasta di molti soci GAT ha suggellato il successo del campo, consentendo il recupero di informazioni scientifiche preziose e contribuendo non poco a cementare i rapporti di amicizia. Va rimarcata infine la collaborazione indispensabile fornita dal Comune di Sorano e dall’Istituto Comprensivo Statale “M. Vanni” (che hanno concesso l’uso dei locali della scuola). Tutto si è svolto nel rispetto delle regole del volontariato archeologico: trasparenza nella collaborazione con le autorità, acceso interesse culturale e volontà di divertirsi in modo sano. c’era ancora molto da fare, verso il sito della nostra ricerca. A onore dell’organizzazione si può dire che sia stata progettata nel modo più elastico possibile, in modo da poter essere migliorata in corso d’opera. Infatti, non è così semplice concertare in modo scientifico una ricerca in un territorio inesplorato tenendo conto del fattore fondamentale del divertimento. I Campi di volontariato sono la fusione di attività scientifica e vacanza ed entrambi gli elementi giocano un ruolo fondamentale nella riuscita dell’attività. Quindi il lavoro va calibrato in modo da non assorbire la totalità delle energie dei partecipanti. A titolo d’esempio si può considerare la strutturazione della giornata lavorativa: all’inizio venne progettata di otto ore al giorno per tre giorni con poi una pausa di una giornata. Dopo una settimana che ci si trovava boccheggianti alle quattro del pomeriggio, prossimi alla disidratazione, ossessionati da miraggi di acque fresche e d’ombra, si è deciso di concentrare l’attività nella mattinata, anticipando la sveglia, in modo da poter rientrare alla base nelle ore più calde. Paradossalmente, la riduzione dell’orario lavorativo ha reso molto più fruttuosa e approfondita l’indagine. Il vantaggio dell’impiego di volontari nelle attività di ricognizione dovrebbe essere quello di aggirare la diffusa diffidenza che la popolazione locale (specialmente toscana e laziale) ha maturato negli anni verso le istituzioni preposte alla tutela del patrimonio archeologico. Se pure questo è vero, mentiremmo se dicessimo di avere ottenuto una piena collaborazione da parte degli abitanti del posto. A posteriori, è divertente ricordare le resistenze che abbiamo dovuto vincere e le indagini quasi poliziesche che abbiamo svolto per rintracciare le strutture di una villa romana conosciuta da tutti, ma che “nessuno aveva mai visto”! Questo primo anno ci è anche servito a conoscere le persone con cui dovremo in futuro relazionarci per creare un clima di collaborazione, impararne il linguaggio ed affinare una diplomazia necessaria a far sì che costoro non si sentano minacciati dalla nostra attività. La villa romana che infine abbiamo individuato era protetta da un muro di omertà che difficilmente avremmo potuto abbattere con un approccio diretto. E’ stato invece un paziente lavorio di confronto degli indizi, delle mezze ammissioni, dei “qui lo dico e qui lo nego” dei nostri “testimoni” che ci ha portati al rinvenimento. Oltre che, ovviamente, all’istinto della nostra responsabile di ricognizione ed all’entusiasmo e testardaggine di tutti Fabrizio Diciotti Una questione di metodo... Superati i primi entusiasmi occorreva far fronte alle prime difficoltà. Infatti il GAT ha una discreta esperienza in fatto di ricognizione archeologica – il nostro settore ricerca ne sa qualcosa di lunghe scampagnate su e giù per i colli della collina torinese tra boschi, sterpaglie e campi – ma in questo caso si trattava di qualcosa di ben diverso. Fondare un intero campo estivo sull’attività di ricognizione è una sfida finora mai affrontata dai Gruppi Archeologici e quindi, non avendo esempi illustri a cui appoggiarci, abbiamo dovuto improvvisare. Innanzi tutto avremmo dovuto perlustrare un territorio molto vasto e per noi sostanzialmente nuovo. Una profonda conoscenza dell’area da indagarsi è fattore determinante per la buona riuscita di un campo di ricognizione, quindi è stato necessario effettuare alcuni sopralluoghi preventivi nell’area per renderci conto del tipo di orografia e vegetazione presenti. Ci siamo inoltre documentati sulla cartografia esistente, fornitaci – per fortuna, visti i costi di un buon supporto cartografico – dalla Soprintendenza stessa, e sulla fotografia aerea dell’area. Infine, ancor prima di partire, occorreva crearsi una rete di contatti presso le Istituzioni locali, che ci fornisse un appoggio in loco. La Direzione del Gruppo, quindi, si è vista impegnata in fitti colloqui telefonici con gli uffici tecnici del comune di Sorano e con i Carabinieri; ciò affinché, una volta giunti sul posto, non venissimo considerati perfetti estranei un po’ eccentrici che si aggiravano con loschi fini per le campagne circostanti. Conclusasi la fase preliminare in modo a parer nostro soddisfacente, siamo partiti, entusiasti e incoscienti che Luca localizza il sito utilizzando il GPS. 2 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 i partecipanti che hanno deciso di approfondire l’indagine di una struttura che a prima vista appariva addirittura postmedievale! Il territorio soranese, per chi non lo conoscesse, è quanto di più complesso si possa immaginare dal punto di vista orografico. Nei secoli i torrenti hanno inciso profondamente il bassopiano tufaceo creando crepacci e strette vallate e fornendoci un variegato campionario di dislivelli, un po’ come affrontare una ricognizione montana. Nella stessa giornata, quindi ci si trovava a fronteggiare campi e boschi sostanzialmente pianeggianti, forre scoscese in cui nella migliore delle ipotesi si poteva procedere solo in fila indiana, ripe più o meno pendenti lungo le quali non si poteva sfruttare l’intero potenziale dei venti ricognitori impegnati. In più, la vegetazione e i dislivelli rendevano inefficace la valutazione generale dall’alto o l’avvistamento da lontano e richiedevano la presenza del ricognitore sul posto prima di poter dire “qui c’è qualcosa” o “l’area è sterile”, o espressioni più colorite. La soluzione, che può apparire lapalissiana, ma che finora non era mai stata applicata, è stato lo scorporo in più squadre di ricerca, ognuna col proprio responsabile. Questo metodo ha permesso di effettuare profonde ricognizioni anche in quelle aree meno facilmente accessibili mentre il grosso dei partecipanti batteva le zone più aperte. Anche le diverse tipologie di rinvenimenti ha richiesto degli adattamenti di metodo. Accanto al classico pettine applicato per i campi di più facile lettura e così efficace nella valutazione degli affioramenti di materiale, sono stati effettuati anche sopralluoghi mirati ad individuare singole emergenze strutturali come le tagliate etrusche e le aree sepolcrali. Altre volte era il singolo stesso ad addentrarsi nella boscaglia per valutare il potenziale di una determinata area prima di richiedere l’intervento di squadre più cospicue. Infine, accanto alla ricognizione tradizionale, è stato possibile effettuare attività di ripulitura e valutazione di strutture obliterate dalla vegetazione. Ormai è entrato nella mitologia del GAT il rinvenimento delle murature della villa romana e la conseguente ripulitura della stessa dalla pervicace vegetazione infestante che se pure l’ha protetta finora occultandola, ne ha anche minata la conservazione. L’entusiasmo e l’abnegazione dei partecipanti hanno anche permesso in un caso di effettuare una ripulitura approfondita di un campo ricoperto di stoppie dove era stato individuato Il muro Sud della villa romana rintracciata nel corso delle ricognizioni. un affioramento importante di materiale romano. Tutto questo per sottolineare il fatto che il punto di forza del campo è stato sicuramente l’elasticità con cui si è passati da un metodo d’indagine all’altro a seconda delle caratteristiche di siti da indagarsi. Un altro cavallo di battaglia del campo è stata l’attività didattica. Il GAT da sempre è coinvolto nel proposito di fornire ai soci gli strumenti per affrontare in modo critico l’attività archeologica quand’anche svolta a titolo volontario. Per questo, nel pomeriggio quando il sole rendeva l’attività sul campo improponibile, si è cercato di coinvolgere i partecipanti nella progettazione e nella valutazione delle ricognizioni fornendo elementi di storia locale, di metodologia di ricerca, di ceramologia. Le lezioni, di carattere informale e non più lunghe di un paio d’ore sembrano essere state gradite dai partecipanti anche quando stanchi per una lunga mattinata sul campo avrebbero preferito un bel bagno tonificante nelle acque del lago di Bolsena. Il fatto che non si siano verificati ammutinamenti sembra avvalorare quest’ipotesi. Un punto forte del programma è stato quello di fornire alla Soprintendenza risultati scientifici nella forma il più possibile oggettiva e facile da utilizzarsi. Da questa esigenza è nato il “Database di ricognizione”: un contenitore informatico che è stato poi perfezionato durante l’attività autunnale, in cui sono confluiti i risultati delle ricognizioni e tutto il materiale fotografico, bibliografico e cartografico prodotto dall’attività del gruppo. Il database stesso, pur essendo ancora migliorabile, sarà un ottimo strumento di documentazione anche applicato all’attività torinese in seno al progetto sulla Collina Torinese patrocinato dalla Soprintendenza Piemontese e finanziato dalla Provincia di Torino. Un’ultima scelta metodologica che rappresenta un grande risultato per le politiche del GAT è il fatto che l’attività del Campo di ricognizione “I Monti del Fiora” non è terminata col 15 agosto, ma è proseguita in sede a Torino. Riteniamo infatti che sia di estrema utilità poter “vedere” come i risultati dell’attività estiva vengono sistematizzati e consegnati alle autorità competenti. Grazie alla disponibilità della dottoressa Barbieri, infatti, abbiamo ottenuto la custodia dei molti reperti, ceramici e non, rinvenuti in ricognizione e questo ha dato linfa al nostro laboratorio che ha potuto effettuare una prima catalogazione, le foto e, in alcuni casi, anche il disegno. Inoltre, come si è detto, l’intero gruppo Una volta individuato un sito, si procede alla raccolta sistematica dei materiali affioranti. 3 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Ansa protostorica “a cannone” rinvenuta sui Pianetti di Sovana. Presso la sede GAT i reperti vengono lavati, classificati, fotografati e disegnati. è stato coinvolto nel perfezionamento del database in modo che ognuno potesse portare il proprio contributo. I risultati così ottenuti sono stati la fidelizzazione dei partecipanti del primo turno al campo e in più, di “incuriosire” chi al campo non è ancora venuto. Si sapeva che il primo anno di attività sarebbe stato utile in primo luogo alla creazione di un metodo di ricerca: possiamo ben dire, anche a fronte di un confronto con la dottoressa Barbieri che si è detta molto soddisfatta dell’attività svolta, che questo obbiettivo sia stato raggiunto! Ovviamente cercheremo di migliorare ancora, ma l’anno prossimo, con queste solide basi, potremo ben partire con una “marcia in più”! e da informazioni raccolte (faticosamente!) sul posto: in effetti, i risultati hanno superato le nostre previsioni più ottimistiche. Due dei siti individuati hanno restituito materiale ceramico preistorico, che da primi confronti effettuati nei musei della zona potrebbero risalire all’Età del Bronzo. Negli altri due casi sono invece stati individuati due siti di frequentazione romana: in base alle caratteristiche della zona e alla tipologia dei materiali raccolti, è verosimile ipotizzare l’esistenza di due impianti rurali, uno dei quali di non grandissima estensione e caratterizzato da un’alta percentuale di ceramiche d’uso comune. Un punto che sarà da chiarire è se si tratta di siti già noti e documentati oppure se ci possiamo vantare di aver arricchito la mappa archeologica dell’area. Il secondo sito romano è quello che più ha emozionato il gruppo: è stata infatti con tutta probabilità individuata una struttura già nota anni addietro alla Soprintendenza, grazie a una segnalazione, ma di cui era stata scordata l’ubicazione effettiva; la dottoressa Barbieri era particolarmente interessata a ritrovarla, poiché le segnalazioni di circa vent’anni fa riportavano l’esistenza di tratti di murature, nella tipica tecnica romana dell’ “opus caementicium", conservati per circa due metri in elevato e di pavimenti a mosaico. Pronto ad esaudire la richiesta, il gruppo ha individuato alcuni campi interessati da una forte concentrazione di materiale ceramico chiaramente d’epoca romana, nonché alcuni nuclei di cemento; grazie allo spirito di osservazione (e a una buona dose di fortuna!) sono infine state individuate le strutture murarie in questione, pertinenti ad almeno un ambiente, delle quali si conservava ancora un buon tratto ancora in elevato completamente avvolto da rovi e rampicanti e perciò praticamente invisibili. Forte di questi primi risultati così incoraggianti, il Gruppo si attiverà ben presto per progettare il campo della prossima estate: nonostante crediamo di aver compiuto un lavoro scientificamente valido, e la soddisfazione dimostrataci dalla dottoressa Barbieri lo conferma, ribadiamo che i margini di miglioramento ci sono sempre! Nel frattempo non mancano certo gli spunti sui quali lavorare durante l’anno: da un lato questo fruttuoso campo ci permette di esercitarci su temi generali connessi alla catalogazione, al disegno e al riconoscimento dei reperti, dall’altro è ora doverosa una documentazione sempre più approfondita e dettagliata sulla storia e l’archeologia del territorio in corso di indagine. Luca Nejrotti Il materiale ceramico recuperato viene suddiviso per classi. Risultati: un primo bilancio Da quanto è stato finora detto, possiamo a ragione affermare che il primo Campo “I Monti del Fiora” ha ottenuto un grande successo, sia dal lato ludico, componente fondamentale dato che si tratta pur sempre di una vacanza, sia da quello scientifico: grazie a questa prima campagna di ricognizione, infatti, sono stati individuati ben quattro siti notevoli; i risultati sono ancora più clamorosi, se si pensa che questo primo campo era stato ragionevolmente progettato innanzitutto per prendere confidenza e imparare a conoscere il territorio, visto che il GAT era “in trasferta”. La ricognizione si è incentrata nella zona denominata “Pianetti” presso Sovana, che sembrava essere promettente in base alla documentazione fornitaci dalla dottoressa Barbieri Anna Ferrarese 4 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Vita di campo (ovvero: non di sola archeologia vive il volontario) Visita alla città etrusco-romana di Vulci Con tutte le persone a cui ho parlato di questo campo ho trovato difficoltà a scegliere un argomento da cui partire per poter descrivere la bella esperienza. Dai risultati archeologici? Assolutamente fuori da ogni aspettativa. Dalla preoccupazione di passare quindici giorni noiosi? Di triste ci sono stati solo i saluti del 16 agosto. Dalla preseunta sistemazione spartana, tipica dei campi estivi? Alloggiare in una scuola con una grandissima cucina attrezzata, docce e bagni in quantità, grandi stanze e una palestra a nostra disposizione, è stato un innegabile lusso. Dal timore di mangiare poco e male? Il campo era fortunatamente fornito di un abilissimo cuoco specializzato nella preparazione delle scaloppine e nell’arte di non sapere cosa cucinare dall’oggi al domani, procurando non pochi grattacapi a chi si occupava della spesa. A proposito, vorrei ringraziare coloro che, a fine portata, correvano in cucina ad accaparrarsi ancora una porzione; ne sono stato lusingato, grazie ancora. Rammento con affetto anche l’allora piccolo trovatello felino Buccia, diventato poi la mascotte di tutti noi (innocente strumento e complice di un mio scherzo nei confronti di Lucia e di Federico di cui poi ho riso per un quarto d’ora); le partite a carte e i giochi di società che hanno animato le nostre serate, dall’impassibile Anna alla iperattiva Tiziana nel gioco “dell’assassino”, alle innumerevoli penitenze di Andrea. Ricordo tutti i visi dipinti dal sentimento di chi aveva fatto posto nel proprio cuore ad un’altra persona, che fosse vicina o lontana. Rammento i colori di quella bellissima terra, verde e oro; di Sovana e del paesaggio di dolci colline all’orizzonte, di quel bizzarro “panettone” che Valentina e io avevamo notato, che poi scoprimmo essere Monterosso. Terra che abbiamo percorso nelle nostre ricognizioni, chi da “Ardito Ripaiolo” chi da “Vignaiolo”, contraddistinti da moltissimo impegno. Ricordo chi, con l’impegno, superava i limiti umani: mi riferisco ovviamente a Dario, che abbiamo poi scoperto essere un cyborg. Come non rammentare le mattine, che all’inizio ci vedevano pimpanti ed energici e poi, con il passare dei giorni, sempre più assomiglianti agli zombie de “L’Alba dei Morti Viventi”? O ancora, le serate passate magari percorrendo l’antica e affascinante Sorano, le sue casette, le sue botteghe (vero, Pitigliano Fabrizio?), i musei, i siti archeologici, Vitozza, le strade cave, Cosa, Vulci, gli affreschi della Tomba François, il lago di Bolsena, Ansedonia (di cui ho un “caldo” ricordo), il rubicondo e iracondo bambino cameriere, la gente curiosa del posto, così culturalmente interessata alle nostre indagini… (non sta scherzando! – n.d.r.) Sono sicuro che ognuno dei partecipanti conserva almeno un momento particolare di questa esperienza. Per me sono due: una luminosissima stella cadente vista nel corso di una delle chiacchierate notturne e le colline buie che circondano Sorano, così insolite e affascinati per chi, come me, è abituato alle nostre campagne, punteggiate da insediamenti e luci. Alcuni storici hanno voluto ricondurre questa tipologia insediativa (pochi borghi, distanti l’uno dall’altro nella campagna disabitata) agli Etruschi, ma non è difficile immaginare di essere stati catapultati in un passato più recente, come nel film Non ci resta che piangere con Benigni e Troisi, nel quale è facile perdersi nel tempo passeggiando fra le strette vie di questi paesi. Un altro campo ci aspetta presto, un’altra esperienza per chi, come noi, ama l’archeologia; altre serate passate a giocare a nascondino (Enrico è tornato, vero?) altre partite a pallavolo (anche se ormai la squadra degli “scapoli” si è drasticamente ridotta) o a palla avvelenata (nel qual caso un solo elemento ha potuto sconfiggere tutta la squadra degli “ammogliati” con impareggiabile abilità…); oltre ad autoincensarmi, vi prometto più fritture di pesce nel nuovo campo e uno sfoggio di nuove bandane. Per il resto: Non ci resta che piangere. La megacucina e il suo Re (con schiavo sullo sfondo) Gianfranco Bongioanni (per chi non lo sapesse: il cuoco - n.d.r.) 5 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 INDICE degli argomenti La collina torinese - Cenni di toponomastica Geomorfologia della collina torinese La collina torinese in età preistorica Castelvecchio: il sito protostorico La Centuriazione di Chieri L’acquedotto romano di Chieri Epigrafi rinvenute nel territorio chierese La via Fulvia Il versante torinese della collina La necropoli longobarda di Testona La ceramica longobarda della necropoli di Testona Ingerenze vescovili sulla collina torinese: Landolfo Ingerenze vescovili sulla collina torinese: Carlo La via Francigena fra Torino e Chieri I Templari Santa Maria di Celle San Pietro di Celle La misurazione del tempo nel Medioevo Il paesaggio collinare nel Medioevo Le bevande alcoliche nel Medioevo Antiche unità di misura Monete medievali in Piemonte Castelvecchio: la fortezza medievale Il “castrum” vescovile di Testona Testona: l’origine del Comune Testona: l’espansione nel “poderium” Testona: distruzione o abbandono? Da Testona a Moncalieri Evoluzione urbana di Moncalieri La Collegiata di S. Maria della Scala Come si parlava nel Chierese Bric San Vito Il gioco degli scacchi: un esempio a Bric San Vito Il gioco degli scacchi: origini e regole Il castello di Montosòlo Revigliasco: origini e sviluppo dell’abitato Revigliasco: via della Ghiacciaia La chiesa di San Sebastiano a Pecetto Monfalcone, un insediamento scomparso Chieri e le sue mura Orti medievali Le fibre tessili vegetali nel Medioevo La tintura dei tessuti nel Medioevo Erbe e Magia nel Medioevo Rinvenimenti archeologici di epoca preistorica Rinvenimenti archeologici di epoca romana Rinvenimenti archeologici di epoca medievale Volontariato in collina LA COLLINA TORINESE Quattro passi tra storia, arte e archeologia Reperibile presso la segreteria del G.A.T.: Via BAZZI, 2 10152 TORINO Tel. 011.43.66.333 il venerdì h. 18-21 offerta minima: Euro 8,00 Formato 21 x 29,7 cm 68 pagine Seconda Edizione - 2003 Essendo frutto del lavoro dei volontari, le pubblicazioni del GAT non si trovano in libreria, ma soltanto presso la Sede dell’Associazione o in occasione di conferenze o mostre organizzate dal GAT medesimo. Non hanno dunque prezzo di copertina, ma vengono distribuite dietro un’offerta minima stabilita dal Consiglio Direttivo. La Collina Torinese GUIDA DIDATTICA Reperibile presso la segreteria del G.A.T.: Via BAZZI, 2 - 10152 TORINO Tel. 011.43.66.333 il venerdì h. 18-21 La guida didattica è un avvicinamento ai più piccoli della mostra “La collina torinese: quattro passi tra storia, arte e archeologia”. Si tratta infatti di una semplificazione del catalogo principale che offre ai ragazzi conoscenze sulla preistoria, l’età romana e il Medioevo facendo riferimento in particolar modo alla collina torinese. La guida è soprattutto un divertente e utile insieme di giochi, domande e quiz che stimoleranno la curiosità dei ragazzi, invitandoli a giocare con i toponimi antichi, con le strade romane, con i reperti longobardi, con i castelli e con molte altre testimonianze e reperti antichi. offerta minima: Euro 3,00 Formato 15x21 cm 28 pagine Edizione 2003 6 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 La Collezione Dianzani IL MUSEO DI ANTICHITÀ OSPITA UNA NUOVA SEZIONE DEDICATA AL MONDO ETRUSCO Le collezioni etrusche del Museo d’Antichità di Torino si sono recentemente arricchite grazie alla donazione di oltre 400 pezzi da parte del professor Mario Umberto Dianzani. Il lascito risale al 1998, ma solo dal giugno 2004, dopo un lungo intervento di restauro, la metà circa del materiale è stata esposta nella parte della struttura museale dedicata alle collezioni. L’allestimento delle quattro vetrine dedicate alla raccolta (n° 15-18) ha comportato un’opera di riassetto generale del settore ospitante. Si tratta per la maggior parte di forme vascolari rinvenute occasionalmente agli inizi del ‘900 dall’agricoltore Giuseppe Dianzani, nei terreni di sua proprietà presso Poggio Buco (GR), e rappresentative della produzione ceramica dell’Etruria meridionale interna tra VIII e VI secolo a.C. Oltre a queste, sono presenti in numero esiguo oggetti di ornamento personale, strumenti per la filatura e statuette di terracotta, che complessivamente caratterizzano il contesto di origine dell’intera collezione: il materiale rinvenuto, infatti, costituisce parte del corredo funerario di svariate tombe appartenenti alla necropoli di Poggio Buco. L’insediamento etrusco sorgeva sull’altopiano tufaceo delle Sparne, delimitato dal fiume Fiora e da due affluenti di destra, il fosso Bavoso e il torrente Rubbiano. Il centro alternò fasi di occupazione e abbandono in funzione del ruolo strategico assegnatogli dalla vicina Vulci per le proprie politiche agricole e commerciali. Le necropoli si estendevano nella valle Vergara a est dell’altopiano, sul colle Insuglietti a sud e lungo i declivi a ovest, con tombe addossate lungo i fianchi e gli anfratti del rilievo, che pare abbiano dato origine al toponimo moderno. La tipologia di sepoltura varia nel tempo: nel primo periodo di rioccupazione dell’area (fine VIII sec a.C.) i defunti venivano inumati in tombe a fossa rettangolari (talvolta con loculi laterali) scavate nel tufo e chiuse da lastroni; successivamente, con l’affermazione del ceto gentilizio (metà VII sec. a.C.), si diffonde l’impiego di tombe a camera con accesso tramite scalinata o dromos e vestibolo su cui si affacciano le celle sepolcrali. Qui i membri della famiglia venivano deposti su banchine laterali rialzate, in fosse nel pavimento o in loculi ricavati nelle pareti. Il ritrovamento dei pezzi della collezione è, come detto, di natura occasionale, non sottoposto quindi alle procedure di uno scavo condotto scientificamente e dunque privo di documentazione relativa. La conoscenza dei materiali e del contesto risulta pertanto incompleta, rimanendo limitata allo studio di provenienza e all’analisi stilistica e tipologica dei reperti. Le sole associazioni possibili sono basate sul confronto con i dati di altri scavi della stessa area, eseguiti inizialmente dal Mancinelli tra il 1894 e il 1896 e da Sovrintendenza e Università di Firenze in anni più recenti. Questi studi comparativi hanno portato all’identificazione di due parziali corredi, relativi a inumazioni di individui di sesso femminile appartenenti al ceto aristocratico, databili tra la metà del VII e l’inizio del VI sec. a.C.. I due corredi, paradigmatici delle sepolture di questo periodo, sono caratterizzati da vasellame da vino, sia per il banchetto sia per le cerimonie funerarie, e da pochi altri oggetti che alludono al ruolo femminile nella famiglia e nella comunità: armille, fibule, rocchetti e fusaiole. Non deve stupire la presenza di servizi per il banchetto anche nelle tombe femminili, poiché la gestione del vino era prerogativa della donna di classe gentilizia in qualità di padrona di casa. La parte più cospicua del materiale esposto offre una panoramica articolata delle produzioni vascolari del territorio vulcente nel periodo di massima fioritura dell’abitato di Pog7 gio Buco. Le tipologie ceramiche spaziano dai vasi ad impasto, privi di elementi ornamentali, ma anche dipinte o decorate con applicazioni in stagno, al bucchero con i motivi plastici zoomorfi applicati sulla superficie caratteristici delle botteghe vulcenti, alla etrusco-geometrica di medie e grandi dimensioni, alla etrusco-corinzia da mensa o per unguenti e profumi. Sui pezzi della collezione è stato necessario eseguire numerosi interventi di restauro, dapprima finalizzati a ripristinare le condizioni originali dei reperti, che negli anni passati furono sottoposti a rimontaggi scorretti e sommarie procedure conservative poco o per niente idonee, anzi talora addirittura invasive e compromettenti per l’integrità stessa dei materiali . Successivamente si è agito per garantire la salvaguardia degli oggetti nel tempo e per valorizzarli in vista dell’esposizione al pubblico. La descrizione delle procedure seguite e delle difficoltà incontrate durante il restauro, così come la storia delle collezioni etrusche del museo, vari approfondimenti sul sito di Poggio Buco (dalle più antiche ricerche ai progetti di tutela e valorizzazione dell’area) nonché brevi saggi sulle classi ceramiche e schede puntuali su tutti i reperti esposti, costituiscono il contenuto della pubblicazione dedicata alla nuova acquisizione del museo: C. AMBROSINI e F.M. GAMBARI (a cura di), 2004, La Collezione Dianzani. Materiali da Poggio Buco nel Museo di Antichità di Torino, Torino. Enrico Di Nola, Valentina Faudino Oinochoai trilobate in ceramica etrusco-corinzia Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 LE FASI INSEDIATIVE DI POGGIO BUCO Evidenze archeologiche e vita del sito Testimonianze protovillanoviane: fori scavati nella roccia per pali di capanna, resti di focolare, materiale ceramico, tombe a XI - X sec. .C. incinerazione. Abbandono dell’abitato. La popolazione distribuita lungo il IX - Fine VIII sec. a.C. Fiora si concentra a Vulci. Rioccupazione del sito a opera di gruppi aristocratici Fine VIII sec. a.C. vulcenti. Tombe a Fossa. Consolidamento della supremazia raggiunta. Fase di massima fioritura del centro. Dalle tombe a fossa si passa a quelle Seconda metà VII – VI sec a.C. familiari a camera. L’area urbana viene munita di cinta muraria e arricchita di edifici monumentali (tempio?). V sec. a.C. Declino del centro (e di molti altri dell’Etruria meridionale). Ultima fase insediativa, epoca romana. Tombe a corridoio, Fine II sec a.C. – I d.C. statuette di terracotta ed ex voto di età ellenistica. Cronologia Rilievi di scavo delle tombe a fossa di Poggio Buco (Riccardo Mancinelli - scavi 1894-98) LE CLASSI CERAMICHE DELLA COLLEZIONE DIANZANI IMPASTO Classe ceramica Cronologia e committenza Ceramica peculiare dell’età orientalizzante, soprattutto tra la seconda metà dell’VIII e la prima metà del VII sec. a.C., quando viene soppiantato quasi totalmente dal bucchero. Persisterà più a lungo nell’Etruria interna, ambiente più conservatore. Affonda le sue radici nella tradizione protostorica villanoviana e si sviluppa con molte varianti locali. I processi produttivi meno standardizzati rispetto al bucchero, la presenza di particolari realizzati a mano e l’estrema libertà nella resa plastica attribuivano particolare valore a questa ceramica, che incontrava il favore della committenza locale (classi medio-alte), desiderosa di distinguere i propri servizi dalla produzione di massa dedicata all’esportazione. VI sec. a.C. (età arcaica) si della ceramica ad impasto, in ambito domestico e parte suppellettile funzionale al Molto apprezzata dalle classi gentilizie etrusche, si sviluppa tra il 630 e il 550 a.C. per imitazione della ceramica corinzia a figure nere con teorie di animali selvatici e fantastici su registri paralleli, a sua volta influenzata dalle esperienze figurative del Vicino Oriente. La sua scomparsa è dovuta al subentrare della ceramica attica, importata a partire dalla metà del VI sec. a.C.. Largamente diffusa in ambito italico e mediterraneo, questa ceramica si diffuse, a partire dall’Etruria meridionale, sin dall’inizio del VII sec. a. C. e fino al IV sec. a.C., quando venne soppiantata dalla vernice nera di matrice ellenistica. GRECOORIENTALE ETRUSCO-CORINZIA Dalla fine dell’VIII sec. a.C. gli Etruschi avviano produzioni ceramiche che risentono fortemente dell’avvenuto contatto coi primi coloni greci (euboici e corinzi) sul suolo italico e con le innovazioni culturali da loro portate: la depurazione più accurata dell’argilla, la coltivazione della vite e i riti legati al vino, l’alfabeto. BUCCHERO ETRUSCOGEOMETRICA Tra la fine del VII e il assiste alla ricomparsa utilizzata essenzialmente dei corredi in quanto banchetto. Tecnica, decorazione, forme. Da non intendersicome genericaargilla scarsamentedepuratao ceramica comuneper cucina,l’impasto costituisceuna particolareclassedi ceramica caratterizzatadall’aggiunta all’argilla depuratadi minuti frammenti di minerali (principalmente silicati e composti metallici) che costituiscono il degrassante preposto a rendere il corpo ceramico più refrattario e miglior conduttore di calore. Questo permetteva di cuocere gli oggetti in forni anche piccoli e sommariamente realizzati, dove il controllo dell’uniformità della combustione e della diffusione del calore non poteva essere sempre ottimale. La superficie veniva lisciata con brunitoi in osso, corno o pietra per renderla omogenea e impermeabile, ottenendo un effetto lucido durevole che talvolta assumeva l’aspetto di una crosta liscia di diverso colore, simile per effetto all’ingobbio. I motivi ornamentali, dal repertorio naturalistico, erano incisi, dipinti o resi plasticamente. Un tipo particolaree pregiato di decorazione erano le applicazioni metalliche: borchiette e lamelle di bronzo o stagno fissate con collanti resinosi di origine vegetale. Le forme sono quelle della tradizione villanoviana o di imitazione del materiale importato. Un gruppopresentasuperficieesternalevigata rosso-bruna scura; un altro ha superfici ruvide di colore rossiccio chiaro, beige-arancio. Le forme si sono semplificate, la decorazione è pressoché assente, l’uso del tornio veloce è ormai generalizzato. Inizialmentesolo su forme di imitazione greca (servizi per il banchetto), poi anche su forme di tradizione locale, compaiono i motivi decorativi caratteristici dello stile geometrico: chevrons (linee spezzate), zig zag, rombi e triangoli campiti con reticoli, spirali, cerchi concentrici, aironi stilizzati. Sono simboli che rinviano alla sfera acquatica e a un universo mitologico comune ai popoli mediterranei. Il supporto è l’impasto o l’argilla figulina (depurata). I diversi elementi stilistici della decorazione figurata (uccelli acquatici, animali selvatici e fantastici) hanno permesso di individuare tre successive generazioni di ceramografi etrusco-corinzi: tra il 630 e il 600 a.C. è ancora evidente la fedeltà ai modelli corinzi, nelle anfore e nei vasi potori policromi; tra 600 e 580 a.C. si affermano il vasellame simposiaco e i contenitori per unguenti; tra 580 e 550 a.C. la produzione si allontana dai modelli corinzi e si massifica per soddisfare la richiesta del ceto medio che vuole assimilarsi ai costumi delle classi superiori. Caratteristici delle botteghe vulcenti sono i riempitivi a rosoni, il Ciclo dei Galli affrontati e il Running Dog Style, di derivazione rodia. Eseguitaal tornio, priva di rivestimento, veniva cotta in atmosfera riducente, cioè in assenza di ossigeno, per conferire al corpo ceramico il caratteristico colore nero in superficie e in frattura, con l’intento di imitare l’aspetto lucente e le pareti sottili dei pregiati modelli in avorio, argento, bronzo provenienti dal mondo greco-orientale. In seguito la stessa tecnica venne applicata anche su forme tradizionalmente ceramiche. Le botteghe vulcenti si distinsero per produzioni dalle dimensioni e proporzioni finanche eccessive, decorazioni esuberanti, motivi plastici applicati (protomi zoomorfe e antropomorfe, motivi circolari con protuberanza conica centrale), motivi lineari incisi, baccellature a rilievo sulla spalla dei vasi ad imitazione del metallo sbalzato. Prodotta in Ionia alla fine del VII sec. a.C. e diffusa dai Si trattadi vasellamegrecodi importazione,soprattuttodi coppe a vernice nera mercanti greci negli empori etruschi. e vasetti portaprofumo. 8 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Un parco archeologico a Torino È STATO AVVIATO IL PROGETTO PER L’AREA ARCHEOLOGICA DELLE PORTE PALATINE La nostra città in questi anni sta subendo, com’è sotto gli occhi di tutti, una pesante e importante serie di lavori pubblici, che ha visto un’accelerazione in vista delle prossime Olimpiadi invernali del 2006. Se non poche remore possono essere espresse sugli edifici con destinazione prettamente olimpica (e soprattutto sulla loro utilità postolimpica), bisogna rendere atto al Comune della bontà di molte iniziative e delle aggiornate fonti d’informazione messe a disposizione della cittadinanza: grazie alle informazioni fornite dalla stampa, alle pagine dedicate in Internet e al materiale informativo multimediale esposto ad Atrium, possiamo renderci conto personalmente di cosa è stato progettato e quanto è stato finora effettivamente realizzato. L’obiettivo di questo apparato divulgativo, probabilmente, è quello lodevole di far accettare più serenamente ai cittadini la convivenza con gli attuali disagi, provocati dall’apertura di innumerevoli cantieri, e la spesa che questi comportano; l’adesione sarà sicuramente maggiore se le opere finali si dimostreranno realmente utili e migliorative per la città. Fra le iniziative che stanno particolarmente a cuore degli amanti dell’archeologia vi è indubbiamente la creazione del Parco Archeologico nell’area del Duomo e delle Porte Palatine: la porta settentrionale d’ingresso alla città romana, inglobata nella crescita urbana dei secoli successivi, costituisce oggi, insieme al teatro, l’elemento di maggior spicco nel panorama archeologico di Torino. I grandi progetti di risistemazione, firmati da Alfieri, Canina, Antonelli, non hanno mai avuto esiti concreti, mentre le demolizioni fra Ottocento e Novecento per liberare la porta romana prima dai rimaneggiamenti di epoca successiva, poi per aprire nuove strade, nonché i bombardamenti, hanno contribuito a generare quel senso di incongruenza e sospensione che porta oggi il passante ad attraversare la zona frettolosamente. Lo scopo di questo progetto di riqualificazione è dunque quello di restituire ai cittadini un’area centralissima, così ricca di storia cittadina. Si può far risalire il progetto di rinnovamento al 1993, quando si decise l’eliminazione delle auto in sosta da piazza S. Giovanni, a cui sono seguite negli anni la pedonalizzazione della piazzetta reale, la chiusura al traffico privato delle vie XX Settembre e Milano, la costruzione di nuovi parcheggi e del sottopasso di corso Regina Margherita. Finalmente, a quasi dieci anni dalla prima iniziativa, viene deciso un piano organico per valorizzare le presenze archeologiche e la recente rinnovata vocazione turistico-culturale di Torino. Il progetto del Parco prevede un grande giardino di circa 5000 mq circondato da filari di carpini, confinante con la piazza del Duomo 9 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 e attraversato il più discretamente possibile museografico che metta in luce l’unitarietà da via XX Settembre (le due parti saranno delle testimonianze archeologiche presenti, collegate da passaggi sotterranei e passerelle): verso una percezione della crescita urbana all’interno sarà quindi possibile un percorso e sociale della città” (Silvia Lojacono, Progetti di visita che attraversi le Porte, raggiunga per Torino 2006 e oltre, materiale informativo da un lato il Duomo e dall’altro il Museo fornito dal Comune di Torino): grazie a di Antichità, nonché ovviamente il teatro. quest’opera saranno resi visitabili nuovi reperti A Nord il parco verrà chiuso da un bastione e strutture messe in luce, in un percorso ricavato sul tracciato di quello demolito che continui l’esposizione del Museo di nell’Ottocento, che inoltre ospiterà al suo Antichità. interno locali di rimessaggio per gli operatori Il museo si estenderà anche nei locali del mercato. sotterranei della Manica Nuova di Palazzo Tutta la viabilità dell’area sarà modificata: Pianta della chiesa ottagonale di San Reale, destinata ad accogliere nella prima il progetto, infatti, prevede di incorporare Michele, rilevata prima della demoli- parte un’esposizione di reperti dedicata nel giardino anche il tratto di via Porte zione da Filippo Juvarra (XVIII secolo). all’archeologia della città, dalla fondazione Palatine adiacente a queste, deviare il traffico della colonia augustea al ducato longobardo; nelle vie circostanti e rinnovare l’aspetto di largo IV Marzo. oltre il corpo centrale, invece, saranno accessibili le vestigia La sistemazione dell’area circostante le Porte Palatine del teatro su cui la Manica Nuova sussiste, scoperti a fine dovrà certamente tener conto delle scoperte che molto pro- Ottocento proprio in occasione dei lavori per l’edificazione babilmente emergeranno nel corso dei lavori, data la rilevanza del nuovo fabbricato. archeologica della zona: è del 18 Gennaio 2005 la notizia L’ampliamento fin qui descritto sarà reso agibile in oc(Segnalazione all’interno della cronaca di Torino de La casione dell’evento olimpico, ma il progetto della SoprinStampa,“Specchio dei tempi”) che sarebbero venuti alla tendenza è ancora più impegnativo, sebbene la sua conclusione luce i resti della chiesa di S. Michele, di verosimile epoca sia prevista dopo il 2006. Il percorso museografico sarà longobarda, collocata fra le attuali via Milano e via Tre infatti ampliato oltre il teatro, sotto la piazzetta del Duomo: Galline. La chiesa, di pianta ottagonale, è documentata per attraversata la strada romana che fiancheggiava la cavea la prima volta nel 1044 e sembra sia stata demolita nell’ambito del teatro (con i basoli perfettamente conservati), si potrà del progetto di sistemazione urbanistica elaborato da Juvarra. accedere agli scavi delle tre chiese paleocristiane che preNon possiamo che unirci all’appello formulato dal presidente cedettero il Duomo cinquecentesco; in corrispondenza del della sezione torinese di Italia Nostra, Roberto Lombardi, presbiterio di S. Salvatore sarà anche ricollocato nella sede affinché sia effettuata un’adeguata indagine archeologica originaria il mosaico di circa 100 mq raffigurante la Ruota dell’area e sia prevista anche una futura fruizione dei resti della Fortuna e la Mappa del Mondo (risalente alla fine per cittadini e turisti (iniziativa che sarebbe assolutamente del XII secolo). Si prospetta infine l’opportunità di raggiungere coerente con le finalità del Parco Archeologico stesso). anche la chiesa inferiore del Duomo, passando anche per Il Parco Archeologico è stato concepito come una tappa gli ambienti di fondazione del campanile. del percorso museale che raccoglie in questo angolo di Con queste rosee prospettive, non ci resta che attendere... città circa duemila anni di storia. A questo proposito, è e sperare che le nostre aspettative non vengano deluse! doveroso citare il progetto elaborato per iniziativa della Soprintendenza Archeologica,“per dare origine a un percorso Anna Ferrarese GAT - CONVENZIONI e ACCORDI di collaborazione in essere SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI del PIEMONTE Accordo di collaborazione pluriennale per il monitoraggio e l’indagine del patrimonio archeologico della Collina Torinese. Tale accordo è la base su cui si sviluppa il Progetto di Ricognizione sulla Collina Torinese, che vede impegnati i Soci del Settore Ricerca due domeniche al mese. SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI della TOSCANA Convenzione annuale sottoscritta nel 2004 con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana per la realizzazione del progetto di ricognizione pluriennale di una grande area compresa tra i comuni di Sorano, Pitigliano e Manciano (GR). Tale progetto ha condotto alla creazione del Campo Archeologico estivo “Monti del Fiora”, la cui direzione è nelle mani della Soprintendenza stessa (dott.ssa Barbieri e dott. Camilli) mentre organizzazione e gestione sono totalmente a carico del GAT. Partner del progetto 2004 è stato il Cesvol “Idea Solidale” di Torino, con il quale sono in corso trattative per la ripetizione dell’iniziativa anche nel 2005. CITTÀ DI TORINO - ASSESSORATO ALLA CULTURA Accordo di collaborazione per itinerari guidati tra arte e storia in Torino, illustrati da volontari e da guide turistiche (Progetto “Torino e Oltre” - Responsabile: Luca Nejrotti). Per informazioni, rivolgersi alla nostra Segreteria. 10 MUSEO EGIZIO DI TORINO Convenzione sottoscritta con la Soprintendenza al Museo delle Antichità Egizie di Torino per le seguenti attività: - servizio di custodia museale e servizio di monitori museali, - supporto all’attività didattica ed ai progetti per i quali la Direzione del Museo richieda la collaborazione (mostre, itinerari, manifestazioni particolari, attività scientifica). BIBLIOTECA NAZIONALE - UNIVERSITARIA DI TORINO Convenzione in essere dal 1995 per collaborare: nell’assistenza all’utente nell’uso della biblioteca, degli strumenti informatici e nella consultazione dei cataloghi e nei servizi di informazione; nei rapporti con la scuola; nella realizzazione di progetti mirati; nella catalogazione, nella conservazione e nel restauro del materiale librario. MEDIARES scrl • www.archeomedia.net È stata stipulata una collaborazione per cui tutti i soci del Gruppo che possiedono una e-mail possono abbonarsi gratuitamente alla rivista archeologica on-line Archeomedia e riceverne gli avvisi di aggiornamento. Per attivare il servizio è sufficiente spedire la richiesta a: [email protected] Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 I predatori del patrimonio culturale perduto DUE CASI EMBLEMATICI DIMOSTRANO LA NECESSITÀ DI UNA COSTANTE ATTENZIONE Diventa sempre più ardua l’attività di sensibilizzazione di chi ha fatto della tutela e della valorizzazione dei beni culturali la propria bandiera. Gli attacchi vengono da tutte le parti e sono sia coscienti, e quindi “dolosi”, sia involontari, dettati da ignoranza e superficialità. Fatto sta che tra Istituzioni e pensiero comune, il Volontario in archeologia si trova a dover combattere un sostanziale disinteresse ben radicato. Non sempre con risultati positivi. Vi diamo due esempi molto diversi su cui riflettere. Da un lato quest’autunno ha visto svolgersi un acceso dibattito, ancorché in sordina per i non addetti ai lavori, sulla possibilità di rendere molto più facile l’appropriarsi di beni archeologici. Si tratta del cosiddetto Archeocondono, un emendamento della legge finanziaria che avrebbe consentito ai possessori illegali di reperti archeologici di denunciarne il possesso e di diventarne legalmente proprietari con il pagamento di una multa pari al 5% del valore stimato. Sorgono alcuni problemi: primo, chi dovrebbe valutare l’effettivo valore del Bene? La Soprintendenza, è ovvio, ma sappiamo bene che l’Istituzione è già oberata dal lavoro: quindi ci si sarebbe limitati al tremendo “silenzio assenso”, pratica già invalsa per il patrimonio statale in vendita. Ora, come può una perizia privata valutare, a fianco del valore monetario, il valore storico di un reperto? E’ impossibile, dato che quest’ultimo dipende da fattori impalpabili come il contesto del ritrovamento! Inoltre “Archeocondono” è un termine fuorviante in quanto la legge avrebbe reso la sanatoria applicabile non solo per il pregresso, ma anche per i successivi furti di reperti archeologici, rendendone di fatto legale la ricettazione in cambio di un banale balzello del 5%! Fortunatamente, anche grazie all’intervento di autorevoli pensatori quali il professor Salvatore Settis della Scuola Normale Superiore di Pisa, lo stesso Governo ha preso le distanze dall’emendamento che è stato ritirato dai suoi medesimi promotori. Il pericolo è scongiurato, ma fino a quando? Occorre vigilare perché fatti del genere non si ripetano e simili idee non vengano nemmeno più prese in con- siderazione! Tutto nasce da un errore di fondo: si ritiene comunemente che il Bene Archeologico sia improduttivo e che il fatto che ne sia proprietario lo Stato defraudi il cittadino di un legittimo possesso! Niente di più falso e tendenzioso! Lo Stato, come proprietario del Bene Archeologico tutela tutti i cittadini e fa sì che esso resti effettivamente proprietà di tutti nel tempo. Saperlo nel magazzino di un museo può essere frustrante, ma il reperto archeologico ha anche funzione e valore come tassello della ricerca storica ed in quanto tale deve rimanere alla portata degli studiosi che poi, a loro volta, devono rendere pubbliche e dominio di tutti le proprie indagini e i propri risultati. Un altro caso emblematico: un articolo del Manifesto, recensendo un divertente e interessante libretto sulla carriera di un tombarolo “storico”, Pietro Bozzini, assume un tono quasi epico, deprecando la perdita di siffatte tradizioni e presentandolo quasi come un eroe romantico. Qui di seguito vi presentiamo la nostra risposta all’articolo, sperando che sempre più i beni culturali siano considerati appannaggio di tutti e non di pochi addetti ai lavori, e nemmeno di pochi estimatori che per gusto o ostentazione se ne approprino anche illegalmente. Luca Nejrotti CONTROSTORIE - “ARTI DA DIMENTICARE” Il punto di vista del volontariato culturale Scavare in cerca di reperti archeologici allo scopo di rivenderli sul mercato nero, dunque senza il controllo degli organi preposti è illegale. Inoltre è la prima causa dell’impoverimento del patrimonio culturale italiano ed alimenta un circolo vizioso che negando alla popolazione l’accesso alla propria storia lo concede solo a chi, già ricco, può permettersi di attingere al mercato antiquario sommerso. Spett. redazione de “Il Manifesto”, Leggere il vostro articolo del 17 settembre 2004 è stata una vera doccia fredda per chi sa la vostra testata essere sensibile alle tematiche di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale. Questo non significa denigrare il lavoro di Antonello Ricci, del quale siamo i primi estimatori, quanto piuttosto sottolineare come una testata giornalistica debba presentare più punti di vista in nome dell’obiettività. Come operatori del volontariato 11 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 anche minimi come pollini ed analisi chimiche sui contenuti dei vasi e sui resti organici: immaginatevi che informazioni si possono trarre da un sito che sia stato sventrato da una carica di dinamite per depredare due o tre reperti rimasti miracolosamente integri! La rabbia è accresciuta dalla consapevolezza che il tombarolo non è altro che il primo anello di una catena che mobilita interessi economici fortissimi. Generalmente l’ignoranza rende il tombarolo stesso preda facile di antiquari senza scrupoli e ricettatori che per poche migliaia di euro si accaparrano merce che rivenderanno a caro prezzo. Il percorso del reperto parte dalle mani sporche di terra e comunque in parte nobilitate dal lavoro fisico del tombarolo, per finire, per cifre ridicole, nei magazzini di antiquari da cui, complici funzionari compiacenti che falsificano permessi e certificati, prendono la via del mare per venire “ripuliti” dall’origine illegale e finire, nella migliore delle ipotesi, ricomprati a cifre esorbitanti dai musei del territorio d’origine, o, peggio, di nazioni diverse (si pensi al caso dei reperti iracheni diventati bottino di guerra!), o, caso ancora più grave, proprietà di facoltosi privati che per un concetto aberrante di mecenatismo si fanno belli dei buccheri e dei bronzi nei propri salotti! Qui c’è un nodo spinoso perché la merce rubata viene così sottratta al proprio legittimo proprietario, che è lo Stato, quindi in ultima analisi i cittadini tutti, per finire nelle tasche già gonfie di criminali che privano una nazione delle testimonianze materiali del proprio passato quindi in definitiva della propria cultura. E’ più che noto, inoltre, lo stretto legame tra il commercio illegale di reperti archeologici e altri traffici della criminalità organizzata come armi e droga. culturale ci sentiamo in dovere di replicare. Intorno alla figura del tombarolo, purtroppo, si è sviluppata un’aura eroica di cui il vostro articolo è un’ulteriore, non necessaria, conferma; se infatti tale considerazione può essere applicata, con gli opportuni distinguo, a personaggi “storici” come Pietro Bozzini, testimoni di un’epoca in cui l’archeologia non molto si discostava ancora dalla ricerca di tesori sepolti, in cui i tombaroli stessi affiancavano archeologi accademici fornendo loro le conoscenze empiriche del territorio indispensabili per chi, come Poupé, non aveva alcuna cognizione pratica dell’ambiente studiato, non è assolutamente applicabile al fenomeno che è attualmente ancora diffusissimo in tutto il territorio italiano. Sappiamo che tutto ciò dipende essenzialmente dall’ignoranza in materia e ci permettiamo di fornire alcune informazioni che riteniamo utili per una doverosa rettifica. Innanzi tutto, chi è il tombarolo e come opera? Oggi il tombarolo è ancora prevalentemente radicato nel mondo contadino che trae dal proprio costante rapporto con la terra una conoscenza invidiabile del territorio: generalmente si tratta di figure prive di sensibilità per il bene trattato e che, individuato il sito archeologico, s’interessano a ricavarne il più possibile in una notte di lavoro. I suoi strumenti variano dallo spillone ormai famoso al metal detector, dal piccone alla dinamite. Infatti la chiave del successo di un tombarolo dipende dalla rapidità; se s’indugia troppo o se si torna la notte successiva si rischia di trovarsi i Carabinieri appostati nei dintorni, quindi l’attività assume il carattere di “mordi e fuggi” e le cautele nel trattare il sito sono inesistenti. Come se non bastasse, il tombarolo “serio”, nel momento in cui si rende conto di non poter portar via tutto il materiale presente si vede costretto a distruggere ciò che lascia dietro sé per una normale logica di mercato secondo la quale più è raro il reperto, più è facile far salire il prezzo. A volte interviene anche la rabbia e la frustrazione di non potersi portar via tutto il contenuto del sito: si assiste allora ad un insensato accanimento distruttivo. Ora immaginatevi la frustrazione di chi dedica la propria vita professionale alla ricerca archeologica e spende le proprie energie e le proprie - poche - risorse nello studio e nella contestualizzazione dei siti, quando arriva al mattino e si trova il sito depredato nottetempo! Ogni bene archeologico non ha alcun senso per l’archeologia moderna se non inserito in un contesto il più intatto possibile. L’archeologia è oggi, per fortuna, una scienza storica affascinante che sfrutta indizi Pietro Bozzini è sicuramente al di fuori di questi giochi, ma incensarne la figura unilateralmente finisce per creare un alibi per chi ne segue le orme non per bisogno, ma per un’avidità ottusa che ne fa l’ultima pedina del gioco del commercio clandestino. La stolida cupidigia del tombarolo si vede in casi esemplari come quando, avendo rinvenuto una statua di marmo intatta, da cui potrà ricavare poche migliaia di euro, le rompe un braccio, o la decapita per potere presentarsi dal ricettatore qualche giorno dopo dicendogli: “Guarda, son tornato sul posto e ho trovato ancora questo che potrebbe completarla!” e scucirgli così un’altra manciata di euro. 12 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 quindi non possiamo che augurarci che il desiderio del Bozzini sia rispettato e che tutti gli spilloni vengano davvero seppelliti con chi ne ha fatto uso per non venire mai più utilizzati. Chi, come i volontari culturali, si dedica alla sensibilizzazione della popolazione alle tematiche archeologiche non può che reagire di fronte a questo scempio che è già grave senza che i mezzi di comunicazione presentino questi piccoli criminali come dei Robin Hood o dei Francis Drake dell’archeologia! Ci vengono frequentemente poste alcune obiezioni, frutto dell’ignoranza che ancora è diffusa sull’argomento: cerchiamo qui di dare una risposta definitiva. “Per lasciarli lì, tanto vale che si rivendano e che se ne ricavino subito un po’ di quattrini!” Niente di più falso: un sito archeologico sepolto ha raggiunto un equilibrio delicato ma sostanzialmente stabile; se non vi sono i fondi per indagarlo approfonditamente, può essere lasciato intonso fino a nuovo ordine quando, o per disponibilità di risorse economiche o per un progresso dei mezzi archeologici, non sarà possibile indagarlo! Già oggi l’archeologo ha a disposizione metodi d’indagine insospettabili fino a dieci anni fa: senza nulla togliere all’opera di un Poupé e di uno Schliemann, oggi dai siti da loro indagati si potrebbero ricavare molte più informazioni. “Vi sono tombaroli che per conoscenza del territorio e capacità di scavo darebbero punti a molti archeologi!” Se anche fosse vero, ormai la figura professionale dell’archeologo, frutto di circa otto anni di studio, è caratterizzata da capacità e conoscenze tecniche e scientifiche fuori della portata di qualsiasi autodidatta. Se ammettiamo che la tecnica di scavo sia relativamente semplice da apprendersi, posto che è raro che un tombarolo sappia o voglia scavare archeologicamente un sito, le analisi chimiche e fisiche, i metodi d’indagine non distruttiva, e i mezzi con cui il reperto archeologico viene reso fruibile al grande pubblico sono totalmente preclusi e in definitiva inutili al tombarolo il cui unico scopo è rivendere il pezzo ad un buon prezzo! Gruppo Archeologico Torinese ONLUS Sono tombaroli quelli che riempiono di buchi un castello, a volte minandone la statica, alla ricerca di un tesoro, sono tombaroli quelli che smembrano un manoscritto miniato ritrovato in qualche archivio per ricavare più dalla vendita delle singole pagine che dell’opera integra, sono tombaroli quelli che depredano le navi sommerse, sono tombaroli quelli che, per far prima, fanno saltare con gli esplosivi la cupola di un tumulo etrusco per accedere alla camera funeraria, distruggendo il novanta per cento del materiale ivi contenuto, sono tombaroli quelli che crivellano un sito archeologico cercando chissà che, ma disperdendo informazioni preziose che solo un archeologo potrebbe leggere, sono tombaroli quelli che attendono fuori dagli scavi archeologici che gli operatori vadano a dormire per derubarli nottetempo del materiale rinvenuto. E siamo d’accordo con Pietro Bozzini che profanare siti antichi ingeneri commozione e si debba agire con rispetto: ma indagare un sito archeologico per ricavarne informazioni che arricchiscano la storia dell’uomo è l’unico fine possa motivare quest’attività. Se la piaga dei tombaroli non fosse così diffusa, molte pagine della nostra storia passata non sarebbero così oscure: 13 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Piazza San Carlo SCOPERTE INATTESE E SPERANZE DISILLUSE All’inizio del 2004 sono partiti i lavori per la realizzazione del parcheggio sotterraneo in piazza San Carlo, deliberato nel 2002. Il celebre salotto di Torino sarà riconsegnato ai pedoni, nelle intenzioni della giunta comunale, grazie alla costruzione di un parcheggio per 360 posti auto, collegato a quello già esistente di via Roma; ma il progetto è ancora più ambizioso: saranno infatti create gallerie di collegamento con la metropolitana, che passerà a poche centinaia di metri. Nei mesi scorsi l’iniziativa della nuova sistemazione ha causato accese proteste da parte delle associazioni ambientaliste, le quali sostengono che il parcheggio sotterraneo non è l’unica alternativa per realizzare la pedonalizzazione completa della piazza: in effetti la tanto sbandierata volontà di riqualificazione ambientale del nostro congestionato centro non sembra concordare bene con la moltiplicazione dei parcheggi sotterranei proprio in centro, cui stiamo assistendo… Dal punto di vista tecnico, conseguentemente alle rimostranze di ambientalisti e intellettuali, sono state apportate variazioni alla disposizione delle necessarie ma antiestetiche griglie di aerazione, in modo da ottenere un minore impatto sull’aspetto della piazza. Inoltre, la pavimentazione della piazza sarà realizzata riportando in auge il progetto originario del Castellamonte, con l’eliminazione dei marciapiedi e con il selciato, realizzato rigorosamente con l’utilizzo dei materiali originari, in linea con i portici. Nonostante ciò, sono ancora molti i cittadini e le associazioni che esprimono profonda disapprovazione per l’operato della nostra giunta comunale. Lo sventramento della piazza è stato ovviamente accompagnato dalla supervisione della Soprintendenza ai Beni Archeologici nella persona di Marina Sapelli Ragni, al fine di accertare ed eventualmente documentare presenze archeologiche. Sono affiorate cinque sepolture, all’incirca nell’area antistante il Caffè Torino: si tratta di semplici fosse, realizzate con una fodera in muratura all’interno, secondo una tipologia già riscontrata nelle aree di necropoli esterne alla cinta muraria romana; per ora, l’unico elemento datante è costituito da una piccola moneta, forse tardoromana. Sono riemersi anche i resti del ponte costruito in occasione del matrimonio fra Vittorio Amedeo I e Cristina di Francia, avvenuto nel 1619: il corteo nuziale, superata la Porta Nuova (opera intrapresa per la medesima occasione da Castellamonte), doveva dirigersi verso piazza Castello, valicando con il ponte il fossato che Francesco I di Francia aveva fatto realizzare nel Cinquecento per entrare in città. Il ponte, realizzato con sei campate lignee su tre serie di pilastri, non era terminato nel 1619 e in realtà funzionò per breve periodo: infatti, fu demolito e interrato con il vallo quando dal 1638 s’incominciò a edificare l’area di piazza San Carlo. Gli scavi hanno recentemente portato alla luce i resti della terza serie di piloni, con un tratto di mura a scarpa, che conteneva il vallo, e due bretelle d’ancoraggio. In un’intervista di Maurizio Lupo (La Stampa, Domenica 9 Gennaio 2005) F. Pernice, della Soprintendenza ai Beni Architettonici del Piemonte, ha affermato che molto probabilmente questa testimonianza non sparirà a causa dei lavori: nella rimessa sotterranea che è in corso d’opera, i piloni del ponte messi in luce rimarranno visibili, portati a filo del pavimento. Ulteriori notizie dai quotidiani (“La Stampa” del 3 febbraio u.s.) ci informano del ritrovamento, presso il monumento equestre, di un’abitazione romana del I sec. d.C.; ubicata in area extramuraria, in prossimità della strada che usciva dalla porta meridionale della città romana, si trattava di un edificio rustico, dotato di più vani delimitati da muri in ciottoli legati con malta e munito di un’area adiacente recintata. Secondo le prime interpretazioni, la zona dell’edificio venne poi impiegata come area sepolcrale, come testimoniano i ritrovamenti di un’urna funebre intatta, di elementi ceramici di corredo e di un’anfora segata, probabile sepoltura infantile. Oltre a ciò, i lavori hanno messo in luce anche tre tombini in cemento armato, resti della rete fognaria realizzata negli anni ’30 congiuntamente alla via Roma (scambiati da alcuni sprovveduti e troppo entusiasti passanti per colonne di marmo!) e le fondazioni del monumento a Emanuele Filiberto. Gli scavi condotti in piazza San Carlo hanno avuto per lo meno il risvolto di fugare definitivamente ogni ombra di dubbio (per chi ancora ne avesse avuto) sulla coincidenza fra la piazza e l’anfiteatro di Augusta Taurinorum. Mentre per quanto riguarda il teatro romano possediamo evidenti riscontri archeologici, per l’ubicazione dell’anfiteatro ci si è dovuti limitare a ipotesi, posto che la sua esistenza è quasi certamente postulabile in un centro urbano di tali dimensioni e importanza. La documentazione cartografica su Torino dal periodo tardomedievale in poi non è affatto d’aiuto nello svelare l’arcano; solo una pianta del XIX sec. raffigurante la città e i borghi extraurbani agli inizi del XV sec., evidenzia una struttura di forma circolare-ellittica, che viene definita esplicitamente “anfiteatro romano": tale struttura viene disegnata nell’area compresa tra le attuali piazza S. Carlo, via Roma, via dell’Arcivescovado e via XX Settembre, in antico esterna alla cinta muraria a sud-est della Porta Marmorea. La situazione topografica delineata ben si adatta alla consuetudine romana di porre tale categoria di edifici in posizione extramuranea o comunque marginale, per facilitarvi l’accesso senza sconvolgere la viabilità cittadina e per non secondarie ragioni di ordine pubblico. Secondo una ricerca commissionata dal Comune ai professori Vera Comoli e Luciano Re e approvata da Luisella Pejrani, resti importanti dell’anfiteatro erano ben visibili ancora alla fine del ’500: l’arena in stato di abbandono divenne progressivamente un laghetto paludoso, che poi fu bonificato in occasione della costruzione delle fortificazioni. Oltre all’esistenza di scarse testimonianze documentarie sull’ubicazione dell’anfiteatro, l’unico indizio archeologico a nostra disposizione consiste nella presenza di un grande collettore fognario tra via Roma, via Arcivescovado e via XX Settembre, che potrebbe essere stato destinato allo scarico delle acque di un edificio pubblico di un certo rilievo. Anna Ferrarese 14 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 GUIDA ARCHEOLOGICA DI TORINO Reperibile presso la segreteria del G.A.T.: Via BAZZI, 2 10152 TORINO Tel. 011.43.66.333 il venerdì h. 18-21 offerta minima: Euro 6,00 Formato 15 x 21 cm 112 pagine “Una finestra aperta sul più antico tessuto storicourbanistico della città, per rivivere il passato di quella che fu Augusta Taurinorum mediante i resti archeologici dall’età romana al Medioevo, giunti sino a noi attraverso venti secoli di vicende”. La Guida Archeologica di Torino, concepita nel 1994 dal Gruppo Archeologico Torinese e realizzata grazie alla passione dei Soci, ha rappresentato in assoluto il primo prodotto editoriale dedicato alla divulgazione degli aspetti archeologici della città, presentando analisi monografiche (la romanizzazione, l’evoluzione urbana, l’influenza della diocesi, eccetera) ma anche riportando recenti rinvenimenti archeologici e, soprattutto, realizzando un percorso autoguidato che riportasse tutto quanto è ancora possibile ammirare di romano e medievale nel tessuto cittadino. Questo snello, ma completo libretto è divenuto un vero best-seller tra le guide turistiche torinesi, che da esso hanno attinto per aggiornare le loro conoscenze sugli aspetti più antichi di Torino. La “guida verde”, come viene spesso chiamata, è stata e continua ad essere un valido strumento di valorizzazione dei beni culturali di una città ritenuta sovente, a torto, scarsamente rappresentativa dei secoli romani e medievali. Essendo frutto del lavoro dei volontari, le pubblicazioni del GAT non si trovano in libreria, ma soltanto presso la Sede dell’Associazione o in occasione di conferenze o mostre organizzate dal GAT medesimo. Non hanno dunque prezzo di copertina, ma vengono distribuite dietro un’offerta minima stabilita dal Consiglio Direttivo. Fare archeologia non significa soltanto scavare alla ricerca di nuovi reperti ma vuol dire anche trovare una spiegazione a reperti insoliti o ricostruire modalità di comportamento di popoli antichi; quest’ultima è, in particolare, un’attività tipica dell’archeologia sperimentale. PIETRE D’EGITTO Sperimentazione di un’ipotesi di sollevamento di grandi pesi nell’Antico Egitto Da queste considerazioni ebbe origine, nel 1996, la sperimentazione chiamata “Cheope ‘96” avente il preciso scopo di verificare un’ipotesi di sollevamento di grandi pesi nell’Antico Egitto. Reperibile presso la segreteria del G.A.T.: Via BAZZI, 2 - 10152 TORINO Tel. 011.43.66.333 il venerdì h. 18-21 “Pietre d’Egitto” è una descrizione delle fasi del progetto, dei risultati raggiunti e soprattutto un rimando ad alcuni reperti, spunti di partenza della sperimentazione. Il progetto nacque infatti dallo studio di alcuni oggetti rinvenuti nelle tombe (che potremmo chiamare “dondoli”), piccoli dispositivi descritti da Erodoto di Alicarnasso nelle sue “Storie” come “macchine a travi corti” che sollevavano di gradino in gradino i blocchi per la costruzione delle piramidi. offerta minima: Euro 6,00 Formato 15x21 cm 78 pagine + 24 tavole a colori Edizione 2003 La sinergia attuata tra due diverse associazioni di volontariato, accomunate dal medesimo interesse archeologico, e uno studioso indipendente, ha permesso la realizzazione di un valido progetto di archeologia sperimentale; infatti, senza la disponibilità di tanti volontari che hanno prestato gratuitamente e con entusiasmo la propria opera, il progetto avrebbe difficilmente trovato compiutezza. 15 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 I Taurini invadono Pecetto “IL FERRO DEGLI EROI”: un tentativo vincente di collaborazione fra associazioni Il Gat, dal 1° al 10 ottobre 2004, ha collaborato con l’associazione culturale Terrataurina per la realizzazione della manifestazione “Il Ferro degli Eroi” tenutasi a Pecetto. L’evento è stato un esperimento, pienamente riuscito, di collaborazione delle due associazioni; il Gat ha esposto una mostra inerente la collina torinese in età protostorica con un occhio di riguardo al sito pecettese di Bric San Vito e ha organizzato una gita al sito stesso, mentre Terrataurina ha curato la corposa parte di ricostruzione storica, proponendo, per l’occasione, la “danza delle spade”, ricostruita in via sperimentale con l’indirizzo dell’Ispettore della Soprintendenza dei Beni Archeologici Filippo M. Gambari. Nelle giornate del 1° e dell’8 ottobre sono state proposte delle conferenze, una delle quali presentata dai nostri Fabrizio Diciotti e Luca Nejrotti; gli altri interventi sono stati effettuati da Luisa Ferrero, dallo stesso Filippo Gambari, da Stefania Padovan (organizzatrice dell’evento), da Francesco Rubat Borel e da Giorgio Gay del CAST (Centro di Archeologia Sperimentale di Torino). La manifestazione stessa presentava in sé alcuni aspetti collaterali legati alla storia e all’archeologia. Oltre alle iniziative già citate del Gat e di Terrataurina, l’artigiano Giuseppe Stucchi ha presentato una personale, intitolata “gli Ori dei Celti” di sue bellissime riproduzioni di reperti storici, mentre, Ginevra, moglie di Riccardo Graziano, presidente di Terrataurina, ha proposto una mostra fotografica dal titolo “Emanazioni Celtiche”. A contorno degli eventi ci sono state due serate con riproposizione moderna di cibi celtici ed un concerto d’arpa. Tutte le manifestazioni hanno trovato luogo nei locali messi a disposizione dal comune di Pecetto, mentre la ricostruzione del campo taurino ha trovato posto nel parco Villa Sacro Cuore. L’archeologo sperimentalista Roberto de Riu, con l’aiuto di una sua collaboratrice, ha costruito un forno di terra funzionante, nel quale ha cotto diversi prodotti d’argilla, come era d’uso fin dal Neolitico. Alcuni membri del CAST hanno proposto invece una simulazione di lavorazione di reperti metallici. L’iniziativa ha attirato un folto pubblico dalle colline e dalla città, sia per seguire le conferenze, sia per partecipare agli stage di scherma antica e di tiro con l’arco offerti dai membri di Terrataurina. Il pubblico si è mostrato molto interessato ad una migliore conoscenza della civiltà Celtica e dei Taurini in particolare (alcuni hanno richiesto una foto ricordo con i membri della tribù). Si spera di riproporre una manifestazione dello stesso tipo anche nel 2005, con l’auspicio di collaborare con più Comuni e di attirare ancora più pubblico, nello spirito di favorire una migliore valorizzazione dei nostri beni e della nostra storia. Gianfranco Bongioanni Un saluto e un ringraziamento ai soci GAT che hanno prestato aiuto nella preparazione della mostra e ne hanno garantito la fruibilità: Claudia, Emilio, Enrico, Silvia, Valentina, Viviana, Elena, Valter, Mauro, Tiziana, Maurizio…e tanti altri. Visitatori della Mostra GAT “Archeologia e Volontariato sulla Collina Torinese” attorno alla ricostruzione del castrum di Bric San Vito. 16 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 La Danza delle Spade Ricostruzione sperimentale di pratiche antiche Su proposta ed indirizzo del dott. Filippo Maria Gambari, l’associazione Terrataurina ha sviluppato la ricostruzione di ciò che, indicato dalle fonti scritte latine1, accadeva nella seconda età del Ferro (IV-I sec. a.C.). Lo spunto è nato da alcuni petroglifi, in particolare dalla Val Cenischia dove è raffigurato un guerriero con la spada tenuta in alto e la mano libera appoggiata sul fianco. La peculiarità dell’immagine, esclusa da ogni contesto di combattimento, e la sua rappresentazione nel contesto delle rocce incise, quindi nel campo del religioso e del metafisico, lascia intendere un tipo di danza dalle forti connotazioni spirituali. La tecnica di combattimento dei guerrieri Celti prevedeva l’utilizzo, come descritto dalle fonti2, di una fanteria leggera molto mobile, armata di lancia, giavellotti, spada e scudo, protetti, a seconda delle possibilità economiche del singolo individuo, da corazze di maglia metallica, corpetti di cuoio o elmi. Diventa quindi necessario assicurarsi che il guerriero abbia un compagno a difesa del proprio fianco, per non cadere vittima, nella sua singolarità, del nemico. Si è quindi introdotto l’elemento del “Patto con gli Dei”, ovvero la consacrazione del proprio essere guerriero, e quindi compagno fraterno nella tribù. La cerimonia avviene all’inizio della danza, nella quale i nuovi guerrieri, non ancora ammessi di fatto a pieno titolo nella tribù, sacrificano agli dei celesti e ctonii vino3 o idromele, di esclusivo colore rosso ad indicare il sangue. Se il patto verso la tribù verrà infranto, il sangue del traditore cadrà a macchiare il terreno, perdendo il favore degli dei, in un ottica di divino fatalismo che si riscontra spesso all’interno della civiltà Celtica4. La danza prosegue nelle sue fasi somatizzando e idealizzando i rapporti intertribali fino alla consacrazione dei danzatori come membri a pieno titolo della tribù. L’utilizzo di danze non è raro; compaiono nel famoso letto di bronzo di Eberdingen – Hochdorf, associate ad un contesto funerario, e in vari incisioni su roccia5, conservandosi in parte fino a noi in forma revisionata e mutuata nella forma della “Danza degli Spadonari” nella valle di Susa6. Gianfranco Bongioanni Ricostruzione della DANZA delle SPADE a cura dell’associazione “Terrataurina” su indicazioni di Filippo M. Gambari. Note 1 Livio, Storie, libro XX. 2 Cesare, De Bello Gallico. 3 Similmente al mondo greco. 4 Cfr. Cesare, op. cit. 5 In particolare: Roccia 15 di Vite-Val de Plaha (Paspardo) Val Camonica e Roccia 50 di Naquane (Capo di Ponte) Val Camonica. 6 Massimo Centini, La danza degli Spadonari, su Costume n. 3, Giugno-Luglio 2002 Bibliografia A.A.V.V. Guerrieri, Principi ed Eroi, Provincia Autonoma di Trento, 2004, pp 360-361. Cesare, De Bello Gallico. Livio, Storie. Massimo Centini, La danza degli Spadonari, su Costume n. 3, Giugno-Luglio 2002, pp 23-25. 17 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 SETTORI OPERATIVI del GAT - PROTEZIONE CIVILE S.O.S. mura di Augusta Taurinorum visita per la città. Fatta salva la considerazione che tali risorse non vengano valorizzate momentaneamente ma possano continuare ad essere degnamente presenti, in condizioni “decorose”, nel tessuto urbanistico torinese; è dunque auspicabile che esse non cadano nel dimenticatoio del tempo e nel torpore burocratico, come sino a pochi anni fa. Valter Bonello 4 3 5 6 7 8 † 9 † † 2 † † 1 † † 11 † † † † 10 PIAZZA CASTELLO † † 12 † † † † Siti romani oggetto dell’intervento A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE 13 Altri siti romani nel Centro Storico 1 - Tratto di mura in via della Consolata 2 - Colonna romana reimpiegata 3 - Torre angolare presso la Consolata 4 - Torre nel parch. di p.za Eman. Filiberto 5 - Tratto di mura in via Egidi 6 - Porta Palatina (Porta Principalis Dextera) 7 - Tratto di mura con sopraelv. medievale † Qualcuno dei soci “d’annata” ricorderà che nel 1995 il GAT iniziò, in collaborazione con la Città di Torino, il progetto per la salvaguardia delle “Mura di Augusta Taurinorum”. L’iniziativa riguardava tre aree distinte: il tratto di mura in via Egidi, quello di via della Consolata, la torre del parcheggio sotterraneo di piazza E. Filiberto e la torre angolare sita all’angolo di via Consolata con via Giulio. Ebbene: vorrei rammentarvi che il progetto è sospeso ormai da un bel po’ di anni, perché a partire dal 1999 la convenzione non è più stata rinnovata. Credo che dopo i consensi e i risultati allora ottenuti, l’iniziativa avrebbe dovuto avere un seguito. Ciò non è accaduto, purtroppo. La colpa di chi è? Bella domanda!… Credo che sia una colpa da suddividere tra tutti e che non sia il caso di aprire un processo al passato; analizzando i risultati ottenuti, penso sia possibile ricominciare da capo, magari con piccole “correzioni di rotta” e cercando di coinvolgere più enti pubblici e altre associazioni di volontariato culturale e di Protezione Civile. Riporto di seguito alcuni numeri e dati relativi agli interventi degli anni 1995-1998. Durante gli interventi sono state eliminate 308 siringhe, 72 sacchi d’immondizia, 3 cassette di “sanpietrini” in porfido; nel corso degli anni hanno prestato la loro opera 28 soci del GAT, per un totale di 389 ore di lavoro. Abbiamo così ottenuto la visibilità, sino ad allora perduta o quasi, e la fruibilità dei seguenti monumenti: • Torre Angolare sita in via della Consolata. Quando abbiamo iniziato i lavori essa si presentava come un deposito d’ogni genere d’immondizia e lo strato raggiungeva lo spessore di 20 cm circa, in cui facevano bella mostra di sé siringhe, cartacce, ombrelli rotti, monetine, giocattoli, stracci ed altro. • Mura adiacenti all’ex ufficio d’igiene sito anch’esso in via della Consolata: esse erano praticamente invisibili, perché il sito si era trasformato in una sorta di boschetto in miniatura; un boschetto sporco e disordinato, contenente erbacce giganti, alberi di fico e stentati ippocastani che poggiavano sulle mura e tutto attorno, crescendo in uno strato di humus decisamente atipico, formato da detriti, terriccio, medicinali, siringhe, resti di vaccinazioni e molto altro. In più, l’edera aveva avvolto le mura in un abbraccio devastante. • Le Mura di via Egidi erano diventate un triste rifugio di tossicodipendenti; nella trincea nella quale si ergono le mura è stato raccolto un numero enorme di siringhe, bottiglie di birra vuote, batuffoli di cotone sporchi di sangue, escrementi umani e pezzi di limoni ammuffiti. • La Torre romana ubicata nel parcheggio sotterraneo di piazza Emanuele Filiberto si presentava in buone condizioni, perché i gestori dell’area tenevano pulito il sito. 8 - Tratto di mura e base di torre 9 - Teatro 10 - Torri e fondamenta della Porta Decumana 11 - Reimpieghi presso la Casa del Senato 12 - Pilastro di edificio pubblico 13 - Tratto di mura sotto il Museo Egizio (fuori pianta) - Collettore (parcheggio Via Roma) Mura romane di Torino: volontari non significa operatori ecologici… Fuori da qualsiasi tentativo di polemica, chiariamo comunque che ciò che nel 1988 interruppe il rapporto di collaborazione GAT-Comune fu l’esitazione di quest’ultimo di fronte ad una nostra precisa richiesta: da momento che l’intervento dei soci GAT non poteva limitarsi alla semplice pulizia dei siti (per questo compito esiste l’AMIAT), avevamo chiesto che fosse dato seguito alla seconda parte del progetto, che prevedeva la realizzazione di pannelli esplicativi, di una piccola mostra e la “messa in sicurezza” dei siti tramite piccoli accorgimenti che limitassero la caduta di immondizie all’interno delle trincee. Su questa precisa richiesta cessò la collaborazione, più per ignavia di entrambe le parti nel tentare di arrivare fino in fondo al problema che per l’esistenza di un motivo preciso; il che, dunque, non esclude affatto che il discorso possa essere ripreso con piena soddisfazione di tutte le parti in causa. Contatti informali intercorsi nei mesi scorsi fanno ben sperare che l’iniziativa possa presto tornare ad attivarsi. Spero che la ripresa del progetto sia possibile al più presto, dal momento che si avvicina la data in cui si terranno le Olimpiadi Invernali del 2006, occasione durante la quale Torino accoglierà molti visitatori. Poter avere le testimonianze del nostro passato, anche se poco monumentali, accanto a quelle moderne sarebbe senz’altro un buon biglietto da Fabrizio Diciotti 18 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 I rapidi scavi di Pariol QUANDO L’ESIGENZA DI TUTELA ARCHEOLOGICA NON VIENE DEL TUTTO ATTESA Nell’estate del 2003, nel corso dei lavori di scavo per la realizzazione della pista olimpionica da bob, in località “Pariol” di Cesana (poco altre il bivio per S. Sicario), grazie agli archeologi incaricati dell’assistenza ai cantieri, nell’area che verrà destinata a parcheggio durante i giochi olimpici invernali del 2006 sono venute alla luce tracce di insediamento di età storica. La campagna di scavo che ne è seguita fra luglio e ottobre 2003 ha permesso di indagare completamente l’area a ridosso della scarpata dell’altopiano, localmente definito “Pian Giacomé”, dove si trovava una necropoli; i lavori dell’area centrale del pianoro, relativi all’area insediativa, sono stati interrotti dalle prime nevicate e non sono mai ripresi. La necropoli ha restituito tracce di tombe, quasi una decina, piuttosto rudimentali, rimaneggiate e molto mal conservate. Si tratta di sepolture terragne, alcune delle quali con corredo (vasellame e monili), con accenni di cassa litica e, in alcuni casi, con tracce lignee che saranno d’ulteriore aiuto nel collocare cronologicamente l’insediamento di Pariol. L’area abitativa più al centro dell’altopiano consta di un grande edificio quadrangolare in muratura (conservato a livello di fondazione) a ridosso del quale si è trovata traccia di un focolare e un’area insediativa delimitata da numerose buche di palo, ricca di materiali, tra cui numerose monete di bronzo. Una prima analisi dei materiali condotta già in fase di scavo ha fatto pensare ad un insediamento databile a partire dalla tarda età romana (IV-V sec.) fino al VI-VII sec. d.C.. Un insediamento del genere, data l’ubicazione strategica, dovrebbe permettere (o forse è più corretto e realistico dire “avrebbe dovuto permettere”) di rileggere il ruolo del valico del Monginevro, rispetto al più trafficato (in epoca storica) valico del Moncenisio. Purtroppo, tutto è stato fatto di corsa e con affanno: loro malgrado, gli archeologi hanno dovuto lavorare in tempi ristrettissimi e il sito non è stato scavato in modo esaustivo. Pare che i giochi olimpici siano decisamente più importanti dell’archeologia e della storia (soprattutto, questo è sicuro, “rendono” molto di più). Ancora una volta si è persa un’ottima occasione per valorizzare la nostra storia e per creare, in alta Valle di Susa, un centro importante per lo studio della Storia alpina e un polo duraturo di attrazione valorizzando un sito che, se fosse stato scoperto pochi chilometri più a Ovest (in Francia, tanto per capirci), sarebbe stato oggetto di maggiori attenzioni. Visitare, per credere e capire, il museo di Sollier appena oltre il Moncenisio. Da noi, un’indagine veloce, qualche foglio di nylon, uno strato di terra, le ruspe che ci camminano sopra, cemento, asfalto… L’Agenzia per lo svolgimento dei XX Giochi Olimpici Invernali “Torino 2006” (sia detto di sfuggita: plurindagata per sospetta turbativa d’asta relativa agli appalti) ha promesso che a fine competizione l’area verrà restituita alla Soprintendenza per ulteriori indagini. Visti gli interventi eseguiti, chissà in quale stato l’area verrà restituita e con quali fondi si potrà ancora indagare lassù, a Pariol; fino ad allora, in compenso, potremo consolarci facendo una bella discesa sul bob e scivolando… sopra il sito archeologico! Alberto Perino Il Museo Archeologico di Sollier (Francia). ARCHEOLOGIA VIVA Giunti Editore - Via Bolognese, 165 – 50139 FIRENZE Tel. 0555062298 e-mail: [email protected] - www.archeologiaviva.it SCONTI PER I SOCI DEI GRUPPI ARCHEOLOGICI D’ITALIA Abbonamento alla rivista bimestrale a 22,40 Euro, anziché 26,40 Euro, per nuovi abbonamenti, per rinnovi alla scadenza e abbonamenti regalo a terzi (da parte dei soci). Chiedi informazioni in Segreteria. Sei un nuovo socio GAT o stai per diventarlo? Conoscere la Torino romana e medievale è facile! Ogni socio ha diritto di ottenere gratis una pubblicazione tra quelle edite dal GAT. Chiedi la tua copia in segreteria (all’atto dell’iscrizione oppure, se sei già socio ma non hai ancora ritirato la tua pubblicazione, presentando la Tessera). 19 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 PROGETTI del GAT • www.archeocarta.it Maometto in Val Susa Il progetto GAT per la realizzazione di una “Carta Archeologica del Piemonte” consultabile da Internet sta procedendo a grandi passi. Un mese fa si è conclusa la prima parte dell’iniziativa e ora si sta lavorando per richiedere alla Regione Piemonte (nostro sponsor in questa vicenda) i fondi per procedere con la seconda tranche di lavori. Quanto sin qui realizzato, grazie allo sforzo di tanti volontari che hanno redatto le schede presenti sul sito www.archeocarta.it, è comunque già un prodotto dal valore inestimabile: in attesa di poter terminare la mappatura di tutti i siti archeologici piemontesi (il lavoro è lungo ma stimolante e tutti siete invitati a partecipare), è stato raggiunto il primo obiettivo di inserire nel database tutti i musei archeologici della provincia di Torino. In questo articolo presentiamo una delle schede presenti in Internet, relativa ad uno dei siti più interessanti, misconosciuti e, purtroppo, a rischio della Valle di Susa: l’area del cosiddetto “Maometto”. “Maometto” di Borgone di Susa cane: numerose dediche a lui rivolte sono state trovate soprattutto nelle regioni romane IX e XI. Il Ferrua leggeva le lettere NO, davanti alle quali credeva di individuare anche le tracce di VA. Quindi Sancto Silvano sarebbe la sua lettura. Il Carducci pensava di riconoscervi Giove Dolicheno che cavalca un toro. Si tratta di una divinità di origine asiatica, il cui culto si sviluppò specialmente nell’ambiente legionario e nei posti di frontiera romani, intorno al II secolo dell’Impero. Giove Dolicheno era uno dei titoli con cui il Padre degli Dei era venerato presso i soldati, e tale culto si diffuse con gli spostamenti delle legioni nelle varie zone di confine. Doliche era infatti una cittadina della Commagene (paese ai confini fra la Siria romanizzata e la Persia sasanide) in cui esisteva un famosissimo tempio a Giove (detto perciò Dolicheno). L’ipotesi del Carducci sembra avvalorata da alcuni ritrovamenti effettuati sull’altura del masso erratico: una decina di monete, prevalentemente degli Antonini, e una piccola aquila di bronzo del tipo che si ritrova comunemente sotto le immagini del Dolicheno. Il bassorilievo doveva essere in rapporto con una via esistente, dal momento che questi monumenti erano predisposti per essere visti dai viaggiatori. Il Carducci si spinge anche a un’interpretazione generale della zona, caratterizzata da una strettoia nata da un masso erratico precipitato vicino alla parete rocciosa, e considera la sommità del masso come un punto strategico di osservazione e di controllo di un lungo tratto della via delle Gallie. La sua ipotesi di “posto di frontiera da identificarsi forse con quel ad Fines ricordato negli Itinerari” è però azzardata. Restano ancora inspiegabili i segni incisi nelle rocce sovrastanti: tre grosse macine incompiute, ancora attaccate alla parete della roccia, e numerose coppelle che hanno fatto attribuire alla località anche il carattere di zona sacra, forse legata a particolari cerimonie stagionali. La parte superiore del masso stesso è ricoperta da uno strato di terreno vegetale su cui crescono arbusti e specie erbacee non più comuni nella zona. Inoltre, nel punto centrale di questa piattaforma venne in luce una sepoltura con lo scheletro deposto nella nuda terra, senza copertura, ma con una fila di lastroni per ogni lato, paralleli alla lunghezza del corpo. La sepoltura sembra attribuibile ad epoca preromana, 3.000-3.500 anni fa, nonostante le difficoltà di datazione derivanti dalla mancanza di corredo. Allo stesso periodo sono forse da riferire diversi fori a nicchia scavati nella parete rocciosa che fronteggia il masso. Sono buchi di grandezza variabile da 10 a 20 cm, tondeggianti, più larghi internamente, destinati a ricevere offerte, secondo la prassi di origine preromana. Un piccolo cenno va fatto anche alle strutture murarie individuate nell’area limitrofa, verso Ovest. Costruite a secco con pietre di dimensioni e forme alquanto irregolari, sembrano Localizzazione: Borgone di Susa, frazione San Didero, regione Maometto. Orari di apertura: accesso libero (situato nel bosco non sono previsti biglietti di ingresso, né visite guidate o servizi di alcun tipo). Fase cronologica: età romana (presumib. II-III secolo d.C.). Descrizione del sito e dei ritrovamenti: in un boschetto di acacie fra Borgone e San Didero, è visibile ancora oggi, scolpito in loco, a circa quattro metri dal suolo, sul lato nord di un gigantesco masso franato dalla vicina parete montana. A forma di tempietto misura cm. 80 x 65 e reca sul frontone triangolare (cm. 18 x 65) tracce di un’iscrizione latina su tre righe, ormai indecifrabile a causa della corrosione atmosferica. La forma delle lettere fa supporre una datazione al II-III secolo. L’ultima riga, la più leggibile, ci dice che si tratta di un exvoto ad una divinità. Sono infatti ancora visibili le lettere V M che possono essere interpretate come V(OTUM) M(ERITO), V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito) secondo altri. Nel rettangolo dell’edicola, sopra una base quadrata (forse un altare), è raffigurato un personaggio maschile, frontale, dall’aspetto sproporzionato, a braccia aperte alzate, vestito di una tunica stretta alla vita. Dietro il corpo si distingue un mantello drappeggiato che discende dalle spalle e si raccoglie a sinistra lasciando libere le braccia. Sul lato destro, ai suoi piedi, è individuabile un animale rivolto verso di lui, probabilmente un cane. L’opera è conosciuta come ”Maometto", nome da attribuire alle credenze popolari della Valle di Susa, che fanno risalire ai Saraceni tutte le opere antiche e le tradizioni di cui non si conosce l’origine. Sarebbe interessante identificare il personaggio scolpito, anche per meglio interpretare la funzione del luogo: varie sono state le ipotesi, tutte ancora da verificare. La scena dell’uomo con il cane fa pensare a un monumento funerario, dato l’uso assai comune di ritrarre col defunto il compagno di caccia o l’animale favorito. Di ostacolo a questa interpretazione sono però l’iscrizione dedicatoria del frontone e il piedistallo. In base alle tracce dell’iscrizione, il Doro avanzò l’ipotesi del carattere dedicatorio dell’opera e pensò all’identificazione con il dio Vertumnus, di tradizione italica, personificazione del rinnovamento agricolo stagionale nella mitologia latina provinciale, spesso rappresentato in compagnia di un cane. Effettivamente, nella terza riga dell’iscrizione sembra di poter leggere le lettere ...E...TU...NUS. Il Ferrua propendeva invece per un’attribuzione al dio Silvano, divinità agreste, frequentemente ritratto con l’attributo del 20 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 A sinistra, l’edicola romana fotografata nel 1983 (A. Perino), oggi più degradata anche a causa dei ripetuti calchi (anche abusivi) che hanno provocato il distacco di piccole porzioni di roccia. Nel tassello è riprodotta l’iscrizione interpretata da Ferrua nel 1971 (tratta da: “Segusium” - VIII). La foto in basso (Santacroce, 1963) evidenzia l’intera area: nel cerchio, la porzione di roccia che ospita l’edicola. A destra sono visibili le poderose strutture murarie di incerta datazione, indagate senza risultati esaustivi nel 1984. essere state realizzate tra la fine dell’Età del Bronzo e la prima fase dell’Età del Ferro, all’incirca nel II millennio a.C. È possibile che il carattere religioso del luogo abbia avuto seguito dall’età preistorica all’epoca romana, e ancora in epoca recente con la credenza nelle “masche” e la fama di regione infausta. Poco distante sono stati rinvenuti anche frammenti ceramici e tegole di età romana, vetri, lucerne, bronzi, monete di II-III d.C. e un tratto di strada. Nome del rilevatore e G. A. di appartenenza: Gabriella Monzeglio - G.A. Torinese Data ultima verifica sul campo: 30 settembre 2002 Data compilazione scheda: 13 ottobre 2002 Bibliografia: LANZA E., MONZEGLIO G., 2001, I Romani in Val di Susa, Ed. Susa Libri, pp. 85-88 BRECCIAROLI TABORELLI L., 1992, L’iscrizione rupestre di “Maometto”presso Borgone di Susa (Alpi Cozie), in “Rupes Loquentes, Atti del Convegno Internazionale di studio sulle iscrizioni rupestri di età romana in Italia ”(1989), Roma, pp. 33-48 FERRUA A., 1971, Nuove osservazioni sulle epigrafi segusine, in “Segusium", VIII, p. 42 CARDUCCI C., 1968, Arte romana in Piemonte, Torino, p. 21 DORO A., 1947, Bassorilievo romano inedito in Val di Susa, in “Bollettino SPABA", nuova serie, I, pp. 15-19 IL “MAOMETTO” E L’ALTA VELOCITA’ TAV = Treno Alta Velocità = Terremoto Ambientale (e Archeologico) Valsusino Chi percorre la Valle di Susa rimane colpito dalla quantità di scritte NO TAV. Ve ne sono un po’ ovunque: verniciate sulle rupi a picco o sui muraglioni di contenimento, dipinte con perizia e pazienza su cartelli in mezzo ai prati, graffite a spray un po’ ovunque e, ancora, sui pannelli della Comunità Montana con l’indicazione dei luoghi turistici oppure sulle bandiere in qualche caso sbiadite che sfidano il ben noto vento valsusino. Sono la punta visibile di quel grande iceberg che è l’opposizione (finora vincente) di tutta la gente della valle a un’opera che vuole distruggerla in nome di un progresso effimero, inutile e demenziale. I progettisti di quest’opera devastante e insostenibile hanno deciso di sacrificare la valle, i suoi abitanti e le sue bellezze artistiche e naturali sull’altare delle grandi opere strategiche costruito su un cumulo di menzogne e di dati falsi. L’ultimo progetto partorito prevede una linea per due terzi in galleria; dunque la Valle è salva ma i suoi abitanti cosa vogliono? Di cosa si lamentano? Forse non vogliono morire e per questo protestano e si oppongono in modo vincente ormai da 14 anni a quello che in loco è chiamato semplicemente TAV o meglio NO TAV. Sì, perché nelle montagne della Valsusa c’è amianto e uranio in quantità e quindici anni di polveri e di cantieri (per capire cosa sono i cantieri della TAV basta percorrere la A4 da Torino a Novara, aprire bene gli occhi e immaginare quel disastro in Valle di Susa) sono in condizione di uccidere di tumore cinquemila persone in una ventina d’anni. Ma, dirà qualcuno, il cantiere TAV ha portato alla luce e studiato a sue spese (a nostre spese) dei siti archeologici che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti come ad esempio l’insediamento rurale con la villa rustica di Brandizzo. Certamente, ma poi tutto è finito distrutto sotto il cantiere della linea ferroviaria AV/AC Torino Novara, e ai comuni mortali è rimasta una semplice pubblicazione: nessuna fruizione diretta, qualche notizia stampata per i posteri. E tutto questo a che prezzo? E a vantaggio di chi? Ma soprattutto, a spese di chi? Anche la zona archeologica del “Maometto” di Borgone Susa, se la linea TAV venisse realizzata, rischierebbe di essere distrutta. La galleria artificiale realizzata a completamento di quella Borgone / Caselette dovrebbe passare esattamente in quest’area; ad una precisa domanda posta a fine 2004 dallo scrivente alla Soprintendente e al funzionario dott. 21 Barello (in occasione della presentazione ufficiale degli “scavi” dell’insediamento rurale di Brandizzo) in merito al sito del Maometto interessato dagli eventuali lavori TAV è stato risposto che “si sta studiando il problema, ma con tutta probabilità la cosa finirà come per Brandizzo”. D’altronde, sul sito di Montagne Doc (sponsor turistico delle olimpiadi invernali 2006) si scrive che il bassorilievo è già stato messo al sicuro nel museo di antichità di Torino: “Di età romana è invece il manufatto più celebre di Borgone, il “Maometto”, stele funeraria raffigurante un uomo con un cane, custodita al museo torinese di antichità”. Hanno già messo le mani avanti. Fortunatamente i valsusini sono tosti e compatti. Le amministrazioni ferme nella difesa a oltranza del territorio. I soldi per l’opera non si trovano nonostante la contabilità creativa del Governo. L’Unione Europea per ora, i finanziamenti li passa con il contagocce e quelli che vengono approvati non sono sufficienti a coprire i progetti e gli studi. La valle infuria / L’euro manca Sulla TAV sventola / Bandiera bianca Alberto Perino Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 I Longobardi a Collegno DAI LAVORI PER LA METROPOLITANA TORINESE A UN GRANDE EVENTO ARCHEOLOGICO Dopo Testona, Rivoli, Carignano e Torino, nuove presenze longobarde emergono dal sottosuolo. Nel 2002 i lavori per la metropolitana misero in luce uno dei più importanti rinvenimenti in ambito piemontese, che ha contribuito a far luce sulla cultura longobarda nella nostra regione. L’iter longobardo ebbe inizio dalla Scandinavia e condusse il “popolo dalle lunghe barbe” attraverso la Germania fin nell’antica provincia romana della Pannonia. Nel 568 d.C. ripartirono al seguito del loro re Alboino alla volta della penisola italica che occuparono, non mancando di fare tappa a Collegno! Proprio qui infatti sorse un insediamento, di cui ancora non si conoscono i reali confini, che aveva una probabile funzione militare di controllo della zona al confine con le Alpi occidentali. Era un villaggio fatto di semplici capanne, con il focolare all’esterno, ad un solo vano nella maggior parte dei casi, e ve n’è anche qualcuna con piano di calpestio ribassato, alla maniera longobarda. Vicino all’abitato, a circa 40- 50 m, sono state trovate quattro sepolture gote appartenenti ad individui di alto lignaggio, visti i ricchi corredi, e che forse coesistettero con l’arrivo delle nuove genti. Ciò che ha più destato l’interesse generale, però, è stato il rinvenimento della necropoli relativa al villaggio, da questo distante solo trecento metri. Una necropoli fedele alla tradizione germanica, un “cimitero a file” che seguono la direttrice nord-sud e con sepolture orientate est-ovest in cui il defunto, supino, ha la testa ad occidente. Dalle analisi si sono potute distinguere tre fasi della necropoli; ma non solo: è stato possibile perfino ricostruire veri e propri legami famigliari! Le tombe scavate sono 73 e quelle relative al primo periodo non erano semplici fosse, ma, come fanno intuire le buche di palo agli angoli, erano delle costruzioni con elevato in legno che riproducevano le case “dei vivi”, esempi simili sono stati ritrovati in Pannonia ed in altre zone d’Europa. Appartenevano a coloro che avevano seguito Alboino in Italia, infatti le sepolture sono datate dal 570 d.C., e che usavano ancora seppellire il cavaliere, oltre che con il suo ricco corredo, anche con il suo fedele cavallo decapitato, come da rituale! Purtroppo nel nostro caso la sepoltura contiene soltanto i resti equini e non quelli del legittimo proprietario, poiché le opere di ribonifica dagli ordigni bellici avvenute in passato hanno asportato parte della necropoli, e probabilmente la parte più antica! Sempre a questo primo periodo risale il cosiddetto “ratto delle donne burgunde”. Le uniche due sepolture femminili, dalle analisi imparentate e forse madre e figlia, recavano due fibule di manifattura “straniera”, merovingie per la precisione, che ci riportano oltre le Alpi, all’attuale Svizzera, allora territorio burgundo. Sappiamo che spesso i Longobardi si recavano a nord per incursioni e razzie, e forse, in una di queste occasioni, insieme all’ordinario bottino portarono al loro villaggio (dopo averle rapite?) le due donne. E’ stata l’unicità delle due presenze femminili nella prima fase della necropoli a far pensare ad un insediamento militare. Sarà pur vero che i Longobardi arrivarono in Italia portando tutte le loro genti, mogli e bambini, così come ci tramanda Paolo Diacono, ma sembra essere certo che di loro, a Collegno, vi giunse solo una parte di uomini, di guerrieri. Nella seconda fase, riferibile alla metà del VII secolo, l’identità etnica persiste, vi è ancora un attaccamento alla cultura originaria. Non sono più presenti le sepolture con l’elevato ligneo, ma i corredi, nonostante la riduzione degli oggetti, continuano ad esserci. Il corredo è un elemento fondamentale perché riflette l’identità sociale dell’individuo. Il defunto veniva sepolto con il suo abbigliamento più ricco: le donne con gioielli, pettini ed amuleti, gli uomini, i guerrieri con le cinture e le loro armi, cioè la spatha, lo scramasax, lo scudo, la lancia. Comune era l’uso di deporre anche dei vasetti di ceramica o contenitori all’interno della sepoltura, che però, curiosamente, nella nostra necropoli a Collegno non troviamo affatto se non una coppetta ceramica ed una bottiglia in vetro di epoca romana! Forse venivano utilizzati solo contenitori in legno che non si sono conservati fino a noi. Nell’VIII secolo, e ultima fase, il cristianesimo ha ormai preso piede e notevoli sono i cambiamenti che determina: il corredo è inesistente, il rituale fune22 rario non comporta che un sudario avvolto intorno al corpo del defunto a sua volta deposto in semplici fosse di terra sempre più strette. Anche lo stile di vita cambiò: il popolo di guerrieri divenne un popolo prevalentemente di agricoltori. Tutte questo è stato ripercorribile e splendidamente rappresentato nella mostra “Presenze Longobarde: ori, armi e gesta della fara di Collegno” tenutasi alla Certosa Reale di Collegno tra il 18 aprile ed il 20 giugno 2004 e poi prorogata per il grande successo. L’allestimento ci ha proposto i primi risultati ottenuti dagli scavi diretti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e dal restauro degli oggetti effettuato dal Laboratorio del Museo di Antichità di Torino. L’excursus espositivo della mostra è stato articolato sulla ricostruzione della storia di dodici abitanti dell’antico villaggio situato lungo il corso della Dora e raccontata tramite i loro corredi funebri, i loro oggetti personali. Il tutto è stato accompagnato da esaustivi pannelli esplicativi ed è stato reso possibile grazie ad una collaborazione interdisciplinare fra archeologi, storici ed etnoantropologici. Il visitatore, catapultato nella realtà di mille e quattrocento anni fa, ha potuto rivivere la quotidianità di allora, ricostruendo un mondo di cui talvolta sembra si sia parlato troppo, il mondo di un popolo, i Longobardi, che sembra fin troppo conosciuto ma che, invece, non smette mai di stupirci e di far parlare di sé. Manuela Mazzon Eccezionale pendente in bronzo con insolita agemina in argento, dalla tomba 47, raffigurante una testa di cinghiale stilizzata: si notino le zanne acuminate (dal catalogo della Mostra). Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 ATTIVITÀ del GAT Un pannello per BRIC SAN VITO È infine giunto alle fase finali di realizzazione il pannello per il sito di Bric San Vito, realizzato dal GAT grazie alla collaborazione di Pronatura, degli Alpini di Pecetto, del Comune di Pecetto e soprattutto della Provincia di Torino. I dati sono desunti dalle pubblicazioni del GAT medesimo, già da tempo visionati dai responsabili della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte. Quanto prima il pannello, conforme a quelli già visibili lungo i sentieri collinari torinesi, sarà collocato sulla sommità del sito, consentendo finalmente ai frequentatori dell’area di poter capire e apprezzare il luogo in cui si trovano. L’intento dell’iniziativa è di fornire informazioni sufficientemente complete e, contemporaneamente, promuovere la salvaguardia attiva del sito. 23 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 I Liguri, gente da scoprire A GENOVA UNA FINESTRA SUL PASSATO SU UN POPOLO CHE SAPEVA FARSI RISPETTARE Dal 23 ottobre 2004 al 23 gennaio 2005 si è tenuta a Genova, nel Palazzo della Commenda di San Giovanni in Prè, la mostra intitolata “I LIGURI. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo”. Attraverso un alto numero di reperti di provenienza italiana e internazionale, calchi di incisioni, statue-stele, narrazioni di storici greci e latini, pannelli didattici, plastici, stratigrafie ricostruite e testimonianze di studi ottocenteschi, l’esposizione costruisce un percorso di visita che inquadra nello spazio e nel tempo il popolo dei Liguri, racconta la vita quotidiana dal paleolitico all’età romana, presenta i metodi di ricerca dell’archeologia, propone i problemi interpretativi derivanti da tale attività, traccia la storia dei primi contatti tra le genti europee e del successivo ampliarsi dei traffici commerciali e dei processi di acculturazione. Organizzata su tre piani nei suggestivi ambienti duecenteschi della Commenda, la mostra è allestita secondo i più moderni criteri espositivi: pochi ma significativi reperti per ogni vetrina, plastici ricostruttivi, disegni, testi esplicativi e, nota originale, alcune campane sotto cui il visitatore può posizionarsi per ascoltare la lettura di brani su mito e storia dei liguri tratti dai testi di autori greci e latini (Erodoto, Polibio, Livio, Strabone). La prima sezione della mostra introduce il pubblico tra mito e storia, confrontando i dati delle fonti antiche con quelli dei reperti archeologici. Con le descrizioni storiche di un popolo dall’indole forte e rude, di variegata composizione etnica, sparso su un areale molto vasto dell’Europa occidentale, si intrecciano le leggende su Cicno, mitico re dei Liguri, talvolta musico tramutato in cigno dal dolore per aver perso l’amico Fetonte figlio del Sole, talvolta spietato figlio di Ares sconfitto da Eracle durante il suo viaggio verso Occidente. Le statuette bronzee di Eracle di ambito etrusco, le anfore calcidesi con la lotta tra Cicno e l’eroe greco, prestiti di musei parigini, londinesi e monegaschi, testimoniano il culto per l’eroe civilizzatore e la simbologia funebre da sempre legata alla figura del cigno in tutto l’ambito mediterraneo. Il dato storico corrispondente a queste leggende risiede nell’effettivo controllo che il Liguri detenevano dei valichi tra Italia, Francia e Spagna, probabile ostacolo alle prime spedizioni via terra verso occidente dei Greci. La seconda sezione ha lo scopo di raccontare il rapporto tra ambiente e uomo nell’evoluzione economica, culturale e sociale avvenuta col passaggio da paleolitico a neolitico, mettendo in mostra utensili litici, falcetti, pesi da telaio, forme ceramiche progressivamente più raffinate. I primi tentativi di sopravvivenza erano basati sull’adattamento dei gruppi umani al paesaggio esistente e si configuravano essenzialmente come attività di caccia e raccolta. Il progressivo aumento dello sfruttamento delle risorse naturali disponibili, gli scambi tra le genti, la scoperta dell’agricoltura e della pastorizia, la pesca, lo sfruttamento delle risorse minerarie (a Monte Loreto-GE sono documentate le più antiche miniere dell’Europa occidentale, 3600-2200 a.C.) hanno trasformato l’azione dell’uomo, che è diventato capace di modellare l’ambiente a suo vantaggio. Già nel III millennio a.C. sono documentati i primi terrazzamenti per far fronte all’ostilità del territorio ligure e poter praticare l’agricoltura, attività che, assieme alla pastorizia, rimarrà una costante fondamentale dell’economia di questo popolo ancora in età romana. Nell’Età del Rame la vita di questi uomini, essenzialmente dediti alla transumanza tra costa e montagna, si arricchisce di forme di culto legate all’ambiente, non ancora completamente chiare per gli archeologi. Ne sono espressione le statue-stele (gli esemplari qui esposti provengono soprattutto dal Museo delle Statue Stele Lunigianesi del Castello del Piagnaro di Pontremoli), in arenaria, raffigurazioni stilizzate di individui maschili e femminili: secondo le ipotesi più recenti si tratta di personaggi eminenti, antenati capostipiti di clan e lignaggi posti a protezione di pascoli, giacimenti minerari, vie di comunicazione, percorsi sacri, confini. Anche le oltre 40.000 incisioni rupestri del Monte Bego, nella Valle delle Meraviglie (Alpi Marittime), qui riprodotte su grandi calchi del Musée Depertamental des Merveilles à Tende, sono la traccia di riti e culti celebrati negli alpeggi ad alta quota da queste popolazioni agro-pastorali. Il tentativo di individuare l’origine del popolo ligure tra Età del Bronzo ed Età del Ferro, attraverso complessi processi di acculturazione e di etnogenesi, costituisce l’oggetto della terza sezione dell’esposizione. Le diversità già presenti dal 1600 a.C. tra i popoli dell’Italia nord occidentale e il mondo padano e peninsulare, si accentuano tra 1200 e 900 a.C., quando si individua una nuova facies culturale (Alba-Solero - S.Antonino di Perti) che nella produzione ceramica risulta nettamente distinta dalla cultura di Canegrate padana. Risente invece degli influssi transalpini occidentali del gruppo RenoSvizzera-Francia Occidentale della cultura dei Campi d’Urne innestati su una tradizione locale. Attraverso i reperti ceramici provenienti da musei italiani e francesi si delineano i caratteri comuni e gli elementi ricorrenti che rivelano l’omogeneità culturale: boccali e tazze dal corpo globoso o troncoconico e poi scodelle carenate, decorate con cordoni digitati, fasci e festoni di scanalature e coppelle con centro rilevato, distintive delle regioni nord-occidentali fino all’Età del Ferro. Anche la metallurgia, che poco a poco sostituisce l’industria litica, contribuisce a formare l’identità dei popoli, attraverso la figura dei fabbri itineranti che intrecciano relazioni, trasportano conoscenze e diffondono tecniche e decorazioni. E’ in questo periodo che nasce il ruolo di guerriero, legato al possesso di armi (spade lunghe e corte, lance, elmi) che conferisce prestigio all’interno della comunità; da Godiasco (Pavia) e Casalgrasso (Cuneo) provengono esemplari di armi gettate nel Po, doni alle divinità acquatiche e delle vette dei monti o volontà di rendere le armi inaccessibili a chiunque una volta morto il guerriero proprietario. Le abitazioni, raggruppate in piccoli insediamenti sulle sommità oppure su terrazzi a fondovalle e costieri, erano 24 semplici edifici a vano unico, in legno, rami, paglia pressata e stucco d’argilla, con focolare esterno. Accanto sorgevano le necropoli: dall’Età del Bronzo recente i defunti vengono cremati, i resti deposti nelle urne che, insieme al corredo funerario, vengono collocate nelle tipiche tombe liguri a cassetta litica. La quarta sezione è dedicata ai rapporti tra Liguri e i popoli che nell’Età del Ferro sviluppano grandi nuclei protourbani e urbani, creano società dominate dall’aristocrazia, vedono emergere i ruoli di sacerdoti, principi, guerrieri, mercanti: Etruschi, Celti e Greci. 9 tombe erano presenti anche rami di mirto (le cui impronte sono rimaste per ossidazione sui recipienti in bronzo), pianta legata al culto dei morti, sacra a divinità femminili e a Dioniso. Le tre sezioni successive ripercorrono la storia dei rapporti, essenzialmente di natura bellica, tra Liguri e Romani. Lo scontro tra queste due popolazioni durò oltre un secolo: le linee di fronte segmentate, la frammentazione tribale dei Liguri, le lotte intertribali, la geomorfologia del territorio, il modello insediativo sparso e l’economia agropastorale costrinsero i Romani ad alternare periodi di aspro conflitto e di riappacificazione, mettendo in pratica strategie molto varie di conquista e assoggettamento del territorio. La deduzione di colonie, la bonifica dei territori, le sistemazioni agricole e amministrative, la creazione di assi viari a lunga percorrenza, la realizzazione di opere monumentali ne sono un esempio. Tra i reperti esposti va citata la Tabula alimentaria dei Ligures Baebiani (dal Museo Nazionale Romano) con le razioni alimentari previste per i prigionieri, i corredi ricchi di armi dei guerrieri Liguri, le sculture frontonali in terracotta dal Grande Tempio della colonia romana di Luni (dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze), la Tavola di Polcevera o Sententia Minuciorum (117 a.C.) con un arbitrato giuridico del senato romano per risolvere una contesa sull’attribuzione di un’ampia area territoriale. Roma ha ormai il controllo politico, sociale ed economico della regione. L’ultima sezione della mostra presenta il tema del Ligurismo, ovvero quegli studi e quelle ipotesi sviluppatesi attorno a teorie e ritrovamenti volti alla ricerca, più o meno consapevole, dell’origine dei Liguri. Dalle ricerche cinquecentesche all’antiquaria del Settecento, dagli studi positivisti ed etnoantropologici ottocenteschi alle ricerche etnografiche e folkloriche della prima metà del XX sec, questo tema si è sempre intrecciato con il mito del mercante e della naturale intraprendenza dei genovesi. Questa sezione, all’interno di una mostra archeologica, ha l’intento di presentare il passato dei moderni studi archeologici, che da questo si sono ormai distaccati senza però perderne la memoria perché parte del patrimonio culturale e della storia della scienza di ogni paese moderno. Esiste anche un sito Internet dedicato all’evento: www.archeoge.arti.beniculturali.it/liguri/index.htm Particolare della ricostruzione della necropoli di Chiavari. I dati archeologici emersi dall’analisi della necropoli a incinerazione di Chiavari (GE), in uso tra fine dell’VIII e inizio del VI sec. a.C., in parte riprodotta nei locali della mostra a grandezza naturale, documentano questo contesto di scambi commerciali e culturali. Tra i decori delle ceramiche, le armi spezzate o ripiegate ritualmente, le fibule (ad arco serpeggiante, a drago, a navicella, a sanguisuga, ad arco composto), gli orecchini a paniere in lamina d’oro, i pendagli a melagrana si leggono gli influssi etruschi e dei golasecchiani stanziati a nord del Po. Il crescente aumento di insediamenti presso le foci dei fiumi e le insenature naturali testimoniano la crescente importanza dei traffici commerciali e degli scali per le imbarcazioni che risalivano la costa verso la Francia meridionale, spesso collocati anche allo sbocco di importanti vie di penetrazione verso l’interno. Questi luoghi erano frequentati principalmente da Etruschi, ma i materiali archeologici ci parlano anche di contatti con le altre culture europee: hallstattiana, golasecchiana, villanoviana, orientalizzante, greca e forse anche fenicia. Tipico esempio di vivace emporio commerciale e cosmopolita è Genova, a cui è dedicata la quinta sezione della mostra, con i reperti provenienti da oltre cinquant’anni di scavi nel cuore della città antica. E’ la creazione dell’oppidum etrusco attorno al 500 a.C. sulla Collina di Castello che dà l’impulso necessario allo sviluppo di attività mercantili e manifatturiere: in quello che Strabone definisce emporio dei Liguri, confluiscono i prodotti della pastorizia, dell’apicoltura e della selvicoltura da tutta la regione interna, navi greche ed etrusche, vino e vasellame da tutto il Mediterraneo. Il quadro composito e multietnico degli abitanti di Genova è confermato dalle iscrizioni in alfabeto etrusco su ceramica, con nomi etruschi, indigeni, greci. Anche le necropoli sono cambiate: le tombe sono ora pozzi circolari profondi circa 2 m chiusi con lastre di pietra, contenenti l’urna e il corredo, composto da ornamenti personali, vasellame bronzeo dall’Etruria, armi, ceramica di importazione greca. Sono i grandi servizi per banchetto che documentano l’adesione al culto di Dioniso e i riti salvifici connessi. In Valentina Faudino La Tabula alimentaria dei Ligures Baebiani. (Museo Nazionale Romano). Scoperta presso Circello (Benevento), testimonia lo stanziamento forzato di Liguri Apuani sconfitti dai consoli Marco Bebio Tarifilo e Publio Cornelio Cerego. Nel 180 a.C., infatti, furono deportati nel Sannio circa 47.000 Liguri che dettero origine a due distinte comunità: queste trassero il loro nome dal gentilizio dei consoli romani vincitori. Il municipio dei Ligures Baebiani è stato localizzato in località Macchia. 25 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 ATTIVITÀ del GAT - CONFERENZE Acquedotti romani in Piemonte Sintesi di uno dei 12 interventi realizzati dal GAT per l’Unitre di Torino nel 2004 La presenza di un’infrastruttura come l’acquedotto è indice di una pianificazione e di una organizzazione urbanistica evolute, cosa che sembra trovare pieno riscontro nel quadro generale del Piemonte romano, in particolare nei primi due secoli dell’impero. In effetti, nell’area geografica piemontese quasi tutte le più importanti città romane si sono attrezzate per risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico dotandosi di acquedotti. In area transpadana: Novaria (Novara), Eporedia (Ivrea), Segusium (Susa). A sud del Po: Carreum Potentia (Chieri), Pollentia (Pollenzo); Alba Pompeia (Alba), Augusta Bagiennorum (Benevagienna), Iulia Derthona (Tortona), Libarna (Serravalle Scrivia) e Aquae Statiellae (Acqui Terme). Non vi sono invece prove definitive circa l’esistenza di un acquedotto ad Augusta Taurinorum, Vercellae, Hasta e Industria. Per quanto concerne gli aspetti strutturali, il punto di partenza è costituito dalla captazione dell’acqua: dalla sorgente, attraverso uno o più canaletti, l’acqua confluiva in un bacino collettore (in pietra o in pietrisco rivestito di malta idraulica, normalmente coperto per preservare la purezza della sorgente) e da qui nella canalizzazione dell’acquedotto. Sino a pochi anni fa sulla collina torinese in località Tetti Miglioretti era visibile quello dell’acquedotto di Chieri, seppure rimosso dalla sua posizione originaria. In alcune realtà del mondo romano la penuria d’acqua poteva imporre la costruzione di strutture idriche dal lungo percorso, come si è verificato a Cartagine, il cui acquedotto misurava circa 130 km. In Piemonte, in cui questo problema non esiste, si va dai 12 km. per l’acquedotto di Acqui ai 10 per quello di Libarna, agli 8 per Ivrea e per l’acquedotto meridionale di Pollenzo, ai 5 per Chieri, ai 4 per l’acquedotto settentrionale di Pollenzo. Generalmente non erano necessarie opere imponenti, era sufficiente un canale che sfruttasse la pendenza naturale del terreno e spesso si trattava di un canale parzialmente o totalmente interrato, espediente che consentiva di proteggere al meglio l’acqua; in Piemonte, ad es., l’acquedotto di Derthona era interamente sotterraneo. Gli acquedotti erano normalmente dotati di pozzi di ispezione, che consentivano la ventilazione e la manutenzione del condotto, come si è potuto riscontrare per Libarna e Pollentia, e di bacini di decantazione per purificare l’acqua. Il canale in cui scorreva l’acqua, lo speco, era in muratura e coperto (anche in questo caso per preservare la potabilità); la copertura era costituita da una volta a botte (come ad es. ad Eporedia, Pollentia e Libarna) oppure da lastre in laterizio, come a Carreum Potentia, o in pietra, come forse a Novaria. All’interno le pareti erano rivestite di un intonaco impermeabilizzante (signino), costituito da una spalmatura di malta in più strati cui si aggiungeva polvere di mattoni: questo intonaco costituisce un segnale importante proprio perchè spesso contribuisce ad identificare le strutture idriche; è però assente in alcuni acquedotti piemontesi, quali quelli Le arcate superstiti dell’acquedotto di Aquae Statielle (Acqui Terme) di Novaria, Alba e Carreum Potentia, per i quali sono stati utilizzati espedienti alternativi, ad es. una spalmatura di calce fine. L’acqua all’interno del canale scorreva per gravità; per contrastare un’eccessiva pendenza, che avrebbe causato una rapida usura del canale, un espediente molto usato era quello di rendere sinuoso il percorso del condotto, come ipotizzato, in èparticolare per gli acquedotti di Carreum Potentia ed Eporedia. Un terreno particolarmente accidentato (ad es. con avvallamenti) poteva rendere necessaria la costruzione di muri di sostegno del canale, ma se la conformazione geomorfologica risultava particolarmente critica, per superare fiumi e valli si ricorreva ai ponti-canali (es. ponte di Pondel in Valle d’Aosta, con duplice funzione di ponte e di acquedotto). Qualora il dislivello fosse tale da richiedere muri troppo alti, occorreva alleggerire la struttura per evitare il rischio di un cedimento; pertanto si ricorreva alla struttura ad archi, al di sopra dei quali veniva alloggiato il canale, dando luogo in alcuni casi ad opere di notevole monumentalità. In Piemonte l’esempio più significativo è offerto dall’acquedotto di Aquae Statiellae (l’odierna Acqui Terme), che conduceva l’acqua del torrente Erro verso la città, ai cui confini si trovano 7 arcate alte ca. 15 m. In origine doveva presentare almeno una quarantina di arcate, di cui rimane anche un secondo troncone composto dai resti di 8 pilastri; per il resto il condotto è invisibile in quanto interamente sotterraneo. Forse anche l’acquedotto di Alba era parzialmente dotato di opus arcuatum: nel suo tratto terminale, in corso Italia, sono stati rinvenuti alcuni piloni in muratura. Col sistema degli archi vengono superati fiumi e valli ma anche strade: a Segusium la maggiore delle due arcate nei pressi dell’arco di Augusto ed un tempo appartenenti 26 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 ad essi limitrofi, è stata formulata l’ipotesi che parte dell’acqua erogata alimentasse insediamenti di carattere artigianale, legati ad es. alla produzione ceramica e laterizia. Peraltro, prima dell’epoca imperiale, nel mondo romano l’approvvigionamento idrico mediante acquedotti era riservata in modo esclusivo agli usi pubblici, essenzialmente alle fontane alle quali i cittadini andavano ad attingere direttamente e gratuitamente. Strutture di presumibile pertinenza a vasche o fontane pubbliche sono state ritrovate a Chieri, ad Acqui, a Pollenzo. Anche un recente ritrovamento a Torino, annunciato dalla stampa a settembre del 2003 ma su cui occorre attendere i risultati degli studi in corso, riguarderebbe una fontana pubblica, posta all’angolo tra via XX Settembre, vicolo S. Lorenzo e via Cappel Verde. Seguendo l’ordine di importanza delle tipologie d’utenza, al secondo posto troviamo altri tipi di edifici pubblici (terme, palestre, teatri). Al contrario, la fornitura privata costituiva un fenomeno molto limitato sviluppatosi soprattutto a partire dall’età augustea: i privati, intesi sia come proprietari di case (dove si trovavano fontane, ninfei, terme private e piscine) sia come titolari di botteghe artigiane (panetterie, lavanderie, tintorie, laboratori di ceramica…), potevano disporre soltanto dell’acqua in eccedenza. In particolare, l’acqua corrente nella case private, a causa del costo elevato e delle rigide norme del contratto di fornitura, era considerato un lusso e l’alternativa più comune era rappresentata dai pozzi domestici; a Industria, Libarna, Torino, Acqui Terme e Alba gli scavi condotti nell’ambito dell’edilizia residenziale hanno messo in luce parecchi pozzi domestici, talvolta più di uno per unità abitativa. Inoltre alcune abitazioni private risultano dotate di collegamenti diretti con il sistema fognario (come ad es. nel caso del pilastro conservatosi in via Botero a Torino). In una domus di Libarna è stata invece ritrovata l’unica fontana privata del Piemonte, decorata con delfini e teste di medusa; più controverso è il caso del leone in bronzo di Pollenzo: anche se sicuramente connesso ad una struttura idraulica, mancano dati precisi sul contesto archeologico di provenienza. Le cosiddette “Terme Graziane” di Segusium (Susa) all’acquedotto, scavalcava la via internazionale delle Gallie che, partendo da Augusta Taurinorum, giungeva nell’attuale territorio francese attraverso il Monginevro. Inoltre il caso segusino rende evidente la diffusa esigenza tecnica di collocare il canale ad un’altezza tale da superare quella delle mura urbane (di ca. 10 m. a Susa). Proprio all’ingresso dell’acquedotto in città aveva inizio il sistema di distribuzione urbano che faceva capo al “castellum divisorium” o “aquarum”, cisterna di raccolta dalla quale si dipartivano le tubazioni principali collegate gli “utenti finali” pubblici e privati. Per almeno quattro città piemontesi, Pollenzo, Benevagienna, Susa ed Alba, gli studiosi hanno supposto, in base a dati toponomastici e strutturali, la presenza di tali cisterne; risulta peraltro difficile comprovare l’identificazione sulla base dei resti rinvenuti in quanto le strutture sono state demolite per ricavare e riutilizzare il piombo delle tubazioni. La portata d’acqua delle condotte era, naturalmente, commisurata alla consistenza demografica di un centro urbano ma anche a specifiche esigenze della vita cittadina; tra le stime formulate dagli studiosi in relazione alla realtà piemontese si evidenziano i 4.000 mc/g. per l’acquedotto di Carreum Potentia, una portata massima di 7.000 mc/g per l’acquedotto di Aquae Statiellae, i 24.000 mc./g. per l’acquedotto di Eporedia. Per Pollentia si ipotizzano volumi ben superiori determinati dalla probabile compresenza di due acquedotti, uno completamente sotterraneo ed uno costruito in elevato. Tuttavia le stime si riferiscono alla capacità teorica degli acquedotti: nella realtà i volumi vanno fortemente ridimensionati ed inoltre non devono essere considerati fissi ma variabili in funzione della situazione stagionale e, pertanto, dello stato della sorgente. In secondo luogo nel mondo romano si registrano diversi casi di una stessa città servita da più di un acquedotto; si tratta in prevalenza di complessi urbani di notevoli dimensioni (quali Roma o Lione che ne possedevano rispettivamente 11 e 4) o, comunque, di situazioni determinate da un incremento della popolazione o delle attività produttive. In effetti un aspetto interessante, ma di difficile ricostruzione, è rappresentato dall’utilizzo “industriale” dell’acqua: sulla base di studi specifici condotti a Pollenzo ed Acqui sul percorso degli acquedotti, la loro portata ed i rinvenimenti Marina Luongo Base di fontana privata proveniente da Libarna (Serravalle Scrivia) 27 Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Ritorno al passato: CROPANI (Cz) Anche nel 2004 una decina di soci GAT è approdata in Calabria per il Campo Archeologico di Cropani Riscoprire la memoria storica della nostra civiltà. Partecipare ad una sessione di lavoro archeologico coinvolgente e formativa. Vivere in prima persona la realizzazione di uno scavo archeologico, la documentazione e il restauro dei reperti e delle evidenze monumentali. È questa l’esperienza che una decina di volontari GAT (insieme a decine di appartenenti ad altri Gruppi) hanno vissuto nel 2004 aderendo alla campagna estiva di ricerca a Cropani Marina, organizzata dal gruppo archeologico “A. Magrini”. Le attività hanno riguardato ripulitura, scavo, documentazione e valorizzazione di un’area archeologica magnogreca, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria. Si tratta di un santuario greco databile tra il VI e il V secolo a.C. in località “Acqua di Friso”, dove sono stati individuati due depositi votivi (ricchi di materiale ceramico) e una parte dell’edificio sacro. Negli anni passati il Gruppo Archeologico Torinese ha collaborato attivamente (inviando partecipanti e responsabili) a questo campo archeologico, che ha l’indubbio pregio di essere ubicato in un’area di grande interesse archeologico e artistico (come gli altri campi, peraltro) e, contemporanemente, trovarsi a poca distanza dallo splendido mar Ionio. In questo modo è possibile coniugare concretamente la passione per l’archeologia con la necessità di trascorrere una vacanza divertente e serena. Per informazioni sulle attività 2005 ci si può rivolgere, dopo il mese di marzo, direttamente alla Segreteria del GAT. F.D. Un PARCO per le TERRAMARE Il 25 aprile 2004 aprirà al pubblico il Parco archeologico e Museo all’aperto della terramara di Montale. A pochi chilometri da Modena, nello stesso luogo in cui sorgeva un antico villaggio dell’età del Bronzo, il parco offre al pubblico la straordinaria opportunità di riscoprire una delle realtà archeologiche più rappresentative della protostoria europea: la civiltà delle terramare, tipici villaggi della pianura padana abitati da comunità che, pur non conoscendo la scrittura, avevano sviluppato attorno alla seconda metà del II millennio a.C. un evoluto sistema economico e sociale. Nel parco archeologico un percorso nel verde opportunamente segnalato mette in evidenza le tracce delle fortificazioni che circondavano l’antico villaggio. I resti riportati alla luce nel corso degli scavi archeologici sono inseriti all’interno di uno spazio museale dotato di apparati didattici e multimediali che spiegano gli oltre quattro secoli di vita del villaggio. Nel museo all’aperto viene proposta la ricostruzione a grandezza naturale di una parte della terramara comprendente il fossato, il terrapieno con palizzata difensiva e due grandi abitazioni arredate con vasellame, utensili, armi e vestiti che riproducono fedelmente originali di 3500 anni fa. A fianco delle due abitazioni ci sono anche due fornaci per la cottura della ceramica. Il pubblico in visita al museo all’aperto è coinvolto a sperimentare le attività e le produzioni artigianali delle antiche genti delle terramare: dalla fabbricazione dei vasi, alla produzione di armi e attrezzi in metallo, alla tessitura, alla lavorazione del corno di cervo. Il parco sarà aperto al pubblico le domeniche e i giorni festivi. Sono previsti inoltre programmi ed eventi su prenotazione per le scuole e per il pubblico più giovane, che includono anche l’utilizzo di un laboratorio didattico e la partecipazione ad uno scavo simulato basato sulle evidenze messe in luce dallo scavo della terramara. Il parco è stato realizzato dal Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena 28 e dal Comune di Castelnuovo Rangone (MO) in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni archeologici dell’Emilia Romagna, con il sostegno della Commissione Europea, della Regione Emilia Romagna, della Provincia di Modena e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Tel. 059-532020 [email protected] www.parcomontale.it Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005 Programmi 2005 Gite (riservate ai soci GAT - informazioni in Segreteria) Campi Archeologici 2005 26/27 Febbraio Altopiano delle Manie (Finalese) Albenga (museo e battistero), giro dei tre ponti romani 19 Marzo Speleologia (Grotta del Rio Martino) e visita cappella Missioni a Villafranca 16 Aprile Castello di Busalla e abbazia di Rivalta Scrivia Entro il mese di marzo 2005 saranno pronti i programmi per i prossimi CAMPI ARCHEOLOGICI ESTIVI dei Gruppi Archeologici d’Italia, visibili all'indirizzo internet: http://www.archeogat.it/zindex/file/campi.htm Se vi interessano le civiltà antiche della nostra penisola (i Romani, gli Etruschi, i Greci, le popolazioni preistoriche), contattateci per ulteriori informazioni. Iniziative RIN ESE VOLONTARIATO SVILUPPO SOLIDARIETÀ IN PIEMONTE E & Archeologia Volontariato ARCHEOLO O O CENTRO SERVIZI PER IL O GIC Archeologia Volontariato ARCHEOLO TO & Proseguono la ricognizione del territorio collinare (in accordo con la Soprintendenza) e le attività di laboratorio in sede. I programmi dettagliati vengono inviati ai soci. GRU PP O GIC GRU PP Per l’autunno 2005 è prevista a Collegno una mostra didatticodocumentaria dal titolo “Storia e Archeologia fra Torino e Collegno”, realizzata dal GAT insieme alle associazioni di volontariato Ad Quintum e Amici del Villaggio Leumann. ArcheoInsieme CENTRO SERVIZI PER IL nona edizione TO RIN ESE VOLONTARIATO SVILUPPO SOLIDARIETÀ IN PIEMONTE E 10 Incontri per conoscere l’Archeologia Martedì, alle ore 21.00, presso la Sala Conferenze del Centro Servizi VSSP - Via Toselli, 1 - Torino Conferenze con diapositive, a cura dei soci del G.A.T. Giovedì, alle ore 21.00, presso la Sala Conferenze del Centro Servizi VSSP - Via Toselli, 1 - Torino Conferenze con diapositive, organizzate dal G.A.T. 10 febbraio 2005 Come l’Egizio navigava lungo il Nilo e sui mari ELIO MOSCHETTI Viaggiatore e studioso dell'Egitto 5 aprile 2005 Prima dello scavo: la ricerca di un sito archeologico (toponomastica, ricognizione e altri metodi di studio non distruttivi) 17 febbraio 2005 La donna, l'eros, la poesia nell'Egitto faraonico Le liriche d'amore nella letteratura presentazione e commento FRANCESCO POGGI Socio A. C. M. E. (Amici Collaboratori del Museo Egizio di Torino) 12 aprile 2005 Lo scavo archeologico: strumenti, stratigrafia, documentazione e tecniche di indagine 19 aprile 2005 Lo scavo subacqueo: differenze e somiglianze con lo scavo terrestre 24 febbraio 2005 L'arte della costruzione in Egitto RICCARDO MANZINI Collaboratore scientifico della Soprintendenza alle Antichità Egizie di Torino. 26 aprile 2005 I reperti: trattamento e datazione dei materiali 3 maggio 2005 Nuove frontiere: l’archeologia sperimentale 3 marzo 2005 Nefertari: colei per cui splende il sole MARIO CRIVELLO Socio A. C. M. E. (Amici Collaboratori del Museo Egizio di Torino) 10 maggio 2005 Nuove frontiere: archeologia e informatica 17 maggio 2005 Siti preistorici e protostorici in Piemonte ATTESTA di FREQUE TO N (con almen ZA o 5 presenze ) 10 marzo 2005 La donna nell'antico Egitto MARIO TOSI Egittologo, collaboratore scientifico della Soprintendenza alle Antichità Egizie di Torino 24 maggio 2005 Città romane in Piemonte 31 maggio 2005 I Longobardi in Piemonte Ingresso 17 marzo 2005 gratuito Punt, la terra del dio BRUSSINO FRANCO Socio A. C. M. E. (Amici Collaboratori del Museo Egizio di Torino) 7 giugno 2005 Presentazione dei campi estivi 2005 di ricerca archeologica 29 ATTESTA di FREQUE TO N (con almen ZA o 6 presenze ) so Ingresito u t a r g & Archeologia Volontariato Iscrizione al GAT OG ICO GR U P (durata annuale) ARCHEOL PO TO RI N E SE over 18: familiari: under 26: under 18: E E E E 35 30 30 27 L’iscrizione comprende anche la copertura assicurativa per tutte le attività svolte con il GAT e con le altre sezioni dei Gruppi Archeologici d’Italia Modalità di iscrizione: • in Sede - VIA BAZZI 2 - 10152 TORINO - Tel. 011.4366333 Orario Segreteria: Aprile/Settembre: martedì dalle 16 alle 19 e venerdi dalle 18 alle 21 Ottobre/Marzo: venerdì dalle 17 alle 21 • mediante versamento presso la banca SanPaolo-IMI Spa Sede di Piazza San Carlo - c/c n. 12/49974. oppure Vieni a trovarci!!! I soci del GAT ti aspettano per farti conoscere l’associazione e i programmi previsti. ARCHEOL ICO GRU PO OG P Ci puoi trovare in: TO RI N E SE Gruppi Archeologici d’Italia Via Bazzi, 2 - 10152 Torino Tel. 011.43.66.333 Orario Segreteria: APRILE/SETTEMBRE Il martedì dalle 16 alle 19 e il venerdì dalle 18 alle 21 OTTOBRE/MARZO • Il venerdì dalle 17 alle 21 Internet: www.archeogat.it E-Mail: [email protected]