1 «UN FUTURO PIENO DI DESIDERIO» (cf. Ger 29,11 [ebr.]) Gioire dell’Evangelo in un tempo difficile PREMESSA Base di partenza e di appoggio di questa conversazione sarà l’AT. E, in parti colare, come esso si è rapportato al tempo e al suo scorrere; come Israele ha vissuto il suo presente in rapporto al suo passato e, soprattutto, come ha atteso e sperato la venuta e la realizzazione del suo futuro. Per fare questo dividerò questa esposizione in due parti. Nella prima parte mi concentrerò su quattro piccole immagini che l’AT dà di sé per aiutarci ad entrare dentro il sentire di Israele (e poi, anche, della Chiesa) in rapporto allo scorrere del tempo e alla “qualità” della sua percezione, in riferimento anche al nostro discer nimento a suo riguardo. Nella seconda parte, invece, focalizzerò l’attenzione so prattutto su di un personaggio, sempre dell’AT: Giona. Questo, si vedrà, contri buirà ad aiutarci in questo nostro percorso sul discernimento di «questo tempo» (cf. Lc 12,56) che anche noi, come singoli e come Chiesa, siamo chiamati a realiz zare. PRIMA PARTE a) Prima immagine. Per introdurre la prima immagine prendo spunto dal v. 14 del 1° cap. di Gio na, che è stato ora proclamato: «14 Allora invocarono il Signore e dissero: “Ah, Si gnore! Che non abbiamo a morire per la vita di quest’uomo! Non imputarci il sangue innocente! Perché tu, Signore, agisci secondo quanto desìderi!”». Per il mondo semitico-biblico (ma, del resto, anche per noi), avere speranza è avere desiderio. Si spera sempre per un qualcosa, in vista di qualcosa. Sia la speran za che il desiderio sono accomunati, infatti, dall’essere indirizzati verso una meta, sostenuti da una tensione. Non è un caso che la radice che in ebraico esprime l’a vere speranza esprima anche l’avere desiderio (√qwh: tiqwāh o miqweh)… Pochi esempi a buon mercato chiariranno il concetto: In Gb 7,2 si dice, letteralmente, che l’«operaio ha speranza per il suo salario»; che è come dire che l’operaio lo desidera, lo attende nel desiderio di averlo. Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 2 Quando in Ez 37,11 si asserisce a proposito di Israele: «Le nostre ossa sono secche, la nostra speranza è svanita: siamo perduti», in realtà si asserisce che è il desiderio di Israele ad essere svanito. Senza di esso, Israele è perso. Quando in Lam 3,29 l’israelita piange su se stesso perché sia Gerusalemme che il Tempio che è in essa sono stati distrutti e messi a ferro e fuoco dai babilo nesi, si dice che quello che resta del popolo dovrà umiliarsi, starsene seduto in disparte e mettere nella polvere la sua bocca: in questo modo, forse, «ci potrà es sere ancora speranza». Ovvero, Israele potrà tornare a desiderare e, quindi, a vive re. Infine, un ultimo esempio. Quando Geremia scrive la sua lettera agli esiliati in Babilonia, cerca di rianimarli, scrivendo che il Signore ha per loro «progetti di pace e non di sventura», per concedere loro «un futuro pieno di speranza» (cf. Ger 29,11 [TM]); ovvero, un futuro pieno di desiderio. «Un futuro pieno di desiderio»! Ecco: questa potrebbe essere l’immagine per aiutarci a sintetizzare la chiacchierata di questa sera… b) Seconda immagine. Non è certamente una novità che tutto l’AT non sia un corpo in sé chiuso. Nemmeno una lettura solo ebraica riesce a chiuderlo in sé. Il tutto dell’AT è a sua volta aperto, teso, verso il compimento di una meta. La stessa lettura ebraica, in fatti, è in attesa della venuta del Messia, di un qualcuno che venga a chiudere e a compiere quanto con Abramo – anzi: con la creazione del mondo – è iniziato. In altri termini, è tutto il tempo dell’AT in sé ad avere speranza e desiderio di un com pimento futuro. Già il 1° capitolo di Giona ci ha immessi, di per sé, in un clima di attesa di compimento: Dio, al v. 2, ha chiesto una cosa al suo profeta; ma al v. 3 Giona fa esattamente il contrario: va nella direzione opposta! Se Ninive è a Est lui va a Ovest! Si compirà, alla fine, la volontà di Dio? Sarà disattesa? Ma anche: accoglie rà Ninive la volontà di Dio? Siamo in attesa di un qualcosa che ancora manca… Come dicevo dianzi, la stessa cosa può dirsi dell’intero complesso dei libri che va a costituire l’attuale canone dei testi dell’AT. Il canone delle Scritture ebraiche (parte del nostro AT) non presenta un ordi ne dei libri come il nostro (Pentateuco – Libri storici – Libri profetici – Libri sa pienziali). Senza dilungarmi, se per il nostro canone (l’ordine dei libri che trovia mo normalmente nelle nostre Bibbie) l’ultimo libro dell’AT, quello subito prima del Vangelo secondo Matteo, è il profeta Malachia, per il canone ebraico l’ultimo è il 2° libro delle Cronache. Ora, è sintomatico che in entrambi i canoni l’AT termini sull’attesa di un qualcosa che ancora non c’è. In altri termini, sia per l’ordine dei libri delle nostre Bibbie che per quello della Bibbia ebraica l’AT termina con una Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 3 “finale aperta”, ovvero orientandosi verso il compimento di una speranza, di un desiderio. Se prendiamo il 2° libro delle Cronache (che chiude l’AT secondo l’ordine dei libri della Bibbia ebraica), vediamo facilmente come l’AT delle Scritture ebraiche in realtà non chiuda affatto. Basta leggere l’ultimo versetto dell’ultimo capitolo (36,23): «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, il Dio dei cieli, ha dato in mio pote re tutti i regni della terra; egli stesso mi ha incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che si trova in Giuda. Chiunque tra voi appartenga al suo popolo, il Signore suo Dio sia con lui e si metta in cammino [«e salga»: ebr.]”». Siamo nel contesto della liberazione di Israele dalla cattività Babilonese. Ciro, re di Persia, emana l’editto che autorizza Israele a ritornare in patria… In questo senso, il presente dell’AT si chiude aprendosi alla speranza di una nuova vita: quella del rientro in patria, della ricostruzione della Gerusalemme di strutta e saccheggiata e della riorganizzazione della vita di Israele… È un finale; ma aperto. Se prendiamo invece il libro del profeta Malachia (che chiude l’AT secondo le nostre Bibbie), continuiamo a vedere all’opera l’attesa di una speranza, di un de siderio di tutto Israele leggendo semplicemente gli ultimi due versetti del suo ul timo capitolo (3,22-23): «Ecco, io vi invierò Elia, il profeta, prima che venga il giorno del Signore, grande e spaventoso! Egli ricondurrà il cuore dei padri ai figli e il cuore dei figli ai padri, affinché io non venga a colpire il paese con lo stermi nio!». Ancora un volta, l’AT in realtà non finisce: attende il ritorno del profeta Elia, segno dell’imminenza della venuta del Messia atteso fino a tutt’oggi da Israele. È lui la speranza e il desiderio definitivi di Israele! Di tutto questo si troverà eco nello stesso NT: «E se lo volete capire, egli è quell’Elia che deve venire» (Mt 11,14; cf. Mc 9,13), dice Gesù in riferimento al Battista. Alla luce di ciò non ci si stupirà se il profeta Elia verrà nominato per ben 28 volte in tutto il NT… È dunque lo stesso “presente” dell’AT che attesta una apertura e una speran za verso un futuro di compimento… Per tacere, certamente, del finale dello stesso NT: «Colui che testimonia que ste cose dice: “Sì, verrò presto!”» (cf. Ap 22,20). Anche il NT, in realtà, non chiu de ma si apre verso l’attesa del compimento del ritorno glorioso dello Sposo… c) Terza immagine. I giusti di Israele avevano imparato a volgere lo sguardo verso il futuro (l’at tesa della venuta del Messia), abbiamo visto, ma certamente senza dimenticare il passato (la “memoria”)... Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 4 Ora, uno degli aspetti che ha creato non pochi problemi agli antichi interpreti ebrei del libretto di Giona è il suo aspetto fabuloso, fiabistico, mancante del tutto di un contesto temporale: «1,1 La parola del Signore fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, dicendo: 2 “Àlzati! Va’ a Ninive, la grande città, e proclama contro di essa che la loro malvagità è salita fino a me!”». Quando? A che punto della storia di Israele Dio ha parlato a Giona? In qual momento del suo ministero? Sotto qua le re? Quanto è durata la tempesta?, Dopo quanto tempo dalla partenza della nave è infuriata la tempesta? Ora, per il modo semitico di percepire lo scorrere del tempo, il futuro non sta davanti, come tutti si ritiene, bensì dietro, alle spalle, perché non lo si conosce... Mentre è il passato a stare davanti (come il presente)... Questa credo sia una im magine fra le più belle a cui il mondo semitico è ricorso per spiegare la sua perce zione del tempo e del suo scorrere. In questo senso, la speranza (il futuro) che, evidentemente, ha a che vedere con realtà che ancora non conosciamo, non ci sta “davanti”, come tutti si crede, bensì “dietro”... «Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (cf. Rm 8,2425). Anche qui, in Paolo, che scrive in greco e non in ebraico (e che certamente non è un personaggio dell’AT!), abbiamo lo stesso gioco: «nella speranza» — in qualcosa, cioè, che di per sé appartiene al futuro (e che quindi ci dovrebbe stare davanti) — noi «siamo stati salvati» — il verbo è al passato, esprime cioè un qualcosa che ci sta alle spalle... Salvati lo siamo già...pur «nella speranza»! Il pa radosso è davvero grande. Anche qui il futuro ci sta “dietro”… Un’altra prova di questo...: «In verità, in verità vi dico: “Prima che Abramo fosse, Io Sono”» (cf. Gv 8,58). Per una migliore concordanza si sarebbe dovuto dire: «Prima che Abramo fosse, io fui»… Ancora: il passato non ci sta “dietro”, come si ritiene, bensì davanti, perché appunto lo si conosce (in questo caso per ché si è rivelato…). Come a dire: più passato del passato non c’è un trapassato (“dietro”) bensì un presente (che ci sta “davanti”). Se a questo proposito si pensa al vecchio Simeone di cui Luca ci parla nel 2° capitolo del suo Vangelo, si può dire come egli, nel suo presente carico di anni, attendesse nella speranza, in realtà, qualcuno che era già venuto...! Proprio in vir tù del fatto che, in ebraico, il futuro sta alle spalle, e non davanti... Sta alle spalle perché non lo si vede e, quindi, non lo si conosce...! Ma, essendo alle spalle, signi fica in qualche modo che è anche prima di noi, che ci precede... Questo, però, può dirsi anche per tutti noi e per la nostra Chiesa! Dalla venu ta del Cristo, per ciascuno di noi è radicalmente cambiato il modo di avere spe ranza e di percepire lo scorrere del tempo. Certo, noi possiamo ancora attendere Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 5 in un futuro più o meno immediato risultati, eventi, realizzazioni di aspettative importanti, punti di verifica delle nostre strategie pastorali parrocchiali, diocesa ne... Ma il tutto che fa essere tutto è già venuto... Non è più dietro (nel futuro) ma davanti, in un passato che diviene un eterno presente… «È risuscitato dai morti e ora vi precede in Galilea: là lo vedrete!» (cf. Mt 28,7; Mc 16,7)... Come a dire: ormai il Cristo ci “sopravanza” sempre. Lui è già venuto. E, dunque, non ci sta dietro (il futuro!) ma davanti. In un passato che si fa appun to un eterno presente. d) Quarta immagine L’ultima suggestione di questa prima parte della nostra conversazione mi proviene dall’osservazione di come l’Israele biblico abbia riletto in una difficile circostanza che si ritrovava a vivere la sua storia trascorsa e di come si sia rap portato al futuro che gli si apriva davanti. La circostanza a cui sto facendo riferimento è quella dell’esilio in Babilonia, ovvero quella del periodo più nero e terribile che Israele abbia mai sperimentato nella sua storia biblica. Un esperienza – a mio modestissimo parere – assai pros sima a quella che noi come Chiesa ci ritroviamo a vivere… Il gancio di questa suggestione con il nostro libretto di Giona, fra l’altro, è particolarmente solido. Il tutto della piccola narrazione su Giona fu composto con ogni sicurezza nei periodi successivi all’esilio di Israele… Esso fu dunque uno dei frutti maturati dalla sofferenza dell’esilio babilonese… L’esilio di Babilonia è il periodo storico più terribile che Israele abbia mai vis suto (ben peggiore della schiavitù egiziana ai tempi di Mosè) perché fu il periodo che più di tutti mise a repentaglio il futuro di questo popolo… È difficile per noi entrare in una comprensione almeno sufficiente di come il popolo di Israele av vertì l’esilio in Babilonia. Quell’evento costituì la realtà più sconvolgente e lace rante di tutta la sua storia perché minò alle radici la sua stessa consistenza di po polo. Gli fu tolta la Terra che Dio in persona promise ai suoi padri. Gli fu tolta la benedizione che Dio in persona promise ai suoi padri. Gli fu tolta la discendenza che Dio in persona promise ai suoi padri. Gli fu tolto il Tempio in cui s’incontrava col suo Dio (e all’epoca Dio lo si incontrava solo nel Tempio: non era “in cielo, in terra e in ogni luogo”...: Pio X era ancor lungi dal nascere…!); Gli fu tolta la mo narchia… Senza Terra, senza benedizione, senza discendenza, senza Tempio, sen za re…: Un popolo annullato…! Si potrebbe dire che le promesse di Dio ad Abramo, quelle promesse che det tero inizio ad Israele come popolo, vennero totalmente e clamorosamente smenti te dalla realtà dell’esilio di Israele in Babilonia! Leggiamo: «Gn 12,1 Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 6 parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò, 2 cosicché fac cia di te una grande nazione e ti benedica e faccia grande il tuo nome, e tu possa essere una benedizione. 3 Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te acquisteranno benedizione tutte le tribù della terra”». Tutto finito… La realtà più distruttiva fra tutte, dunque, fu che Israele, andando in esilio, fu totalmente privato del suo passato…! Un popolo, dunque, storicamente “azzerato”… Ciò che aveva “davanti” a sé (il passato!) fu completamente distrut to. Davanti non aveva più niente. Detta diversamente (e meglio): Israele aveva un presente solo ed esclusiva mente perché esso era saldamente radicato in un passato! Un passato in cui Dio lo chiamò, lo elesse fra tutti i popoli e in cui gli promise tutto quello che poi in realtà sarebbe diventato…! E ora, per motivi squisitamente politici ed espansioni stici, i babilonesi vengono e in nome di quei motivi sbaragliano non solo le vite di un popolo ma anche le sue stesse radici e i princìpi della sua stessa identità. Israele venne preso e inserito come prigioniero in un impero lontanissimo per geografia, imponenza, cultura, usanze, lingua, religione, culto, costumi, legi slazione, etica, medicina,…! Cosa accadde, dunque, internamente a Israele in que sto tempo così duro in cui fu costretto a vivere? Non aveva più una terra propria in cui esprimersi, non aveva più una monarchia in cui riconoscersi, non aveva più un tempio in cui pregare, non aveva più nemmeno un Dio in cui confidare e a cui affidarsi (anch’egli distrutto col suo tempio…!). Che cosa rimaneva da fare ad Israele? Da una parte morire, annullarsi e con fondersi coi babilonesi. Dunque: sparire, spersonalizzarsi e “globalizzarsi”, si di rebbe oggi…! Dall’altra, ritrarsi sommessamente dalla realtà minacciosa in cui vi veva e sviluppare fortemente la propria interiorità. In altri termini, se Israele non aveva più una struttura esterna socio-politico-religiosa in cui riconoscersi e farsi contenere poteva sempre svilupparne una simile ma interna… I suoi centri pro pulsori, in esilio, non potendo più trovarli fuori di sé ed in contesti di ufficialità iniziò a trovarli dentro di sé ed in contesti marginali, periferici, alternativi. La realtà che ne emergeva sarebbe stata di per sé fortemente orientata alla “globaliz zazione”… Eppure Israele, se così posso esprimermi, scelse la via opposta… Quand’è, infatti, che si svilupperà massimamente la speculazione di Israele sul monoteismo, sull’esistenza di un unico e solo Dio? In esilio! Il fatto di non ave re più un re che governava e pasceva Israele fu l’impulso determinante per consi derare che c’era sempre un Dio che lo pasceva e lo governava…! L’esilio, come ho detto, fece rivolgere l’attenzione di Israele non tanto all’e sterno di sé (alle strutture socio-politiche…) quanto al suo interno… E questo fece sbocciare il monoiteismo… In Esilio si arriverà a scrivere: «Is 43,10 Voi siete i miei testimoni, oracolo del Signore, voi siete miei servi, che Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 7 ho eletto, perché sappiate, crediate in me e comprendiate che sono io. Prima di me non fu fatto alcun dio e dopo di me non vi sarà alcuno. 11 Io, io sono il Signore e all’infuo ri di me non c’è alcun salvatore! 12 Io ho annunciato, salvato e proclamato, non un dio straniero tra voi! Voi siete i miei testimoni, oracolo del Signore, e io sono Dio, 13 dall’eternità sempre lo stesso. Nessuno può liberare dalla mia mano: agisco e chi lo può cambiare?». “Prima” si diceva: «Sal 82,1 Dio si erge nell’assemblea divina, in mezzo agli dèi emana la sua sentenza». Oppure: «Sal 95,3 Poiché Dio grande è il Signore, re grande, sopra tutti gli dèi»; «Sal 138,1 Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore, davanti agli dèi a te inneggerò». Se mi si consente un brevissimo inciso: oggi il monoteismo sembra aver rice duto il passo al politeismo, ma in maniera del tutto deleteria… E questo è uno dei punti che fa avvicinare di molto il nostro presente all’esperienza precedente e prossima all’esilio di Israele… Prima c’era una pluralità di dèi a cui rivolgersi, ciascuno preposto ad un particolare aspetto della realtà (il dio della guerra, del l’amore, della fertilità, della morte…). Ora ciascun santo è patrono di qualche particolare categoria di persone o è specializzato in qualche particolare miracolo…! Anche il nostro culto è spesso millificato e parcellizzato in molti ri voli che con molte difficoltà si congiungono all’unico fiume, che è Cristo. Un altro aspetto importante. Durante l’esilio si assisté ad un altro passaggio capitale: dal culto esteriore e cerimoniale a quello interiore e personale. Per tutta l’epoca monarchica la religione per Israele era stata una tipica religione “cerimo niale” di stato, concretizzata nella regolare esecuzione di atti di culto formali ese guiti nel tempio ufficiale, sia quotidiani sia calendariali, tutti intesi ad assicurare il giusto ed ortodosso “legame” fra il popolo, il sacerdozio, il re e il Dio… Con la fine dell’indipendenza politica, la distruzione del tempio e la deportazione in un ambiente del tutto straniero le condizioni per la religione cerimoniale di stato erano venute a cessare. Quella dell’esilio era dunque la condizione favorevole per il sopravvento di una religiosità di livello personale e di collocazione interiore, molto meno legata alla cerimonialità pubblica e molto più basata su valori etici, intimi, vitali. L’indivi duo spaesato nell’impero troppo grande e non suo doveva cercare un contatto di retto col suo Dio, cercando di non cedere all’ambiente politeista e cerimoniale del paese che lo ospitava. Il genere letterario della “supplica individuale” nasce in queste circostanze. In esilio si arriverà a scrivere: «Sal 17,3 Tu sondi il mio cuore, mi visiti la notte, mi scruti senza nulla trovare, […] 6 Io sono qui e ti chiamo, e tu rispondimi o Dio! 7 Tendi l’orecchio verso di me, ascolta le mie parole! Manifesta la tua grazia, o salvatore dei rifugiati!». Ancora una volta, il rischio di oggi è di tornare ad una religione cerimoniale, Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 8 bella ma vuota, come molti profeti dell’AT denunciarono… Dunque: cosa ha fatto Israele nella tragedia? Ha iniziato a ripensare al suo passato…e, nel ripensarlo, a “riscriverlo” e a “riappropriarsene” alla luce delle contingenze del suo oggi… Ha iniziato ad “ospitare le ferite” e ha iniziato ad “abitare il conflitto”… E cosa succede in tutta questa estrema confusione, in questa grave incertezza e in questa forte crisi? Né ci si deprime, né ci si lamenta, né si mettono i remi in barca per lasciarsi passivamente trasportare dalle correnti…: si scrive la Bibbia! Fu proprio a Babilonia e parimenti nel ritorno a Gerusalemme, infatti, che Israele ebbe la possibilità di riflettere sulla propria storia trascorsa e presente e di organizzarla per scritto in modo compiuto: molti libri biblici, infatti, videro la luce proprio in quel periodo di «deserto»: pensiamo a libri come Aggeo, Zaccaria, Cronache, Esdra, Neemia, buona parte di Isaia (cc. 40* – 66*), di Ezechiele, Lamen tazioni, buona parte dei libri storici e del Pentateuco, Giobbe...! La crisi, cioè, l’incertezza del presente e l’apparente assenza di futuro diven gono, al contrario, possibilità di salvezza… Così come da una depressione gestita e vissuta può derivare una vita ancor più grande… Se abbiamo un AT così come ora ci appare è dunque perché ci fu un esilio… Scontri, inimicizie, difficoltà, crisi… hanno portato ad una nuova vita… E questo continua a rimanere vero anche per il cosiddetto “Nuovo Testamento”… Nel momento della grande crisi, quando i discepoli non potevano più seguire il Maestro nella sua “Ora” e tutti, di fatto, nell’incomprensione e nella paura lo la sceranno solo, il Maestro stesso dona l’Eucaristia…! Quando le prime comunità iniziavano ad organizzarsi nella fiduciosa speranza di un prossimo ritorno nella gloria del loro Signore (cf. 1 Ts 4,15) … e quando questa fiduciosa speranza iniziò a frustrarsi perché il Signore, di fatto, non tornava (ancora oggi attendiamo la sua definitiva manifestazione alla fine del tempo), ecco, in quel periodo di crisi, na scere i Vangeli…! Ora, come già sono andato dicendo, anche la nostra Chiesa mi pare stia attra versando un tempo di crisi. I “fasti” del passato (quelli in cui la Chiesa aveva in fluenza sulle coscienze e sulle strutture e appariva “trionfante”) sembrano ben lontani, azzerati; il futuro ora come ora ci appare totalmente incerto, insicuro (se non pauroso!); il presente è spesso di crisi, di disagio e di inquietudine… Nello stesso senso, del resto, sembrerebbe andare la condizione giovanile, come anche al cuni recenti saggi sull’argomento hanno ben messo in evidenza… Vorrei che la mia fosse una lettura eccessivamente pessimistica! Purtroppo, invece, credo si avvici ni abbastanza alla realtà… L’errore, e sia Israele che la Chiesa delle origini ci mettono in guardia, è quel Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 9 lo di percepire la crisi non dentro di noi bensì fuori, all’esterno! Non basta denun ciare una crisi delle strutture (i preti invecchiano e muoiono, i seminari si vuota no, la chiesa ufficiale parla un linguaggio sempre più “distante” dai problemi della gente…). La crisi, come ha fatto Israele prima e la Chiesa delle origini poi, va riconosciuta e accolta all’interno di ciascuno di noi; non solo fuori, nella struttu ra, nell’involucro, nello scafo della barchetta di Pietro che tutti, nel bene e nel male, ci traghetta… SECONDA PARTE Ma come fare ad accogliere questa crisi dentro ciascuno di noi perché sia la speranza e non la depressione a sorprenderci? È ancora la figura del profeta Gio na che, mi pare, potrebbe darci delle utili indicazioni al riguardo. In questo senso passo all’annunciata seconda parte, più breve, di questa conversazione. Di cosa si tratta in questo libro? Anzitutto di una disobbedienza. Quella del l’uomo nei confronti del suo Dio. Questa disobbedienza, tuttavia, sarà il pretesto per molti colpi di scena come anche per un discreto numero di paradossi… Poi si tratta di una gelosia. Quella che scaturisce dal cuore di chi non sopporta che il bene sia fatto anche agli altri da sé, ai diversi, ai nemici, agli stranieri (i niniviti). E il cuore geloso, qui, è quello di un uomo-di-Dio, quale è Giona, il suo profeta. In questo libro si tratta anche di speranza. Speranza di un cambiamento, di una con versione, di una positività, di un ribaltamento da una situazione presente di appiattimento e di grigiore a un’altra in cui l’accoglienza della parola di Dio pro duce novità e vitalità insperate… È chiaro: non avrò il tempo di affrontare l’intero libro, pur breve. Focalizzerò soprattutto su alcuni aspetti del capitolo che è stato proclamato: il primo. La figura di Giona ci induce, anzitutto, a confrontarci con l’“ombra” di cia scuno di noi, ovvero col nostro “lato oscuro”, lunare, nascosto. Giona disobbedi sce a Dio perché non desidera confrontarsi con la malvagità, con la crisi e, quindi, con l’accoglienza del presente fosco e di decadenza che Ninive sta vivendo: 2 «“Àlzati! [–gli dice il Signore–] Va’ a Ninive, la grande città, e proclama con tro di essa che la loro malvagità è salita fino a me!”. 3 Giona si alzò ma per fuggi re a Tàrshish, lontano dalla presenza del Signore». Invece di “andare a” Ninive, a Nord-Est, ovvero nell’attuale Nord Iraq, “fug ge a” Tarshish, a Sud-Ovest, in direzione opposta, verso la Spagna…! La risposta di Giona è semplicemente la fuga. Non riesce proprio a confrontarsi con il pro prio lato ombroso, con quanto, prima negli altri e poi in sé, è oscuro, fosco e luna Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 10 re… Giona, così, prendendo le distanze dalla sua vocazione profetica, si allonta na in realtà da un qualcosa che appartiene a lui stesso, alla sua stessa vita… Sa rebbe come se Mosè avesse tirato una bella secchiata d’acqua sul roveto ardente, nel momento in cui Dio lo chiamava…! Giona, con il suo allontanamento da Dio e dalla situazione presente di Nini ve, si allontana anche da se stesso, da una corretta comprensione del proprio pre sente, da un assennato discernimento del suo “oggi”… È anche per questo, si è detto, che sono assenti riferimenti temporali che diano prospettiva e spessore a questa narrazione… Tutto è assolutamente “schiacciato”, “appiattito” e, dunque, “sganciato” da qualsiasi percezione storica degli eventi. Il “no” a Dio di Giona appiattisce la storia, le toglie prospettiva, la decontestualizza dalla mobilità del tempo… Non solo come singoli ma anche come Chiesa dovremmo chiederci se nel no stro “oggi” stiamo recitando e, quindi, fuggendo da un discernimento del presen te che stiamo vivendo. Nell’ultimo corso predicato a Galloro (Ariccia) dal card. Martini nel Maggio scorso (in cui ha anche detto che quello sarebbe stato il suo ultimo corso da predicatore), così si è espresso: «Quante bramosie segrete sono dentro di noi. Vogliamo vedere, sapere, intui re, penetrare. Questo contamina il cuore. E poi c’è l’inganno, che per me è anche fingere una religiosità che non c’è. Fare le cose come se si fosse perfettamente os servanti, ma senza interiorità». Recitare è proprio fuggire. Anche il testo sottolinea questa chiusura e questa involuzione. Giona, si dice, non si limita a fuggire: prima scende a Giaffa (cf. v. 3; era il porto di Gerusalem me, quartiere dell’attuale Tel Aviv), poi scende nella nave (cf. v. 3; così dice il testo! Noi avremmo detto “sale”…) e poi scende nel suo luogo più riposto, nella stiva (cf. v. 5). Per poi scendere fino nelle profondità dell’abisso del mare (cf. v. 15). Un cammino in discesa in caduta libera! Non ci dimentichiamo che per il pensiero ebraico “discendere” non dice tanto un cammino di interiorità e di pro fondità, come forse per noi oggi, quanto di direzione verso lo Sheol, il regno dei morti… Ora, quando fugge da Dio, Giona si trova completamente solo, fra stranieri. I marinai in mezzo a cui sta sono infatti pagani. Questo è sottolineato dal testo usando per loro la parola generica “dèi”, “dio” (in contesto politeistico) e non “Signore”, “YHWH”, come per Giona. Ciò che colpisce per l’ironia e il paradosso è che questi stranieri si rivelano molto, molto più religiosi di Giona, il profeta di YHWH, il credente! Di fronte alla calamità del maremoto, infatti, loro, i pagani, agiscono religiosamente, al contrario di Giona che se la dorme sotto coperta, apparentemente incurante di Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 11 tutto quello che sta succedendo fuori! «I marinai ebbero paura e si misero a gri dare ciascuno al proprio dio» (cf. v. 5a) / «Giona invece era sceso nel luogo più riposto della nave; si sdraiò e dormì profondamente» (cf. v. 5b). Si potrebbe dire che a loro che pregano si oppone un profeta che tace…! Mentre la gente attorno a lui è concitata nelle cose da fare (non solo pregano: i marinai gettavano «in mare il carico che era sulla nave per alleggerirla»), Giona è del tutto passivo. «Dorme». La traduzione greca dei LXX di questo testo è mol to più ironica: «dormì e russò»! I marinai si dimostrano “attivi” e, insieme, “con templativi”… Questo Giona rappresenta proprio colui che fugge non solo da Dio ma anche dal proprio presente. Pur brutto. Sintomatico che il capitano della nave, quando va a stanare Giona dal suo sonno, usi due dei tre verbi usati da Dio nel dare al suo profeta la missione di re carsi a Ninive: Dice Dio: «Àlzati! Va’ a Ninive, la grande città, e proclama contro di essa che la loro malvagità è salita fino a me!» (cf. v. 2). Dice il capitano: «Àlzati! Invoca il tuo Dio!» (cf. v. 6). In ebraico i due verbi qui tradotti con «proclamare» e «invocare» sono in realtà il medesimo (qāra’). Il pagano, in questo cammino di accettazione e di appropriazione della pro pria situazione e del proprio presente è più in sintonia con Dio che il suo profeta! Qui, chi affida una missione, non è più Dio in vista dei pagani (andare a Ninive), come al v. 2, bensì i pagani in vista di Dio (cf. v. 6)! Qui abbiamo un pagano che, dopo aver lui stesso pregato (cf. v. 5a), invita un ebreo a non dormire ma a fare lo stesso! Il contrasto è molto forte: i pagani pregano (“I marinai ebbero paura e si mise ro a gridare ciascuno al proprio dio”: cf. v. 5a) e l’ebreo “d.o.c.” (“Io sono un ebreo e temo il Signore, Dio del cielo, che ha fatto il mare e l’asciutto!”: cf. v. 9) russa! Il sonno di Giona pare davvero un modo per non appropriarsi cosciente mente del tempo presente che ci è dato da vivere… Lo stesso Paolo si troverà ad invitare i Romani a “svegliarsi dal sonno” (cf. Rm 13,11)! Il mondo semitico parla infatti della vita spirituale come di un risveglio dal sonno e della necessità che qualcuno (un angelo, un messaggero, un uomo di Dio…) venga a svegliarci dal torpore! Qui, in Giona, l’“angelo” è un pagano! Il capitano della nave… Se i marinai sono uomini che agiscono, Giona, semplicemente, re-agisce: si alza quando viene svegliato (cf. v. 6); risponde quando gli viene domandato (cf. vv. 8-9). Ancora un paradosso: Giona avrebbe dovuto portare un messaggio di salvez za ai pagani, una “sveglia” per il loro “sonno”… Ora è lui stesso che lo riceve dai pagani! Giona non era voluto andare a Ninive, la città pagana. Qui, per l’appun to, sono i pagani che vanno da lui! Era lui che avrebbe dovuto parlare a loro e, in vece, sono loro che, per primi, parlano a lui… Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 12 Paradosso dei paradossi: sulla nave, dunque, l’unico a non pregare era il credente! Oppure, viceversa: il solo a confessare, e in modo perfettamente ortodosso, la sua fede in YHWH («Io sono un ebreo e temo il Signore, Dio del cielo, che ha fatto il mare e l’asciutto!»: cf. v. 9) è il solo a disobbedirgli! Giona, infatti, parla di Dio, a differenza dei marinai che parlano a Dio…! Fra l’altro, nel testo, a questo proposito, è presente anche una bella ironia: Giona proclama YHWH, il Dio che ha fatto il mare, e poi crede di potergli sfuggi re proprio a galla della stessa opera di cui Egli è Signore…! Un’altra ironia del testo si gioca sull’ambivalenza, in ebraico, del verbo che qui ho tradotto con «temere» («Io sono un ebreo e temo il Signore»): lo stesso verbo può significare anche «avere paura» (cf. vv. 5.10)… Giona confessa aperta mente il suo “timor di Dio” che, in realtà, è “paura di Dio”! Paura di questo Dio che manifesta la sua Signoria in dei pagani che si rivelano assai migliori del cre dente Giona! Assai più disposti a cogliere i segni del loro tempo presente perché il desiderio della speranza torni ad abitare il loro futuro… E che questi segni del tempo presente i pagani li accolgono, al contrario del credente Giona, lo si percepisce assai bene dai vv. 14 e 16 in rapporto a quanto li precede. I marinai che, nel loro paganesimo, al v. 5 pregavano ciascuno il proprio “dio” (’ĕlōhîm), al v. 14 invocano il “Signore” (YHWH): «Allora invocarono il Si gnore e dissero: “Ah, Signore (YHWH)! Che non abbiamo a morire per la vita di quest’uomo! Non imputarci il sangue innocente! Perché tu, Signore (YHWH), agisci secondo quanto desìderi!”». E, ancora di più, al v. 16 si mettono pure ad of frirgli sacrifici, secondo le norme più ortodosse della liturgia ebraica: «Quegli uomi ni ebbero un grande timore del Signore (YHWH): offrirono un sacrificio al Signore (YHWH) e fecero voti». I pagani fanno quanto Giona, l’ebreo-d.o.c., non ha ancora fatto (e mai farà nel resto del libro…)! Viene in mente la frase di Luca 16,8: «I figli di questo mon do, nella loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce»… I pagani si sono dimostrati aperti ad una crescita teologica e di fede! Giona, no. Per loro la tempesta, il male, è stata l’occasione per incontrarsi col vero Dio. Idem dicasi di Ni nive, che al c. 3 si convertirà dalla sua condotta malvagia! In questo racconto così naïf e ironico, si dirà anche che tutte le bestie e gli animali di quella città si mette ranno a fare penitenza (cf. Gio 3,7-8)…! Anche gli animali dei pagani si converto no! Non così il profeta di Dio… Ancora nel paradosso, dunque, il personaggio peccatore non sarà né la ciurma dei marinai pagani, né i niniviti malvagi: ma il solo Giona credente! Che poi i “lontani” siano assai meglio dei “vicini” mi pare sia un motivo più che ricorrente negli stessi evangeli…! Basti pensare alla sorte dei pubblicani e dei peccatori rispetto a quella dei farisei e dei sacerdoti… E che “lontani”, qui, in Giona…! Per un Israelita del tempo, Ninive era la città Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 13 fra le più nemiche! Sarà quella che in modo assai cruento sbaraglierà tutto il re gno del Nord (la capitale, Samaria, capitolerà nel 722 a.C.). Per fare un paragone a buon mercato, poteva essere considerata da un ebreo come la Berlino di Hitler dal 1933 al 1945! Ora, Dio manda a predicare una “lieta novella” proprio a Nini ve! Manda Giona a svegliarla dal suo torpore peccaminoso… Nahum, il profeta che scaglia le sue invettive contro Ninive, la chiamerà la «Prostituta» (cf. Na 3,4; così come l’Apocalisse chiamerà Babilonia, la Grande) e la «città sanguinaria» (cf. Na 3,1). Da questo punto di vista, si capisce un po’ me glio la ritrosia di Giona ad adempiere questa volontà di Dio. Sarebbe come se Dio avesse mandato un ebreo a convertire la Berlino nazista… Ora, la non-speranza che abita Giona e la sua visione del mondo, del presente e di Dio, condiziona anche il suo annunzio: Si dice in Giona 3,4: «Giona cominciò a inoltrarsi nella città per una giornata di cammino e proclamava: “Ancora qua ranta giorni, e Ninive sarà distrutta!”». Ma questa è parola di Giona non di Dio! Dio mai aveva detto a Giona di dire quelle parole! In 1,2 Dio gli aveva detto di recarsi in quella città per proclamarle che la sua malvagità era arrivata fino a Lui. Questo, però, non significava ancora volerla distruggere! Poi, in 3,2, Dio gli dice: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annunziale il messaggio che io ti dirò». Senza dare a Dio il tempo di parlare, Giona proclama su Ninive un annuncio di distruzione: «Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!» (cf. 3,4). Per la tra duzione dei LXX, poi, i giorni saranno addirittura solo tre…! Ecco, in compagnia di Giona, dove è andata a finire la nostra capacità di offri re e di accogliere speranza…! L’annuncio e, in particolare, l’annuncio cristiano, è sempre una “buona notizia”! Giona, invece, profetizza distruzione! CONCLUSIONE Dopo essere stato gettato in mare dai marinai per placare la tempesta, secon do le indicazioni che lo stesso Giona aveva loro date (cf. 1,11-12.15), secondo i ca noni più tradizionali delle fiabe (“Pinocchio” docet), Giona viene inghiottito da un «grosso pesce»: «Il Signore preparò un grosso pesce perché inghiottisse Gio na. Così Giona rimase nel ventre del pesce tre giorni e tre notti» (cf. 2,1). All’interno di questo “taxi marino”, dopo aver attraversato i mari, Giona si ri trova sulla terra ferma: «Il Signore parlò al pesce e il pesce vomitò Giona sull’a sciutto» (cf. 2,11). Giona, dunque, dopo tutte le rocambolesche avventure dei pri mi due capitoli, si ritrova sulla terra ferma. Esattamente da dove il tutto della vi cenda era partito. Noi lettori, cioè, ci ritroviamo, con Giona, al punto di partenza! Prova ne è il Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30 14 fatto che, una volta riapprodato a riva, Giona riceve, come se niente fosse acca duto, una seconda chiamata da parte di Dio: «1 La parola del Signore fu rivolta a Giona una seconda volta, dicendo: “2 Àlzati! Va’ a Ninive, la grande città, e pro clamale il proclama che io ti dico”» (cf. 3,1-2). Il credere di andare avanti, in realtà, per Giona è stato non solo un regresso ma, direi, una sorta di “sospensione” temporale! Al c. 3, infatti, la storia riprende come se non fosse mai iniziata! Risiamo all’asciutto e Dio richiama tranquillamente il suo profeta, esattamente come in 1,1. Un modo velato, ma efficace, per sottolineare quanto l’uomo perda e dissìpi il proprio tempo, che è spesso difficile e incerto, se lo vive nell’illusione di trovare la realizzazione della propria vita nascondendosi dal l’amore sconvolgente, perché paradossale, di Dio. A questo punto vorrei citare una frase di Cesare Pavese, a me molto cara. Pa vese la scrisse nel suo diario il 6 Luglio 1939 (in quel diario che poi, dopo essersi suicidato, venne pubblicato, nel 1952, col titolo «Il mestiere di vivere»): «[…] Quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori — anche noi — quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia». Ecco. Pur essendo tutti noi nella consapevolezza di vivere un tempo difficile, di crisi, e orientati verso un futuro ancor più incerto, Pavese ci ricorda della necessità di riappropriarci ciascuno del proprio passato, delle proprie radici, del patrimo nio comune non solo di cultura ma anche di fede. Detta altrimenti, perché la speranza torni ad accendere di vita gli istanti del nostro presente occorre che tutti e ciascuno, come singoli e come Chiesa, ci riap propriamo della radicalità dell’annuncio dell’Evangelo e, parimenti, che ci scrol liamo un po’ di dosso le incrostazioni, i sedimenti, i depositi che il nostro tempo “mal vissuto” – ovvero il nostro tempo di fuga – ha generato sotto forma di usi, di folklori maleodoranti di paganesimo e di tradizioni sterili e, spesso, idolatre, appiccicati sul nucleo vivo della nostra fede. Occorre davvero rimettere al centro della nostra Chiesa il vangelo della spe ranza del Cristo, l’unico veritiero e degno di fede. Del resto, per parafrasare un po’ il Salmo 87 (cf. v. 4), «tutti là siamo nati». Federico Giuntoli Lucca – Convegno Pastorale Diocesano San Frediano, 16 Giugno 2008 – ore 18:30