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FORUM
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Anno XX
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Il GAT
aderisce a:
GRUPPI
ARCHEOLOGICI
D’ITALIA
FORUM EUROPEO
DELLE ASSOCIAZIONI
PER I BENI CULTURALI
Riservato ai Soci - Edizioni GAT
CENTRO
NAZIONALE PER
IL VOLONTARIATO
PROTEZIONE
CIVILE
REGIONE
PIEMONTE
UNIONE
VOLONTARI
CULTURALI
ASSOCIATI
Numero 1 - Gennaio 2005
Agosto 2004
1° Campo di
ricognizione archeologica
Monti del Fiora
(Sorano-Pitigliano-Manciano)
Sommario
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Editoriale
Periodico di Informazioni del Gruppo Archeologico Torinese
Direttore Responsabile: Feliciano Della Mora • TAURASIA è un periodico
distribuito gratuitamente ai Soci del Gruppo Archeologico Torinese; viene
composto, impaginato e stampato interamente a cura dell’Associazione.
Riassunto di un anno intenso
II di copertina
Campo archeologico “Monti del Fiora”
1
La Collezione Dianzani
7
Un parco archeologico a Torino
9
GAT - Convenzioni e accordi di collaborazione 10
I predatori del patrimonio culturale perduto
11
Archeologia a Torino - Piazza San Carlo
14
I Taurini invadono Pecetto
16
La Danza delle Spade
17
S.O.S. mura di Augusta Taurinorum
18
I rapidi scavi di Pariol
19
Archeocarta: Maometto in Val Susa
20
Il “Maometto” e l’Alta Velocità
21
I Longobardi a Collegno
22
Un pannello per Bric San Vito
23
I Liguri, gente da scoprire
24
Acquedotti romani in Piemonte
26
Ritorno al passato: Cropani
28
Un parco per le terramare
28
Programmi 2004
29
SCHEGGE
Casa del Senato
Un esempio di
grave degrado
ancora irrisolto…
Hanno collaborato
a questo numero:
La responsabilità dei
contenuti degli articoli
è dei rispettivi autori.
Valter Bonello
Gianfranco Bongioanni
Enrico Di Nola
Fabrizio Diciotti
Valentina Faudino
Anna Ferrarese
Marina Luongo
Manuela Mazzon
Gabriella Monzeglio
Luca Nejrotti
Alberto Perino
Tiratura: 500 copie
Chiuso in Redazione
il 4 Febbraio 2005
Stampa: Tipolitografia Noire
Torino - Febbraio 2005
Le attività del GAT si sviluppano ulteriormente
grazie al costante contributo dei Soci
Riassunto di un
anno intenso
C’è davvero di che essere soddisfatti: il 2004 è stato per il GAT
un anno estremamente proficuo sotto il profilo dei programmi
svolti e delle nuove iniziative intraprese. Pur riproponendo le
iniziative già programmate negli anni passati, i soci GAT si sono
mossi con generosità per venire incontro a nuove esigenze e per
realizzare nuovi progetti.
Tra le attività già consolidate negli anni abbiamo ritrovato il
monitoraggio e la manutenzione del sito archeologico di Bric
San Vito, le visite guidate nell’ambito della manifestazione “Torino
e oltre”, le gite archeologiche (Museo di Alba, Casale, Trino,
Abbazia di Lucedio, Genova…), la partecipazione ai periodici
lavori della Consulta Comunale del Volontariato nella Protezione
Civile, i collaudatissimi cicli di conferenze “Archeoinsieme” (10
lezioni, più 4 per “Archeomateria”) e “Serate d’Egitto” (6 lezioni).
Tra le nuove attività sono da segnalarsi la collaborazione con
l’Unitre di Torino, per la quale abbiamo predisposto e presentato
un ciclo di 12 lezioni, e l’avvio del dialogo con il Centro Servizi
per il Volontariato “Idea Solidale”, che si affianca così al nostro
storico fornitore di servizi, il VSSP.
Con la collaborazione fondamentale di “Idea Solidale” abbiamo
potuto organizzare e gestire, con la direzione della Soprintendenza
per i Beni Archeologici della Toscana, il 1° campo estivo di ricerca
archeologica “Monti del Fiora”, in merito al quale trovate un
lungo articolo nelle prossime pagine. Taurasia stessa è “risorta”
(seppure con uscita annuale, che ci piacerebbe divenisse più frequente)
grazie al contributo di “Idea Solidale” (quest’anno, invece, Taurasia
è “finanziata” dai soci stessi, ossia grazie alle loro quote d’iscrizione).
La collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Piemonte si è consolidata grazie al progetto di ricognizione
dell’area collinare, sostenuto dalla Provincia di Torino.
Nel mese di ottobre si è svolta nel comune di Pecetto un’iniziativa
(“Il Ferro degli Eroi”) che ha visto nuovamente l’appoggio della
Soprintendenza e soprattutto la collaborazione con Terrataurina,
elemento trainante dell’iniziativa stessa (cfr. pag. 16).
L’informazione costante ai soci dei programmi è stata garantita
dall’invio periodico via Internet del notiziario InfoGAT. In merito
ad Internet, oltre ad aver provveduto all’aggiornamento del sito
www.archeogat.it, i soci GAT hanno infine portato a termine la
prima sessione di lavoro inerente il grande progetto Archeocarta
(www.archeocarta.it - cfr. pag. 20), sostenuto dalla Regione Piemonte.
Il 2004 ha visto l’avvio dei lavori per la realizzazione della
mostra “Storia e Archeologia tra Torino e Collegno” (prevista
per l’autunno 2005), per la quale abbiamo ottenuto il sostegno da
parte del VSSP. Le attività per la realizzazione di questa esposizione,
che vede come partner le associazioni Ad Quintum e Amici del
Villaggio Leumann, sono in pieno fermento; tutti i soci sono invitati
a partecipare alla stesura dei testi e alla realizzazione dei plastici
previsti (primo fra tutti, una porzione di strada romana).
Queste e altre iniziative appena sbocciate (una per tutte: la collaborazione con il Parco della Mandria per un progetto triennale
di ricerca) non possono che rallegrarci! Non ci rimane dunque che
augurarci: Ad maiora, ad meliora.
Fabrizio Diciotti
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Campo “Monti del Fiora”
Un primo bilancio dell’iniziativa congiunta GAT - Soprintendenza - Cesvol
Ricognizione “a pettine” sui Pianetti di Sovana (Gr)
L’ideazione del campo:
aspetti progettuali e organizzativi
dall’organizzazione di un campo archeologico (per quanto
alcuni di noi avessero svolto mansioni tecniche, scientifiche
e organizzative in svariati campi archeologici negli anni passati,
ultimo in ordine di tempo quello di Cropani in Calabria) ma
a ciò si aggiungeva la sfida di dover programmare quindici
giorni di ricognizione (dunque non di scavo) su un territorio
a noi pressochè sconosciuto e con l’incombente rischio di
arrivare alla fine del campo senza che fosse stato rinvenuto
neppure il proverbiale spillo… Paradossalmente, sarebbe stato
decisamente più semplice prevedere un’attività di scavo intensivo
(ma sicuro), piuttosto che una serie di prospezioni dall’esito
incerto. Nonostante questa considerazione, il progetto è stato
immediatamente avviato e si è provveduto a concordare le
modalità di indagine con la dottoressa Barbieri e con il dottor
Camilli; parallelamente ci siamo mossi per cercare collaborazioni
economiche esterne in modo che il costo complessivo del
campo gravasse al minimo possibile sulle spalle (anzi, sulle
tasche) dei partecipanti, trovando fin da subito nel Cesvol
“Idea Solidale” di Torino un partner ideale ed entusiasta. Il
progetto “Campo di ricognizione archeologica dei Monti del
Fiora” si è trasformato dunque in una collaborazione a tre
GAT-Cesvol-Soprintendenza che ha datto frutti eccezionali:
la disponbilità del Cesvol ha consentito di adottare la quotacampo più bassa in assoluto nel panorama delle attività dei
G.A. d’Italia, la collaborazione della Soprintendenza (va qui
rimarcata l’abnegazione personale della dott.ssa Barbieri) ha
La progettazione di un campo di ricerca archeologica
necessita di molteplici attività: ricerca documentaria, ricognizione dell’area, individuazione delle priorità tecniche e scientifiche, contatti con le autorità locali, ricerca di eventuali
sponsor, pubblicizzazione dell’evento, gestione del campo,
verifiche post-campo, operazioni didattiche e via discorrendo.
Prima di giungere a tutto ciò, però, occorre che sorga la
possibilità concreta di fare un campo archeologico, ovvero
che si individui un’area sufficientemente interessante – sia
per la scienza che per dei volontari in cerca di vacanze intelligenti
– sulla quale poter intervenire con la supervisione e la benedizione della Soprintendenza competente. Occorre, per dirla
più chiara, che a qualcuno venga in mente di proporre alla
Soprintendenza un’attività archeologica “sostenibile”.
Bisogna dire che in questo caso la dea bendata ha giocato
ad occhi scoperti: non solo nessuno di noi volontari ha dovuto
proporre alcunché alla Soprintendenza ma, al contrario, è
stata quest’ultima a interpellarci per prima. Un caso abbastanza
insolito ma che ha alcune ragioni d’essere.
Anzitutto chiariamo che la Soprintendenza in oggetto è
quella per i Beni Archeologici della Toscana, retta dal Soprintendente Angelo Bottini; qui lavora il valentissimo dottor
Andrea Camilli formatosi, ancor prima degli studi universitari,
alla scuola dei Gruppi Archeologici d’Italia, dove ha appreso
come volontariato e archeologia possano convivere felicemente.
Alcuni di noi hanno conosciuto personalmente il dottor Camilli
proprio durante i campi estivi organizzati dai G.A. d’Italia,
parecchi anni fa. Ecco che questa antica amicizia e la stima
reciproca consolidatasi negli anni hanno trovato un inaspettato
sbocco nella proposta congiuntamente realizzata dal dottor
Camilli e dalla sua collega dell’ufficio di Siena, la dottoressa
Gabriella Barbieri; quest’ultima, nel mese di gennaio 2004,
ha contattato il GAT proponendo una collaborazione per la
prospezione archeologica di una vasta area compresa tra i
Comuni di Sorano, Pitigliano e Manciano.
La piacevole sorpresa ha generato una scossa di entusiasmo
nei soci del GAT che, comprendendo l’eccezionalità del caso,
hanno immediatamente colto al volo l’occasione e accettato
la proposta. L’impegno si presenta subito piuttosto complesso:
n o n s o l t a n t o i l G AT e r a s o s t a n z i a l m e n t e d i g i u n o
1
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
permesso di espletare con relativa sveltezza le pratiche burocratiche che sono sfociate nella firma di una Convenzione e,
infine, la partecipazione entusiasta di molti soci GAT ha suggellato
il successo del campo, consentendo il recupero di informazioni
scientifiche preziose e contribuendo non poco a cementare i
rapporti di amicizia.
Va rimarcata infine la collaborazione indispensabile fornita
dal Comune di Sorano e dall’Istituto Comprensivo Statale “M.
Vanni” (che hanno concesso l’uso dei locali della scuola). Tutto si è svolto nel rispetto delle regole del volontariato
archeologico: trasparenza nella collaborazione con le autorità,
acceso interesse culturale e volontà di divertirsi in modo sano.
c’era ancora molto da fare, verso il sito della nostra ricerca.
A onore dell’organizzazione si può dire che sia stata progettata nel modo più elastico possibile, in modo da poter
essere migliorata in corso d’opera.
Infatti, non è così semplice concertare in modo scientifico
una ricerca in un territorio inesplorato tenendo conto del
fattore fondamentale del divertimento.
I Campi di volontariato sono la fusione di attività scientifica
e vacanza ed entrambi gli elementi giocano un ruolo fondamentale nella riuscita dell’attività. Quindi il lavoro va
calibrato in modo da non assorbire la totalità delle energie
dei partecipanti.
A titolo d’esempio si può considerare la strutturazione
della giornata lavorativa: all’inizio venne progettata di otto
ore al giorno per tre giorni con poi una pausa di una giornata.
Dopo una settimana che ci si trovava boccheggianti alle
quattro del pomeriggio, prossimi alla disidratazione, ossessionati da miraggi di acque fresche e d’ombra, si è deciso
di concentrare l’attività nella mattinata, anticipando la sveglia,
in modo da poter rientrare alla base nelle ore più calde.
Paradossalmente, la riduzione dell’orario lavorativo ha reso
molto più fruttuosa e approfondita l’indagine.
Il vantaggio dell’impiego di volontari nelle attività di
ricognizione dovrebbe essere quello di aggirare la diffusa
diffidenza che la popolazione locale (specialmente toscana
e laziale) ha maturato negli anni verso le istituzioni preposte
alla tutela del patrimonio archeologico. Se pure questo è
vero, mentiremmo se dicessimo di avere ottenuto una piena
collaborazione da parte degli abitanti del posto. A posteriori,
è divertente ricordare le resistenze che abbiamo dovuto
vincere e le indagini quasi poliziesche che abbiamo svolto
per rintracciare le strutture di una villa romana conosciuta
da tutti, ma che “nessuno aveva mai visto”! Questo primo
anno ci è anche servito a conoscere le persone con cui
dovremo in futuro relazionarci per creare un clima di collaborazione, impararne il linguaggio ed affinare una diplomazia
necessaria a far sì che costoro non si sentano minacciati
dalla nostra attività. La villa romana che infine abbiamo
individuato era protetta da un muro di omertà che difficilmente
avremmo potuto abbattere con un approccio diretto. E’
stato invece un paziente lavorio di confronto degli indizi,
delle mezze ammissioni, dei “qui lo dico e qui lo nego”
dei nostri “testimoni” che ci ha portati al rinvenimento.
Oltre che, ovviamente, all’istinto della nostra responsabile
di ricognizione ed all’entusiasmo e testardaggine di tutti
Fabrizio Diciotti
Una questione di metodo...
Superati i primi entusiasmi occorreva far fronte alle prime
difficoltà.
Infatti il GAT ha una discreta esperienza in fatto di ricognizione archeologica – il nostro settore ricerca ne sa qualcosa
di lunghe scampagnate su e giù per i colli della collina
torinese tra boschi, sterpaglie e campi – ma in questo caso
si trattava di qualcosa di ben diverso.
Fondare un intero campo estivo sull’attività di ricognizione
è una sfida finora mai affrontata dai Gruppi Archeologici
e quindi, non avendo esempi illustri a cui appoggiarci,
abbiamo dovuto improvvisare.
Innanzi tutto avremmo dovuto perlustrare un territorio
molto vasto e per noi sostanzialmente nuovo.
Una profonda conoscenza dell’area da indagarsi è fattore
determinante per la buona riuscita di un campo di ricognizione,
quindi è stato necessario effettuare alcuni sopralluoghi preventivi nell’area per renderci conto del tipo di orografia
e vegetazione presenti. Ci siamo inoltre documentati sulla
cartografia esistente, fornitaci – per fortuna, visti i costi
di un buon supporto cartografico – dalla Soprintendenza
stessa, e sulla fotografia aerea dell’area.
Infine, ancor prima di partire, occorreva crearsi una rete
di contatti presso le Istituzioni locali, che ci fornisse un
appoggio in loco. La Direzione del Gruppo, quindi, si è
vista impegnata in fitti colloqui telefonici con gli uffici
tecnici del comune di Sorano e con i Carabinieri; ciò affinché,
una volta giunti sul posto, non venissimo considerati perfetti
estranei un po’ eccentrici che si aggiravano con loschi fini
per le campagne circostanti.
Conclusasi la fase preliminare in modo a parer nostro
soddisfacente, siamo partiti, entusiasti e incoscienti che
Luca localizza il sito utilizzando il GPS.
2
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
i partecipanti che hanno deciso di approfondire l’indagine
di una struttura che a prima vista appariva addirittura postmedievale!
Il territorio soranese, per chi non lo conoscesse, è quanto
di più complesso si possa immaginare dal punto di vista
orografico. Nei secoli i torrenti hanno inciso profondamente
il bassopiano tufaceo creando crepacci e strette vallate e
fornendoci un variegato campionario di dislivelli, un po’
come affrontare una ricognizione montana. Nella stessa
giornata, quindi ci si trovava a fronteggiare campi e boschi
sostanzialmente pianeggianti, forre scoscese in cui nella
migliore delle ipotesi si poteva procedere solo in fila indiana,
ripe più o meno pendenti lungo le quali non si poteva sfruttare
l’intero potenziale dei venti ricognitori impegnati.
In più, la vegetazione e i dislivelli rendevano inefficace
la valutazione generale dall’alto o l’avvistamento da lontano
e richiedevano la presenza del ricognitore sul posto prima
di poter dire “qui c’è qualcosa” o “l’area è sterile”, o
espressioni più colorite.
La soluzione, che può apparire lapalissiana, ma che finora
non era mai stata applicata, è stato lo scorporo in più squadre
di ricerca, ognuna col proprio responsabile. Questo metodo
ha permesso di effettuare profonde ricognizioni anche in
quelle aree meno facilmente accessibili mentre il grosso
dei partecipanti batteva le zone più aperte.
Anche le diverse tipologie di rinvenimenti ha richiesto
degli adattamenti di metodo. Accanto al classico pettine
applicato per i campi di più facile lettura e così efficace
nella valutazione degli affioramenti di materiale, sono stati
effettuati anche sopralluoghi mirati ad individuare singole
emergenze strutturali come le tagliate etrusche e le aree
sepolcrali.
Altre volte era il singolo stesso ad addentrarsi nella boscaglia
per valutare il potenziale di una determinata area prima di
richiedere l’intervento di squadre più cospicue.
Infine, accanto alla ricognizione tradizionale, è stato possibile
effettuare attività di ripulitura e valutazione di strutture
obliterate dalla vegetazione. Ormai è entrato nella mitologia
del GAT il rinvenimento delle murature della villa romana
e la conseguente ripulitura della stessa dalla pervicace vegetazione infestante che se pure l’ha protetta finora occultandola, ne ha anche minata la conservazione.
L’entusiasmo e l’abnegazione dei partecipanti hanno anche
permesso in un caso di effettuare una ripulitura approfondita
di un campo ricoperto di stoppie dove era stato individuato
Il muro Sud della villa romana
rintracciata nel corso delle ricognizioni.
un affioramento importante di materiale romano.
Tutto questo per sottolineare il fatto che il punto di forza
del campo è stato sicuramente l’elasticità con cui si è passati
da un metodo d’indagine all’altro a seconda delle caratteristiche
di siti da indagarsi.
Un altro cavallo di battaglia del campo è stata l’attività
didattica. Il GAT da sempre è coinvolto nel proposito di
fornire ai soci gli strumenti per affrontare in modo critico
l’attività archeologica quand’anche svolta a titolo volontario.
Per questo, nel pomeriggio quando il sole rendeva l’attività
sul campo improponibile, si è cercato di coinvolgere i partecipanti nella progettazione e nella valutazione delle ricognizioni fornendo elementi di storia locale, di metodologia
di ricerca, di ceramologia. Le lezioni, di carattere informale
e non più lunghe di un paio d’ore sembrano essere state
gradite dai partecipanti anche quando stanchi per una lunga
mattinata sul campo avrebbero preferito un bel bagno tonificante nelle acque del lago di Bolsena. Il fatto che non
si siano verificati ammutinamenti sembra avvalorare
quest’ipotesi.
Un punto forte del programma è stato quello di fornire
alla Soprintendenza risultati scientifici nella forma il più
possibile oggettiva e facile da utilizzarsi. Da questa esigenza
è nato il “Database di ricognizione”: un contenitore informatico
che è stato poi perfezionato durante l’attività autunnale, in
cui sono confluiti i risultati delle ricognizioni e tutto il
materiale fotografico, bibliografico e cartografico prodotto
dall’attività del gruppo.
Il database stesso, pur essendo ancora migliorabile, sarà
un ottimo strumento di documentazione anche applicato
all’attività torinese in seno al progetto sulla Collina Torinese
patrocinato dalla Soprintendenza Piemontese e finanziato
dalla Provincia di Torino.
Un’ultima scelta metodologica che rappresenta un grande
risultato per le politiche del GAT è il fatto che l’attività
del Campo di ricognizione “I Monti del Fiora” non è terminata
col 15 agosto, ma è proseguita in sede a Torino.
Riteniamo infatti che sia di estrema utilità poter “vedere”
come i risultati dell’attività estiva vengono sistematizzati
e consegnati alle autorità competenti. Grazie alla disponibilità
della dottoressa Barbieri, infatti, abbiamo ottenuto la custodia
dei molti reperti, ceramici e non, rinvenuti in ricognizione
e questo ha dato linfa al nostro laboratorio che ha potuto
effettuare una prima catalogazione, le foto e, in alcuni casi,
anche il disegno. Inoltre, come si è detto, l’intero gruppo
Una volta individuato un sito, si procede alla
raccolta sistematica dei materiali affioranti.
3
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Ansa protostorica
“a cannone” rinvenuta
sui Pianetti di Sovana.
Presso la sede GAT i reperti vengono
lavati, classificati, fotografati e disegnati.
è stato coinvolto nel perfezionamento del database in modo
che ognuno potesse portare il proprio contributo.
I risultati così ottenuti sono stati la fidelizzazione dei
partecipanti del primo turno al campo e in più, di “incuriosire”
chi al campo non è ancora venuto.
Si sapeva che il primo anno di attività sarebbe stato utile
in primo luogo alla creazione di un metodo di ricerca: possiamo
ben dire, anche a fronte di un confronto con la dottoressa
Barbieri che si è detta molto soddisfatta dell’attività svolta,
che questo obbiettivo sia stato raggiunto!
Ovviamente cercheremo di migliorare ancora, ma l’anno
prossimo, con queste solide basi, potremo ben partire con
una “marcia in più”!
e da informazioni raccolte (faticosamente!) sul posto: in
effetti, i risultati hanno superato le nostre previsioni più
ottimistiche.
Due dei siti individuati hanno restituito materiale ceramico
preistorico, che da primi confronti effettuati nei musei della
zona potrebbero risalire all’Età del Bronzo. Negli altri due
casi sono invece stati individuati due siti di frequentazione
romana: in base alle caratteristiche della zona e alla tipologia
dei materiali raccolti, è verosimile ipotizzare l’esistenza di
due impianti rurali, uno dei quali di non grandissima estensione
e caratterizzato da un’alta percentuale di ceramiche d’uso
comune. Un punto che sarà da chiarire è se si tratta di siti
già noti e documentati oppure se ci possiamo vantare di
aver arricchito la mappa archeologica dell’area. Il secondo
sito romano è quello che più ha emozionato il gruppo: è
stata infatti con tutta probabilità individuata una struttura
già nota anni addietro alla Soprintendenza, grazie a una
segnalazione, ma di cui era stata scordata l’ubicazione effettiva;
la dottoressa Barbieri era particolarmente interessata a ritrovarla, poiché le segnalazioni di circa vent’anni fa riportavano
l’esistenza di tratti di murature, nella tipica tecnica romana
dell’ “opus caementicium", conservati per circa due metri
in elevato e di pavimenti a mosaico. Pronto ad esaudire
la richiesta, il gruppo ha individuato alcuni campi interessati
da una forte concentrazione di materiale ceramico chiaramente
d’epoca romana, nonché alcuni nuclei di cemento; grazie
allo spirito di osservazione (e a una buona dose di fortuna!)
sono infine state individuate le strutture murarie in questione,
pertinenti ad almeno un ambiente, delle quali si conservava
ancora un buon tratto ancora in elevato completamente
avvolto da rovi e rampicanti e perciò praticamente invisibili.
Forte di questi primi risultati così incoraggianti, il Gruppo
si attiverà ben presto per progettare il campo della prossima
estate: nonostante crediamo di aver compiuto un lavoro
scientificamente valido, e la soddisfazione dimostrataci
dalla dottoressa Barbieri lo conferma, ribadiamo che i margini
di miglioramento ci sono sempre! Nel frattempo non mancano
certo gli spunti sui quali lavorare durante l’anno: da un
lato questo fruttuoso campo ci permette di esercitarci su
temi generali connessi alla catalogazione, al disegno e al
riconoscimento dei reperti, dall’altro è ora doverosa una
documentazione sempre più approfondita e dettagliata sulla
storia e l’archeologia del territorio in corso di indagine.
Luca Nejrotti
Il materiale ceramico
recuperato viene
suddiviso per classi.
Risultati: un primo bilancio
Da quanto è stato finora detto, possiamo a ragione affermare
che il primo Campo “I Monti del Fiora” ha ottenuto un
grande successo, sia dal lato ludico, componente fondamentale
dato che si tratta pur sempre di una vacanza, sia da quello
scientifico: grazie a questa prima campagna di ricognizione,
infatti, sono stati individuati ben quattro siti notevoli; i
risultati sono ancora più clamorosi, se si pensa che questo
primo campo era stato ragionevolmente progettato innanzitutto
per prendere confidenza e imparare a conoscere il territorio,
visto che il GAT era “in trasferta”.
La ricognizione si è incentrata nella zona denominata
“Pianetti” presso Sovana, che sembrava essere promettente
in base alla documentazione fornitaci dalla dottoressa Barbieri
Anna Ferrarese
4
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Vita di campo
(ovvero: non di sola archeologia vive il volontario)
Visita alla città etrusco-romana di Vulci
Con tutte le persone a cui ho parlato di questo campo
ho trovato difficoltà a scegliere un argomento da cui partire
per poter descrivere la bella esperienza.
Dai risultati archeologici? Assolutamente fuori da ogni
aspettativa.
Dalla preoccupazione di passare quindici giorni noiosi?
Di triste ci sono stati solo i saluti del 16 agosto.
Dalla preseunta sistemazione spartana, tipica dei campi
estivi? Alloggiare in una scuola con una grandissima cucina
attrezzata, docce e bagni in quantità, grandi stanze e una
palestra a nostra disposizione, è stato un innegabile lusso.
Dal timore di mangiare poco e male? Il campo era fortunatamente fornito di un abilissimo cuoco specializzato
nella preparazione delle scaloppine e nell’arte di non sapere
cosa cucinare dall’oggi al domani, procurando non pochi
grattacapi a chi si occupava della spesa. A proposito, vorrei
ringraziare coloro che, a fine portata, correvano in cucina
ad accaparrarsi ancora una porzione; ne sono stato lusingato,
grazie ancora.
Rammento con affetto anche l’allora piccolo trovatello
felino Buccia, diventato poi la mascotte di tutti noi (innocente
strumento e complice di un mio scherzo nei confronti di
Lucia e di Federico di cui poi ho riso per un quarto d’ora);
le partite a carte e i giochi di società che hanno animato
le nostre serate, dall’impassibile Anna alla iperattiva Tiziana
nel gioco “dell’assassino”, alle innumerevoli penitenze di
Andrea. Ricordo tutti i visi dipinti dal sentimento di chi
aveva fatto posto nel proprio cuore ad un’altra persona,
che fosse vicina o lontana. Rammento i colori di quella
bellissima terra, verde e oro; di Sovana e del paesaggio di
dolci colline all’orizzonte, di quel bizzarro “panettone” che
Valentina e io avevamo notato, che poi scoprimmo essere
Monterosso. Terra che abbiamo percorso nelle nostre ricognizioni, chi da “Ardito Ripaiolo” chi da “Vignaiolo”, contraddistinti da moltissimo impegno. Ricordo chi, con
l’impegno, superava i limiti umani: mi riferisco ovviamente
a Dario, che abbiamo poi scoperto essere un cyborg.
Come non rammentare le mattine, che all’inizio ci vedevano
pimpanti ed energici e poi, con il passare dei giorni, sempre
più assomiglianti agli zombie de “L’Alba dei Morti Viventi”?
O ancora, le serate passate magari percorrendo l’antica e
affascinante Sorano, le sue casette, le sue botteghe (vero,
Pitigliano
Fabrizio?), i musei, i siti archeologici, Vitozza, le strade
cave, Cosa, Vulci, gli affreschi della Tomba François, il
lago di Bolsena, Ansedonia (di cui ho un “caldo” ricordo),
il rubicondo e iracondo bambino cameriere, la gente curiosa
del posto, così culturalmente interessata alle nostre indagini…
(non sta scherzando! – n.d.r.)
Sono sicuro che ognuno dei partecipanti conserva almeno
un momento particolare di questa esperienza. Per me sono
due: una luminosissima stella cadente vista nel corso di
una delle chiacchierate notturne e le colline buie che circondano Sorano, così insolite e affascinati per chi, come
me, è abituato alle nostre campagne, punteggiate da insediamenti e luci. Alcuni storici hanno voluto ricondurre
questa tipologia insediativa (pochi borghi, distanti l’uno
dall’altro nella campagna disabitata) agli Etruschi, ma non
è difficile immaginare di essere stati catapultati in un passato
più recente, come nel film Non ci resta che piangere con
Benigni e Troisi, nel quale è facile perdersi nel tempo passeggiando fra le strette vie di questi paesi.
Un altro campo ci aspetta presto, un’altra esperienza per
chi, come noi, ama l’archeologia; altre serate passate a
giocare a nascondino (Enrico è tornato, vero?) altre partite
a pallavolo (anche se ormai la squadra degli “scapoli” si
è drasticamente ridotta) o a palla avvelenata (nel qual caso
un solo elemento ha potuto sconfiggere tutta la squadra
degli “ammogliati” con impareggiabile abilità…); oltre ad
autoincensarmi, vi prometto più fritture di pesce nel nuovo
campo e uno sfoggio di nuove bandane. Per il resto: Non
ci resta che piangere.
La megacucina e il suo Re
(con schiavo sullo sfondo)
Gianfranco Bongioanni
(per chi non lo sapesse: il cuoco - n.d.r.)
5
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
INDICE degli argomenti
La collina torinese - Cenni di toponomastica
Geomorfologia della collina torinese
La collina torinese in età preistorica
Castelvecchio: il sito protostorico
La Centuriazione di Chieri
L’acquedotto romano di Chieri
Epigrafi rinvenute nel territorio chierese
La via Fulvia
Il versante torinese della collina
La necropoli longobarda di Testona
La ceramica longobarda della necropoli di Testona
Ingerenze vescovili sulla collina torinese: Landolfo
Ingerenze vescovili sulla collina torinese: Carlo
La via Francigena fra Torino e Chieri
I Templari
Santa Maria di Celle
San Pietro di Celle
La misurazione del tempo nel Medioevo
Il paesaggio collinare nel Medioevo
Le bevande alcoliche nel Medioevo
Antiche unità di misura
Monete medievali in Piemonte
Castelvecchio: la fortezza medievale
Il “castrum” vescovile di Testona
Testona: l’origine del Comune
Testona: l’espansione nel “poderium”
Testona: distruzione o abbandono?
Da Testona a Moncalieri
Evoluzione urbana di Moncalieri
La Collegiata di S. Maria della Scala
Come si parlava nel Chierese
Bric San Vito
Il gioco degli scacchi: un esempio a Bric San Vito
Il gioco degli scacchi: origini e regole
Il castello di Montosòlo
Revigliasco: origini e sviluppo dell’abitato
Revigliasco: via della Ghiacciaia
La chiesa di San Sebastiano a Pecetto
Monfalcone, un insediamento scomparso
Chieri e le sue mura
Orti medievali
Le fibre tessili vegetali nel Medioevo
La tintura dei tessuti nel Medioevo
Erbe e Magia nel Medioevo
Rinvenimenti archeologici di epoca preistorica
Rinvenimenti archeologici di epoca romana
Rinvenimenti archeologici di epoca medievale
Volontariato in collina
LA COLLINA TORINESE
Quattro passi tra storia,
arte e archeologia
Reperibile presso
la segreteria del G.A.T.:
Via BAZZI, 2
10152 TORINO
Tel. 011.43.66.333
il venerdì h. 18-21
offerta minima: Euro 8,00
Formato 21 x 29,7 cm
68 pagine
Seconda Edizione - 2003
Essendo frutto del lavoro dei volontari, le pubblicazioni del GAT non si trovano in libreria, ma soltanto presso la Sede dell’Associazione o in occasione di conferenze
o mostre organizzate dal GAT medesimo. Non hanno dunque prezzo di copertina, ma vengono distribuite dietro un’offerta minima stabilita dal Consiglio Direttivo.
La Collina Torinese
GUIDA DIDATTICA
Reperibile presso
la segreteria del G.A.T.:
Via BAZZI, 2 - 10152 TORINO
Tel. 011.43.66.333
il venerdì h. 18-21
La guida didattica è un avvicinamento ai più piccoli della mostra
“La collina torinese: quattro passi
tra storia, arte e archeologia”.
Si tratta infatti di una semplificazione del catalogo principale che
offre ai ragazzi conoscenze sulla
preistoria, l’età romana e il Medioevo facendo riferimento in particolar modo alla collina torinese.
La guida è soprattutto un divertente e utile insieme di giochi, domande e quiz che stimoleranno la
curiosità dei ragazzi, invitandoli
a giocare con i toponimi antichi,
con le strade romane, con i reperti
longobardi, con i castelli e con
molte altre testimonianze e reperti
antichi.
offerta minima:
Euro 3,00
Formato 15x21 cm
28 pagine
Edizione 2003
6
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
La Collezione Dianzani
IL MUSEO DI ANTICHITÀ OSPITA UNA NUOVA SEZIONE DEDICATA AL MONDO ETRUSCO
Le collezioni etrusche del Museo
d’Antichità di Torino si sono recentemente arricchite grazie alla donazione di oltre 400 pezzi da parte del
professor Mario Umberto Dianzani.
Il lascito risale al 1998, ma solo dal
giugno 2004, dopo un lungo intervento di restauro, la metà circa del
materiale è stata esposta nella parte
della struttura museale dedicata alle
collezioni.
L’allestimento delle quattro vetrine
dedicate alla raccolta (n° 15-18) ha
comportato un’opera di riassetto generale del settore ospitante.
Si tratta per la maggior parte di
forme vascolari rinvenute occasionalmente agli inizi del ‘900
dall’agricoltore Giuseppe Dianzani,
nei terreni di sua proprietà presso
Poggio Buco (GR), e rappresentative
della produzione ceramica
dell’Etruria meridionale interna tra
VIII e VI secolo a.C.
Oltre a queste, sono presenti in
numero esiguo oggetti di ornamento
personale, strumenti per la filatura e
statuette di terracotta, che complessivamente caratterizzano il contesto
di origine dell’intera collezione: il
materiale rinvenuto, infatti, costituisce parte del corredo funerario di
svariate tombe appartenenti alla necropoli di Poggio Buco.
L’insediamento etrusco sorgeva
sull’altopiano tufaceo delle Sparne,
delimitato dal fiume Fiora e da due
affluenti di destra, il fosso Bavoso e
il torrente Rubbiano.
Il centro alternò fasi di occupazione
e abbandono in funzione del ruolo
strategico assegnatogli dalla vicina
Vulci per le proprie politiche agricole
e commerciali.
Le necropoli si estendevano nella
valle Vergara a est dell’altopiano, sul
colle Insuglietti a sud e lungo i declivi
a ovest, con tombe addossate lungo
i fianchi e gli anfratti del rilievo, che
pare abbiano dato origine al toponimo moderno. La tipologia di sepoltura varia nel tempo: nel primo periodo di rioccupazione dell’area (fine
VIII sec a.C.) i defunti venivano
inumati in tombe a fossa rettangolari
(talvolta con loculi laterali) scavate
nel tufo e chiuse da lastroni; successivamente, con l’affermazione del
ceto gentilizio (metà VII sec. a.C.),
si diffonde l’impiego di tombe a
camera con accesso tramite scalinata
o dromos e vestibolo su cui si affacciano le celle sepolcrali. Qui i membri della famiglia venivano deposti
su banchine laterali rialzate, in fosse
nel pavimento o in loculi ricavati
nelle pareti.
Il ritrovamento dei pezzi della collezione è, come detto, di natura occasionale, non sottoposto quindi alle
procedure di uno scavo condotto
scientificamente e dunque privo di
documentazione relativa. La conoscenza dei materiali e del contesto
risulta pertanto incompleta, rimanendo limitata allo studio di provenienza
e all’analisi stilistica e tipologica dei
reperti. Le sole associazioni possibili
sono basate sul confronto con i dati
di altri scavi della stessa area, eseguiti
inizialmente dal Mancinelli tra il
1894 e il 1896 e da Sovrintendenza
e Università di Firenze in anni più
recenti. Questi studi comparativi hanno portato all’identificazione di due
parziali corredi, relativi a inumazioni
di individui di sesso femminile appartenenti al ceto aristocratico, databili tra la metà del VII e l’inizio del
VI sec. a.C.. I due corredi, paradigmatici delle sepolture di questo periodo, sono caratterizzati da vasellame
da vino, sia per il banchetto sia per
le cerimonie funerarie, e da pochi
altri oggetti che alludono al ruolo
femminile nella famiglia e nella comunità: armille, fibule, rocchetti e
fusaiole. Non deve stupire la presenza di servizi per il banchetto anche
nelle tombe femminili, poiché la
gestione del vino era prerogativa
della donna di classe gentilizia in
qualità di padrona di casa.
La parte più cospicua del materiale
esposto offre una panoramica articolata delle produzioni vascolari del
territorio vulcente nel periodo di
massima fioritura dell’abitato di Pog7
gio Buco. Le tipologie ceramiche
spaziano dai vasi ad impasto, privi
di elementi ornamentali, ma anche
dipinte o decorate con applicazioni
in stagno, al bucchero con i motivi
plastici zoomorfi applicati sulla superficie caratteristici delle botteghe
vulcenti, alla etrusco-geometrica di
medie e grandi dimensioni, alla etrusco-corinzia da mensa o per unguenti
e profumi.
Sui pezzi della collezione è stato
necessario eseguire numerosi interventi di restauro, dapprima finalizzati
a ripristinare le condizioni originali
dei reperti, che negli anni passati
furono sottoposti a rimontaggi scorretti e sommarie procedure conservative poco o per niente idonee, anzi
talora addirittura invasive e compromettenti per l’integrità stessa dei
materiali . Successivamente si è agito
per garantire la salvaguardia degli
oggetti nel tempo e per valorizzarli
in vista dell’esposizione al pubblico.
La descrizione delle procedure seguite e delle difficoltà incontrate
durante il restauro, così come la storia
delle collezioni etrusche del museo,
vari approfondimenti sul sito di Poggio Buco (dalle più antiche ricerche
ai progetti di tutela e valorizzazione
dell’area) nonché brevi saggi sulle
classi ceramiche e schede puntuali
su tutti i reperti esposti, costituiscono
il contenuto della pubblicazione dedicata alla nuova acquisizione del
museo: C. AMBROSINI e F.M.
GAMBARI (a cura di), 2004, La
Collezione Dianzani. Materiali da
Poggio Buco nel Museo di Antichità
di Torino, Torino.
Enrico Di Nola, Valentina Faudino
Oinochoai trilobate in ceramica etrusco-corinzia
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
LE FASI INSEDIATIVE DI POGGIO BUCO
Evidenze archeologiche e vita del sito
Testimonianze protovillanoviane: fori scavati nella roccia per
pali di capanna, resti di focolare, materiale ceramico, tombe a
XI - X sec.
.C.
incinerazione.
Abbandono dell’abitato. La popolazione distribuita lungo il
IX - Fine VIII sec. a.C.
Fiora si concentra a Vulci.
Rioccupazione del sito a opera di gruppi aristocratici
Fine VIII sec. a.C.
vulcenti. Tombe a Fossa.
Consolidamento della supremazia raggiunta. Fase di massima
fioritura del centro. Dalle tombe a fossa si passa a quelle
Seconda metà VII – VI sec a.C.
familiari a camera. L’area urbana viene munita di cinta muraria
e arricchita di edifici monumentali (tempio?).
V sec. a.C.
Declino del centro (e di molti altri dell’Etruria meridionale).
Ultima fase insediativa, epoca romana. Tombe a corridoio,
Fine II sec a.C. – I d.C.
statuette di terracotta ed ex voto di età ellenistica.
Cronologia
Rilievi di scavo delle tombe a fossa di Poggio Buco
(Riccardo Mancinelli - scavi 1894-98)
LE CLASSI CERAMICHE DELLA COLLEZIONE DIANZANI
IMPASTO
Classe
ceramica
Cronologia e committenza
Ceramica peculiare dell’età orientalizzante, soprattutto
tra la seconda metà dell’VIII e la prima metà del VII
sec. a.C., quando viene soppiantato quasi totalmente dal
bucchero. Persisterà più a lungo nell’Etruria interna,
ambiente più conservatore. Affonda le sue radici nella
tradizione protostorica villanoviana e si sviluppa con
molte varianti locali.
I processi produttivi meno standardizzati rispetto al
bucchero, la presenza di particolari realizzati a mano e
l’estrema libertà nella resa plastica attribuivano
particolare valore a questa ceramica, che incontrava il
favore della committenza locale (classi medio-alte),
desiderosa di distinguere i propri servizi dalla
produzione di massa dedicata all’esportazione.
VI sec. a.C. (età arcaica) si
della ceramica ad impasto,
in ambito domestico e parte
suppellettile funzionale al
Molto apprezzata dalle classi gentilizie etrusche, si
sviluppa tra il 630 e il 550 a.C. per imitazione della
ceramica corinzia a figure nere con teorie di animali
selvatici e fantastici su registri paralleli, a sua volta
influenzata dalle esperienze figurative del Vicino
Oriente. La sua scomparsa è dovuta al subentrare della
ceramica attica, importata a partire dalla metà del VI
sec. a.C..
Largamente diffusa in ambito italico e mediterraneo,
questa ceramica si diffuse, a partire dall’Etruria
meridionale, sin dall’inizio del VII sec. a. C. e fino al
IV sec. a.C., quando venne soppiantata dalla vernice
nera di matrice ellenistica.
GRECOORIENTALE
ETRUSCO-CORINZIA
Dalla fine dell’VIII sec. a.C. gli Etruschi avviano
produzioni ceramiche che risentono fortemente
dell’avvenuto contatto coi primi coloni greci (euboici e
corinzi) sul suolo italico e con le innovazioni culturali
da loro portate: la depurazione più accurata dell’argilla,
la coltivazione della vite e i riti legati al vino, l’alfabeto.
BUCCHERO
ETRUSCOGEOMETRICA
Tra la fine del VII e il
assiste alla ricomparsa
utilizzata essenzialmente
dei corredi in quanto
banchetto.
Tecnica, decorazione, forme.
Da non intendersicome genericaargilla scarsamentedepuratao ceramica
comuneper cucina,l’impasto costituisceuna particolareclassedi ceramica
caratterizzatadall’aggiunta all’argilla depuratadi minuti frammenti di
minerali (principalmente silicati e composti metallici) che costituiscono il
degrassante preposto a rendere il corpo ceramico più refrattario e miglior
conduttore di calore. Questo permetteva di cuocere gli oggetti in forni anche
piccoli e sommariamente realizzati, dove il controllo dell’uniformità della
combustione e della diffusione del calore non poteva essere sempre ottimale. La
superficie veniva lisciata con brunitoi in osso, corno o pietra per renderla
omogenea e impermeabile, ottenendo un effetto lucido durevole che talvolta
assumeva l’aspetto di una crosta liscia di diverso colore, simile per effetto
all’ingobbio. I motivi ornamentali, dal repertorio naturalistico, erano incisi,
dipinti o resi plasticamente. Un tipo particolaree pregiato di decorazione erano
le applicazioni metalliche: borchiette e lamelle di bronzo o stagno fissate con
collanti resinosi di origine vegetale.
Le forme sono quelle della tradizione villanoviana o di imitazione del materiale
importato.
Un gruppopresentasuperficieesternalevigata rosso-bruna scura; un altro ha
superfici ruvide di colore rossiccio chiaro, beige-arancio. Le forme si sono
semplificate, la decorazione è pressoché assente, l’uso del tornio veloce è ormai
generalizzato.
Inizialmentesolo su forme di imitazione greca (servizi per il banchetto), poi
anche su forme di tradizione locale, compaiono i motivi decorativi caratteristici
dello stile geometrico: chevrons (linee spezzate), zig zag, rombi e triangoli
campiti con reticoli, spirali, cerchi concentrici, aironi stilizzati. Sono simboli
che rinviano alla sfera acquatica e a un universo mitologico comune ai popoli
mediterranei. Il supporto è l’impasto o l’argilla figulina (depurata).
I diversi elementi stilistici della decorazione figurata (uccelli acquatici,
animali selvatici e fantastici) hanno permesso di individuare tre successive
generazioni di ceramografi etrusco-corinzi: tra il 630 e il 600 a.C. è ancora
evidente la fedeltà ai modelli corinzi, nelle anfore e nei vasi potori policromi;
tra 600 e 580 a.C. si affermano il vasellame simposiaco e i contenitori per
unguenti; tra 580 e 550 a.C. la produzione si allontana dai modelli corinzi e si
massifica per soddisfare la richiesta del ceto medio che vuole assimilarsi ai
costumi delle classi superiori. Caratteristici delle botteghe vulcenti sono i
riempitivi a rosoni, il Ciclo dei Galli affrontati e il Running Dog Style, di
derivazione rodia.
Eseguitaal tornio, priva di rivestimento, veniva cotta in atmosfera riducente,
cioè in assenza di ossigeno, per conferire al corpo ceramico il caratteristico
colore nero in superficie e in frattura, con l’intento di imitare l’aspetto lucente
e le pareti sottili dei pregiati modelli in avorio, argento, bronzo provenienti dal
mondo greco-orientale. In seguito la stessa tecnica venne applicata anche su
forme tradizionalmente ceramiche.
Le botteghe vulcenti si distinsero per produzioni dalle dimensioni e
proporzioni finanche eccessive, decorazioni esuberanti, motivi plastici
applicati (protomi zoomorfe e antropomorfe, motivi circolari con protuberanza
conica centrale), motivi lineari incisi, baccellature a rilievo sulla spalla dei
vasi ad imitazione del metallo sbalzato.
Prodotta in Ionia alla fine del VII sec. a.C. e diffusa dai Si trattadi vasellamegrecodi importazione,soprattuttodi coppe a vernice nera
mercanti greci negli empori etruschi.
e vasetti portaprofumo.
8
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Un parco archeologico a Torino
È STATO AVVIATO IL PROGETTO PER L’AREA ARCHEOLOGICA DELLE PORTE PALATINE
La nostra città in questi anni sta
subendo, com’è sotto gli occhi di
tutti, una pesante e importante serie
di lavori pubblici, che ha visto
un’accelerazione in vista delle
prossime Olimpiadi invernali del
2006. Se non poche remore possono
essere espresse sugli edifici con
destinazione prettamente olimpica
(e soprattutto sulla loro utilità postolimpica), bisogna rendere atto al
Comune della bontà di molte iniziative e delle aggiornate fonti
d’informazione messe a disposizione
della cittadinanza: grazie alle informazioni fornite dalla stampa, alle
pagine dedicate in Internet e al
materiale informativo multimediale
esposto ad Atrium, possiamo renderci
conto personalmente di cosa è stato
progettato e quanto è stato finora
effettivamente realizzato. L’obiettivo
di questo apparato divulgativo,
probabilmente, è quello lodevole di
far accettare più serenamente ai cittadini la convivenza
con gli attuali disagi, provocati dall’apertura di innumerevoli
cantieri, e la spesa che questi comportano; l’adesione sarà
sicuramente maggiore se le opere finali si dimostreranno
realmente utili e migliorative per la città.
Fra le iniziative che stanno particolarmente a cuore degli
amanti dell’archeologia vi è indubbiamente la creazione
del Parco Archeologico nell’area del Duomo e delle Porte
Palatine: la porta settentrionale d’ingresso alla città romana,
inglobata nella crescita urbana dei secoli successivi, costituisce
oggi, insieme al teatro, l’elemento di maggior spicco nel
panorama archeologico di Torino. I grandi progetti di risistemazione, firmati da Alfieri, Canina, Antonelli, non
hanno mai avuto esiti concreti, mentre le demolizioni fra
Ottocento e Novecento per liberare la porta romana prima
dai rimaneggiamenti di epoca successiva, poi per aprire
nuove strade, nonché i bombardamenti, hanno contribuito
a generare quel senso di incongruenza e sospensione che
porta oggi il passante ad attraversare la zona frettolosamente.
Lo scopo di questo progetto di riqualificazione è dunque
quello di restituire ai cittadini un’area centralissima, così
ricca di storia cittadina.
Si può far risalire il progetto di
rinnovamento al 1993, quando si
decise l’eliminazione delle auto
in sosta da piazza S. Giovanni, a
cui sono seguite negli anni la
pedonalizzazione della piazzetta
reale, la chiusura al traffico privato
delle vie XX Settembre e Milano,
la costruzione di nuovi parcheggi
e del sottopasso di corso Regina
Margherita. Finalmente, a quasi
dieci anni dalla prima iniziativa,
viene deciso un piano organico per
valorizzare le presenze archeologiche e la recente rinnovata vocazione turistico-culturale di Torino.
Il progetto del Parco prevede un
grande giardino di circa 5000 mq
circondato da filari di carpini,
confinante con la piazza del Duomo
9
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
e attraversato il più discretamente possibile
museografico che metta in luce l’unitarietà
da via XX Settembre (le due parti saranno
delle testimonianze archeologiche presenti,
collegate da passaggi sotterranei e passerelle):
verso una percezione della crescita urbana
all’interno sarà quindi possibile un percorso
e sociale della città” (Silvia Lojacono, Progetti
di visita che attraversi le Porte, raggiunga
per Torino 2006 e oltre, materiale informativo
da un lato il Duomo e dall’altro il Museo
fornito dal Comune di Torino): grazie a
di Antichità, nonché ovviamente il teatro.
quest’opera saranno resi visitabili nuovi reperti
A Nord il parco verrà chiuso da un bastione
e strutture messe in luce, in un percorso
ricavato sul tracciato di quello demolito
che continui l’esposizione del Museo di
nell’Ottocento, che inoltre ospiterà al suo
Antichità.
interno locali di rimessaggio per gli operatori
Il museo si estenderà anche nei locali
del mercato.
sotterranei della Manica Nuova di Palazzo
Tutta la viabilità dell’area sarà modificata: Pianta della chiesa ottagonale di San Reale, destinata ad accogliere nella prima
il progetto, infatti, prevede di incorporare Michele, rilevata prima della demoli- parte un’esposizione di reperti dedicata
nel giardino anche il tratto di via Porte zione da Filippo Juvarra (XVIII secolo). all’archeologia della città, dalla fondazione
Palatine adiacente a queste, deviare il traffico
della colonia augustea al ducato longobardo;
nelle vie circostanti e rinnovare l’aspetto di largo IV Marzo. oltre il corpo centrale, invece, saranno accessibili le vestigia
La sistemazione dell’area circostante le Porte Palatine del teatro su cui la Manica Nuova sussiste, scoperti a fine
dovrà certamente tener conto delle scoperte che molto pro- Ottocento proprio in occasione dei lavori per l’edificazione
babilmente emergeranno nel corso dei lavori, data la rilevanza del nuovo fabbricato.
archeologica della zona: è del 18 Gennaio 2005 la notizia
L’ampliamento fin qui descritto sarà reso agibile in oc(Segnalazione all’interno della cronaca di Torino de La casione dell’evento olimpico, ma il progetto della SoprinStampa,“Specchio dei tempi”) che sarebbero venuti alla tendenza è ancora più impegnativo, sebbene la sua conclusione
luce i resti della chiesa di S. Michele, di verosimile epoca sia prevista dopo il 2006. Il percorso museografico sarà
longobarda, collocata fra le attuali via Milano e via Tre infatti ampliato oltre il teatro, sotto la piazzetta del Duomo:
Galline. La chiesa, di pianta ottagonale, è documentata per attraversata la strada romana che fiancheggiava la cavea
la prima volta nel 1044 e sembra sia stata demolita nell’ambito del teatro (con i basoli perfettamente conservati), si potrà
del progetto di sistemazione urbanistica elaborato da Juvarra. accedere agli scavi delle tre chiese paleocristiane che preNon possiamo che unirci all’appello formulato dal presidente cedettero il Duomo cinquecentesco; in corrispondenza del
della sezione torinese di Italia Nostra, Roberto Lombardi, presbiterio di S. Salvatore sarà anche ricollocato nella sede
affinché sia effettuata un’adeguata indagine archeologica originaria il mosaico di circa 100 mq raffigurante la Ruota
dell’area e sia prevista anche una futura fruizione dei resti della Fortuna e la Mappa del Mondo (risalente alla fine
per cittadini e turisti (iniziativa che sarebbe assolutamente del XII secolo). Si prospetta infine l’opportunità di raggiungere
coerente con le finalità del Parco Archeologico stesso). anche la chiesa inferiore del Duomo, passando anche per
Il Parco Archeologico è stato concepito come una tappa gli ambienti di fondazione del campanile.
del percorso museale che raccoglie in questo angolo di
Con queste rosee prospettive, non ci resta che attendere...
città circa duemila anni di storia. A questo proposito, è e sperare che le nostre aspettative non vengano deluse!
doveroso citare il progetto elaborato per iniziativa della
Soprintendenza Archeologica,“per dare origine a un percorso
Anna Ferrarese
GAT - CONVENZIONI e ACCORDI di collaborazione in essere
SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI del PIEMONTE
Accordo di collaborazione pluriennale per il monitoraggio e
l’indagine del patrimonio archeologico della Collina Torinese.
Tale accordo è la base su cui si sviluppa il Progetto di Ricognizione
sulla Collina Torinese, che vede impegnati i Soci del Settore
Ricerca due domeniche al mese.
SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI della TOSCANA
Convenzione annuale sottoscritta nel 2004 con la Soprintendenza
per i Beni Archeologici della Toscana per la realizzazione del
progetto di ricognizione pluriennale di una grande area compresa
tra i comuni di Sorano, Pitigliano e Manciano (GR).
Tale progetto ha condotto alla creazione del Campo Archeologico
estivo “Monti del Fiora”, la cui direzione è nelle mani della
Soprintendenza stessa (dott.ssa Barbieri e dott. Camilli) mentre
organizzazione e gestione sono totalmente a carico del GAT.
Partner del progetto 2004 è stato il Cesvol “Idea Solidale” di
Torino, con il quale sono in corso trattative per la ripetizione
dell’iniziativa anche nel 2005.
CITTÀ DI TORINO - ASSESSORATO ALLA CULTURA
Accordo di collaborazione per itinerari guidati tra arte e storia
in Torino, illustrati da volontari e da guide turistiche (Progetto
“Torino e Oltre” - Responsabile: Luca Nejrotti). Per informazioni,
rivolgersi alla nostra Segreteria.
10
MUSEO EGIZIO DI TORINO
Convenzione sottoscritta con la Soprintendenza al Museo
delle Antichità Egizie di Torino per le seguenti attività:
- servizio di custodia museale e servizio di monitori museali,
- supporto all’attività didattica ed ai progetti per i quali
la Direzione del Museo richieda la collaborazione (mostre,
itinerari, manifestazioni particolari, attività scientifica).
BIBLIOTECA NAZIONALE - UNIVERSITARIA DI TORINO
Convenzione in essere dal 1995 per collaborare:
nell’assistenza all’utente nell’uso della biblioteca, degli
strumenti informatici e nella consultazione dei cataloghi
e nei servizi di informazione; nei rapporti con la scuola;
nella realizzazione di progetti mirati; nella catalogazione,
nella conservazione e nel restauro del materiale librario.
MEDIARES scrl • www.archeomedia.net
È stata stipulata una collaborazione per cui tutti i soci
del Gruppo che possiedono una e-mail possono abbonarsi
gratuitamente alla rivista archeologica on-line
Archeomedia e riceverne gli avvisi di aggiornamento.
Per attivare il servizio è sufficiente spedire la richiesta a:
[email protected]
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
I predatori del patrimonio
culturale perduto
DUE CASI EMBLEMATICI DIMOSTRANO LA NECESSITÀ DI UNA COSTANTE ATTENZIONE
Diventa sempre più ardua
l’attività di sensibilizzazione
di chi ha fatto della tutela e
della valorizzazione dei beni
culturali la propria bandiera.
Gli attacchi vengono da tutte
le parti e sono sia coscienti,
e quindi “dolosi”, sia involontari, dettati da ignoranza
e superficialità.
Fatto sta che tra Istituzioni
e pensiero comune, il Volontario in archeologia si trova
a dover combattere un sostanziale disinteresse ben radicato. Non sempre con risultati positivi. Vi diamo due
esempi molto diversi su cui
riflettere.
Da un lato quest’autunno ha visto
svolgersi un acceso dibattito, ancorché
in sordina per i non addetti ai lavori,
sulla possibilità di rendere molto più
facile l’appropriarsi di beni archeologici. Si tratta del cosiddetto Archeocondono, un emendamento della legge finanziaria che avrebbe consentito ai
possessori illegali di reperti archeologici
di denunciarne il possesso e di diventarne legalmente proprietari con il pagamento di una multa pari al 5% del
valore stimato.
Sorgono alcuni problemi: primo, chi
dovrebbe valutare l’effettivo valore del
Bene? La Soprintendenza, è ovvio, ma
sappiamo bene che l’Istituzione è già
oberata dal lavoro: quindi ci si sarebbe
limitati al tremendo “silenzio assenso”,
pratica già invalsa per il patrimonio
statale in vendita. Ora, come può una
perizia privata valutare, a fianco del
valore monetario, il valore storico di
un reperto? E’ impossibile, dato che
quest’ultimo dipende da fattori impalpabili come il contesto del ritrovamento!
Inoltre “Archeocondono” è un termine
fuorviante in quanto la legge avrebbe
reso la sanatoria applicabile non solo
per il pregresso, ma anche per i successivi furti di reperti archeologici, rendendone di fatto legale la ricettazione in
cambio di un banale balzello del 5%!
Fortunatamente, anche grazie
all’intervento di autorevoli pensatori
quali il professor Salvatore Settis della
Scuola Normale Superiore di Pisa, lo
stesso Governo ha preso le distanze
dall’emendamento che è stato ritirato
dai suoi medesimi promotori.
Il pericolo è scongiurato, ma fino a
quando? Occorre vigilare perché fatti
del genere non si ripetano e simili idee
non vengano nemmeno più prese in con-
siderazione!
Tutto nasce da un errore di
fondo: si ritiene comunemente
che il Bene Archeologico sia
improduttivo e che il fatto che
ne sia proprietario lo Stato
defraudi il cittadino di un legittimo possesso! Niente di più
falso e tendenzioso! Lo Stato,
come proprietario del Bene
Archeologico tutela tutti i
cittadini e fa sì che esso resti
effettivamente proprietà di tutti
nel tempo. Saperlo nel magazzino di un museo può essere
frustrante, ma il reperto archeologico ha anche funzione
e valore come tassello della
ricerca storica ed in quanto tale deve
rimanere alla portata degli studiosi che
poi, a loro volta, devono rendere pubbliche e dominio di tutti le proprie indagini e i propri risultati.
Un altro caso emblematico: un articolo del Manifesto, recensendo un divertente e interessante libretto sulla
carriera di un tombarolo “storico”,
Pietro Bozzini, assume un tono quasi
epico, deprecando la perdita di siffatte
tradizioni e presentandolo quasi come
un eroe romantico.
Qui di seguito vi presentiamo la nostra
risposta all’articolo, sperando che sempre più i beni culturali siano considerati
appannaggio di tutti e non di pochi
addetti ai lavori, e nemmeno di pochi
estimatori che per gusto o ostentazione
se ne approprino anche illegalmente.
Luca Nejrotti
CONTROSTORIE - “ARTI DA DIMENTICARE”
Il punto di vista del volontariato culturale
Scavare in cerca di reperti archeologici allo scopo di
rivenderli sul mercato nero, dunque senza il controllo
degli organi preposti è illegale.
Inoltre è la prima causa dell’impoverimento del patrimonio culturale italiano ed alimenta un circolo vizioso
che negando alla popolazione l’accesso alla propria
storia lo concede solo a chi, già ricco, può permettersi
di attingere al mercato antiquario sommerso.
Spett. redazione de “Il Manifesto”,
Leggere il vostro articolo del 17 settembre 2004 è stata una
vera doccia fredda per chi sa la vostra testata essere sensibile
alle tematiche di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale.
Questo non significa denigrare il lavoro di Antonello Ricci,
del quale siamo i primi estimatori, quanto piuttosto sottolineare
come una testata giornalistica debba presentare più punti di
vista in nome dell’obiettività. Come operatori del volontariato
11
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
anche minimi come pollini ed analisi chimiche sui contenuti
dei vasi e sui resti organici: immaginatevi che informazioni
si possono trarre da un sito che sia stato sventrato da una
carica di dinamite per depredare due o tre reperti rimasti
miracolosamente integri!
La rabbia è accresciuta dalla consapevolezza che il tombarolo
non è altro che il primo anello di una catena che mobilita
interessi economici fortissimi. Generalmente l’ignoranza
rende il tombarolo stesso preda facile di antiquari senza
scrupoli e ricettatori che per poche migliaia di euro si accaparrano merce che rivenderanno a caro prezzo.
Il percorso del reperto parte dalle mani sporche di terra e
comunque in parte nobilitate dal lavoro fisico del tombarolo,
per finire, per cifre ridicole, nei magazzini di antiquari da
cui, complici funzionari compiacenti che falsificano permessi
e certificati, prendono la via del mare per venire “ripuliti”
dall’origine illegale e finire, nella migliore delle ipotesi,
ricomprati a cifre esorbitanti dai musei del territorio d’origine,
o, peggio, di nazioni diverse (si pensi al caso dei reperti
iracheni diventati bottino di guerra!), o, caso ancora più grave,
proprietà di facoltosi privati che per un concetto aberrante di
mecenatismo si fanno belli dei buccheri e dei bronzi nei
propri salotti!
Qui c’è un nodo spinoso perché la merce rubata viene così
sottratta al proprio legittimo proprietario, che è lo Stato,
quindi in ultima analisi i cittadini tutti, per finire nelle tasche
già gonfie di criminali che privano una nazione delle testimonianze materiali del proprio passato quindi in definitiva
della propria cultura.
E’ più che noto, inoltre, lo stretto legame tra il commercio
illegale di reperti archeologici e altri traffici della criminalità
organizzata come armi e droga.
culturale ci sentiamo in dovere di replicare.
Intorno alla figura del tombarolo, purtroppo, si è sviluppata
un’aura eroica di cui il vostro articolo è un’ulteriore, non
necessaria, conferma; se infatti tale considerazione può essere
applicata, con gli opportuni distinguo, a personaggi “storici”
come Pietro Bozzini, testimoni di un’epoca in cui l’archeologia
non molto si discostava ancora dalla ricerca di tesori sepolti,
in cui i tombaroli stessi affiancavano archeologi accademici
fornendo loro le conoscenze empiriche del territorio indispensabili per chi, come Poupé, non aveva alcuna cognizione
pratica dell’ambiente studiato, non è assolutamente applicabile
al fenomeno che è attualmente ancora diffusissimo in tutto
il territorio italiano.
Sappiamo che tutto ciò dipende essenzialmente
dall’ignoranza in materia e ci permettiamo di fornire alcune
informazioni che riteniamo utili per una doverosa rettifica.
Innanzi tutto, chi è il tombarolo e come opera? Oggi il
tombarolo è ancora prevalentemente radicato nel mondo
contadino che trae dal proprio costante rapporto con la terra
una conoscenza invidiabile del territorio: generalmente si
tratta di figure prive di sensibilità per il bene trattato e che,
individuato il sito archeologico, s’interessano a ricavarne il
più possibile in una notte di lavoro. I suoi strumenti variano
dallo spillone ormai famoso al metal detector, dal piccone
alla dinamite.
Infatti la chiave del successo di un tombarolo dipende dalla
rapidità; se s’indugia troppo o se si torna la notte successiva
si rischia di trovarsi i Carabinieri appostati nei dintorni, quindi
l’attività assume il carattere di “mordi e fuggi” e le cautele
nel trattare il sito sono inesistenti. Come se non bastasse, il
tombarolo “serio”, nel momento in cui si rende conto di non
poter portar via tutto il materiale presente si vede costretto
a distruggere ciò che lascia dietro sé per una normale logica
di mercato secondo la quale più è raro il reperto, più è facile
far salire il prezzo. A volte interviene anche la rabbia e la
frustrazione di non potersi portar via tutto il contenuto del
sito: si assiste allora ad un insensato accanimento distruttivo.
Ora immaginatevi la frustrazione di chi dedica la propria
vita professionale alla ricerca archeologica e spende le proprie
energie e le proprie - poche - risorse nello studio e nella
contestualizzazione dei siti, quando arriva al mattino e si
trova il sito depredato nottetempo! Ogni bene archeologico
non ha alcun senso per l’archeologia moderna se non inserito
in un contesto il più intatto possibile. L’archeologia è oggi,
per fortuna, una scienza storica affascinante che sfrutta indizi
Pietro Bozzini è sicuramente al di fuori di questi giochi,
ma incensarne la figura unilateralmente finisce per creare un
alibi per chi ne segue le orme non per bisogno, ma per
un’avidità ottusa che ne fa l’ultima pedina del gioco del
commercio clandestino.
La stolida cupidigia del tombarolo si vede in casi esemplari
come quando, avendo rinvenuto una statua di marmo intatta,
da cui potrà ricavare poche migliaia di euro, le rompe un
braccio, o la decapita per potere presentarsi dal ricettatore
qualche giorno dopo dicendogli: “Guarda, son tornato sul
posto e ho trovato ancora questo che potrebbe completarla!”
e scucirgli così un’altra manciata di euro.
12
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
quindi non possiamo che augurarci che il desiderio del Bozzini
sia rispettato e che tutti gli spilloni vengano davvero seppelliti
con chi ne ha fatto uso per non venire mai più utilizzati.
Chi, come i volontari culturali, si dedica alla sensibilizzazione della popolazione alle tematiche archeologiche non
può che reagire di fronte a questo scempio che è già grave
senza che i mezzi di comunicazione presentino questi piccoli
criminali come dei Robin Hood o dei Francis Drake
dell’archeologia!
Ci vengono frequentemente poste alcune obiezioni, frutto
dell’ignoranza che ancora è diffusa sull’argomento: cerchiamo
qui di dare una risposta definitiva.
“Per lasciarli lì, tanto vale che si rivendano e che se ne
ricavino subito un po’ di quattrini!”
Niente di più falso: un sito archeologico sepolto ha raggiunto
un equilibrio delicato ma sostanzialmente stabile; se non vi
sono i fondi per indagarlo approfonditamente, può essere
lasciato intonso fino a nuovo ordine quando, o per disponibilità
di risorse economiche o per un progresso dei mezzi archeologici, non sarà possibile indagarlo! Già oggi l’archeologo
ha a disposizione metodi d’indagine insospettabili fino a dieci
anni fa: senza nulla togliere all’opera di un Poupé e di uno
Schliemann, oggi dai siti da loro indagati si potrebbero
ricavare molte più informazioni.
“Vi sono tombaroli che per conoscenza del territorio e
capacità di scavo darebbero punti a molti archeologi!”
Se anche fosse vero, ormai la figura professionale
dell’archeologo, frutto di circa otto anni di studio, è caratterizzata da capacità e conoscenze tecniche e scientifiche fuori
della portata di qualsiasi autodidatta. Se ammettiamo che la
tecnica di scavo sia relativamente semplice da apprendersi,
posto che è raro che un tombarolo sappia o voglia scavare
archeologicamente un sito, le analisi chimiche e fisiche, i
metodi d’indagine non distruttiva, e i mezzi con cui il reperto
archeologico viene reso fruibile al grande pubblico sono
totalmente preclusi e in definitiva inutili al tombarolo il cui
unico scopo è rivendere il pezzo ad un buon prezzo!
Gruppo Archeologico Torinese ONLUS
Sono tombaroli quelli che riempiono di buchi un castello,
a volte minandone la statica, alla ricerca di un tesoro, sono
tombaroli quelli che smembrano un manoscritto miniato
ritrovato in qualche archivio per ricavare più dalla vendita
delle singole pagine che dell’opera integra, sono tombaroli
quelli che depredano le navi sommerse, sono tombaroli quelli
che, per far prima, fanno saltare con gli esplosivi la cupola
di un tumulo etrusco per accedere alla camera funeraria,
distruggendo il novanta per cento del materiale ivi contenuto,
sono tombaroli quelli che crivellano un sito archeologico
cercando chissà che, ma disperdendo informazioni preziose
che solo un archeologo potrebbe leggere, sono tombaroli
quelli che attendono fuori dagli scavi archeologici che gli
operatori vadano a dormire per derubarli nottetempo del
materiale rinvenuto.
E siamo d’accordo con Pietro Bozzini che profanare siti
antichi ingeneri commozione e si debba agire con rispetto:
ma indagare un sito archeologico per ricavarne informazioni
che arricchiscano la storia dell’uomo è l’unico fine possa
motivare quest’attività.
Se la piaga dei tombaroli non fosse così diffusa, molte
pagine della nostra storia passata non sarebbero così oscure:
13
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Piazza San Carlo
SCOPERTE INATTESE E SPERANZE DISILLUSE
All’inizio del 2004 sono partiti i lavori per la realizzazione
del parcheggio sotterraneo in piazza San Carlo, deliberato
nel 2002. Il celebre salotto di Torino sarà riconsegnato ai
pedoni, nelle intenzioni della giunta comunale, grazie alla
costruzione di un parcheggio per 360 posti auto, collegato
a quello già esistente di via Roma; ma il progetto è ancora
più ambizioso: saranno infatti create gallerie di collegamento
con la metropolitana, che passerà a poche centinaia di metri.
Nei mesi scorsi l’iniziativa della nuova sistemazione ha
causato accese proteste da parte delle associazioni ambientaliste, le quali sostengono che il parcheggio sotterraneo
non è l’unica alternativa per realizzare la pedonalizzazione
completa della piazza: in effetti la tanto sbandierata volontà
di riqualificazione ambientale del nostro congestionato
centro non sembra concordare bene con la moltiplicazione
dei parcheggi sotterranei proprio in centro, cui stiamo assistendo…
Dal punto di vista tecnico, conseguentemente alle rimostranze di ambientalisti e intellettuali, sono state apportate
variazioni alla disposizione delle necessarie ma antiestetiche
griglie di aerazione, in modo da ottenere un minore impatto
sull’aspetto della piazza. Inoltre, la pavimentazione della
piazza sarà realizzata riportando in auge il progetto originario
del Castellamonte, con l’eliminazione dei marciapiedi e
con il selciato, realizzato rigorosamente con l’utilizzo dei
materiali originari, in linea con i portici. Nonostante ciò,
sono ancora molti i cittadini e le associazioni che esprimono
profonda disapprovazione per l’operato della nostra giunta
comunale.
Lo sventramento della piazza è stato ovviamente accompagnato dalla supervisione della Soprintendenza ai Beni
Archeologici nella persona di Marina Sapelli Ragni, al fine
di accertare ed eventualmente documentare presenze archeologiche. Sono affiorate cinque sepolture, all’incirca nell’area
antistante il Caffè Torino: si tratta di semplici fosse, realizzate
con una fodera in muratura all’interno, secondo una tipologia
già riscontrata nelle aree di necropoli esterne alla cinta
muraria romana; per ora, l’unico elemento datante è costituito
da una piccola moneta, forse tardoromana.
Sono riemersi anche i resti del ponte costruito in occasione
del matrimonio fra Vittorio Amedeo I e Cristina di Francia,
avvenuto nel 1619: il corteo nuziale, superata la Porta Nuova
(opera intrapresa per la medesima occasione da Castellamonte),
doveva dirigersi verso piazza Castello, valicando con il
ponte il fossato che Francesco I di Francia aveva fatto
realizzare nel Cinquecento per entrare in città.
Il ponte, realizzato con sei campate lignee su tre serie
di pilastri, non era terminato nel 1619 e in realtà funzionò
per breve periodo: infatti, fu demolito e interrato con il
vallo quando dal 1638 s’incominciò a edificare l’area di
piazza San Carlo. Gli scavi hanno recentemente portato
alla luce i resti della terza serie di piloni, con un tratto di
mura a scarpa, che conteneva il vallo, e due bretelle
d’ancoraggio. In un’intervista di Maurizio Lupo (La Stampa,
Domenica 9 Gennaio 2005) F. Pernice, della Soprintendenza
ai Beni Architettonici del Piemonte, ha affermato che molto
probabilmente questa testimonianza non sparirà a causa dei
lavori: nella rimessa sotterranea che è in corso d’opera, i
piloni del ponte messi in luce rimarranno visibili, portati
a filo del pavimento.
Ulteriori notizie dai quotidiani (“La Stampa” del 3 febbraio
u.s.) ci informano del ritrovamento, presso il monumento
equestre, di un’abitazione romana del I sec. d.C.; ubicata
in area extramuraria, in prossimità della strada che usciva
dalla porta meridionale della città romana, si trattava di un
edificio rustico, dotato di più vani delimitati da muri in
ciottoli legati con malta e munito di un’area adiacente recintata.
Secondo le prime interpretazioni, la zona dell’edificio
venne poi impiegata come area sepolcrale, come testimoniano
i ritrovamenti di un’urna funebre intatta, di elementi ceramici
di corredo e di un’anfora segata, probabile sepoltura infantile.
Oltre a ciò, i lavori hanno messo in luce anche tre tombini
in cemento armato, resti della rete fognaria realizzata negli
anni ’30 congiuntamente alla via Roma (scambiati da alcuni
sprovveduti e troppo entusiasti passanti per colonne di marmo!)
e le fondazioni del monumento a Emanuele Filiberto.
Gli scavi condotti in piazza San Carlo hanno avuto per
lo meno il risvolto di fugare definitivamente ogni ombra
di dubbio (per chi ancora ne avesse avuto) sulla coincidenza
fra la piazza e l’anfiteatro di Augusta Taurinorum. Mentre
per quanto riguarda il teatro romano possediamo evidenti
riscontri archeologici, per l’ubicazione dell’anfiteatro ci si
è dovuti limitare a ipotesi, posto che la sua esistenza è
quasi certamente postulabile in un centro urbano di tali
dimensioni e importanza. La documentazione cartografica
su Torino dal periodo tardomedievale in poi non è affatto
d’aiuto nello svelare l’arcano; solo una pianta del XIX sec.
raffigurante la città e i borghi extraurbani agli inizi del XV
sec., evidenzia una struttura di forma circolare-ellittica, che
viene definita esplicitamente “anfiteatro romano": tale struttura
viene disegnata nell’area compresa tra le attuali piazza S.
Carlo, via Roma, via dell’Arcivescovado e via XX Settembre,
in antico esterna alla cinta muraria a sud-est della Porta
Marmorea. La situazione topografica delineata ben si adatta
alla consuetudine romana di porre tale categoria di edifici
in posizione extramuranea o comunque marginale, per facilitarvi l’accesso senza sconvolgere la viabilità cittadina
e per non secondarie ragioni di ordine pubblico.
Secondo una ricerca commissionata dal Comune ai professori Vera Comoli e Luciano Re e approvata da Luisella
Pejrani, resti importanti dell’anfiteatro erano ben visibili
ancora alla fine del ’500: l’arena in stato di abbandono
divenne progressivamente un laghetto paludoso, che poi
fu bonificato in occasione della costruzione delle fortificazioni.
Oltre all’esistenza di scarse testimonianze documentarie
sull’ubicazione dell’anfiteatro, l’unico indizio archeologico
a nostra disposizione consiste nella presenza di un grande
collettore fognario tra via Roma, via Arcivescovado e via
XX Settembre, che potrebbe essere stato destinato allo
scarico delle acque di un edificio pubblico di un certo rilievo.
Anna Ferrarese
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Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
GUIDA ARCHEOLOGICA
DI TORINO
Reperibile presso
la segreteria del G.A.T.:
Via BAZZI, 2
10152 TORINO
Tel. 011.43.66.333
il venerdì h. 18-21
offerta minima: Euro 6,00
Formato 15 x 21 cm
112 pagine
“Una finestra aperta sul più antico tessuto storicourbanistico della città, per rivivere il passato di quella
che fu Augusta Taurinorum mediante i resti archeologici
dall’età romana al Medioevo, giunti sino a noi
attraverso venti secoli di vicende”.
La Guida Archeologica di Torino, concepita nel 1994 dal Gruppo Archeologico Torinese e realizzata grazie alla passione dei Soci, ha rappresentato
in assoluto il primo prodotto editoriale dedicato alla divulgazione degli aspetti
archeologici della città, presentando analisi monografiche (la romanizzazione,
l’evoluzione urbana, l’influenza della diocesi, eccetera) ma anche riportando
recenti rinvenimenti archeologici e, soprattutto, realizzando un percorso autoguidato che riportasse tutto quanto è ancora possibile ammirare di romano
e medievale nel tessuto cittadino.
Questo snello, ma completo libretto è divenuto un vero best-seller tra le
guide turistiche torinesi, che da esso hanno attinto per aggiornare le loro
conoscenze sugli aspetti più antichi di Torino. La “guida verde”, come viene
spesso chiamata, è stata e continua ad essere un valido strumento di valorizzazione
dei beni culturali di una città ritenuta sovente, a torto, scarsamente rappresentativa
dei secoli romani e medievali.
Essendo frutto del lavoro dei volontari, le pubblicazioni del GAT non si trovano in libreria, ma soltanto presso la Sede dell’Associazione o in occasione di conferenze
o mostre organizzate dal GAT medesimo. Non hanno dunque prezzo di copertina, ma vengono distribuite dietro un’offerta minima stabilita dal Consiglio Direttivo.
Fare archeologia non significa soltanto
scavare alla ricerca di nuovi reperti ma
vuol dire anche trovare una spiegazione
a reperti insoliti o ricostruire modalità
di comportamento di popoli antichi;
quest’ultima è, in particolare, un’attività
tipica dell’archeologia sperimentale.
PIETRE D’EGITTO
Sperimentazione di
un’ipotesi di sollevamento
di grandi pesi
nell’Antico Egitto
Da queste considerazioni ebbe origine,
nel 1996, la sperimentazione chiamata
“Cheope ‘96” avente il preciso scopo
di verificare un’ipotesi di sollevamento
di grandi pesi nell’Antico Egitto.
Reperibile presso
la segreteria del G.A.T.:
Via BAZZI, 2 - 10152 TORINO
Tel. 011.43.66.333
il venerdì h. 18-21
“Pietre d’Egitto” è una descrizione
delle fasi del progetto, dei risultati
raggiunti e soprattutto un rimando ad
alcuni reperti, spunti di partenza della
sperimentazione. Il progetto nacque infatti
dallo studio di alcuni oggetti rinvenuti
nelle tombe (che potremmo chiamare
“dondoli”), piccoli dispositivi descritti
da Erodoto di Alicarnasso nelle sue
“Storie” come “macchine a travi corti”
che sollevavano di gradino in gradino
i blocchi per la costruzione delle piramidi.
offerta minima: Euro 6,00
Formato 15x21 cm
78 pagine + 24 tavole a colori
Edizione 2003
La sinergia attuata tra due diverse associazioni di volontariato, accomunate
dal medesimo interesse archeologico, e
uno studioso indipendente, ha permesso
la realizzazione di un valido progetto
di archeologia sperimentale; infatti, senza
la disponibilità di tanti volontari che hanno
prestato gratuitamente e con entusiasmo
la propria opera, il progetto avrebbe difficilmente trovato compiutezza.
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Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
I Taurini invadono Pecetto
“IL FERRO DEGLI EROI”: un tentativo vincente di collaborazione fra associazioni
Il Gat, dal 1° al 10 ottobre 2004, ha
collaborato con l’associazione culturale
Terrataurina per la realizzazione della
manifestazione “Il Ferro degli Eroi”
tenutasi a Pecetto.
L’evento è stato un esperimento, pienamente riuscito, di collaborazione delle
due associazioni; il Gat ha esposto una
mostra inerente la collina torinese in
età protostorica con un occhio di riguardo al sito pecettese di Bric San Vito
e ha organizzato una gita al sito stesso,
mentre Terrataurina ha curato la corposa
parte di ricostruzione storica, proponendo, per l’occasione, la “danza delle
spade”, ricostruita in via sperimentale
con l’indirizzo dell’Ispettore della Soprintendenza dei Beni Archeologici Filippo M. Gambari. Nelle giornate del
1° e dell’8 ottobre sono state proposte
delle conferenze, una delle quali presentata dai nostri Fabrizio Diciotti e
Luca Nejrotti; gli altri interventi sono
stati effettuati da Luisa Ferrero, dallo
stesso Filippo Gambari, da Stefania
Padovan (organizzatrice dell’evento),
da Francesco Rubat Borel e da Giorgio
Gay del CAST (Centro di Archeologia
Sperimentale di Torino).
La manifestazione stessa
presentava in sé alcuni
aspetti collaterali legati alla
storia e all’archeologia.
Oltre alle iniziative già
citate del Gat e di Terrataurina, l’artigiano Giuseppe Stucchi ha presentato
una personale, intitolata
“gli Ori dei Celti” di sue
bellissime riproduzioni di
reperti storici, mentre,
Ginevra, moglie di Riccardo Graziano, presidente di Terrataurina, ha proposto una mostra fotografica
dal titolo “Emanazioni Celtiche”. A
contorno degli eventi ci sono state due
serate con riproposizione moderna di
cibi celtici ed un concerto d’arpa.
Tutte le manifestazioni hanno trovato
luogo nei locali messi a disposizione
dal comune di Pecetto, mentre la ricostruzione del campo taurino ha trovato
posto nel parco Villa Sacro Cuore.
L’archeologo sperimentalista Roberto
de Riu, con l’aiuto di una sua collaboratrice, ha costruito un forno di terra
funzionante, nel quale ha cotto diversi
prodotti d’argilla, come era d’uso fin
dal Neolitico. Alcuni membri del CAST
hanno proposto invece una simulazione
di lavorazione di reperti metallici.
L’iniziativa ha attirato un folto pubblico dalle colline e dalla città, sia per
seguire le conferenze, sia per partecipare
agli stage di scherma antica e di tiro
con l’arco offerti dai membri di Terrataurina. Il pubblico si è mostrato molto
interessato ad una migliore conoscenza
della civiltà Celtica e dei Taurini in
particolare (alcuni hanno richiesto una
foto ricordo con i membri della tribù).
Si spera di riproporre una manifestazione dello stesso tipo anche nel 2005,
con l’auspicio di collaborare con più
Comuni e di attirare ancora più pubblico,
nello spirito di favorire una migliore
valorizzazione dei nostri beni e della
nostra storia.
Gianfranco Bongioanni
Un saluto e un ringraziamento ai soci
GAT che hanno prestato aiuto nella preparazione della mostra e ne hanno garantito la fruibilità: Claudia, Emilio, Enrico,
Silvia, Valentina, Viviana, Elena, Valter,
Mauro, Tiziana, Maurizio…e tanti altri.
Visitatori della Mostra GAT “Archeologia e Volontariato sulla Collina
Torinese” attorno alla ricostruzione del castrum di Bric San Vito.
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Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
La Danza delle Spade
Ricostruzione sperimentale di pratiche antiche
Su proposta ed indirizzo del dott. Filippo Maria Gambari, l’associazione Terrataurina ha sviluppato la ricostruzione
di ciò che, indicato dalle fonti scritte latine1, accadeva nella seconda età del Ferro (IV-I sec. a.C.). Lo spunto è
nato da alcuni petroglifi, in particolare dalla Val Cenischia dove è raffigurato un guerriero con la spada tenuta
in alto e la mano libera appoggiata sul fianco. La peculiarità dell’immagine, esclusa da ogni contesto di combattimento,
e la sua rappresentazione nel contesto delle rocce incise, quindi nel campo del religioso e del metafisico, lascia
intendere un tipo di danza dalle forti connotazioni spirituali.
La tecnica di combattimento dei guerrieri Celti prevedeva l’utilizzo, come descritto dalle fonti2, di una fanteria
leggera molto mobile, armata di lancia, giavellotti, spada e scudo, protetti, a seconda delle possibilità economiche
del singolo individuo, da corazze di maglia metallica, corpetti di cuoio o elmi. Diventa quindi necessario assicurarsi
che il guerriero abbia un compagno a difesa del proprio fianco, per non cadere vittima, nella sua singolarità, del
nemico. Si è quindi introdotto l’elemento del “Patto con gli Dei”, ovvero la consacrazione del proprio essere
guerriero, e quindi compagno fraterno nella tribù. La cerimonia avviene all’inizio della danza, nella quale i nuovi
guerrieri, non ancora ammessi di fatto a pieno titolo nella tribù, sacrificano agli dei celesti e ctonii vino3 o idromele,
di esclusivo colore rosso ad indicare il sangue. Se il patto verso la tribù verrà infranto, il sangue del traditore
cadrà a macchiare il terreno, perdendo il favore degli dei, in un ottica di divino fatalismo che si riscontra spesso
all’interno della civiltà Celtica4.
La danza prosegue nelle sue fasi somatizzando e idealizzando i rapporti intertribali fino alla consacrazione dei
danzatori come membri a pieno titolo della tribù. L’utilizzo di danze non è raro; compaiono nel famoso letto di
bronzo di Eberdingen – Hochdorf, associate ad un contesto funerario, e in vari incisioni su roccia5, conservandosi
in parte fino a noi in forma revisionata e mutuata nella forma della “Danza degli Spadonari” nella valle di Susa6.
Gianfranco Bongioanni
Ricostruzione della DANZA delle SPADE
a cura dell’associazione “Terrataurina”
su indicazioni di Filippo M. Gambari.
Note
1 Livio, Storie, libro XX.
2 Cesare, De Bello Gallico.
3 Similmente al mondo greco.
4 Cfr. Cesare, op. cit.
5 In particolare: Roccia 15 di Vite-Val de Plaha (Paspardo) Val Camonica e Roccia 50 di Naquane (Capo di Ponte) Val Camonica.
6 Massimo Centini, La danza degli Spadonari, su Costume n. 3, Giugno-Luglio 2002
Bibliografia
A.A.V.V. Guerrieri, Principi ed Eroi, Provincia Autonoma di Trento, 2004, pp 360-361.
Cesare, De Bello Gallico.
Livio, Storie.
Massimo Centini, La danza degli Spadonari, su Costume n. 3, Giugno-Luglio 2002, pp 23-25.
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Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
SETTORI OPERATIVI del GAT - PROTEZIONE CIVILE
S.O.S. mura di Augusta Taurinorum
visita per la città. Fatta salva la considerazione che tali
risorse non vengano valorizzate momentaneamente ma possano continuare ad essere degnamente presenti, in condizioni
“decorose”, nel tessuto urbanistico torinese; è dunque auspicabile che esse non cadano nel dimenticatoio del tempo
e nel torpore burocratico, come sino a pochi anni fa.
Valter Bonello
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PIAZZA
CASTELLO
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Siti romani oggetto dell’intervento
A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE
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Altri siti romani nel Centro Storico
1 - Tratto di mura in via della Consolata
2 - Colonna romana reimpiegata
3 - Torre angolare presso la Consolata
4 - Torre nel parch. di p.za Eman. Filiberto
5 - Tratto di mura in via Egidi
6 - Porta Palatina (Porta Principalis Dextera)
7 - Tratto di mura con sopraelv. medievale
†
Qualcuno dei soci “d’annata” ricorderà che nel 1995 il
GAT iniziò, in collaborazione con la Città di Torino, il
progetto per la salvaguardia delle “Mura di Augusta
Taurinorum”. L’iniziativa riguardava tre aree distinte: il
tratto di mura in via Egidi, quello di via della Consolata,
la torre del parcheggio sotterraneo di piazza E. Filiberto
e la torre angolare sita all’angolo di via Consolata con via
Giulio.
Ebbene: vorrei rammentarvi che il progetto è sospeso
ormai da un bel po’ di anni, perché a partire dal 1999 la
convenzione non è più stata rinnovata. Credo che dopo i
consensi e i risultati allora ottenuti, l’iniziativa avrebbe
dovuto avere un seguito. Ciò non è accaduto, purtroppo.
La colpa di chi è? Bella domanda!… Credo che sia una
colpa da suddividere tra tutti e che non sia il caso di aprire
un processo al passato; analizzando i risultati ottenuti, penso
sia possibile ricominciare da capo, magari con piccole
“correzioni di rotta” e cercando di coinvolgere più enti
pubblici e altre associazioni di volontariato culturale e di
Protezione Civile.
Riporto di seguito alcuni numeri e dati relativi agli interventi
degli anni 1995-1998.
Durante gli interventi sono state eliminate 308 siringhe,
72 sacchi d’immondizia, 3 cassette di “sanpietrini” in porfido;
nel corso degli anni hanno prestato la loro opera 28 soci
del GAT, per un totale di 389 ore di lavoro. Abbiamo così
ottenuto la visibilità, sino ad allora perduta o quasi, e la
fruibilità dei seguenti monumenti:
• Torre Angolare sita in via della Consolata. Quando
abbiamo iniziato i lavori essa si presentava come un deposito
d’ogni genere d’immondizia e lo strato raggiungeva lo spessore
di 20 cm circa, in cui facevano bella mostra di sé siringhe,
cartacce, ombrelli rotti, monetine, giocattoli, stracci ed
altro.
• Mura adiacenti all’ex ufficio d’igiene sito anch’esso in
via della Consolata: esse erano praticamente invisibili, perché
il sito si era trasformato in una sorta di boschetto in miniatura;
un boschetto sporco e disordinato, contenente erbacce giganti,
alberi di fico e stentati ippocastani che poggiavano sulle
mura e tutto attorno, crescendo in uno strato di humus decisamente atipico, formato da detriti, terriccio, medicinali,
siringhe, resti di vaccinazioni e molto altro. In più, l’edera
aveva avvolto le mura in un abbraccio devastante.
• Le Mura di via Egidi erano diventate un triste rifugio
di tossicodipendenti; nella trincea nella quale si ergono le
mura è stato raccolto un numero enorme di siringhe, bottiglie
di birra vuote, batuffoli di cotone sporchi di sangue, escrementi
umani e pezzi di limoni ammuffiti.
• La Torre romana ubicata nel parcheggio sotterraneo di
piazza Emanuele Filiberto si presentava in buone condizioni,
perché i gestori dell’area tenevano pulito il sito.
8 - Tratto di mura e base di torre
9 - Teatro
10 - Torri e fondamenta della Porta Decumana
11 - Reimpieghi presso la Casa del Senato
12 - Pilastro di edificio pubblico
13 - Tratto di mura sotto il Museo Egizio
(fuori pianta) - Collettore (parcheggio Via Roma)
Mura romane di Torino: volontari
non significa operatori ecologici…
Fuori da qualsiasi tentativo di polemica, chiariamo comunque
che ciò che nel 1988 interruppe il rapporto di collaborazione
GAT-Comune fu l’esitazione di quest’ultimo di fronte ad
una nostra precisa richiesta: da momento che l’intervento
dei soci GAT non poteva limitarsi alla semplice pulizia dei
siti (per questo compito esiste l’AMIAT), avevamo chiesto
che fosse dato seguito alla seconda parte del progetto, che
prevedeva la realizzazione di pannelli esplicativi, di una
piccola mostra e la “messa in sicurezza” dei siti tramite
piccoli accorgimenti che limitassero la caduta di immondizie
all’interno delle trincee. Su questa precisa richiesta cessò
la collaborazione, più per ignavia di entrambe le parti nel
tentare di arrivare fino in fondo al problema che per l’esistenza
di un motivo preciso; il che, dunque, non esclude affatto
che il discorso possa essere ripreso con piena soddisfazione
di tutte le parti in causa.
Contatti informali intercorsi nei mesi scorsi fanno ben
sperare che l’iniziativa possa presto tornare ad attivarsi.
Spero che la ripresa del progetto sia possibile al più presto,
dal momento che si avvicina la data in cui si terranno le
Olimpiadi Invernali del 2006, occasione durante la quale
Torino accoglierà molti visitatori. Poter avere le testimonianze
del nostro passato, anche se poco monumentali, accanto
a quelle moderne sarebbe senz’altro un buon biglietto da
Fabrizio Diciotti
18
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
I rapidi scavi di Pariol
QUANDO L’ESIGENZA DI TUTELA ARCHEOLOGICA NON VIENE DEL TUTTO ATTESA
Nell’estate del 2003, nel corso dei lavori di scavo per
la realizzazione della pista olimpionica da bob, in località
“Pariol” di Cesana (poco altre il bivio per S. Sicario), grazie
agli archeologi incaricati dell’assistenza ai cantieri, nell’area
che verrà destinata a parcheggio durante i giochi olimpici
invernali del 2006 sono venute alla luce tracce di insediamento
di età storica.
La campagna di scavo che ne è seguita fra luglio e ottobre
2003 ha permesso di indagare completamente l’area a ridosso
della scarpata dell’altopiano, localmente definito “Pian
Giacomé”, dove si trovava una necropoli; i lavori dell’area
centrale del pianoro, relativi all’area insediativa, sono stati
interrotti dalle prime nevicate e non sono mai ripresi.
La necropoli ha restituito tracce di tombe, quasi una decina,
piuttosto rudimentali, rimaneggiate e molto mal conservate.
Si tratta di sepolture terragne, alcune delle quali con corredo
(vasellame e monili), con accenni di cassa litica e, in alcuni
casi, con tracce lignee che saranno d’ulteriore aiuto nel
collocare cronologicamente l’insediamento di Pariol.
L’area abitativa più al centro dell’altopiano consta di un
grande edificio quadrangolare in muratura (conservato a
livello di fondazione) a ridosso del quale si è trovata traccia
di un focolare e un’area insediativa delimitata da numerose
buche di palo, ricca di materiali, tra cui numerose monete
di bronzo.
Una prima analisi dei materiali condotta già in fase di
scavo ha fatto pensare ad un insediamento databile a partire
dalla tarda età romana (IV-V sec.) fino al VI-VII sec. d.C..
Un insediamento del genere, data l’ubicazione strategica,
dovrebbe permettere (o forse è più corretto e realistico dire
“avrebbe dovuto permettere”) di rileggere il ruolo del valico
del Monginevro, rispetto al più trafficato (in epoca storica)
valico del Moncenisio.
Purtroppo, tutto è stato fatto di corsa e con affanno: loro
malgrado, gli archeologi hanno dovuto lavorare in tempi
ristrettissimi e il sito non è stato scavato in modo esaustivo.
Pare che i giochi olimpici siano decisamente più importanti
dell’archeologia e della storia (soprattutto, questo è sicuro,
“rendono” molto di più).
Ancora una volta si è persa un’ottima occasione per valorizzare la nostra storia e per creare, in alta Valle di Susa,
un centro importante per lo studio della Storia alpina e un
polo duraturo di attrazione valorizzando un sito che, se
fosse stato scoperto pochi chilometri più a Ovest (in Francia,
tanto per capirci), sarebbe stato oggetto di maggiori attenzioni.
Visitare, per credere e capire, il museo di Sollier appena
oltre il Moncenisio.
Da noi, un’indagine veloce, qualche foglio di nylon, uno
strato di terra, le ruspe che ci camminano sopra, cemento,
asfalto…
L’Agenzia per lo svolgimento dei XX Giochi Olimpici
Invernali “Torino 2006” (sia detto di sfuggita: plurindagata
per sospetta turbativa d’asta relativa agli appalti) ha promesso
che a fine competizione l’area verrà restituita alla Soprintendenza per ulteriori indagini. Visti gli interventi eseguiti,
chissà in quale stato l’area verrà restituita e con quali fondi
si potrà ancora indagare lassù, a Pariol; fino ad allora, in
compenso, potremo consolarci facendo una bella discesa
sul bob e scivolando… sopra il sito archeologico!
Alberto Perino
Il Museo Archeologico
di Sollier (Francia).
ARCHEOLOGIA VIVA
Giunti Editore - Via Bolognese, 165 – 50139 FIRENZE
Tel. 0555062298
e-mail: [email protected] - www.archeologiaviva.it
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socio ma non hai ancora ritirato la tua
pubblicazione, presentando la Tessera).
19
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
PROGETTI del GAT • www.archeocarta.it
Maometto in Val Susa
Il progetto GAT per la realizzazione di una “Carta Archeologica del Piemonte”
consultabile da Internet sta procedendo a grandi passi. Un mese fa si è conclusa
la prima parte dell’iniziativa e ora si sta lavorando per richiedere alla Regione
Piemonte (nostro sponsor in questa vicenda) i fondi per procedere con la seconda
tranche di lavori. Quanto sin qui realizzato, grazie allo sforzo di tanti volontari
che hanno redatto le schede presenti sul sito www.archeocarta.it, è comunque già
un prodotto dal valore inestimabile: in attesa di poter terminare la mappatura di
tutti i siti archeologici piemontesi (il lavoro è lungo ma stimolante e tutti siete
invitati a partecipare), è stato raggiunto il primo obiettivo di inserire nel database
tutti i musei archeologici della provincia di Torino.
In questo articolo presentiamo una delle schede presenti in Internet, relativa ad
uno dei siti più interessanti, misconosciuti e, purtroppo, a rischio della Valle di Susa: l’area del cosiddetto “Maometto”.
“Maometto” di Borgone di Susa
cane: numerose dediche a lui rivolte sono state trovate soprattutto
nelle regioni romane IX e XI. Il Ferrua leggeva le lettere NO,
davanti alle quali credeva di individuare anche le tracce di
VA. Quindi Sancto Silvano sarebbe la sua lettura.
Il Carducci pensava di riconoscervi Giove Dolicheno che
cavalca un toro. Si tratta di una divinità di origine asiatica,
il cui culto si sviluppò specialmente nell’ambiente legionario
e nei posti di frontiera romani, intorno al II secolo dell’Impero.
Giove Dolicheno era uno dei titoli con cui il Padre degli Dei
era venerato presso i soldati, e tale culto si diffuse con gli
spostamenti delle legioni nelle varie zone di confine. Doliche
era infatti una cittadina della Commagene (paese ai confini
fra la Siria romanizzata e la Persia sasanide) in cui esisteva
un famosissimo tempio a Giove (detto perciò Dolicheno).
L’ipotesi del Carducci sembra avvalorata da alcuni ritrovamenti
effettuati sull’altura del masso erratico: una decina di monete,
prevalentemente degli Antonini, e una piccola aquila di bronzo
del tipo che si ritrova comunemente sotto le immagini del
Dolicheno.
Il bassorilievo doveva essere in rapporto con una via esistente,
dal momento che questi monumenti erano predisposti per
essere visti dai viaggiatori.
Il Carducci si spinge anche a un’interpretazione generale
della zona, caratterizzata da una strettoia nata da un masso
erratico precipitato vicino alla parete rocciosa, e considera la
sommità del masso come un punto strategico di osservazione
e di controllo di un lungo tratto della via delle Gallie. La sua
ipotesi di “posto di frontiera da identificarsi forse con quel
ad Fines ricordato negli Itinerari” è però azzardata.
Restano ancora inspiegabili i segni incisi nelle rocce
sovrastanti: tre grosse macine incompiute, ancora attaccate
alla parete della roccia, e numerose coppelle che hanno fatto
attribuire alla località anche il carattere di zona sacra, forse
legata a particolari cerimonie stagionali.
La parte superiore del masso stesso è ricoperta da uno
strato di terreno vegetale su cui crescono arbusti e specie
erbacee non più comuni nella zona. Inoltre, nel punto centrale
di questa piattaforma venne in luce una sepoltura con lo scheletro
deposto nella nuda terra, senza copertura, ma con una fila di
lastroni per ogni lato, paralleli alla lunghezza del corpo. La
sepoltura sembra attribuibile ad epoca preromana, 3.000-3.500
anni fa, nonostante le difficoltà di datazione derivanti dalla
mancanza di corredo.
Allo stesso periodo sono forse da riferire diversi fori a
nicchia scavati nella parete rocciosa che fronteggia il masso.
Sono buchi di grandezza variabile da 10 a 20 cm, tondeggianti,
più larghi internamente, destinati a ricevere offerte, secondo
la prassi di origine preromana.
Un piccolo cenno va fatto anche alle strutture murarie
individuate nell’area limitrofa, verso Ovest. Costruite a secco
con pietre di dimensioni e forme alquanto irregolari, sembrano
Localizzazione:
Borgone di Susa, frazione San Didero, regione Maometto.
Orari di apertura:
accesso libero (situato nel bosco non sono previsti biglietti
di ingresso, né visite guidate o servizi di alcun tipo).
Fase cronologica: età romana (presumib. II-III secolo d.C.).
Descrizione del sito e dei ritrovamenti: in un boschetto
di acacie fra Borgone e San Didero, è visibile ancora oggi,
scolpito in loco, a circa quattro metri dal suolo, sul lato nord
di un gigantesco masso franato dalla vicina parete montana.
A forma di tempietto misura cm. 80 x 65 e reca sul frontone
triangolare (cm. 18 x 65) tracce di un’iscrizione latina su tre
righe, ormai indecifrabile a causa della corrosione atmosferica.
La forma delle lettere fa supporre una datazione al II-III secolo.
L’ultima riga, la più leggibile, ci dice che si tratta di un exvoto ad una divinità. Sono infatti ancora visibili le lettere V
M che possono essere interpretate come V(OTUM) M(ERITO),
V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito) secondo altri.
Nel rettangolo dell’edicola, sopra una base quadrata (forse
un altare), è raffigurato un personaggio maschile, frontale,
dall’aspetto sproporzionato, a braccia aperte alzate, vestito di
una tunica stretta alla vita. Dietro il corpo si distingue un
mantello drappeggiato che discende dalle spalle e si raccoglie
a sinistra lasciando libere le braccia. Sul lato destro, ai suoi
piedi, è individuabile un animale rivolto verso di lui,
probabilmente un cane. L’opera è conosciuta come ”Maometto",
nome da attribuire alle credenze popolari della Valle di Susa,
che fanno risalire ai Saraceni tutte le opere antiche e le tradizioni
di cui non si conosce l’origine.
Sarebbe interessante identificare il personaggio scolpito,
anche per meglio interpretare la funzione del luogo: varie
sono state le ipotesi, tutte ancora da verificare.
La scena dell’uomo con il cane fa pensare a un monumento
funerario, dato l’uso assai comune di ritrarre col defunto il
compagno di caccia o l’animale favorito. Di ostacolo a questa
interpretazione sono però l’iscrizione dedicatoria del frontone
e il piedistallo.
In base alle tracce dell’iscrizione, il Doro avanzò l’ipotesi
del carattere dedicatorio dell’opera e pensò all’identificazione
con il dio Vertumnus, di tradizione italica, personificazione
del rinnovamento agricolo stagionale nella mitologia latina
provinciale, spesso rappresentato in compagnia di un cane.
Effettivamente, nella terza riga dell’iscrizione sembra di poter
leggere le lettere ...E...TU...NUS.
Il Ferrua propendeva invece per un’attribuzione al dio Silvano,
divinità agreste, frequentemente ritratto con l’attributo del
20
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
A sinistra, l’edicola romana fotografata nel 1983
(A. Perino), oggi più degradata anche a causa
dei ripetuti calchi (anche abusivi) che hanno
provocato il distacco di piccole porzioni di roccia.
Nel tassello è riprodotta l’iscrizione interpretata
da Ferrua nel 1971 (tratta da: “Segusium” - VIII).
La foto in basso (Santacroce, 1963) evidenzia
l’intera area: nel cerchio, la porzione di roccia
che ospita l’edicola. A destra sono visibili le
poderose strutture murarie di incerta datazione,
indagate senza risultati esaustivi nel 1984.
essere state realizzate tra la fine dell’Età del
Bronzo e la prima fase dell’Età del Ferro,
all’incirca nel II millennio a.C.
È possibile che il carattere religioso del luogo
abbia avuto seguito dall’età preistorica all’epoca
romana, e ancora in epoca recente con la
credenza nelle “masche” e la fama di regione
infausta.
Poco distante sono stati rinvenuti anche
frammenti ceramici e tegole di età romana,
vetri, lucerne, bronzi, monete di II-III d.C. e
un tratto di strada.
Nome del rilevatore e G. A. di appartenenza:
Gabriella Monzeglio - G.A. Torinese
Data ultima verifica sul campo: 30 settembre 2002
Data compilazione scheda: 13 ottobre 2002
Bibliografia:
LANZA E., MONZEGLIO G., 2001, I Romani in Val di Susa,
Ed. Susa Libri, pp. 85-88
BRECCIAROLI TABORELLI L., 1992, L’iscrizione rupestre di
“Maometto”presso Borgone di Susa (Alpi Cozie), in “Rupes
Loquentes, Atti del Convegno Internazionale di studio sulle iscrizioni
rupestri di età romana in Italia ”(1989), Roma, pp. 33-48
FERRUA A., 1971, Nuove osservazioni sulle epigrafi segusine,
in “Segusium", VIII, p. 42
CARDUCCI C., 1968, Arte romana in Piemonte, Torino, p. 21
DORO A., 1947, Bassorilievo romano inedito in Val di Susa, in
“Bollettino SPABA", nuova serie, I, pp. 15-19
IL “MAOMETTO” E L’ALTA VELOCITA’
TAV = Treno Alta Velocità = Terremoto Ambientale (e Archeologico) Valsusino
Chi percorre la Valle di Susa rimane
colpito dalla quantità di scritte NO TAV.
Ve ne sono un po’ ovunque: verniciate
sulle rupi a picco o sui muraglioni di
contenimento, dipinte con perizia e
pazienza su cartelli in mezzo ai prati,
graffite a spray un po’ ovunque e, ancora, sui pannelli della Comunità Montana con l’indicazione dei luoghi turistici
oppure sulle bandiere in qualche caso
sbiadite che sfidano il ben noto vento
valsusino. Sono la punta visibile di quel
grande iceberg che è l’opposizione (finora vincente) di tutta la gente della
valle a un’opera che vuole distruggerla
in nome di un progresso effimero, inutile
e demenziale.
I progettisti di quest’opera devastante
e insostenibile hanno deciso di sacrificare la valle, i suoi abitanti e le sue
bellezze artistiche e naturali sull’altare
delle grandi opere strategiche costruito
su un cumulo di menzogne e di dati
falsi. L’ultimo progetto partorito prevede
una linea per due terzi in galleria; dunque
la Valle è salva ma i suoi abitanti cosa
vogliono? Di cosa si lamentano?
Forse non vogliono morire e per questo protestano e si oppongono in modo
vincente ormai da 14 anni a quello che
in loco è chiamato semplicemente TAV
o meglio NO TAV. Sì, perché nelle montagne della Valsusa c’è amianto e uranio
in quantità e quindici anni di polveri e
di cantieri (per capire cosa sono i cantieri
della TAV basta percorrere la A4 da
Torino a Novara, aprire bene gli occhi
e immaginare quel disastro in Valle di
Susa) sono in condizione di uccidere di
tumore cinquemila persone in una ventina d’anni.
Ma, dirà qualcuno, il cantiere TAV ha
portato alla luce e studiato a sue spese
(a nostre spese) dei siti archeologici che
altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti
come ad esempio l’insediamento rurale
con la villa rustica di Brandizzo. Certamente, ma poi tutto è finito distrutto
sotto il cantiere della linea ferroviaria
AV/AC Torino Novara, e ai comuni mortali è rimasta una semplice pubblicazione: nessuna fruizione diretta, qualche
notizia stampata per i posteri. E tutto
questo a che prezzo? E a vantaggio di
chi? Ma soprattutto, a spese di chi?
Anche la zona archeologica del
“Maometto” di Borgone Susa, se la
linea TAV venisse realizzata, rischierebbe di essere distrutta.
La galleria artificiale realizzata a completamento di quella Borgone / Caselette dovrebbe passare esattamente in
quest’area; ad una precisa domanda
posta a fine 2004 dallo scrivente alla
Soprintendente e al funzionario dott.
21
Barello (in occasione della presentazione
ufficiale degli “scavi” dell’insediamento
rurale di Brandizzo) in merito al sito del
Maometto interessato dagli eventuali
lavori TAV è stato risposto che “si sta
studiando il problema, ma con tutta
probabilità la cosa finirà come per
Brandizzo”.
D’altronde, sul sito di Montagne Doc
(sponsor turistico delle olimpiadi invernali 2006) si scrive che il bassorilievo è
già stato messo al sicuro nel museo di
antichità di Torino: “Di età romana è
invece il manufatto più celebre di Borgone, il “Maometto”, stele funeraria
raffigurante un uomo con un cane, custodita al museo torinese di antichità”.
Hanno già messo le mani avanti.
Fortunatamente i valsusini sono tosti
e compatti. Le amministrazioni ferme
nella difesa a oltranza del territorio. I
soldi per l’opera non si trovano nonostante la contabilità creativa del Governo. L’Unione Europea per ora, i finanziamenti li passa con il contagocce e
quelli che vengono approvati non sono
sufficienti a coprire i progetti e gli studi.
La valle infuria / L’euro manca
Sulla TAV sventola / Bandiera bianca
Alberto Perino
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
I Longobardi a Collegno
DAI LAVORI PER LA METROPOLITANA TORINESE A UN GRANDE EVENTO ARCHEOLOGICO
Dopo Testona, Rivoli, Carignano e
Torino, nuove presenze longobarde
emergono dal sottosuolo.
Nel 2002 i lavori per la metropolitana
misero in luce uno dei più importanti
rinvenimenti in ambito piemontese, che
ha contribuito a far luce sulla cultura
longobarda nella nostra regione.
L’iter longobardo ebbe inizio dalla
Scandinavia e condusse il “popolo dalle
lunghe barbe” attraverso la Germania
fin nell’antica provincia romana della
Pannonia.
Nel 568 d.C. ripartirono al seguito
del loro re Alboino alla volta della penisola italica che occuparono, non mancando di fare tappa a Collegno!
Proprio qui infatti sorse un insediamento, di cui ancora non si conoscono
i reali confini, che aveva una probabile
funzione militare di controllo della zona
al confine con le Alpi occidentali.
Era un villaggio fatto di semplici capanne, con il focolare all’esterno, ad
un solo vano nella maggior parte dei
casi, e ve n’è anche qualcuna con piano
di calpestio ribassato, alla maniera longobarda.
Vicino all’abitato, a circa 40- 50 m,
sono state trovate quattro sepolture gote
appartenenti ad individui di alto lignaggio, visti i ricchi corredi, e che forse
coesistettero con l’arrivo delle nuove
genti.
Ciò che ha più destato l’interesse generale, però, è stato il rinvenimento
della necropoli relativa al villaggio, da
questo distante solo trecento metri.
Una necropoli fedele alla tradizione
germanica, un “cimitero a file” che seguono la direttrice nord-sud e con sepolture orientate est-ovest in cui il defunto, supino, ha la testa ad occidente.
Dalle analisi si sono potute distinguere
tre fasi della necropoli; ma non solo:
è stato possibile perfino ricostruire veri
e propri legami famigliari!
Le tombe scavate sono 73 e quelle
relative al primo periodo non erano
semplici fosse, ma, come fanno intuire
le buche di palo agli angoli, erano delle
costruzioni con elevato in legno che
riproducevano le case “dei vivi”, esempi
simili sono stati ritrovati in Pannonia
ed in altre zone d’Europa. Appartenevano a coloro che avevano seguito Alboino in Italia, infatti le sepolture sono
datate dal 570 d.C., e che usavano ancora
seppellire il cavaliere, oltre che con il
suo ricco corredo, anche con il suo fedele
cavallo decapitato, come da rituale!
Purtroppo nel nostro caso la sepoltura
contiene soltanto i resti equini e non
quelli del legittimo proprietario, poiché
le opere di ribonifica dagli ordigni bellici
avvenute in passato hanno asportato
parte della necropoli, e probabilmente
la parte più antica!
Sempre a questo primo periodo risale
il cosiddetto “ratto delle donne
burgunde”. Le uniche due sepolture
femminili, dalle analisi imparentate e
forse madre e figlia, recavano due fibule
di manifattura “straniera”, merovingie
per la precisione, che ci riportano oltre
le Alpi, all’attuale Svizzera, allora territorio burgundo. Sappiamo che spesso
i Longobardi si recavano a nord per
incursioni e razzie, e forse, in una di
queste occasioni, insieme all’ordinario
bottino portarono al loro villaggio (dopo
averle rapite?) le due donne.
E’ stata l’unicità delle due presenze
femminili nella prima fase della necropoli a far pensare ad un insediamento
militare. Sarà pur vero che i Longobardi
arrivarono in Italia portando tutte le
loro genti, mogli e bambini, così come
ci tramanda Paolo Diacono, ma sembra
essere certo che di loro, a Collegno,
vi giunse solo una parte di uomini, di
guerrieri.
Nella seconda fase, riferibile alla metà
del VII secolo, l’identità etnica persiste,
vi è ancora un attaccamento alla cultura
originaria. Non sono più presenti le
sepolture con l’elevato ligneo, ma i
corredi, nonostante la riduzione degli
oggetti, continuano ad esserci.
Il corredo è un elemento fondamentale
perché riflette l’identità sociale
dell’individuo. Il defunto veniva sepolto
con il suo abbigliamento più ricco: le
donne con gioielli, pettini ed amuleti,
gli uomini, i guerrieri con le cinture
e le loro armi, cioè la spatha, lo scramasax, lo scudo, la lancia.
Comune era l’uso di deporre anche
dei vasetti di ceramica o contenitori
all’interno della sepoltura, che però,
curiosamente, nella nostra necropoli a
Collegno non troviamo affatto se non
una coppetta ceramica ed una bottiglia
in vetro di epoca romana! Forse venivano utilizzati solo contenitori in legno
che non si sono conservati fino a noi.
Nell’VIII secolo, e ultima fase, il cristianesimo ha ormai preso piede e notevoli sono i cambiamenti che determina:
il corredo è inesistente, il rituale fune22
rario non comporta che un sudario avvolto intorno al corpo del defunto a
sua volta deposto in semplici fosse di
terra sempre più strette.
Anche lo stile di vita cambiò: il popolo
di guerrieri divenne un popolo prevalentemente di agricoltori.
Tutte questo è stato ripercorribile e
splendidamente rappresentato nella mostra “Presenze Longobarde: ori, armi
e gesta della fara di Collegno” tenutasi
alla Certosa Reale di Collegno tra il
18 aprile ed il 20 giugno 2004 e poi
prorogata per il grande successo.
L’allestimento ci ha proposto i primi
risultati ottenuti dagli scavi diretti dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici
del Piemonte e dal restauro degli oggetti
effettuato dal Laboratorio del Museo
di Antichità di Torino.
L’excursus espositivo della mostra è
stato articolato sulla ricostruzione della
storia di dodici abitanti dell’antico villaggio situato lungo il corso della Dora
e raccontata tramite i loro corredi funebri, i loro oggetti personali. Il tutto
è stato accompagnato da esaustivi pannelli esplicativi ed è stato reso possibile
grazie ad una collaborazione interdisciplinare fra archeologi, storici ed etnoantropologici.
Il visitatore, catapultato nella realtà
di mille e quattrocento anni fa, ha potuto
rivivere la quotidianità di allora, ricostruendo un mondo di cui talvolta sembra si sia parlato troppo, il mondo di
un popolo, i Longobardi, che sembra
fin troppo conosciuto ma che, invece,
non smette mai di stupirci e di far parlare
di sé.
Manuela Mazzon
Eccezionale pendente in bronzo con insolita
agemina in argento, dalla tomba 47, raffigurante
una testa di cinghiale stilizzata: si notino le
zanne acuminate (dal catalogo della Mostra).
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
ATTIVITÀ del GAT
Un pannello per BRIC SAN VITO
È infine giunto alle fase finali di realizzazione il pannello per il sito di Bric San Vito, realizzato dal GAT grazie alla collaborazione
di Pronatura, degli Alpini di Pecetto, del Comune di Pecetto e soprattutto della Provincia di Torino. I dati sono desunti dalle
pubblicazioni del GAT medesimo, già da tempo visionati dai responsabili della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte.
Quanto prima il pannello, conforme a quelli già visibili lungo i sentieri collinari torinesi, sarà collocato sulla sommità del sito,
consentendo finalmente ai frequentatori dell’area di poter capire e apprezzare il luogo in cui si trovano. L’intento dell’iniziativa
è di fornire informazioni sufficientemente complete e, contemporaneamente, promuovere la salvaguardia attiva del sito.
23
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
I Liguri, gente da scoprire
A GENOVA UNA FINESTRA SUL PASSATO SU UN POPOLO CHE SAPEVA FARSI RISPETTARE
Dal 23 ottobre 2004 al 23 gennaio 2005
si è tenuta a Genova, nel Palazzo della
Commenda di San Giovanni in Prè, la
mostra intitolata “I LIGURI. Un antico
popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo”.
Attraverso un alto numero di reperti di
provenienza italiana e internazionale, calchi
di incisioni, statue-stele, narrazioni di storici
greci e latini, pannelli didattici, plastici,
stratigrafie ricostruite e testimonianze di
studi ottocenteschi, l’esposizione costruisce
un percorso di visita che inquadra nello
spazio e nel tempo il popolo dei Liguri,
racconta la vita quotidiana dal paleolitico
all’età romana, presenta i metodi di ricerca
dell’archeologia, propone i problemi interpretativi derivanti da tale attività, traccia
la storia dei primi contatti tra le genti
europee e del successivo ampliarsi dei
traffici commerciali e dei processi di
acculturazione.
Organizzata su tre piani nei suggestivi
ambienti duecenteschi della Commenda,
la mostra è allestita secondo i più moderni
criteri espositivi: pochi ma significativi
reperti per ogni vetrina, plastici ricostruttivi, disegni, testi
esplicativi e, nota originale, alcune campane sotto cui il
visitatore può posizionarsi per ascoltare la lettura di brani
su mito e storia dei liguri tratti dai testi di autori greci e
latini (Erodoto, Polibio, Livio, Strabone).
La prima sezione della mostra introduce il pubblico tra
mito e storia, confrontando i dati delle fonti antiche con
quelli dei reperti archeologici. Con le descrizioni storiche
di un popolo dall’indole forte e rude, di variegata composizione
etnica, sparso su un areale molto vasto dell’Europa occidentale,
si intrecciano le leggende su Cicno, mitico re dei Liguri,
talvolta musico tramutato in cigno dal dolore per aver perso
l’amico Fetonte figlio del Sole, talvolta spietato figlio di
Ares sconfitto da Eracle durante il suo viaggio verso Occidente.
Le statuette bronzee di Eracle di ambito etrusco, le anfore
calcidesi con la lotta tra Cicno e l’eroe greco, prestiti di
musei parigini, londinesi e monegaschi, testimoniano il
culto per l’eroe civilizzatore e la simbologia funebre da
sempre legata alla figura del cigno in tutto l’ambito mediterraneo. Il dato storico corrispondente a queste leggende
risiede nell’effettivo controllo che il Liguri detenevano dei
valichi tra Italia, Francia e Spagna, probabile ostacolo alle
prime spedizioni via terra verso occidente dei Greci.
La seconda sezione ha lo scopo di raccontare il rapporto
tra ambiente e uomo nell’evoluzione economica, culturale
e sociale avvenuta col passaggio da paleolitico a neolitico,
mettendo in mostra utensili litici, falcetti, pesi da telaio,
forme ceramiche progressivamente più raffinate. I primi
tentativi di sopravvivenza erano basati sull’adattamento
dei gruppi umani al paesaggio esistente e si configuravano
essenzialmente come attività di caccia e raccolta. Il progressivo
aumento dello sfruttamento delle risorse naturali disponibili,
gli scambi tra le genti, la scoperta dell’agricoltura e della
pastorizia, la pesca, lo sfruttamento delle risorse minerarie
(a Monte Loreto-GE sono documentate le più antiche miniere
dell’Europa occidentale, 3600-2200 a.C.) hanno trasformato
l’azione dell’uomo, che è diventato capace
di modellare l’ambiente a suo vantaggio.
Già nel III millennio a.C. sono documentati
i primi terrazzamenti per far fronte all’ostilità
del territorio ligure e poter praticare
l’agricoltura, attività che, assieme alla pastorizia, rimarrà una costante fondamentale
dell’economia di questo popolo ancora in
età romana.
Nell’Età del Rame la vita di questi uomini,
essenzialmente dediti alla transumanza tra
costa e montagna, si arricchisce di forme
di culto legate all’ambiente, non ancora
completamente chiare per gli archeologi.
Ne sono espressione le statue-stele (gli
esemplari qui esposti provengono soprattutto
dal Museo delle Statue Stele Lunigianesi
del Castello del Piagnaro di Pontremoli),
in arenaria, raffigurazioni stilizzate di individui maschili e femminili: secondo le
ipotesi più recenti si tratta di personaggi
eminenti, antenati capostipiti di clan e lignaggi
posti a protezione di pascoli, giacimenti
minerari, vie di comunicazione, percorsi
sacri, confini. Anche le oltre 40.000 incisioni
rupestri del Monte Bego, nella Valle delle Meraviglie (Alpi
Marittime), qui riprodotte su grandi calchi del Musée Depertamental des Merveilles à Tende, sono la traccia di riti
e culti celebrati negli alpeggi ad alta quota da queste popolazioni agro-pastorali.
Il tentativo di individuare l’origine del popolo ligure tra
Età del Bronzo ed Età del Ferro, attraverso complessi processi
di acculturazione e di etnogenesi, costituisce l’oggetto della
terza sezione dell’esposizione. Le diversità già presenti dal
1600 a.C. tra i popoli dell’Italia nord occidentale e il mondo
padano e peninsulare, si accentuano tra 1200 e 900 a.C.,
quando si individua una nuova facies culturale (Alba-Solero
- S.Antonino di Perti) che nella produzione ceramica risulta
nettamente distinta dalla cultura di Canegrate padana. Risente
invece degli influssi transalpini occidentali del gruppo RenoSvizzera-Francia Occidentale della cultura dei Campi d’Urne
innestati su una tradizione locale. Attraverso i reperti ceramici
provenienti da musei italiani e francesi si delineano i caratteri
comuni e gli elementi ricorrenti che rivelano l’omogeneità
culturale: boccali e tazze dal corpo globoso o troncoconico
e poi scodelle carenate, decorate con cordoni digitati, fasci
e festoni di scanalature e coppelle con centro rilevato, distintive
delle regioni nord-occidentali fino all’Età del Ferro. Anche
la metallurgia, che poco a poco sostituisce l’industria litica,
contribuisce a formare l’identità dei popoli, attraverso la
figura dei fabbri itineranti che intrecciano relazioni, trasportano
conoscenze e diffondono tecniche e decorazioni. E’ in questo
periodo che nasce il ruolo di guerriero, legato al possesso
di armi (spade lunghe e corte, lance, elmi) che conferisce
prestigio all’interno della comunità; da Godiasco (Pavia)
e Casalgrasso (Cuneo) provengono esemplari di armi gettate
nel Po, doni alle divinità acquatiche e delle vette dei monti
o volontà di rendere le armi inaccessibili a chiunque una
volta morto il guerriero proprietario.
Le abitazioni, raggruppate in piccoli insediamenti sulle
sommità oppure su terrazzi a fondovalle e costieri, erano
24
semplici edifici a vano unico, in legno, rami, paglia pressata
e stucco d’argilla, con focolare esterno. Accanto sorgevano
le necropoli: dall’Età del Bronzo recente i defunti vengono
cremati, i resti deposti nelle urne che, insieme al corredo
funerario, vengono collocate nelle tipiche tombe liguri a
cassetta litica.
La quarta sezione è dedicata ai rapporti tra Liguri e i
popoli che nell’Età del Ferro sviluppano grandi nuclei protourbani e urbani, creano società dominate dall’aristocrazia,
vedono emergere i ruoli di sacerdoti, principi, guerrieri,
mercanti: Etruschi, Celti e Greci.
9 tombe erano presenti anche rami di mirto (le cui impronte
sono rimaste per ossidazione sui recipienti in bronzo), pianta
legata al culto dei morti, sacra a divinità femminili e a
Dioniso.
Le tre sezioni successive ripercorrono la storia dei rapporti,
essenzialmente di natura bellica, tra Liguri e Romani. Lo
scontro tra queste due popolazioni durò oltre un secolo:
le linee di fronte segmentate, la frammentazione tribale dei
Liguri, le lotte intertribali, la geomorfologia del territorio,
il modello insediativo sparso e l’economia agropastorale
costrinsero i Romani ad alternare periodi di aspro conflitto
e di riappacificazione, mettendo in pratica strategie molto
varie di conquista e assoggettamento del territorio. La deduzione di colonie, la bonifica dei territori, le sistemazioni
agricole e amministrative, la creazione di assi viari a lunga
percorrenza, la realizzazione di opere monumentali ne sono
un esempio. Tra i reperti esposti va citata la Tabula alimentaria
dei Ligures Baebiani (dal Museo Nazionale Romano) con
le razioni alimentari previste per i prigionieri, i corredi
ricchi di armi dei guerrieri Liguri, le sculture frontonali in
terracotta dal Grande Tempio della colonia romana di Luni
(dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze), la Tavola
di Polcevera o Sententia Minuciorum (117 a.C.) con un
arbitrato giuridico del senato romano per risolvere una
contesa sull’attribuzione di un’ampia area territoriale. Roma
ha ormai il controllo politico, sociale ed economico della
regione.
L’ultima sezione della mostra presenta il tema del Ligurismo,
ovvero quegli studi e quelle ipotesi sviluppatesi attorno
a teorie e ritrovamenti volti alla ricerca, più o meno consapevole, dell’origine dei Liguri. Dalle ricerche cinquecentesche all’antiquaria del Settecento, dagli studi positivisti
ed etnoantropologici ottocenteschi alle ricerche etnografiche
e folkloriche della prima metà del XX sec, questo tema si
è sempre intrecciato con il mito del mercante e della naturale
intraprendenza dei genovesi. Questa sezione, all’interno di
una mostra archeologica, ha l’intento di presentare il passato
dei moderni studi archeologici, che da questo si sono ormai
distaccati senza però perderne la memoria perché parte del
patrimonio culturale e della storia della scienza di ogni
paese moderno.
Esiste anche un sito Internet dedicato all’evento:
www.archeoge.arti.beniculturali.it/liguri/index.htm
Particolare della ricostruzione della necropoli di Chiavari.
I dati archeologici emersi dall’analisi della necropoli a
incinerazione di Chiavari (GE), in uso tra fine dell’VIII
e inizio del VI sec. a.C., in parte riprodotta nei locali della
mostra a grandezza naturale, documentano questo contesto
di scambi commerciali e culturali. Tra i decori delle ceramiche,
le armi spezzate o ripiegate ritualmente, le fibule (ad arco
serpeggiante, a drago, a navicella, a sanguisuga, ad arco
composto), gli orecchini a paniere in lamina d’oro, i pendagli
a melagrana si leggono gli influssi etruschi e dei golasecchiani
stanziati a nord del Po.
Il crescente aumento di insediamenti presso le foci dei
fiumi e le insenature naturali testimoniano la crescente
importanza dei traffici commerciali e degli scali per le
imbarcazioni che risalivano la costa verso la Francia meridionale, spesso collocati anche allo sbocco di importanti
vie di penetrazione verso l’interno. Questi luoghi erano
frequentati principalmente da Etruschi, ma i materiali archeologici ci parlano anche di contatti con le altre culture
europee: hallstattiana, golasecchiana, villanoviana, orientalizzante, greca e forse anche fenicia.
Tipico esempio di vivace emporio commerciale e cosmopolita è Genova, a cui è dedicata la quinta sezione della
mostra, con i reperti provenienti da oltre cinquant’anni di
scavi nel cuore della città antica. E’ la creazione dell’oppidum
etrusco attorno al 500 a.C. sulla Collina di Castello che
dà l’impulso necessario allo sviluppo di attività mercantili
e manifatturiere: in quello che Strabone definisce emporio
dei Liguri, confluiscono i prodotti della pastorizia,
dell’apicoltura e della selvicoltura da tutta la regione interna,
navi greche ed etrusche, vino e vasellame da tutto il Mediterraneo. Il quadro composito e multietnico degli abitanti
di Genova è confermato dalle iscrizioni in alfabeto etrusco
su ceramica, con nomi etruschi, indigeni, greci. Anche le
necropoli sono cambiate: le tombe sono ora pozzi circolari
profondi circa 2 m chiusi con lastre di pietra, contenenti
l’urna e il corredo, composto da ornamenti personali, vasellame
bronzeo dall’Etruria, armi, ceramica di importazione greca.
Sono i grandi servizi per banchetto che documentano
l’adesione al culto di Dioniso e i riti salvifici connessi. In
Valentina Faudino
La Tabula alimentaria
dei Ligures Baebiani.
(Museo Nazionale
Romano).
Scoperta presso
Circello (Benevento),
testimonia lo stanziamento forzato di
Liguri Apuani sconfitti
dai consoli Marco
Bebio Tarifilo e Publio
Cornelio Cerego.
Nel 180 a.C., infatti,
furono deportati nel
Sannio circa 47.000
Liguri che dettero
origine a due distinte
comunità: queste
trassero il loro nome
dal gentilizio dei consoli romani vincitori.
Il municipio dei
Ligures Baebiani è
stato localizzato in
località Macchia.
25
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
ATTIVITÀ del GAT - CONFERENZE
Acquedotti romani in Piemonte
Sintesi di uno dei 12 interventi realizzati dal GAT per l’Unitre di Torino nel 2004
La presenza di un’infrastruttura come l’acquedotto è
indice di una pianificazione e di una organizzazione urbanistica
evolute, cosa che sembra trovare pieno riscontro nel quadro
generale del Piemonte romano, in particolare nei primi due
secoli dell’impero.
In effetti, nell’area geografica piemontese quasi tutte le
più importanti città romane si sono attrezzate per risolvere
il problema dell’approvvigionamento idrico dotandosi di
acquedotti. In area transpadana: Novaria (Novara), Eporedia
(Ivrea), Segusium (Susa). A sud del Po: Carreum Potentia
(Chieri), Pollentia (Pollenzo); Alba Pompeia (Alba), Augusta
Bagiennorum (Benevagienna), Iulia Derthona (Tortona),
Libarna (Serravalle Scrivia) e Aquae Statiellae (Acqui Terme).
Non vi sono invece prove definitive circa l’esistenza di
un acquedotto ad Augusta Taurinorum, Vercellae, Hasta e
Industria.
Per quanto concerne gli aspetti strutturali, il punto di
partenza è costituito dalla captazione dell’acqua: dalla sorgente,
attraverso uno o più canaletti, l’acqua confluiva in un bacino
collettore (in pietra o in pietrisco rivestito di malta idraulica,
normalmente coperto per preservare la purezza della sorgente)
e da qui nella canalizzazione dell’acquedotto.
Sino a pochi anni fa sulla collina torinese in località Tetti
Miglioretti era visibile quello dell’acquedotto di Chieri,
seppure rimosso dalla sua posizione originaria.
In alcune realtà del mondo romano la penuria d’acqua
poteva imporre la costruzione di strutture idriche dal lungo
percorso, come si è verificato a Cartagine, il cui acquedotto
misurava circa 130 km.
In Piemonte, in cui questo problema non esiste, si va dai
12 km. per l’acquedotto di Acqui ai 10 per quello di Libarna,
agli 8 per Ivrea e per l’acquedotto meridionale di Pollenzo,
ai 5 per Chieri, ai 4 per l’acquedotto settentrionale di Pollenzo.
Generalmente non erano necessarie opere imponenti, era
sufficiente un canale che sfruttasse la pendenza naturale
del terreno e spesso si trattava di un canale parzialmente
o totalmente interrato, espediente che consentiva di proteggere
al meglio l’acqua; in Piemonte, ad es., l’acquedotto di Derthona era interamente sotterraneo.
Gli acquedotti erano normalmente dotati di pozzi di ispezione, che consentivano la ventilazione e la manutenzione
del condotto, come si è potuto riscontrare per Libarna e
Pollentia, e di bacini di decantazione per purificare l’acqua.
Il canale in cui scorreva l’acqua, lo speco, era in muratura
e coperto (anche in questo caso per preservare la potabilità);
la copertura era costituita da una volta a botte (come ad
es. ad Eporedia, Pollentia e Libarna) oppure da lastre in
laterizio, come a Carreum Potentia, o in pietra, come forse
a Novaria.
All’interno le pareti erano rivestite di un intonaco impermeabilizzante (signino), costituito da una spalmatura di
malta in più strati cui si aggiungeva polvere di mattoni:
questo intonaco costituisce un segnale importante proprio
perchè spesso contribuisce ad identificare le strutture idriche;
è però assente in alcuni acquedotti piemontesi, quali quelli
Le arcate superstiti dell’acquedotto di Aquae Statielle (Acqui Terme)
di Novaria, Alba e Carreum Potentia, per i quali sono stati
utilizzati espedienti alternativi, ad es. una spalmatura di
calce fine.
L’acqua all’interno del canale scorreva per gravità; per
contrastare un’eccessiva pendenza, che avrebbe causato
una rapida usura del canale, un espediente molto usato era
quello di rendere sinuoso il percorso del condotto, come
ipotizzato, in èparticolare per gli acquedotti di Carreum
Potentia ed Eporedia.
Un terreno particolarmente accidentato (ad es. con avvallamenti) poteva rendere necessaria la costruzione di muri
di sostegno del canale, ma se la conformazione geomorfologica
risultava particolarmente critica, per superare fiumi e valli
si ricorreva ai ponti-canali (es. ponte di Pondel in Valle
d’Aosta, con duplice funzione di ponte e di acquedotto).
Qualora il dislivello fosse tale da richiedere muri troppo
alti, occorreva alleggerire la struttura per evitare il rischio
di un cedimento; pertanto si ricorreva alla struttura ad archi,
al di sopra dei quali veniva alloggiato il canale, dando
luogo in alcuni casi ad opere di notevole monumentalità.
In Piemonte l’esempio più significativo è offerto
dall’acquedotto di Aquae Statiellae (l’odierna Acqui Terme),
che conduceva l’acqua del torrente Erro verso la città, ai
cui confini si trovano 7 arcate alte ca. 15 m.
In origine doveva presentare almeno una quarantina di
arcate, di cui rimane anche un secondo troncone composto
dai resti di 8 pilastri; per il resto il condotto è invisibile
in quanto interamente sotterraneo.
Forse anche l’acquedotto di Alba era parzialmente dotato
di opus arcuatum: nel suo tratto terminale, in corso Italia,
sono stati rinvenuti alcuni piloni in muratura.
Col sistema degli archi vengono superati fiumi e valli
ma anche strade: a Segusium la maggiore delle due arcate
nei pressi dell’arco di Augusto ed un tempo appartenenti
26
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
ad essi limitrofi, è stata formulata l’ipotesi che parte dell’acqua
erogata alimentasse insediamenti di carattere artigianale,
legati ad es. alla produzione ceramica e laterizia.
Peraltro, prima dell’epoca imperiale, nel mondo romano
l’approvvigionamento idrico mediante acquedotti era riservata
in modo esclusivo agli usi pubblici, essenzialmente alle
fontane alle quali i cittadini andavano ad attingere direttamente
e gratuitamente.
Strutture di presumibile pertinenza a vasche o fontane
pubbliche sono state ritrovate a Chieri, ad Acqui, a Pollenzo.
Anche un recente ritrovamento a Torino, annunciato dalla
stampa a settembre del 2003 ma su cui occorre attendere
i risultati degli studi in corso, riguarderebbe una fontana
pubblica, posta all’angolo tra via XX Settembre, vicolo S.
Lorenzo e via Cappel Verde.
Seguendo l’ordine di importanza delle tipologie d’utenza,
al secondo posto troviamo altri tipi di edifici pubblici
(terme, palestre, teatri).
Al contrario, la fornitura privata costituiva un fenomeno
molto limitato sviluppatosi soprattutto a partire dall’età
augustea: i privati, intesi sia come proprietari di case (dove
si trovavano fontane, ninfei, terme private e piscine) sia
come titolari di botteghe artigiane (panetterie, lavanderie,
tintorie, laboratori di ceramica…), potevano disporre soltanto
dell’acqua in eccedenza.
In particolare, l’acqua corrente nella case private, a causa
del costo elevato e delle rigide norme del contratto di fornitura,
era considerato un lusso e l’alternativa più comune era
rappresentata dai pozzi domestici; a Industria, Libarna,
Torino, Acqui Terme e Alba gli scavi condotti nell’ambito
dell’edilizia residenziale hanno messo in luce parecchi pozzi
domestici, talvolta più di uno per unità abitativa.
Inoltre alcune abitazioni private risultano dotate di collegamenti diretti con il sistema fognario (come ad es. nel
caso del pilastro conservatosi in via Botero a Torino).
In una domus di Libarna è stata invece ritrovata l’unica
fontana privata del Piemonte, decorata con delfini e teste
di medusa; più controverso è il caso del leone in bronzo
di Pollenzo: anche se sicuramente connesso ad una struttura
idraulica, mancano dati precisi sul contesto archeologico
di provenienza.
Le cosiddette “Terme Graziane” di Segusium (Susa)
all’acquedotto, scavalcava la via internazionale delle Gallie
che, partendo da Augusta Taurinorum, giungeva nell’attuale
territorio francese attraverso il Monginevro.
Inoltre il caso segusino rende evidente la diffusa esigenza
tecnica di collocare il canale ad un’altezza tale da superare
quella delle mura urbane (di ca. 10 m. a Susa).
Proprio all’ingresso dell’acquedotto in città aveva inizio
il sistema di distribuzione urbano che faceva capo al “castellum
divisorium” o “aquarum”, cisterna di raccolta dalla quale
si dipartivano le tubazioni principali collegate gli “utenti
finali” pubblici e privati. Per almeno quattro città piemontesi,
Pollenzo, Benevagienna, Susa ed Alba, gli studiosi hanno
supposto, in base a dati toponomastici e strutturali, la presenza
di tali cisterne; risulta peraltro difficile comprovare
l’identificazione sulla base dei resti rinvenuti in quanto le
strutture sono state demolite per ricavare e riutilizzare il
piombo delle tubazioni.
La portata d’acqua delle condotte era, naturalmente, commisurata alla consistenza demografica di un centro urbano
ma anche a specifiche esigenze della vita cittadina; tra le
stime formulate dagli studiosi in relazione alla realtà piemontese si evidenziano i 4.000 mc/g. per l’acquedotto
di Carreum Potentia, una portata massima di 7.000 mc/g
per l’acquedotto di Aquae Statiellae, i 24.000 mc./g. per
l’acquedotto di Eporedia.
Per Pollentia si ipotizzano volumi ben superiori determinati
dalla probabile compresenza di due acquedotti, uno completamente sotterraneo ed uno costruito in elevato.
Tuttavia le stime si riferiscono alla capacità teorica degli
acquedotti: nella realtà i volumi vanno fortemente ridimensionati ed inoltre non devono essere considerati fissi ma
variabili in funzione della situazione stagionale e, pertanto,
dello stato della sorgente.
In secondo luogo nel mondo romano si registrano diversi
casi di una stessa città servita da più di un acquedotto; si
tratta in prevalenza di complessi urbani di notevoli dimensioni
(quali Roma o Lione che ne possedevano rispettivamente
11 e 4) o, comunque, di situazioni determinate da un incremento della popolazione o delle attività produttive.
In effetti un aspetto interessante, ma di difficile ricostruzione,
è rappresentato dall’utilizzo “industriale” dell’acqua: sulla
base di studi specifici condotti a Pollenzo ed Acqui sul
percorso degli acquedotti, la loro portata ed i rinvenimenti
Marina Luongo
Base di fontana privata proveniente da Libarna (Serravalle Scrivia)
27
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Ritorno al passato: CROPANI (Cz)
Anche nel 2004 una decina di soci GAT è approdata in Calabria per il Campo Archeologico di Cropani
Riscoprire la memoria storica
della nostra civiltà. Partecipare ad
una sessione di lavoro archeologico
coinvolgente e formativa. Vivere
in prima persona la realizzazione
di uno scavo archeologico, la documentazione e il restauro dei reperti e delle evidenze monumentali.
È questa l’esperienza che una decina di volontari GAT (insieme a
decine di appartenenti ad altri Gruppi) hanno vissuto nel 2004 aderendo
alla campagna estiva di ricerca a
Cropani Marina, organizzata dal
gruppo archeologico “A. Magrini”.
Le attività hanno riguardato ripulitura, scavo, documentazione e valorizzazione di un’area archeologica magnogreca, in collaborazione
con la Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Calabria.
Si tratta di un santuario greco
databile tra il VI e il V secolo a.C.
in località “Acqua di Friso”, dove
sono stati individuati due depositi
votivi (ricchi di materiale ceramico)
e una parte dell’edificio sacro.
Negli anni passati il Gruppo Archeologico Torinese ha collaborato
attivamente (inviando partecipanti
e responsabili) a questo campo archeologico, che ha l’indubbio pregio
di essere ubicato in un’area di grande interesse archeologico e artistico
(come gli altri campi, peraltro) e,
contemporanemente, trovarsi a poca distanza dallo splendido mar
Ionio. In questo modo è possibile
coniugare concretamente la passione per l’archeologia con la necessità
di trascorrere una vacanza divertente
e serena.
Per informazioni sulle attività
2005 ci si può rivolgere, dopo il
mese di marzo, direttamente alla
Segreteria del GAT.
F.D.
Un PARCO per le TERRAMARE
Il 25 aprile 2004 aprirà al pubblico il Parco archeologico e Museo all’aperto della terramara di Montale.
A pochi chilometri da Modena, nello
stesso luogo in cui sorgeva un antico villaggio dell’età del Bronzo, il parco offre
al pubblico la straordinaria opportunità di
riscoprire una delle realtà archeologiche
più rappresentative della protostoria europea:
la civiltà delle terramare, tipici villaggi
della pianura padana abitati da comunità
che, pur non conoscendo la scrittura, avevano sviluppato attorno alla seconda metà
del II millennio a.C. un evoluto sistema
economico e sociale.
Nel parco archeologico un percorso nel
verde opportunamente segnalato mette in
evidenza le tracce delle fortificazioni che
circondavano l’antico villaggio. I resti riportati alla luce nel corso degli scavi archeologici sono inseriti all’interno di uno
spazio museale dotato di apparati didattici
e multimediali che spiegano gli oltre quattro
secoli di vita del villaggio.
Nel museo all’aperto viene proposta la
ricostruzione a grandezza naturale di una
parte della terramara comprendente il fossato, il terrapieno con palizzata difensiva
e due grandi abitazioni arredate
con vasellame, utensili, armi e
vestiti che riproducono fedelmente originali di 3500 anni fa.
A fianco delle due abitazioni
ci sono anche due fornaci per
la cottura della ceramica. Il
pubblico in visita al museo
all’aperto è coinvolto a sperimentare le attività e le produzioni
artigianali delle antiche genti
delle terramare: dalla fabbricazione dei vasi, alla produzione
di armi e attrezzi in metallo, alla
tessitura, alla lavorazione del corno di cervo.
Il parco sarà aperto al pubblico le domeniche e i giorni festivi. Sono previsti inoltre
programmi ed eventi su prenotazione per
le scuole e per il pubblico più giovane,
che includono anche l’utilizzo di un laboratorio didattico e la partecipazione ad uno
scavo simulato basato sulle evidenze messe
in luce dallo scavo della terramara.
Il parco è stato realizzato dal Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena
28
e dal Comune di Castelnuovo Rangone
(MO) in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni archeologici dell’Emilia Romagna, con il sostegno della Commissione
Europea, della Regione Emilia Romagna,
della Provincia di Modena e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.
Tel. 059-532020
[email protected]
www.parcomontale.it
Anno XX - N. 1 - Gennaio 2005
Programmi 2005
Gite (riservate ai soci GAT - informazioni in Segreteria)
Campi Archeologici 2005
26/27 Febbraio Altopiano delle Manie (Finalese)
Albenga (museo e battistero),
giro dei tre ponti romani
19 Marzo
Speleologia (Grotta del Rio Martino)
e visita cappella Missioni a Villafranca
16 Aprile
Castello di Busalla e
abbazia di Rivalta Scrivia
Entro il mese di marzo 2005 saranno pronti i programmi
per i prossimi CAMPI ARCHEOLOGICI ESTIVI dei Gruppi
Archeologici d’Italia, visibili all'indirizzo internet:
http://www.archeogat.it/zindex/file/campi.htm
Se vi interessano le civiltà antiche della nostra penisola
(i Romani, gli Etruschi, i Greci, le popolazioni preistoriche),
contattateci per ulteriori informazioni.
Iniziative
RIN ESE
VOLONTARIATO SVILUPPO
SOLIDARIETÀ IN PIEMONTE
E
&
Archeologia
Volontariato
ARCHEOLO
O
O
CENTRO SERVIZI PER IL
O
GIC
Archeologia
Volontariato
ARCHEOLO
TO
&
Proseguono la ricognizione del territorio collinare (in
accordo con la Soprintendenza) e le attività di laboratorio
in sede. I programmi dettagliati vengono inviati ai soci.
GRU
PP
O
GIC
GRU
PP
Per l’autunno 2005 è prevista a Collegno una mostra didatticodocumentaria dal titolo “Storia e Archeologia fra Torino
e Collegno”, realizzata dal GAT insieme alle associazioni di
volontariato Ad Quintum e Amici del Villaggio Leumann.
ArcheoInsieme
CENTRO SERVIZI PER IL
nona edizione
TO
RIN ESE
VOLONTARIATO SVILUPPO
SOLIDARIETÀ IN PIEMONTE
E
10 Incontri per conoscere l’Archeologia
Martedì, alle ore 21.00, presso la Sala Conferenze
del Centro Servizi VSSP - Via Toselli, 1 - Torino
Conferenze con diapositive, a cura dei soci del G.A.T.
Giovedì, alle ore 21.00, presso la Sala Conferenze
del Centro Servizi VSSP - Via Toselli, 1 - Torino
Conferenze con diapositive, organizzate dal G.A.T.
10 febbraio 2005
Come l’Egizio navigava lungo il Nilo e sui mari
ELIO MOSCHETTI
Viaggiatore e studioso dell'Egitto
5 aprile 2005
Prima dello scavo: la ricerca di un sito archeologico
(toponomastica, ricognizione
e altri metodi di studio non distruttivi)
17 febbraio 2005
La donna, l'eros, la poesia nell'Egitto faraonico
Le liriche d'amore nella letteratura
presentazione e commento
FRANCESCO POGGI
Socio A. C. M. E. (Amici Collaboratori del Museo Egizio di Torino)
12 aprile 2005
Lo scavo archeologico: strumenti, stratigrafia,
documentazione e tecniche di indagine
19 aprile 2005
Lo scavo subacqueo:
differenze e somiglianze con lo scavo terrestre
24 febbraio 2005
L'arte della costruzione in Egitto
RICCARDO MANZINI
Collaboratore scientifico
della Soprintendenza alle Antichità Egizie di Torino.
26 aprile 2005
I reperti: trattamento e datazione dei materiali
3 maggio 2005
Nuove frontiere: l’archeologia sperimentale
3 marzo 2005
Nefertari: colei per cui splende il sole
MARIO CRIVELLO
Socio A. C. M. E. (Amici Collaboratori del Museo Egizio di Torino)
10 maggio 2005
Nuove frontiere: archeologia e informatica
17 maggio 2005
Siti preistorici e protostorici in Piemonte
ATTESTA
di FREQUE TO
N
(con almen ZA
o
5 presenze
)
10 marzo 2005
La donna nell'antico Egitto
MARIO TOSI
Egittologo, collaboratore scientifico
della Soprintendenza alle Antichità Egizie di Torino
24 maggio 2005
Città romane in Piemonte
31 maggio 2005
I Longobardi in Piemonte
Ingresso
17 marzo 2005
gratuito
Punt, la terra del dio
BRUSSINO FRANCO
Socio A. C. M. E. (Amici Collaboratori del Museo Egizio di Torino)
7 giugno 2005
Presentazione dei campi estivi 2005
di ricerca archeologica
29
ATTESTA
di FREQUE TO
N
(con almen ZA
o
6 presenze
)
so
Ingresito
u
t
a
r
g
&
Archeologia
Volontariato
Iscrizione al GAT
OG
ICO
GR U
P
(durata annuale)
ARCHEOL
PO
TO
RI N E SE
over 18:
familiari:
under 26:
under 18:
E
E
E
E
35
30
30
27
L’iscrizione comprende anche la
copertura assicurativa per tutte
le attività svolte con il GAT
e con le altre sezioni dei
Gruppi Archeologici d’Italia
Modalità di iscrizione:
• in Sede - VIA BAZZI 2 - 10152 TORINO - Tel. 011.4366333
Orario Segreteria:
Aprile/Settembre: martedì dalle 16 alle 19 e venerdi dalle 18 alle 21
Ottobre/Marzo:
venerdì dalle 17 alle 21
•
mediante versamento presso la banca SanPaolo-IMI Spa
Sede di Piazza San Carlo - c/c n. 12/49974.
oppure
Vieni a trovarci!!!
I soci del GAT ti aspettano per farti conoscere
l’associazione e i programmi previsti.
ARCHEOL
ICO
GRU
PO
OG
P
Ci puoi trovare in:
TO
RI N E SE
Gruppi Archeologici
d’Italia
Via Bazzi, 2 - 10152 Torino
Tel. 011.43.66.333
Orario Segreteria:
APRILE/SETTEMBRE
Il martedì dalle 16 alle 19 e il venerdì dalle 18 alle 21
OTTOBRE/MARZO • Il venerdì dalle 17 alle 21
Internet: www.archeogat.it
E-Mail: [email protected]
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Taurasia Gennaio 2005 - Gruppo Archeologico Torinese