anno XVII - Numero 46 - 16 giugno 2011
Questo allestimento
Parlano il direttore Conlon
ed i cantanti
A Pag.
2
La genesi di Bohème
Prima rifiutata
e poi composta
A Pag.
6
La Tubercolosi
Malattia romantica in
preoccupante recrudescenza
A Pag.
8e9
La scoperta
Quel brano marinaresco
divenuto il Valzer di Musetta
A Pag.
11
Il primo Rodolfo
Evan Gorga,
il tenore collezionista
A Pag.
13
La Bohème
di Giacomo Puccini
La Bohème
2
Parlano il direttore James Conlon ed i cantanti
«La Bohème, un’opera
dal contenuto sempre attuale»
E
ra stata annunciata con l’allestimento storico ed applauditissimo
realizzato da Franco Zeffirelli per il
Teatro Alla Scala nel 1963, questa Bohème
che torna sul palcoscenico del Teatro
dell’Opera di Roma esattamente dopo
ben otto anni, da quel 20 giugno 2003
quando andò in scena proprio con scene e
regia del maestro fiorentimo. Ma, secondo la versione ufficiale del Teatro, i tagli
dettati dal decreto sulle fondazioni liriche, avrebbero imposto, poco più di un
mese fa, di optare per un allestimento più
sobrio per numero di comparse – che effettivamente erano molte nella ricca Bohème di Zeffirelli – ed anche per il personale
di palcoscenico. Ed ecco che si è dovuto
ripiegare su un altro allestimento, sempre
in linea con il gusto figurativo e anch’esso
di grande bellezza visiva e forte fascino
nella ricostruzione degli ambienti, come
quello realizzato nel 1988 da Pierluigi Samaritani per il Teatro Massimo Bellini di
Catania e restaurato lo scorso anno,
quando li è stato riproposto. Questa volta a riprendere la regia del novarese Samaritani, scomparso nel 1994, è il 45nne
vicentino Marco Gandini, che ormai da
19 anni collabora con Franco Zeffirelli e
che a lui fece da assistente per la Tosca al
Costanzi nel 2010.
Sul podio è il newyorkese James Conlon,
il quale con questo titolo pucciniano ha
un rapporto particolare, avendo debuttato quest’opera a 21 anni. «Ero alle soglie della laurea alla Julliard School di New
York e questo titolo segnò l’inizio della mia
carriera», dice il maestro. « La diressi per
sostituire Thomas Schippers che aveva dato
forfait. Accettai con entusiasmo anche per
l’incoraggiamento ricevuto da Maria Callas,
in quel momento insegnante presso l’università. Ma il mio approccio con quest’opera era
già avvenuto anni prima quando a 12 anni
cantai la parte del bambino dei giocattoli.
Inoltre, è un’opera che sento mia per aver
vissuto diversi anni a Parigi, proprio nel
Quartiere Latino e dunque ben conosco le
sfumature di quella concezione di vita».
«E’ un lavoro – continua il Maestro – che
dipinge benissimo lo spirito disinvolto e romantico tipico dell’età giovanile. Ed è forse
per questo che è un’opera molto apprezzata,
perché il pubblico ci si rispecchia.… uno spirito velato di sana e gioiosa incoscienza in
cui tutti si passa». «Nelle prime due parti
dell’opera, Puccini non vuole che la tragedia
si veda e calca l’accento su la spensieratezza
della gioventù, sul vivere alla giornata. Poi,
con grande teatralità, il dramma giunge di
colpo, tagliente come una spada: la malattia
e la morte di Mimì, così improvvisi da commuovere ogni volta lo spettatore».
Di buon livello il cast, con in particolare
il tenore messicano Ramon Vagas come
Rodolfo, che sul palcoscenico del Costanzi è stato già come Conte d’Almaviva in un Barbiere rossiniano di una ventina d’anni fa e poi nei panni del Duca di
Mantova nel Rigoletto del 2006.
« Bohème è un’opera straconosciuta con la
quale è facile cadere nei luoghi comuni. Per
questo stiamo lavorando per eliminare un
certo manierismo. L’opera, pero, continua ad
essere attuale anche se oggi non si muore più
di Tisi ma di AIDS. E’ un titolo per tutte le
generazioni. Molti studenti hanno fatto la
vita bohème come pure Puccini quando studiava a Milano: pochi soldi, tante speranze e
la voglia di divertirsi spensieratamente. Rodolfo è geloso maschilista, Mimì ha paura
della solitudine, mentre Musetta è come una
velina di oggi che va con chi ha più soldi. E’
un’opera che commuove perché alla fine risaltano i valori e l’amore è un valore vero. La
lezione che se ne ricava è che bisogna rispettare i sentimenti».
a. mar.
Il G iornale dei G randi eventi
Ultim’ora
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Concerto di Liszt
a Villa d’Este
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Musica sotto le stelle sabato 9
luglio alle 21,30 a Villa d’Este a
Tivoli. In programma la FaustSymphonie di Franz Liszt, l’opera più significativa del compositore ungherese, che sarà
eseguita davanti alla Fontana
del Ovado, una delle perle del
grande parco di Villa d’Este.
Protagonista il duo pianistico
“Liszt Piano Duo” composto
da Vittorio Bresciani e Francesco Nicolosi. Il coro sarà quello
del Teatro dell’Opera di Roma.
Il
Giornale dei Grandi eventi
Stagione 2010-2011 al Teatro Costanzi
16 - 26 giugno 2011
Direttore
Interpreti
Bohème
di Giacomo Puccini
James Conlon
Ramòn Vargas, Vito Priante, Hibla Gerzmava
Stagione estiva alle Terme di Caracalla
2 luglio alle 21,30
Concerto multimedia:
immagini e suono
TrILogIa romaNa
(Fontane di Roma - Feste Romane - I Pini di Roma)
21 luglio - 10 agosto 2011
Direttore
Interpreti
ToSCa
di Giacomo Puccini
Asher Fisch
Csilla Boross, Thiago Arancam e Carlo Guelfi
2 - 9 agosto 2011
Direttore
Interpreti
aIda
di Giuseppe Verdi
Asher Fisch
Hui He, Walter Fraccaro, Giovanna Casolla
30 settembre – 8 ottobre 2011
eLekTra
di Richard Strauss
Fabio Luisi
Direttore
Interpreti
Felicity Palmer, Eva Johansson, Melanie Diener
~~
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 16 - 26 giugno 2011
La Bohème
Opera in quattro quadri
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
dal romanzo Scènes de la vie de Bohème
di Henri Murger (1847)
Musica di Giacomo Puccini
Prima rappresentazione:
Torino, Teatro Regio, 1 febbraio 1896
Direttore
Regia
Scene
Costumi
Maestro del Coro
Disegno luci
James Conlon
Marco Gandini
Pierluigi Samaritani
Anna Biagiotti
Roberto Gabbiani
Mario De Amicis
Personaggi / Interpreti
Rodolfo (T)
Schaunard (Bar)
Benoît (B)
Mimì (S)
Marcello (Bar)
Colline (B)
Alcindoro (B)
Musetta (S)
Parpignol (T)
Doganiere (B)
Ramòn Vargas 16, 18, 21, 23, 25 /
Stefano Secco 17, 19, 22, 24, 26
Vito Priante 16, 18, 21, 23, 25, 26 /
Guido Loconsolo 17, 19, 22, 24
Matteo Peirone
Hibla Gerzmava 16, 18, 21, 23, 25 /
Carmela Remigio 17, 19, 22, 24, 26
Franco Vassallo 16, 18, 21, 23, 25 /
Luca Salsi 17, 19, 22, 24, 26
Marco Spotti 16, 18, 21, 23,
25 / Giovanni Battista Parodi 17, 19, 22, 24, 26
Luca Dall’Amico
Patrizia Ciofi 16, 18, 21, 23, 25 /
Ellie Dehn 17, 19, 22, 24, 26
Luca Battagello 16, 19, 23, 26 /
Giordano Massaro 17, 21, 24 /
Vinicio Cecere 18, 22, 25
Riccardo Coltellacci 16, 18, 21, 23, 25 /
Antonio Taschini 17, 19, 22, 24, 26
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Allestimento del Teatro Massimo Bellini di Catania
~ ~ La Copertina ~ ~
adolf hohenstein – Bozzetto del Quadro
II (Part.) per la prima rappresentazione a
Toprino, Teatro Regio, 1 febbraio 1896
Il
Giornale dei Grandi eventi
M
ancava dall’Opera di Roma
dal 2003 La Bohème di Giacomo Puccini, il titolo operistico
più rappresentato al mondo dopo la
Carmen di Georges Bizet. Annunciata
con l’allestimento storico di Franco
Zeffirelli, per motivi di budget è stata
sostituita con quello firmato nel 1988
da Pierluigi Samaritani per il Teatro
Massimo di Catania che richiede meno
personale di palcoscenico e meno com-
La Bohème
parse. A riprendere la regia di Samaritani, scomparso nel 1994, è il quarantacinquenne Marco Gandini che ormai
da 19 anni collabora, sia per il teatro
che per il cinema, con Franco Zeffirelli.
Sul podio a dirigere è il maestro
newyorkese James Conlon che vanta
un vastissimo repertorio lirico e sinfonico e che con questo titolo pucciniano
ha un rapporto particolare, avendo debuttato con quest’opera a 21 anni sosti-
tuendo un collega che aveva dato forfait, ma già prima all’età di 12 anni
avendo cantato la parte del bambino
dei giocattoli. Di buon livello il cast con
in particolare il tenore messicano Ramon Vagas come Rodolfo, ed il soprano georgiano Hibla Gerzmava nei panni di Mimì e la bella soprano senese Patrizia Ciofi come Musetta. Secondo cast
anche di ottimo livello per soddisfare il
pubblico nelle dieci rappresentazioni.
3
Le Repliche
Giovedì 16 giugno, h.
Venerdì 17 giugno, h.
Sabato 18 giugno, h.
Domenica 19 giugno, h.
Martedì 21 giugno, h.
Mercoledì 22 giugno, h.
Giovedì 23 giugno, h.
Venerdì 24 giugno, h.
Sabato 25 giugno, h.
Domenica 26 giugno, h.
20.30
20.30
18.00
17.00
20.30
20.30
20.30
20.30
18.00
17.00
Dopo otto anni di assenza La Bohème guarda a Samaritani
La vicenda si svolge a Parigi, nel 1830.
La Trama
Quadro primo: In una soffitta sui tetti di Parigi, la sera della vigilia di Natale.
Il poeta Rodolfo e il pittore Marcello sono senza soldi e senza legna per
il fuoco e per scaldarsi bruciano un copione di Rodolfo. Rientrano gli
altri due abitanti della soffitta, il filosofo Colline ed il musicista Schaunard. Quest’ultimo porta con sé denaro, legna e provviste.
Schaunard vorrebbe raccontare come è riuscito ad avere questa fortuna, ma i compagni non lo ascoltano, occupati in un improvvisato
festino. Quindi decidono di andare a festeggiare il Natale al Quartiere Latino.
Ma ecco la visita del padrone di casa, Benoît, venuto a reclamare l’affitto. I quattro bohémiens lo fanno ubriacare e poi, fingendosi scandalizzati, lo cacciano. Escono tutti tranne Rodolfo, ché deve finire di scrivere un articolo.
Qualcuno bussa. E’ Lucia, detta Mimì, la vicina di casa venuta a chiedere di riaccendere la propria candela. Ma appena arrivata è colta da
un malore che la costringe a trattenersi per un po’. Andando via,
Mimì si accorge di aver perduto la chiave e torna indietro. Una corrente d’aria spegne il suo lume, mentre Rodolfo soffia di proposito
sulla propria candela. I due giovani continuano a cercare la chiave
al buio, finché un’attrazione e un senso di intimità li inducono a raccontarsi la loro storia.
Gli amici, impazienti, chiamano Rodolfo dalla strada. Mimì propone a
Rodolfo di unirsi all’allegra brigata. I due si scambiano parole d’amore.
Quadro secondo. Nel Quartiere Latino, presso il Café Momus, la not-
te di Natale. Per strada c’è molto movimento ed il gruppetto d’amici si
lascia travolgere dalla confusione. Tutti, tranne Marcello che pensa a
Musetta, suo perduto amore. Rodolfo fa un regalo a Mimì. Poi i quattro
amici si ritrovano al Café Momus, dove Rodolfo presenta a tutti Mimì.
Mentre i giovani parlano dell’amore, arriva una bellissima signora. E’
Musetta, accompagnata dal lezioso consigliere di Stato Alcindoro. La
donna si avvicina al tavolo del suo ex amante, Marcello. Questi la ignora. Stizzita, Musetta fa di tutto per attirare l’attenzione. Poi, con una
scusa allontana Alcindoro e si getta fra le braccia di Marcello.
In quel momento passa la Ritirata, tutti si accodano alla banda e lasciano il conto da pagare a Alcindoro.
Quadro terzo. In un cabaret presso la Barrière de l’Enfer, in una nevosa
alba di febbraio. Marcello sta dipingendo l’insegna dell’osteria quando
Mimì, scossa da un attacco di tosse, viene a chiedergli aiuto perché Rodolfo, sempre più geloso e collerico, la notte prima l’ha abbandonata.
Il poeta, infatti, sta dormendo nel locale. Mimì si nasconde e viene così
a sapere il vero motivo del comportamento dell’amato. Svegliato da
Marcello, Rodolfo confessa all’amico di amare Mimì, ma che la vita
nello squallore della soffitta peggiora le condizioni della donna già
molto precarie.
Un colpo di tosse rivela la presenza di Mimì. Rodolfo l’abbraccia,
ma poi i due si rassegnano alla separazione e decidono di lasciarsi
in primavera. Marcello e Musetta tentano di mettere una nota d’allegria in quell’addio, ma fra i due scoppia uno dei soliti battibecchi
e si separano.
Quadro quarto. Nella mansarda sui tetti di Parigi. Marcello e Rodolfo nella soffitta tentano di lavorare, ma non possono evitare di conversare dei loro amori perduti. Giungono Colline e Schaunard portando il pranzo e molta allegria. Ad un tratto entra Musetta, accompagnando Mimì moribonda, la quale, fuggita dal suo nobile protettore,
desidera vedere per l’ultima volta il suo amato.
Musetta, impegnando i suoi gioielli, manda Marcello a chiamare il
dottore ed esce per comprare a Mimì un manicotto. Anche Colline decide di rivendere la propria zimarra (il pastrano) che aveva comprato
la sera di Natale e porta con sé Schaunard.
Rodolfo e Mimì rimangono soli e si abbandonano al ricordo del loro
primo incontro. Quando gli amici ritornano, Musetta consegna a Mimì
il manicotto, facendole credere che sia un regalo di Rodolfo. La ragazza, dopo aver provato quest’ultima gioia, si addormenta. Mentre Musetta prega e prepara la medicina portata da Marcello, Rodolfo si dà da
fare per rendere la stanza più accogliente. Schaunard però si accorge
che Mimì è morta. Gli amici sono sgomenti. Rodolfo è l’ultimo a capire
e, disperato, si getta sul corpo esanime dell'amata.
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Il
Giornale dei Grandi eventi
La Bohème
Ramòn Vargas e Stefano Secco
Hibla Gerzmava e Carmela Remigio
Rodolfo, il poeta innamorato
Mimì, fanciulla dolce
e sfortunata
I
tenori ramòn Vargas (16,18,21,23,25) e Stefano Secco
(17,19,22,24,26) interpretano il triste innamorato Rodolfo. ramòn
Vargas, nato a Città del Messico
nel 1960, è apprezzato per le sue apparizioni in tutti i principali teatri
del mondo, tra i quali il Met, il Teatro alla Scala, la Bastille di Parigi e il
Colon di Buenos Aires. Tra le sue
numerose interpretazioni, vi sono il
Riccardo di Un Ballo in Maschera, il
ruolo di protagonista in Don Carlo,
Rodolfo nella Bohème, Alfredo nella
Traviata, e Romeo in Romeo e Giulietta. Nell’estate del 2008 tiene a Pechino una serie di concerti in occasione
delle Olimpiadi. Vargas inizia la stagione 2010/11 alla San Francisco Ramòn Vargas e Hibla Gerzmava
Opera nel Werther. In questa stagione si è esibito in Traviata, Rigoletto, Simon Boccanegra e ora la Bohème.
Stefano Secco, inizia lo studio del pianoforte e del canto con Alberto
Soresina. Dopo le prime esperienze e numerose tournèe in Italia e
all’estero, interpreta il Falstaff al Verdi di Sassari, poco dopo viene
scritturato da Teatro dell’Opera di Roma come tenore solista nella
Messa di Gloria di Puccini e nel Te Deum di Berlioz.Recente ha cantato
ne I due Foscari , Macbeth ed Il Requiem di Verdi a Francoforte.
Franco Vassallo e Luca Salsi
Marcello, pittore geloso
A
cantare come l’amico Marcello saranno i baritoni Franco Vassallo (16,18,21,23,25) e Luca Salsi (17,19,22,24,26). Franco Vassallo, nato a Milano nel 1969, studia canto con Carlo Meliciani.
Vince rispettivamente nel 1992 l’As,Li,Co, International Competition di
Milano e nel 1997 il” Budapest Contest”, organizzato con la collaborazione dell’Arena di Verona, da qui una serie di debutti nei ruoli di Figaro
ne Il barbiere di Siviglia, Enrico in Lucia di Lammermoor, il Conte Almaviva
ne Le nozze di Figaro, seguiti poi da altri debutti sia in Italia che all’estero.
Nella stagione 2007/08 è al Metropolitan con Il barbiere di Siviglia. Nella stagione 2009/10 lavora nelle produzioni di Lucrezia
Borgia, Macbeth,Attila, l’Aida, Il
Barbiere di Siviglia e in Otello. Nel
2011 ha debuttato a Ginevra nei
Puritani.
Luca Salsi nato a San Secondo
Parmense (PR) nel 1975 si diploma in canto presso il conservatorio “Arrigo Boito” di Parma e si
perfeziona con il baritono Carlo
Meliciani. Nel 1997 debutta presso il Teatro Comunale di Bologna nella (Scala di Seta di Rossi- Franco Vassallo
ni). Nel 2000 vince il premio assoluto al concorso “Gian Battista Viotti” di Vercelli, inizia così un’intensa
attività che lo conduce sui palcoscenici di tutto il mondo. Nella stagione
2008/09 prende parte a diverse produzioni tra cui Il Corsaro, La Bohème,
I Pagliacci, e poi continua con la stagione 2009/10 interpretando con
grande successo la Traviata, Falstaff, e l’Elisir d’Amore. Tra i suoi prossimi
impegni vi sono le produzioni dei : I Puritani, Attila, Un ballo in maschera
e la Madama Butterfly, al Met di New York.
Pagina a cura di Mariachiara Onori – Foto di Corrado M. Falsini
5
A
cantare come Mimì saranno i soprano hibla gerzmava
(16,18,21,23,25) e Carmela remigio (17,19,22,24,26). hibla
gerzmava, nata nel 1970 a Pezonda (repubblica di Abcasia, territorio di fatto indipendente della Georgia), si laurea in canto presso il conservatorio di Mosca nel 1994. Nella stagione
2002/03 partecipa al Festival di Ludwigsburg in Germania dove
ha cantato Eva in Die Schöpfung di Haydn. Nella stagione scorsa
ha debuttato al Metropolitan Opera nel ruolo di Antonia ne Les
Contes d’Hoffmann.
Carmela remigio, nata a Pescara nel 1979, inizia gli studi con
Aldo Protti. Nel 1992, vince il concorso “Luciano Pavarotti International Voice Competition” di Philadelphia, e qualche anno dopo
va in scena, nel ruolo della protagonista dell’opera Alice di G.P.
Testoni al Massimo di Palermo. In ambito internazionale è particolarmente apprezzata per l’interpretazione di opere mozartiane, fra tutte Donna Anna in Don Giovanni, che le ha offerto l’opportunità
di collaborare con Claudio Abbado e Peter Brooke.
Patrizia Ciofi e Ellie Dehn
Musetta, la fascinosa
ex fiamma di Marcello
S
aranno i soprano Patrizia Ciofi (16,18,21,23,25) e ellie dehn
(17,19,22,24,26 ) a cantare l’intraprendente Musetta. Patrizia
Ciofi, nata a Casole d’Elsa (Siena), studia all’Accademia Chigiana a
Fiesole.Tra i molti successi del 2008 ci
sono: il Don Giovanni, i Capuleti e i
Montecchi e Giulio Cesare, mentre nel
2009 è stata Gilda in Rigoletto. Recentemente prende parte ad Atene in
Maria Stuarda,a Tokio e Berlino con
La Traviata.
ellie dehn, nel 2007 fece il suo debutto alla Met come Marguerite nel
Faust. Durante le ultime stagioni ha Patrizia Ciofi
lavorato in nuove produzioni come:
Agathe in DerFreischutz, a Bilbao; Madama Cortese ne Il viaggio a
Reims; a Los Angeles come Freia in Das Rheingold, esibendosi anche
nei panni di diverse delle eroine mozartiane. Tra i premi, il James
McCracken nel 2006, il National Grand Finalist Award al Metropolitan National Council Auditions nel 2005, il secondo posto nel Licia Albanese/Puccini Foundation Competition 2004 ed il primo posto nella JP 2004 Concorso d’Opera Italiano.
Vito Priante e Guido Loconsolo
Schaunard, musicista
fortunato
è
affidato al basso-baritono Vito Priante (16,18,21,23,25,26) e al baritono guido Loconsolo (17,19,22,24) il ruolo del vivace Schaunard.
Vito Priante, nato a Napoli nel 1979, debutta nella Serva padrona di
Pergolesi. Dopo diverse esperienze nel repertorio barocco e classico, ha
iniziato il suo cammino verso il repertorio belcantistico, con il debutto nel
2009 nel ruolo di Malatesta nel Don Pasquale al Teatro San Carlo di Napoli.
guido Loconsolo ha fatto parte fino al 2007 del programma Giovani Artisti del Teatro alla Scala di Milano Nella stagione 2008-2009 ha interpretato il ruolo di Marcello in Bohème, Il Conte in Le nozze di Figaro e Achilla
in Giulio Cesare. Nella stagione 2009-2010 ha cantato come Ford in Falstaff
a Glyndebourne e in Un giorno di regno con il Teatro Regio di Parma.
La Bohème
6
Il
Giornale dei Grandi eventi
Le genesi dell’opera
Prima rifiutata e poi composta
tra battute di caccia e serate con gli amici
D
opo il successo al Teatro
Regio di Torino della “prima” di Manon Lescaut, che
indubbiamente migliorò il prestigio ed il tenore di vita del compositore lucchese, Puccini cominciò a
cercare nuovi soggetti per dare
inizio alla sua quarta opera. Tra i
progetti presi in considerazione e
poi scartati, c’era stato, qualche
tempo prima, anche un libretto
scritto da Ruggero Leoncavallo
tratto dal romanzo Scènes de la vie
de Bohème del francese Henri Murger, apparso a puntate sul “Corsaire Satan” tra il 1845 ed il ‘49 e
poi portato in teatro con la collaborazione di Thédore Barrière. Il
lucchese rifiutò il progetto. Ma
quando Puccini incontrò casulamente a Milano Leoncavallo e gli
disse che stava musicando quel testo su libretto di Giacosa ed Illica,
l’autore di Pagliacci andò su tutte
le furie. Ne nacque una disputa
che non vedrà più parlarsi i due
musicisti e che si rimbalzò sui
giornali “Il Secolo” dell’editore
musicale Sonzogno dalla parte di
Leoncavallo ed il “Corriere della
Sera” da quella di Puccini. Il musicista napoletano finirà col far debuttare il proprio lavoro al Teatro
la Fenice di Venezia il 6 maggio
1897, più di un anno dopo l’opera
pucciniana.
La Composizione
Di fatto, nel marzo del 1893, Puccini già stava pensando alla sua
Mimì. Dal 1891 il compositore era
solito affittare – e poi acquistare
proprio con i proventi de La Bohème - una casa a Torre del Lago,
sulla riva del Lago di Massaciuccoli, per esercitare la sua grande
passione, la caccia agli acquatici.
In questa residenza si era trasferito assieme alla compagna Elvira
Bonturi, con la quale conviveva
fin dal 1886, dalla quale ebbe un
figlio, Tonio, e che solamente nel
1904 avrebbe sposato, dando vita
ad un rapporto turbolento per le
frequenti, effimere, “infedeltà” del
compositore.
Fu qui, in una villetta affacciata
sul lago, che fu composto il primo
quadro de La Bohème, iniziato il 21
gennaio 1895 e terminato il 6 giugno «alle due del mattino».
L’opera fu certamente ispirata da
momenti di vita condivisi con gli
amici del luogo. Qui i compagni,
riuniti in società presso la capanna
bordo lago dell’amico Giovanni
Papasogli “Gambe di Merlo” trasformata nel “Club La Bohème” per
l’appunto, si dettero uno statuto,
La capanna del “Club La Bohème”
che prevedeva fra l’altro il divieto
di giocare a carte onestamente e di
lasciare vuoti di silenzio. Tra gozzoviglie, bevute, chiacchierate,
sperimentarono una vita bohémienne e Puccini compose “in diretta” quella che sarebbe divenuta
la più celebre fra le sue opere ed
anche il suo titolo melodrammatico più rappresentato al mondo.
Ovviamente al Club si unirono
anche i librettisti Luigi Illica, autore della sceneggiatura e della prima stesura dell’opera e che già
aveva collaborato a Manon Lescaut, e Giuseppe Giacosa il quale
traspose il dialogo in versi.
Illica e Giacosa in tandem stabile
avrebbero poi ancora firmato i libretti per Tosca (1900) e Madama
Butterfly (1904).
La composizione si alternava con
momenti dedicati alla caccia, con
viaggi all’estero e con episodi
fuorvianti, come il celebre incontro con Giovanni Verga a Catania
nel quale aveva pensato di musicare La Lupa, in un clima intenso
di euforia per Puccini.
Ai quadri successivi il compositore lavorò nella propria casa di Pescia, terminando il secondo il 23
luglio ed il terzo il 18 settembre.
Dunque, quasi un anno di lavoro
nel quale non mancò di dedicare
attenzione vivissima al lavoro, arrivando ad estenuare i suoi collaboratori. Fra le modifiche imposte
ai librettisti, ci fu anche la soppressione del terzo atto scritto da Illi-
ca, “Il cortile della casa di Via Labruyère”, con la festa di Musetta,
tratto da un episodio del VI capitolo del romanzo di Murger e che
costituiva il secondo atto della
Bohème di Leoncavallo.
Ma ci fu anche, da parte del compositore, l’attenzione per il «color
locale», la cura per
l’ambientazione, per i
particolari, per la caratterizzazione dei
personaggi, che hanno fatto di un’opera
priva di trama un autentico capolavoro.
Al quarto ed ultimo
quadro cominciò a lavorare il 22 settembre
per terminarlo poi a
Torre del Lago il 10
dicemb e quando annotò sul manoscritto - come sua
abitudine - «a mezzanotte, Torre del
Lago». Si racconta che la morte di
Mimì fu composta al pianoforte
durante una serata del Club e che
il primo a piangere, mentre improvvisava,sia stato proprio Puccini, il quale, in una lettera del 10
novembre del 1895, raccontò
dell’«effetto di avere visto morire una
sua creatura».
La scelta di Torino
per il debutto
adatti ad interpretare i personaggi. Mimì sarebbe stata Cesira Ferrani, la prima Manon Lescaut,
Musetta era Camilla Pasini.
La voce di Rodolfo era di Evan
Gorga, quella di Marcello era di
Tieste Wilmant.
Schaunard era Antonio Pini-Corsi, creatore del ruolo di Happy
nella Fanciulla del West, Colline era
Michele Mazzara e le due parti di
Benoît e Alcindoro furono eseguite da Alessandro Polonini.
Anche il direttore d’orchestra non
fu il Maestro Mugnone, a cui Puccini aveva pensato, ma dal direttore stabile del Regio, un giovane di
28 anni ancora poco conosciuto,
Arturo Toscanini.
La “prima”, il 1 febbraio del 1896,
ebbe un buon riscontro da parte
del pubblico, ma lontano dal successo di Manon Lescaut. La critica
accolse con freddezza quella Bohème, commovente all’ascolto ma
che, a giudizio di molti, non
avrebbe lasciato «grande traccia
nella storia del teatro lirico». Il pubblico invece, via via che si succedevano le repliche, si dimostrò
sempre più entusiasta, fino alla celebre rappresentazione diretta da
Mugnone al Teatro Massimo Palermo, l’8 aprile 1896, che dette
inizio alla fama mondiale dell’opera. L’anno successivo La Bohème
aveva già fatto il giro del mondo.
e. Ca.
Mentre l’orchestrazione era ancora in corso, Puccini cominciò a discutere con
l’editore Giulio Ricordi
il luogo del debutto.
Avrebbe preferito una
città lontana da Milano,
come Roma o Napoli,
ed invece alla fine fu costretto al «bis in idem» di
Manon Lescaut, al Teatro
Regio di Torino. Il
Compositore seguì personalmente
l’allestimento e le prove e si dimostrò abbastanza ottimista nei confronti del
cast imposto da Ricordi.
Un cast che non era formato dalle voci di prima categoria che egli
avrebbe desiderato, ma
da nuovi cantanti “moderni”, forse non eccellenti nella vocalità, ma Manifesto della prima rappresentazione de La Bohème
Il
Giornale dei Grandi eventi
La Bohème
7
Analisi Musicale
Bohème, un lavoro perfetto
nella costruzione teatrale e melodica
«S
ono andati? Fingevo di dormire…». Siamo al quarto
atto di Bohème, all’epilogo. Mimì giace sul letto nella fredda
soffitta di Rodolfo. Gli altri (Schaunard, Marcello, Colline e Musetta)
hanno lasciato soli i due amanti, per
l’estremo addio.
«Fingevo di dormire», sospira Mimì e
Puccini ne prepara la morte con una
di quelle geniali intuizioni che hanno fatto grande il suo teatro. Un lirismo teso e sussurrato di cui, curioso, si sarebbe ricordato poco
tempo dopo Janacek chiudendo la
sua Jenufa con la stessa frase musicale (e i bassi discendenti verso il
grave).
Uomo di teatro, oltre che solido
musicista, Puccini ha toccato in
Bohéme una delle sue punte più alte,
per invenzione melodica, trattamento orchestrale, intuizioni armoniche. Quattro atti, brevi, nei quali
commedia e tragedia si mescolano
continuamente con toni leggeri qua
e là spazzati via dal presagio di una
morte annunciata già nella prima
scena, quando Mimì entra nella soffitta di Rodolfo e ha un breve malore («Che viso da malata», dice lui ammirandola). Il passaggio incisivamente scandito dal sorriso al pianto
rispecchia la vita disordinata ma
piena di passioni e di sogni del
gruppetto d’artisti. Puccini paga il
Il mainifesto de La Bohème di Adolf Hohenstein (1895)
suo maggior tributo al Falstaff verdiano. Un discorso musicale continuo, fluente in modo ininterrotto
nel quale magicamente si coagulano slanci lirici di straordinario impatto emotivo e una declamazione
incisiva e chiara, attenta alla comprensibilità della parola. Un discorso musicale nel quale affiora anche
l’idea del Leit-motiv, associato a
Mimì: un uso, sia chiaro, assai diverso da quello che ne ha fatto Wagner, una citazione melodica che
appare quando in scena c’è la umile
fioraia, una sorta di “sigla” del personaggio che non entra però nel
meccanismo elaborativo musicale.
Un discorso, ancora, che mostra
una intuizione armonica di estremo
interesse: quasi in contemporanea a
Debussy, Puccini indugia su quinte
aumentate, none parallele senza risoluzione, accordi perfetti
accostati senza una rigida
logica “tonale”. La sua è una
tonalità “allargata” e in questo Puccini è davvero un
musicista europeo che sa
misurarsi con quanto accade
al di fuori dei nostri confini:
lo dimostra in Bohème come
l’aveva già fatto in Manon
Lescaut (il “Tristano italiano”
è stato definito) e come l’avrebbe in seguito ribadito in
Turandot dal sapore quasi
espressionista.
Una costruzione perfetta
Caricatura di Puccini al pianoforte
Ma pensiamo al primo incontro fra Mimì e Rodolfo.
Lei bussa, entra con la candela spenta, appare, nella
sua modesta semplicità trasformata rispetto alla figurina intraprendente e un po’
pazzerella dello scrittore
francese Murger: riabilitazione della protagonista femminile che si era
già riscontrata in Manon Lescaut e
che costituisce una regola del teatro
pucciniano. Il musicista costruisce
un duetto diviso in più parti. Dopo
i convenevoli, quando al chiaro di
luna, lui le prende la mano si spalanca il primo squarcio di pura melodia: «Che gelida manina, se la lasci
riscaldar». Poi, terminata la sua presentazione Rodolfo si rivolge a
Mimì («Deh parlate, chi siete, vi piaccia dir») e lei, come proseguendo il
discorso, attacca «Sì, mi chiamano
Mimì…». Si chiudono le presentazioni e dopo un veloce richiamo
dalla strada da parte degli amici,
scoppia la passione e le voci si uniscono: «O soave fanciulla». Scorre la
musica, ma le pause, genialmente
inserite, consentono l’applauso che
arriva inesorabile dopo la parte del
tenore e dopo quella del soprano. In
linea con quanto si può riscontrare
nel coevo teatro italiano (a partire
da Cavalleria rusticana) anche in
Bohème, infatti, vengono superate le
classiche strutture formali del teatro italiano ottocentesco. Il discorso
si fa più fluido e libero, costruito
sulla base delle esigenze drammaturgiche e, nel caso di Puccini, con
un taglio talvolta “cinematografico” che ha fatto indicare nel Lucchese uno dei primi compositori di
“musica da film”. Nello stesso tempo, Puccini non rinuncia al consenso della platea e per questo il duetto
è suddiviso in parti “quasi” chiuse
alla fine delle quali la reazione dei
melomani è scontata: o si applaude
(nella maggior parte dei casi) o si fischia. Scena, dunque, di forte teatralità cui, e siamo nel secondo atto,
si contrappone la coralità festosa e
chiassosa del Quartiere Latino. Puccini volta pagina, architetta un dia-
logo serrato davvero legato all’ultimo Verdi nella sua spigliatezza e
fluidità. Il Valzer di Musetta aggiunge un elemento di leggerezza e
freschezza in più, anche per l’abilità
del musicista di inserirlo e compenetrarlo nella scena. Alla fine dei
due primi atti i personaggi sono ormai presentati, la vicenda si è snodata, i giochi sono fatti. Gli ultimi
due tendono al dramma, anche se la
tenace voglia di vivere bohemien
offre ancora motivi di sorriso e d’ironia.
Il dramma si preannuncia chiaramente sotto la neve della Barriera
d’Enfer. Fredda mattinata, riflesso
meteorologico di un gelo che sta
per abbattersi sui sogni d’amore di
Rodolfo, Marcello, Mimì e Musetta.
«Mimì è tanto malata», confessa Rodolfo all’amico e l’attacco della frase, quasi un declamato sulla stessa
nota, ha l’andamento di una marcia
funebre. Poi il duetto con Mimì che
genialmente si trasforma in un
quartetto (si aggiungono Marcello e
Musetta) in una straordinaria mescolanza di passioni contrastanti, litigi e frasi d’amore. Colpisce qui,
come altrove, la capacità di Puccini
di cogliere magistralmente i caratteri e le situazioni giocando sul colore
delle melodie oltre che sulle melodie in sé.
Si arriva così all’ultimo atto. I quattro giovani hanno ancora voglia di
ridere, di scherzare. Giocano, fingono danze e duelli e quest’atmosfera
gioviale rende ancor più pesante
l’ingresso di Musetta: Mimì è quasi
morente per le scale. «Vecchia zimarra», cantata da Colline è l’ultima
perla della partitura, l’addio ad un
oggetto amato, la resa finale. Crolla
tutto, perché con Mimì muore non
solo un’amica e una donna amata,
muore la vita stessa, la speranza.
Per questo gli accordi che accompagnano i singhiozzi di Rodolfo
suonano tragici, violenti, urlati,
ma anche eroici. Sembrano eccessivi se rapportati alle piccole cose
della scena, alla cuffietta, al manicotto. Eppure danno il senso di
una grande, incommensurabile
tragedia, di fronte alla quale, ancora oggi, nel chiudersi del sipario,
tanti spettatori furtivamente asciugano una lacrima.
roberto Iovino
La Bohème
8
Il
Giornale dei Grandi eventi
Il pneumologo prof. Sanguinetti ci spiega la malattia di Mimì che si pensava debellata
Tubercolosi in pericolosa recrudescenza
P
er secoli si è parlato
di “Mal sottile”, di
una malattia delle
persone troppo sensibili,
quasi un mal d’amore. «In
effetti la consunzione derivante dalla Tubercolosi – ci spiega il professore Claudio
Maria Sanguinetti, direttore
dell’Unità di Pneumologia
dell’Ospedale San Filippo
Neri a Roma - debilita a tal
punto le persone da togliergli
ogni forza, facendole inesorabilmente progredire verso
l’exitus della malattia, quasi
sempre fatale. Un tempo si
pensava che il male fosse indotto dalla tristezza della persona, dalla sua depressione o
malinconia, dal suo animo
troppo gentile».
Se la tubercolosi era conosciuta fin dal tempo della
medicina greca e romana, si
è dovuto attendere il 1882
quando Robert Koch annunciò alla Società Medica
di Berlino la scoperta dell’agente eziologico specifico,
chiamato comunemente in
suo onore “Bacillo di Koch”.
Dovettero però passare ancora 60 anni per arrivare,
alla fine degli anni ’40 del
‘900, alla scoperta di un valido farmaco antitubercolare, la Streptomicina.
«Prima di allora – continua il
professor Sanguinetti – si
agiva con la terapia fisiomeccanica, che consisteva nel procurare dei pneumotoraci per –
diciamo così - “sgonfiare” il
polmone e tenerlo a riposo, in
modo tale che le cavità necrotiche scavate dalla malattia nel
parenchima tendessero a non
espandersi».
d. ma che cosa è la Tubercolosi?
«È una malattia infettiva causata da un micobatterio, il
mycrobacterium tuberculosis (il bacillo di Kock) varietà
Hominis, che si contrae preferenzialmente per via aerogena
oppure per contatto con gli
animali infetti (varietà bovis),
magari attraverso il latte non
sterilizzato. Dato il tipo di trasmissione principale per via
aerogena, nella maggioranza
dei casi il microbatterio in prima istanza si localizza nell’apparato respiratorio, dal quale
può diffondersi ad altre sedi
dell’organismo, diventando
TBC ossea, renale, ecc. Queste
forme extrapolmonari è rarissimo che siano primitive».
«Importante è dire che entro
una certa età, oggi quella scolare della terza media – 14 anni – la maggioranza dei soggetti ha già incontrato il bacillo di Koch. Ma questo “incontro” non significa “malattia”.
L’organismo ha, infatti, naturali poteri di difesa e l’attacco
tubercolare primario avviene
nella maggioranza dei casi a livello di infezione momentanea
e non di malattia. Questo contatto leggero con il bacillo è
importantissimo, soprattutto
in età giovanile, perché produce una memoria immunologi-
Mappa della diffusione della Tubercolosi nel mondo
ca e la c.d. reattività tubercolinica, ovvero crea nell’organismo una sorta di maggiore
resistenza che solitamente dura moltissimi anni. Di questo
primo incontro, che solitamente è scambiato per una semplice polmonite, possono rimanere dei reliquati. Solitamente ce
ne accorgiamo casualmente
dopo tanti anni, facendo una
radiografia. Si noterà una sorta di ghiandoletta calcificata.
Lì è avvenuto l’incontro con il
bacillo, che si è risolto con questo piccolo esito detto “complesso primario”».
«In generale, infatti, la malattia non insorge al primo incontro con il bacillo, a meno
che l’individuo non sia particolarmente debilitato o sia investito da una carica di bacilli
molto importante. Insorge in
una fase successiva, quando il
bacillo riesce a superare le difese dell’organismo magari debilitato e riesce ad insediarsi
creando una lesione a livello
polmonare od in altre sedi. La
malattia si presenta nella maggioranza dei casi come un infiltrato polmonare, al pari di
una comunissima polmonite,
ma se si prelevano campioni ci
si trova il bacillo di Koch».
Il bacillo di koch e la sua
trasmissione
«Il bacillo – continua il professor Sanguinetti, che sulla
sua scrivania tiene un grosso boccale pieno di matite:
«sono una mia piccola passione», dice – si presenta a forma
di bastoncelli con le estremità
arrotondate. É molto infettivo,
ma non è particolarmente resistente all’esterno dell’organismo. Si trasmette con le solite
goccioline di “pflugge”, cioè
con l’escreato proiettato dalla
tosse del malato. Ma nell’ambiente, a meno che non sia localizzato e protetto nella parte
più interna dell’espettorato,
muore».
«Il problema della trasmissione è legato alla sovrappopolazione. Ecco perché i picchi di
malattia si registrano parallelamente alla evoluzione industriale, alla scarsa igiene e la
scarsa salubrità degli ambienti, come la soffitta di questa
Bohème. Quando la popolazione comincia a vivere ed a lavorare in spazi ristretti, le possibilità di contagio aumentano
in maniera vertiginosa».
d. Si può guarire dalla Tubercolosi?
«Qualche anno fa, guardando
radiografie con oscure presenze a livello polmonare, i medici
dicevano: «speriamo non sia
tubercolosi». Oggi di fronte
al problema dei tumori diciamo: «Speriamo sia tubercolosi!» In effetti nella maggioranza dei casi di pazienti senza
fattori di rischio (HIV positivi,
farmacoresistenti) dalla TBC
si guarisce in sei mesi di cure
con farmaci adeguati.
La curva di mortalità della
malattia cominciò a scendere
ai primi del Novecento. Prima
la TBC era fatale per oltre il
50% dei casi. Dopo la scoperta
del bacillo si acquisì la coscienza di malattia infettiva e, pur
non esistendo una cura, furono adottate misure di sanità
pubblica per limitarne la diffusione. In Italia siamo stati all’avanguardia nel contrasto alla malattia e nel controllo epidemiologico. Nel Ventennio
fascista fummo i primi a formare la cosiddetta “catena
dei Sanatori (dove avvenivano i ricoveri) e dei Dispensari (luoghi per controllo di massa)”, ovvero
quelle unità di osservazione
nelle quali avveniva lo screening di massa di tutta la popo-
lazione. Queste strutture, unite all’introduzione della assicurazione obbligatoria (istituita nel 1927, n.d.r.) ed alla relativa indennità che a fronte di
un assegno stimolò la denuncia della malattia, portarono
ad una grossa vittoria sulla
Tubercolosi. Alla fine degli anni ’70, però, con la riforma sanitaria, sanatori e dispensari
furono smantellati. In pratica,
questo si è rivelato un danno,
poiché si sono persi importantissimi osservatori epidemiologici che monitoravano anche
altre malattie, come il tumore
polmonare. Solo ora stiamo ricreando delle sorta di osservatori con iniziative nazionali.
Ci sono stati però vent’anni in
cui abbiamo perso l’evolversi
della patologia respiratoria italiana. In Italia, grazie anche a
questo monitoraggio, siamo
stati all’avanguardia a livello
mondiale nella lotta alla malattia con eminentissimi cattedratici e farmacologia specifica: il farmaco principale, la Rifampicina, è una scoperta e
produzione italiana».
Nuovo allarme mondiale
«Ora però siamo nuovamente
a livello di allarme mondiale. Il
riacutizzarsi delle infezioni è
dovuto ad una serie di cause:
in primo luogo l’infezione da
HIV (il virus dell’AIDS) che
ha aumentatato la suscettibilità di alcuni individui al primo contatto con il bacillo. E la
Tubercolosi è la malattia principale di cui si ammalano i pazienti HIV positivi. È proprio
questo incontro malattia-sieropositività che definisce i casi
di AIDS. In secondo luogo c’è
il gravissimo problema dell’immigrazione: la Tubercolosi
ha un fortissimo serbatoio in
Africa. Ma anche dai Paesi
dell’Est europeo arrivano problemi, perchè in quelle zone le
campagne farmacologiche, a
causa di problemi economici,
sono state discontinue, causando un aumento delle resistenze dei batteri agli antibiotici, per cui oggi si devono sperimentare nuove medicine».
«C’è poi un problema inverso:
la minore diffusione del virus
Il
La Bohème
Giornale dei Grandi eventi
9
La storia della Tubercolosi
Quella “Peste bianca”, esplosa con
l’urbanizzazione e divenuta anche
“malattia romantica”
L
Robert Koch al suo tavolo di lavoro
ha fatto alzare l’età media del
primo contatto con il batterio.
Anche in Italia le giovani generazioni sono meno resistenti
e quindi più facilmente contagiabili da una quantità di batteri superiore al normale. La
vita è una lotta continua tra
noi che ci difendiamo e l’ambiente che tenta di attaccarci.».
d. ma perché si muore di
consunzione, come mimì?
«La Tubercolosi è una malattia
infettiva a lenta progressione,
che se non curata provoca un
progressivo deperimento dell’organismo. Nella parte terminale della patologia - come avviene nel tumore - il paziente
lasciato a se stesso dimagrisce e
si consuma per il rilascio da
parte dei bacilli di mediatori e
sostanze tossiche. La morte per
tumore ha un parallelo con
quella da Tubercolosi che si
aveva fino all’inizio degli anni
’50, dovuta alla mancanza di
farmaci specifici. Fino a quel
momento la TBC veniva curata
con presidi non farmacologici,
cercando di rinforzare l’organismo attraverso una migliore e
più concentrata alimentazione
o mandando i malati in montagna, al sole (elioterapia, specie
per le forme ossee), in modo da
rinforzare in generale l’organismo e renderlo più reattivo
contro il bacillo».
«Precedentemente alla scoperta di Koch questa consunzione
veniva attribuita ad una alterazione dell’umore, della psiche, dei sentimenti. Su questo
si innestarono atteggiamenti
sociali. Tra ‘700 ed ‘800 si è
passati da una società dove la
nobiltà era la classe dominante
ad una dove il predominio era
della borghesia. Gli obesi erano
considerati volgari, attaccati a
cose terrene. Così la tubercolosi con la sua consunzione divenne espressione di un animo
nobile. Si ritornava pallidi,
magri, verso canoni estetici
più delicati, ad una interiorità,
piuttosto che alla grassa opulenza dei nuovi ricchi, privi di
qualsiasi forma di poesia. Parallelamente esisteva il concetto di malattia come punizione
per una colpa e nel Medioevo
chi si ammalava di Tubercolosi
veniva considerato dissoluto,
per aver fatto un cattivo uso
del proprio corpo. Anche Violetta nella Traviata subisce
una sorta di espiazione attraverso la malattia».
«Ma dopo che Koch dimostrò
trattarsi di malattia infettiva
ed i malati vennero allontanati, è subentrata la metafora del
distacco Crepuscolare. E poi,
Thomas Mann che ne fece un
percorso iniziatico: solo chi si
ammalava riusciva a diventare
un artista. La Tubercolosi in
questo modo è stata mitizzata
nei secoli. Per tutto questo, il
malato di Tubercolosi non si è
quasi mai sentito discriminato
come ora avviene con l’AIDS.
Negli anni ’80 la TBC è diventata un problema degli emarginati del mondo, ma ora con i
fenomeni immigratori è tornato problema nostro».
«La Tubercolosi è la metafora
della globalizzazione: dobbiamo
smettere di pensare di vivere in
un mondo felice in cui possiamo sconfiggere qualsiasi malattia. Questa malattia di cui conosciamo tutto, compresa la terapia e della quale avevamo celebrato la fine, è tornata più
forte di prima».
andrea marini
a storiografia e la letteratura medica più
recente hanno metaforicamente definito
la Tubercolosi, “peste bianca” e “grande assassina”, in ragione del pallore cadaverico dei
malati e per il fatto che dal XVI secolo, sino a
metà Ottocento, circa il 25% di tutte le morti in
Europa erano verosimilmente dovute a questa
malattia.
La parola “Tubercolosi” risale al 1862, e per secoli erano stati utilizzati nomi diversi per indicare
una malattia spesso confusa con altre, a causa
della mancanza di una netta specificità dei segni clinici. “Tisi” e “Consunzione” erano i termini più concordanti per la forma polmonare. Nel
1882 Robert Koch dimostrava, infine, che i caratteristici tubercoli caseosi sono dovuti all’infezione da parte di un batterio specifico (Mycobacterium tubercolosis). Da quel momento la diagnosi della malattia è diventata eziologica.
dagli animali all’uomo
L’uomo ha contratto il batterio della tubercolosi dai primi animali domestici, nella fattispecie
dai bovini. Lesioni ossee descritte in alcune
mummie egizie del 2400 a.C. vengono attribuite alla tubercolosi e nei poemi omerici sono già
presenti allusioni a malattie di petto, con decorso lento e progressivo deperimento. Alla fine del V sec. a.C. si trova chiaramente descritto
nei testi ippocratici il tipico quadro clinico: febbre, tosse, sputo con sangue, aspetto emaciato
e perdita dei capelli. Il termine usato per tale
condizione era phthisis, che significava estinzione, ovvero diminuzione e deperimento.
La malattia era endemica nell’antica Grecia e
nella Roma Imperiale. I medici romani consigliavano le cure più diverse: dai bagni nell’urina umana al sangue di elefante, dal fegato di
lupo al latte fresco. A seconda dei tempi e dei
luoghi si è consigliato il riposo o l’esercizio fisico, il salasso e il digiuno o un’alimentazione
abbondante, i viaggi in montagna o la permanenza a livello del mare.
malattia romantica
Per spiegare le epidemie di Tisi, la medicina ippocratica ricorreva all’influenza di fattori ecologici, in modo particolare alle condizioni metereologiche, alle influenze telluriche e regime
alimentare. Ma molta importanza veniva attribuita anche alla costituzione della persona, intesa come espressione globale della mescolanza individuale degli umori. Di fatto, fino alla fine dell’Ottocento la Tisi fu considerata soprattutto una malattia ereditaria e l’idea prevalente
era che «il tisico nasce dal tisico». Nell’età romantica, prima della scoperta dell’eziologia microbica, la consunzione venne anche associata alla
costituzione delle persone dotate di talento, in
particolare artistico, ed era una sorta di marchio stilistico della bellezza tragica.
Il numero cospicuo di artisti che sono stati col-
piti e uccisi dalla tubercolosi, e che ne hanno
scritto durante l’Ottocento e la prima metà del
Novecento riflette l’impatto epidemiologico
particolarmente drammatico che assunse la tubercolosi in coincidenza con i processi di urbanizzazione e industrializzazione in tutti i paesi
europei e negli Stati Uniti. Affollamento delle
abitazioni, scarsa igiene, cattiva nutrizione ed
eccessivo sfruttamento fisico sono fattori ambientali che favoriscono la diffusione della malattia. Agli inizi dell’Ottocento a Londra e a Parigi le autopsie mostravano che nell’ambito di
alcune popolazioni urbane quasi il 100% aveva
contratto la malattia.
A partire dal 1860 la tubercolosi cominciò a declinare grazie al progresso economico, che migliorava le condizioni abitative e alimentari in
generale, al miglioramento dell’igiene e alla
diffusione dei sanatori. Questi ultimi, erano
istituti di cura, situati in località con climi particolari e il principio che aria pulita, sole, quiete, buona alimentazione e bellezza del paesaggio avessero terapeutici era in un certo senso
valido per una malattia il cui decorso dipende
dalle condizioni immunitarie dell’ospite. Anche la chirurgia contribuì a rendere trattabile la
malattia.
L’introduzione degli antibiotici, a metà degli
anni Quaranta del Novecento, accentuò il declino della tubercolosi. Fino circa vent’anni fa.
In Italia a questa vittoria contribuì in modo
fondamentale le campagne di lotta e prevenzione varati durante il periodo fascista. Ma poi
lo smantellamento dei programmi di controllo
nella maggior parte dei paesi occidentali, sulla
base dell’idea che la malattia fosse destinata ad
estinguersi, l’aumento del numero di persone
che per varie cause, in particolare migrazioni,
vivono in condizioni in povertà e precarietà
abitativa, l’aumento del numero di tossicodipendenti nella stesse condizioni, l’epidemia di
HIV e lo sviluppo di ceppi di bacillo resistenti
agli antibiotici hanno favorito il riemergere
della tubercolosi.
Oggi sono circa 10 milioni i nuovi casi ogni anno, e la tubercolosi è ancora la malattia infettiva che causa il maggior numero di morti: circa
3,5 milioni, concentrati nei paesi in via di sviluppo.
gilberto Corbellini
Ordinario di Bioetica e Storia della Medicina
Università La Sapienza di Roma
La Bohème
10
Il
Giornale dei Grandi eventi
Un aspetto poco conosciuto del Maestro
Puccini poeta: tra rime sarcastiche e versi delicati
C
he Puccini sia stato un
musicista, un uomo di
teatro, un artista squisito
ed agguerrito, adorato oppure
odiato, non v’è dubbio. Ma è altrettanto vero - anche se la cosa è
a molti ignota - che, accanto alle
composizioni musicali, egli scrisse anche un certo numero di
composizioni poetiche: alcune
sono vere e proprie poesie, molto
più spesso pochi versi in rima. La
rima è, infatti, l’elemento pressoché costante che accomuna questi... “parti letterari”. Ma perché il
musicista si trasformava, a volte
in... poeta? Essenzialmente per
“alleggerire” una fitta rete di corrispondenza con i personaggi
più vari. A ciò si deve aggiungere che l’artista, il letterato, il “borghese” di allora amava indulgere,
forse più di quanto non avvenga
oggi, alla battuta facile, scherzosa, mordace, spesse volte innocentemente sboccata; ed era caso
abbastanza frequente per lui scrivere, o ricevere, una lettera total-
Giacomo Puccini in una foto con sua
dedica del 1906
mente in rima o che terminava
con qualche verso spesso “macheronicus”, specialmente se il corrispondente era persona amica.
Alcune di queste “rime” sono vere poesie, a volte musicate da lui
stesso; altre, dediche scherzose
su fotografie o su edizioni delle
sue opere, donate amichevolmente; altre, infine, versi-guida
per i suoi librettisti i quali, su
questi precisi schemi ritmici, dovevano stilare i versi definitivi.
Fra gli amici di Puccini c’era il
medico Guglielmo Lippi, prematuramente scomparso, il cui figlioletto Memmo fu protetto,
quasi adottato da un altro amico
comune, Alfredo Caselli, intimo
in amicizia con Giovanni Pascoli.
Per questo bambino Giacomo nel
1899 scrisse una semplice e carezzevole ninna-napna per canto e
pianoforte, su testo di Renato Fucini, intitolata E l’uccellino. 54 battute, musicate in 2/4, nella tonalità di re maggiore che iniziano:
E l’uccellino canta sulla fronda: /
dormi tranquillo, boccuccia d’amore:
/ piegala giù quella testina bionda, /
della tua mamma posala sul cuore.
Altro amico era Luigi Pieri, funzionario delle Poste milanesi, col
quale l’amicizia non soltanto rimase costante nel tempo, ma, forse per il fatto di essere entrambi
trapiantati nella stessa città, venne continuamente rafforzata ed
estesa pure ai rispettivi congiun-
ti.. Giacomo e i suoi parenti erano
“di casa” nella famiglia Pieri. Il
maestro era particolarmente adorato dalla figlia del suo amico, la
piccola Mietta, che lo considerava uno zio. Ad essa Puccini inviò
spesso spartiti e fotografie con
dediche gentili e scherzose. Su
uno spartito di Bohème, regalato
alla fanciulla, 8 versi ispirati dal
successo della sua opera, sono
appunto una dedica. Riguardo
all’anno della sua stesura, si potrebbe azzardare qualche anno
dopo il 1896 quando uscì, per i tipi della Ricordi, la prima edizione stampata dello spartito
La Bohème
colla speme
vive e gode!
Passan mode
passan anni
cogli affanni:
la Bohème
nulla teme!
L. di. d.
L’origine del termine Bohémien
Da dispregiativo per i nomadi a vezzeggiativo artistico
L
e parole che compongono una lingua possono, nel
corso della propria storia, evolversi ed assumere diversi significati ed
accezioni.
Bohémiens in realtà è il
termine con cui in francese si definiscono le minoranze nomadi della
Boemia, ora regione della Repubblica Ceca. Per
molto tempo ci si riferì a
loro con disprezzo, come
a un popolo di ladri e
malfattori senza fissa dimora e senza nessuna
preoccupazione per il
proprio futuro.
E’ a partire dagli inizi
dell’800 che, grazie ad
una nuova sensibilità e
qualche pregiudizio in
meno, si fece strada un
nuovo significato.
Autori come Honorè de
Balzac
(1799-1850),
George Sand (18041876), Victor Hugo con i
suoi Miserables, ma soprattutto Henri Murger
822-1861) furono tra i
primi a svelare il fascino
della vita vagabonda in
semplice povertà di un
gruppo di persone (la
bohème, per l’appunto)
che non cerca ricchezze e
vive in comunione per la
musica e l’arte, contrapponendosi alle rigide regole del vivere borghese.
Per Murger, questo stile
di vita assume tale importanza da essere considerato una tappa fondamentale della vita artistica. Nella prefazione di
Scènes de la vie de bohème,
che costituisce quasi un
documentario della vita
bohémienne parigina intorno al 1840, egli individua tre tipi fra i tanti
bohémiens che frequentano il Quartiere Latino di
Parigi: gli artisti sconosciuti che evitano la notorietà e che spesso
muoiono di fame; i giovani, provenienti da fa-
miglie borghesi
che scelgono di
vivere in bohème
per puro divertimento, sapendo
di avere una famiglia alle spalle
presso cui possono tornare in
qualsiasi momento; infine, chi cerca la più vasta
popolarità guidato dall’ambizione
o dalla stravaganza, pronto a
adattarsi
allo
squallore come alla lussuria.
Alla fine dell’Ottocento,
la bohème andò gradualmente estinguendosi,
scomparendo definitivamente all’inizio della
Prima Guerra mondiale.
Tuttavia, nel XX secolo,
sorsero molti movimenti
in stile bohème, si pensi
alla beat generation e agli
hippies. In Italia, il termine bohémien si diffuse inizialmente con un tentati-
vo di equivalente nella
parola “scapigliatura” coniata da Cletto Arrighi
(1830-1906) o anche con
il francesismo
“boemme”, che propriamente vuol dire “vita da
zingaro”.
Oggi, praticamente in
tutto il mondo, la parola
bohème è usata a indicare
un modo di vita anticonformista, legato alla
giornata.
L. Pe.
Il
Giornale dei Grandi eventi
La Bohème
11
La scoperta del nostro collaboratore
Quel brano marinaresco diventò il Valzer di Musetta
«…Ha in sommo grado quelle
doti che rendono così simpatico e così applaudito l’autore;
una vera eleganza, un equilibrio costante, una teatralità
che non si smentisce mai e che
rivela nel Maestro la perfetta
conoscenza del teatro odierno
e delle esigenze del pubblico…
». Commentava così nell’ottobre 1896 Lorenzo Parodi, critico musicale del
“Caffaro”, dopo il debutto a
Genova di Bohème di Giacomo Puccini. Fra il Lucchese
e Genova era stato “amore
a prima vista” sin dal 1887
quando il Carlo Felice aveva ospitato Le Villi, tre anni dopo il debutto al Regio di Torino. Da allora ogni
rappresentazione delle opere pucciniane era stata garanzia di successo e di
“esauriti” nelle principali sale cittadine, il Carlo Felice, appunto e il Politeama
Genovese. Per i genovesi Puccini divenne un idolo. Basta ricordare il curioso
gesto di un libraio che battezzò la figlia neonata Butterfly, per esprimere la
propria solidarietà all’artista, dopo il fiasco di Madama Butterfly del 1904! Ma
anche Puccini seppe ripagare i genovesi di tanto amore dedicando alla Superba
due pagine musicali inserite successivamente nella Bohème. Ben conosciuta è la
lirica “Sole e amore” il cui testo recita: «Il sole allegramente batte ai tuoi vetri. Amor
piano piano batte al tuo cuore e l’uno e l’altro chiama. Il sole dice: ‘O dormiente mostrati che sei bella’. Dice l’amore: ‘Sorella, col tuo primo pensier, pensa a chi t’ama?…
». Composta nel 1888, la lirica fu donata nello stesso anno alla rivista musicale
“Paganini” di Genova (fascicolo n.23, anno II). La pagina si concludeva con la
dedica musicata «A Paganini, G. Puccini», in sostituzione delle originarie parole
«Il primo marzo dell’Ottantotto», probabilmente la data di composizione. è interessante notare che “Sole e amore” si trasformò poi nel quartetto (Mimì, Musetta, Rodolfo e Marcello) del III atto, appunto della Bohème.
Il Valzer di musetta
Meno conosciuta è invece l’origine genovese di un’altra celebre pagina di Bohème che lo scrivente ha avuto la ventura di ritrovare (grazie alla collaborazione
di Roberto Beccaria, bibliotecario alla Biblioteca Berio di Genova) e di pubblicare in uno studio sui teatri genovesi scritto con Ines Aliprandi. Nel settembre
1894, in occasione della consegna della bandiera di combattimento alla corazzata Umberto I, il periodico “Armi ed Arte” (direttori Egisto Roggero e Temistocle Bousquet, editrice Montorfano di Genova) pubblicò un numero speciale
e chiese la collaborazione di vari artisti, scrittori e musicisti. Alberto Franchetti
inviò un “Tempo di marcia”, Luigi Mancinelli una romanza (“Alla mia Luisa”),
Edoardo Trucco una canzone marinaresca (“Onda turchina”). Puccini regalò un
“Piccolo valzer” pianistico la cui didascalia iniziale «Con ondulazione» indica l’origine e la destinazione marinaresca. Lo stesso autore spiegò che la composizione gli era stata ispirata dall’ondeggiare della barca nel lago di Massaciuccoli
dove era solito andare a cacciare. Il valzer passò poi nel II atto di Bohème e divenne, pressoché inalterato, il famoso Valzer di Musetta. Scritto nella tonalità
di mi maggiore, un accompagnamento essenziale, mosso da un leggero arpeggio interno che suggerisce “l’ondulazione” indicata in apertura, il Valzer è di
estrema piacevolezza e ben rispondeva alle esigenze del giornale che richiedeva pagine di facile esecuzione per i propri lettori. Affidato successivamente a
Musetta, il Valzer si è poi trasformato nello spirito, pur rimanendo identico
musicalmente, per rendere genialmente il carattere estroso, brillante e capriccioso della figurina di Murger: un quadretto delizioso che fissa indelebilmente
non solo il personaggio ma l’ambientazione festosa del Quartiere Latino.
roberto Iovino
Il Romanzo di Henri Murger “Scènes de la Vie de Bohème”
Dalla soffitta abitata da Murger
alla disputa Puccini-Leoncavallo
P
uccini con l’opera La Bohème
rese proverbiale quel termine francese che oggi, nel linguaggio comune, indica con una
sola parola il periodo povero, allegro e turbolento che precede l’affermazione di un artista. Ma non
ne fu l’inventore. Il musicista trasse infatti soggetto e titolo da un romanzo dell’autore francese Henri
Murger. Nato nel 1822, Murger
all’epoca era un giovanotto di ventitré anni, pieno di sogni e di speranze, che viveva con un amico in
una povera soffitta. E proprio partendo dalle sue esperienze autobiografiche, cominciò a pubblicare
tra il 1945 e il 1949 su “Le Corsaire
Satan” (periodico diretto da Gérard de Nerval) dei brevi bozzetti
intitolati Scènes de la bohème, in cui
narrava del sottobosco artistico parigino. Si rivelarono freschi e graziosi: allora su consiglio di Jules Janin e con la collaborazione di
Théodore Barriere, ne trasse nel
1849 una commedia intitolata La
Vie de bohème. Il successo fu tale da
indurre l’editore Lévy a pubblicare
nel 1851 il libro, che rimaneggiava
i vecchi bozzetti e che nel titolo riprendeva i due titoli precedenti:
Scènes de la vie de bohème. Con la
commedia e la successiva pubblicazione del romanzo, Henry Murger poté infine abbandonare la soffitta in cui viveva: la sua bohème era
terminata nel migliore dei modi ed
egli era divenuto uno scrittore affermato. Ma pur avendo pubblicato in seguito altri libri, il suo nome
rimase legato all’operina di gioventù. Un successo tanto improvviso e violento quanto effimero, il
cui ricordo sarebbe stato cancellato
dalla scomparsa prematura dell’autore (che morì a 39 anni, nel
1861), se il romanzo, una trentina
d’anni dopo, non fosse capitato
nelle mani di Puccini.
La decisione di Puccini di musicare
un libretto tratto dal romanzo di
Murger scatenò però la polemica
con Ruggero Leoncavallo, che ave-
va avuto prima la medesima idea.
La discussione andò a finire sui
giornali milanesi: “Il Secolo”, di proprietà dell’ editore musicale Sonzogno, tenne le parti di Leocanvallo,
di cui Sonzogno era l’editore, mentre “Il Corriere della Sera” prese le difese di casa Ricordi e di Puccini.
Profetiche furono le parole – poi entrate nella storia - con cui Puccini rispose al collega: «Egli musichi, io
musicherò. Il pubblico giudicherà. La
precedenza in arte non implica che si
debba interpretare il medesimo soggetto
con uguali intendimenti artistici».
due Bohème differenti
Profondamente diverso è il modo
in cui i due musicisti affrontarono
il problema del rapporto col romanzo. Leoncavallo si mantenne
assai vicino - forse troppo - alla
struttura bozzettistica e rapsodica
del libro di Murger, con la sua pletora di personaggi e situazioni. Viceversa Puccini, aiutato da Illica e
Illustrazione del 1911 nel Cinquantenario
della morte di Henri Murger
Giacosa, sfrondò il libretto delle vicende e delle figure superflue, indirizzando e piegando la frammentazione del testo originale entro un unico disegno, sul quale risaltano le figure di Rodolfo e Mimì
e di Marcello e Musetta. Ne sortì il
capolavoro che tutti conosciamo e
che a più di un secolo dalla sua prima rappresentazione, mantiene intatta la fragranza dell’amore, della
spensieratezza e della mestizia di
cui è impregnato.
e. P.
La Bohème
12
Il
Giornale dei Grandi eventi
Il sodalizio tra il compositore ed il primo direttore di Manon e Bohème
Amicizia ed incomprensioni
tra Puccini e Toscanini
N
on conosciamo il
momento in cui
ebbe inizio l’
amicizia tra Puccini e Toscanini. Forse essa dovrebbe risalire al gennaio
1890 quando il ventiduenne Toscanini diresse
per la prima volta una
composizione del trentunenne Puccini, un’edizione de Le Villi al Teatro
Grande di Brescia. Ma si
trattava di un’amicizia alquanto formale, poiché è
certo che tre anni più tardi i due continuavano
ancora a darsi del “lei”.
L’anno successivo, mentre Toscanini si trovava a
Pisa per cimentarsi per la
prima volta con la Manon, scrisse una lettera a
Puccini, nella quale gli
dette del “tu”: «Domani
prima prova d’orchestra con
tutti, artisti e masse corali… Se tu vuoi onorarci della tua presenza fallo, e al più
presto possibile…».
Fu quello lo spettacolo
che diede inizio al sodalizio tra Puccini e colui che
il biografo pucciniano
Mosco Carner definì «il
suo interprete preferito».
Questi rapporti stretti furono costruiti sulla tomba del grande amico di
Arturo Toscanini
Toscanini, Alfredo Catalani. Quest’ultimo ammirava molto Toscanini, ed
a sua volta era profondamente stimato dal giovane direttore d’orchestra.
Così Catalani fece quanto
poté per aiutare la carriera di Toscanini nei primi
anni. Catalani, che aveva
sofferto di tubercolosi
per gran parte della sua
vita, ebbe l’opportunità
per ogni sua opera di ottenere la partecipazione
di un librettista esperto.
Le sue opere furono pubblicate dalla Ricordi o da
Giovannina Lucca, le due
case editrici musicali più
in voga in Italia. Man mano che le sue condizioni
di salute peggioravano,
egli diveniva però invidioso di altri giovani
compositori – Mascagni,
Leoncavallo e, soprattutto, Puccini – e guardava
con sospetto chiunque
sembrasse aiutarli a qualsiasi titolo. Si era persuaso che persino Giuseppe
Verdi volesse distruggerlo attraverso un presunto sostegno per Puccini.
Il “gran vegliardo” fu
molto offeso da questa
accusa infondata ed in
una lettera a un critico
musicale scrisse
a proposito del
Catalani «Ho altro per la testa
che occuparmi
del
maestrino
lucchese».
All’inizio
del
1893, con l’avvicinarsi del debutto Manon Lescaut, i timori
per un eventuale
successo dell’opera
divenne
per
Catalani
un’ossessione e
poi l’iniziale e
poi sempre crescente apprezzamento del pubblico, non fece
altro che accre-
scere la sua invidia. Aveva capito perfettamente
che il destino di Puccini
era una fama duratura,
mentre il proprio destino
era quello di essere dimenticato in fretta. Sei
mesi dopo la prima della
Manon (Teatro Regio di
Torino, 1 febbraio 1893),
Catalani morì.
Toscanini assistette l’amico malato fino alla fine
e fu per lui un lutto sincero. Il dolore per quella
scomparsa aveva radici
artistiche oltre che personali; era convinto che Catalani avrebbe potuto
realizzare opere migliori
di quelle di musicisti a
suo dire più modesti,
quali Leoncavallo e Mascagni. Molti anni più
tardi Toscanini, ormai
vecchio, disse di Catalani
«Penso sempre a lui. Per me
il vuoto che lasciò non sarà
mai colmato», per quanto
non avesse lasciato nessuna opera capace di assicurarsi una popolarità
duratura. Il fatto è che si
sentiva più vicino all’estetica catalaniana che
non a quella di altri, rendendosi conto però che
compositori come Mascagni e Puccini avevano
realizzato le loro idee con
maggiore efficacia di
quanto non fosse riuscito
con le proprie, l’amico
venuto a mancare.
La Manon fu accolta clamorosamente a Pisa. “La
Nazione” riportò queste
parole in una famosa recensione «il maestro fu dal
primo atto fino all’ultimo
continuamente applaudito.
Si presentò alla ribalta per
ben venti volte in mezzo
all’entusiasmo».
Molti
commentatori hanno ipotizzato che all’epoca Puccini non fosse ancora
quell’uomo di teatro dal
fiuto sicurissimo, che sarebbe poi diventato,
mentre componeva due
anni dopo quella che sa-
rebbe stata la sua opera
di maggior successo, La
Bohème. Bohème che andò
in scena per la prima volta al Regio di Torino il 1
febbraio 1896, diretta ancora da Toscanini. Puccini si era inizialmente opposto alla scelta di Torino
per il battesimo della sua
ultimogenita «Non ne sono troppo contento», scrisse a Giulio Ricordi, «primo perché il teatro è sordo,
secondo “non bis in idem”
(rispetto a Manon, n.d.r.),
terzo il direttore è un omaccio, quarto troppo vicino ai
botoli milanesi che mi sfotteranno sicuramente».
L’opposizione di Puccini
alla scelta di Torino non
può essere attribuita ad
altra causa diversa dal
suo nervosismo puro. Ricordi però insistette sulla
città piemontese ed il
compositore, una volta
arrivato in città per le
prove, si tranquillizzò poco a poco: «Ho trovato Toscanini gentilissimo», scrisse il 6 gennaio a Luigi Illica, co-librettista de La
Bohème assieme a Giuseppe Giacosa. Per poi aggiungere «L’orchestra! Toscanini! Straordinar!i». La
“prima” dette un impeto
decisivo ad un proficuo
rapporto professionale e
ad un’amicizia fragile ma
duratura. Puccini voleva
affidare anche la “prima”
della sua successiva opera, Tosca, a Toscanini scrivendogli: «ricordati che tu
devi essere il suo sverginatore». Ma poi per motivi vari non fu così.
Il direttore d’orchestra
ruppe i rapporti con la
Scala nella primavera del
1903, e quindi non diresse la disastrosa prima di
Madama Butterfly, che vi
ebbe luogo nel 1904. Puccini, ripensandoci anni
più tardi, giudicò la mancanza di Toscanini come
motivo del fiasco. Altri
battibecchi nacquero dai
commenti negativi di Toscanini per La Rondine
(1917) ed Il Trittico (1918),
che causarono nuove tensioni tra i due. Ciò nonostante, uno degli ultimi
piaceri regalati a Puccini
fu la grande edizione scaligera della Manon, nella
stagione 1922-23, che coronò un momento bellissimo della sua vita «Stasera una grande Manon, e
se il pubblico non si scuote
vuol dire che viviamo in Saturno invece che sulla Terra. Toscanini è un vero miracolo di sentimento, di finezza, di sensibilità di equilibrio… mai e poi mai ho goduto tanto a sentire la mia
musica».
Livio magnarapa
Il
Giornale dei Grandi eventi
La Bohème
13
Il primo interprete di Rodolfo
Evan Gorga, il tenore collezionista
N
el 1957, a 92 anni, morì il
tenore che portò al successo la Bohème, l’opera italiana più eseguita a livello internazionale e allo stesso tempo un collezionista che ci ha lasciato una
delle collezioni di strumenti musicali più ricche al mondo, ma anche
tante altre importanti raccolte che
si trovano ora essenzialmente in
diversi musei della Capitale. Eclettico e riservato, Gennaro Evangelista Gorga – detto Evan – è stato un
personaggio importante per la cultura italiana, solo da poco riscoperto, del quale appena l’anno scorso
è stata ritrovata l’unica incisione
esistente. Si tratta di alcune frasi
musicali della celebre aria “Che gelida manina” incise da Gorga all’età
di circa 90 anni.
Nato nel 1865 Broccostella, in provincia di Frosinone, Gorga proveniva da una famiglia della piccola
nobiltà ciociara. Da ragazzino si
trasferì a Roma e ben presto cominciò ad appassionarsi follemente alla musica: gli spettacoli che si
davano al Teatro Apollo accesero
in lui la fiamma dell’arte lirica, tanto da indurlo a gettarsi a corpo
morto nello studio del pianoforte.
Un giorno fu sentito suonare dal
maestro di ballo della corte sabauda Francesco Pascarella, che lo volle assolutamente prendere con sé
come pianista accompagnatore.
Gorga divenne così in breve uno
dei pianisti più richiesti in quell’ambiente aristocratico ben descritto da D’Annunzio nel Piacere.
Verso la Bohème
Il caso volle che un giorno il suo
amico Francesco Tamagno, celeberrimo tenore all’apice del successo, rimasto afono, lo pregasse di
sostituirlo in una recita dell’Ernani
di Verdi. Fu un trionfo. Cominciò
per Gorga una carriera brillante,
che dopo appena un anno lo condusse a Milano nello studio di Ricordi per un’audizione di fronte a
Puccini, Illica e Giacosa, i quali stavano scegliendo il cast per la prima
di Bohème. «El g’ha pur le physique
du rol!», esclamò in schietto milanese Illica. Gorga fu scritturato anche in base al fatto che la sua bella
e distinta figura lo avrebbe reso un
perfetto, seducente Rodolfo. La
prima di Bohème, nonostante Gorga fosse stato sottoposto a massacranti turni di prova per acconten-
Evan Gorga in scena come Rodolfo
tare un direttore esigente come Toscanini, fu un successo strepitoso
di pubblico, ma la critica si espresse negativamente.
Gorga continuò a calcare le scene
dei più importanti teatri italiani, fino a quando, nel 1899 a 34 anni,
decise improvvisamente di abbandonare una carriera lirica che gli
stava dando le più grandi soddisfazioni, per dedicarsi alla vera
passione della sua vita: il collezionismo.
Fin da ragazzo aveva messo in piedi una collezione di strumenti musicali, raccattando vecchi pianoforti, spinette antiche, clavicembali,
che le famiglie nobili dove andava
ad accordare i pianoforti, volentieri gli regalavano; ma adesso, con i
soldi ottenuti con il teatro e dall’eredità paterna, cominciò a collezionare i più disparati oggetti.
Si sa che il collezionista si imbatte
di solito in quello che non cerca e
Gorga si lasciò prendere la fantasia
e la borsa da questa sorte ironica.
Cercava una ghironda, gli capitavano sottomano ferri chirurgici
medievali, ed egli li acquistava.
Era sulle tracce di un sistro o di
una tromba dei tempi di Cesare e
gli offrivano invece una raccolta di
antefisse, ed egli metteva le ceramiche architettoniche accanto agli
strumenti musicali ed ai ferri chirurgici. Per via di successivi e graduali agganci, arrivò agli atlanti ed
ai mappamondi antichi, ai libri di
medicina ed alle iscrizioni. Poté
avere nelle sue collezioni la cattedra dalla quale insegnava alla Sapienza il celebre medico Lancisi,
un pezzo di affresco antico che
completa una collezione esposta ai
Musei Vaticani, una collezione di
bozzetti di terracotta fra i quali se
ne annoverano del Bernini.
E ancora fossili, animali impagliati,
bambole, armi, lucerne, scaldini,
ferri battuti. Tutto questo enorme
materiale storico, scientifico ed artistico doveva costituire, nelle sue
intenzioni, una documentazione
tangibile dell’evoluzione della civiltà dei popoli nella religione, nelle scienze, nelle arti, nel lavoro ed
in tutte le altre manifestazioni della
vita, dai tempi preistorici all’epoca
contemporanea.
Trenta collezioni
in dieci appartamenti
Tale imponente complesso fu suddiviso in trenta collezioni diverse,
vastissime, che egli dovette alloggiare in ben dieci appartamenti in
Via Cola di Rienzo a Roma. La
maggior parte di esse erano sistemate alla meglio in casse o in mucchi; altre, come la collezione musicale, che
contava seimila pezzi, ordinatamente allestite.
Queste collezioni furono molto invidiate dai contemporanei, tanto
che nel 1911 il miliardario americano Pierpoint Morgan gli offrì un
assegno in bianco per la sua collezione di strumenti: Gorga rifiutò
freddamente perché non avrebbe
sopportato l’idea che quei preziosissimi oggetti fossero portati fuori
dei confini italiani. Fu così che alla
fine, stremato dai debiti, Gorga
firmò negli anni ’30 un patto con lo
Stato italiano: egli avrebbe ceduto
al Paese le sue enormi raccolte,
purché gli fossero ripianati i debiti
e si costituisse con i proventi dell’allestimento delle collezioni un
Collegio lirico, dove i giovanetti con
bella voce fossero istruiti al canto, e
un Teatro Massimo del Popolo, enorme, attrezzatissimo,
in grado di competere con il cinema; tutto questo doveva essere
consacrato alla rinascita dell’arte lirica italiana, fonte di ricchezza e di
gloria per l’Italia.
Il povero Gorga riuscì semplicemente ad ottenere dieci borse di
studio in conservatorio per ragazzi
di famiglie non abbienti. La sua
enorme collezione di strumenti
musicali è oggi il nucleo centrale
del Museo degli Strumenti Musicali di Roma in Piazza Santa Croce
in Gerusalemme, mentre le altre
raccolte furono smembrate fra i vari musei italiani, disperdendo così
un patrimonio unico e prezioso.
Una delle stanze della collezione di strumenti musicali di Gorga
an. Ci.
La Bohème
14
Il
Giornale dei Grandi eventi
In 115 anni dal suo debutto
62ª Bohème all’Opera di Roma
Q
uesta è la sessantaduesima
edizione della Bohème al
Teatro dell’Opera di Roma. Nella Capitale, infatti, la storia
di Mimì trovò i primi consensi appena tre settimane dopo la tiepida
accoglienza che l’aveva salutata il 1
febbraio 1896 al suo debutto al
Teatro Regio di Torino, diretta dal
maestro Arturo Toscanini. In questa, che si presentava come una vera e propria verifica, l’opera approdò all’Argentina con il podio
affidato ad un direttore di consolidata professionalità come Edoardo
Mascheroni, protagonisti il tenore
greco Giovanni Apostolu nei panni di Rodolfo, l’ottimo baritono
portoghese Maurizio Benasaude
era Marcello (ancora nella Bohème
al Costanzi nel novembre successivo). Il ruolo di Mimì fu invece affidato a Angelica Pandolfini, figlia
del famoso baritono, mentre una
vivace voce a Musetta venne da
Rosina Storchio (che sarà poi nel
1904 la prima interprete di
Madama Butterfly).
Al Teatro dell’Opera (allora Costanzi) l’opera debuttò il 17 novembre dello stesso anno (12 le repliche) con la direzione di Edoardo
Vitale ed interpreti Maria Stuarda
Savelli, Lina Pasini Vitale, Enrico
Giannini Grifoni, Maurizio Bensaude, Arturo Cerratelli e Leopoldo Cromberg.
Nel 1900 a dirigerla fu chiamato
Leopoldo Mugnone, che due mesi
prima (14 gennaio) aveva guidato
con successo il debutto di Tosca.
Tra gli interpreti Gina Caprile, Clara Rommel, Ferdinando De Lucia,
Vincenzo Ardito, Enrico Morero,
Ruggero Galli e Ettore Borelli. Nel
1902 sul podio fu Edoardo Vitale, il
quale diresse anche le edizioni del
1905, del 1912 e del 1916. Nel 1909
fu Pietro Mascagni a dirigere le 11
repliche de La Bohème con Rina
Giachetti come Mimì.
Protagonisti eccellenti come Pia
Tassinari, Beniamino Gigli, Maria
Fersula, Mario Basiola, Giacomo
Vaghi, Saturno Meletti, Adolfo Pacini e Azelio Zagonara furono nel
1935 diretti da Tullio Serafin.
Seguirono, sotto la direzione di
Oliviero De Fabritiis, le edizioni
del 1937 con Beniamino Gigli e del
1938 con Pia Tassinari e Giacomo
Lauri Volpi. De Fabritiis fu ancora
protagonista sul podio nell’inverno del 1940, del 1945, del 1950,
1955, 1956 con la partecipazione di
Giacomo Lauri Volpi e Onelia Fi-
neschi, con Tito Gobbi nel 1961 e
1962 (con Clara Petrella) ed infine
nel 1964.
Diretta nel 1946 da Gabriele Santini, l’opera pucciniana ebbe come
protagonisti Beniamino Gigli, Afro
Poli, Maria Carbone e Filiberto Picozzi. Ancora Santini a guidare le
quattro repliche del 1947 con Giacomo Lauri Volpi, Onelia Fineschi,
Maria Huder e Afro Poli.
Le tre repliche nella stagione invernale del 1951 aprirono un periodo
di direzione di Gianandrea Gavazzeni. Protagonisti Magda Olivero,
Rolando Panerai, Enzo Titta e Gino
Conti. Sul podio Il direttore bergamasco scomparso nel 1996, tornò
nell’edizione del 1953 con Clara
Petrella, Marinella Meli, Giuseppe
Di Stefano e nel 1954, ancora con la
Petrella e la Meli.
L’ultima rappresentazione nella
superba cornice delle Terme di Caracalla risale al 1967, diretta dal
maestro Carlo Franci, con la partecipazione di Maria Chiara, Edda
Vincenzi, Ruggero Bondino, Ferdinando Lidonni e Arturo La Porta. I
maestri Kuhn e Sanna si alternarono nella direzione delle rappresentazioni del 1986, mentre nel 1992 a
dirigere tra i palchi dorati del Co-
stanzi fu Daniel Oren con la regia
ed allestimento di Franco Zeffirelli,
mentre sul palco furono Mirella
Freni, Francisco Araiza, Adelina
Scarabelli, Roberto Servile e Pietro
Spagnoli.
L’ultima rappresentazione nella
stagione estiva è stata quella del
1996 a Piazza di Siena, dove il Teatro dell’Opera – orfano da due anni
di Caracalla – si spostò dal 1995
per due estati. Sul podio l’allora
24enne russo, ma residente in Germania, Wladimir Jurowski, mentre la regia fu affidata a Maria Fabbri e scenografia e costumi al bravo Ivan Stefanutti. La “gelida manina” fu quella di Miriam Gauci,
mentre Giuseppe Sabbatini indossò i panni di Rodolfo e Roberto
Servile ancora quelli di Marcello.
Infine, l’ultima Bohème al teatro
Costanzi è stata quella di 8 anni
fa, quando dal 20 giugno andarono in scena 10 repliche con le scene del classicissimo allestimento
del 1963 di Franco Zeffirelli il
quale ne curò anche la regia. A dirigere Gianluigi Gelmetti. Mimì
fu Carla Maria Izzo e Rodolfo
Massimo Giordano.
Francesco Piccolo
Il luogo della prima rappresentazione
Il Teatro Regio di Torino
I
naugurato il 26 dicembre 1740 con l’Arsace di
Francesco Feo, il Teatro Regio di Torino era
stato commissionato dieci anni prima da
Carlo Emanuele III all’architetto Filippo Juvarra, alla morte del quale subentrò Benedetto Alfieri. Concepito come strumento di rappresentanza e celebrazione della stabilità della dinastia
sabauda, il Teatro era collegato al Palazzo Reale
tramite la Galleria del Beaumont (oggi Armeria
reale) ed il Palazzo delle Segreterie (la Prefettura) e fu costruito con tecniche per l’epoca d’avanguardia, come la cavità sotto l’orchestra per
migliorare la resa acustica e l’orientamento obliquo dei palchetti verso il palcoscenico.
Nell’enorme sala ellittica, dotata di sedili mobili
e 152 palchi con decorazioni color cremisi e oro,
per un totale di 2500 posti, le stagioni teatrali si
susseguivano dal 26 dicembre alla fine del Carnevale e comprendevano sempre due opere serie composte appositamente per il Teatro.
Nel corso della seconda metà del Settecento, lavorarono per il Regio i più noti musicisti europei, fra cui Giovanni Paisiello e vi cantarono i
castrati e le prime donne più celebri, che venivano ingaggiati per l’intera stagione, contribuendo
ai grandi successi degli spettacoli ed alla fama
del Teatro in tutta Europa.
Alla fine del XVIII secolo, negli anni della dominazione francese, il Regio cambiò nome più volte e passò sotto la gestione della municipalità e
di impresari privati, fra cui si ricorda Giacomo
Pregliasco. In quegli anni repubblicani furono
vietati in teatro l’impiego dei castrati ed il gioco
d’azzardo, come abolito fu il palco reale, ripristinato nel 1804 a esclusivo beneficio di Napoleone, quando il Teatro divenne Théâtre Imperial.
Napoleone fu presente agli spettacoli e alle feste
in tre occasioni, mentre le opere italiane erano
presentate da artisti di prima grandezza, come il
soprano Isabella Colbran, il tenore Nicola Tacchinardi e il coreografo Salvatore Viganò. Con la
Restaurazione il teatro ritornò ai Savoia, perdendo però importanza rispetto a Milano, Napoli e Venezia.
Ai tempi di Carlo Alberto insieme al Palazzo
Reale, alla Biblioteca ed al Castello di Racconigi,
il Regio ricevette un’impronta architettonica
neoclassica con i lavori di Ernesto Melano e Pelagio Palagi, per poi assumere una nuova veste
neobarocca nel 1861 con i lavori di Angelo Moja.
Nel 1870, la proprietà passò al Comune di Torino. Furono gli anni in cui lavorarono al Regio
Carlo Pedrotti, Arturo Toscanini, Giacomo Puccini, che vi tenne a battesimo Manon Lescaut
Il palcoscenico del Regio di Torino durante la rappresentazione di
"Arsace" di Francesco Feo nel 1740 in un dipinto di D. Oliviero
(1893) e La Bohème (1896) e Richard Strauss, che
nel 1906 vi diresse la “prima” italiana di Salomè.
Nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1936 la sala fu
interamente distrutta da un incendio.
Fu soltanto dopo quarant’anni, il 10 aprile 1973,
che il nuovo Teatro ideato da Carlo Mollino e
Marcello Zavelani Rossi, poté essere inaugurato
con l’opera di Giuseppe Verdi
I Vespri siciliani. La struttura imponente e vasta,
che occupa un’area pari a quella di 8,5 campi di
calcio, con i suoi sei ponti mobili vanta il secondo palcoscenico d’Europa per grandezza, dopo
l’Opéra-Bastille di Parigi.
L. di d.
Il
Giornale dei Grandi eventi
Dal mondo della musica
15
Il Festival pucciniano di Torre del Lago
Da una Bohème d’esportazione ad una
Butterfly accuratamente filologica
T
orre del Lago ha conservato vivo l’affetto per
quel musicista che proprio sulle rive del Lago di Massaciuccoli dipinse uno dei suoi
più grandi affreschi musicali,
quello che è oggi il titolo operistico italiano più rappresentato
al mondo. La Bohème (22-30 luglio/12-20-27 agosto) sarà nel
2011 il titolo guida del cartellone del Festival Puccini, nel colorato e suggestivo allestimento
coprodotto con Hong Kong
Opera House per la regia di
Maurizio Di Mattia. Costumi
firmati da Anna Biagiotti per gli
artisti che calcheranno il palcoscenico tra le scene di Maurizio
Varamo. Cinque le serate con
un’ambientazione che propone
una Tour Eiffel ante litteram .
La cultura giapponese sarà poi
(6, 11 e 18 agosto) protagonista a
Torre del Lago con l’esclusivo
allestimento,
anteprima
italiana dell’altro capolavoro
pucciniano madama Butterfly
in una lettura accuratamente filologica con scene e costumi
provenienti dal Sol Levante,
grazie alla coproduzione con
NPO di Tokyo. Una produzione
che evidenzia nei più piccoli
dettagli il fascino della cultura e
della tradizioni giapponesi che
tanto avevano incuriosito il
maestro Puccini. La regia è affidata al baritono giapponese
Takao Okamura, le scene sono
disegnate da Naoji Kawaguci
mentre i costumi sono firmati
dal più famoso stilista di Kimono Yasuhiro Ciji. Una curiosità:
In libreria
Dai manoscritti dei librettisti
il percorso verso Bohème
L
a Bohème nacque da un processo assai elaborato di gestazione
del libretto, che impegnò i letterati Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, il usicista Giacomo Puccini e l’editore Giulio Ricordi dal
marzo 1893 al gennaio 1896, passò attraverso varie fasi di selezione
e assemblaggio degli elementi narrativi, contemplò stesure plurime
dei testi, lasciò dietro di sé un numero elevato d’avanzi di lavorazione. I manoscritti della Bohème, conservati negli archivi di Giacosa
e di Illica, documentano questo processo con una parte cospicua
delle redazioni preliminari del libretto, finora per lo più ignote: tele
parziali, abbozzi di episodi, stesure continue di parti d’atto sulle
quali Puccini compì i primi passi nella composizione dell’opera, interi atti scartati. Nel volume Verso Bohème - Gli abbozzi del libretto negli archivi di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, curato da Virgilio Bernardoni, professore di Musicologia e Storia della musica ell’Università
degli studi di Bergamo, per i tipi della
editrice Leo S. Olschki (2008 - €
32,oo), per la prima volta i materiali
di lavoro superstiti vengono esaminati integralmente, di alcuni di essi si
compie una ricostruzione sulla base
del riordino di fogli e appunti sparsi,
di tutti si presenta un’edizione completa. Risulta così possibile illustrare
direttamente sui testi la genesi di un
titolo fra i più rappresentativi del repertorio operistico di fine Ottocento e
considerarne in modo più circostanziato la storia alla luce delle tendenze
in atto nella librettistica coeva.
nei ruoli orientali troveremo solo interpreti
giapponesi, mentre nei
ruoli occidentali solo
interpreti occidentali.
Sarà, invece, Turandot (23-29 luglio/ 713-26 agosto) il terzo
titolo d’opera del Festival. Ripresa del monumentale allestimento realizzato per le celebrazioni pucciniane nella fortunata ed apprezzata messa in
scena regia di Maurizio Scaparro, scene di Ezio Frigerio e costumi di Franca Squarciapino.
Una serata speciale completerà
la kermesse sul grande palcoscenico affacciato sul lago caro a
Puccini. Il 26 luglio protagonista
la danza con roberto Bolle &
Friends, lo stesso spettacolo che
tre giorni prima, il 23 luglio sarà
alle Terme di Caracalla nell’amito della Stagione Estiva
dell’Opera di Roma. L’etoile,
tra le più grandi ed acclamate in
ambito internazionale, propone
uno spettacolo unico nel suo genere che ripercorre in un’unica
straordinaria serata un secolo e
mezzo di storia di balletto.
mi. mar.
Novità in libreria
Sanguineti e la musica
«L
a Bohème è del 1896. La mia idea è
che Puccini sia l’inventore della musica da film. Il cinema è nato nel
1895. Le sue arie sono nate per una scena cinematografica. C’è una specie di abbandono melodico che conserva molto della tradizione melodrammatica ma si è trasformato in un flusso
completamente diverso dalle strutture che usano
altri autori nell’Europa del tempo». E’ un’affermazione di Edoardo Sanguineti, tratta da
«Conversazioni musicali», un libro recentemente edito dal Melangolo di Genova. Si
tratta di una serie di “conversazioni”, appunto, fra il grande poeta (scomparso lo scorso
anno) e il critico Roberto Iovino che del volume n’è il curatore.
Il libro era nato come un lavoro “a quattro mani” sul teatro musicale, in
forma di dialogo. Rimasto incompiuto per la morte del Poeta, Iovino e
l’editore, in accordo con la famiglia Sanguineti, hanno mantenuto il testo
fino ad allora prodotto e hanno trasformato il libro in un omaggio al secondo mestiere del Poeta, quello del librettista. Per questo motivo in appendice è stato inserito un Catalogo delle opere musicali scritte su testi di
Sanguineti, catalogo arricchito dalle testimonianze di molti artisti che
hanno avuto modo di collaborare con il letterato, da Globokar a Liberovici, da Ambrosini a Scodanibbio, da Corghi a Manzoni; senza dimenticare naturalmente il collaboratore storico e scomparso da anni, Luciano
Berio. Il “secondo mestiere” iniziò per Sanguineti con l’incontro proprio
con Luciano Berio. I due artisti si “trovarono” subito e a partire da Passaggio (1961-‘62) ebbero numerose e proficue collaborazioni: basta pensare a Laborintus II (1963-‘65), ad A-Ronne (1974-‘75), al Canticum Novissimi
Testamenti I e II (1974) ed a Stanze (2003).
Nel tempo a Berio si sono aggiunti numerosissimi musicisti, affascinanti
dal mondo poetico di Sanguineti, ma anche dalla sua disponibilità a creare, a sperimentare.
«Ci sono due modalità diverse di collaborazione - spiegava Sanguineti - La prima si ha quando si compone un testo per un musicista. Allora occorre trovare un
accordo e questo può risultare immediato o richiedere discussioni. L’altro caso invece si ha quando si scrive un pezzo senza pensare che possa essere musicato. Se
un musicista, poi, lo sceglie, ha lui tutto in mano. Ho un’idea servile della parola
nei confronti della musica».
Fr. Pi.
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