Oro e Allume nella storia dell'isola d'Ischia di Giuseppe Pipino È noto che, nel V Libro della Geografia (cap. 4, 9), Strabone scrive, secondo le traduzioni italiane più accreditate: «Pitecusa fu colonizzata da Eretriesi e da Calcidesi che, benché vivessero nella prosperità grazie alla fertilità della terra e alle sue miniere d’oro (cruseia), abbandonarono l’isola a seguito di lotte e anche perché cacciati da terremoti e da eruzioni di fuoco, di mare e di acque bollenti». L’autore greco, che scriveva nel I secolo dopo Cristo, dimostra di conoscere molto bene l’isola d’Ischia e, comunque, fornisce notizie molto attendibili ricavate da autori precedenti, in particolare da Timeo di Tauromenio (356-250 a. C.), autore di una Storia della Sicilia che non ci è pervenuta. Gli avvenimenti narrati vanno però riferiti a qualche secolo prima (VIII-VII sec. a.C.), al periodo, cioè, della prima colonizzazione greca dell’isola. Per la quasi totalità degli studiosi che hanno trattato l’argomento, nel testo ci sarebbe un errore o un’errata trascrizione, perché non risulterebbe che nell’isola vi fossero mai state miniere d’oro. Pais (1908) sostiene che si tratta di fonderie di bronzo (calkeia) o, meglio ancora, di botteghe di ceramica o di “pignatte d’argilla” (cruteia), possibili grazie alla presenza di giacimenti d’argilla. Secondo Mureddu (1972) si tratterebbe invece di botteghe per la lavorazione dell’oro (cruseia), ritenute presenti sulla base del ritrovamento di un piccolo peso facente probabilmente parte di un bilancino da orafo, tesi ribadita da Buchner (1975) che, anzi, sostiene di esserne stato l’ispiratore e afferma che nei codici straboniani più antichi si legge «...crusia, che ha il significato di oro lavorato, oreficerie». Lo stesso Autore, che già aveva dato notizia del ritrovamento del peso da orafo e di manufatti metallici sicuramente lavorati sul posto (Buchner 1971), ci dice del successivo ritrovamento, oltre che di alcuni gioielli in argento, talora placcati in oro, di una lamina d’oro lavorata a sbalzo analoga a quelle «....etrusche di stile orientalizzante antico» trovate a Cuma e databili all’VIII sec. a.C.: sulla base di tale ritrovamento e di considerazioni sui vasi contenitori, afferma che «...si possiedono ormai elementi in numero sufficiente per avanzare ragionevolmente l’ipotesi che gran parte di queste oreficerie sia stata prodotta a Pithecusa» e conclude l’articolo «... formulando l’ipotesi che i primi esempi dello stile orientalizzante che si trova in Etruria siano stati ideati e prodotti a Pithecusa dai coloni euboici». Contagiato, evidentemente, dagli autori precedenti, esclude però la possibile presenza di miniere d’oro, «... per ragioni geologiche». Vero è che gli scavi archeologici dimostrano che a Pitecusa venivano costruiti vasi con l’argilla locale e che si lavorava il ferro, e forse il rame, dell’Isola d’Elba, ed è probabile che vi fiorì l’arte orafa, non è però condivisibile la tesi, avanzata da Mureddu, secondo la quale, poiché lo stesso termine, cruseia, * Museo Storico dell’Oro Italiano - Predosa (AL) costituito nel 1987 ------- (www.oromuseo.com) 18 La Rassegna d’Ischia 6/2009 * poteva designare sia le miniere d’oro che le officine per la lavorazione, come nel caso di altri metalli, Strabone abbia voluto riferirsi soltanto a botteghe orafe: il termine generico, come quello più generale di miniera, può infatti riferirsi alle operazioni di estrazione e di prima lavorazione di un dato metallo, ma non certo ad attività manifatturiere non collegate direttamente allo scavo. L’attitudine ad attribuire ad errori delle fonti i particolari che non si riescono a spiegare, è piuttosto comune, ma, fortunatamente, il progresso delle conoscenze porta talora a riconoscere la giustezza di notizie in precedenza ritenute prive di fondamento. È il caso, per rimanere nell’ambito delle miniere d’oro nostrane, dei decreti del IV secolo degli imperatori Valentiniano, Graziano e Valente, tendenti a regolamentare prima, a proibire poi, il flusso di cercatori d’oro (aurileguli) in Sardegna: poiché fino ad una ventina d’anni fa si negava l’esistenza dell’oro nell’isola, nota invece per la ricchezza d’argento, si tendeva, generalmente, ad attribuire i decreti ad un errore o ad una formula generica che riguardava il secondo metallo, e non il primo. Le mie ricerche, e le mie prime indicazioni (Pipino 1987-88, 1989), dimostrarono invece che, oltre alle tracce d’oro segnalate dagli autori in giacimenti di altri metalli, vi era la concreta possibilità che l’isola ospitasse giacimenti auriferi di tipo epitermale (oro invisibile), possibilità puntualmente accertata con l’apertura della miniera di Furtei e col riconoscimento di analoghi giacimenti nel Sassarese, non sfociati in miniere per opposizioni ambientali. Nello stesso periodo applicavo la mia tesi ad altre parti d’Italia, comprese l’Isola di Ischia e la zona Tolfa-Allumiere, nelle quali potevo verificare la presenza di tracce d’oro in condizioni geo-minerarie analoghe a quelle di Furtei (processi di alunitizzazione e silicizzazione ai contatti fra rocce sedimentarie e vulcaniti recenti). Scrivevo, allora (Pipino 1989): «Nell’isola di Ischia sono state riscontrate, al momento, soltanto lieve anomalie (d’oro) in alcuni livelli piroclastici e ai contatti tra vulcaniti ignimbritiche e sedimenti marnosoarenacei: locali arricchimenti superficiali stanno forse alla base dell’antico ritrovamento aurifero citato da Strabone». Al tempo non sapevo della segnalazione di miniere d’oro, ad Ischia, anche in tempi più recenti, e il mio veloce sopralluogo riguardò aree note per antiche estrazioni d’allume (Catreca sopra Casamicciola). Solo dalla successiva consultazione delle opere di Elisio (1500) e di Iasolino (1588) venivo a sapere che una miniera d’oro era segnalata nella parte opposta dell’Isola (Campagnano), cosa che non avevo potuto verificare e che, a quanto pare, oggi è difficilmente verificabile a causa dell’intensa urbanizzazione della zona. Per quanto riguarda il primo autore, del quale constateremo l’attendibilità, occorre ricordare che Pais (1908), riferendosi a quanto scritto da Iasolino, afferma che nell’opera di Elisio, riportata da Mazzella (1591), non c’è traccia delle notizie sulla presenza di miniere d’oro, presenza che peraltro egli esclude fermamente sulla base di informazioni avute da un geologo, secondo il quale «...la costituzione gelogica di Ischia esclude la possibilità che vi sia mai stato minerale d’oro». Ma non è vero che nella descrizione termale di Elisio riportata da Mazzella non si trovino cenni sulla presenza dell’oro, e comunque, a mio parere, prima di essere così drastico, Pais avrebbe dovuto cercare la fonte prima, cosa non tanto difficile, dato che l’opera è conservata la dove è lecito aspettarsi di trovarla, cioè nella Biblioteca Nazionale di Napoli, oltre che nella Biblioteca Apostolica Vaticana e nella Biblioteca Universitaria di Bologna: da quest’ultima proviene la riproduzione, delle prime due parti, servita per il presente studio e conservata al Museo Storico dell’Oro Italiano (Pipino 2009). Che poi oggi non si trovi traccia di oro nell’isola non deve recare meraviglia, dato che l’oro non cresce come i funghi e, una volta asportate completamente le parti affioranti dei “filoni”, non ne rimane più traccia. D’altra parte non rimane traccia neppure di zolfo e allume, e noi sappiamo della loro presenza e della secolare raccolta soltanto grazie alla documentazione storica. Mi pare quindi opportuno riproporre le notizie sulla presenza dell’oro, fornite da Elisio (1500) e da Iasolino (1588), alla luce delle odierne conoscenze e dei dati storici raccolti, e poiché questi si riferiscono in gran parte all’allume, il cui legame con l’oro (epitermale) è oggi riconosciuto, ritengo utile riassumerli, integrandoli con osservazioni di carattere generale e segnalando gli errori più evidenti nella letteratura recente. Frontespizio del libro di Giovanni Elisio L’oro di Ischia secondo i vecchi autori e le conoscenze giacimentologiche Di Giovanni Elisio sappiamo soltanto, dalla letteratura, che fu medico alla corte aragonese di Napoli e membro dell’Accademia Alfonsina-Pontaniana. Sarebbe vissuto, secondo i più, fra il Quattro e il Cinquecento, nel solo Quattrocento secondo Iasolino (1588). La sua opera presa in considerazione consiste in un libretto, con pagine non numerate, contenente una succinta enumerazione dei “bagni” di tutta la Campania seguita da un “libello” contro i cattivi medici e da consigli contro l’orribile flagello del morbo gallico. L’Autore si qualifica “medico napoletano” e dedica i primi due scritti al principe Bernardino Sanseverino di Bisignano. Non sono riportati il luogo di edizione, il nome del tipografo e l’anno di stampa, che secondo Manzi (1971) sarebbero, rispettivamente, Napoli, Antonio de’ Frizzis e, approssimativamente, il 1519. Però, alla fine del secondo scritto, l’Autore lo data esattamente al 1500 e afferma di essere al servizio della regina Giovanna e del cardinale Loysio d’Aragona. La mancata citazione del consorte di Giovanna, re Ferrante, morto alla fine del 1496, concorda pienamente con la data indicata. Il libretto, se realmente pubblicato intorno al 1519, rappresenterebbe una compilazione pubblicata, probabilmente, dopo la sua morte: infatti, il dedicatario, a cui egli si rivolge più volte come persona vivente, era deceduto nel 1517. Ma Frontespizio del libro di Gulio Iasolino La Rassegna d’Ischia 6/2009 19 ci sono altre considerazioni che rendono incerta la datazione originaria dell’opera e la sua stessa paternità. Anzitutto il nome dell’Autore, che si firma Joannis Elisij medici neap. Ora, dell’accademico Elisio abbiamo due opere certe, il De mirabilitus mundi che segue il “Liber aggregationis” di Alberto Magno, in un postincunabolo stampato probabilmente nel 1490 da Alfonso de Cantano, e il De philosophia naturali, seguito dallo scritto di Landolfo Caracciolo Quaestiones in secundum librum sententiarum Petri Lombardi, in un altro postincunabolo stampato probabilmente a Napoli fra il 1490 e il 1495 da Francesco del Tuppo, e in entrambe le opere l’Autore si firma Joannes Baptista Elysius. Poco diverso è il nome riportato su un’altra opera meno nota, la Acutisssimi natura exploratoris ac phisice... databile ai primi del ‘500, nella quale l’Autore si firma Ioannis Baptiste Elisii Neapolitani actu legentis philosophiam in alma universitate Neapolis (BiblIoteca Panizzi di Reggio Emilia). C’è quindi la concreta possibilità che il nostro medico napoletano sia persona diversa dal conterraneo, contemporaneo e (quasi) omonimo filosofoaccademico. Va poi considerata la descrizione dei “bagni” riportata da Leonardo Astrino in appendice alle Chroniche de la Inclyta Cita de Napole, del 1526: si tratta di una trascrizione letterale di quelli di Elisio, ma l’autore non viene affatto citato, anzi, nell’introduzione si afferma che si è voluto riportare alla primitiva originale stesura la nobilissima e vera antica Chronica composta per lo generosissimo Messere Joanne Villano. Appare improbabile che, a soli 6 anni dalla pubblicazione, Astrino abbia potuto plagiare i “bagni” ignorando completamente l’Autore, mentre la cosa diventa più probabile a distanza di 26 anni. Inoltre, la citata edizione del 1526 ricalca (ma quanto fedelmente?) una prima edizione della fine del Quattrocento, oggi introvabile. Delle cronache, note col titolo generico di Cronaca di Partenope, esistono numerosi manoscritti, anonimi e diversi, del Trecento e del Quattrocento, oltre a copie posteriori, nelle biblioteche di tutta Europa (una anche di New York), e ricalcano quelle fiorentine di Giovanni Villani, citato nella prefazione, per cui nelle pubblicazioni a stampa questi ne sarà considerato l’Autore, ma verrà designato come Giovanni Villano napoletano. In molte edizioni sono riportati i “bagni”, in forma diversa e sempre con ambigua attribuzione all’Autore delle Cronache. Vale la pena di ricordare che tutte iniziano con l’arrivo dei greci calcidesi nell’isola di Pythecusa, che però viene identificata con Procida. Di un certo interesse, anche per le successive numerose ristampe, è l’opera Le antichità di Pozzuolo e luoghi convicini di Ferrante Loffredo (1570), che dice essere queste «trascritte dal vero antichissimo testo de lo generosissimo missere Iohanne Villano» e che, in edizioni successive, riporta la descrizione “de bagni d’Agnano, Pozzuolo e Tripergole” che nulla hanno a che vedere con i “bagni” di Elisio. Da altre fonti ci viene suggerito un titolo diverso per i bagni di Elisio, definiti di Terra di Lavoro oppure di Pozzuoli, Baia e Ischia. Probabilmente vi è una qualche confusione o correlazione con l’opera duecentesca De balneis terris Laboris 20 La Rassegna d’Ischia 6/2009 di Pietro da Eboli, ricopiato più volte nei secoli successivi, anche col titolo De balneis puteolanis, la cui prima edizione a stampa dovrebbe essere quella contenuta nel libro De Mirabilius Civitatis Puteolanis pubblicato a Napoli nel 1475, con prefazione di Francesco Aretino. Da questa, Elisio poté trarre informazioni sui bagni di Pozzuoli, anzi, sembra che li abbia parafrasati, anche se descritti in ordine diverso: è certo, comunque, che la doctrinam balneandi, posta da Elisio alla fine dei bagni di Pozzuoli, ricalca i balneandorum canones di Pietro Aretino. Rimane il dubbio sui bagni di Ischia, aggiunti a quelli della terra ferma soltanto in edizioni successive (ad Elisio) dei Balneis Puteolanis. Il nostro Autore, ad ogni modo, nella iniziale dedica al principe Sanseverino rivendica espressamente la «...succintam hanc nostram de balneis instaurationis». Da tutto quanto sopra, appare evidente una possibile contaminazione tra opere diverse e di varia epoca, ma è certo che lo scritto elisiano che ci interessa va collocato nella seconda metà del Quattrocento, seppure pubblicato in epoca successiva. Nell’esemplare preso in esame, i “bagni” di Ischia sono gli ultimi ad essere enumerati e, alla fine, si trova una breve nota sull’eruzione del 1301, interessante perché è una delle prime e perché l’evento è esattamente datato. Segue l’indice (rubrica) e, dopo di questo, un breve commiato diretto al solito principe Sanseverino, nel quale l’Autore vanta, oltre alla bontà medicinale delle acque, la fertilità del suolo e la presenza di prodotti naturali: dice, fra l’altro, tradotto dal latino: che l’isola «... abbonda di solfo, allume e oro, come fu in passato accertato dagli eccellenti e perspicacissimi veneti». Elisio ebbe certamente informazioni attendibili e di prima mano, riguardo alla notizia citata: sappiamo, infatti, che negli anni sessanta del Quattrocento le miniere d’allume di Ischia erano nelle mani di mercanti veneziani, come vedremo. Nella trascrizione dei “bagni” elisiani contenuta in appendice alle Chronache di Artino (1526), non troviamo la notizia che ci interessa, in quanto non sono riportate le dediche, iniziale e finale, al principe Sanseverino, così come è omesso ogni riferimento al nostro Autore. La notizia sulla presenza dell’oro è poi pubblicata, tronca, nella compilazione De Balneis omnia pubblicata nel 1553 a cura di Tommaso Giunta, nella quale si trova il Breve compedium de totius Campaniae Balneis di Joannis Elysii: vi si legge, infatti, dopo l’elencazione dei bagni d’Ischia, che l’isola abbonda di «...sulfuris, aluminis, aurumque». Nella successiva compilazione di Giovanni Lombardi (1566), a Giovanni Elisio vengono attribuiti solo i bagni di Ischia, ai quali vengono aggiunti, singolarmente, delle osservazioni classicheggianti (non inutilibus Scholiis), ma sono omesse le notizie generali sull’isola, quindi anche quella che ci interessa; lo scritto verrà riproposto nella seconda edizione del libro di Iasolino (1689), preceduto da una introduzione del medico Giovanni Pistoia. Mazzella (1591), che probabilmente ebbe a modello non l’originale di Elisio, ma la compilazione De Balneis, e non ebbe il tempo di consultare Iasolino, riproduce la descrizione dei bagni Puteolanorum, Baiarum et Pithecusarum, attribuita al medico Ioanne Elisio, con alcune aggiunte e riferimenti ad altri autori: ripropone fra l’altro, i canoni balneari di Francesco Aretino e la di lui dedica a Pio II, contenuta nella prefazione del 1475. La breve descrizione dei bagni di Ischia è preceduta da una sommaria descrizione storica e naturalistica dell’isola, nella quale l’Autore ricorda l’affermazione di Strabone sulla presenza e sull’abbondanza delle miniere d’oro; continua poi elencando le risorse naturali, tra le quali, tradotto dal latino: «...miniere d’oro, di allume e di solfo, che furono scoperte nell’anno 1465 dal genovese Bartolomeo Perdice». Quest’ultima affermazione, che si trova poi tal quale in autori successivi, in particolare Aldrovandi (1648), è evidente frutto di confusione fra un passo del Pontano (1509) che, come vedremo, non parla di oro e non cita la data precisa, e quanto ricavato dal passo di Elisio pubblicato, tronco, nel De Balneis. Per quanto riguarda il medico napoletano di origine calabrese Giulio Iasolino, possediamo una dettagliata biografia ad opera di Buchner (1958) che, fra l’altro, ne evidenzia la scrupolosità e la profonda conoscenza dell’isola d’Ischia. Iasolino (1588) dimostra di conoscere bene l’opera di Elisio e ne riporta importanti passi, con piccole modifiche e con integrazioni dovute alle sue osservazioni personali: «...e sono in essa miniere d’oro, come è manifesto non solo per quello che lasciò scritto Strabone, ma anche col testimonio de’ moderni: sì come si dimostra con l’autorità di Giovanni Elisio: il quale nel suo libro, che scrive de’ Bagni di Terra di Lavoro, e dedicato al serenissimo Bernardino Sanseverino, principe di Bisignaio, dice che l’isola d’ Ischia è abbondante e ferace di frutti, di eccellentissimo grano e vino generoso, di solfo, di allume e d’oro, come ancora l’hanno ritrovata e sperimentata i nobilissimi e ingegnosissimi Signori Venetiani». E, poco oltre: «...Vi è anco la miniera dell’oro a Campagnano vicino la cappella di Santo Sebastiano; e questa credo sia quella che scrisse Strabone, e ancor quella che avessero gli anni a dietro esaminata, e fattone pruova i Signori venetiani, secondo quando si legge appresso a Giovanni Elisio, come abbiamo detto». La localizzazione della miniera d’oro a Campagnano fu probabilmente suggerita a Iasolino da ricordi ancora vivi sul posto e, a quanto dice, egli poté vederne le tracce (...e chiaramente se ne vede una, in quel luogo, dove dicono Campagnano). Sempre nei pressi di Campagnano, l’Autore segnala la presenza di altri interessanti elementi geo-minerari, che non mette in relazione con la miniera d’oro: «...Viene dopo il gran promontorio detto della Parata...dopo l’altro, detto Pisciazza della Vecchia, così chiamato per una linea minerale, che in esso di vede, che scende dal monte sopra il Casale di Campagnano...Si vedono in quelle rupi (lungo il mare) li colori delle miniere, e massimamente del ferro, e dell’ocri; è copiosa di arena nera, ferrigna, che tira la calamita come il ferro». La miniera d’oro è indicata, in latino (Auri fodina), sulla carta topografica allegata alla pubblicazione, carta eseguita nel 1586 dall’incisore romano Mario Cartaro su incarico del medico napoletano e su sue precise indicazioni. Nella carta, orientata a sud, è riportata la leggenda dei bagni e dei toponimi, in latino e in italiano, con riferimento alla Fodina auri, Miniera di oro. La carta Iasolino-Cartaro ebbe molto fortuna e fu riprodotta, con o senza riferimenti al primo autore e più o meno modificata, in molti atlanti cartografici successivi, di scuola fiamminga e italiana (Niola Bucchner 2000). L’Auri Fodina è, in particolare, riportata nella carta inserita da Ortelio nel IV Additamenta (1590) del Theatrum Orbis Terrarum e nelle successive ristampe dell’opera, dal 1601 al 1612, mentre in quella inserita nel 1620 da Antonio Magini nel Disegno dell’Italia, il toponimo è italianizzato (Minera d’oro), come tutti gli altri. Minera d’oro si legge ancora nelle carte di Ischia riportate nel Théatre du Monde di J. Janssonius, del 1639, e nel Theatrum Orbis Terrarum di J e C. Blaeu, del 1640, in quella rifatta da Francesco Massari per la seconda edizione dell’opera di Iasolino (1689), e in quelle riportate nella raccolta Magni Atlantis Systema, della fine del Seicentro, nel secondo volume dell’ Atlante veneto di Vincenzo Coronelli, del 1696, nel IX volume del Thesaurus Antiquitatum et Historiarum Italiae, del 1723. Tra i “bagni” elencati da Iasolino, due ci interessano in modo particolare, il bagno Aurifero, o bagno dell’oro (Balneum Auriferum), e il bagno Argenteo, o bagno dell’argento (Balneum Argenteum), ubicati nella valle d’Ombrasco (Cala Umbrasci) . Il primo è «... un fonte non molto grande, ma di copiose e abbondanti acque chiare, e dolci... e senza nessun odore ingrato. Quivi non senza grande stupore, s’osserva una bellissima meraviglia della natura: peròche quando il fonte è pieno, e ben netto, quelle acque mostrano nella loro superficie uno escremento d’oro, che fa una tela sottile, quasi un sottil velo d’oro finissimo, di più di ventiquattro carati.... noi l’abbiamo voluto chiamare bagno Aurifero: perché mena seco l’oro, siccome si legge fanno molti fiumi; anzi abbiam più volte sperimentato e particolarmente quest’anno, 1583, abbiamo fatto vedere a molti signori...che accostando leggermente la pianta della mano sopra la superficie dell’acqua vi si attacca quella tela d’oro... È la miniera di questo bagno (per quello che si può raccogliere dalla sua distillazione e dall’essamine della terra e del sale) di oro: ma (per quello che io giudico), mescolato con qualche parte di rame, e con alcuni pochi vapori di solfo... Nè si deve meravigliare niuno di sì fatto bagno, poiché Strabone, e altri scrivono in quella isola essere miniere d’oro, e chiaramente se ne vede una, in quel luogo, dove dicono Campagnano». Il bagno Argenteo si trova a tre passi da quello Aurifero e vi si trovano «... acque chiare e limpide e dolci, con un poco di odore di solfo, che a guisa di quelle dell’oro sono continuamente coperte d’una sottilissima tela d’argento, sì puro che può simigliare la serenità del giorno». Nelle vicinanze delle due sorgenti, Iasolino localizza altre particolarità geologiche che meritano attenzione. Dal bagno Argenteo, procedendo verso monte, «... infino alle radici dell’Epomeo» si incontra il bagno d’Umbrasco, con acqua «... calda, chiara, e dolce, con odore di solfo. La sua miniera è solfo, con poca mescolanza di rame, e d’alume». Nella stessa zona, è riportata la Fodina aluminis (miniera d’allume), e ancora alle falde dell’Epomeo, è indicata una Minera Aluminis et calchanti (miniera di allume e calcanto, che nella traduzione di Magini diventa Minere di Alume et Vitriolo). La Rassegna d’Ischia 6/2009 21 La carta Iasolino-Cartaro e suo particolare con la "Auri fodina" È certamente difficile credere alla formazione di tele d’oro e d’argento sulla superficie di pozze d’acque, ma la cosa non è impossibile, e Iasolino parla espressamente, per quanto riguarda l’oro, di specifiche analisi. La presenza di sottili pellicole d’oro (flor or float gold) e d’argento (flor or float silver) è stata osservata con certezza nei pressi di giacimenti dei due metalli, in varie parti del mondo, come risultato di locale addensamento del metallo contenuto in soluzione o dispersione colloidale. Per quanto riguarda l’oro, alcuni esempi sono già illustrati da Maclaren (1908) e il fenomeno è stato studiato da Boydell (1924) e da autori successivi, in particolare da Goni et Al (1964), che lo hanno riprodotto in laboratorio facendo precipitare l’oro contenuto in vari tipi di soluzione e riproponendo, in pratica, la fabbricazione di pigmenti aurei utilizzati dagli antichi artigiani romani per la decorazione di oggetti in vetro. Che poi all’interno dei corpi mineralizzati in questione l’oro non sia visibile, questo non impedisce che nelle parti superficiali dei “filoni”, soggette ad alterazioni e riconcentrazioni, si possano formare zone ad oro ben visibile, anzi la cosa è piuttosto comune, ma è ovvio che tali parti siano abbastanza sottili e possano essere completamente asportati nel corso dei primi lavori di coltivazione mineraria, come accaduto recentemente proprio nel più classico dei giacimenti auriferi epitermali (Carlin in Nevada). Tra gli autori più recenti che si sono occupati degli aspetti naturalistici di Ischia, l’unico a non scartare del tutto la possibile presenza dell’oro è Chevalley de Rivaz (1831), il quale, pur riconoscendo che non se ne trova più alcuna traccia, crede non essere improbabile che un tempo ne fosse stato trovato, poiché «... la ricca miniera di Nagyac, posta nel cratere di un vulcano spento, prova che non è impossibile la presenza di una miniera d’oro in un paese vulcanico». E, infatti, le condizioni geologiche dell’isola d’Ischia, secondo le conoscenze più recenti e contrariamente alla vecchia opinione, sono favorevoli alla presenza dell’oro e alla sua precipitazione sotto forma di particelle submicroscopiche di origine epitermale (oro invisibile). Particolarmente indiziati sono l’attività vulcanica recente, l’ambiente acido, la presenza di campi di fratture (faglie), di fenomeni di alterazione delle rocce (caolinizzazione, alunitizzazione e argillificazione), la diffusione di solfo, di solfati di potassio e di alluminio (allume e allumite) e di solfato di rame (calcantite). Mancano però, o sono scarsi, i fenomeni di silicizzazione e, quindi, la formazione di potenti banchi silicei necessari per ospitare importanti concentrazioni aurifere, ma non è detto che non ce ne fosse stata qualche vena, e proprio a Campagnano dove è evidente la presenza di estese faglie allungate in direzione NE-SW. D’altra parte, la presenza di silice è segnalata in varie parti dell’isola, sotto forma di stallatiti di natura silicea e di incrostazioni silicee su la superficie di ammassi di puzzolana (De Siano 1801), nonché di opale stallattitico (Jervis 1874). 22 La Rassegna d’Ischia 6/2009 Va ancora ricordato che in tempi recenti è stata evidenziata la presenza di oro epitermale in molte zone storicamente note per la produzione di allume, in Italia (Pipino 1988, 1989), in Grecia, Bulgaria e Turchia (Newsletter LGMM 19852004). L’Allume di Ischia e la crisi dell'allume orientale Con il termine allume viene designato un gruppo di sali (solfati doppi idrati di metalli trivalenti e monovalenti) che, a seconda dell’elemento prevalente, assumono nomi specifici diversi. Quello che qui interessa è l’allume potassico naturale (kalinite), minerale abbastanza comune in ambienti vulcanici, sotto forma di estese ma sottili efflorescenze, e, in aree desertiche, come impregnazioni in scisti argillosi attaccati da soluzioni idrotermali acide. Noto ed apprezzato sin dal neolitico per le sue qualità astringenti e ignifughe, il prodotto trovava largo impiego anche nella concia delle pelli, come fissante nella colorazione dei tessuti e come fondente nella lavorazione dei metalli e del vetro. Con l’aumentare delle necessità e degli impieghi, aveva bisogno di essere purificato e concentrato, e sin da tempi antichi venne sviluppandosi un procedimento di produzione “industriale”: nel sistema più semplice ed essenziale, le efflorescenze saline venivano raccolte e poste a “lisciviare”, in vasche o bacini d’acqua poco profondi, e man mano che l’acqua evaporava (occorrevano ovviamente mesi) si formavano cristalli di minerale puro che venivano raccolti; siccome, però, raramente le efflorescenze erano pure, occorrevano procedimenti di purificazione, ottenuti con bolliture ed evaporazioni ripetute (Picon 2006 con bibliografia precedente). Date le sempre crescenti necessità, accanto alla produzione da efflorescenze naturali era venuto sviluppandosi, sembra fin da tempi antichi, la produzione di allume da alunite o allumite, un solfato idrato di potassio e alluminio, insolubile, che forma rocce monomineraliche, generalmente sotto forma di filoni più o meno potenti ma quasi sempre molto estesi in lunghezza e in profondità. La roccia aveva bisogno di preliminari operazioni di frantumazione e di calcinazione (torrefazione) per ossidare l’alluminio, ma in compenso si aveva un prodotto più puro e, soprattutto, molto più abbondante. Nel corso del Medio Evo questo secondo prodotto era spesso designato come allume di rocca, cioè allume di pietra, seguito dalla città o zona di provenienza (Pegolotti 1340). Non ha fondamento l’affermazione, ripetuta anche in scritti riguardanti l’allume di Ischia, secondo la quale il termine rocca stesse a designare, almeno in origine, la città siriana di provenienza, Roha, l’odierna Odessa. Questa è una ipotesi avanzata da Liebnitz (1749) che, riprendendo un passo del Pontano (1509), scrive, tradotto dal latino: «...Consta che l’arte di cuocere l’allume ritornò in Europa dopo trecento anni da Rocco di Siria», e aggiunge di suo: «...da cui l’appellativo volgare di allume di Rocca». Dato lo spessore dell’Autore, l’ipotesi fu accolta e divulgata da famosi chimici successivi, senza alcuna valutazione critica, ma, come ha evidenziato Heyd (1885-86), la zona di Odessa è del tutto sconosciuta per quanto riguarda la produzione e la commercializzazione dell’allume, ed è probabile che il genovese responsabile del “ritorno” (Bartolomeo Pernice) abbia, come altri suoi concittadini, appreso l’arte a Focea (o Foglia), dove i genovesi possedevano importanti miniere. Anche su base linguistica, la derivazione della medioevale Roha appare poco probabile, così come poco probabile sembra essere un possibile collegamento fra Roha e Roccho, e non soltanto per il genere. Altre considerazioni fanno scartare l’ipotesi. Prima di tutto l’incerta esattezza del passo “ischitano” del Pontano (1509), il quale afferma che Bartolomeo Pernice aveva riportata, ad Ischia, l’arte appresa a Roccho di Syria, notizia contenuta nel De Bello Neapolitano che, però, fu pubblicato alcuni anni dopo la sua morte (da Pietro Summonte). Anche l’ipotesi di Liebnitz venne pubblicata postuma, e senza che l’Autore avesse potuto leggere l’affermazione di Mercati, scritta nella seconda metà del Cinquecento e a sua volta pubblicata anni dopo la morte dell’Autore (1717), secondo la quale, tradotto dal latino, «... si chiama roccia d’allume la vena contenuta nelle spaccature dei monti, da cui viene estratta, e che in volgare viene detta rocca d’allume». E, infatti, per tutto il basso Medio Evo troviamo designato il prodotto, con tal significato, in varie lingue e dialetti: allume di rocca in Italiano, alume de roza (o roça) in veneziano, alum de roche in francese, alum de roqua in spagnolo (AA.VV. 2006). Inoltre, in documenti del Quattrocento e del Cinquecento non è raro imbattersi in richieste o concessioni per allume di pietra o di pietra da far allume. L’attribuzione del termine all’alchimista arabo Geber, già nel sec. IX, è una ingenuità di molti autori, perché è noto che sotto il nome di questo, così come di altri famosi alchimisti antichi, veri o presunti, circolavano molte opere «...che in buona parte sono però produzioni e rifacimenti scolastici dei secoli XII e XIII» (Pipino 1994). Tornando ad Ischia, non vi sono testimonianze sulla presenza di efflorescenze naturali di allume, ma è probabile che ce ne fossero state, stando alla sicura presenza del minerale nei prodotti caolinici-argillosi derivati dalla decomposizione delle rocce trachitiche, ad opera di fluidi termali solforosi, ed oggetto di raccolta ed utilizzo da tempi remoti, nonché alla sicura presenza dello zolfo, oggi non più accertabile ma la cui raccolta è testimoniata per tempi prolungati. A proposito dello zolfo, Jervis (1874) lo cercò inutilmente, nel 1869, presso le Stufe di San Lorenzo, dove gli era stato assicurato che un in passato veniva scavato: vide invece una frattura diretta verso il Monte di Vico e interessata da venute di vapor acqueo, le quali alteravano profondamente la trachite in materiale argilloso e pomice friabile bianca. Vide poi, alle Stufe del Frasso, nel burrone di Mostichiello, «...molti spiragli o fumaioli nella roccia vulcanica» con temperatura variabile da 83 a 99,5 gradi, intorno ai quali osservò «...qualche traccia di zolfo sublimato». Lo stesso Autore segnala la presenza, in più punti, di «opale stallatitico, ossia Jalite...prodotto dall’azione dei vapori acquei caldissimi sulla trachite, dalla quale separasi la silice»; ritiene inoltre che gli stessi vapori sono responsabili della decomposizione della trachite in «... un’argilla bigia, rosso scura o varicolore, secondo le località», e che in passato erano molto più numerosi ed estesi, stando all’abbondanza delle argille decomposte in vari luoghi. Riguardo alle argille, aggiunge: «....Queste sono precisamente le medesime che forniscono l’ottimo materiale attivamente scavato per far tegole ed altri lavori in terra cotta fabbricati a Casamicciola e in Napoli. È indubitato poi che fu l’azione dei vapori caldi sulla roccia vulcanica la quale diede origine alle argille adoperate per le celebri terre cotte storiche d’Ischia e di Cuma». È quindi possibile, oltre alla probabile raccolta dell’oro, una raccolta antica di allume naturale e di zolfo. Ed è anche possibile la raccolta dell’ossidiana, prodotto segnalato in alcune zone dell’isola, compresa «...la parte inferiore del Monte di Campagnano» (Fuchs 1873). Quanto all’allumite, prodotto sicuramente associato ai depositi di argille più o meno caoliniche e alluminose, non possiamo sapere se sia stato oggetto di raccolta in tempi antichi, dato che, come detto, non sappiamo a quale periodo risale il complesso procedimento di trasformazione in allume. Certo è che le parti affioranti delle vene sono state oggetto di intensa raccolta per tutto il Medio Evo e per buona parte dell’Evo Moderno. Alla fine del Settecento se ne vedevano ancora e furono oggetto di studio da parte di Breislak (1798) che, come noto, aveva lavorato alle allumiere di Tolfa ed era stato chiamato nel Regno di Napoli da re Ferdinando, proprio per sviluppare i giacimenti di Ischia e di Agnano. Secondo questo Autore, l’Epomeo sarebbe composto da tre tipi di roccia: lave, pietra alluminosa e tufo; «... La pietra alluminosa La Rassegna d’Ischia 6/2009 23 dell’Epomeo ha molta analogia con quella della Tolfa. Il suo colore è bianco e nelle fratture recenti candidissimo, talora però le superfici di qualche fenditura sono colorite di un rosso cupo, la grana è molto fine, la tessitura compatta e stretta, la frattura costantemente concoide È del tutto opaca e dura a segno che rompendola in frammenti piccoli le loro parti angolari presentano delle punte dure e resistenti. Se si esamini colla lente vi si scorge talora qualche particella lucente cristallina feld-spatica. Questa pietra si trova frequentemente in pezzi isolati sparsi nella montagna, ma in alcuni luoghi comparisce colla superficie della terra in massi e filoni uniti, cosicché sembra che formi una parte dell’ossatura del monte...ed è molto probabile che l’escavazioni dirette ad estrarre la pietra alluminosa abbiano contribuito a cambiare l’aspetto dell’Epomeo. Ad esse si deve l’origine di molti valloni che si veggono in questa montagna. Il luogo che maggiormente abbonda della pietra alluminosa è quello, che dicesi Catrico, trovasi però frequentemente sopra tutta la costa settentrionale dell’Epomeo». Nello stesso periodo De Siano (1801) non vede alcun filone, e scrive: «In Catreca si riscontra della terra argillosa bianca simile a quella delle piazze della Pera, stimata di essere stata antecedentemente alluminosa;...Vi sono bensì in tutto l’Epomeo dei rottami di schisto, o sia di pietra candida alluminosa molto dura, i quali contengono ancora dell’acido solforico, mentre si attaccano bene alla lingua e vi lasciano il sapore stittico. Questa pietra sarebbe a proposito per la fabbrica del solfato d’allumina, ma poca quantità ve n’è, non essendovene filoni. Da Catreca l’allumina e li schisti si trasportavano al laboratorio delle piazze della Pera». Comunque sia, a quel tempo, non vi era possibilità di sviluppo dei giacimenti naturali di allume e di allumite, data la concorrenza del prodotto di sintesi chimica, e quelli di Ischia vennero trascurati, come tanti altri. Trent’anni dopo si trovavano ancora dei massi sciolti di allumite, ma la produzione d’allume era un lontano ricordo: «...La pietra alluminosa risultante dalla decomposizione della lava per azione dei vapori solforosi, che si trovava anticamente a Catreca, non si trova più che in pezzi erratici. Nel luogo detto Pera si vedono ancora le rovine delle grandi vasche in muratura che servivano alla fabbricazione dell’allume, che veniva poi portato alla marina di Casamicciola che, per tale ragione, porta ancora il nome di marina delle allumiere» (Chevalley de Rivaz 1831). Nelle successive numerose descrizioni geologiche dell’isola, dell’Ottocento e del Novecento, il prodotto non viene neanche menzionato. Se ne occupa nel 1933 il chimico Orazio Rrbuffat, il quale, oltre a non conoscere l’opera di Breislak, fa una grande confusione di fatti e di notizie storiche apprese di seconda mano. Egli cerca l’allume nelle lave dell’Arso (quelle dell’eruzione del 1301), che si trovano dalla parte opposta dell’Epomeo rispetto ai giacimenti alluminosi di Catreca, convinto che siano questi i massi alluminosi trovati da Bartolomeo Pernice secondo il racconto di Pontano (?), e, non trovandovi tracce di allume, conclude che «...la fabbricazione iniziata con grandi speranze dal Pernice sia stata dopo non molto 24 La Rassegna d’Ischia 6/2009 tempo abbandonata per la scarsezza e la cattiva qualità del prodotto». Cirilli (1941), analizza invece il materiale argilloso estratto «...dalla regione nord-orientale dell’isola», al tempo indicato come materiale caolinico e utilizzato dalla Soc. An. Calce e Cementi di Segni nello stabilimento di Castellamare di Stabia, «...per confezionare dei leganti pozzolanici». Secondo le sue dettagliate analisi, il materiale»...sciolto, di colore giallo, grigiastro o bianco sporco”, era costituito da «...un miscuglio complesso di silice amorfa, caolino, alunite, sanidino inalterato, ai quali si associano piccole quantità di pirite e di solfati di alluminio e di ferro»: l’alta quantità di silice amorfa (50-60%), rendeva il materiale adatto «...a fissare, e rapidamente, dei forti quantitativi di calce da soluzioni sature di questo composto». * * * * * Le prime testimonianze certe sulla presenza di un’industria dell’allume all’isola d’Ischia risalgono al Duecento, ma non mancano riferimenti a tempi precedenti, come si ricava dagli atti processuali del 1271, riguardanti la rivendicazione fiscale delle miniere di allume e di zolfo sfruttate abusivamente da Guido de Burgundio de castro novo, castellano di Ischia (Cestari 1790). Secondo tutti i testimoni, le miniere erano demaniali, o della curia imperiale, sin dal tempo del conte Enrico (II di Ventimiglia, III di Geraci); l’anziano Stefano Calillo, in particolare, dichiara che le miniere erano imperiali dal tempo degli imperatori prima, del conte Enrico poi, come lui stesso aveva veduto circa 80 anni prima. Per cui Cestari le considera attive intorno al 1191, ai tempi di Guglielmo III, di Tancredi e di Arrigo VI. Non si capisce perché Testi (1931), che si rifà interamente a Cestari, dati la testimonianza al 1201 e, di conseguenza, i primi lavori documentati al 1131: d’altra parte non è questa l’unica svista dell’Autore, che confonde spesso date e personaggi, fino ad affermare che lo scopritore delle miniere della Tolfa, Giovanni de Castro, era genovese come Bartolomeo Pernice e, come questi, aveva esercitato il commercio dell’allume a Rocca di Siria, salvo definirlo poi compatriota di Pio II (che era senese). La datazione della controversia sulla proprietà delle miniere di Ischia è confermata da atti riportati da Minieri Riccio (1874, 1875) e dai Registri Angioini (1957-1970), dai quali ricaviamo anche altre notizie. Il 12 novembre 1270, trovandosi Carlo I a Tunisi per la guerra, i capitani reggitori del Regno ordinano, al maestro Portolano, Maggio Rosso di Napoli, di rivendicare alla Regia Curia un monte di Ischia dove si fabbrica zolfo e allume, di antico demanio ma occupato da Guido di Castronuovo. L’11 marzo 1271 è il principe vicario del Regno ad ordinare, allo stesso Maggio Rosso, di togliere a Guido Castronuovo il monte, ovvero il sito di Ischia dove si fanno allume e zolfo, che in tempi antichi fu del demanio e appartiene per metà alla Regia Curia. Verso la fine dell’anno viene emesso un mandato a favore dei medici Giovanni di Casamicciola e Simone Archidiacono, per una certa somma da saldare con i proventi dell’allume dei monti di Ischia. Nel 1272 viene emesso un altro mandato a favore dei frati Delobohe e Nicolao Assanto, di Ischia, procuratori della Curia «...montis aluminuis Iscle» e, il 24 marzo dello stesso anno, si ordina al castellano, Guidone Burgundo, che nessuno osi molestare il procuratore delle entrate sull’allume ed altri diritti. Il 4 marzo 1273 il re ordina, da Capua, che il vescovo di Ischia abbia la decima sulla bagliva e sull’allume di Ischia, e, il 23 dello stesso mese, da’ mandato al suo procuratore di attivarsi affinché nessuno osi molestare i diritti vescovili sui proventi dell’allume. Il 1° dicembre 1277 viene ribadito il diritto del vescovo sulla decima dell’allume, con aggiunta di quella sullo zolfo. Anche se reputato di mediocre qualità, il prodotto veniva esportato in vari paesi. Ė a questo periodo che, forse, va riferita la notizia riportata da De Roover (1988) secondo la quale «L’allume d’Ischia era così scadente che a Bruges e a Parigi gli statuti delle corporazioni ne proibivano l’uso». Però, per tale affermazione l’Autore fa preciso riferimento a De Poerck (1951, I, p. 170), che non dice proprio così (occorre sempre andare alla fonte...); infatti, nella pubblicazione e alla pagina citata si legge, tradotto dal francese: «...l’isola di Vulcano... forniva una qualità d’allume di cui la cattiva qualità era solidamente stabilita; è quindi a giusto titolo era proibito a Valenciennes. L’allume che si estraeva dalle miniere d’Ischia (“Nysche”) non doveva essere migliore, poiché la stessa misura è presa nei suoi riguardi a Bruges». Da un documento d’archivio del 1301, integralmente pubblicato da Del Gaizo (1884), apprendiamo che il 4 agosto 1299 i proventi e reddditi delle miniere curiali di zolfo e di allume di Ischia, ammontanti a trecento oncie d’oro annue, dei quali la metà spettanti alla curia, erano stati concessi al milite ischitano Pietro Salvacossa ed eredi, in riconoscimento dei servizi prestati: il 18 aprile 1301, essendo morto Pietro, la concessione veniva confermata al figlio ed erede, Pietruccio. La concessione del 1299 è ricordata anche da Cestari (1790), che indica la collocazione archivistica del tempo. L’eruzione e il conseguente incendio della fine del 1301, che portarono al momentaneo spopolamento dell’isola, dovettero necessariamente comportare l’abbandono anche delle attività minerarie, che però ripresero ben presto. Già nel 1305 furono riconfermate le decime al vescovo d’Ischia, mentre il 1° settembre 1313 l’ischitano Pietro Salvacossa pagava, al fisco, 15 once, 22 tarì e 10 grani per «...tenimento sulfuris at aluminis in insula Iscle in loco ubi dicitur Mons Iovis». Il diritto alle decime fu ancora confermato, al vescovo, nel 1386 e nel 1390 (Di Lustro 2006), ma non è chiaro se esse riguardassero ancora l’allume e non è dato sapere se le miniere fossero ancora attive. Certo ai primi del Quattrocento dovevano essere abbandonate, come tutte le altre antiche miniere italiane (Argentario, Agnano, Isole Eolie), data la concorrenza, l’abbondanza e il basso prezzo dell’allume orientale. Verso la metà del Trecento, come apprendiamo da Pegolotti (1340), i giacimenti della Turchia e di alcune terre e isole vicine producevano non meno di 60.000 cantari genovesi di allume l’anno (circa 5.350 tonnellate), che in gran parte prendeva la via dei mercati occidentali, su navi genovesi in prevalenza, ma anche veneziane, francesi, catalane. La produzione andò aumentando nel secolo successivo, grazie all’apertura di nuove miniere e all’incremento della produzione in quella di Focea, di proprietà genovese, che da sola poteva produrre più di 1000 tonnellate l’anno. Di conseguenza il prezzo andava sempre più diminuendo: alla fine del 1448 era dimezzato rispetto agli inizi del secolo, per cui le famiglie genovesi, proprietarie o concessionarie della maggior parte delle miniere, decisero di correre ai ripari costituendo, nell’aprile del 1499, una società con lo scopo di diminuire la produzione, a non più di 4.000 tonnellate annue, e concentrare il prodotto nei magazzini dell’isola di Chio, da cui distribuirlo a prezzo convenuto (Heyd 1885-86, Heers 1954). Lo scopo del “cartello” fu raggiunto e il prezzo cominciò subito a salire. La successiva conquista turca di Costantinopoli (1453) e, soprattutto, la conquista della Macedonia (con le sue miniere) e il sacco di Focea (1455) portarono a momentanee sospensioni della produzione e ad enormi aumenti di prezzo del prodotto stoccato a Chio: la crisi cominciò a farsi sentire pesantemente alla fine del 1458, quando nella stessa Genova dovettero essere adottate speciali misure di sequestro per garantire un minimo di prodotto ai locali artigiani della lana, a prezzi esorbitanti (ASGe: Arch. Segr. n. 3043; Heers 1954). Logica conseguenza della crisi, in Occidente, fu la riapertura di vecchie miniere e la ricerca di nuovi giacimenti, concretizzate soprattutto con la scoperta e la messa in produzione delle miniere della Tolfa nello Stato Pontificio (1462), il cui prodotto, secondo i proclami papali, avrebbe dovuto liberare dalla necessità di acquistare l’allume dai turchi e, nel contempo, costituire i fondi necessari per una ulteriore crociata (Zippel 1907, Delumeau 1962). Tutti gli Autori che si sono occupati dell’argomento concordano nel ritenere che la spinta diretta alla riapertura delle vecchie miniere e alla ricerca di nuovi giacimenti fu la crisi del 1458-60. Per quanto riguarda il Regno di Napoli, la causa scatenante sembra invece essere stata l’aumento di prezzo del 1449 e, forse, la non difficile previsione dell’imminente catastrofe da parte di un sovrano illuminato, quale era Alfonso il Magnanimo. Bartolomeo Pernice e la riscoperta dell'allume in Italia Bartolomeo Pernice è tipico rappresentante di quei mercanti genovesi che all’occorrenza, fra Medio Evo ed Evo Moderno, si improvvisano imprenditori minerari (Pipino 2003). Intorno al 1450 era impegnato in attività di mercatura nel senese ed era imprenditore navale nel porto di Talamone (Piccinni 1999). La prima notizia certa sulla sua attività mineraria è la concessione decennale ottenuta, il 15 giugno 1451, dal Comune di Siena (integralmente pubblicata da Lisini 1939). Secondo la concessione, Bartolomeo e soci sono autorizzati a cercare qualsiasi genere di metallo, minerale e roccia utile nel Monte Argentario e in tutto il contado di Siena, ad eccezione della corte di Massa, previo il pagamento delle solite decime e con esonero per il primo anno di lavoro, a cominciare dal gennaio successivo: questo perché «... è verosimile che inanzi genaio La Rassegna d’Ischia 6/2009 25 poco o niente potrà trovare, perché gli bisogna conduciare a Roma molti legni, e quali à promessi al sancto Padre». Fra gli altri prodotti, nella concessione, è indicato anche l’allume, ma senza alcun rilievo speciale: gli unici obblighi specifici riguardano oro e argento, che debbono essere venduti alla Zecca di Siena. Secondo le dichiarazioni rilasciate più tardi, in occasione di altra concessione ove l’allume assume un ruolo primario, Bartolomeo aveva trovato, a Monte Argentario, «... la vena del ferro et del argento et d’altre cose»: nessun accenno alla scoperta del prodotto che ci interessa, il quale sarebbe certamente stato indicato, se trovato. Nel 1277 si vendeva, a Genova, un allume dell’Argentario (Canale 1845), ma non se ne trova cenno in documenti successivi: però negli anni ’40 e ‘50 del Novecento vi furono ricerche e concessioni per caolino (Fosso Boccadoro, Casetta dei Frati), ed è noto che l’allume si associa sempre a questo prodotto. La notizia della scoperta dell’allume ad Ischia, da parte del genovese, è contenuta all’inizio dell’ultimo capitolo del “De Bello Neapolitano” di Pontano, pubblicato postumo da Pietro Summonte (1509). Si tratta della guerra di successione napoletana (1459-1464) che fu definita «la guerra più bella del mundo», nella quale Ischia assunse un ruolo importante. L’episodio che c’interessa non è datato ed è raccontato, dopo la descrizione degli aspetti naturali dell’isola (Enaria), nella parentesi che ricorda l’eruzione, pure non datata, del 1301. Tradotto dal latino e semplificato, il passo in questione dice: «... l’isola...abbonda di molto allume. In quegli anni Barlomeo Pernice, mercante genovese, mentre si recava a Napoli, notò sulla spiaggia dell’isola massi alluminosi. Circa 163 anni prima della guerra le viscere della terra si erano aperte e si era sviluppato un grande incendio che aveva distrutto gran parte di Enaria, compresa una cittadina che poi fu inghiottita da una voragine;... dalla parte della spiaggia Cumana furono gettati in aria massi voluminosi, con fumo, fiamme e polvere, i quali, ricaduti nelle campagne, rovinarono la più bella e fertile parte dell’isola. Alcuni dei massi erano ricaduti sulla spiaggia e vi si trovavano ancora: Bartolomeo li raccolse, li fece cuocere nelle fornaci e li dissolse in allume, rinnovando l’arte appresa a Roccho di Siria, dove aveva negoziato molti anni, arte che da molti secoli era negletta in Italia». Dato il contesto storico e la citazione dei 163 anni trascorsi dall’eruzione trecentesca, Scipione Mazzella si sente autorizzato a datare l’episodio al 1465 e, storpiando il nome e facendo confusione con quanto appreso dall’opera di Elisio, in una prima opera scrive: «... vi sono le miniere dell’oro, che furono insieme con quelle del solfo trovate, nel 1465, da Bartolomeo Perdice Genovese», e, nel capitolo specifico sulle miniere: «... Nell’isola d’Ischia, detta anticamente Enaria, vi è la miniera dell’oro, e dell’allume, le quali le ritrovò Bartolomeo Perdice Genovese nel 1465» (Mazzella 1586); poi, nell’opera sui bagni di Elisio, tradotto dal latino: «.. fertilissima è quest’isola, di pascoli, di generoso vino, di miniere d’oro, di allume e di zolfo che nel 1465 furono scoperte da Bartolomeo Perdice Genovese» (Mazzella 1591). La data e le storpiature furono riprese da autori successivi e sono arrivate fino a noi, eppure si sapeva che nel 1462 era26 La Rassegna d’Ischia 6/2009 no state aperte le miniere d’allume della Tolfa, sicuramente successive a quelle d’Ischia. Lo stesso scopritore, Giovanni da Castro, nel dare trionfalmente la notizia al papa afferma, tradotto dal latino: «... perché Ischia ne produce pochissimo, e le miniere di Lipari furono esaurite dai Romani» (Pio II 1614). La cosa doveva essere ben nota al vescovo genovese Giustiniani (1537) che, invece, aveva anticipato la data della scoperta all’inizio della guerra napoletana (1459), facendola coincidere con il presunto dominio del doge Pietro Campofregoso sull’isola d’Ischia: per il resto, aveva ripetuto le parole di Pontano. Ma, se vogliamo prendere per buona la dichiarata priorità dell’allume di Ischia, anche la datazione del 1459 è tarda, dato che fra marzo e aprile 1452 già operava l’allumiera di Agnano. Ce ne dà precise informazioni un Anonimo del tempo, presente alla gita alla solfatara di Pozzuoli e ad Agnano, seguita dalla fantastica caccia agli Astroni, che vide protagonisti Alfonso il Magnanimo, l’imperatore Federico III con la neosposa Eleonora di Portogallo, nipote di Alfonso, e il re d’Ungheria, con dame e cavalieri tedeschi e ungheresi. Partita da Pozzuoli, la comitiva si inoltrò nella Solfatara, dove poté vedere molti uomini dediti alla raccolta e alla raffinazione dello zolfo: nel vicino mare, presso Nisida, grosse navi fiamminghe, che avevano portato panni a Napoli, aspettavano di caricare zolfo e allume che avevano acquistato col ricavato delle vendite. Un miglio più avanti della Solfatara, alle spalle della montagna che la circondava, i nostri presero una strada, fatta spianare dal re, che percorsero per un miglio fino a trovare una grande pianura, poi un’altra montagna di zolfo: «...Da mezzo quella montagna nasce una pietra la quale biancheggia ed è tutta venata di rosso. E quella si taglia con artiglio di picconi di ferro, zappe, magli, qual’è dura, e quella si cuoce.... in quelli lochi sono molti puzzi d’acqua assai che servono per adacquare molti apparecchi delle dette pietre. Da mano stanno molte carcare (calcinaie) dove quelle pietre s’abbrusciano come calce, e bagnate prima diventano polvere. Quella polvere si pone dentro certi stagnati, anzi conche, ovvero caccavi (pentole) di rame grandissimi, e tutti stanno locati dentro certi gran magazzini a filara. Sono circa dieci per magazzini molto larghi, tutti coperti d’embrici. Poi... vi sono molte stanze e casamenti, e molte poteche (botteghe) di ogni arte, ferrari, carpentarii, pizzicaroli, taverne, molti forni di panettieri. Perché in tale officio sono di bisogno molti huomini e faticatori... haverno trovati da 600, che a vedere pareva che fusse una piccola città». Proseguendo, giunsero alle rive del lago d’Agnano, sormontate dal Monte Spina, ben noto anche ai tedeschi perché famosa sede del re dei serpi velenosi, e videro i numerosi fabbricati antichi adibiti a bagni e sudatari, molto frequentati dagli infermi. Videro anche la “grotta d’Agnano”, anzi un cavaliere tedesco vi entrò e rimase subito tramortito: fu tirato fuori e, legato un cane, «... lo buttarono dentro e lo cavarono morto». Salirono quindi su una collina, dalla quale si vedeva bene il lago, e proseguirono verso gli Astroni per il pranzo e la caccia. La fabbricazione dell’allume in quel periodo è avallata, se mai ce ne fosse bisogno, dal fatto che alla fine del 1453 la compagnia Muntmany-Rovira «... si assicurava la fornitura dell’allume napoletano al mercato di Barcellona» (Del Treppo 1967). La relazione del 1452 che, come visto, contiene anche la prima descrizione del crudele esperimento della “grotta del cane”, è stranamente ignota a Benedetto Croce, autore di uno scritto sull’allumiera di Agnano (1949), sebbene fosse contenuta in un noto manoscritto e fosse stata pubblicata, in una rivista napoletana, ai tempi della sua adolescenza. Essa è invece nota a Feniello (2003, 2005 e 2006) che però, nonostante la precisa e dettagliata descrizione, confonde l’allumiera di Agnano con la Solfatara, e non è questa l’unica sua “distrazione”. Egli afferma infatti, nell’articolo pubblicato tre volte senza sostanziali differenze: «... I membri della famiglia Sannazaro... ne rivendicarono la proprietà. Per aggirare l’ostacolo di un intervento regio, Jacopo non domandò il possesso del terreno, che almeno formalmente apparteneva al demanio, ma solamente il diritto di sfruttamento del sottosuolo». È ovvio, mi pare, che l’Autore dimostra di non aver capito le motivazioni dei processi illustrati da Cestari (1790), a cui fa riferimento: i Sannazaro, infatti, erano proprietari del terreno e la cosa non era in alcun modo contestata; anche sul diritto di sfruttamento il fisco non aveva molto da opporre, se non che fosse stato proprio l’intervento non di uno, ma di due re, sollecitati dal poeta, a risolvere in suo favore la questione. E sarà ancora un altro re, pure sollecitato dal poeta, a chiudere il processo contro di lui: altro che «... aggirare l’ostacolo di un intervento regio», come vorrebbe Feniello. Il diritto di sfruttamento di zolfo, allume e vetriolo, era in effetti legato alla proprietà del terreno, sembra per antica donazione di Federico II. La famiglia Brancaccio, prima proprietaria, aveva affittato più volte, nella seconda metà del Duecento, il Monte della Bolla, ad Agnano, col diritto di fare zolfo e allume, mentre nel 1315 sono membri della famiglia Yoffredo ad affittare solamente il diritto di estrarre solfo e allume, per 10 anni ad un’oncia d’oro l’anno. Verso il 1415 il Monte della Bolla, «... donde si cavava il Zolfo, l’Allume, e la Cenere», fu portato in dote, da Cicella de Anna, a Giacomo Sannazaro, nonno ed omonimo del poeta e, per un certo periodo, vi si cavò solo zolfo. Il “monte” prende ovviamente il nome dall’antica sorgente delle bolla o bulla, uno stillicidio solfureo che fuoriusciva ai suoi piedi, nel cratere di Agnano, un chilometro e mezzo circa ad ovest del paese, successivamente nota come sorgente de’ Pisciarelli e, fino a qualche decennio fa, Terme Pisciarelli. Era attraversato da una strada che da Napoli conduceva a Pozzuoli, passando per Agnano e per la solfatara. In data che Cestari non indica, ma evidentemente verso il 1450, Nicola, figlio ed erede di Giacomo, si rivolse ad “un genovese”, per rimettere in funzione l’allumiera, e la cosa dovette riuscire bene, stando alla cronaca del 1452. Nel 1456 vi fu però il disastroso terremoto che non poté non fare ingenti danni e, verso il 1460, Nicola morì lasciando i due figli Giacomo e Marcantonio in tenera età, rispettivamente quattro anni e sei mesi. La vedova si trasferì nel Salernitano, dove morì a sua volta, dieci anni dopo il marito. In tale situazione avvenne “lo spoglio” dei diritti Sannazaro sull’abbandonata allumiera di Agnano. Gugliemo lo Monaco cominciò ad interessarsene nel 1462 e nel 1465 propose a re Ferrrante (Ferdinando I) alcune condizioni per lo sfruttamento, che il re accettò: si noti che al capo 10 della concessione, interamente riportata da Cestari, è detto che in caso qualche persona reclamasse la proprietà della «... montagna donde se piglia la petra del Alume», il re avrebbe dovuto concordare il pagamento di un risarcimento, al quale il concessionario avrebbe contribuito per la metà. Solo molti anni più tardi, raggiunta la maggiore età, i fratelli Sannazaro reclameranno i loro diritti sull’allumiera: avevano, a quanto pare, mantenuto quelli sulla solfatara (di Agnano), che la loro madre “madamma Masella”, aveva affittato a Colangelo Mormile (Percopo 1931). Come mai, e se lo chiede anche Cestari, pur non conoscendo la relazione del 1452, Pontano ignora l’allume di Agnano e attribuisce il primato ad Ischia? Egli era molto amico del poeta e aveva una certa conoscenza dell’argomento: fu, infatti, segretario di Alfonso d’Aragona, a partire dal 1486, e poi del figlio Ferdinando, per cui poté seguire la causa; inoltre, nel 1495 controfirmò l’atto col quale re Ferdinando restituiva l’allumiera riconoscendo gli antichi diritti della famiglia. La risposta, forse, sta proprio nella particolare situazione giuridica dell’allumiera di Agnano, il cui sfruttamento, prima del 1462, avveniva in forma privata e senza alcun intervento burocratico-amministrativo statale. Riguardo al “genovese” che mise in funzione l’allumiera di Agnano, Feniello (2003, 2005 e 2006) è convinto che fosse Bartolomeo Pernice, e per farlo credere anche a noi ricorre ad un vero e proprio falso: afferma, infatti, citando Cestari: «... In tempo di re Alfonso I...per uno genoese fu optenuto privilegio da li discti signuri nde lo fare de dicto alume...e crede che dicto genoese se chiamasse Bartholomeo Pernice come pare per privilegio ad ipso concesso quale è registrato in la Summaria». Nell’originale si legge invece: «... in tempo di Re Alfonso I o vero ne la intrata di re Ferrante I (cioé nel 1458) da quale tempo in qua fo introducta in Iscla & Pezulo lo exercitio de fare dicto alume & miniere». L’Autore citato parla quindi di miniere di Ischia e di Pozzuoli e ne fa risalire l’apertura a dopo il 1458. Da notare, ancora, che egli riporta la testimonianza del presidente del fisco, Pietro Lupo, nella seconda causa Sannazaro, testimonianza molto sospetta perché tesa a dimostrare, falsamente, che anche ad Agnano, come ad Ischia, fosse necessario ottenere una concessione reale per estrarre e lavorare l’allume. Nessuno dei numerosi altri testimoni, fa notare ancora Cestari, parla del Pernice a proposito dell’allumiera di Agnano. Anche Boisseuil (2006), ingannato da Feniello, assegna un ruolo importante a Bartolomeo Pernice nella scoperta e messa in funzione dell’allumiera di Agnano, cosa che non solo non è certa, ma è del tutto improbabile: la fabbrica, infatti, deve essere entrata in funzione, al più tardi, negli anni 1450-51, mentre l’attività di Bartolomeo e i contenuti della citata concessione senese del 1451 (e di quella successiva) portano ad escludere un suo coinvolgimento in attività riguardanti l’alluLa Rassegna d’Ischia 6/2009 27 me, in quegli anni. E poiché in una successiva concessione per l’allume di Ischia, Ferdinando ricorda che suo padre Alfonso aveva fatto costruire una grande allumiera nell’isola, dalla quale la Curia traeva molti utili (Del Gaizo 1884), parrebbe che qui la scoperta fosse avvenuta negli ultimi anni di vita del Magnanimo e che lo scopritore non avesse beneficiato di una vera concessione: in caso contrario, essendo egli genovese e Genova nemica di re Ferdinando, la avrebbe comunque perduta nel corso della guerra napoletana. Nel 1462-63 troveremo, infatti, Bartolomeo impegnato completamente nella ricerca dell’allume in territorio senese. Giovanni Antonio Summonte (1643) lo vorrebbe anche scopritore delle allumiere di Tolfa (... colui che alla Tolfa l’aveva dimostrato al Pontefice), ma lo chiama Perdice, dimostrando così di aver assunto notizie da Mazzella e altri autori poco affidabili. Genovese, come risulta dal primo appalto (1462), fu comunque uno degli scopritori di quelle miniere, ma non ci è pervenuto il suo nome. Stando a Cestari, per verificare il minerale «... Si chiamarono da Genova gli artefici, i quali avevano travagliato nelle miniere di Alume dell’Asia..... Lavorarono l’Alume della Tolfa il quale riuscì migliore di quello del Levante». E, infatti, il primo “mastro principale delle miniere” fu il genovese Biagio Centurione Spinola, e genovesi furono anche i primi appaltatori e distributori del prodotto (Zippel 1907, Pipino 2003). In precedenza, nel 1461, Biagio Centurione Spinola era impegnato in una miniera d’allume scoperta nei pressi di Innsbruck, per conto di due veneziani (Zippel 1907). Bartolomeo Pernice, che non aveva potuto iniziare le ricerche all’Argentario a causa di conflitti militari, cercò di farlo nel 1462, ma trovò il campo occupato da ricercatori senesi, che a loro volta avevano ottenuto la concessione dal Comune (Volpe 1961, Pipino 2003). Anche Siena, ovviamente, era molto interessata ad avere fonti d’allume nel proprio territorio: nel giugno 1460 il minerale era stato trovato, casualmente, al Poggio di S. Cecilia e, fatte le prove, era risultato allume di ottima qualità; poiché il prezzo del prodotto era più che quadruplicato, il Comune venne interessato direttamente «... perché tanta ricchezza non rimanesse abbandonata», ma la cosa non ebbe comunque molto seguito (Volpe 1924, 1961). Il 31 gennaio 1463, il Comune di Siena concordò, con Bartolomeo Pernice e compagni, un’altra concessione, il cui testo è riassunto da Piccinni (1999) e integralmente riportato da Boisseuil (2006). La precedente concessione veniva annullata e il genovese e compagni ottenevano la facoltà, novennale, di «... poter cavare et fare cavare, lavorare allume et minere d’allumi» in tutto il territorio del dominio di Siena, con obbligo di scegliere, entro sei mesi, tre luoghi ove concentrare la propria attività, lasciando libere le altre zone per altri ricercatori, e di vendere poi l’allume al Comune; ottenevano anche la facoltà di cercare altri metalli, con l’obbligo di versare il sei per cento degli utili e di vendere alla zecca senese i due terzi dell’ oro e dell’argento. Nella concessione viene espressamente sancito 28 La Rassegna d’Ischia 6/2009 il diritto di Mino Tolomei e Francesco Germano di cavare, in società fra loro, due miniere d’allume, una a Monte Rotondo ed un’altra al Monte Labro. Dal testo della concessione risulta evidente che molti, oltre a Bartolomeo Pernice, erano dediti alla ricerca dell’allume nel territorio senese e che erano già state scoperte due cave: alla prima potrebbe corrispondere il giacimento di Monte LeoFrassine, alla seconda le manifestazioni presenti alle falde meridionali del Monte Labbro, nei pressi di Stribugliano. Nella Toscana meridionale verranno in seguito aperte altre allumiere, a Castel di Pietra, al Lago dell’Accesa e a Montioni: i lavori in quest’ultima risultano diretti, nel luglio del 1474, da un genovese di nome Antonio, mentre un altro genovese, Luigi Campofregoso, figura, nel 1473, tra i soci concessionari dell’allumiera dell’Accesa (Boisseuil 2006). Per la Toscana settentrionale va segnalata la concessione rilasciata dal Comune di Firenze, il 21 agosto 1463, a Rodolfo dei Firidolfi da Ricasoli «... che s’intende di vene, di miniere et di metalli et pietre da fare allume» (Pampaloni 1975). Sono poi note la scoperta e l’apertura, seppure per brevi periodi, nel 1470 della miniera del Sasso di Volterra, nel 1483 della miniera di Campiglia, entrambe con il coinvolgimento di Lorenzo de’ Medici (Fiumi 1948). Non ha fondamento la notizia riportata da Sanudo (1493?) e riprese da molti autori recenti, a partire da HEYD (1885-86), secondo la quale nel 1459 «... un certo genovese» avrebbe scoperto «allume di Rocca» a Volterra: essa è frutto di un’errata trascrizione dal Bergomensis (1483), il quale scrive, tradotto dal latino: «... allume di rocca, la cui lavorazione fu importata in Italia la prima volta da un genovese, è stato trovato nell’agro volterrano». E’ comunque interessante notare che l’autore bergamasco era al corrente, nel 1483, della scoperta genovese (di Agnano o di Ischia?). Quanto alla data della presunta scoperta (1459), essa è chiaramente mutuata da quella attribuita, dai più, alla scoperta ischitana. Nel territorio di Genova è invece un milanese, Boniforte Rotulo, impegnato a cercar miniere dal 1462, che nel 1465 crede di aver trovato una vena d’allume verso il Capo di Noli, ma deve farne la prova (ASGe: Div. Com. Januae nn. 30473048; Pipino 1977, 2003). Nel Ducato di Milano, il 13 febbraio 1461 il duca Francesco Sforza versa duemila ducati d’oro al monaco Nicolao Bleymnit, in acconto dei seimila richiesti, per iniziare la ricerca e la produzione dell’allume, impegnandosi a versargli un vitalizio di 25 ducati al mese sull’introito del prodotto; nella stessa occasione gli rilascia un salvacondotto per recarsi nel Bresciano. La cosa non pare avere alcun esito e, il 15 agosto 1465, lo stesso duca scrive al Capitano di Novara di assistere Ferrando di Vigevano, il quale afferma di aver trovato una vena di vetriolo in un monte del Vescovado novarese e spera di trovarci anche allume di rocca: egli tiene molto a che la cosa abbia seguito e raccomanda di far accompagnare il ricercatore da un uomo fidato che «... stia a vedere in qual modo farà detto ferrando» (Pipino 2008). Anche a Venezia la crisi dell’allume orientale aveva reso drammatica la situazione di lanaioli e tintori, e furono presi alcuni provvedimenti. L’11 settembre 1460, considerato che il prezzo dell’allume di sorta era passato da 5-6 ducati a 45 ducati al mier, la Signoria accolse la proposta fatta da Giovanni Mocenigo el Chavalier di costruire una o più fabbriche nel golfo di Venezia, in cui condurre e trattare la pietra per fabbricare allume di sorta e di rocca, con privativa di 15 anni e proibizione ad altri di impiantare analoghe fabbriche nelle vicinanze delle sue. Il 20 settembre 1461, il senato, dopo aver ricevuto richieste da parte di vari cittadini, fra i quali il milite Pietro de Advocatis, per scavare e fabbricare allume in tutto il territorio della Repubblica, specie nell’agro bresciano, stabiliva che chiunque avesse trovato materia da far allume doveva far richiesta di concessione ai rettori, entro un mese, e aveva pieno diritto di scavare e fare allume pagando ogni anno la decima: i proprietari dei terreni erano liberi di lavorare nelle loro proprietà, mentre nessuno poteva farlo in terreni altrui senza il consenso del proprietario. Il 7 agosto 1467 un cittadino dichiarò di aver trovato «pietra atta a far allume di sorta», in terreni delle marche trevigiana e cenetense; nel 1468 e nel 1472 altri dichiararono di aver trovato vene di allume in luoghi non precisati (Mandich 1958). All’8 febbraio 1482 risale la concessione ad Aloise da Verona per «... la pietra de la qual se fa l’alume de rocca», da lui trovata nel Monte Baldo (Oreglia 1915). Per il Vicentino, dove da sempre accanto alle miniere d’argento venivano coltivati giacimenti di terre bianche caoliniche (e alluminose), la documentazione storica, come noto, presenta una lacuna dal 1440 al 1480: tuttavia, il 27 febbraio 1594 Filippo de Zorzi, vicario Generale delle Miniere, nel discutere se le pietre bianche dovessero pagare la decima come i minerali, afferma: «... Ritrovo che nelle investiture dei miei antecessori, che sempre si ha riconosciuto il Principe... de alumi di ogni sorta prodotti de monti di sabbioni bianchi, et de terra rossa et di scaglia» (Oreglia 1915). Nel Regno di Napoli, oltre alla coltivazione delle allumiere di Agnano e di Ischia, sembra che venisse ripresa la raccolta delle povere efflorescenze nella Solfatara di Pozzuoli e in alcune grotte del Capo Miseno (Cestari 1790). In Sicilia, oltre alla ripresa della produzione a Lipari e a Vulcano, si registrano interessanti attività di ricerca e di coltivazione: nel giugno 1461 Bartolomeo Caputo cuoceva, a Patti, l’allume importato da Lipari; fra il 1460 e il 1461 una compagnia di minatori aveva già una licenza per cercare miniere d’allume, con obbligo di versare la decima parte del prodotto; nel marzo 1462 si scavava e si lavorava allume locale a Paternò, pagando la solita decima; il 26 dello stesso mese fu accolta la domanda di Damiano Spinola e altro mercante genovese per ottenere la privativa della ricerca nell’isola, pagando 100 onze l’anno per i primi tre anni, 200 per i successivi tre anni (Trasselli 1964). Non meraviglia, quindi, che il 5 gennaio 1463 sia venduta, a Genova, una partita di allume di Sicilia caricata a Licata (Heers 1954), e nemmeno ci stupisce di trovare, nel 1479, Damiano Spinola alla ricerca di vene d’oro nel territorio genovese (Pipino 2003). Tra i giacimenti siciliani, il più noto è quello di Allume, presso Roccalumera nei Peloritani, nel cui circondario la presenza dell’oro è storicamente nota ed è stata recentemente accertata (Pipino 1988, 1989). Di tutti i giacimenti di allume scoperti ed attivati in quegli anni, nessuno raggiunse l’importanza di quello della Tolfa. Va però sottolineato che la Santa Sede cercò, in vari modi, di ostacolare la produzione dei giacimenti italiani che si venivano scoprendo e, in definitiva, «... tentava di imporre, con l’azione diplomatica e col ricatto religioso, il monopolio del proprio allume ai paesi cristiani» (Pipino 1976). L’abbondanza del prodotto romano, e la sua ottima qualità, gli consentirono comunque di conquistare il mercato, ma non impedirono del tutto la produzione di altre miniere italiane e nemmeno l’importazione dell’allume turco. Nel 1481 esisteva ancora, a Genova, un appalto “«aluminum Grecie et Turchie et ultimo loco facto in Chio»: il 30 settembre di quell’anno Sisto IV scriveva al Comune lamentando che alcuni genovesi commerciavano l’allume turco, nonostante la proibizione sua e dei suoi predecessori; il 19 novembre il doge e il consiglio degli anziani, sentito il Banco di San Giorgio, decretarono la proibizione, sotto pena di confisca e altre pene, avvertendo tutti gli ufficiali, «... e specialmente il podestà e Maonesi, governatori della Maona di Chio», di far rispettare l’ordine, ma, si noti bene, questo «... sia valevole fino a che l’appalto dell’allume del prefato santissimo signore nostro papa è e sarà nelle mani e trattato dai Genovesi». Va da sé che tale postilla non compare nell’editto ufficiale «... proclamato per la città», così come non vi compare lo specifico richiamo alla Maona di Chio (ASGe: not. Gallo Ant. n. 143, Div. Com Januae n. 3061). E possiamo anche aggiungere che tra gli anziani firmatari del decreto vi era Agostino Doria che, col congiunto Giovanni e con Domenico Centurione, faceva parte della società appaltatrice di tutto l’allume prodotto nei monti della Tolfa.(Zippel 1907, Pipino 2003). Le vicende dell’allume di Ischia (e di Agnano) dopo la riscoperta Appena assunto al regno (1458-59), re Ferdinando concedeva il diritto di fabbricare allume ad Ischia, al nobile Antonio di Cervera e, nell’atto di concessione, ricordava che suo padre Alfonso vi aveva fatto costruire una grande allumiera che procurava utili alla Curia (Del Gaizo 1884). L’inizio della guerra di successione e le vicende politiche che interessarono direttamente l’isola impedirono, con ogni probabilità, che la cosa avesse un qualche sviluppo. Alla fine della guerra, l’allume d’Ischia fu affidato a mercanti veneziani che commerciavano a Napoli (ai quali si riferisce certamente Elisio). Infatti, il 2 maggio 1465 il re prestava, al veneziano Marino da Cataponte, «... maestro di panni di seta», 1000 ducati per tre anni senza interessi, per agevolare l’industria della seta a Napoli, ma non gli versava contanti, bensì lo autorizzava «... di volersi pigliare ditti mille ducati alla pietra dell’allume d’Ischia della parte che tocca alla maestà del Sig. Re, cioé dello partito che haveno con Hieronimo Michaele et Jacopo Zanni», al prezzo di giornata (Pescione 1919). Tre anni dopo, La Rassegna d’Ischia 6/2009 29 quando si trattò di restituire il prestito, il magnifico Pascasio Diaz Garlon etc. ricordava che Marino e i suoi soci avevano a suo tempo prelevato l’allume dalla Regia Curia e l’avevano venduto a prezzi diversi, come da informazioni assunte dagli ufficiali della dogana maggiore (Silvestri 1952): per il solito Feniello (2003, 2005, 2006), che pure cita l’Autore suddetto, si sarebbe invece trattato di un nuovo acquisto di allume (???). Anche Michaele e Zanni, che gestivano l’allume di Ischia, erano veneziani, e sappiamo che il primo era stato uno dei concessionari delle miniere di Focea e aveva dovuto abbandonarle, nel 1463, all’inizio della guerra fra Venezia e i Turchi (Heyd 1885-86). Nello stesso periodo troviamo che un altro veneziano, Paolo Contarini, è «... arrendator alumerie insule hyscle» (Di Lustro 2003). In questo periodo l’allume di Ischia è ancora ben separato da quello di Agnano: nella concessione del 10 maggio 1465 a Guglielmo lo Monaco, al capo I, il re si riserva espressamente il diritto di produrre allume ad Ischia e a Lipari, in concorrenza con quello di Agnano, del quale pure gli spetta il 50%, partecipando egli al 50% delle spese. Inoltre, secondo il capo 14, il concessionario non può vendere la sua parte nel Regno, salvo, in caso di necessità e per un valore massimo di trecento ducati al mese che, però, il re si riserva di acquistare personalmente a prezzo di favore (Cestari 1790). La prosperità del giacimento di Agnano, a meno che non si tratti di altro deposito aperto nei monti della Solfatara, è testimoniata da una relazione, del 1470, secondo la quale il trattamento finale avveniva fuori dalle mura di Pozzuoli, dove «... si lavano gli allumi e si fanno bollire. A circa mezzo miglio ci sono i monti dai quali si estraggono gli allumi in forma di pietre e grossi massi, che giù nella valle vengono cotti nelle fornaci, proprio come se si cuocesse la calce. Poi queste pietre così cotte vengono trasportate nel luogo che ho detto per la bollitura» (Heers e De Gröer 1978). Ma non era l’allumiera di Agnano (o di Pozzuoli), bensì quella di Ischia, ad impensierire proprietari e appaltatori delle miniere della Tolfa Infatti, nella lunga introduzione all’accordo siglato l’11 giugno 1470 con re Ferdinando, è detto che la concorrenza dell’allume ischitano poteva nuocere alla causa della Santa Crociata, destinataria dei proventi dell’allume di Tolfa. Secondo l’accordo, venivano messe in comune «... tutte allumere, sono si de la Santita de nostro Signore et de la Camera Apostolica, come de la Maiesta de Signore Re... per anni venticinque proximi a venire. Che le allumere de la Santita de nostro Signore et Camera apostolica et quelle de la Maiesta del signore Re per il tempo supradicto sentendano essere un corpo o vero anima». Tutte le vendite dell’allume andavano quindi fatte da due deputati, uno per parte, a prezzo concordato, e ciascuno dei soci doveva concorrervi per la metà, salvo integrazioni da parte di uno di essi, con adeguato risarcimento, nel caso l’altro non fosse in grado di provvedere. A garanzia e verifica, ciascuna delle parti avrebbe inviato un Commissario stabile presso le allumiere dell’altra. L’accordo, assieme alla procura data da Ferdinando ad Anello Perozzo (Perocius) per la sottoscrizione, è pubblicato 30 La Rassegna d’Ischia 6/2009 integralmente da Theiner (1863). Ampi stralci, senza però il preciso ed esclusivo riferimento introduttivo ad Ischia, si trovano in Zippel (1907), Delumeau (1962) e De Roover (1970). Secondo Feniello (2003, 2005, 2006) l’accordo sarebbe stato voluto da Roma «... per neutralizzare la concorrenza d’Agnano», in quanto «... la capacità produttiva dell’allumiera fu consistente e tale da rivaleggiare per qualche tempo con quella della Tolfa» (???). La maggiore, se non esclusiva, importanza dell’allumiere di Ischia, in quel tempo, è invece testimoniata dal fatto che il Commissario romano, Nanni di Vezzano, milite bolognese, andò a stabilirsi «... nella miniera regia ad Ischia» (Zippel (1907). Anello Perozzo, oltre ad essere il plenipotenziario di re Ferdinando per la firma dell’accordo, era anche appaltatore (arrendatore) delle allumiere, di Ischia e di Agnano, o lo diventerà subito dopo: secondo la testimonianza del presidente Lupo, egli (Anello Piroczo) subentrò a Guglielmo lo Monaco nell’allumiera di Agnano, e, secondo un altro teste, aveva tenuto l’allumiera d’Ischia ai tempi di re Ferrante (Cestari (1790). L’accordo di “cartello”, che avrebbe dovuto durare 25 anni, ne durò poco più di due, con varie controversie, e sopravvisse pochissimo alla morte di Paolo II (settembre 1471). Nel giugno del 1471 alcune galee genovesi cariche d’allume napoletano furono sequestrate a Middelbourg perché, secondo gli accordi, l’allume di Napoli non doveva essere introdotto nei Pesi Bassi prima che fossero esaurite le scorte pontificie che vi si trovavano (Delumeau 1962). Fra il re di Napoli e la Santa Sede esistevano altre annose controversie, ma la morte di Paolo II e l’elezione di Sisto IV «... fece cessare tutte quelle discordie» (Giannone 1753): in questo nuovo clima, fra il nuovo papa e re Ferdinando fu amichevolmente concordato di annullare l’accordo per l’allume. Come nota Zippel, l’ultimo mandato di pagamento della Depositeria Generale della Crociata per il Commissario Nanni di Vezzano, di stanza ad Ischia, è dell’ottobre 1472. «Dopo il 1473 le galee ferrandine, cioè napoletane, esportavano allume anche da Ischia alla rada di Zelanda, donde veniva poi reimbarcato per Bruges, Anversa o Bergen-opZoom» (De Roover 1970). Da un documento dell’Archivio di Stato di Genova (Div. Com. Januae n. 3055) risulta anche che il 1° aprile 1474 una nave carica di allume, di re Ferdinando, fu aggredita da navi portoghesi. In quell’anno si verificò quello che il cartello avrebbe voluto evitare, cioè una grande disponibilità di prodotto con conseguente crollo del prezzo, tanto che il papa dovette dimezzare la tassa pagata dai Medici per l’allume caricato a Civitavecchia (De Roover 1988). L’abbondanza dell’offerta fu in parte dovuta all’apertura delle miniere toscane, in parte all’afflusso dell’allume orientale, nonostante le proibizioni. Le miniere napoletane non dovevano essere molto produttive se nel 1476 e 1478 il Regno era costretto ad importare allume romano (Delumeau 1962). Il 21 ottobre 1481 Francesco Coppola, conte di Sarno, ottenne la concessione vitalizia delle miniere d’allume di Ischia con la nomina, pure vitalizia, di capitano e governatore dell’isola. Il 19 marzo dell’anno seguente il re gli confermò tutti i privilegi goduti dai precedenti concessionari, quali la giurisdizione civile criminale, il diritto di tagliare legna in tutta l’isola, il pascolo e il transito dei buoi adibiti al trasporto del materiale da e per le miniere, l’esenzione dai dazi sul minerale e su ogni cosa necessaria alle miniere. Pochi mesi dopo, il 27 luglio 1482, il re ordinava che gli fossero restituiti i buoi fatti venire dalla Calabria e fermati dai gabellieri, in quanto ogni cosa riguardante le miniere d’Ischia era esente da gabelle in tutto il Regno (Schiappoli 1972). Oltre che nell’isola, il concessionario aveva diritto di taglio degli alberi e di pascolo anche in terraferma, a Baia e a Patria. Nell’isola cominciava a farsi sentire la penuria della legna necessaria all’allumiera, provocando quel calo di produzione, a favore di Agnano, ricordato nel 1501 da alcuni testi (Cestari 1790). In particolare, Filio de Anna depose che, essendo stato mandato da re Ferrante ad Ischia, per affari di corte, era andato ad alloggiare nell’allumiera del Coppola e «... trovò, che quella non si poteva fare per la grande spesa di acqua e di legname, e che quella di Agnano si poteva lavorare per l’abbondanza delli materiali». Nel 1487, comunque, Francesco Coppola perse la concessione, e la vita, perché aderente alla congiura dei baroni. Non sappiamo a chi passò la concessione: Pontano, che scriveva negli ultimi anni del Quattrocento, ci dice solo che l’isola abbondava di molto allume. Nel 1501 l’allumiera risulta gestita dal “Marchese del Vasto” che, invitato a pagare il “Relevio”, protestò che ne traeva poco profitto; tuttavia nel 1504 Ferdinando ed Elisebetta avrebbero concesso la stessa allumiera ad “Alfonso d’Avalos de Aquino Marchese di Pescara e del Vasto”. (Cestari 1790). È ovvio che non può trattarsi del famoso condottiero di Carlo V, nato nel 1502 (nel castello d’Ischia): quindi, o si tratta di un parente omonimo, oppure c’è un errore di nome e si tratta del padre Innaco, che fu castellano in quegli anni. Comunque, subito dopo (non nel 1484 come dice Feniello) l’allumiera d’Ischia passò sotto il controllo di Gaspare Scozio, già affittuario di quella di Agnano, che ne affidò la gestione a Colanello Imperato, poi, morto lui, passò al fratello Marcantonio Scozio. Però, secondo una testimonianza riportata da Cestari, Ferdinando il Cattolico gli proibì di lavorarla per compiacere Agostino Chigi (e il papa). La proibizione, semmai ci fu, ebbe brevissima durata o fu del tutto inattesa: nel 1517, infatti, Marcantonio Scozio pagava i diritti sull’allume estratto ad Ischia, e prima di lui li aveva pagati Colanello Imperato, a partire, almeno, dal 1505 (Cestari 1790). Il 21 luglio 1487 i fratelli Sannazaro, dopo controversie e ricorso ad arbitri, addivennero ad una prima divisione dei beni paterni: questi furono divisi in due parti, delle quali Giacomo, come primogenito, aveva diritto di prima scelta. In una parte erano comprese le entrate della «Zulfatara cum omnibus juribus et pertinentiis», ma si specificava poi che su tali entrate, della «Zulfatara o vero alumera», si poteva far poco conto e quel poco dovuto più «... ad industria ed affanno» che ad altro, per cui, a qualunque dei fratelli fosse toccata, questi non avrebbe dovuto poi dividere con l’altro gli utili derivati da eventuali accordi con Gaspare de Scocio (Scozio), con la corte o con qualsiasi altro (Percopo 1931). L’allumiera toccò a Marco Antonio che, dieci giorni dopo, l’affittò a Gaspare Scozio per 34 ducati l’anno: questo era stato possibile perché re Ferrante, per intercessione del principe Federico, molto amico di Giacomo Sannazaro, «... ordinò per memoriale li fossero restituite ad dicti fratelli costandono essernoli loro dicta Lumera», ma la cosa non fu poi formalizzata perché, essendo intercorsi nuovi contrasti fra i due fratelli, Giacomo chiese al principe di non intercedere più presso il re, «con dire che lo fratello li era inobediente & che ipso non se ne curava de impaczarsene più de recuperare robba ma quella che havea andasse in mala hora» (Cestari 1790). Nel 1490 l’allumiera era coltivata da Colantonio Gagliardo, per conto di Gaspare Scozio che aveva avuto la concessione dalla Regia Curia. Nel 1494, Alfonso II la affittò a Pietro de’ Medici, per dieci anni, in cambio di 7000 ducati, ma la cosa non ebbe seguito, per la calata di Carlo VIII e la cacciata di Pietro da Firenze. L’8 febbraio 1495 Ferdinando II, re da pochi giorni ma praticamente spodestato da Carlo VIII, nel castello di San Germano firmava un decreto, sottofirmato dal Pontano, con il quale dichiarava non legittima l’incorporazione della Regia Curia e ordinava la restituzione, a Giacomo Sannazaro, per i suoi meriti e servizi, dell’allumiera di Agnano «... che la Regia Curia ed altri posseggono da un certo tempo al presente», con tutti i diritti, territori, proprietà, giurisdizioni e pertinenze, annullando nel contempo la precedente concessione fatta da suo padre a Pietro de’ Medici (Percopo 1931, Barbieri 1940). Pochi giorni dopo, l’allumiera, gestita da Colantonio Gagliardo, venne occupata dai francesi ed affidata ad un capitano d’artiglieria (Cestari 1790), ma il 9 marzo Carlo VIII, appena insediatosi a Napoli, concesse al “dilecti nostri” Giacomo Sannazaro di mantenere il diritto «... fieri sulfur et alumen... in loco dicto la bulla cum suis pertinenciis»: chiunque avesse avuto qualcosa da obiettare poteva farlo presso la Sommaria, entro alcuni giorni (Percopo 1931, che però assegna al documento la data, visibilmente errata, del 1494). Il 16 luglio 1495 Giacomo Sannazaro, in presenza di notaio e testimoni, prendeva “possesso corporale” del «... monte dell’allumiera sito vicino la Bolla e il lago d’Agnano...con diritti e pertinenze annessi e connessi», già spettanti ai suoi avi e restituiti, a lui, da re Ferdinando II (Percopo 1931). È appena il caso di ricordare che Ferdinando era ritornato in possesso del Regno e di notare che, nell’atto, manca ogni riferimento al decreto di Carlo VIII. Due anni dopo, il 12 agosto 1497, dopo appena 4 giorni dall’elezione, il nuovo re Federico concedeva al suo amico poeta, e successori, il mero e misto imperio sull’allumiera, con diritto di amministrare la giustizia per quanto riguardava le liti e le risse fra gli uomini che vi lavoravano. L’atto è riportato da Barbieri (1940): Percopo (1931), avendone trovato cenno negli atti del processo Sannazaro, lo cercò inutilmente a Napoli e lo datò, indicativamente, al 1501. Verso la fine del secolo, i fratelli Sannazaro intentarono un processo per ottenere «... la rescissione del contratto per la sua patente enormissima lesione», dato che l’affittuario, Gaspare La Rassegna d’Ischia 6/2009 31 Scozio, si era enormemente arricchito, mentre corrispondeva un misero canone perché, si diceva, a suo tempo aveva raggirato Marco Antonio, giovane e privo di esperienza. Il primo dei testimoni chiamati dai ricorrenti fu proprio re Federico, convinto, a dire di Percopo (1931), da quell’epigramma (III,5), a lui intestato, in cui il poeta «... scherza sul nome di Scozio». In tutto questo periodo l’allumiera continuava comunque a produrre, e discreti quantitativi di allume venivano spediti all’estero dai porti di Napoli, Pozzuoli e Nisida: dal tempo di Ferdinando II al 1501 i fratelli Sannazzaro ne avevano venduto a mercanti catalani e francesi, «... & ultimamente ne have facto partito con Julio Spannochis de una gande quantitate»; ai tempi di Ferdinando II e Federico, il mercante Pirro Lauritano ne aveva comprato diverse quantità, prima da Gaspare Scozio, poi da Colantonio Gagliardo e da Francesco Piczola, il mediatore catalano Pietro Vaglies aveva trattato il prodotto «... con molti mercanti di diverse nazioni»; Raymo Ciolla, misuratore della dogana, «... piu & diverse volte...e andato in dicta alumera ad pesare multe & diverse quantità da Alume ad istancia de comparaturi»; Antonio Regulano ne aveva comprato circa ottocento cantari, all’epoca di re Federico, e l’aveva caricata a Bagnoli su una nave biscaglina. L’allume veniva venduto a due ducati al cantaro (poco più di 89 Kg), di più in caso di baratto, e l’utile era elevatissimo: «... andando uno ducato de spesa per ciascuno cantaro de Alume un altro ducato se ne piglia di guadagno». (Cestari 1790). Per Feniello, che riporta la stessa frase nelle tre pubblicazioni citate, il «ricavato, alla vendita» sarebbe stato del 50%: evidentemente per questo Autore anche la matematica è un’opinione (infatti, il «ricavato» è del 200%, mentre il guadagno, a cui voleva certo alludere, è del 100%). Ritornato nel pieno possesso dell’allumiera, il 19 maggio 1501 Giacomo Sannazaro concordò con gli appaltatore dell’allume di Tolfa, Agostino Chigi e compagni, la vendita in esclusiva di tutta la produzione, stimata ad un massimo di 5000 cantari l’anno, per 10 anni: sulla produzione totale il concessionario era però libero di vendere i quantitativi che il mercato napoletano poteva assorbire ed era autorizzato a consegnare al mercante fiorentino Salvatore Billi, sulla prima produzione, gli 850 cantari d’allume venduti in precedenza; il prezzo pattuito era di 17 carlini e 2,5 quattrini al cantaro per il primo anno, 17 carlini il secondo anno, e così alternativamente per gli anni successivi (non, come dice Feniello, il primo prezzo per i primi cinque anni, il secondo per gli altri cinque); il prodotto non doveva essere rosso, ma «... bono e recipiente...quale è stato solito farsi per lo passato in la dicta lumera», e doveva essere trasportato a Bagnoli, per l’imbarco, a spese dei compratori; questi, inoltre, prestavano a Giacomo 2000 ducati, da restituirsi nell’agosto dell’anno successivo (Montenovesi 1937). Dato che ci volevano 10 carlini per fare un ducato, è evidente che il prezzo di vendita era alquanto al di sotto di quello corrente. Da notare, ancora, che 5000 cantari corrispondono a più di 445 tonnellate, mentre per Feniello, a conferma di quanto sopra, sono 250 tonnellate. Successivamente, secondo le testimonianze riportate da Cestari, Chigi pagava al Sannazzaro un affitto perché tenesse 32 La Rassegna d’Ischia 6/2009 completamente chiusa l’allumiera: l’affitto, secondo Pietro Concio, custode maggiore dei fondaci e dogane di Napoli, era di circa mille ducati l’anno. La cosa fu certamente determinata dalle vicende del tempo: nel settembre dello stesso 1501, infatti, il poeta lasciò Napoli per seguire in esilio il suo sovrano ed amico (Federico), mentre il Regno passava a Luigi XII di Francia. Due mesi dopo, il fisco gli intentò causa per ottenere la restituzione dell’allumiera, per esserne stato «... spogliato ingiustamente dai fratelli Sannazaro fin dal tempo di Carlo VIII» (Cestari 1790). Giacomo, che si trovava in Francia ed era reputato «buon servitore» da Luigi XII, ricorse al re e questi, il 7 maggio 1502, scrisse a suo cugino, viceré di Napoli, di assumere sommarie informazioni, senza processo, e se i diritti del poeta avevano qualche fondamento, «... vui lo mantenite... pacificamente in dicta possessione..et fando cessare tutti processi e atti...imponite silenzio al ditto procuratore et altri miei officiali» (Percopo 1931, da trascrizione contenuta negli atti processuali). Nel 1517 fu iniziata altra causa contro Giacomo Sannazzaro e suo nipote Gio. Francesco (figlio del fratello Marco Antonio), da parte degli appaltatori della Dogana e delle Gabelle: «Pretendevano costoro, che l’Alume non potea né vendersi in Regno, né fuori senza che si pagasse la gabella del buon denaro, e il dazio al fondaco della Dogana grande». I Sannazaro sostenevano invece che l’allume di Agnano era sempre stato immune da gabelle: dai testimoni presentati dalle parti, apprendiamo che, scaduto il contratto con Agostino Chigi, l’allumiera era stata affittata ad Antonio Regulano, il quale, dal 1512, «... ha fatto de continuo lavorare dicta Lumera si come se lavora al presente», con i Cuccari di Roma e con Simone Ricasoli (Cestari 1790). In seguito la produzione divenne sempre più scarsa ed irregolare, mentre andava aumentando la corrente d’allume romano verso Napoli, ed è interessante notare che anche navi ischitane caricavano allume della Tolfa, a Civitavecchia, per trasportarlo a Londra e nelle Fiandre, almeno negli anni 154143 (Delumeau 1962). Evidentemente nei tempi migliori si era andata formando una flotta locale per il trasporto dell’allume d’Ischia, che veniva caricato a Casamicciola in quella che, fino a tempi recenti, era nota come marina delle lumiere. A partire dal 1531, nei contratti d’appalto per l’allume di Tolfa, cominciò ad essere inserito un articolo che impegnava la Santa Sede a tener chiuse le altre allumiere italiane, ed in particolare quelle napoletane, a pena di risarcimento (Delumeau 1962). La diversa situazione giuridica delle allumiere di Ischia e di Agnano non consente, come invece è stato fatto, di accomunarle riguardo ai metodi utilizzati per ottenere lo scopo: l’allumiera di Agnano, di proprietà e diritto privato, consentiva alla Camera Apostolica o agli appaltatori di concordare la chiusura con i proprietari, mentre, per quanto riguarda Ischia, poteva essere concordato l’acquisto totale del prodotto, dai concessionari, oppure, a seconda delle necessità e dei rapporti, più o meno buoni, con i governanti napoletani, sollecitarli affinché non rilasciasse concessioni per la produzione o, almeno, che il prodotto non venisse esportato fuori dal Regno. Verso il 1536 l’allumiera di Agnano fu visitata da Leandro Alberti che ci ha lasciato una precisa testimonianza nella fondamentale “Descrizione di tutt’Italia”, pubblicata per la prima volta nel 1550 (e poi numerose altre volte). Stranamente, essa è ignorata da tutti gli autori italiani citati; solo Delumeau (1962) ne dà qualche cenno, ricavato da un autore inglese (Singer): ritengo quindi utile riportarne i passi salienti. Scrive, dunque, che passato il colle che chiude la Solfatara, verso oriente, si inoltrò nella valle dove si fabbricava l’allume con «... le pietre estratte da questo colle.... Coceno dette pietre nella fornace, e estratte le compongono insieme, e vi superinfondono l’acqua estratta di alcuni pozzi che quivi sono, alquanti giorni. Onde per tale infusione d’acqua tanto sono macerate che in cenere si risolvono. Di poi estraeno il liscivio di dette ceneri, e lo ripongono nei vasi di legno. Il quale a poco a poco circa l’estremità de’ vasi anzidetti congelandosi, che vi rimane congiunta tal congelatura di grossezza di un’onza, o circa, che par’un natural ghiaccio, overo cristallo, che fa bisogno col ferro separarlo. Ella è cosa molto bella da vedere; di cui gran guadagno se ne cava». Nella successiva descrizione delle isole (1561 e segg.), parlando di Ischia dice soltanto, per quel che c’interessa: «... Che sieno quivi le miniere del solfo e dello Alume, chiaramente si conosce dai Bagni di odore di solfo molto giovevoli a diversi infermità». diritto sulle miniere di solfo, vetriolo e altro, e si impegnava a tutelare il contratto nei confronti di chiunque, anche della Camera Regia. E poiché egli aveva vincolato tutti i suoi beni a favore della moglie Beatrice, dichiarava che questa acconsentiva alla cessione. Ed infatti, il 1° giugno, davanti a pubblico notaio, Beatrice attestava di non aver alcun diritto sull’allumiera, che non c’erano ipoteche sui beni dotali del marito, e che rinunciava espressamente al diritto di fabbricare allume. Il 14 di maggio dell’anno successivo, per accordo fra le parti, l’affitto annuo fu trasformato in un pagamento unico di 23.500 scudi (non 25.000 come dice Feniello), da pagarsi entro il successivo mese di settembre. Per eliminare la concorrenza di Agnano, nel 1539 la Camera apostolica si accordò con Cesare Mormile, succeduto ai Sannazzaro nella proprietà dell’allumiera, il quale s’impegnò a tenerla chiusa per 14 anni, col compenso di 1000 scudi l’anno; scaduto il contratto, nel 1552 fu rinnovato per altri 16 anni. A quanto pare, però, le ultime rate non furono pagate, e l’allumiera riaprì: nel 1567 venivano vendute circa 130 tonnellate di allume prodotto a “Pozzuoli” (Delumeau 1962). Nello stesso anno (non nel 1561 come dice Feniello), Gio. Camillo Mormile vendette la proprietà di Agnano, con la “Lumera”, a Pietro de Stefano e congiunti, per 20.000 ducati da pagarsi a rate. La Camera Apostolica reagì intimando a Mormile di non far lavorare alcuno in terre che, diceva, erano soggette alla Santa Sede, e, avendo quello ignorato l’ammonizione, fu condannato «... per aver fatto lavorare, e vendere l’Alume in Regno... attento che questo Regno è soggetto mediate alla Sede Apostolica». Il vicerè di Napoli protestò con Filippo II, sembrandogli la cosa «... di molto pregiudizio alla Giurisdizione di Sua M. poiché pretendono di comandare, e citare, ed astringere i Laici di questo Regno, come Regno della Chiesa mediate soggetto». Cestari (1790), dal quale abbiamo tratto queste notizie, non dice come andò a finire, ma lo sappiamo grazie a due altri documenti pubblicati da Barbieri (1940): la Camera apostolica fece marcia indietro e si accordò nuovamente col proprietario dell’allumiera, rimasto lo stesso Gio. Camillo Mormile perché, evidentemente, la vendita non era andata a buon fine. L’accordo prevedeva che, a partire dal 15 agosto 1568, Mormile avrebbe tenuta ferma l’allumiera per 15 anni, in cambio di 1000 scudi l’anno. Da notare che Cestari, non avendo letto Iasolino e male informato sui contenuti, attribuisce la produzione dei 1500 cantari ad Agnano e, su tale produzione, basa i suoi ipotetici conti sulla perdita subita dallo Stato per la chiusura forzosa di quella miniera. All’avvicinarsi della scadenza, il 28 maggio 1582 Mormile cedette ogni diritto sull’allumiera al Sommo Pontefice e alla Camera Apostolica, impegnandosi a non fabbricare allume, in perpetuo, in cambio di 1300 scudi l’anno; manteneva però il Per quanto riguarda Ischia, intorno alla metà del Cinquecento vi si lavorava certamente: Cestari segnala due atti d’affitto per l’ Alumiera, uno del 1548 per 500 ducati l’anno, l’altro del 1560 per 1000 ducati l’anno. E si lavorava ancora (o di nuovo ?) intorno al 1585, come apprendiamo da Iasolino (1588) che ci dà poche ma interessanti informazioni: «qui vicino (al Monte e alla Casa Cumana) sono le Alumiere, nelle quali ogni anno quasi si fa tanta copia d’alume, che ascende al numero di mille e cinquecento cantara....Sono anche minere d’alume in molte parti dell’isola, e specialmente vicino al Monte della Guardia». La produzione d’Ischia, seppur modesta, dava pretesto agli appaltatori dell’allume romano di chiedere un risarcimento alla Camera Apostolica: nel 1590, al termine del loro contratto iniziato nel 1578, Olgiatti e Ridolfi chiesero un risarcimento di 6.500 scudi «... per il torto subito nei primi quattro anni del nostro contratto, perché le alumiere d’Ischia non sono state chiuse contrariamente alle convenzioni» (Delumeau 1962). Da questo si ricava che la produzione, ad Ischia, cessò nel 1582. Negli ultimi anni del secolo i commercianti e gli utilizzatori d’allume del Regno presero a protestare contro il regime di monopolio dell’allume romano, che erano costretti a pagare otto denari al cantaro, mentre lo stesso prodotto ne costava sei a Venezia. La Camera Regia liberalizzò l’importazione degli allumi e concesse la riapertura delle allumiere di Agnano e di ischia, ma per breve tempo, perché, a seguito delle proteste romane, «... Nel 1608 il viceré rinnovava il divieto, in favore della Camera apostolica » (Zippel 1907). Giuseppe Pipino Bibliografia AA.VV. L’Alun de Méditerranée. Colloque International, Naples/Aix-en-Provence 2005. Arte Tipogr., Napoli 2006. ALBERTI L. Descrittione di tutta Italia. Nella quale si contiene il sito di essa, la qualità...le Miniere , et l’opere meravigliose... Aggiuntavi la descrittione di tutte l’Isole. Lod. Degli Avanzi, Venezia 1588. La Rassegna d’Ischia 6/2009 33 ALDROVANDI U. Musaeum metallicum. Tip. J.B. Ferronij, Bologna 1648. ANONIMO. Come l’Imperatore e l’Imperatrice partiti da Pizzolo vanno a vedere la Zulfatara, la Lumera, et Agnano, e là le grotte e lo monte Spina’. 1452. In D. Racconti di storia napoletana. .”Arch: St. Prov. Napoletane”, XXXIII, 1908, n. 3. ARTINO L. Chroniche de la Inclita Cita de napole emendatissime: con li Bagni de Puzolo e Ischia: Novamente ristampate: con la Tavola. E. Presenzani, Napoli 1526. BARBIERI G. Industria e politica mineraria nello Stato Pontificio dal ‘400 al ‘600. Lineamenti. Cremonese Libraio Ed., Roma 1940. BERGOMENSIS (Foresti) J.F. Supplementum chronicarum. B. Benaluis, Venezia 1483. BOISSEUIL D. L’alun en Toscane à la fin du Moyen Âge. In AA.VV. 2006. BOYDELL .C. The role of colloidal solutions in the formation of mineral deposits. “Transl. Inst. Min. Metall.”, London 1924. BREISLAK S. Topografia fisica della Campania. St. A. Brazzini, Firenze 1798. BUCHNER G. Pitecusa: scavi e scoperte 1966-1971. In “Le genti non greche della Magna Grecia”, Atti XI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1971. BUCHNER G. Nuovi aspetti e problemi posti dallo scavo di Pithecusa con particolari considerazioni sulle oreficerie di stile orientalizzante antico. In “Contibution à l’étude de la societé e de la colonisation Eubeennes“, Napoli 1975. BUCHNER P. Giulio Iasolino, medico calabrese del Cinquecento che dette nuova vita ai bagni dell’isola d’Ischia. Rizzoli Ed., Milano 1958. CANALE M.G. Storia civile, commerciale e letteraria dei Genovesi. Vol. III. G.Grondona Ed., Genova 1845. CESTARI G. Anecdoti istorici sulle allumiere delli Monti Leucogei. Napoli 1790. CHEVALLEY DE RIVAZ J.E. Précis sur les eaux minérothermales, et les étuves del’île d’Ischia. Napoli 1831. CIRILLI V. Sulla costituzione dei tufi bianchi della Solfatara di Pozzuoli e di materiali geneticamente simili provenienti dall’Isola di Ischia. “Rend. R. Acc. Sc. Fi, Mat. Napoli”, s. IV n. 11, 1941. CROCE B. Le allumiere di Agnano nei secoli XV e XVI e la Santa Sede. In “Varietà di Storia letteraria e civile”, s. I. Laterza e Figli, II ed., Bari 1949 . CRONICHE de la inclyta cita de Napole emendatissime. con li bagni de Pozolo & Ischia. nuovamente ristampate. M. Evangelista Presenzani di Pavia, 27 aprile 1526. D’ASCIA Giuseppe. Dei minerali ed altri naturali prodotti. In “Storia dell’isola d’Ischia”, St. Tip. G. Argenio, Napoli 1867. DE BALNEIS omnia quae extant apud graecos, latinos, et arabas....Haerdes Lucaeantonij Iuntae, Venezia 1553. DE POERK G. La draperie médiévale en Flandre et en Artois. Technique et terminologie. De Tempel. Brugge 1951. DE ROOVER R. Il Banco dei Medici dalle origini al declino (1397-1494). La Nuova Italia Ed., Firenze 1970. DE SIANO F. Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell’isola d’Ischia. S. ed., s. loc., s.d. (Napoli 1801). Ed. “La Rassegna d’Ischia”, 1994. DEL GAIZO M: Notizie intorno all’eruzione del 1301 ed all’industria dell’allume nell’isola d’Ischia. “Rassegna Italiana”, 15 aprile 1884. Ristampato in “La Rassegna d’Ischia”, n.5, 2004. DEL TREPPO M. I mercanti catalani e l’espansione della corona aragonese nel sec. XV. L’Arte Tipografica, Napoli 1967. 34 La Rassegna d’Ischia 6/2009 DELUMEAU J. L’alun de Rome. XVe-XIXe siècle. S.E.V.P.E.N., Chambery 1962. DI LUSTRO A. La marineria ischitana tra il ‘500 e l’800. “La Rassegna d’Ischia”, 2003 n. 5-6. DI LUSTRO A. Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia (IV) “La Rassegna d’Ischia”, 2006 n. 4. ELISII Johannis (Giovanni Elisio). Succinta instauratio de Balneis totius Campanie...cum libello contra malos medicos. Antonio Frezza, s. l., s.d (Napoli, 1519). FENIELLO A. Estrazione e commercio dell’allume: le miniere di Agnano e di Ischia. In Casale A., Feniello E., Leone A: Il commercio a Napoli e nell’Italia meridionale nel XV secolo. Bibl. St. Merid. N. 11, Ed. Athena, Napoli 2003. FENIELLO A. Les Campagnes napolitaines à la fin du Moyen Âge. ”Coll. Éc. Fr. Rome”, 348, 2005. FENIELLO A. L’allume di Napoli nel XV secolo. In AA.VV. 2006. FIUMI E. L’impresa di Lorenzo de’ Medici contro Volterra (1472). Leo S. Olschki Ed., Firenze 1948. FUCHS C.W.C. L’Isola d’Ischia. Monografia geologica. “Mem.. Descr. Carta Geol. d’Italia“, II. p. I, 1873 GIANNONE P. Dell’istoria civile del Regno di Napoli. T. III. E.A.Grosse, Haya 1753. GIUSTINIANI A. Castigatissimi annali con la loro copiosa tavola. Tip. Bellono, Genova 1537. GONI J., GUILLELMIN C., SARCIA C. Géochimie de l’or exogène. Etude expérimentale de la formation des dispersions colloidales d’or et de leur stabilité. “Mineralium Deposita“, I, 1967. HEERS M-L. Les Génois et le Commerce de l’Alun à la fin du Moyen Âge. ”Rev. Hist. Écon. Soc.”, XXXII, 1954 n. 1. HEERS J., DE GRÖER G. Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sante. In «Source d’Histoire Médiévale», Inst, Rech. Hist. des Textes, Paris 1978. HEYD W. Geschichte des Levanteshandels in Mittelalter. Harrassowitz, Leipzig 1885-1886. Idem, traduzione italiana, col titolo Storia del commercio del Levante nel Medio Evo. Ed. Utet, Torino 1909, e Biblioteca dell’Economista, s. 5, vol. X, 1913. IASOLINO G. De rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi detta Ischia. G. Cacchij, Napoli 1588. Idem, II ed.,“... accresciuto con alcune annotazioni del Dottore Filosofo Sig. Gio. Pistoya. E nell’ultimo aggiunti i bagni d’Ischia di Gio. Elisio Medico Napoletano, con le note di Gio. Francesco Lombardo Medico Napoletano”. Fr. Mollo, Napoli 1689 JERVIS G. I tesori sotterranei dell’ Italia. Vol. II, Regione dell’Appennino e vulcani attivi e spenti dipendenti. E. Loescher, Torino 1874. LEIBNITZ G.W. Summi polystoris. Protogonea...I.G. Schmidit, Goettingae 1749. LISINI A. Notizie delle miniere della Maremma Toscana e leggi per l’estrazione dei metalli nel Medioevo. “Bull. Sen. St. Patr.”, 1935. LOFFREDO F. L’antichità di Pozzuolo et luoghi convicini. G. Cacchi, Napoli 1570 LOMBARDI I.F. Σinoψiε eorum, quae de Balneis, aliisq; miraculis Puteolanis scripta sunt. A. Sanuiti, Venezia 1566. MACLAREN J.M. Gold, its geological occurence and geographical distribution. Mining Journal Ed., London 1908. MANDICH G. Privilegi minerari e agricoli a Venezia nel sec. XV. “Riv. Dir. Ind.”, 1958, I. MANZI P. La tipografia napoletana nel ‘500. Olschky Ed., Firenze 1971. MAZZELLA S. Descrittione del Regno di Napoli... G.B. Cappello, Napoli 1586. MAZZELLA S. Opusculum de balneis puteolorum, baiarum et pithecusarum. A Ioanni Elisio Medico instauratum. H. Salvianum, Napoli 1591. MERCATI M. Metallotheca Vaticana. Tip. Salvioni, Roma 1717. MINIERI RICCIO C. Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli. Tip. dell’Aquila, Napoli 1844. MINIERI RICCIO C. Alcuni fatti riguardanti Carlo I di Angiò dal 6 agosto 1252 al 30 di dicembre 1270, tratti dall’archivio Angioino di Napoli. Tip. Rinaldi e Sellitto, Napoli 1874. MINIERI RICCIO C. Il Regno di Carlo I D’Angiò negli anni 1271 e 1272. Tip. Rinaldi e Sellitto, Napoli 1875. MONTENOVESI O. Agostino Chigi banchiere e appaltatore dell’allume di Tolfa. “Arch. R. Dep. Rom. St. Patria”, XVI, 1937. MUREDDU P. XPYΣEIA A PITHECUSSAI. In “La parola del passato”, 27, 1972. NEWSLETTER OF THE INTERNATIONAL LIAISON GROUP ON GOLD MINERALISATION. University of Southampton, Oct.1985-Oct. 2004 (serie completa conservata al Museo Storico dell’Oro Italiano). NIOLA BUCHNER D. Ischia nelle carte geografiche del Cinquecento e Seicento. ImagAenaria Ed., Prontostampa srl, Napoli 2000. NEWSLETTER OF THE INTERNATIONAL LIAISON GROUP ON GOLD MINERALISATION. Southampton Univ. Oct. 1985–Oct. 2004 (serie completa conservata nella Biblioteca del Museo Storico dell’Oro Italiano, Ovada). OREGLIA E. Notizie sull’industria mineraria nella Venezia sotto il dominio della Republica. Appendice alla “Rivista del Servizio Minerario nel 1913”, Tip. L. Cecchini, Roma 1915. PAIS E. Le pretese χρυσεια di Strabone, e proposta di correzione del testo in χυτρεια. In “Ricerche storiche e geografiche sull’Italia antica”, cap. XVIII, “Per la storia d’Ischia e di Napoli nell’antichità”, Soc. Tip. Ed. Naz., Torino 1908. PAMPALONI Guido. La miniera del rame di Montecatini Val di Cecina. La legislazione mineraria di Firenze e i Marinai di Prato. Secolo XV, seconda metà. Cassa Risparmio e Depositi, Prato 1976. PEGOLOTTI F.B. Pratica della mercatura (1340). Tomo terzo “Della decima e delle altre gravezze”, Ed. G. Bouchard, Lisbona e Lucca 1766. PERCOPO E. Vita di Jacopo Sannazaro. “Arch. St. Prov. Nap.”, n.s., XVII, 1931 nn. I-IV. PESCIONE R. Gli statuti dell’arte della seta in Napoli in rapporto al privilegio di giurisdizione. “Arc, St. Prov. Napoli.”, 44, 1919. PICCINNI G. Le miniere del senese alla fine del medioevo. In “La Tuscane et les Toscans autour de la Renaissance”, Mélange offerts a C-M. de la Roncière. Univ. Provence, Aix 1999. PICON M. Des aluns naturel aux aluns artificiels et aux aluns de synthèse: matières premières, gisements et procédés. In AA.VV. 2006. PIO II. Commentarii rerum memorabilium, quae temporibus suis contigerunt. Off. Aubriana, Francofurti 1614. PIPINO G. Alcune considerazioni sulle vene metallifere del territorio di Genova citate in un documento del 1465. “Not. Gr. Min. Lomb.”, 1976 n. 2. Poi in “Liguria Mineraria. Miscellanea di giacimentologia, mineralogia e storia estrattiva”, Museo Storico dell’oro Italiano, Ovada 2005. PIPINO G. L’oro in Sardegna. In "Inventario delle segnalazioni di oro in Italia eseguito per conto AGIP Miniere SpA" (1987-88). Poi in “Oro, Miniere, Storia. Miscellanea di giacimentologia e storia mineraria italiana”, Museo Storico dell’Oro Italiano, Ovada 2003. PIPINO G. Inventario delle segnalazioni e degli indizi d’oro in Italia, eseguito per conto Agip Miniere SpA (1988). Manoscritto presso la Biblioteca del Museo Storico dell’Oro Italiano, di prossima pubblicazione nel volume “Oro, Miniere, Storia, 2. Seconda miscellanea di giacimentologia e storia mineraria italiana”. PIPINO G. L’oro invisibile. Indizi e ricerca in Italia di mineralizzazioni aurifere disseminate. – A proposito dell’oro sardo. “L’Industria Mineraria”, s. III, a. X, 1989 n. 1. PIPINO G. Documenti su attività minerarie in Liguria e nel dominio genovese dal Medio Evo alla fine del Seicento. “Atti e Mem. Soc. Sav. St. Patr.”, n.s., XXXIX, Savona 2003. Poi in “Liguria Mineraria. Miscellanea di giacimentologia, mineralogia e storia estrattiva”, Museo Storico dell’Oro Italiano, Ovada 2005. PIPINO G. L’amalgamazione dei minerali auriferi e argentiferi. Una innovazione metallurgica italiana ai tempi dell’Agricola. “Collana Monografie”, 1, Politecnico di Torino, Museo delle Attrezzature. Celid, Torino 1994. Poi in “Oro, Miniere, storia. Miscellanea di giacimentologia e storia mineraria italiana”. Museo Storico dell’Oro Italiano, Ovada 2003. PIPINO G. Catalogo della Biblioteca del Museo Storico dell’Oro Italiano. Materiali per ricerche di giacimentologia, archeologia e storia mineraria. In corso di stampa. PONTANO (G.G.) De bello Neapolitano. Off. Sigismundi Mayr, Napoli maggio 1509. REGISTRI (I) DELLA CANCELLERIA ANGIOINA ricostruiti da Riccardo Filangieri. Voll. 7-10. Accademia Pontiana, Napoli 1957-1970. SILVESTRI A. Il commercio a Salerno nella seconda metà del Quattrocento. Linotip. Spatafora, sl, sd. (Salerno 1952). SCHIAPPOLI I. Napoli aragonese: traffici e attività marinare. “Biblioteca di studi meridionali” n. 3, Tip. Giannini, Napoli 1972. SUMMONTE G.A. Dell’historia della città e regno di Napoli. L. V. G. Gaffaro, Napoli 1643. THEINER A. Codex diplomaticum dominii temporalis S. Sedis. Vol. III. St. del Vaticano, Roma 1863. TESTI G. Le antiche miniere di allume e l’arte tintoria in Italia. “Arheion”, XIII, 1931 n. 4. TRASSELLI C. Miniere siciliane dei secoli XV e XVI. “Economia e Storia”, 1964. VOLPE G. Montieri, costituzione politica, struttura sociale e attività economica d’una terra mineraria toscana nel XIII secolo. “Maremma”, I, 1924. Poi, con qualche modifica, in “Medio Evo Italiano”, Sansoni Ed., Firenze 1961. ZIPPEL G. L’allume di Tolfa e il suo commercio. “Arch. Soc. Rom. St. Pat.”, XXX, 1907. All’Archivio di Stato di Genova sono stati consultati documenti dai fondi: ARCHIVIO SEGRETO, nn. 3043, 3055. DIVERSORUM COMMUNI JANUAE, nn. 3047, 3048, 3061. NOTAIO GALLO ANTONIO, n. 143 La Rassegna d’Ischia 6/2009 35