anno XVII - Numero 46 - 16 giugno 2011 Questo allestimento Parlano il direttore Conlon ed i cantanti A Pag. 2 La genesi di Bohème Prima rifiutata e poi composta A Pag. 6 La Tubercolosi Malattia romantica in preoccupante recrudescenza A Pag. 8e9 La scoperta Quel brano marinaresco divenuto il Valzer di Musetta A Pag. 11 Il primo Rodolfo Evan Gorga, il tenore collezionista A Pag. 13 La Bohème di Giacomo Puccini La Bohème 2 Parlano il direttore James Conlon ed i cantanti «La Bohème, un’opera dal contenuto sempre attuale» E ra stata annunciata con l’allestimento storico ed applauditissimo realizzato da Franco Zeffirelli per il Teatro Alla Scala nel 1963, questa Bohème che torna sul palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma esattamente dopo ben otto anni, da quel 20 giugno 2003 quando andò in scena proprio con scene e regia del maestro fiorentimo. Ma, secondo la versione ufficiale del Teatro, i tagli dettati dal decreto sulle fondazioni liriche, avrebbero imposto, poco più di un mese fa, di optare per un allestimento più sobrio per numero di comparse – che effettivamente erano molte nella ricca Bohème di Zeffirelli – ed anche per il personale di palcoscenico. Ed ecco che si è dovuto ripiegare su un altro allestimento, sempre in linea con il gusto figurativo e anch’esso di grande bellezza visiva e forte fascino nella ricostruzione degli ambienti, come quello realizzato nel 1988 da Pierluigi Samaritani per il Teatro Massimo Bellini di Catania e restaurato lo scorso anno, quando li è stato riproposto. Questa volta a riprendere la regia del novarese Samaritani, scomparso nel 1994, è il 45nne vicentino Marco Gandini, che ormai da 19 anni collabora con Franco Zeffirelli e che a lui fece da assistente per la Tosca al Costanzi nel 2010. Sul podio è il newyorkese James Conlon, il quale con questo titolo pucciniano ha un rapporto particolare, avendo debuttato quest’opera a 21 anni. «Ero alle soglie della laurea alla Julliard School di New York e questo titolo segnò l’inizio della mia carriera», dice il maestro. « La diressi per sostituire Thomas Schippers che aveva dato forfait. Accettai con entusiasmo anche per l’incoraggiamento ricevuto da Maria Callas, in quel momento insegnante presso l’università. Ma il mio approccio con quest’opera era già avvenuto anni prima quando a 12 anni cantai la parte del bambino dei giocattoli. Inoltre, è un’opera che sento mia per aver vissuto diversi anni a Parigi, proprio nel Quartiere Latino e dunque ben conosco le sfumature di quella concezione di vita». «E’ un lavoro – continua il Maestro – che dipinge benissimo lo spirito disinvolto e romantico tipico dell’età giovanile. Ed è forse per questo che è un’opera molto apprezzata, perché il pubblico ci si rispecchia.… uno spirito velato di sana e gioiosa incoscienza in cui tutti si passa». «Nelle prime due parti dell’opera, Puccini non vuole che la tragedia si veda e calca l’accento su la spensieratezza della gioventù, sul vivere alla giornata. Poi, con grande teatralità, il dramma giunge di colpo, tagliente come una spada: la malattia e la morte di Mimì, così improvvisi da commuovere ogni volta lo spettatore». Di buon livello il cast, con in particolare il tenore messicano Ramon Vagas come Rodolfo, che sul palcoscenico del Costanzi è stato già come Conte d’Almaviva in un Barbiere rossiniano di una ventina d’anni fa e poi nei panni del Duca di Mantova nel Rigoletto del 2006. « Bohème è un’opera straconosciuta con la quale è facile cadere nei luoghi comuni. Per questo stiamo lavorando per eliminare un certo manierismo. L’opera, pero, continua ad essere attuale anche se oggi non si muore più di Tisi ma di AIDS. E’ un titolo per tutte le generazioni. Molti studenti hanno fatto la vita bohème come pure Puccini quando studiava a Milano: pochi soldi, tante speranze e la voglia di divertirsi spensieratamente. Rodolfo è geloso maschilista, Mimì ha paura della solitudine, mentre Musetta è come una velina di oggi che va con chi ha più soldi. E’ un’opera che commuove perché alla fine risaltano i valori e l’amore è un valore vero. La lezione che se ne ricava è che bisogna rispettare i sentimenti». a. mar. Il G iornale dei G randi eventi Ultim’ora Direttore responsabile Andrea Marini Concerto di Liszt a Villa d’Este Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. 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Il Giornale dei Grandi eventi Stagione 2010-2011 al Teatro Costanzi 16 - 26 giugno 2011 Direttore Interpreti Bohème di Giacomo Puccini James Conlon Ramòn Vargas, Vito Priante, Hibla Gerzmava Stagione estiva alle Terme di Caracalla 2 luglio alle 21,30 Concerto multimedia: immagini e suono TrILogIa romaNa (Fontane di Roma - Feste Romane - I Pini di Roma) 21 luglio - 10 agosto 2011 Direttore Interpreti ToSCa di Giacomo Puccini Asher Fisch Csilla Boross, Thiago Arancam e Carlo Guelfi 2 - 9 agosto 2011 Direttore Interpreti aIda di Giuseppe Verdi Asher Fisch Hui He, Walter Fraccaro, Giovanna Casolla 30 settembre – 8 ottobre 2011 eLekTra di Richard Strauss Fabio Luisi Direttore Interpreti Felicity Palmer, Eva Johansson, Melanie Diener ~~ La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 16 - 26 giugno 2011 La Bohème Opera in quattro quadri Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger (1847) Musica di Giacomo Puccini Prima rappresentazione: Torino, Teatro Regio, 1 febbraio 1896 Direttore Regia Scene Costumi Maestro del Coro Disegno luci James Conlon Marco Gandini Pierluigi Samaritani Anna Biagiotti Roberto Gabbiani Mario De Amicis Personaggi / Interpreti Rodolfo (T) Schaunard (Bar) Benoît (B) Mimì (S) Marcello (Bar) Colline (B) Alcindoro (B) Musetta (S) Parpignol (T) Doganiere (B) Ramòn Vargas 16, 18, 21, 23, 25 / Stefano Secco 17, 19, 22, 24, 26 Vito Priante 16, 18, 21, 23, 25, 26 / Guido Loconsolo 17, 19, 22, 24 Matteo Peirone Hibla Gerzmava 16, 18, 21, 23, 25 / Carmela Remigio 17, 19, 22, 24, 26 Franco Vassallo 16, 18, 21, 23, 25 / Luca Salsi 17, 19, 22, 24, 26 Marco Spotti 16, 18, 21, 23, 25 / Giovanni Battista Parodi 17, 19, 22, 24, 26 Luca Dall’Amico Patrizia Ciofi 16, 18, 21, 23, 25 / Ellie Dehn 17, 19, 22, 24, 26 Luca Battagello 16, 19, 23, 26 / Giordano Massaro 17, 21, 24 / Vinicio Cecere 18, 22, 25 Riccardo Coltellacci 16, 18, 21, 23, 25 / Antonio Taschini 17, 19, 22, 24, 26 ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Allestimento del Teatro Massimo Bellini di Catania ~ ~ La Copertina ~ ~ adolf hohenstein – Bozzetto del Quadro II (Part.) per la prima rappresentazione a Toprino, Teatro Regio, 1 febbraio 1896 Il Giornale dei Grandi eventi M ancava dall’Opera di Roma dal 2003 La Bohème di Giacomo Puccini, il titolo operistico più rappresentato al mondo dopo la Carmen di Georges Bizet. Annunciata con l’allestimento storico di Franco Zeffirelli, per motivi di budget è stata sostituita con quello firmato nel 1988 da Pierluigi Samaritani per il Teatro Massimo di Catania che richiede meno personale di palcoscenico e meno com- La Bohème parse. A riprendere la regia di Samaritani, scomparso nel 1994, è il quarantacinquenne Marco Gandini che ormai da 19 anni collabora, sia per il teatro che per il cinema, con Franco Zeffirelli. Sul podio a dirigere è il maestro newyorkese James Conlon che vanta un vastissimo repertorio lirico e sinfonico e che con questo titolo pucciniano ha un rapporto particolare, avendo debuttato con quest’opera a 21 anni sosti- tuendo un collega che aveva dato forfait, ma già prima all’età di 12 anni avendo cantato la parte del bambino dei giocattoli. Di buon livello il cast con in particolare il tenore messicano Ramon Vagas come Rodolfo, ed il soprano georgiano Hibla Gerzmava nei panni di Mimì e la bella soprano senese Patrizia Ciofi come Musetta. Secondo cast anche di ottimo livello per soddisfare il pubblico nelle dieci rappresentazioni. 3 Le Repliche Giovedì 16 giugno, h. Venerdì 17 giugno, h. Sabato 18 giugno, h. Domenica 19 giugno, h. Martedì 21 giugno, h. Mercoledì 22 giugno, h. Giovedì 23 giugno, h. Venerdì 24 giugno, h. Sabato 25 giugno, h. Domenica 26 giugno, h. 20.30 20.30 18.00 17.00 20.30 20.30 20.30 20.30 18.00 17.00 Dopo otto anni di assenza La Bohème guarda a Samaritani La vicenda si svolge a Parigi, nel 1830. La Trama Quadro primo: In una soffitta sui tetti di Parigi, la sera della vigilia di Natale. Il poeta Rodolfo e il pittore Marcello sono senza soldi e senza legna per il fuoco e per scaldarsi bruciano un copione di Rodolfo. Rientrano gli altri due abitanti della soffitta, il filosofo Colline ed il musicista Schaunard. Quest’ultimo porta con sé denaro, legna e provviste. Schaunard vorrebbe raccontare come è riuscito ad avere questa fortuna, ma i compagni non lo ascoltano, occupati in un improvvisato festino. Quindi decidono di andare a festeggiare il Natale al Quartiere Latino. Ma ecco la visita del padrone di casa, Benoît, venuto a reclamare l’affitto. I quattro bohémiens lo fanno ubriacare e poi, fingendosi scandalizzati, lo cacciano. Escono tutti tranne Rodolfo, ché deve finire di scrivere un articolo. Qualcuno bussa. E’ Lucia, detta Mimì, la vicina di casa venuta a chiedere di riaccendere la propria candela. Ma appena arrivata è colta da un malore che la costringe a trattenersi per un po’. Andando via, Mimì si accorge di aver perduto la chiave e torna indietro. Una corrente d’aria spegne il suo lume, mentre Rodolfo soffia di proposito sulla propria candela. I due giovani continuano a cercare la chiave al buio, finché un’attrazione e un senso di intimità li inducono a raccontarsi la loro storia. Gli amici, impazienti, chiamano Rodolfo dalla strada. Mimì propone a Rodolfo di unirsi all’allegra brigata. I due si scambiano parole d’amore. Quadro secondo. Nel Quartiere Latino, presso il Café Momus, la not- te di Natale. Per strada c’è molto movimento ed il gruppetto d’amici si lascia travolgere dalla confusione. Tutti, tranne Marcello che pensa a Musetta, suo perduto amore. Rodolfo fa un regalo a Mimì. Poi i quattro amici si ritrovano al Café Momus, dove Rodolfo presenta a tutti Mimì. Mentre i giovani parlano dell’amore, arriva una bellissima signora. E’ Musetta, accompagnata dal lezioso consigliere di Stato Alcindoro. La donna si avvicina al tavolo del suo ex amante, Marcello. Questi la ignora. Stizzita, Musetta fa di tutto per attirare l’attenzione. Poi, con una scusa allontana Alcindoro e si getta fra le braccia di Marcello. In quel momento passa la Ritirata, tutti si accodano alla banda e lasciano il conto da pagare a Alcindoro. Quadro terzo. In un cabaret presso la Barrière de l’Enfer, in una nevosa alba di febbraio. Marcello sta dipingendo l’insegna dell’osteria quando Mimì, scossa da un attacco di tosse, viene a chiedergli aiuto perché Rodolfo, sempre più geloso e collerico, la notte prima l’ha abbandonata. Il poeta, infatti, sta dormendo nel locale. Mimì si nasconde e viene così a sapere il vero motivo del comportamento dell’amato. Svegliato da Marcello, Rodolfo confessa all’amico di amare Mimì, ma che la vita nello squallore della soffitta peggiora le condizioni della donna già molto precarie. Un colpo di tosse rivela la presenza di Mimì. Rodolfo l’abbraccia, ma poi i due si rassegnano alla separazione e decidono di lasciarsi in primavera. Marcello e Musetta tentano di mettere una nota d’allegria in quell’addio, ma fra i due scoppia uno dei soliti battibecchi e si separano. Quadro quarto. Nella mansarda sui tetti di Parigi. Marcello e Rodolfo nella soffitta tentano di lavorare, ma non possono evitare di conversare dei loro amori perduti. Giungono Colline e Schaunard portando il pranzo e molta allegria. Ad un tratto entra Musetta, accompagnando Mimì moribonda, la quale, fuggita dal suo nobile protettore, desidera vedere per l’ultima volta il suo amato. Musetta, impegnando i suoi gioielli, manda Marcello a chiamare il dottore ed esce per comprare a Mimì un manicotto. Anche Colline decide di rivendere la propria zimarra (il pastrano) che aveva comprato la sera di Natale e porta con sé Schaunard. Rodolfo e Mimì rimangono soli e si abbandonano al ricordo del loro primo incontro. Quando gli amici ritornano, Musetta consegna a Mimì il manicotto, facendole credere che sia un regalo di Rodolfo. La ragazza, dopo aver provato quest’ultima gioia, si addormenta. Mentre Musetta prega e prepara la medicina portata da Marcello, Rodolfo si dà da fare per rendere la stanza più accogliente. Schaunard però si accorge che Mimì è morta. Gli amici sono sgomenti. Rodolfo è l’ultimo a capire e, disperato, si getta sul corpo esanime dell'amata. Con l’abbonamento filatelico, non rischi di perderti il meglio. Le condizioni generali di vendita in abbonamento di carte valori postali e prodotti filatelici sono disponibili su www.poste.it. L’abbonato è tenuto a corrispondere a Poste Italiane una quota (euro 2,07) delle spese per il servizio di recapito. La parte restante della tariffa sarà a carico di Poste Italiane. Numero verde 803.160 con operatore dal lunedì al sabato dalle 8,00 alle 20,00. Chiamata gratuita da rete fissa; da rete mobile comporre il n. 199.100.160. Il costo della chiamata è legato all'operatore utilizzato ed è pari al massimo a euro 0,60 al minuto più euro 0,15 alla risposta. www.poste.it numero gratuito 803 160 La filatelia è più di un semplice hobby. Con l'abbonamento filatelico può diventare una vera e propria passione. 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Tra le sue numerose interpretazioni, vi sono il Riccardo di Un Ballo in Maschera, il ruolo di protagonista in Don Carlo, Rodolfo nella Bohème, Alfredo nella Traviata, e Romeo in Romeo e Giulietta. Nell’estate del 2008 tiene a Pechino una serie di concerti in occasione delle Olimpiadi. Vargas inizia la stagione 2010/11 alla San Francisco Ramòn Vargas e Hibla Gerzmava Opera nel Werther. In questa stagione si è esibito in Traviata, Rigoletto, Simon Boccanegra e ora la Bohème. Stefano Secco, inizia lo studio del pianoforte e del canto con Alberto Soresina. Dopo le prime esperienze e numerose tournèe in Italia e all’estero, interpreta il Falstaff al Verdi di Sassari, poco dopo viene scritturato da Teatro dell’Opera di Roma come tenore solista nella Messa di Gloria di Puccini e nel Te Deum di Berlioz.Recente ha cantato ne I due Foscari , Macbeth ed Il Requiem di Verdi a Francoforte. Franco Vassallo e Luca Salsi Marcello, pittore geloso A cantare come l’amico Marcello saranno i baritoni Franco Vassallo (16,18,21,23,25) e Luca Salsi (17,19,22,24,26). Franco Vassallo, nato a Milano nel 1969, studia canto con Carlo Meliciani. Vince rispettivamente nel 1992 l’As,Li,Co, International Competition di Milano e nel 1997 il” Budapest Contest”, organizzato con la collaborazione dell’Arena di Verona, da qui una serie di debutti nei ruoli di Figaro ne Il barbiere di Siviglia, Enrico in Lucia di Lammermoor, il Conte Almaviva ne Le nozze di Figaro, seguiti poi da altri debutti sia in Italia che all’estero. Nella stagione 2007/08 è al Metropolitan con Il barbiere di Siviglia. Nella stagione 2009/10 lavora nelle produzioni di Lucrezia Borgia, Macbeth,Attila, l’Aida, Il Barbiere di Siviglia e in Otello. Nel 2011 ha debuttato a Ginevra nei Puritani. Luca Salsi nato a San Secondo Parmense (PR) nel 1975 si diploma in canto presso il conservatorio “Arrigo Boito” di Parma e si perfeziona con il baritono Carlo Meliciani. Nel 1997 debutta presso il Teatro Comunale di Bologna nella (Scala di Seta di Rossi- Franco Vassallo ni). Nel 2000 vince il premio assoluto al concorso “Gian Battista Viotti” di Vercelli, inizia così un’intensa attività che lo conduce sui palcoscenici di tutto il mondo. Nella stagione 2008/09 prende parte a diverse produzioni tra cui Il Corsaro, La Bohème, I Pagliacci, e poi continua con la stagione 2009/10 interpretando con grande successo la Traviata, Falstaff, e l’Elisir d’Amore. Tra i suoi prossimi impegni vi sono le produzioni dei : I Puritani, Attila, Un ballo in maschera e la Madama Butterfly, al Met di New York. Pagina a cura di Mariachiara Onori – Foto di Corrado M. Falsini 5 A cantare come Mimì saranno i soprano hibla gerzmava (16,18,21,23,25) e Carmela remigio (17,19,22,24,26). hibla gerzmava, nata nel 1970 a Pezonda (repubblica di Abcasia, territorio di fatto indipendente della Georgia), si laurea in canto presso il conservatorio di Mosca nel 1994. Nella stagione 2002/03 partecipa al Festival di Ludwigsburg in Germania dove ha cantato Eva in Die Schöpfung di Haydn. Nella stagione scorsa ha debuttato al Metropolitan Opera nel ruolo di Antonia ne Les Contes d’Hoffmann. Carmela remigio, nata a Pescara nel 1979, inizia gli studi con Aldo Protti. Nel 1992, vince il concorso “Luciano Pavarotti International Voice Competition” di Philadelphia, e qualche anno dopo va in scena, nel ruolo della protagonista dell’opera Alice di G.P. Testoni al Massimo di Palermo. In ambito internazionale è particolarmente apprezzata per l’interpretazione di opere mozartiane, fra tutte Donna Anna in Don Giovanni, che le ha offerto l’opportunità di collaborare con Claudio Abbado e Peter Brooke. Patrizia Ciofi e Ellie Dehn Musetta, la fascinosa ex fiamma di Marcello S aranno i soprano Patrizia Ciofi (16,18,21,23,25) e ellie dehn (17,19,22,24,26 ) a cantare l’intraprendente Musetta. Patrizia Ciofi, nata a Casole d’Elsa (Siena), studia all’Accademia Chigiana a Fiesole.Tra i molti successi del 2008 ci sono: il Don Giovanni, i Capuleti e i Montecchi e Giulio Cesare, mentre nel 2009 è stata Gilda in Rigoletto. Recentemente prende parte ad Atene in Maria Stuarda,a Tokio e Berlino con La Traviata. ellie dehn, nel 2007 fece il suo debutto alla Met come Marguerite nel Faust. Durante le ultime stagioni ha Patrizia Ciofi lavorato in nuove produzioni come: Agathe in DerFreischutz, a Bilbao; Madama Cortese ne Il viaggio a Reims; a Los Angeles come Freia in Das Rheingold, esibendosi anche nei panni di diverse delle eroine mozartiane. Tra i premi, il James McCracken nel 2006, il National Grand Finalist Award al Metropolitan National Council Auditions nel 2005, il secondo posto nel Licia Albanese/Puccini Foundation Competition 2004 ed il primo posto nella JP 2004 Concorso d’Opera Italiano. Vito Priante e Guido Loconsolo Schaunard, musicista fortunato è affidato al basso-baritono Vito Priante (16,18,21,23,25,26) e al baritono guido Loconsolo (17,19,22,24) il ruolo del vivace Schaunard. Vito Priante, nato a Napoli nel 1979, debutta nella Serva padrona di Pergolesi. Dopo diverse esperienze nel repertorio barocco e classico, ha iniziato il suo cammino verso il repertorio belcantistico, con il debutto nel 2009 nel ruolo di Malatesta nel Don Pasquale al Teatro San Carlo di Napoli. guido Loconsolo ha fatto parte fino al 2007 del programma Giovani Artisti del Teatro alla Scala di Milano Nella stagione 2008-2009 ha interpretato il ruolo di Marcello in Bohème, Il Conte in Le nozze di Figaro e Achilla in Giulio Cesare. Nella stagione 2009-2010 ha cantato come Ford in Falstaff a Glyndebourne e in Un giorno di regno con il Teatro Regio di Parma. La Bohème 6 Il Giornale dei Grandi eventi Le genesi dell’opera Prima rifiutata e poi composta tra battute di caccia e serate con gli amici D opo il successo al Teatro Regio di Torino della “prima” di Manon Lescaut, che indubbiamente migliorò il prestigio ed il tenore di vita del compositore lucchese, Puccini cominciò a cercare nuovi soggetti per dare inizio alla sua quarta opera. Tra i progetti presi in considerazione e poi scartati, c’era stato, qualche tempo prima, anche un libretto scritto da Ruggero Leoncavallo tratto dal romanzo Scènes de la vie de Bohème del francese Henri Murger, apparso a puntate sul “Corsaire Satan” tra il 1845 ed il ‘49 e poi portato in teatro con la collaborazione di Thédore Barrière. Il lucchese rifiutò il progetto. Ma quando Puccini incontrò casulamente a Milano Leoncavallo e gli disse che stava musicando quel testo su libretto di Giacosa ed Illica, l’autore di Pagliacci andò su tutte le furie. Ne nacque una disputa che non vedrà più parlarsi i due musicisti e che si rimbalzò sui giornali “Il Secolo” dell’editore musicale Sonzogno dalla parte di Leoncavallo ed il “Corriere della Sera” da quella di Puccini. Il musicista napoletano finirà col far debuttare il proprio lavoro al Teatro la Fenice di Venezia il 6 maggio 1897, più di un anno dopo l’opera pucciniana. La Composizione Di fatto, nel marzo del 1893, Puccini già stava pensando alla sua Mimì. Dal 1891 il compositore era solito affittare – e poi acquistare proprio con i proventi de La Bohème - una casa a Torre del Lago, sulla riva del Lago di Massaciuccoli, per esercitare la sua grande passione, la caccia agli acquatici. In questa residenza si era trasferito assieme alla compagna Elvira Bonturi, con la quale conviveva fin dal 1886, dalla quale ebbe un figlio, Tonio, e che solamente nel 1904 avrebbe sposato, dando vita ad un rapporto turbolento per le frequenti, effimere, “infedeltà” del compositore. Fu qui, in una villetta affacciata sul lago, che fu composto il primo quadro de La Bohème, iniziato il 21 gennaio 1895 e terminato il 6 giugno «alle due del mattino». L’opera fu certamente ispirata da momenti di vita condivisi con gli amici del luogo. Qui i compagni, riuniti in società presso la capanna bordo lago dell’amico Giovanni Papasogli “Gambe di Merlo” trasformata nel “Club La Bohème” per l’appunto, si dettero uno statuto, La capanna del “Club La Bohème” che prevedeva fra l’altro il divieto di giocare a carte onestamente e di lasciare vuoti di silenzio. Tra gozzoviglie, bevute, chiacchierate, sperimentarono una vita bohémienne e Puccini compose “in diretta” quella che sarebbe divenuta la più celebre fra le sue opere ed anche il suo titolo melodrammatico più rappresentato al mondo. Ovviamente al Club si unirono anche i librettisti Luigi Illica, autore della sceneggiatura e della prima stesura dell’opera e che già aveva collaborato a Manon Lescaut, e Giuseppe Giacosa il quale traspose il dialogo in versi. Illica e Giacosa in tandem stabile avrebbero poi ancora firmato i libretti per Tosca (1900) e Madama Butterfly (1904). La composizione si alternava con momenti dedicati alla caccia, con viaggi all’estero e con episodi fuorvianti, come il celebre incontro con Giovanni Verga a Catania nel quale aveva pensato di musicare La Lupa, in un clima intenso di euforia per Puccini. Ai quadri successivi il compositore lavorò nella propria casa di Pescia, terminando il secondo il 23 luglio ed il terzo il 18 settembre. Dunque, quasi un anno di lavoro nel quale non mancò di dedicare attenzione vivissima al lavoro, arrivando ad estenuare i suoi collaboratori. Fra le modifiche imposte ai librettisti, ci fu anche la soppressione del terzo atto scritto da Illi- ca, “Il cortile della casa di Via Labruyère”, con la festa di Musetta, tratto da un episodio del VI capitolo del romanzo di Murger e che costituiva il secondo atto della Bohème di Leoncavallo. Ma ci fu anche, da parte del compositore, l’attenzione per il «color locale», la cura per l’ambientazione, per i particolari, per la caratterizzazione dei personaggi, che hanno fatto di un’opera priva di trama un autentico capolavoro. Al quarto ed ultimo quadro cominciò a lavorare il 22 settembre per terminarlo poi a Torre del Lago il 10 dicemb e quando annotò sul manoscritto - come sua abitudine - «a mezzanotte, Torre del Lago». Si racconta che la morte di Mimì fu composta al pianoforte durante una serata del Club e che il primo a piangere, mentre improvvisava,sia stato proprio Puccini, il quale, in una lettera del 10 novembre del 1895, raccontò dell’«effetto di avere visto morire una sua creatura». La scelta di Torino per il debutto adatti ad interpretare i personaggi. Mimì sarebbe stata Cesira Ferrani, la prima Manon Lescaut, Musetta era Camilla Pasini. La voce di Rodolfo era di Evan Gorga, quella di Marcello era di Tieste Wilmant. Schaunard era Antonio Pini-Corsi, creatore del ruolo di Happy nella Fanciulla del West, Colline era Michele Mazzara e le due parti di Benoît e Alcindoro furono eseguite da Alessandro Polonini. Anche il direttore d’orchestra non fu il Maestro Mugnone, a cui Puccini aveva pensato, ma dal direttore stabile del Regio, un giovane di 28 anni ancora poco conosciuto, Arturo Toscanini. La “prima”, il 1 febbraio del 1896, ebbe un buon riscontro da parte del pubblico, ma lontano dal successo di Manon Lescaut. La critica accolse con freddezza quella Bohème, commovente all’ascolto ma che, a giudizio di molti, non avrebbe lasciato «grande traccia nella storia del teatro lirico». Il pubblico invece, via via che si succedevano le repliche, si dimostrò sempre più entusiasta, fino alla celebre rappresentazione diretta da Mugnone al Teatro Massimo Palermo, l’8 aprile 1896, che dette inizio alla fama mondiale dell’opera. L’anno successivo La Bohème aveva già fatto il giro del mondo. e. Ca. Mentre l’orchestrazione era ancora in corso, Puccini cominciò a discutere con l’editore Giulio Ricordi il luogo del debutto. Avrebbe preferito una città lontana da Milano, come Roma o Napoli, ed invece alla fine fu costretto al «bis in idem» di Manon Lescaut, al Teatro Regio di Torino. Il Compositore seguì personalmente l’allestimento e le prove e si dimostrò abbastanza ottimista nei confronti del cast imposto da Ricordi. Un cast che non era formato dalle voci di prima categoria che egli avrebbe desiderato, ma da nuovi cantanti “moderni”, forse non eccellenti nella vocalità, ma Manifesto della prima rappresentazione de La Bohème Il Giornale dei Grandi eventi La Bohème 7 Analisi Musicale Bohème, un lavoro perfetto nella costruzione teatrale e melodica «S ono andati? Fingevo di dormire…». Siamo al quarto atto di Bohème, all’epilogo. Mimì giace sul letto nella fredda soffitta di Rodolfo. Gli altri (Schaunard, Marcello, Colline e Musetta) hanno lasciato soli i due amanti, per l’estremo addio. «Fingevo di dormire», sospira Mimì e Puccini ne prepara la morte con una di quelle geniali intuizioni che hanno fatto grande il suo teatro. Un lirismo teso e sussurrato di cui, curioso, si sarebbe ricordato poco tempo dopo Janacek chiudendo la sua Jenufa con la stessa frase musicale (e i bassi discendenti verso il grave). Uomo di teatro, oltre che solido musicista, Puccini ha toccato in Bohéme una delle sue punte più alte, per invenzione melodica, trattamento orchestrale, intuizioni armoniche. Quattro atti, brevi, nei quali commedia e tragedia si mescolano continuamente con toni leggeri qua e là spazzati via dal presagio di una morte annunciata già nella prima scena, quando Mimì entra nella soffitta di Rodolfo e ha un breve malore («Che viso da malata», dice lui ammirandola). Il passaggio incisivamente scandito dal sorriso al pianto rispecchia la vita disordinata ma piena di passioni e di sogni del gruppetto d’artisti. Puccini paga il Il mainifesto de La Bohème di Adolf Hohenstein (1895) suo maggior tributo al Falstaff verdiano. Un discorso musicale continuo, fluente in modo ininterrotto nel quale magicamente si coagulano slanci lirici di straordinario impatto emotivo e una declamazione incisiva e chiara, attenta alla comprensibilità della parola. Un discorso musicale nel quale affiora anche l’idea del Leit-motiv, associato a Mimì: un uso, sia chiaro, assai diverso da quello che ne ha fatto Wagner, una citazione melodica che appare quando in scena c’è la umile fioraia, una sorta di “sigla” del personaggio che non entra però nel meccanismo elaborativo musicale. Un discorso, ancora, che mostra una intuizione armonica di estremo interesse: quasi in contemporanea a Debussy, Puccini indugia su quinte aumentate, none parallele senza risoluzione, accordi perfetti accostati senza una rigida logica “tonale”. La sua è una tonalità “allargata” e in questo Puccini è davvero un musicista europeo che sa misurarsi con quanto accade al di fuori dei nostri confini: lo dimostra in Bohème come l’aveva già fatto in Manon Lescaut (il “Tristano italiano” è stato definito) e come l’avrebbe in seguito ribadito in Turandot dal sapore quasi espressionista. Una costruzione perfetta Caricatura di Puccini al pianoforte Ma pensiamo al primo incontro fra Mimì e Rodolfo. Lei bussa, entra con la candela spenta, appare, nella sua modesta semplicità trasformata rispetto alla figurina intraprendente e un po’ pazzerella dello scrittore francese Murger: riabilitazione della protagonista femminile che si era già riscontrata in Manon Lescaut e che costituisce una regola del teatro pucciniano. Il musicista costruisce un duetto diviso in più parti. Dopo i convenevoli, quando al chiaro di luna, lui le prende la mano si spalanca il primo squarcio di pura melodia: «Che gelida manina, se la lasci riscaldar». Poi, terminata la sua presentazione Rodolfo si rivolge a Mimì («Deh parlate, chi siete, vi piaccia dir») e lei, come proseguendo il discorso, attacca «Sì, mi chiamano Mimì…». Si chiudono le presentazioni e dopo un veloce richiamo dalla strada da parte degli amici, scoppia la passione e le voci si uniscono: «O soave fanciulla». Scorre la musica, ma le pause, genialmente inserite, consentono l’applauso che arriva inesorabile dopo la parte del tenore e dopo quella del soprano. In linea con quanto si può riscontrare nel coevo teatro italiano (a partire da Cavalleria rusticana) anche in Bohème, infatti, vengono superate le classiche strutture formali del teatro italiano ottocentesco. Il discorso si fa più fluido e libero, costruito sulla base delle esigenze drammaturgiche e, nel caso di Puccini, con un taglio talvolta “cinematografico” che ha fatto indicare nel Lucchese uno dei primi compositori di “musica da film”. Nello stesso tempo, Puccini non rinuncia al consenso della platea e per questo il duetto è suddiviso in parti “quasi” chiuse alla fine delle quali la reazione dei melomani è scontata: o si applaude (nella maggior parte dei casi) o si fischia. Scena, dunque, di forte teatralità cui, e siamo nel secondo atto, si contrappone la coralità festosa e chiassosa del Quartiere Latino. Puccini volta pagina, architetta un dia- logo serrato davvero legato all’ultimo Verdi nella sua spigliatezza e fluidità. Il Valzer di Musetta aggiunge un elemento di leggerezza e freschezza in più, anche per l’abilità del musicista di inserirlo e compenetrarlo nella scena. Alla fine dei due primi atti i personaggi sono ormai presentati, la vicenda si è snodata, i giochi sono fatti. Gli ultimi due tendono al dramma, anche se la tenace voglia di vivere bohemien offre ancora motivi di sorriso e d’ironia. Il dramma si preannuncia chiaramente sotto la neve della Barriera d’Enfer. Fredda mattinata, riflesso meteorologico di un gelo che sta per abbattersi sui sogni d’amore di Rodolfo, Marcello, Mimì e Musetta. «Mimì è tanto malata», confessa Rodolfo all’amico e l’attacco della frase, quasi un declamato sulla stessa nota, ha l’andamento di una marcia funebre. Poi il duetto con Mimì che genialmente si trasforma in un quartetto (si aggiungono Marcello e Musetta) in una straordinaria mescolanza di passioni contrastanti, litigi e frasi d’amore. Colpisce qui, come altrove, la capacità di Puccini di cogliere magistralmente i caratteri e le situazioni giocando sul colore delle melodie oltre che sulle melodie in sé. Si arriva così all’ultimo atto. I quattro giovani hanno ancora voglia di ridere, di scherzare. Giocano, fingono danze e duelli e quest’atmosfera gioviale rende ancor più pesante l’ingresso di Musetta: Mimì è quasi morente per le scale. «Vecchia zimarra», cantata da Colline è l’ultima perla della partitura, l’addio ad un oggetto amato, la resa finale. Crolla tutto, perché con Mimì muore non solo un’amica e una donna amata, muore la vita stessa, la speranza. Per questo gli accordi che accompagnano i singhiozzi di Rodolfo suonano tragici, violenti, urlati, ma anche eroici. Sembrano eccessivi se rapportati alle piccole cose della scena, alla cuffietta, al manicotto. Eppure danno il senso di una grande, incommensurabile tragedia, di fronte alla quale, ancora oggi, nel chiudersi del sipario, tanti spettatori furtivamente asciugano una lacrima. roberto Iovino La Bohème 8 Il Giornale dei Grandi eventi Il pneumologo prof. Sanguinetti ci spiega la malattia di Mimì che si pensava debellata Tubercolosi in pericolosa recrudescenza P er secoli si è parlato di “Mal sottile”, di una malattia delle persone troppo sensibili, quasi un mal d’amore. «In effetti la consunzione derivante dalla Tubercolosi – ci spiega il professore Claudio Maria Sanguinetti, direttore dell’Unità di Pneumologia dell’Ospedale San Filippo Neri a Roma - debilita a tal punto le persone da togliergli ogni forza, facendole inesorabilmente progredire verso l’exitus della malattia, quasi sempre fatale. Un tempo si pensava che il male fosse indotto dalla tristezza della persona, dalla sua depressione o malinconia, dal suo animo troppo gentile». Se la tubercolosi era conosciuta fin dal tempo della medicina greca e romana, si è dovuto attendere il 1882 quando Robert Koch annunciò alla Società Medica di Berlino la scoperta dell’agente eziologico specifico, chiamato comunemente in suo onore “Bacillo di Koch”. Dovettero però passare ancora 60 anni per arrivare, alla fine degli anni ’40 del ‘900, alla scoperta di un valido farmaco antitubercolare, la Streptomicina. «Prima di allora – continua il professor Sanguinetti – si agiva con la terapia fisiomeccanica, che consisteva nel procurare dei pneumotoraci per – diciamo così - “sgonfiare” il polmone e tenerlo a riposo, in modo tale che le cavità necrotiche scavate dalla malattia nel parenchima tendessero a non espandersi». d. ma che cosa è la Tubercolosi? «È una malattia infettiva causata da un micobatterio, il mycrobacterium tuberculosis (il bacillo di Kock) varietà Hominis, che si contrae preferenzialmente per via aerogena oppure per contatto con gli animali infetti (varietà bovis), magari attraverso il latte non sterilizzato. Dato il tipo di trasmissione principale per via aerogena, nella maggioranza dei casi il microbatterio in prima istanza si localizza nell’apparato respiratorio, dal quale può diffondersi ad altre sedi dell’organismo, diventando TBC ossea, renale, ecc. Queste forme extrapolmonari è rarissimo che siano primitive». «Importante è dire che entro una certa età, oggi quella scolare della terza media – 14 anni – la maggioranza dei soggetti ha già incontrato il bacillo di Koch. Ma questo “incontro” non significa “malattia”. L’organismo ha, infatti, naturali poteri di difesa e l’attacco tubercolare primario avviene nella maggioranza dei casi a livello di infezione momentanea e non di malattia. Questo contatto leggero con il bacillo è importantissimo, soprattutto in età giovanile, perché produce una memoria immunologi- Mappa della diffusione della Tubercolosi nel mondo ca e la c.d. reattività tubercolinica, ovvero crea nell’organismo una sorta di maggiore resistenza che solitamente dura moltissimi anni. Di questo primo incontro, che solitamente è scambiato per una semplice polmonite, possono rimanere dei reliquati. Solitamente ce ne accorgiamo casualmente dopo tanti anni, facendo una radiografia. Si noterà una sorta di ghiandoletta calcificata. Lì è avvenuto l’incontro con il bacillo, che si è risolto con questo piccolo esito detto “complesso primario”». «In generale, infatti, la malattia non insorge al primo incontro con il bacillo, a meno che l’individuo non sia particolarmente debilitato o sia investito da una carica di bacilli molto importante. Insorge in una fase successiva, quando il bacillo riesce a superare le difese dell’organismo magari debilitato e riesce ad insediarsi creando una lesione a livello polmonare od in altre sedi. La malattia si presenta nella maggioranza dei casi come un infiltrato polmonare, al pari di una comunissima polmonite, ma se si prelevano campioni ci si trova il bacillo di Koch». Il bacillo di koch e la sua trasmissione «Il bacillo – continua il professor Sanguinetti, che sulla sua scrivania tiene un grosso boccale pieno di matite: «sono una mia piccola passione», dice – si presenta a forma di bastoncelli con le estremità arrotondate. É molto infettivo, ma non è particolarmente resistente all’esterno dell’organismo. Si trasmette con le solite goccioline di “pflugge”, cioè con l’escreato proiettato dalla tosse del malato. Ma nell’ambiente, a meno che non sia localizzato e protetto nella parte più interna dell’espettorato, muore». «Il problema della trasmissione è legato alla sovrappopolazione. Ecco perché i picchi di malattia si registrano parallelamente alla evoluzione industriale, alla scarsa igiene e la scarsa salubrità degli ambienti, come la soffitta di questa Bohème. Quando la popolazione comincia a vivere ed a lavorare in spazi ristretti, le possibilità di contagio aumentano in maniera vertiginosa». d. Si può guarire dalla Tubercolosi? «Qualche anno fa, guardando radiografie con oscure presenze a livello polmonare, i medici dicevano: «speriamo non sia tubercolosi». Oggi di fronte al problema dei tumori diciamo: «Speriamo sia tubercolosi!» In effetti nella maggioranza dei casi di pazienti senza fattori di rischio (HIV positivi, farmacoresistenti) dalla TBC si guarisce in sei mesi di cure con farmaci adeguati. La curva di mortalità della malattia cominciò a scendere ai primi del Novecento. Prima la TBC era fatale per oltre il 50% dei casi. Dopo la scoperta del bacillo si acquisì la coscienza di malattia infettiva e, pur non esistendo una cura, furono adottate misure di sanità pubblica per limitarne la diffusione. In Italia siamo stati all’avanguardia nel contrasto alla malattia e nel controllo epidemiologico. Nel Ventennio fascista fummo i primi a formare la cosiddetta “catena dei Sanatori (dove avvenivano i ricoveri) e dei Dispensari (luoghi per controllo di massa)”, ovvero quelle unità di osservazione nelle quali avveniva lo screening di massa di tutta la popo- lazione. Queste strutture, unite all’introduzione della assicurazione obbligatoria (istituita nel 1927, n.d.r.) ed alla relativa indennità che a fronte di un assegno stimolò la denuncia della malattia, portarono ad una grossa vittoria sulla Tubercolosi. Alla fine degli anni ’70, però, con la riforma sanitaria, sanatori e dispensari furono smantellati. In pratica, questo si è rivelato un danno, poiché si sono persi importantissimi osservatori epidemiologici che monitoravano anche altre malattie, come il tumore polmonare. Solo ora stiamo ricreando delle sorta di osservatori con iniziative nazionali. Ci sono stati però vent’anni in cui abbiamo perso l’evolversi della patologia respiratoria italiana. In Italia, grazie anche a questo monitoraggio, siamo stati all’avanguardia a livello mondiale nella lotta alla malattia con eminentissimi cattedratici e farmacologia specifica: il farmaco principale, la Rifampicina, è una scoperta e produzione italiana». Nuovo allarme mondiale «Ora però siamo nuovamente a livello di allarme mondiale. Il riacutizzarsi delle infezioni è dovuto ad una serie di cause: in primo luogo l’infezione da HIV (il virus dell’AIDS) che ha aumentatato la suscettibilità di alcuni individui al primo contatto con il bacillo. E la Tubercolosi è la malattia principale di cui si ammalano i pazienti HIV positivi. È proprio questo incontro malattia-sieropositività che definisce i casi di AIDS. In secondo luogo c’è il gravissimo problema dell’immigrazione: la Tubercolosi ha un fortissimo serbatoio in Africa. Ma anche dai Paesi dell’Est europeo arrivano problemi, perchè in quelle zone le campagne farmacologiche, a causa di problemi economici, sono state discontinue, causando un aumento delle resistenze dei batteri agli antibiotici, per cui oggi si devono sperimentare nuove medicine». «C’è poi un problema inverso: la minore diffusione del virus Il La Bohème Giornale dei Grandi eventi 9 La storia della Tubercolosi Quella “Peste bianca”, esplosa con l’urbanizzazione e divenuta anche “malattia romantica” L Robert Koch al suo tavolo di lavoro ha fatto alzare l’età media del primo contatto con il batterio. Anche in Italia le giovani generazioni sono meno resistenti e quindi più facilmente contagiabili da una quantità di batteri superiore al normale. La vita è una lotta continua tra noi che ci difendiamo e l’ambiente che tenta di attaccarci.». d. ma perché si muore di consunzione, come mimì? «La Tubercolosi è una malattia infettiva a lenta progressione, che se non curata provoca un progressivo deperimento dell’organismo. Nella parte terminale della patologia - come avviene nel tumore - il paziente lasciato a se stesso dimagrisce e si consuma per il rilascio da parte dei bacilli di mediatori e sostanze tossiche. La morte per tumore ha un parallelo con quella da Tubercolosi che si aveva fino all’inizio degli anni ’50, dovuta alla mancanza di farmaci specifici. Fino a quel momento la TBC veniva curata con presidi non farmacologici, cercando di rinforzare l’organismo attraverso una migliore e più concentrata alimentazione o mandando i malati in montagna, al sole (elioterapia, specie per le forme ossee), in modo da rinforzare in generale l’organismo e renderlo più reattivo contro il bacillo». «Precedentemente alla scoperta di Koch questa consunzione veniva attribuita ad una alterazione dell’umore, della psiche, dei sentimenti. Su questo si innestarono atteggiamenti sociali. Tra ‘700 ed ‘800 si è passati da una società dove la nobiltà era la classe dominante ad una dove il predominio era della borghesia. Gli obesi erano considerati volgari, attaccati a cose terrene. Così la tubercolosi con la sua consunzione divenne espressione di un animo nobile. Si ritornava pallidi, magri, verso canoni estetici più delicati, ad una interiorità, piuttosto che alla grassa opulenza dei nuovi ricchi, privi di qualsiasi forma di poesia. Parallelamente esisteva il concetto di malattia come punizione per una colpa e nel Medioevo chi si ammalava di Tubercolosi veniva considerato dissoluto, per aver fatto un cattivo uso del proprio corpo. Anche Violetta nella Traviata subisce una sorta di espiazione attraverso la malattia». «Ma dopo che Koch dimostrò trattarsi di malattia infettiva ed i malati vennero allontanati, è subentrata la metafora del distacco Crepuscolare. E poi, Thomas Mann che ne fece un percorso iniziatico: solo chi si ammalava riusciva a diventare un artista. La Tubercolosi in questo modo è stata mitizzata nei secoli. Per tutto questo, il malato di Tubercolosi non si è quasi mai sentito discriminato come ora avviene con l’AIDS. Negli anni ’80 la TBC è diventata un problema degli emarginati del mondo, ma ora con i fenomeni immigratori è tornato problema nostro». «La Tubercolosi è la metafora della globalizzazione: dobbiamo smettere di pensare di vivere in un mondo felice in cui possiamo sconfiggere qualsiasi malattia. Questa malattia di cui conosciamo tutto, compresa la terapia e della quale avevamo celebrato la fine, è tornata più forte di prima». andrea marini a storiografia e la letteratura medica più recente hanno metaforicamente definito la Tubercolosi, “peste bianca” e “grande assassina”, in ragione del pallore cadaverico dei malati e per il fatto che dal XVI secolo, sino a metà Ottocento, circa il 25% di tutte le morti in Europa erano verosimilmente dovute a questa malattia. La parola “Tubercolosi” risale al 1862, e per secoli erano stati utilizzati nomi diversi per indicare una malattia spesso confusa con altre, a causa della mancanza di una netta specificità dei segni clinici. “Tisi” e “Consunzione” erano i termini più concordanti per la forma polmonare. Nel 1882 Robert Koch dimostrava, infine, che i caratteristici tubercoli caseosi sono dovuti all’infezione da parte di un batterio specifico (Mycobacterium tubercolosis). Da quel momento la diagnosi della malattia è diventata eziologica. dagli animali all’uomo L’uomo ha contratto il batterio della tubercolosi dai primi animali domestici, nella fattispecie dai bovini. Lesioni ossee descritte in alcune mummie egizie del 2400 a.C. vengono attribuite alla tubercolosi e nei poemi omerici sono già presenti allusioni a malattie di petto, con decorso lento e progressivo deperimento. Alla fine del V sec. a.C. si trova chiaramente descritto nei testi ippocratici il tipico quadro clinico: febbre, tosse, sputo con sangue, aspetto emaciato e perdita dei capelli. Il termine usato per tale condizione era phthisis, che significava estinzione, ovvero diminuzione e deperimento. La malattia era endemica nell’antica Grecia e nella Roma Imperiale. I medici romani consigliavano le cure più diverse: dai bagni nell’urina umana al sangue di elefante, dal fegato di lupo al latte fresco. A seconda dei tempi e dei luoghi si è consigliato il riposo o l’esercizio fisico, il salasso e il digiuno o un’alimentazione abbondante, i viaggi in montagna o la permanenza a livello del mare. malattia romantica Per spiegare le epidemie di Tisi, la medicina ippocratica ricorreva all’influenza di fattori ecologici, in modo particolare alle condizioni metereologiche, alle influenze telluriche e regime alimentare. Ma molta importanza veniva attribuita anche alla costituzione della persona, intesa come espressione globale della mescolanza individuale degli umori. Di fatto, fino alla fine dell’Ottocento la Tisi fu considerata soprattutto una malattia ereditaria e l’idea prevalente era che «il tisico nasce dal tisico». Nell’età romantica, prima della scoperta dell’eziologia microbica, la consunzione venne anche associata alla costituzione delle persone dotate di talento, in particolare artistico, ed era una sorta di marchio stilistico della bellezza tragica. Il numero cospicuo di artisti che sono stati col- piti e uccisi dalla tubercolosi, e che ne hanno scritto durante l’Ottocento e la prima metà del Novecento riflette l’impatto epidemiologico particolarmente drammatico che assunse la tubercolosi in coincidenza con i processi di urbanizzazione e industrializzazione in tutti i paesi europei e negli Stati Uniti. Affollamento delle abitazioni, scarsa igiene, cattiva nutrizione ed eccessivo sfruttamento fisico sono fattori ambientali che favoriscono la diffusione della malattia. Agli inizi dell’Ottocento a Londra e a Parigi le autopsie mostravano che nell’ambito di alcune popolazioni urbane quasi il 100% aveva contratto la malattia. A partire dal 1860 la tubercolosi cominciò a declinare grazie al progresso economico, che migliorava le condizioni abitative e alimentari in generale, al miglioramento dell’igiene e alla diffusione dei sanatori. Questi ultimi, erano istituti di cura, situati in località con climi particolari e il principio che aria pulita, sole, quiete, buona alimentazione e bellezza del paesaggio avessero terapeutici era in un certo senso valido per una malattia il cui decorso dipende dalle condizioni immunitarie dell’ospite. Anche la chirurgia contribuì a rendere trattabile la malattia. L’introduzione degli antibiotici, a metà degli anni Quaranta del Novecento, accentuò il declino della tubercolosi. Fino circa vent’anni fa. In Italia a questa vittoria contribuì in modo fondamentale le campagne di lotta e prevenzione varati durante il periodo fascista. Ma poi lo smantellamento dei programmi di controllo nella maggior parte dei paesi occidentali, sulla base dell’idea che la malattia fosse destinata ad estinguersi, l’aumento del numero di persone che per varie cause, in particolare migrazioni, vivono in condizioni in povertà e precarietà abitativa, l’aumento del numero di tossicodipendenti nella stesse condizioni, l’epidemia di HIV e lo sviluppo di ceppi di bacillo resistenti agli antibiotici hanno favorito il riemergere della tubercolosi. Oggi sono circa 10 milioni i nuovi casi ogni anno, e la tubercolosi è ancora la malattia infettiva che causa il maggior numero di morti: circa 3,5 milioni, concentrati nei paesi in via di sviluppo. gilberto Corbellini Ordinario di Bioetica e Storia della Medicina Università La Sapienza di Roma La Bohème 10 Il Giornale dei Grandi eventi Un aspetto poco conosciuto del Maestro Puccini poeta: tra rime sarcastiche e versi delicati C he Puccini sia stato un musicista, un uomo di teatro, un artista squisito ed agguerrito, adorato oppure odiato, non v’è dubbio. Ma è altrettanto vero - anche se la cosa è a molti ignota - che, accanto alle composizioni musicali, egli scrisse anche un certo numero di composizioni poetiche: alcune sono vere e proprie poesie, molto più spesso pochi versi in rima. La rima è, infatti, l’elemento pressoché costante che accomuna questi... “parti letterari”. Ma perché il musicista si trasformava, a volte in... poeta? Essenzialmente per “alleggerire” una fitta rete di corrispondenza con i personaggi più vari. A ciò si deve aggiungere che l’artista, il letterato, il “borghese” di allora amava indulgere, forse più di quanto non avvenga oggi, alla battuta facile, scherzosa, mordace, spesse volte innocentemente sboccata; ed era caso abbastanza frequente per lui scrivere, o ricevere, una lettera total- Giacomo Puccini in una foto con sua dedica del 1906 mente in rima o che terminava con qualche verso spesso “macheronicus”, specialmente se il corrispondente era persona amica. Alcune di queste “rime” sono vere poesie, a volte musicate da lui stesso; altre, dediche scherzose su fotografie o su edizioni delle sue opere, donate amichevolmente; altre, infine, versi-guida per i suoi librettisti i quali, su questi precisi schemi ritmici, dovevano stilare i versi definitivi. Fra gli amici di Puccini c’era il medico Guglielmo Lippi, prematuramente scomparso, il cui figlioletto Memmo fu protetto, quasi adottato da un altro amico comune, Alfredo Caselli, intimo in amicizia con Giovanni Pascoli. Per questo bambino Giacomo nel 1899 scrisse una semplice e carezzevole ninna-napna per canto e pianoforte, su testo di Renato Fucini, intitolata E l’uccellino. 54 battute, musicate in 2/4, nella tonalità di re maggiore che iniziano: E l’uccellino canta sulla fronda: / dormi tranquillo, boccuccia d’amore: / piegala giù quella testina bionda, / della tua mamma posala sul cuore. Altro amico era Luigi Pieri, funzionario delle Poste milanesi, col quale l’amicizia non soltanto rimase costante nel tempo, ma, forse per il fatto di essere entrambi trapiantati nella stessa città, venne continuamente rafforzata ed estesa pure ai rispettivi congiun- ti.. Giacomo e i suoi parenti erano “di casa” nella famiglia Pieri. Il maestro era particolarmente adorato dalla figlia del suo amico, la piccola Mietta, che lo considerava uno zio. Ad essa Puccini inviò spesso spartiti e fotografie con dediche gentili e scherzose. Su uno spartito di Bohème, regalato alla fanciulla, 8 versi ispirati dal successo della sua opera, sono appunto una dedica. Riguardo all’anno della sua stesura, si potrebbe azzardare qualche anno dopo il 1896 quando uscì, per i tipi della Ricordi, la prima edizione stampata dello spartito La Bohème colla speme vive e gode! Passan mode passan anni cogli affanni: la Bohème nulla teme! L. di. d. L’origine del termine Bohémien Da dispregiativo per i nomadi a vezzeggiativo artistico L e parole che compongono una lingua possono, nel corso della propria storia, evolversi ed assumere diversi significati ed accezioni. Bohémiens in realtà è il termine con cui in francese si definiscono le minoranze nomadi della Boemia, ora regione della Repubblica Ceca. Per molto tempo ci si riferì a loro con disprezzo, come a un popolo di ladri e malfattori senza fissa dimora e senza nessuna preoccupazione per il proprio futuro. E’ a partire dagli inizi dell’800 che, grazie ad una nuova sensibilità e qualche pregiudizio in meno, si fece strada un nuovo significato. Autori come Honorè de Balzac (1799-1850), George Sand (18041876), Victor Hugo con i suoi Miserables, ma soprattutto Henri Murger 822-1861) furono tra i primi a svelare il fascino della vita vagabonda in semplice povertà di un gruppo di persone (la bohème, per l’appunto) che non cerca ricchezze e vive in comunione per la musica e l’arte, contrapponendosi alle rigide regole del vivere borghese. Per Murger, questo stile di vita assume tale importanza da essere considerato una tappa fondamentale della vita artistica. Nella prefazione di Scènes de la vie de bohème, che costituisce quasi un documentario della vita bohémienne parigina intorno al 1840, egli individua tre tipi fra i tanti bohémiens che frequentano il Quartiere Latino di Parigi: gli artisti sconosciuti che evitano la notorietà e che spesso muoiono di fame; i giovani, provenienti da fa- miglie borghesi che scelgono di vivere in bohème per puro divertimento, sapendo di avere una famiglia alle spalle presso cui possono tornare in qualsiasi momento; infine, chi cerca la più vasta popolarità guidato dall’ambizione o dalla stravaganza, pronto a adattarsi allo squallore come alla lussuria. Alla fine dell’Ottocento, la bohème andò gradualmente estinguendosi, scomparendo definitivamente all’inizio della Prima Guerra mondiale. Tuttavia, nel XX secolo, sorsero molti movimenti in stile bohème, si pensi alla beat generation e agli hippies. In Italia, il termine bohémien si diffuse inizialmente con un tentati- vo di equivalente nella parola “scapigliatura” coniata da Cletto Arrighi (1830-1906) o anche con il francesismo “boemme”, che propriamente vuol dire “vita da zingaro”. Oggi, praticamente in tutto il mondo, la parola bohème è usata a indicare un modo di vita anticonformista, legato alla giornata. L. Pe. Il Giornale dei Grandi eventi La Bohème 11 La scoperta del nostro collaboratore Quel brano marinaresco diventò il Valzer di Musetta «…Ha in sommo grado quelle doti che rendono così simpatico e così applaudito l’autore; una vera eleganza, un equilibrio costante, una teatralità che non si smentisce mai e che rivela nel Maestro la perfetta conoscenza del teatro odierno e delle esigenze del pubblico… ». Commentava così nell’ottobre 1896 Lorenzo Parodi, critico musicale del “Caffaro”, dopo il debutto a Genova di Bohème di Giacomo Puccini. Fra il Lucchese e Genova era stato “amore a prima vista” sin dal 1887 quando il Carlo Felice aveva ospitato Le Villi, tre anni dopo il debutto al Regio di Torino. Da allora ogni rappresentazione delle opere pucciniane era stata garanzia di successo e di “esauriti” nelle principali sale cittadine, il Carlo Felice, appunto e il Politeama Genovese. Per i genovesi Puccini divenne un idolo. Basta ricordare il curioso gesto di un libraio che battezzò la figlia neonata Butterfly, per esprimere la propria solidarietà all’artista, dopo il fiasco di Madama Butterfly del 1904! Ma anche Puccini seppe ripagare i genovesi di tanto amore dedicando alla Superba due pagine musicali inserite successivamente nella Bohème. Ben conosciuta è la lirica “Sole e amore” il cui testo recita: «Il sole allegramente batte ai tuoi vetri. Amor piano piano batte al tuo cuore e l’uno e l’altro chiama. Il sole dice: ‘O dormiente mostrati che sei bella’. Dice l’amore: ‘Sorella, col tuo primo pensier, pensa a chi t’ama?… ». Composta nel 1888, la lirica fu donata nello stesso anno alla rivista musicale “Paganini” di Genova (fascicolo n.23, anno II). La pagina si concludeva con la dedica musicata «A Paganini, G. Puccini», in sostituzione delle originarie parole «Il primo marzo dell’Ottantotto», probabilmente la data di composizione. è interessante notare che “Sole e amore” si trasformò poi nel quartetto (Mimì, Musetta, Rodolfo e Marcello) del III atto, appunto della Bohème. Il Valzer di musetta Meno conosciuta è invece l’origine genovese di un’altra celebre pagina di Bohème che lo scrivente ha avuto la ventura di ritrovare (grazie alla collaborazione di Roberto Beccaria, bibliotecario alla Biblioteca Berio di Genova) e di pubblicare in uno studio sui teatri genovesi scritto con Ines Aliprandi. Nel settembre 1894, in occasione della consegna della bandiera di combattimento alla corazzata Umberto I, il periodico “Armi ed Arte” (direttori Egisto Roggero e Temistocle Bousquet, editrice Montorfano di Genova) pubblicò un numero speciale e chiese la collaborazione di vari artisti, scrittori e musicisti. Alberto Franchetti inviò un “Tempo di marcia”, Luigi Mancinelli una romanza (“Alla mia Luisa”), Edoardo Trucco una canzone marinaresca (“Onda turchina”). Puccini regalò un “Piccolo valzer” pianistico la cui didascalia iniziale «Con ondulazione» indica l’origine e la destinazione marinaresca. Lo stesso autore spiegò che la composizione gli era stata ispirata dall’ondeggiare della barca nel lago di Massaciuccoli dove era solito andare a cacciare. Il valzer passò poi nel II atto di Bohème e divenne, pressoché inalterato, il famoso Valzer di Musetta. Scritto nella tonalità di mi maggiore, un accompagnamento essenziale, mosso da un leggero arpeggio interno che suggerisce “l’ondulazione” indicata in apertura, il Valzer è di estrema piacevolezza e ben rispondeva alle esigenze del giornale che richiedeva pagine di facile esecuzione per i propri lettori. Affidato successivamente a Musetta, il Valzer si è poi trasformato nello spirito, pur rimanendo identico musicalmente, per rendere genialmente il carattere estroso, brillante e capriccioso della figurina di Murger: un quadretto delizioso che fissa indelebilmente non solo il personaggio ma l’ambientazione festosa del Quartiere Latino. roberto Iovino Il Romanzo di Henri Murger “Scènes de la Vie de Bohème” Dalla soffitta abitata da Murger alla disputa Puccini-Leoncavallo P uccini con l’opera La Bohème rese proverbiale quel termine francese che oggi, nel linguaggio comune, indica con una sola parola il periodo povero, allegro e turbolento che precede l’affermazione di un artista. Ma non ne fu l’inventore. Il musicista trasse infatti soggetto e titolo da un romanzo dell’autore francese Henri Murger. Nato nel 1822, Murger all’epoca era un giovanotto di ventitré anni, pieno di sogni e di speranze, che viveva con un amico in una povera soffitta. E proprio partendo dalle sue esperienze autobiografiche, cominciò a pubblicare tra il 1945 e il 1949 su “Le Corsaire Satan” (periodico diretto da Gérard de Nerval) dei brevi bozzetti intitolati Scènes de la bohème, in cui narrava del sottobosco artistico parigino. Si rivelarono freschi e graziosi: allora su consiglio di Jules Janin e con la collaborazione di Théodore Barriere, ne trasse nel 1849 una commedia intitolata La Vie de bohème. Il successo fu tale da indurre l’editore Lévy a pubblicare nel 1851 il libro, che rimaneggiava i vecchi bozzetti e che nel titolo riprendeva i due titoli precedenti: Scènes de la vie de bohème. Con la commedia e la successiva pubblicazione del romanzo, Henry Murger poté infine abbandonare la soffitta in cui viveva: la sua bohème era terminata nel migliore dei modi ed egli era divenuto uno scrittore affermato. Ma pur avendo pubblicato in seguito altri libri, il suo nome rimase legato all’operina di gioventù. Un successo tanto improvviso e violento quanto effimero, il cui ricordo sarebbe stato cancellato dalla scomparsa prematura dell’autore (che morì a 39 anni, nel 1861), se il romanzo, una trentina d’anni dopo, non fosse capitato nelle mani di Puccini. La decisione di Puccini di musicare un libretto tratto dal romanzo di Murger scatenò però la polemica con Ruggero Leoncavallo, che ave- va avuto prima la medesima idea. La discussione andò a finire sui giornali milanesi: “Il Secolo”, di proprietà dell’ editore musicale Sonzogno, tenne le parti di Leocanvallo, di cui Sonzogno era l’editore, mentre “Il Corriere della Sera” prese le difese di casa Ricordi e di Puccini. Profetiche furono le parole – poi entrate nella storia - con cui Puccini rispose al collega: «Egli musichi, io musicherò. Il pubblico giudicherà. La precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici». due Bohème differenti Profondamente diverso è il modo in cui i due musicisti affrontarono il problema del rapporto col romanzo. Leoncavallo si mantenne assai vicino - forse troppo - alla struttura bozzettistica e rapsodica del libro di Murger, con la sua pletora di personaggi e situazioni. Viceversa Puccini, aiutato da Illica e Illustrazione del 1911 nel Cinquantenario della morte di Henri Murger Giacosa, sfrondò il libretto delle vicende e delle figure superflue, indirizzando e piegando la frammentazione del testo originale entro un unico disegno, sul quale risaltano le figure di Rodolfo e Mimì e di Marcello e Musetta. Ne sortì il capolavoro che tutti conosciamo e che a più di un secolo dalla sua prima rappresentazione, mantiene intatta la fragranza dell’amore, della spensieratezza e della mestizia di cui è impregnato. e. P. La Bohème 12 Il Giornale dei Grandi eventi Il sodalizio tra il compositore ed il primo direttore di Manon e Bohème Amicizia ed incomprensioni tra Puccini e Toscanini N on conosciamo il momento in cui ebbe inizio l’ amicizia tra Puccini e Toscanini. Forse essa dovrebbe risalire al gennaio 1890 quando il ventiduenne Toscanini diresse per la prima volta una composizione del trentunenne Puccini, un’edizione de Le Villi al Teatro Grande di Brescia. Ma si trattava di un’amicizia alquanto formale, poiché è certo che tre anni più tardi i due continuavano ancora a darsi del “lei”. L’anno successivo, mentre Toscanini si trovava a Pisa per cimentarsi per la prima volta con la Manon, scrisse una lettera a Puccini, nella quale gli dette del “tu”: «Domani prima prova d’orchestra con tutti, artisti e masse corali… Se tu vuoi onorarci della tua presenza fallo, e al più presto possibile…». Fu quello lo spettacolo che diede inizio al sodalizio tra Puccini e colui che il biografo pucciniano Mosco Carner definì «il suo interprete preferito». Questi rapporti stretti furono costruiti sulla tomba del grande amico di Arturo Toscanini Toscanini, Alfredo Catalani. Quest’ultimo ammirava molto Toscanini, ed a sua volta era profondamente stimato dal giovane direttore d’orchestra. Così Catalani fece quanto poté per aiutare la carriera di Toscanini nei primi anni. Catalani, che aveva sofferto di tubercolosi per gran parte della sua vita, ebbe l’opportunità per ogni sua opera di ottenere la partecipazione di un librettista esperto. Le sue opere furono pubblicate dalla Ricordi o da Giovannina Lucca, le due case editrici musicali più in voga in Italia. Man mano che le sue condizioni di salute peggioravano, egli diveniva però invidioso di altri giovani compositori – Mascagni, Leoncavallo e, soprattutto, Puccini – e guardava con sospetto chiunque sembrasse aiutarli a qualsiasi titolo. Si era persuaso che persino Giuseppe Verdi volesse distruggerlo attraverso un presunto sostegno per Puccini. Il “gran vegliardo” fu molto offeso da questa accusa infondata ed in una lettera a un critico musicale scrisse a proposito del Catalani «Ho altro per la testa che occuparmi del maestrino lucchese». All’inizio del 1893, con l’avvicinarsi del debutto Manon Lescaut, i timori per un eventuale successo dell’opera divenne per Catalani un’ossessione e poi l’iniziale e poi sempre crescente apprezzamento del pubblico, non fece altro che accre- scere la sua invidia. Aveva capito perfettamente che il destino di Puccini era una fama duratura, mentre il proprio destino era quello di essere dimenticato in fretta. Sei mesi dopo la prima della Manon (Teatro Regio di Torino, 1 febbraio 1893), Catalani morì. Toscanini assistette l’amico malato fino alla fine e fu per lui un lutto sincero. Il dolore per quella scomparsa aveva radici artistiche oltre che personali; era convinto che Catalani avrebbe potuto realizzare opere migliori di quelle di musicisti a suo dire più modesti, quali Leoncavallo e Mascagni. Molti anni più tardi Toscanini, ormai vecchio, disse di Catalani «Penso sempre a lui. Per me il vuoto che lasciò non sarà mai colmato», per quanto non avesse lasciato nessuna opera capace di assicurarsi una popolarità duratura. Il fatto è che si sentiva più vicino all’estetica catalaniana che non a quella di altri, rendendosi conto però che compositori come Mascagni e Puccini avevano realizzato le loro idee con maggiore efficacia di quanto non fosse riuscito con le proprie, l’amico venuto a mancare. La Manon fu accolta clamorosamente a Pisa. “La Nazione” riportò queste parole in una famosa recensione «il maestro fu dal primo atto fino all’ultimo continuamente applaudito. Si presentò alla ribalta per ben venti volte in mezzo all’entusiasmo». Molti commentatori hanno ipotizzato che all’epoca Puccini non fosse ancora quell’uomo di teatro dal fiuto sicurissimo, che sarebbe poi diventato, mentre componeva due anni dopo quella che sa- rebbe stata la sua opera di maggior successo, La Bohème. Bohème che andò in scena per la prima volta al Regio di Torino il 1 febbraio 1896, diretta ancora da Toscanini. Puccini si era inizialmente opposto alla scelta di Torino per il battesimo della sua ultimogenita «Non ne sono troppo contento», scrisse a Giulio Ricordi, «primo perché il teatro è sordo, secondo “non bis in idem” (rispetto a Manon, n.d.r.), terzo il direttore è un omaccio, quarto troppo vicino ai botoli milanesi che mi sfotteranno sicuramente». L’opposizione di Puccini alla scelta di Torino non può essere attribuita ad altra causa diversa dal suo nervosismo puro. Ricordi però insistette sulla città piemontese ed il compositore, una volta arrivato in città per le prove, si tranquillizzò poco a poco: «Ho trovato Toscanini gentilissimo», scrisse il 6 gennaio a Luigi Illica, co-librettista de La Bohème assieme a Giuseppe Giacosa. Per poi aggiungere «L’orchestra! Toscanini! Straordinar!i». La “prima” dette un impeto decisivo ad un proficuo rapporto professionale e ad un’amicizia fragile ma duratura. Puccini voleva affidare anche la “prima” della sua successiva opera, Tosca, a Toscanini scrivendogli: «ricordati che tu devi essere il suo sverginatore». Ma poi per motivi vari non fu così. Il direttore d’orchestra ruppe i rapporti con la Scala nella primavera del 1903, e quindi non diresse la disastrosa prima di Madama Butterfly, che vi ebbe luogo nel 1904. Puccini, ripensandoci anni più tardi, giudicò la mancanza di Toscanini come motivo del fiasco. Altri battibecchi nacquero dai commenti negativi di Toscanini per La Rondine (1917) ed Il Trittico (1918), che causarono nuove tensioni tra i due. Ciò nonostante, uno degli ultimi piaceri regalati a Puccini fu la grande edizione scaligera della Manon, nella stagione 1922-23, che coronò un momento bellissimo della sua vita «Stasera una grande Manon, e se il pubblico non si scuote vuol dire che viviamo in Saturno invece che sulla Terra. Toscanini è un vero miracolo di sentimento, di finezza, di sensibilità di equilibrio… mai e poi mai ho goduto tanto a sentire la mia musica». Livio magnarapa Il Giornale dei Grandi eventi La Bohème 13 Il primo interprete di Rodolfo Evan Gorga, il tenore collezionista N el 1957, a 92 anni, morì il tenore che portò al successo la Bohème, l’opera italiana più eseguita a livello internazionale e allo stesso tempo un collezionista che ci ha lasciato una delle collezioni di strumenti musicali più ricche al mondo, ma anche tante altre importanti raccolte che si trovano ora essenzialmente in diversi musei della Capitale. Eclettico e riservato, Gennaro Evangelista Gorga – detto Evan – è stato un personaggio importante per la cultura italiana, solo da poco riscoperto, del quale appena l’anno scorso è stata ritrovata l’unica incisione esistente. Si tratta di alcune frasi musicali della celebre aria “Che gelida manina” incise da Gorga all’età di circa 90 anni. Nato nel 1865 Broccostella, in provincia di Frosinone, Gorga proveniva da una famiglia della piccola nobiltà ciociara. Da ragazzino si trasferì a Roma e ben presto cominciò ad appassionarsi follemente alla musica: gli spettacoli che si davano al Teatro Apollo accesero in lui la fiamma dell’arte lirica, tanto da indurlo a gettarsi a corpo morto nello studio del pianoforte. Un giorno fu sentito suonare dal maestro di ballo della corte sabauda Francesco Pascarella, che lo volle assolutamente prendere con sé come pianista accompagnatore. Gorga divenne così in breve uno dei pianisti più richiesti in quell’ambiente aristocratico ben descritto da D’Annunzio nel Piacere. Verso la Bohème Il caso volle che un giorno il suo amico Francesco Tamagno, celeberrimo tenore all’apice del successo, rimasto afono, lo pregasse di sostituirlo in una recita dell’Ernani di Verdi. Fu un trionfo. Cominciò per Gorga una carriera brillante, che dopo appena un anno lo condusse a Milano nello studio di Ricordi per un’audizione di fronte a Puccini, Illica e Giacosa, i quali stavano scegliendo il cast per la prima di Bohème. «El g’ha pur le physique du rol!», esclamò in schietto milanese Illica. Gorga fu scritturato anche in base al fatto che la sua bella e distinta figura lo avrebbe reso un perfetto, seducente Rodolfo. La prima di Bohème, nonostante Gorga fosse stato sottoposto a massacranti turni di prova per acconten- Evan Gorga in scena come Rodolfo tare un direttore esigente come Toscanini, fu un successo strepitoso di pubblico, ma la critica si espresse negativamente. Gorga continuò a calcare le scene dei più importanti teatri italiani, fino a quando, nel 1899 a 34 anni, decise improvvisamente di abbandonare una carriera lirica che gli stava dando le più grandi soddisfazioni, per dedicarsi alla vera passione della sua vita: il collezionismo. Fin da ragazzo aveva messo in piedi una collezione di strumenti musicali, raccattando vecchi pianoforti, spinette antiche, clavicembali, che le famiglie nobili dove andava ad accordare i pianoforti, volentieri gli regalavano; ma adesso, con i soldi ottenuti con il teatro e dall’eredità paterna, cominciò a collezionare i più disparati oggetti. Si sa che il collezionista si imbatte di solito in quello che non cerca e Gorga si lasciò prendere la fantasia e la borsa da questa sorte ironica. Cercava una ghironda, gli capitavano sottomano ferri chirurgici medievali, ed egli li acquistava. Era sulle tracce di un sistro o di una tromba dei tempi di Cesare e gli offrivano invece una raccolta di antefisse, ed egli metteva le ceramiche architettoniche accanto agli strumenti musicali ed ai ferri chirurgici. Per via di successivi e graduali agganci, arrivò agli atlanti ed ai mappamondi antichi, ai libri di medicina ed alle iscrizioni. Poté avere nelle sue collezioni la cattedra dalla quale insegnava alla Sapienza il celebre medico Lancisi, un pezzo di affresco antico che completa una collezione esposta ai Musei Vaticani, una collezione di bozzetti di terracotta fra i quali se ne annoverano del Bernini. E ancora fossili, animali impagliati, bambole, armi, lucerne, scaldini, ferri battuti. Tutto questo enorme materiale storico, scientifico ed artistico doveva costituire, nelle sue intenzioni, una documentazione tangibile dell’evoluzione della civiltà dei popoli nella religione, nelle scienze, nelle arti, nel lavoro ed in tutte le altre manifestazioni della vita, dai tempi preistorici all’epoca contemporanea. Trenta collezioni in dieci appartamenti Tale imponente complesso fu suddiviso in trenta collezioni diverse, vastissime, che egli dovette alloggiare in ben dieci appartamenti in Via Cola di Rienzo a Roma. La maggior parte di esse erano sistemate alla meglio in casse o in mucchi; altre, come la collezione musicale, che contava seimila pezzi, ordinatamente allestite. Queste collezioni furono molto invidiate dai contemporanei, tanto che nel 1911 il miliardario americano Pierpoint Morgan gli offrì un assegno in bianco per la sua collezione di strumenti: Gorga rifiutò freddamente perché non avrebbe sopportato l’idea che quei preziosissimi oggetti fossero portati fuori dei confini italiani. Fu così che alla fine, stremato dai debiti, Gorga firmò negli anni ’30 un patto con lo Stato italiano: egli avrebbe ceduto al Paese le sue enormi raccolte, purché gli fossero ripianati i debiti e si costituisse con i proventi dell’allestimento delle collezioni un Collegio lirico, dove i giovanetti con bella voce fossero istruiti al canto, e un Teatro Massimo del Popolo, enorme, attrezzatissimo, in grado di competere con il cinema; tutto questo doveva essere consacrato alla rinascita dell’arte lirica italiana, fonte di ricchezza e di gloria per l’Italia. Il povero Gorga riuscì semplicemente ad ottenere dieci borse di studio in conservatorio per ragazzi di famiglie non abbienti. La sua enorme collezione di strumenti musicali è oggi il nucleo centrale del Museo degli Strumenti Musicali di Roma in Piazza Santa Croce in Gerusalemme, mentre le altre raccolte furono smembrate fra i vari musei italiani, disperdendo così un patrimonio unico e prezioso. Una delle stanze della collezione di strumenti musicali di Gorga an. Ci. La Bohème 14 Il Giornale dei Grandi eventi In 115 anni dal suo debutto 62ª Bohème all’Opera di Roma Q uesta è la sessantaduesima edizione della Bohème al Teatro dell’Opera di Roma. Nella Capitale, infatti, la storia di Mimì trovò i primi consensi appena tre settimane dopo la tiepida accoglienza che l’aveva salutata il 1 febbraio 1896 al suo debutto al Teatro Regio di Torino, diretta dal maestro Arturo Toscanini. In questa, che si presentava come una vera e propria verifica, l’opera approdò all’Argentina con il podio affidato ad un direttore di consolidata professionalità come Edoardo Mascheroni, protagonisti il tenore greco Giovanni Apostolu nei panni di Rodolfo, l’ottimo baritono portoghese Maurizio Benasaude era Marcello (ancora nella Bohème al Costanzi nel novembre successivo). Il ruolo di Mimì fu invece affidato a Angelica Pandolfini, figlia del famoso baritono, mentre una vivace voce a Musetta venne da Rosina Storchio (che sarà poi nel 1904 la prima interprete di Madama Butterfly). Al Teatro dell’Opera (allora Costanzi) l’opera debuttò il 17 novembre dello stesso anno (12 le repliche) con la direzione di Edoardo Vitale ed interpreti Maria Stuarda Savelli, Lina Pasini Vitale, Enrico Giannini Grifoni, Maurizio Bensaude, Arturo Cerratelli e Leopoldo Cromberg. Nel 1900 a dirigerla fu chiamato Leopoldo Mugnone, che due mesi prima (14 gennaio) aveva guidato con successo il debutto di Tosca. Tra gli interpreti Gina Caprile, Clara Rommel, Ferdinando De Lucia, Vincenzo Ardito, Enrico Morero, Ruggero Galli e Ettore Borelli. Nel 1902 sul podio fu Edoardo Vitale, il quale diresse anche le edizioni del 1905, del 1912 e del 1916. Nel 1909 fu Pietro Mascagni a dirigere le 11 repliche de La Bohème con Rina Giachetti come Mimì. Protagonisti eccellenti come Pia Tassinari, Beniamino Gigli, Maria Fersula, Mario Basiola, Giacomo Vaghi, Saturno Meletti, Adolfo Pacini e Azelio Zagonara furono nel 1935 diretti da Tullio Serafin. Seguirono, sotto la direzione di Oliviero De Fabritiis, le edizioni del 1937 con Beniamino Gigli e del 1938 con Pia Tassinari e Giacomo Lauri Volpi. De Fabritiis fu ancora protagonista sul podio nell’inverno del 1940, del 1945, del 1950, 1955, 1956 con la partecipazione di Giacomo Lauri Volpi e Onelia Fi- neschi, con Tito Gobbi nel 1961 e 1962 (con Clara Petrella) ed infine nel 1964. Diretta nel 1946 da Gabriele Santini, l’opera pucciniana ebbe come protagonisti Beniamino Gigli, Afro Poli, Maria Carbone e Filiberto Picozzi. Ancora Santini a guidare le quattro repliche del 1947 con Giacomo Lauri Volpi, Onelia Fineschi, Maria Huder e Afro Poli. Le tre repliche nella stagione invernale del 1951 aprirono un periodo di direzione di Gianandrea Gavazzeni. Protagonisti Magda Olivero, Rolando Panerai, Enzo Titta e Gino Conti. Sul podio Il direttore bergamasco scomparso nel 1996, tornò nell’edizione del 1953 con Clara Petrella, Marinella Meli, Giuseppe Di Stefano e nel 1954, ancora con la Petrella e la Meli. L’ultima rappresentazione nella superba cornice delle Terme di Caracalla risale al 1967, diretta dal maestro Carlo Franci, con la partecipazione di Maria Chiara, Edda Vincenzi, Ruggero Bondino, Ferdinando Lidonni e Arturo La Porta. I maestri Kuhn e Sanna si alternarono nella direzione delle rappresentazioni del 1986, mentre nel 1992 a dirigere tra i palchi dorati del Co- stanzi fu Daniel Oren con la regia ed allestimento di Franco Zeffirelli, mentre sul palco furono Mirella Freni, Francisco Araiza, Adelina Scarabelli, Roberto Servile e Pietro Spagnoli. L’ultima rappresentazione nella stagione estiva è stata quella del 1996 a Piazza di Siena, dove il Teatro dell’Opera – orfano da due anni di Caracalla – si spostò dal 1995 per due estati. Sul podio l’allora 24enne russo, ma residente in Germania, Wladimir Jurowski, mentre la regia fu affidata a Maria Fabbri e scenografia e costumi al bravo Ivan Stefanutti. La “gelida manina” fu quella di Miriam Gauci, mentre Giuseppe Sabbatini indossò i panni di Rodolfo e Roberto Servile ancora quelli di Marcello. Infine, l’ultima Bohème al teatro Costanzi è stata quella di 8 anni fa, quando dal 20 giugno andarono in scena 10 repliche con le scene del classicissimo allestimento del 1963 di Franco Zeffirelli il quale ne curò anche la regia. A dirigere Gianluigi Gelmetti. Mimì fu Carla Maria Izzo e Rodolfo Massimo Giordano. Francesco Piccolo Il luogo della prima rappresentazione Il Teatro Regio di Torino I naugurato il 26 dicembre 1740 con l’Arsace di Francesco Feo, il Teatro Regio di Torino era stato commissionato dieci anni prima da Carlo Emanuele III all’architetto Filippo Juvarra, alla morte del quale subentrò Benedetto Alfieri. Concepito come strumento di rappresentanza e celebrazione della stabilità della dinastia sabauda, il Teatro era collegato al Palazzo Reale tramite la Galleria del Beaumont (oggi Armeria reale) ed il Palazzo delle Segreterie (la Prefettura) e fu costruito con tecniche per l’epoca d’avanguardia, come la cavità sotto l’orchestra per migliorare la resa acustica e l’orientamento obliquo dei palchetti verso il palcoscenico. Nell’enorme sala ellittica, dotata di sedili mobili e 152 palchi con decorazioni color cremisi e oro, per un totale di 2500 posti, le stagioni teatrali si susseguivano dal 26 dicembre alla fine del Carnevale e comprendevano sempre due opere serie composte appositamente per il Teatro. Nel corso della seconda metà del Settecento, lavorarono per il Regio i più noti musicisti europei, fra cui Giovanni Paisiello e vi cantarono i castrati e le prime donne più celebri, che venivano ingaggiati per l’intera stagione, contribuendo ai grandi successi degli spettacoli ed alla fama del Teatro in tutta Europa. Alla fine del XVIII secolo, negli anni della dominazione francese, il Regio cambiò nome più volte e passò sotto la gestione della municipalità e di impresari privati, fra cui si ricorda Giacomo Pregliasco. In quegli anni repubblicani furono vietati in teatro l’impiego dei castrati ed il gioco d’azzardo, come abolito fu il palco reale, ripristinato nel 1804 a esclusivo beneficio di Napoleone, quando il Teatro divenne Théâtre Imperial. Napoleone fu presente agli spettacoli e alle feste in tre occasioni, mentre le opere italiane erano presentate da artisti di prima grandezza, come il soprano Isabella Colbran, il tenore Nicola Tacchinardi e il coreografo Salvatore Viganò. Con la Restaurazione il teatro ritornò ai Savoia, perdendo però importanza rispetto a Milano, Napoli e Venezia. Ai tempi di Carlo Alberto insieme al Palazzo Reale, alla Biblioteca ed al Castello di Racconigi, il Regio ricevette un’impronta architettonica neoclassica con i lavori di Ernesto Melano e Pelagio Palagi, per poi assumere una nuova veste neobarocca nel 1861 con i lavori di Angelo Moja. Nel 1870, la proprietà passò al Comune di Torino. Furono gli anni in cui lavorarono al Regio Carlo Pedrotti, Arturo Toscanini, Giacomo Puccini, che vi tenne a battesimo Manon Lescaut Il palcoscenico del Regio di Torino durante la rappresentazione di "Arsace" di Francesco Feo nel 1740 in un dipinto di D. Oliviero (1893) e La Bohème (1896) e Richard Strauss, che nel 1906 vi diresse la “prima” italiana di Salomè. Nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1936 la sala fu interamente distrutta da un incendio. Fu soltanto dopo quarant’anni, il 10 aprile 1973, che il nuovo Teatro ideato da Carlo Mollino e Marcello Zavelani Rossi, poté essere inaugurato con l’opera di Giuseppe Verdi I Vespri siciliani. La struttura imponente e vasta, che occupa un’area pari a quella di 8,5 campi di calcio, con i suoi sei ponti mobili vanta il secondo palcoscenico d’Europa per grandezza, dopo l’Opéra-Bastille di Parigi. L. di d. Il Giornale dei Grandi eventi Dal mondo della musica 15 Il Festival pucciniano di Torre del Lago Da una Bohème d’esportazione ad una Butterfly accuratamente filologica T orre del Lago ha conservato vivo l’affetto per quel musicista che proprio sulle rive del Lago di Massaciuccoli dipinse uno dei suoi più grandi affreschi musicali, quello che è oggi il titolo operistico italiano più rappresentato al mondo. La Bohème (22-30 luglio/12-20-27 agosto) sarà nel 2011 il titolo guida del cartellone del Festival Puccini, nel colorato e suggestivo allestimento coprodotto con Hong Kong Opera House per la regia di Maurizio Di Mattia. Costumi firmati da Anna Biagiotti per gli artisti che calcheranno il palcoscenico tra le scene di Maurizio Varamo. Cinque le serate con un’ambientazione che propone una Tour Eiffel ante litteram . La cultura giapponese sarà poi (6, 11 e 18 agosto) protagonista a Torre del Lago con l’esclusivo allestimento, anteprima italiana dell’altro capolavoro pucciniano madama Butterfly in una lettura accuratamente filologica con scene e costumi provenienti dal Sol Levante, grazie alla coproduzione con NPO di Tokyo. Una produzione che evidenzia nei più piccoli dettagli il fascino della cultura e della tradizioni giapponesi che tanto avevano incuriosito il maestro Puccini. La regia è affidata al baritono giapponese Takao Okamura, le scene sono disegnate da Naoji Kawaguci mentre i costumi sono firmati dal più famoso stilista di Kimono Yasuhiro Ciji. Una curiosità: In libreria Dai manoscritti dei librettisti il percorso verso Bohème L a Bohème nacque da un processo assai elaborato di gestazione del libretto, che impegnò i letterati Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, il usicista Giacomo Puccini e l’editore Giulio Ricordi dal marzo 1893 al gennaio 1896, passò attraverso varie fasi di selezione e assemblaggio degli elementi narrativi, contemplò stesure plurime dei testi, lasciò dietro di sé un numero elevato d’avanzi di lavorazione. I manoscritti della Bohème, conservati negli archivi di Giacosa e di Illica, documentano questo processo con una parte cospicua delle redazioni preliminari del libretto, finora per lo più ignote: tele parziali, abbozzi di episodi, stesure continue di parti d’atto sulle quali Puccini compì i primi passi nella composizione dell’opera, interi atti scartati. Nel volume Verso Bohème - Gli abbozzi del libretto negli archivi di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, curato da Virgilio Bernardoni, professore di Musicologia e Storia della musica ell’Università degli studi di Bergamo, per i tipi della editrice Leo S. Olschki (2008 - € 32,oo), per la prima volta i materiali di lavoro superstiti vengono esaminati integralmente, di alcuni di essi si compie una ricostruzione sulla base del riordino di fogli e appunti sparsi, di tutti si presenta un’edizione completa. Risulta così possibile illustrare direttamente sui testi la genesi di un titolo fra i più rappresentativi del repertorio operistico di fine Ottocento e considerarne in modo più circostanziato la storia alla luce delle tendenze in atto nella librettistica coeva. nei ruoli orientali troveremo solo interpreti giapponesi, mentre nei ruoli occidentali solo interpreti occidentali. Sarà, invece, Turandot (23-29 luglio/ 713-26 agosto) il terzo titolo d’opera del Festival. Ripresa del monumentale allestimento realizzato per le celebrazioni pucciniane nella fortunata ed apprezzata messa in scena regia di Maurizio Scaparro, scene di Ezio Frigerio e costumi di Franca Squarciapino. Una serata speciale completerà la kermesse sul grande palcoscenico affacciato sul lago caro a Puccini. Il 26 luglio protagonista la danza con roberto Bolle & Friends, lo stesso spettacolo che tre giorni prima, il 23 luglio sarà alle Terme di Caracalla nell’amito della Stagione Estiva dell’Opera di Roma. L’etoile, tra le più grandi ed acclamate in ambito internazionale, propone uno spettacolo unico nel suo genere che ripercorre in un’unica straordinaria serata un secolo e mezzo di storia di balletto. mi. mar. Novità in libreria Sanguineti e la musica «L a Bohème è del 1896. La mia idea è che Puccini sia l’inventore della musica da film. Il cinema è nato nel 1895. Le sue arie sono nate per una scena cinematografica. C’è una specie di abbandono melodico che conserva molto della tradizione melodrammatica ma si è trasformato in un flusso completamente diverso dalle strutture che usano altri autori nell’Europa del tempo». E’ un’affermazione di Edoardo Sanguineti, tratta da «Conversazioni musicali», un libro recentemente edito dal Melangolo di Genova. Si tratta di una serie di “conversazioni”, appunto, fra il grande poeta (scomparso lo scorso anno) e il critico Roberto Iovino che del volume n’è il curatore. Il libro era nato come un lavoro “a quattro mani” sul teatro musicale, in forma di dialogo. Rimasto incompiuto per la morte del Poeta, Iovino e l’editore, in accordo con la famiglia Sanguineti, hanno mantenuto il testo fino ad allora prodotto e hanno trasformato il libro in un omaggio al secondo mestiere del Poeta, quello del librettista. Per questo motivo in appendice è stato inserito un Catalogo delle opere musicali scritte su testi di Sanguineti, catalogo arricchito dalle testimonianze di molti artisti che hanno avuto modo di collaborare con il letterato, da Globokar a Liberovici, da Ambrosini a Scodanibbio, da Corghi a Manzoni; senza dimenticare naturalmente il collaboratore storico e scomparso da anni, Luciano Berio. Il “secondo mestiere” iniziò per Sanguineti con l’incontro proprio con Luciano Berio. I due artisti si “trovarono” subito e a partire da Passaggio (1961-‘62) ebbero numerose e proficue collaborazioni: basta pensare a Laborintus II (1963-‘65), ad A-Ronne (1974-‘75), al Canticum Novissimi Testamenti I e II (1974) ed a Stanze (2003). Nel tempo a Berio si sono aggiunti numerosissimi musicisti, affascinanti dal mondo poetico di Sanguineti, ma anche dalla sua disponibilità a creare, a sperimentare. «Ci sono due modalità diverse di collaborazione - spiegava Sanguineti - La prima si ha quando si compone un testo per un musicista. Allora occorre trovare un accordo e questo può risultare immediato o richiedere discussioni. L’altro caso invece si ha quando si scrive un pezzo senza pensare che possa essere musicato. Se un musicista, poi, lo sceglie, ha lui tutto in mano. Ho un’idea servile della parola nei confronti della musica». Fr. Pi. www.acea.it Cento anni di know-how, una rete di acquedotti di oltre 46.000 km e acqua di qualità distribuita ogni giorno ad 8 milioni di italiani. Questa è la realtà di Acea. Una realtà all’avanguardia che fa bene all’ambiente, alla popolazione, al futuro. L’acqua, l’uomo, la tecnologia.