UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTA' DI LETTERE E FILISOFIA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE:
EDITORIA E GIORNALISMO
PER UNA BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE MUSICALI
DI VITO GIUSEPPE MILLICO
RELATORE
CH. mo prof. Giancarlo VOLPATO
CANDIDATO
Luigi VENDOLA
VR 032917
Anno Accademico 2005-2006
1
2
INDICE.
QUASI UNA INTRODUZIONE.
pag. 4
BIOGRAFIA.
pag. 6
MILLICO PELLEGRINO ATTRAVERSO LA PENISOLA.
pag.20
LA RIFORMA DEL MELODRAMMA E MILLICO.
pag. 29
IL COMPOSITORE MILLICO.
pag. 31
BIBLIOGRAFIA
pag. 44
3
QUASI UNA INTRODUZIONE.
Oggetto di questa ricerca è Vito Giuseppe Millico, eccellente musicista della
seconda metà del secolo XVIII del quale poco si sa e si conosce e sul quale esiste una
unica bibliografia redatta dallo storico don Gaetano Valente e pubblicata nel luglio del
19851. La scelta di V.G. Millico non è del tutto causale, in quanto questo nome
riecheggia sin dalla mia infanzia per le strade, per i vicoli e nei palazzi del mio paese.
A Terlizzi il su nome è sulla bocca di tutti, tutti sanno dove abitava, tutti sanno qual
era il suo mestiere, tutti sanno dell’esistenza di un teatro a lui intitolato, addirittura
hanno ribattezzato la scuola elementare San Giovanni Bosco in “la Millico”, ma
purtroppo nessuno sa chi fosse realmente, nessuno immagina l’influenza che ebbe nel
melodramma che ha fatto grande l’Italia.
Il mio primo contatto con V.G. Millico è avvenuto nell’estate del 2005 durante
l’ennesimo viaggio di “piacere” in quel di Londra dove, dopo le insistenti richieste di
mio padre, mi decisi a far visita alla British Library per dare “un’occhiata”. In realtà
non sapevo cosa cercare o cosa avrei trovato ma soprattutto non sapevo come cercare,
l’unico mio indizio era un nome e una fotocopia di un vecchio catalogo del British
Museum. Dopo una settimana di problemi, dubbi, imprevisti, dopo aver visionato
chilometri di microfilms e respirato polvere secolare, uscì da quel posto con molte
certezze, con centinaia di fotocopie e con il portafoglio alleggerito. Le certezze
riguardavano la figura e la vita del mio compaesano, iniziavo a capire cosa era stato, le
centinaia di fotocopie rappresentavano tutto (ma di questo non ne sono totalmente
certo) il patrimonio della British Library su Millco e mi resi anche conto di quanto
costi mantenere una biblioteca efficiente come quella londinese (solo per fare un
esempio una fotocopia di un libro manoscritto su formato A3 costa £ 1,50 che
equivalgono a € 2,30!).
Dopo quel primo timido impatto con la ricerca bibliografica, decisi di verificare
se nella Biblioteca Comunale del mio paese ci fosse altro materiale su questo illustre
personaggio, tutto quello che il bibliotecario mi mostrò, erano fotocopie di qualche
manoscritto e una copia del libro di don Gaetano Valente intitolato “Vito Giuseppe
Millico” e niente più. Allora decisi che sarebbe stato affascinante scavare tra montagne
1
Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985.
4
di lettere, manoscritti o altro per scoprire cosa e chi realmente era Vito Giuseppe
Millico e restituire alla cittadinanza il ricordo e le opere del “più grande sopranista di
tutti i tempi” a detta dei suoi contemporanei.
5
BIOGRAFIA.
La ricostruzione della vita di Vito Giuseppe Millico non è cosa semplice. Fino
alla metà del secolo XX tutti coloro che si cimentarono nella ricostruzione della
biografia di Millico o fallirono o riuscirono a ricostruire piccolissimi periodi della sua
vita.
Il primo a cimentarsi fu l’avvocato (sempre terlizzese) Fortunato Tempesta che
nell’affannosa ricerca riuscì ad approdare che ad un solo elemento biografico, quello
della nascita, ma anche questo si rivelò errato in quanto fu tratto in inganno da una
postilla riportata in calce da un atto di battesimo, in cui lesse il nome di un certo
Giuseppe Domenico Antonio, figlio di Matteo Millico, natio di Acquaviva. La postilla,
vergata in epoca di molto posteriore indica infatti quel bambino come il futuro
«celebre professore di musica», mentre l’atto di battesimo riporta la data del 22
novembre 1693. Non mancò infatti chi lo volle nato a Napoli o addirittura a Milano,
senza parlare poi della data di nascita che varia dal 1693 al 1739.
A far luce su secoli d’oblio fu M. Bellucci-La Salandra, autore di uno Studio
critico sui musicisti in Puglia, con un articolo apparso nel 1950 sulla rivista Archivio
storico pugliese. Il Bellucci-La Salandra ebbe l’intuizione giusta, nella prima carriera
napoletana il Millico fu soprannominato il terlizzese ma conclusasi questa parentesi e
dopo un lungo periodo trascorso a San Pietroburgo fu soprannominato il moscovita2.
Questo, intanto è il primo punto fermo: Millico il terlizzese ebbe i natali a Terlizzi. E
nemmeno sulla data della sua nascita ci sono più dubbi, quest’ultima la si può
desumere dall’atto di battesimo sul vol. V, parte III, f 40t. dei registri parrocchiali della
Cattedrale di Terlizzi: «a dì venti Gennaio mille sette cento trenta sette Vito
2
Il Bellucci – La Salandra scrive testualmente: «la più antica notizia che possediamo intorno al Nostro è
dell’anno 1769. In quell’anno il Grossatesta (…) propose per le due opere d’inverno al Teatro San Carlo
(‘ ”Adriano” del Monza e la “Didone” dell’Insanguine), il musico Millico, detto il Moscovita. E’ dal
libretto dell’ ”Adriano” del Monza che si rileva il soprannome del Nostro (bibl.. Angelica di Roma –
Raccolta Santangelo). Questa notizia è di grande importanza perché il soprannome di “Moscovita”
chiaramente ci indica che la prima parte della carriera di questo squisito cantore si sia svolta in Russia, e
noi non ne avremmo saputo mai nulla senza questa preziosa indicazione». Inoltre aggiungo che
possiamo notare nel libretto “Le Feste di Apollo” musicate dal Gluck e “celebrate sul Teatro di Corte di
Parma nell’agosto del 1769 per le nozze tra Ferdinando e Maria Amalia” che ad interpretare il
personaggio di “Anfrisio” ritroviamo “il sig. Giuseppe Millico, detto il Moscovita” Per la cronaca il
soprannome Moscovita non deriva da Mosca ma bensì da Moscovia ovvero il nome di un Ducato che
cessò di esistere nel 1480 quando riuscì a unificare tutto il paese trasformandosi nel Regno Russo; il
termine Moscovia è tuttavia rimasto in parecchi dialetti dell’Italia del sud per indicare la totalità del
territorio russo.
6
Giose(ppe) Sebastiano Donato Antonio figlio legittimo e nat. Di m.o Francesco
Millico e di Angela Dom.ca di Chirico coniugi di Terlizzi nato alle 19 di d.o mese ad
ore 8, è stato battezzato dal Rev Francesco Lopez con licenza, li ad.ni Michele di
Giose(ppe) Rutigliano e Bisanzio di Chirico, l’ostetrica Antonia de Sario».
Della sua infanzia e della prima giovinezza non esiste nessun documento ma è
possibile immaginare che non mancavano certo alla sua famiglia le possibilità
economiche di dare anche a lui com’era consuetudine, il suo bravo precettore per
essere avviato agli studi e questo lo deduciamo dall’atto di battesimo in quanto il nome
del padre è preceduto dalla sigla m.o che corrisponde all’appellativo di magnifico.
Inoltre possiamo dedurre che il piccolo Millico frequentasse fin dalla più tenera età
una scuola di musica, in quanto intorno agli anni 1715-1720 a Terlizzi ne fu
istituitauna dal magnifico Gennaro De Paù (1668-1750), mentre ricopriva la carica di
sindaco, e la scuola fu finanziata dall’Università (l’equivalente delle nostre
amministrazioni comunali) durante gli anni dell’infanzia del Millico.
Ma fu a Napoli che maturò la sua vocazione di cantante, era qui nella capitale
che confluivano i giovani, generalmente figli di benestanti, per completare e
approfondire i propri studi.
A Napoli scuole di perfezionamento musicale ce n’erano parecchie in quel
tempo, mantenendo l’antica denominazione di conservatori ma perdendo il loro
7
carattere istituzionale (nati nel ‘500 i conservatori erano istituti di beneficenza che si
occupavano della raccolta degli orfani e della loro istruzione primaria per poi
“specializzarli” in quella musicale) diventando vere e proprie scuole private
(nell’accezione moderna del termine) con rette altissime e corsi di studi della durata di
otto anni. Il nostro Millico frequentò il Collegio della pietà dei Turchini, qui studiò
canto e composizione e riuscì geniale nell’uno e nell’altra.
In questo periodo Napoli osannava i grandi cantanti sopranisti come il Farinelli
e il Caffarelli e se si voleva seguirli nell’arte e nella celebrità bisognava seguirli anche
nel sacrificio: la castrazione3.
3
“Igor Stravinsky, a Papa Paolo VI che gli chiedeva cosa la Chiesa potesse fare a favore della musica,
rispose: Santità, restituisca alla musica i castrati”. Sin dall’antichità (Egitto, Assiria, Etiopia e Persia),
veniva praticata l’evirazione rituale, così come anche in Grecia e a Roma, dove era consuetudine
praticarla ai futuri sacerdoti di Attis e Cibele. Nel XII secolo era molto facile trovare, ad esempio,
evirati cantori nelle chiese cristiane d’Oriente. In Europa, più precisamente in Spagna, Portogallo e
Baviera, gli eunuchi furono introdotti dalla cultura e dal costume delle popolazioni mozarabiche. E
intorno alla fine del Cinquecento, arrivarono eunuchi cantori anche in Italia, a Roma, per essere precisi,
dove la eressero capitale di un mondo musicale sacro, ma non solo, che in pochi decenni ne fecero il
fulcro intorno al quale ruotarono i grandi compositori ed esecutori del Sei - Settecento. Il soprano
castrato, Francisco Soto de Langa, spagnolo, fu il primo ad essere ammesso nella Cappella Pontificia
nell'anno 1562. Mentre il primo soprano castrato italiano ammesso nelle cantorie vaticane nel 1588, è
Giacomo Spagnoletto. L’uomo senza sesso - il castrato - veniva considerato il mediatore più efficace e
diretto tra l'uomo e Dio. E l’Italia fu la sola a dare inizio e corpo all'uso professionale della vocalità
dell'evirato cantore, da prima nelle cappelle ecclesiastiche, dove la Chiesa cattolica era la fautrice e
promotrice del Canto dell’Eunuco e quindi, della pratica dell'orchiectomia. Peter Browe, gesuita e
storico della Chiesa, scrisse nella sua Storia dell'evirazione del 1936: “I papi sono stati i primi che alla
fine del XVI secolo hanno introdotto o tollerato nelle loro cappelle i castrati, quando erano ancora
sconosciuti nei teatri e nelle chiese italiane. Dopo aver proibito alle cantanti e alle attrici di calcare le
scene, dovevano avere completamente perduto il senso della realtà per non rendersi conto che sarebbero
stati i castrati ad assumere i loro ruoli. Difendere i papi è dunque impossibile”.Il pontefice Clemente
VIII (Papa dal 1592 al 1602) quando ascoltò per la prima volta il castrato Girolamo Rosini (detto
Rosino), nato in Umbria ed entrato a far parte del corpo delle cappelle pontificie, correva l’anno 1599,
rimase così estasiato dalla soavità del suo canto che, a poco a poco, si sbarazzò dei cantori non evirati
per sostituirli definitivamente coi castrati. Da quel momento l’orchiectomia venne ammessa “al servizio
di Dio”. L’orribile operazione, con la quale venivano asportati i testicoli, era praticata sui fanciulli di
circa otto - dieci anni, e comunque prima che il bambino subisse la ‘muta della voce’. Muta, che
abbassava di un’ottava i suoni della voce dandole, com'è naturale, le caratteristiche d’una voce virile. Il
risultato di questa operazione dava frutti sorprendenti se considerate che in un uomo ormai adulto, la
voce rimaneva fresca, vitale, duttile e penetrabile come quella di un ragazzo. Ma tutto ha un prezzo, e
quello pagato dai futuri ‘dei’ del canto era troppo alto. I fanciulli venivano operati in condizioni
igieniche che oggi definiremo impensabili e senza anestesia, veniva praticata una profonda incisione
all'ano, dalla quale erano tirati fuori il cordone e i testicoli. Ad operare venivano chiamati,soprattutto, i
norcini e i barbieri. Ovviamente c’era un’altissima mortalità e per i sopravvissuti, non è detto che il
risultato fosse poi una voce che soddisfacesse i requisiti sperati, anzi, sembra che solo l’un per cento
arrivasse agli onori e al guadagno facile, diventando ricchi, famosi e osannati da un bagno di folla
impazzita, in tutta Europa. Per tutti gli altri, coloro che non riuscivano a costruirsi una carriera, perché la
voce risultava comunque sgraziata, per mancanza di passione, di disciplina nello studio, c’era la sola
prospettiva di diventare prete, o suicidarsi, oppure, entrare a far parte di uno squallido coro di una
qualsiasi parrocchia, consumati dal rancore. Le regioni che si dimostreranno più solerti a fornire alla
musica gli evirati, saranno l’Umbria, la Puglia e la Campania. Cfr. Francesco DEGRADA, Studi sulla
tradizione del melodramma, Firenze 1979.
8
Terminato il suo curriculum nel conservatorio, credette bene di prepararsi
convenientemente al debutto nell’arte canora con un buon rodaggio delle sue corde
vocali come scriverà egli stesso nell’introduzione dedicatoria di un suo melodramma:
“…ero io appena uscito dal conservatorio, quando mi accorsi della cattiva disposizione
della mia voce, ne conobbi i difetti, e ne compiansi la qualità…fui abbandonato da tutti
i maestri, e quasi disperai di trovar la maniera onde potermi procurare una sorte, che
non rendesse pesante la mia vita. Riflettei seriamente alla mia circostanza, e vidi che il
solo studio poteva aprirmene agevolmente la vita, onde con tutto lo spirito mi applicai
all’acquisto di un mezzo di cui potessi coll’arte supplire alle mancanze della natura.
Cominciai ad esercitare la mia voce, e dopo molta fatica mi riuscì di renderla alquanto
sonora; presi coraggio, né mi stancai, e da Contralto finalmente potetti diventare
Soprano, e raccoglierne tutto quel bene che forma al presente la mia presente
tranquillità”4.
Appena ventunenne lo ritroviamo già inserito nel cast degli artisti dell’Opera
italiana per una lunga turnée, dal 1758 al 1765, nella Russia della zarina Caterina II.
All’epoca di Millico a dirigere l’Opera italiana era il noto compositore F. Araja 5 fino al
1761. Il 1760 il Millico cantò nella parte di ”Mirteo” nella “Semiramide riconosciuta”,
musica di Vincenzo Manfredini. Dal 13 dicembre del 1760 al 22 ottobre del 1761,
cantò nella parte di “Arasse” nelle sette rappresentazioni di “Sirone”, libretto di
Metastasio, musicato da Ermanno Federico Raupach ed il 3 giugno del 1762 il
melomane Pietro III, per festeggiare solennemente la pace fra Russia e Prussia, fece
rappresentare un lavoro adatto alla circostanza “La Pace degli Eroi”6 su libretto (in
italiano, tedesco e russo) del poeta di corte Ludovico Lazzaroni, con musica di
Vincenzo Manfredini. Nel 1764, nel rimaneggiato “Carlo Magno” di Manfredini, il
Millico canta nella parte di “Rinaldo”. E’ probabile che abbia cantato durante
l’inaugurazione del Nuovo Imperiale Teatro di Pietroburgo nel 1763. Inoltre durante il
suo soggiorno in Russia Millico si distinse anche per un’altra attività che gli sarebbe
riuscita abbastanza bene, ovvero l’insegnamento: infatti fu insegnante di canto e
4
Cfr. La pietà d’amore, manoscritto.
Francesco Domenico Araja (o Araia, in russo: Арайя) (Napoli, 25 giugno 1709 - Bologna, circa 1770)
fu un compositore italiano attivo per 25 anni alla corte imperiale russa: tra le opere da lui scritte per la
corte vi è Цефал и Прокрис (Cefalo e Procri), la prima opera in lingua russa. È possibile che egli, nel
1751, abbia composto l'opera Титово милосердие (La clemenza di Tito) su libretto in russo
(probabilmente tradotto dall'italiano) del famoso attore e in seguito compositore Fyodor Grigorievich
Volkov.
6
Il libretto si trova nella biblioteca pubblica di Leningrado, la partitura è andata persa.
5
9
clavicembalo del granduca P. Petrovič. Nel 1765 rientrò nel suo paese natio e questo lo
si deduce dal suo primo testamento per mano del notaio Tommaso Taralli7.
Dopo il lungo periodo in terra russa non esitò ad affacciarsi sulle scene italiane.
Il suo debutto fu al teatro Alibert di Roma, in quella Roma che per i suoi molti titoli e
l’antica tradizione musicale esercitata dalla sua critica, rappresentava una vera e
propria dittatura sul gusto della musica in Italia. E il trionfo tributato da quel pubblico
a il Moscovita, fece sì che fosse scritturato a vita. Questa fu la migliore referenza da
cui si fece precedere sui palcoscenici degli altri teatri italiani. Ma era Napoli a fremere
di gelosia nei confronti del pubblico romano che si era appropriato del suo idolo.
L’impresario Grossatesta non vedeva l’ora di aprirgli le porte del suo S. Carlo, non si
lasciò pertanto sfuggire l’occasione al momento opportuno, ricorrendo persino al re
per riuscire nel suo intento. Infatti il re, Ferdinado IV, obbligò il suo suddito ad esibirsi
nel Teatro Reale per la stagione lirica invernale, i cartelloni di quella stagione
programmarono due opere: l’Adriano in Siberia, libretto del Metastasio8 e musica del
Maestro Giacomo Insanguine9. e l’Adone dello stesso Insanguine.
Prima di esibirsi a Napoli, V. G. Millico non poté fare a meno di accogliere
l’invito del Teatro Ducale di Parma. Vi era attratto dal nome prestigioso di Cristoph
Willibald Gluck. A questo geniale musicista tedesco, la corte parmense aveva
commesso un’opera brillante per la solenne e fastosa circostanza del matrimonio fra il
duca Ferdinando Borbone e l’arciduchessa Amalia, figlia dell’imperatore Francesco e
Maria Teresa D’Austria. L’opera Le feste d’Apollo andarono puntualmente in scena il
24 agosto del 1769: il raffinato pubblico riunito per l’occasione non risparmiò applausi
ed elogi al compositore Gluck e al sopranista Millico che sostenne la parte del
protagonista.
7
Archivio di Stato di Bari – Sezione di Trani.
Pietro Trapassi, meglio conosciuto come Pietro Metastasio, (Roma, 13 gennaio 1698 - Vienna, 12
aprile 1782) è stato un grande poeta e librettista. Foscolo ebbe a definirlo nel Gazzettino del Bel-mondo
«...monarca della Tragedia Italiana cantata da Cesari e Catoni non uomini»
9
Giacomo (Antonio Francesco Paolo Michele) Insanguine (Monopoli, 22 marzo 1728 - Napoli, 1
febbraio 1795) fu un compositore, organista e pedagogo italiano. Nella sua epoca era anche conosciuto
con il nome di Monopoli.
8
10
Fu quella data che segnò la svolta decisiva nell’arte del Millico; i due artisti
sopra nominati, accomunati da quel trionfo si conobbero e si compresero, l’uno
affascinato dall’arte dell’altro. Gluck propose al Millico di seguirlo a Vienna, dopo il
suo impegno napoletano. Infatti nella primavera del 1770 Vito Giuseppe Millico si
esibì nel maggiore teatro di Vienna col più celebre dei lavori gluckiani, l’Orfeo10.
10
riporto il giudizio di un critico d’arte apparso sulla « Gazette de Vienne » sotto la data del 9 maggio
1770: “…on a depuis peu remis au Théâatre l’Oprhèe, opéra Italienne, représentée ici en 1762 avec
succès, le Sr. Millico, charci du role d’Orphèe l’a rendu de la manière la plus touchante; sa voix est
admirable et moeleuse et il met dans son chant toute l’expression possible”.
11
Millico rimase a Vienna ospite del suo amico Gluck fino a quasi tutto il 1771,
i due misero in scena oltre all’Orfeo anche una nuova opera, Paride ed Elena,
anch’essa replicata per tutto il 1771.
Verso la fine del 1771 Millico accettò un contratto con il Teatro Ducale di
Milano per le stagioni liriche del 1771 e di tutto il 1772. Il programma prevedeva due
opere nuove, Il gran Tamerlano del maestro Giuseppe Misliwecek, detto il Boemo, e
l’Armida, del maestro Antonio Sacchini.
Appena finita l’ultima stagione del 1772, Millico privo di contratto, venne
richiamato da Gluck a Vienna e insieme lavorarono alla messa a punto del
rimaneggiato Orfeo. Per tutto quel tempo Millico si disimpegnò dai suoi obblighi con
la corte per essere scritturato come cantante e come professore di musica per la nipote
del sovrano.
Agli inizi del 1773 Millico, Gluck e sua nipote Marianna Heldern partirono
alla volta di Parigi, qui i gusti del pubblico impedirono al Millico di cantare e Gluck
fu costretto a riadattare le sue opere per affidare la parte ad un tenore, infatti i cantanti
evirati non godevano delle simpatie del pubblico francese, ma i salotti erano un’altra
cosa. Il successo del Millico lo rileviamo dal musicologo G. Desnoiresterres e
precisamente da una sua biografia del musicista barese Niccolò Piccinni: «…pare che
ad uno di questi banchetti, Gluck facesse sentire per la prima volta il suo Orfeo e
Millico che aveva seguito il cavaliere e la giovane Marianna a Parigi, cercava rendere
popolare questa grandiosa bella musica… Fu proprio lì che ascoltammo Millico,
adoratore spassionato di Gluck, e quasi suo allievo, nella parte di Orfeo che supplica
le furie a lasciaresi intenerire dalle sue lagrime e che fino dai primi suoni usciti dalla
sua bocca, ne fece ancora versare a noi; Gluck rappresentava, lui solo, la torma
inesorabile dei demoni coi loro no terribili » 11. Nella sua sosta parigina, l’unica cosa
consentita al Millico erano queste esibizioni salottiere, quindi il Millico si congeda
dal suo amico Gluck.
Da questo punto in poi, per qualche anno, descrivere la vita di Millico diventa
alquanto problematico; secondo Alfredo Einstein in “Gluck – la vita, le opere” del
194612, Vito Giuseppe Millico starebbe nel 1773 rappresentando, a Londra nel Teatro
Reale, l’Orfeo (insieme alla signora Girelli-Aguilar e la signora Sirmen), secondo il
11
12
Cfr. Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985.
Cfr. Alfredo EINSTEIN, Gluck la vita – le opere, Milano 1946.
12
Grove “Dizionario della musica e dei musicisti” edizione del 1966 13, il Millico
arriverebbe a Londra nella primavera del 1772, dove non riscosse un grande successo
ma nonostante tutto riuscì a cantare per due stagioni e cantò nella “Sofonisba” di
Vento e nel “Tamerlao”14 di Handel (1773), e continua il Grove, ritornerà a Londra
nei primi mesi del 1774 per poi andarsene definitivamente nell’autunno dello stesso
anno. Secondo il “Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti”,
diretto da Alberto Basso15, Millico apparve sulla scena londinese solo nel 1774
(notizia che ritroviamo anche nell’opera di Gaetano Valente). Nel “La musica italiana
del settecento” di Roberto Zanoni del 197816, Millico si trasferì a Londra nei primi
mesi del 1772 con Antonio Scacchini dove “affrontando insieme al compositore le
ostilità dei londinesi e riuscendo poi ad imporsi come interprete delle più fortunate
opere scacchiniane, tra cui Tamerlao, del 1773, e di altre che qui furono riprese ( Il
Cidde, specialmente)”17. Possiamo quindi concludere che il Millico si trasferì a
Londra nella primavera del 1772 e ci rimase fino all’autunno del 1774.
Una volta conclusasi l’esperienza inglese, tornò a Parigi dal suo amico Gluck
e insieme si trasferirono prima a Zweibrücken poi a Mannheim ed infine a Berlino,
qui si congedò definitivamente da Gluck e si trasferi a Venezia (gennaio 1775) dove
venne scritturato dal teatro S. Benedetto. In quella stagione lirica (il carnevale) erano
in programma due opere nuove: L’Olimpiade (libretto in tre atti del Metastasio e
musica di Pasquale Anfossi) e Demofoonte (dramma in tre atti del Metastasio e
musica di Giovanni Paisiello). Qui Millico venne osannato da pubblico e critica che
costrinsero gli impresari veneziani a scritturarlo per le recite della fiera
dell’Ascensione (la festa principale di Venezia). Nel settembre dello stesso anno
venne chiamato a Firenze per la prima assoluta del Gran Cid, appositamente
composto da Paisiello per il teatro La Pergola. Per la stagione lirica di fine anno
(sempre del 1775) e del successivo carnevale, Millico venne invitato a Milano
dall’impresario del Teatro Ducale, dove in programma figuravano due opere: Il
Vologeso (del maestro Pietro Guglielmini) e La Merope (del maestro bitontino
13
Cfr. Sir. George GROVE, Grove’s Dictionary of music and musicians, London 1966.
La paternità di questa opera è da attribuire ad Antonio Sacchini.
15
Cfr. Alberto BASSO, Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, Torino
1988.
16
Cfr. Roberto ZANONI, La musica italiana nel settecento, Bramante Editrice, 1978.
17
Cfr. Roberto ZANONI, La musica italiana nel settecento, Bramante Editrice, 1978.
14
13
Tommaso Traetta). Dopo la stagione lirica del carnevale, Millico lasciò
definitivamente Milano e face rotta verso Terlizzi.
Nel marzo del 1776 (a stagione conclusa) lo ritroviamo a Firenze, così recita
una notizia riportata dalla Gazzetta Universale di Firenze sotto la data 11 Marzo
1776: “Stasera in questo Casino della Nobiltà si darà la consueta accademia, ove il
Millico canterà sull’arpa alcune ariette, nelle quali fa specialmente risaltare la sua
abilità”. Firenze però fu meta solo di passaggio in quanto, come precedentemente
detto, Millico si dirigeva verso Terlizzi «perché anche qui aveva i suoi impegni …
artistici», questo lo si desume da una serie di delibere comunali, precisamente da
quella del 25 aprile del 1776, in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna
di Sovereto (festa maggiore) oramai conclamata Patrona di Terlizzi. In simili
occasioni venivano allestiti pubblici spettacoli a sfondo religioso chiamati “oratori”,
rappresentazioni sacre in musica, sullo stesso schema del melodramma, ispirate
generalmente a episodi biblici. Tra i vari impegni del Millico a Terlizzi, oltre agli
oratori, ritroviamo presso l’archivio di Stato di Bari, sezione di Trani, un’altro atto
notarile18, sempre del notaio Tommaso Taralli, concernente un: “Piano per la retta e
prudente amministrazione della Società Mercantile fra il Sig. D. Giuseppe Millico,
magnifico Gaetano Millico e Notar Gioacchino Gargano”. Si tratta dell’atto di
fondazione di una società per azioni (i tre soci versavano ciascuno tre mila ducati) per
il commercio all’ingrosso di grano orgio19 vino olio e mandorle.
Dopo la “pausa” terlizzese, ritroviamo il nostro musico prima a Caserta nella
reggia, dove ebbe modo di cantare per S.M. la Regina di Napoli, e poi a Roma, dove
era stato scritturato per esibirsi al Teatro Argentina per la stagione lirica invernale,
dicembre 1776 – marzo 1777. Il programma prevedeva due opere, in prima assoluta,
L’Infigeria del Sarti e L’Artaserse del Guglielmini, ma il Millico, molto
probabilmente a causa di malanni fisici, il 28 dicembre non poté esibirsi per la prima
dell’Infigeria, e questo ne sancì l’insuccesso, ma l’8 gennaio del 1777 l’opera andò di
nuovo in scena , questa volta con il cast al completo, e fu un successo.
Ora mai quarantenne Millico decise, su invito dell’Università di Terlizzi, di
cantare ancora in onore della Madonna di Sovereto, e questo lo si deduce da una
18
Cfr. Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985.
(orzo =) orgio = termine volgare utilizzato fino ai primi del ‘900 in Italia, specialmente in quella
centro-meridionale
19
14
delibera dell’Università datata 30 aprile 1777. Quella che sembrava una piccola sosta
di piacere nel suo paese natio, si trasformò in una vera e propria fuga dalle scene
internazionali, infatti il moscovita rimase a Terlizzi fino all’inizio dell’autunno del
1779. In questo periodo deliziò ancora i suoi concittadini con varie esibizioni, di certo
cantò per la Madonna di Sovereto nel 1778 e nel 1779. “Ma la lunga parentesi
terlizzese gli giovò comunque in ogni senso per una rincorsa verso nuovi traguardi
della sua attività artistica, che realizzerà al suo rientro definitivo a Napoli. Sarà qui,
nella capitale del regno e del bel canto che il Millico potrà assecondare, per il resto
dell’arco della sua vita, la nuova vocazione maturata in quegli anni e come professore
di musica e come compositore, votandosi cioè del tutto alla causa gluckiana, avente di
mira la perfezione espressiva della materia musicale, nell’ambito della riforma del
melodramma italiano”20.
Questo dovrebbe farci pensare che da questo momento in poi il Millico abbia
iniziato la sua attività di compositore; per certi versi questo è vero ma tutti ignorano
che nella sua breve parentesi londinese furono pubblicati alcuni suoi lavori ed altri ne
usciranno alcuni anni dopo e non solo a Londra ma anche a Zurigo, a Parigi e a
Berlino.
Nell’autunno del 1779 venne chiamato dal conservatorio S. Onofrio di Napoli
per insegnare contrappunto, questo ci viene confermato dal Florimo 21 in una nota sul
musicista molfettese Luigi Capotorti22, e da questa nota si deduce che nello stesso
conservatorio insegnavano il Piccini (composizione) e il Nosci (strumento – violino).
L’abilità di insegnante di musica di Millico era nota in tutta Europa, infatti oltre ad
essere stato da ventenne l’insegnante di canto e clavicembalo del granduca P.
Petrovič, fu anche insegnante presso la corte imperiale d’Austria e precisamente
insegnò canto alla nipote dell’imperatore ma ciò che lo rese grande fu l’aver
insegnato alla nipote di Gluck l’arte del bel canto: ciò ci viene confermato da un
musicologo d’eccezione Charles Burney23: “… mi dissero, e ciò mi meravigliò assai,
che la signorina Gluck aveva imparato a cantare da soli due anni. Aveva incominciato
a prendere lezioni da suo zio che poi la fece sospendere disperando per la riuscita, in
20
Cfr. Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985.
F. FLORIMO, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatori. Napoli 1880 – 1884.
22
Capotorti, Luigi * ca. 1767 in Molfetta † 17. Nov. 1842 in San Severo (Foggia)
23
Charles Burney nacque a Shrewsbury nel 1726 e morì a Chelsea (Londra) nel 1814. Fu organista e
compositore di musica strumentale e vocale, ma eccelse soprattutto come musicologo. A lui va il merito
di aver scrittto la prima storia della musica: A general history of music, Londra 1776 – 1789.
21
15
un’epoca circa quando Millico venne a Vienna. Quest ultimo intese la giovane
scolara, e giudicò che la sua voce era suscettibile di perfezionamento, trovandole
molta disposizione allo studio, chiese a Gluck il permesso di servirle da guida solo
per qualche mese, per accertare se conveniva o no di continuare i suoi studi musicali,
perché dubitava e non a torto, che la decisione adottata contro la giovinetta, fosse
piuttosto effetto d’impazienza, d’impetuosità del carattere dello zio, che di ostacoli
reali nelle disposizioni della nipote. Lo stile che possiede adesso è la sagacità e la
penetrazione dello stesso Millico, che infondeva con il suo metodo ai suoi allievi.
Infatti la giovinetta è così bene penetrata del gusto e dell’espressione del suo maestro,
e se li è talmente appropriati, che non si rileva in nulla la freddezza dell’imitazione;
ma sembrano l’uno e l’altro appartenente alla sua anima”24.
Benedetto Croce nella sua opera I teatri di Napoli ci dice che “il Millico
impartì lezioni di musica e canto anche a Lady Hamilton, la famosa e bellissima
avventuriera (Emma Lyon) che sposò sir William Hamilton, ambasciatore inglese a
Napoli presso Ferdinando IV di Borbone. E non poteva certo mancare che lo stesso
Millico fosse nominato maestro di canto delle Reali Principesse di Napoli, e ad
istruire nel suono dell’arpa, in cui egli era versatissimo, la Reale Principessa Maria
Carolina”25. Ma “ non deisdegnò di occuparsi assiduamente ad istruire chiunque
mostrava genio per la Musica, soccorrendo ancora generosamente, chi dalla povertà
sarebbe stato impedito di applicarsi a tale studio”26.
Nel 1782, a Napoli, andò in scena il suo primo melodramma La pietà
d’amore, libretto di Antonio Lucchesi; qui, in una dedica al suo librettista, il Millico
scrisse un piccolo trattato pedagogo-musicale in cui venivano fissati norme e obiettivi
della riforma melodrammatica. Il Millico in questo “piccolo manifesto” della riforma
del melodramma, denunciò le cause del decadentismo dell’opera musicale e né
suggerì i rimedi:
«I giovani, che si applicano nell’esercizio di questa bell’arte, mentre che
imparano gli elementi della musica dovrebbero ricevere una educazione
corrispondente al loro mestiere; si dovrebbe coltivare il loro spirito per renderlo
sensibile ai movimenti della natura, si dovrebbero esercitare in buona pronunzia, ed in
24
Cfr. Charles BURNEY, A general history of music, London 1776 – 1789.
Cfr. Benedetto CROCE, I teatri di Napoli, Napoli 1891.
26
Cfr. Elogio funebre, Gazzetta Napoletana Civica Commerciale del 12 ottobre 1802.
25
16
perfetta articolazione delle parole. Si dovrebbe far loro leggere la storia per renderli
informati della diversità dei caratteri di quei personaggi, che dovranno rappresentare;
si dovrebbe insegnare a discernere le bellezze della poesia, perché si vestissero dei
sentimenti degli autori. Si dovrebbe esercitare la loro voce naturale, cosa, che la
maggior parte dei cantanti trascurano, per cui le voci, o prendono il naso, o la gola, o
il flautino, o tanti altri disgustosi difetti, indi renderla obbediente, e flessibile, come
una pasta, a fine che potesse cangiarsi, e pigliare tutti i colori, persino a rendersi alle
volte roca, e stridente se lo esigesse la violenza di una passione. Ma per ottenere
questo intento sarebbe a mio credere necessario, che i maestri de’ cantanti fossero i
più famosi cantanti, come quelli, che colla esperienza, e coll’esempio potrebbero
facilmente insinuar loro queste delicatezza. Nella Sinfonia ho creduto di dover fare il
Programma dell’Opera, sembrandomi, ciò che indispensabile convenga all’unione del
tutto. Nel progresso ho cercato di esprimere colla maggiore semplicità le parole,
adattandovi quegl’instrumenti, che ho giudicati opportuni alla migliore espressione,
ho procurato infine di togliere quella comune perpetua monotonia, che ci disgusta da
tanto tempo. Ma non ho potuto eliminare del tutto alcuni difetti così comuni ancora
oggi come qualche gorgheggio e ripetizione di parole perché questo è purtroppo il
gusto dell’attuale società. Ci conosco anche io questo difetto, e l’ho trascurato, ma
non senza ragione, perciocché non ho creduto di dover notare ad un tratto il genio di
una Nazione, già sedotta dalla vivacità di alcuni cantanti, che si studiani di
rassomigliare più al grazioso gorgheggio degli usignoli, che alla sola melodia, che
penetra nei cuori, ed insinua per ignote vie nell’anima la forza di quei sentimenti, che
giungono alle volte a muovere piacevolmente le lacrime. Nondimeno li pochi
passaggi, e le ripetizioni di parole, che vi ho introdotte, si troveranno solamente in
quei luoghi, che non formano la più interessante parte del dramma, e dove non si
altera con un gorgheggio la forza dell’espressione. Volesse il cielo, che li moderni
compositori, e cantanti ponessero mente a quelle medesime riflessioni e si
applicassero seriamente all’acquisto della vera cognizione per intendere il sentimento
delle parole, ed entrare nello spirito delle poesie. I cantanti abbandonerebbero
l’inutile studio ed esercizio di quei pochi gruppetti preziosi, alli quali riducono tutte le
cantilene. Poche sono nella nostra musica le modulazioni in confronto delle
innumerevoli cantilene, che si potrebbero usare per esprimere le varie passioni; onde
17
avviene, che usando i cantanti in tutti i sentimenti, ed in tutte le parole le medesime
variazioni, si rendono necessariamente a noi monotoni»27.
Nessuno, fino ad allora, aveva osato criticare duramente la struttura sulla
quale si fondava tutto il melodramma, prendendo di mira non solo i cantanti e i
compositori ma alzando il tiro sopratutto su coloro che rappresentavano la continuità
del melodramma stesso, ovvero gli insegnanti.
Nel gennaio del 1784 fu rappresentata L’Ipermnestra, la sua seconda opera,
opera venuta alla luce grazie all’aiuto di Ranieri de’ Calzabigi 28, che ne scrisse il
libretto, l’opera fu rappresentata in occasione della visita del re di Svezia nel Regno
di Napoli. Nello stesso anno il duo Calzabigi-Millico generò una nuova opera Le
Dainaidi. Nel 1786 andò in scena al Teatro di Fondo, sempre a Napoli, La Zelinda (il
librettista è sconosciuto ma probabilmente è sempre del Calzabigi).
Nella sua breve carriera come compositore, durata ufficialmente circa undici
anni, Millico compose circa undici melodrammi. La sua carriera si arrestò quando alla
lenta perdita dell’udito, sopperita efficacemente con un ripetitore, si unì ben presto
quella della vista: nel 1792 diventò totalmente cieco. Aveva solamente
cinquantacinque anni quando la sua carriera si troncò, rimase comunque al servizio
della corte napoletana sia come maestro di canto delle principesse, con lo stipendio
mensile di 50 ducati, sia come cantante Soprano della Regia Cappella di Palazzo, con
quello di 30 ducati. Il 15 febbraio 1802 «avendo D. Giuseppe Millico, Maestro di
canto delle AA.LL.RR. domandato l’attrasso di tutti i suoi soldi, che gode, sì pel
ramo della R. Camera, che per quello della R. Cappella Palatina. S.M. ponendo mente
ai meriti distinti del ricorrente ed alle sue indisposizioni, accorda la grazia implorata»
29
.
La notte tra il primo e il due ottobre del 1802, probabilmente a causa di un
ictus celebrale di natura emorragica morì.
27
Cfr. La pietà d’amore, manoscritto.
Ranieri Simone Francesco Maria de Calzabigi, letterato e librettista italiano (Livorno, 23 dicembre
1714 - Napoli, luglio 1795). Probabilmente studiò a Livorno e a Pisa e fece parte dell'Accademia etrusca
di Cortona e dell'Arcadia col nome di Liburno Drepanio. Nel 1743 si impiegò in un ministero a Napoli,
iniziando in quel periodo l'attività librettistica. L'opera di Ranieri de Calzabigi si compendia nei tre
libretti scritti per Gluck, «Orfeo ed Euridice», «Alceste», «Paride ed Elena» ed in alcune opere teoriche
da cui si deducono le coordinate del pensiero estetico che sta alla base della cosiddetta riforma del
melodramma
29
Cfr. Registri della “Scrivania di Ragione e Ruota de’ Conti” – Archivio di stato di Napoli.
28
18
19
MILLICO PELLEGRINO ATTRAVERSO LA PENISOLA.
Cenni sulla situazione geografica e socio-politica degli Stati italiani visitati da
Vito Giuseppe Millico durante la sua vita.
“Il 18 ottobre 1748, ad Aquisgrana (l’attuale Aachen in Germania), venivano
firmate le clausole definitive della pace. Una pace, che segnava il bilancio di mezzo
secolo di guerre quasi ininterrotte”.
Il duello fra Asburgo e Borboni per l’egemonia continentale è ormai concluso:
iniziato con la guerra di successione spagnola, con il fallimento del tentativo asburgico
di ricostruire la monarchia universale di Carlo V, si chiude con la guerra di
successione austriaca, con il fallimento del tentativo borbonico di eliminare dalla carta
d’Europa la potenza asburgica. Nessuno dei due grandi antagonisti è riuscito ad avere
il sopravvento. Il principio dell’equilibrio, il principio animatore della politica
internazionale del secolo, trova la sua affermazione definitiva”30.
30
Cfr. F. VALSECCHI, Storia d’Italia, Verona 1971.
20
L’Italia in questo periodo è frammentata in staterelli, quasi tutti sotto
l’influenza dei Borboni o degli Asburgo, fatta eccezione per lo Stato Sabaudo
(“alleato” con gli inglesi), lo Stato della Chiesa, la Repubblica di Venezia (chiusa nella
sua neutrale decadenza) e quella di Genova (schiacciata tra le mire espansionistiche
dei Savoia sul Finale e la scomoda dipendenza in politica estera dalla Francia),
sostanzialmente gli Asburgo dopo la pace di Aquisgrana avevano conservato il
Milanese (diminuito dei territori al di là del Ticino, ceduti ai Savoia), conservavano la
Toscana. I Borboni controllavano i Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, e il Regno
delle Due Sicilie.
Ora proviamo a descrivere cosa avrebbe potuto vedere il Millico durante i suoi
molteplici viaggi nella penisola italiana, tramite l’analisi della situazione politica,
sociale e culturale delle città e degli stati in cui soggiornò durante la sua carriera come
cantante.
Il Regno delle Due Sicilie
Partiamo, com’è giusto che sia, dal Regno delle Due Sicilie, regno che gli diede
i natali e la cui capitale sviluppò e modellò il talento del nostro musico. All’inizio del
secolo il regno contava circa 3.000.000 di abitanti (la Sicilia poco meno di 1.000.000),
con una densità inferiore agli altri stati italiani (eccetto la Sardegna). Napoli, la
capitale, contava poco meno di 300.000 anime (secondo dati del 1742, 292.196
cittadini, oltre 100.000 forestieri, 12.825 rinchiusi nei monasteri, conservatori, collegi
e ospizi; e in più le truppe e gli abitanti dei castelli), praticamente la più grande città
della penisola, il cuore e il cervello dello stato: sede di governo, residenza della
nobiltà, era anche il centro delle industrie e dei traffici, di quel tanto di industrie e di
traffici di cui si poteva parlare nel regno (Bari nella stessa epoca contava circa 30.000
abitanti, invece Terlizzi 18.000). Meno di un sesto della popolazione viveva del suo
lavoro, la restante parte conduceva una vita di espedienti, gravitava parassitariamente
intorno alle classi ricche e abbienti. Le zone più “ricche” del regno erano, oltre che
Napoli e Palermo, le feconde terre di Campania, alcuni tratti della costa pugliese;« ma,
21
dietro, quanta nuda roccia, quanta terra sterile e ingrata, e scarsi fiumi, e avare e
irregolari pioggie, e larghe plaghe di malaria!»31.
La società del regno era sostanzialmente divisa in cinque classi sociali:
l’aristocrazia, il clero, i ceti di mezzo, la plebe cittadina e il popolo delle campagne.
L’aristocrazia conduceva una vita parassitaria nelle città, lontani da ogni occupazione
produttiva, poiché sopravviveva l’antica repugnanza feudale verso ogni forma di
attività industriale o commerciale, la tentazione dell’ozio e del lusso era troppo forte.
«Quasi tutti dediti all’ozio, poco eruditi, di molto ambiziosi, et amanti del fasto
esteriore…pesanti, gelosi, iperbolici nei complimenti (gli uomini) molto sostenute (le
dame)»32.
Accanto alla nobiltà, come categoria dominante, il clero: ancor più che un ceto
privilegiato, una società a sè stante, che, per il suo carattere sacerdotale, si poneva al di
fuori e al di sopra della comunità laica. Le sue immunità, giudiziarie e fiscali, erano
ancor superiori a quelle della nobiltà, le sue prerogative erano numerose, dalla
riscossione dei tributi, come le decime, all’esercizio di attribuzioni giurisdizionali.
Disponeva di immense proprietà, un terzo, si calcola, delle rendite del regno, oltre ai
cespiti del suo ufficio, alle copiose elemosine che affluivano dai “fedeli”. Non bisogna
dimenticare che il clero assolveva, oltre ai suoi compiti religiosi, a importanti funzioni
sociali, come la beneficenza e l’assistenza ai bisognosi, l’educazione e l’istruzione di
cui deteneva il monopolio. Tra i tanti privilegi di cui godeva il clero, ce n’era uno che
era esclusivo solo della Sicilia e che risaliva al tempo della dominazione normanna in
Italia. Questo privilegio, la “legazia pontificia”, esclusivo della Chiesa siciliana
rispetto a tutto il mondo cristiano, consisteva nel fatto che il clero doveva rispondere
dei suoi comportamenti di fronte al sovrano e non al papa, sia per le materie civili che
per quelle criminali.
Dopo l’aristocrazia e il clero, troviamo il ceto di mezzo. Questo gruppo di
persone era sottoposto a uno sfruttamento paragonabile a quello dei tempi peggiori del
feudalesimo, la maggior parte di essi non resisteva alla “pressione fiscale” e
precipitava nella miseria, gli altri (molto pochi) arricchitisi, non raggiunsero mai una
propria fisionomia e autonomia di classe in quanto la loro ambizione era quella
31
critica e commento di Antonio Serra, osservatore per conto della corte spagnola, che aveva
polemizzato contro l’ottimismo di maniera delle apologie tradizionali.
32
Cfr. V. G. PARDI, Napoli attraverso i secoli: disegno di storia economica e demografica, Bari 1923.
22
assurgere alla dignità nobiliare (tramite l’acquisto di un titolo) e quindi vivevano
nell’orbita della nobiltà.
Anche nelle classi inferiori, dominava il criterio della disuguaglianza, infatti se
analizziamo la plebe, notiamo che la sua disuguaglianza è prima di tutto giuridica in
quanto lo status di quella della capitale era diverso da quello della plebe delle altre
città e quest’ultimo era assi diverso da quello delle campagne. La plebe della
campagna, alla mercé dei baroni, era gente da mantenersi in soggezione: una
«maledetta razza» da dominare «sempe col piè alla gola, acciocchè mai alzando la
testa stiano sicuri di non esser oppressi e malmenati»33.
In pratica il 90% della popolazione sosteneva con la sua miseria lo
schiacciante peso di una piramide sociale costruita sul privilegio, quel privilegio sorto
secoli addietro in determinate condizioni politico sociali, non trovava più la sua
giustificazione nelle funzioni dei privilegiati, dove l’unica sensazione era quella di una
struttura sociale in sfacelo, ormai “matura per la dissoluzione”.
Sicuramente il nostro Millico apparteneva a quel ceto di mezzo, molto
probabilmente suo padre o suo nonno erano riusciti ad uscire da quella parte della
società oppressa e sfruttata, e tentando di farsi spazio tra la nobiltà. Infatti il Millico
può essere considerato a tutti gli effetti parte integrante di quel mondo che viveva
grazie ai “capricci” dell’aristocrazia napoletana.
Lo Stato della Chiesa
“Un’ampia fascia di territorio che taglia, al centro, la penisola da un mare
all’altro; dalle coste tirreniche, all’Adriatico; dalle coste tirreniche del Lazio
raggiunge, con l’Umbria l’Appennino; si spinge con le Marche, all’Adriatico; si
prolunga verso settentrione con le Romagne sino a toccare il Po, l’ultimo corso del Po,
lungo la frontiera veneta; per terminare dopo un corso di 700 km a mezzogiorno, al
limite dell’Abruzzo. Tredici provincie, cui si aggiungono, isolati entro il territorio del
regno di Napoli, i due principati di Pontecorvo e di Benevento; al di là delle Alpi, in
Provenza, l’antico dominio pontificio di Avignone”34.
33
34
parole del canonico Battaglia, che così poco cristianamente si esprime nel 1734
Cfr. F. VALSECCHI, Storia d’Italia, Verona 1971.
23
La sua popolazione all’inizio del settecento contava circa due milioni di
abitanti per poi arrivare a tre milioni verso la fine del secolo. La città più grande era
Roma i cui abitanti oscillavano, nel corso del secolo, tra i 140.000 e i 160.000. Uno dei
più vasti e uno dei più poveri stati italiani. «Le tredici provincie soggette in Italia al
dominio del papa formano uno stato che sembra il bersaglio dei flagelli divini, tanto e
povero e languente, quantunque la natura si sia molto occupata a renderlo florido e
ricco…Entrate nelle città, voi le trovate quasi tutte sprovviste di abitanti; se ne uscite
per andare a godere dello spettacolo della campagna, non vedete che dei campi senza
cultura, o mal coltivati. Voi credereste il paese abbandonato e interamente deserto, se
una folla di mendicanti ricoperti di cenci non venisse a importunarvi, e se di tratto in
tratto non incontraste alcuni contadini, di cui l’aria, il vestito, il portamento
annunziano la miseria. Scorrendo le spiagge del mare, che da due parti bagna lo stato,
si rimane sorpresi nel vedere dei porti di rado frequentati dallo straniero, giammai
animati dal commercio…Un popolo che conosce le arti utili, e si limita a distinguersi
nelle frivole o nel puro piacere; un sovrano ( il riferimento è a papa Pio VI) che si
accontenta di quelle entrate che ha trovato al suo innalzamento al trono, e che
malgrado la più saggia economia non può fornire dei soccorsi a un gran numero di
infelici che gliene domandano; un governo dolce, sinceramente occupato a creare la
felicità dei sudditi, di cui la sorte è da compiangersi; l’opulenza di alcune case illustri e
papalizie; la mediocrità di un piccolo numero di cittadini; il resto del popolo sacrificato
sempre agli orrori dell’indigenza»35.
Nello stato pontificio le categorie sociali si dividevano sostanzialmente in due
gruppi: da una parte, una moltitudine di pastori, contadini e piccoli artigiani oppressi
dalla miseria e dalle tasse; dall’altra una piccola minoranza di grandi proprietari
terrieri, enti ecclesiastici, o privati, legati in genere alla chiesa da interessi di casato o
da tradizioni di famiglia. Più progredita, culturalmente e socialmente, la borghesia
professionista, notai, giureconsulti, medici, speziali e i “dottori” che insegnano nelle
numerose Università dello Stato: Roma, Bologna, Perugia, Urbino, Macerata,
Camerino. La situazione a Roma era ben diversa dal resto dello stato, qui l’alto clero
doveva fare i conti con la potenza e l’orgoglio dell’aristocrazia romana che con essa
condivideva il potere nella città. La nobiltà romana era quasi tutta composta dai
35
così nel 1784, un anonimo, riassumendo in un quadro impressionante la situazione sotto il pontificato
di Pio VI
24
membri delle famiglie papali, la cui fortuna si era affermata con il susseguirsi dei
pontefici, ma essendo esclusa nel recitare una parte attiva nella vita pubblica, a essa
non restava altro che il pensiero di come spendere le accumulate ricchezze, come
impiegare i suoi ozi36. Attorno ad essa, «un agglomerato di clienti, che si mantiene
genericamente in una specie di comunismo negli abusi, nei furti amministrativi, nelle
sovvenzioni clericali, nelle elemosine, nell’usura e nella simonia»37.
Gli anni in cui Millico “frequentò” Roma erano quelli del pontificato di Pio VI,
questo nome è legato ai molti, e spesso impopolari, tentativi di far rivivere i fasti e lo
splendore del regno di Leone X nell'opera di promozione delle arti e delle opere
pubbliche. Lo si ricorca anche per “l’Editto sopra gli Ebrei” (1775)38, che era uno dei
documenti più mostruosi di persecuzioni che la storia dell’umanità ricordi. Questi sono
gli anni in cui la chiesa era impegnata nella difesa contro l’offensiva illuministica e
contro l’assolutismo dei principi europei e italiani, questi pericoli provocavano, per
reazione, un irrigidimento. D’altronde, ogni iniziativa riformatrice sul terreno politico,
trova un limite perentorio nella stessa natura teologica dello stato.
Il Ducato di Parma e Piacenza
È qui che nell’agosto del 1769 , durante il matrimonio fra il duca Ferdinando
Borbone e l’arciduchessa Amalia, figlia dell’imperatore Francesco e Maria Teresa
D’Austria, che Vito Giuseppe Millico incontrò Cristoph Willibald Gulck e fu questo
incontro che segnò per sempre l’opera di Millico. Ma adesso vediamo come si
presentava il ducato nella seconda metà del settecento.
36
una felice rappresemtazione della Roma del tardo settecento e inizio ottocento ci viene data dal film
“il Marchese del Grillo”, commedia del 1981, regia di Mario Monicelli.
37
Cfr. F. CORRIDORE, La popolazione dello stato romano, 1656 – 1901, Roma 1906.
38
“... alle antiche misure persecutorie, ulteriormente inasprite, vengono aggiunte delle altre. L’Editto si
compone di 24 clausole, di cui ricorderemo queste:1. L’Ebreo che passi una notte fuori del ghetto è
condannato a morte.2. Il "segno giallo" deve essere portato anche entro la cinta del ghetto (finora gli
Ebrei dovevano portarlo quando uscivano dal ghetto).3. Sono proibiti i cortei funebri.4. È proibito lo
studio del Talmud.5. È proibita la vendita al Cristiani di pane, carne, latte.6. È proibito tenere negozi
fuori del ghetto.7. È proibito avere domestici cristiani, quindi anche di servirsi delle cosiddette "donne
del fuoco" (le donne cioè che andavano nelle case degli Ebrei per accendere il fuoco di sabato).8. Sono
proibite le relazioni coi vicini cristiani.9. È proibito agli argentieri cristiani di fare lampade a sette bracci
per uso rituale.10. È proibito invitare i Cristiani nelle sinagoghe.11. È proibito ai Cristiani entrare nelle
sinagoghe.12. È proibito guidare carri a Roma o nelle vicinanze.13. I rabbini sono ritenuti responsabili
della frequenza alle prediche coattive.14. È proibito agli Ebrei l’ingresso nelle chiese e nei monasteri...
”. Cfr. L. PASTOR, Storia dei papi dalla fine del medioevo, Roma 1932 – 1934.
25
Il Ducato di Parma e Piacenza era uno stato di secondo piano, con popolazione
e territorio molto ridotti, infatti sia a Parma che a Piacenza (le due capitali) la
popolazione non superava i 30.000 abitanti e tutto il ducato contava poco più di
300.000 abitanti. Tuttavia, se il suo peso sulla bilancia politico militare d’Italia era di
per sè trascurabile, c’era un fattore (questo, comune anche ad Ducato di Modena), che
gli conferiva un particolare rilievo: la posizione geografica. Situato sulle grandi vie di
comunicazione tra l’Italia settentrionale e quella centrale, padrone dei valichi
dell’Appennino, costituiva uno dei settori chiave dell’assetto italiano, via obbligata di
passaggio degli eserciti invasori, punto di giuntura del sistema territoriale su cui le
grandi potenze appoggiavano la loro egemonia sulla penisola. Infatti dopo la morte di
Antonio Farnese (1731) il ducato passò sotto il dominio borbonico e poi sotto quello
asburgico, e da questo momento in poi (1765) fu Ferdinando di Borbone a regnare sul
ducato. Il nuovo duca di Parma sposò nel 1769 Maria Amalia d’Asburgo – Lorena (e
fu al loro matrimonio che Millico conobbe Gluck). In questo nuovo periodo di
dominio borbonico la corte era invasa dai i più illuminati intelletti di mezza Europa,
sul territorio si iniziarono ad intravedere i primi germi di quel riformismo illuminato
così ostentato a corte, ma la poca centralità di Parma nelle grandi questioni europee
portò il ducato in un lungo e logorante isolamento.
Il Ducato di Milano
Il ducato di Milano veniva definito dai rappresentanti dell’impero austriaco
come «una confederazione, o meglio una unione di stati39» tenuta insieme dal semplice
vincolo di dipendenza verso lo stesso sovrano. Accanto al ducato vero e proprio (le
terre immediatamente dipendenti da Milano), il principato di Pavia, le contee di
Cremona, Lodi, Como, per non parlare delle terre minori. Territori ben delineati, gelosi
della propria autonomia, coscienti della propria individualità. «Ciascuna delle province
aveva le sue leggi, i suoi onori e i suoi impieghi: chi nasce in questa provincia acquista
dalla natura la ragione a tutto ciò»40, infatti chiunque lo dominò, dagli spagnoli nel
39
40
Cfr. C. CATTANEO, Notizie naturali e civil isulla Lombardia, Milano 1844.
Cfr. C. CATTANEO, Notizie naturali e civil isulla Lombardia, Milano 1844.
26
seicento agli austriaci nel settecento, non si preoccupò mai di accentrare il potere,
preferendo riconoscere le varie autonomie e i vari privilegi.
Con il dominio austriaco, per buona parte del secolo, iniziò la decadenza del
ducato; l’agricoltura, su cui si fondava la ricchezza del paese, era troppo arretrata per
quell’epoca; le industrie celebri di un tempo, le armi, i cristalli erano in netto declino, e
lo stesso valeva per l’industria base del paese, l’industria tessile, e di conseguenza
anche l’attività commerciale si ridusse ai soli generi alimentari e di prima necessità.
Una decadenza che aveva cause più complesse e profonde che la sola dominazione
straniera. Verso la metà del secolo un’ondata riformatrice tentò di mettere un freno
all’impoverimento dello stato, gli austriaci riuscirono a censire la popolazione e
mettere ordine tra le 1.492 autonomie locali, riformando i tributi diretti e
l’amministrazione. Con la metà degli anni sessanta una nuova ondata riformatrice
invase il ducato, ma questa volta fu portata avanti dalla èlite milanese, la quale iniziò a
subire gli influssi illuministici d’oltralpe. Così, anche in Lombardia, l’urto delle nuove
idee con le antiche, fu un urto di generazioni e non di classi, fino a quando Napoleone
con le sue legioni non portò anche a Milano l’impeto rivoluzionario. Il ducato conobbe
solo la rivolta morale e filosofica e non quella sociale. Era la cultura francese che dava
il tono a quella ristretta cerchia di persone che formava l’opinione pubblica, cioè
l’aristocrazia, e quanti gravitavano attorno ad essa come clienti. L’èlite sociale era
anche èlite intellettuale, infatti i “patrizi” milanesi fondarono la Società palatina, e
sempre i patrizi riempirono i ranghi dell’Accademia dei Trasformati come
dell’Accademia dei Pugni (da cui derivò “Il Caffè”) e della Società Patriottica.
La Repubblica di Venezia
Sulle coste settentrionali d’Italia del mare Adriatico si affacciava la repubblica
marinara di Venezia. La sua posizione nell’assetto della penisola era una posizione di
margine, pittosto passiva che attiva: le limitate risorse economiche e militari non
reggevano alla gara egemonica delle grandi potenze. Gravitava come satellite intorno
agli stati europei, chiudendosi in una neutralità che mascherava appena la sua
debolezza.
27
Il ceto mercantile, affermata la propria supremazia, si era convertito in una
aristocrazia chiusa, gelosa del proprio potere. Nel panorama che offriva la penisola,
dove si andava compiendo col secolo il ciclo livellatore e accentratore
dell’assolutismo, questa repubblica aristocratica si presentava sempre più come un
anacronismo.
Il panorama industriale veneto, florido un tempo, era ormai ridotto ai minimi
termini. Venezia viveva, oltre che delle industrie tessili, che costituivano il nocciolo
duro della produzione, anche di un certo numero di industrie d’arte, di alto livello
estetico e rinomate in tutta Europa, che producevano dai vetri ai merletti,
dall’orificeria agli arazzi. Ma il tradizionalismo imperante impediva un aggiornamento
tecnico, che accoppiasse al buon gusto la facilità e l’abbondanza delle produzioni, in
modo da poter reggere la concorrenza straniera fondata su basi di produzioni più
moderne (per esempio i prodotti tessili inglesi che conquistarono il continente grazie
all’avvento dei nuovi metodi di produzione figli della rivoluzione industriale).
Nell’entroterra, un vasto territorio che dai confini della Lombardia austriaca andava
verso il Friuli schiacciato tra le Alpi e il Po, con una popolazione che contava negli
ultimi tempi della Repubblica circa 1.800.000 abitanti (1795), l’economia era
prevalentemente agricola, le produzioni erano abbondanti ma le possessioni troppo
estese e separate, gli alti dazi per le esportazioni impedivano che il le eccedenze di
prodotti si tramutassero in guadagni.
La struttura dello Stato veneziano si basava sulla sovranità della Dominante
(Venezia), però le città e le provincie della terraferma, pur nella soggezione politica,
conservano le autonomie amministrative, residuo della loro antica indipendenza. I
tentativi dell’autorità doganale di imporsi al patriziato, e di accentrare il potere nelle
proprie mani fallirono miseramente. Il doge restava, come veniva definito, lo “schiavo
coronato della repubblica”. Questa lenta decadenza politico economica perdurò fino
all’arrivo di Napoleone, 1797.
28
LA RIFORMA DEL MELODRAMMA E MILLICO.
Il facile conformismo storico letterario ci ha fatto sempre pensare alla prima
metà Settecento italiano, come ad un periodo frivolo e vacuo, del tutto carente di
interessi culturali e produttivi. Si svilupparono in quella società bizzarra il gusto per
l’eleganza, la vita mondana e salottiera, caratterizzat da dame incipriate e di minuetti,
di parrucche e di crinoline, ma parallelamente si sviluppa anche il gusto dell’arte
musicale, generando geniali e grandi figure di artisti che costituiranno in quel
particolare contesto storico l’unico e il più originale contributo dell’Italia allo sviluppo
artistico e produttivo d’Europa.
Il Settecento registra così nella sua storia il boom del consumo e della
produzione di opere musicali di ogni genere. La rappresentazione operistica traboccò
nei teatri regi e nobiliari e divenne popolare, sostituendosi ad ogni altra attrattiva di
pubblici divertimenti (in quel periodo nella corte partenopea si mormorarva che per
tenere buoni i napoletani ci volevano tre “f”: feste, farina e forche). Al gusto per la
spettacolarità, per la pompa dei costumi, per il lusso macchinoso che aveva
caratterizzato l’opera per tutto il Seicento, prevale adesso quello del canto, o meglio
quello del cantante, sul quale converge tutto l’interesse del pubblico del Settecento.
L’aria o la romanza, la cavatina o il duetto, nella varietà delle loro forme e
caratteri, costituirono la palestra in cui gli interpreti vocali solevano fare bella mostra
della loro abilità e del loro virtuosismo. Più che con la decorazione fastosa delle scene,
si cercava, con le morbide e sinuose volute del “bel canto” di ammaliare e
impressionare l’uditorio. A questo consumismo prodigioso di musiche di ogni genere,
cui si era dato senza risparmio il pubblico italiano, faceva seguito (com’è logico) una
produzione spasmodica di opere, tragiche o buffe, sinfonie e canzoni, costringendo i
compositori ad un sforzo incessante e quindi raramente la vita di un’opera superava la
durata di una stagione teatrale.
È in questo contesto storico che si innestava l’attività artistica di Vito Giuseppe
Millico. Formato e portato agli ideali della classica perfezione dell’arte musicale, reagì
energicamente alle sollecitazioni conformistiche del suo tempo, prima come cantante,
bandendo ogni virtuosimo canoro e aderendo alla realtà del personaggio, poi come
29
insegnante di musica e dopo come compositore, facendo propri gli ideali che
animavano l’amico e fautore della riforma del melodramma Cristoph Willibald Gluck.
Tutti i musicologi convengono che il periodo compreso tra il 1769 al 1774
rappresenta il momento fondamentale della riforma; questi erano gli anni in cui Gluck
e Millico giravano l’Europa portando con sè le idee della riforma ed erano anche gli
anni dei primi componimenti del Millico (1773 e 1774).
Ma in che cosa consisteva effettivamente questa riforma?
Come già detto, nel Settecento, sui virtuosismi dei cantanti si incentrava la maggior
parte delle attenzioni del pubblico e tutto questo a discapito della musica e dei testi.
Non che il livello qualitativo fosse scadente, ma per soddisfare l’incessante voglia di
musica del pubblico, i librettisti e i compositori erano costretti a mescolare,
trasformare, riadattare e fondere insieme parti di vecchi componimenti per crearne di
nuovi da adattare alle capacità e molte volte ai capricci dei cantanti. Ed è in questa
atmosfera che uomini come Gluck, Traetta, Calzabigi, Piccinni (nonostante la sua
querelle con Gluck), Händel, Sacchini, Araja e lo stesso Millico decisero con la loro
genialità di imporre il loro modo di vedere, sentire e vivere la musica. Da questo
momento in poi la musica sarà asservita al testo, e servirà solo per enfatizzare e
caricare con tutta la potenza di cui è capace i sentimenti e le passioni espresse nelle
parole, e allo stesso scopo sarà destinato il canto.
Questo nuovo modo di intendere il melodramma sarà alla base di tutta l’opera
di Millico, ma questo non lo deduciamo solo da un attento studio delle suo opere, lo
troviamo scritto e autografato nella parte introduttiva di quello che erroneamente si
intende come il suo primo lavoro di compositore La Pietà d’amore del 1782. Queste
parole, già trascritte nella biografia, sono state del tutto ignorate dai musicologi, il
perchè non c’è dato saperlo, ma se fossero state lette adesso il suo nome sarebbe
inserito tra gli artefici della riforma, la quale sarà alla base della formazione musicale
dei grandi compositori dell’Ottocento come Bellini, Donizetti e Verdi.
30
IL COMPOSITORE MILLICO
Passiamo adesso ad esaminare la figura di Vito Giuseppe Millico come
compositore. Si ritiene, a torto, che il suo primo lavoro sia “La pietà d’amore” del
1782, infatti dalle ricerche effettuate (ricerche incentrate particolarmente sull’immenso
patrimonio della British Library di Londra e della Biblioteca del Conservatorio di
musica S. Pietro a Majella di Napoli) emerge che l’attività di compositore sia iniziata
già nel 1773 a Londra, ma non possiamo escludere del tutto che essa possa anticipata,
in quanto le notizie che abbiamo del suo lungo periodo trascorso in Russia sono
alquanto esigue e si riferiscono solo all’aspetto di Millico come cantante e come
maestro di musica.
Alle conoscenze attuali l’elenco cronologico della produzione musicale del
compositore Vito Giuseppe Millico appare il seguente:
•
Six songs, with accompanyment for the great or small harp, forte piano or
harpsichord. (Londra, 1773)
L’opera manoscritta è conservata presso la British Library di Londra, pubblicata nel
1773 da Welcker e ripubblicata da Robt Birchall nel 1823 (tutte e due le edizioni sono
conservate presso la British Library).
•
A second sett of six songs with accompanyment for the great or small harp,
forte piano or harpsichord. (Londra, 1774)
L’opera è pubblicata da Welckler nel 1774 e sue copie sono presenti presso:
o Biblioteca dell’University of Toronto;
o Bibliothèque nationale de France, Département de la Musique a Parigi;
o Staten Muzikbibliotek di Stoccolma;
o Music Library della University of North Carolina di Chapel Hill.
•
Dormia sul margine. A favourite new song… with an accompaniment for the
harpsichord; The Russian Minuet. (Londra, aprile 1774)
Queste due opere sono state pubblicate sul London Magazine nell’aprile del 1774 a
pagina XXX. Gli originali sono conservati presso la British Library e una copia è
31
presente presso la Henry E. Huntington Library & Art Gallery di San Marino
(California, Stati Uniti).
•
A third sett of of six canzonettes with an accompanyment for the pedal or
small harp, forte piano, or harpsichord. (Londra, 1774)
Il manoscritto è conservato nella British Library, l’opera è stata pubblicata da
Longman & Broderip nel 1774, ripubblicata nel 1775 per la sola diffusione a Parigi e
ancora riedita nel 1777 a Zurigo da Johann Georg Nägeli. Copie del 1774 sono
presenti presso:
o Österreichische Nationalbibliothek (Musiksammlung) di Vienna;
o Biblioteca dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena;
o Public Libraries (Central Library) di Cardiff;
o Boston Public Library Music Department;
o Music Library della University of North Carolina di Chapel Hill;
o University of Pittsburgh, Music Library.
•
A Select Collection of the Most Admired Songs, Duetts, &c., from Operas ...
and from other Works, in Italian, English, French, Scotch, Irish, &c., &c. In
Three Books ... The Music ... divided into Phrases ... and to each are
appropriated its Graces, Cadences, &c., with ... directions for the
Management of the Voice ... by D. Corri. (Edinburgo, 1779)
L’opera pubblicata ad Edimburgo nel 1779 da John Corri conta complessivamente 302
brani (104 dei quali sono anonimi), 60 sono gli autori presenti (24 inglesi e/o scozzesi,
19 italiani o di origine italiana, 9 dei paesi di lingua tedesca, 7 francesi e 1 spagnolo) e
fra costoro emergono per maggior numero di opere quelle di Vito Giuseppe Millico.
L’opera (di cui abbiamo reparito un unico esemplare) è composta da tre volumi ed è
custodita nella British Library.
32
•
La pietà d’amore. Dramma messo in musica. (Napoli, 1782).
Questa opera è stata pubblicata da Giuseppe Maria Porcelli nel 1782 e il manoscitto è
presente nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella (Napoli),
altre copie sono presenti presso:
o Biblioteca Antoniana di Padova;
o Biblioteca Musicale Governativa del Conservatorio di Santa Cecilia di
Roma;
o Gesellschaft der Musikfreunde Bibliothek di Vienna;
o Österreichische Nationalbibliothek (Musiksammlung) di Vienna;
o Biblioteca
del
Conservatoire
Royal
de
Musique
Koninklijk
Conservatorium di Brussels;
o Universitätsbibliothek Johann Christian Senckenberg Musik– und
Theaterabteilung di Francoforte sul Meno;
o Diözesanbibliothek di Münster;
o Bibliothèque nationale de France Département de la Musique a Parigi;
o British Library di Londra;
o Library of Congress Music Division di Washington DC;
o San Francisco State College Library.
•
L’isola disabitata. (Napoli, 1783)
Esistono due copie manoscritte di quest’opera, una presente nell’Archivio Diocesano
di Molfetta e l’altra nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di
Napoli.
•
Inno al Sole. (Napoli, 1783)
Il manoscritto si trova nella Biblioteca Nazionale “Sarriga Visconti Volpi” di Bari e
un’altra copia presso l’Archivio Diocesano di Molfetta.
•
Il Deucalione. (Napoli, 1783)
L’opera, una scena lirica pantomimica drammatica, è costituita da 21 foglietti di carta
di varie dimensioni incollati sul bordo esterno laterale ed è conservata presso
33
l’Archivio Diocesano di Molfetta.
•
La Morte di Clorinda. (Napoli, 1783)
Non esiste nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è
stata pubblicata (1783) e l’autore del libretto: il Calzabigi.
•
Angelica e Medoro. (Napoli, 1783)
Non esite nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è fu
scritta (1783) e l’autore del libretto: il Cimarosa.
•
La Nutrice di Ubaldo. (Napoli, 1783)
Non esiste nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è
stata pubblicata (1783) e l’autore del libretto: il Calzabigi.
•
Il Pianto di Erminia. (Napoli, 1783)
Non esiste nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è
stata pubblicata (1783) e l’autore del libretto: il Calzabigi.
•
Le Cinesi. (Napoli, 1783)
Il manoscritto di quest’opera non risulta essere in possesso di nessuna biblioteca
italiana. Ma ne esiste una opera a stampa presso la Biblioteca della Societa' napoletana
di storia patria di Napoli, orfana però della parte musicale. L’opera fu rappresentata il
4 novembre del 1794 nel Teatro del Fondo di Separazione a Napoli.
•
Le Danaidi. (Napoli, 1784)
L’unico esemplare manoscritto di quest’opera è conservato nella Bibliothèque
nationale de France, Département de la Musique a Parigi.
•
Ipermnestra. (Napoli, 1784)
Esistono solo due manoscritti di quest’opera, uno nella Bibliothèque nationale de
France, Départment de la Musique a Parigi e l’altro presso la Biblioteca del
34
Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze. Presumibilmente quello
presente a Parigi è stato scritto da Vito Giuseppe Millico e l’altro, quello di Firenze, da
Ranieri de’ Calzabigi.
•
La figlia di Jefte. (Napoli, 1786)
Rappresentata nella quaresima del 1786, l’opera è da considerarsi un “centone”,
ovvero una unione e adattamento di altre composizioni fatte dal maestro Cipolla e
dello stesso Millico, il testo e la messa in scena sono opera del Conte don Peppino
Lucchesi. L’opera è conservata nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro
a Majella di Napoli.
•
La Zelinda. (Napoli, 17 Aprile 1786)
Di questa opera esistono solo due esemplari integri, uno nel Conservatorio di Musica
S. Pietro a Majella di Napoli e l’altro nella Library of Congress Music Division di
Washington DC, invece copie di alcune parti sono presenti in diverse biblioteche:
o British Library di Londra;
o Biblioteca
del
Conservatoire
Royal
de
Musique
Koninklijk
Conservatorium di Brussels;
o San Francisco State College Library.
o Biblioteca del Conservatorio di Musica “Giuseppe Verdi”;
o Biblioteca Palatina, Sezione Musicale di Parma;
o Biblioteca Antoniana di Padova;
o Biblioteca del Conservatorio Statale di Musica “Benedetto Marcello” di
Venezia;
o Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
•
A fourt sett of six canzonets with an accompanyment for the pedal or small
harp, forte piano, or harpsichord. (London, 1788)
L’opera fu pubblicata da Longman & Broderip nel 1778, il manoscritto si trova presso
la British Library e altre copie si trovano presso:
o Staats - und Universitätsbibliothek Carl von Ossietzky, Musikabteilung
di Amburgo;
35
o Public Libraries di Dundee;
o Bodleian Library di Oxford;
o San Francisco State College Library;
o Music Library della University of North Carolina di Chapel Hill;
o Public Library, Music Department di Boston.
•
Music Trifles. A collection of sonatine for the harp or harpsichord …
adapted and published … by E. Jones. (London, 1791)
Come si può ben capire dal titolo trattasi di una raccolta di “sonatine” adattate e
pubblicate da E. Jones nel 1791. Delle 12 “sonatine” di cui è composta l’opera ben 8
sono di Vito Giuseppe Millico. La raccolta si trova presso la British Library ma esiste
anche una pubblicazione a stampa del 1832 nella Public Libraries (Music Department,
Central Library) di Leeds.
•
Nonna (or che il silenzio) per far dormire li bambini. (Napoli e Vienna,
1792)
La particolarità di quest’opera è che esistono due manoscritti, la cui unica differenza
consiste nella dimensione del supporto cartaceo, datati e autografati dallo stesso
Millico ma circolanti in due città diverse, Vienna e Napoli per l’appunto, nel 1792,
anno in cui il Millico avrebbe perso totalmente la vista. I due manoscritti di trovano
nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli e
Österreichische Nationalbibliothek (Musiksammlung) di Vienna.
•
Quatre Duos, et Deux Cavatine avec Accompt de 2 Violons et d'un Basse.
(Londra, 1795)
L’autore di questa opera è il Sapio che nel 1795 la pubblica presso Longman &
Broderip ma il secondo e il quarto duetto sono di Vito Giuseppe Millico. Il manoscritto
è presente nella British Library.
•
Sei ariette italiane con parole allemande per l’arpa, o piano forte o guitarra.
(Bonn, 1795)
36
L’opera viene pubblicata a Bonn nel 1795 da N. Simrock ed è composta da tre volumi
ognuno di 12 pagine. Nessuna biblioteca di quelle scandagliate possiede tutti e tre i
volumi infatti, la British Library possiede il primo e il terzo invece, la Sächsische
Landesbibliothek – Staats– und Universitätsbibliothek di Dresda possiede il primo e il
secondo volume.
•
L’avventura benefica. (Napoli, 1797)
Questa è un’opera scritta nel 1797 ma mai rappresentata. L’unico manoscritto esistente
è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di
Napoli.
•
Sei ariette italiane per l’arpa, o piano-forte. (Vienna, 1798)
Anche quest’opera è divisa in tre volumi (il primo di tredici pagine, il secondo di
quindici pagine e il terzo di dodici) pubblicato a Vienna da Artaria & Co. nel 1798. Il
manoscritto completo è in possesso della Stadtbibliothek di Vienna Altre copie sono in
possesso delle seguenti biblioteche:
o British Library di Londra (primo e secondo volume);
o San Francisco State College Library (primo e secondo volume);
o Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli
(secondo e terzo volume).
•
Sei canzonette con l’accompagnamento di piano forte. (Zurigo, 1800)
Quest’opera è pubblicata da Johann Georg Nägeli a Zurigo nel 1800 e l’anno seguente
viene pubblicata a Parigi da Naderman. Il testo manoscritto è in possesso della
Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli. Altre copie le
troviamo nelle seguenti biblioteche:
o Napoleonmuseum di Salenstein (Svizzra);
o Stadtbibliothek di Winterthur (Svizzera);
o Biblioteca
Nazionale
Palatina,
Sezione
Musicale
presso
il
Conservatorio di Musica Arrigo Boito di Parma.
37
Delle seguenti opere di Vito Giuseppe Millico non è possibile risalire alla data e
al luogo di pubblicazione ma è possibile desumere che siano state scritte a Napoli tra il
1783 e la fine dell’anno 1792. Deduciamo ciò dal fatto che verso la fine del 1792
Millico, già sordo, diventerà totalmente cieco e quindi difficilmente avrebbe potuto
continuare la sua opera di compositore e inoltre nelle pagine introduttive alla Pietà
d’Amore del 1782 il Millico ci parla dei suoi lavori precedenti e non menziona nessuna
delle seguenti opere:
• Canzoncine a voce sola di soprano con arpa.
L’opera manoscritta si trova nella Biblioteca dell'Abbazia di S. Pietro presso Perugia
ed è composta da otto canzoncine:

Se i tuoi vezzosi lumi.

Se irati sempre girigli.

Dal tuo modesto affetto.

Ah m'ingannai nel crederti.

In questa ombrosa riva.

Qual aspe tu sei sorda.

Tu mi lasciasti ingrata.

Della tua rea perfidia.
• Canzoncine con accompagnamento di cembalo.
L’opera manoscritta è composta dalle stesse canzoncine della precedente, per quanto
riguarda la parte testuale, ma gli spartiti sono differenti in quanto essa è dedicata
all’esclusivo uso del cembalo. Il manoscritto è conservato nella Biblioteca del
Conservatorio Statale di musica F. E. Dall'Abaco (fondo Murari Bra) di Verona. Nel
1793 viene pubblicato da Johann Georg Nägeli a Zurigo. Copie di queta pubblicazione
sono presenti a Londra presso la British Library e a Berlino presso la Staatsbibliothek
zu Berlin Preußischer Kulturbesitz (Musikabteilung).
38
• Arie di Millico.
L’opera è conservata nella Biblioteca del Conservatorio Statale di musica F. E.
Dall'Abaco (fondo Murari Bra) e nella Biblioteca Palatina (Sezione Musicale) di
Parma ed è composta da dieci arie:

Tu che parli all’idol mio, tu che vedi il mio tesoro.

Amorosi miei sospiri che dal sen uscite agara.

Ho sparso tante lagrime per ammollirti il cuore.

Dal dì ch’io vi mirai pupille lusinghiere.

Del mio destino ingiusto, no che non so lagnarmi.

Dormia sul margine d’un ruscelletto.

Cara Elisa amato bene tu che sei la mia speranza.

La più vezzosa figlia di Flora.

Vè come bello il mare bellissima Nerina.

Tu mi sprezzi tu non mi ami.
• Inno al sole.
L’autore del libretto è Giuseppe Saverio Poli, la musica è di Vito Giuseppe Millico.
L’opera manoscritta fu realizzata per l’esclusivo uso delle principesse reali. Esistono
solo due esemplari di questa opera, uno è presente nella Biblioteca Nazionale Sarriga
Visconti Volpi di Bari e l’altro nella Biblioteca della Societa' napoletana di storia
patria, bisogna però precisare che la copia presente a Bari è mancante della partitura
musicale.
• Notturni fatti per Posillipo.
Esitste un unico esemplare manoscritto di questa opera presso la Biblioteca musicale
governativa del Conservatorio di musica S. Cecilia di Roma. È composta da otto
“notturni” di cui 5 Duetti, 2 Arie, 1 Terzetto:

Se volete far l'amore.

Zeffiretto che tra i fiori.

Vanti nemico il core.
39

Il mio caro Fileno.

La notte avanza.

Ah! m'inganni.

Dal tuo modesto affetto.

Parto, ma pure o Caro.
• Dodici canzoncine per voce sola di soprano.
Il manoscritto è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a
Majella di Napoli.
• Dieci barcarole.
Il manoscritto è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a
Majella di Napoli e comprende le seguenti “barcarole”:

Se i tuoi vezzosi lumi.

Se irati sempre giri.

Dal tuo modesto affetto.

Ah m'ingannai.

In questa ombrosa riva.

Qual aspe tu sei sorda.

Tu mi lasciasti ingrata.

Della tua rea perfidia.

Alla vezzosa Fille.

Nice mia Nice io moro.
.
• Canzonetta per marcia a tre voci.
La partitura manoscritta è conservata nella Biblioteca del Conservatorio di musica S.
Pietro a Majella di Napoli.
• La violetta vergognosetta.
La partitura manoscritta si trova presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
40
• XXX canzoni per canto arpa e pianoforte.
La raccolta, composta da tutte opere manoscritte, si trova presso la Biblioteca
Antoniana di Padova.
• Ecuba e Climene. Finchè splende in cielo il sole.
L’opera manoscritta si trova presso la Biblioteca del Conservatorio di musica
“Giuseppe Verdi” di Milano.
• Scale e solfeggi.
Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca del Conservatorio di musica
“Giuseppe Verdi” di Milano.
• Inno del Petrarca a S. Giuseppe, a due voci con accompagnamento
orchestrale.
L’opera si trova presso la Biblioteca antoniana di Padova.
• Componimento drammatico dell’abate D. Luigi Godard.
La musica di questo componimento è opera di Vito Giuseppe Millico e la relativa
partitura manoscritta è conservata nella Biblioteca Angelica di Roma (raccolta
Santangelo).
• Barcarole con accompagnamento di Chitarra.
L’opera si trova nella Biblioteca del Conservatorio di musica ”Giuseppe Verdi” di
Milano ed è costituita da quattro “barcarole”:

Ah, se tu fossi nata povera.

Luci adorate.

Pupillette che destate.

Alle mie tante lagrime.
41
• Bella Italia ormai ti desta Italiani all’armi.
L’opera, una marcia a tre voci, è conservata nella Biblioteca del Conservatorio di
musica S. Pietro a Majella di Napoli.
Le seguenti opere sono state pubblicate dopo il 1802, anno della morte di
Millico:
• Millico’s Canzonets (Londra, 1816)
Nel 1816 vengono pubblicate a stampa da Goulding, D'Almaine, Potter & Co dodici
canzonette di Millico. La particolarità di questa pubblicazione è che i testi delle
canzoni precedono gli spartiti, infatti generalmente il testo era parte integrante dello
spartito musicale. L’opera è presente con due copie presso la British Library e una
presso la Public Libraries di Dundee.
• Quattro Canzone, fatto per ordine e dedicate al Sua Eccelma Lord Cawdor.
(Londra, 1819)
Questa opera, a stampa, venne commissionata e pubblicata da Lord Cawdor, quello
che risulta anomalo è il perchè della sua pubblicazione solo nel 1819, probabilmente il
fatto che sia una stampa presuppone l’esistenza a monte di un manoscritto
(probabilmente databile intorno al 1773), ma non essendoci nessun indizio
dell’esistenza di questo manoscritto dobbiamo accontentarci della stampa conservata
nella British Library.
•
Two favorite Sonatinas for juvenile Performers on the Harp. (Leighton &
Buzzard, 1820)
Ancora un’opera a stampa, pubblicata da J. Platts in Inghilterra nel 1820 e conservata
nella British Library.
•
Sacred Melodies. A collection of words, from various classical authors,
adapted for the piano forte or organ to airs of Mozart, Millico, Blangini,
Himmel, Winter. (Londra, 1827)
42
Una collezione di musiche sacre assemblata da Sophia Taylor e pubblicate da
Paine & Hopkins. Tre delle dodici melodie sono di Vito Giuseppe Millico. Anche
questa opera è conservata presso la British Library.
•
Volle cogliere una rosa. (Arietta nazionale con accompagnamento di
chitarra di L. Picchianti.) (Firenze, 1840)
Opera a stampa pubblicata da G. Cipriani a Firenze nel 1840 dove le parole sono di
Millico e la musica è di Luigi Picchianti. L’opera si trova sempre nella British Library.
•
Three Sacred Melodies, by Moore [in fact, by various composers]. No 1.
Jerusalem (fallen is Thy Throne). No 2. Miriam (sound the loud Timbrell.)
No 3. Bochim (go let me weep.) Arranged for the piano forte by William
Hutchins Callcott. (Londra, 1857)
Opera del poeta irlandese Thomas Moore (famoso per le raccolte di liriche ballate e
canzoni) musicata da William Hutchins Callcott. Quello che nel titolo è “No 1
Jerusalem (fallen is Thy Throne)” è una opera di Vito Giuseppe Millico. Opera scritta
e composta su commissione per Sir. John Andrew Stevenson pubblicata da Addison,
Hollier & Lucas nel 1857. Anche quest’opera è conservata nella British Library.
•
Fallen is thy throne oh Israel. Trio for treble voices. (Londra, 1880)
Questa volta l’opera che abbiamo precedentemente citato, viene pubblicata
singolarmente (sempre con parole di Thomas Moore) da C. S. Cook nel 1880. Essa è
conservata nella British Library.
43
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44
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