Oro e Allume nella storia dell'isola d'Ischia
di Giuseppe Pipino
È noto che, nel V Libro della Geografia (cap. 4, 9), Strabone scrive, secondo le traduzioni italiane più accreditate:
«Pitecusa fu colonizzata da Eretriesi e da Calcidesi che,
benché vivessero nella prosperità grazie alla fertilità della
terra e alle sue miniere d’oro (cruseia), abbandonarono l’isola
a seguito di lotte e anche perché cacciati da terremoti e da
eruzioni di fuoco, di mare e di acque bollenti». L’autore
greco, che scriveva nel I secolo dopo Cristo, dimostra di
conoscere molto bene l’isola d’Ischia e, comunque, fornisce
notizie molto attendibili ricavate da autori precedenti, in particolare da Timeo di Tauromenio (356-250 a. C.), autore di una
Storia della Sicilia che non ci è pervenuta. Gli avvenimenti
narrati vanno però riferiti a qualche secolo prima (VIII-VII
sec. a.C.), al periodo, cioè, della prima colonizzazione greca
dell’isola.
Per la quasi totalità degli studiosi che hanno trattato l’argomento, nel testo ci sarebbe un errore o un’errata trascrizione,
perché non risulterebbe che nell’isola vi fossero mai state
miniere d’oro. Pais (1908) sostiene che si tratta di fonderie
di bronzo (calkeia) o, meglio ancora, di botteghe di ceramica o di “pignatte d’argilla” (cruteia), possibili grazie alla
presenza di giacimenti d’argilla. Secondo Mureddu (1972)
si tratterebbe invece di botteghe per la lavorazione dell’oro
(cruseia), ritenute presenti sulla base del ritrovamento di un
piccolo peso facente probabilmente parte di un bilancino da
orafo, tesi ribadita da Buchner (1975) che, anzi, sostiene di
esserne stato l’ispiratore e afferma che nei codici straboniani
più antichi si legge «...crusia, che ha il significato di oro lavorato, oreficerie». Lo stesso Autore, che già aveva dato notizia
del ritrovamento del peso da orafo e di manufatti metallici
sicuramente lavorati sul posto (Buchner 1971), ci dice del
successivo ritrovamento, oltre che di alcuni gioielli in argento,
talora placcati in oro, di una lamina d’oro lavorata a sbalzo
analoga a quelle «....etrusche di stile orientalizzante antico»
trovate a Cuma e databili all’VIII sec. a.C.: sulla base di tale
ritrovamento e di considerazioni sui vasi contenitori, afferma
che «...si possiedono ormai elementi in numero sufficiente per
avanzare ragionevolmente l’ipotesi che gran parte di queste
oreficerie sia stata prodotta a Pithecusa» e conclude l’articolo
«... formulando l’ipotesi che i primi esempi dello stile orientalizzante che si trova in Etruria siano stati ideati e prodotti
a Pithecusa dai coloni euboici». Contagiato, evidentemente,
dagli autori precedenti, esclude però la possibile presenza di
miniere d’oro, «... per ragioni geologiche».
Vero è che gli scavi archeologici dimostrano che a Pitecusa
venivano costruiti vasi con l’argilla locale e che si lavorava il
ferro, e forse il rame, dell’Isola d’Elba, ed è probabile che vi
fiorì l’arte orafa, non è però condivisibile la tesi, avanzata da
Mureddu, secondo la quale, poiché lo stesso termine, cruseia,
* Museo Storico dell’Oro Italiano - Predosa (AL) costituito
nel 1987 ------- (www.oromuseo.com)
18 La Rassegna d’Ischia 6/2009
*
poteva designare sia le miniere d’oro che le officine per la
lavorazione, come nel caso di altri metalli, Strabone abbia
voluto riferirsi soltanto a botteghe orafe: il termine generico,
come quello più generale di miniera, può infatti riferirsi alle
operazioni di estrazione e di prima lavorazione di un dato
metallo, ma non certo ad attività manifatturiere non collegate
direttamente allo scavo.
L’attitudine ad attribuire ad errori delle fonti i particolari
che non si riescono a spiegare, è piuttosto comune, ma,
fortunatamente, il progresso delle conoscenze porta talora
a riconoscere la giustezza di notizie in precedenza ritenute
prive di fondamento. È il caso, per rimanere nell’ambito
delle miniere d’oro nostrane, dei decreti del IV secolo degli
imperatori Valentiniano, Graziano e Valente, tendenti a regolamentare prima, a proibire poi, il flusso di cercatori d’oro
(aurileguli) in Sardegna: poiché fino ad una ventina d’anni
fa si negava l’esistenza dell’oro nell’isola, nota invece per la
ricchezza d’argento, si tendeva, generalmente, ad attribuire i
decreti ad un errore o ad una formula generica che riguardava il secondo metallo, e non il primo. Le mie ricerche, e le
mie prime indicazioni (Pipino 1987-88, 1989), dimostrarono
invece che, oltre alle tracce d’oro segnalate dagli autori in
giacimenti di altri metalli, vi era la concreta possibilità che
l’isola ospitasse giacimenti auriferi di tipo epitermale (oro
invisibile), possibilità puntualmente accertata con l’apertura
della miniera di Furtei e col riconoscimento di analoghi giacimenti nel Sassarese, non sfociati in miniere per opposizioni
ambientali.
Nello stesso periodo applicavo la mia tesi ad altre parti
d’Italia, comprese l’Isola di Ischia e la zona Tolfa-Allumiere,
nelle quali potevo verificare la presenza di tracce d’oro in
condizioni geo-minerarie analoghe a quelle di Furtei (processi
di alunitizzazione e silicizzazione ai contatti fra rocce sedimentarie e vulcaniti recenti). Scrivevo, allora (Pipino 1989):
«Nell’isola di Ischia sono state riscontrate, al momento,
soltanto lieve anomalie (d’oro) in alcuni livelli piroclastici e
ai contatti tra vulcaniti ignimbritiche e sedimenti marnosoarenacei: locali arricchimenti superficiali stanno forse alla
base dell’antico ritrovamento aurifero citato da Strabone».
Al tempo non sapevo della segnalazione di miniere d’oro,
ad Ischia, anche in tempi più recenti, e il mio veloce sopralluogo riguardò aree note per antiche estrazioni d’allume (Catreca
sopra Casamicciola). Solo dalla successiva consultazione delle
opere di Elisio (1500) e di Iasolino (1588) venivo a sapere che
una miniera d’oro era segnalata nella parte opposta dell’Isola
(Campagnano), cosa che non avevo potuto verificare e che, a
quanto pare, oggi è difficilmente verificabile a causa dell’intensa urbanizzazione della zona.
Per quanto riguarda il primo autore, del quale constateremo
l’attendibilità, occorre ricordare che Pais (1908), riferendosi
a quanto scritto da Iasolino, afferma che nell’opera di Elisio,
riportata da Mazzella (1591), non c’è traccia delle notizie
sulla presenza di miniere d’oro, presenza che peraltro egli
esclude fermamente sulla base di informazioni avute da un
geologo, secondo il quale «...la costituzione gelogica di Ischia
esclude la possibilità che vi sia mai stato minerale d’oro».
Ma non è vero che nella descrizione termale di Elisio riportata
da Mazzella non si trovino cenni sulla presenza dell’oro, e
comunque, a mio parere, prima di essere così drastico, Pais
avrebbe dovuto cercare la fonte prima, cosa non tanto difficile,
dato che l’opera è conservata la dove è lecito aspettarsi di trovarla, cioè nella Biblioteca Nazionale di Napoli, oltre che nella
Biblioteca Apostolica Vaticana e nella Biblioteca Universitaria
di Bologna: da quest’ultima proviene la riproduzione, delle
prime due parti, servita per il presente studio e conservata al
Museo Storico dell’Oro Italiano (Pipino 2009).
Che poi oggi non si trovi traccia di oro nell’isola non deve
recare meraviglia, dato che l’oro non cresce come i funghi
e, una volta asportate completamente le parti affioranti dei
“filoni”, non ne rimane più traccia. D’altra parte non rimane
traccia neppure di zolfo e allume, e noi sappiamo della loro
presenza e della secolare raccolta soltanto grazie alla documentazione storica. Mi pare quindi opportuno riproporre le
notizie sulla presenza dell’oro, fornite da Elisio (1500) e da
Iasolino (1588), alla luce delle odierne conoscenze e dei dati
storici raccolti, e poiché questi si riferiscono in gran parte
all’allume, il cui legame con l’oro (epitermale) è oggi riconosciuto, ritengo utile riassumerli, integrandoli con osservazioni
di carattere generale e segnalando gli errori più evidenti nella
letteratura recente.
Frontespizio del libro di Giovanni Elisio
L’oro di Ischia secondo i vecchi autori
e le conoscenze giacimentologiche
Di Giovanni Elisio sappiamo soltanto, dalla letteratura, che
fu medico alla corte aragonese di Napoli e membro dell’Accademia Alfonsina-Pontaniana. Sarebbe vissuto, secondo i più,
fra il Quattro e il Cinquecento, nel solo Quattrocento secondo
Iasolino (1588).
La sua opera presa in considerazione consiste in un libretto,
con pagine non numerate, contenente una succinta enumerazione dei “bagni” di tutta la Campania seguita da un “libello”
contro i cattivi medici e da consigli contro l’orribile flagello
del morbo gallico. L’Autore si qualifica “medico napoletano”
e dedica i primi due scritti al principe Bernardino Sanseverino
di Bisignano. Non sono riportati il luogo di edizione, il nome
del tipografo e l’anno di stampa, che secondo Manzi (1971)
sarebbero, rispettivamente, Napoli, Antonio de’ Frizzis e,
approssimativamente, il 1519. Però, alla fine del secondo
scritto, l’Autore lo data esattamente al 1500 e afferma di essere al servizio della regina Giovanna e del cardinale Loysio
d’Aragona. La mancata citazione del consorte di Giovanna,
re Ferrante, morto alla fine del 1496, concorda pienamente
con la data indicata.
Il libretto, se realmente pubblicato intorno al 1519, rappresenterebbe una compilazione pubblicata, probabilmente,
dopo la sua morte: infatti, il dedicatario, a cui egli si rivolge
più volte come persona vivente, era deceduto nel 1517. Ma
Frontespizio del libro di Gulio Iasolino
La Rassegna d’Ischia 6/2009 19
ci sono altre considerazioni che rendono incerta la datazione
originaria dell’opera e la sua stessa paternità. Anzitutto il
nome dell’Autore, che si firma Joannis Elisij medici neap.
Ora, dell’accademico Elisio abbiamo due opere certe, il De
mirabilitus mundi che segue il “Liber aggregationis” di Alberto Magno, in un postincunabolo stampato probabilmente
nel 1490 da Alfonso de Cantano, e il De philosophia naturali,
seguito dallo scritto di Landolfo Caracciolo Quaestiones in
secundum librum sententiarum Petri Lombardi, in un altro
postincunabolo stampato probabilmente a Napoli fra il 1490
e il 1495 da Francesco del Tuppo, e in entrambe le opere
l’Autore si firma Joannes Baptista Elysius. Poco diverso è
il nome riportato su un’altra opera meno nota, la Acutisssimi
natura exploratoris ac phisice... databile ai primi del ‘500,
nella quale l’Autore si firma Ioannis Baptiste Elisii Neapolitani actu legentis philosophiam in alma universitate Neapolis
(BiblIoteca Panizzi di Reggio Emilia). C’è quindi la concreta
possibilità che il nostro medico napoletano sia persona diversa
dal conterraneo, contemporaneo e (quasi) omonimo filosofoaccademico.
Va poi considerata la descrizione dei “bagni” riportata da
Leonardo Astrino in appendice alle Chroniche de la Inclyta
Cita de Napole, del 1526: si tratta di una trascrizione letterale di quelli di Elisio, ma l’autore non viene affatto citato,
anzi, nell’introduzione si afferma che si è voluto riportare
alla primitiva originale stesura la nobilissima e vera antica
Chronica composta per lo generosissimo Messere Joanne
Villano. Appare improbabile che, a soli 6 anni dalla pubblicazione, Astrino abbia potuto plagiare i “bagni” ignorando
completamente l’Autore, mentre la cosa diventa più probabile
a distanza di 26 anni. Inoltre, la citata edizione del 1526 ricalca
(ma quanto fedelmente?) una prima edizione della fine del
Quattrocento, oggi introvabile.
Delle cronache, note col titolo generico di Cronaca di
Partenope, esistono numerosi manoscritti, anonimi e diversi, del Trecento e del Quattrocento, oltre a copie posteriori,
nelle biblioteche di tutta Europa (una anche di New York),
e ricalcano quelle fiorentine di Giovanni Villani, citato nella
prefazione, per cui nelle pubblicazioni a stampa questi ne
sarà considerato l’Autore, ma verrà designato come Giovanni
Villano napoletano. In molte edizioni sono riportati i “bagni”,
in forma diversa e sempre con ambigua attribuzione all’Autore
delle Cronache. Vale la pena di ricordare che tutte iniziano
con l’arrivo dei greci calcidesi nell’isola di Pythecusa, che
però viene identificata con Procida.
Di un certo interesse, anche per le successive numerose
ristampe, è l’opera Le antichità di Pozzuolo e luoghi convicini di Ferrante Loffredo (1570), che dice essere queste
«trascritte dal vero antichissimo testo de lo generosissimo
missere Iohanne Villano» e che, in edizioni successive, riporta
la descrizione “de bagni d’Agnano, Pozzuolo e Tripergole”
che nulla hanno a che vedere con i “bagni” di Elisio.
Da altre fonti ci viene suggerito un titolo diverso per i bagni di Elisio, definiti di Terra di Lavoro oppure di Pozzuoli,
Baia e Ischia. Probabilmente vi è una qualche confusione o
correlazione con l’opera duecentesca De balneis terris Laboris
20 La Rassegna d’Ischia 6/2009
di Pietro da Eboli, ricopiato più volte nei secoli successivi,
anche col titolo De balneis puteolanis, la cui prima edizione
a stampa dovrebbe essere quella contenuta nel libro De Mirabilius Civitatis Puteolanis pubblicato a Napoli nel 1475,
con prefazione di Francesco Aretino. Da questa, Elisio poté
trarre informazioni sui bagni di Pozzuoli, anzi, sembra che li
abbia parafrasati, anche se descritti in ordine diverso: è certo,
comunque, che la doctrinam balneandi, posta da Elisio alla
fine dei bagni di Pozzuoli, ricalca i balneandorum canones di
Pietro Aretino. Rimane il dubbio sui bagni di Ischia, aggiunti
a quelli della terra ferma soltanto in edizioni successive (ad
Elisio) dei Balneis Puteolanis. Il nostro Autore, ad ogni
modo, nella iniziale dedica al principe Sanseverino rivendica espressamente la «...succintam hanc nostram de balneis
instaurationis».
Da tutto quanto sopra, appare evidente una possibile contaminazione tra opere diverse e di varia epoca, ma è certo che
lo scritto elisiano che ci interessa va collocato nella seconda
metà del Quattrocento, seppure pubblicato in epoca successiva. Nell’esemplare preso in esame, i “bagni” di Ischia sono
gli ultimi ad essere enumerati e, alla fine, si trova una breve
nota sull’eruzione del 1301, interessante perché è una delle
prime e perché l’evento è esattamente datato. Segue l’indice
(rubrica) e, dopo di questo, un breve commiato diretto al solito principe Sanseverino, nel quale l’Autore vanta, oltre alla
bontà medicinale delle acque, la fertilità del suolo e la presenza
di prodotti naturali: dice, fra l’altro, tradotto dal latino: che
l’isola «... abbonda di solfo, allume e oro, come fu in passato
accertato dagli eccellenti e perspicacissimi veneti».
Elisio ebbe certamente informazioni attendibili e di prima
mano, riguardo alla notizia citata: sappiamo, infatti, che negli
anni sessanta del Quattrocento le miniere d’allume di Ischia
erano nelle mani di mercanti veneziani, come vedremo.
Nella trascrizione dei “bagni” elisiani contenuta in appendice alle Chronache di Artino (1526), non troviamo la notizia
che ci interessa, in quanto non sono riportate le dediche, iniziale e finale, al principe Sanseverino, così come è omesso ogni
riferimento al nostro Autore. La notizia sulla presenza dell’oro
è poi pubblicata, tronca, nella compilazione De Balneis omnia
pubblicata nel 1553 a cura di Tommaso Giunta, nella quale
si trova il Breve compedium de totius Campaniae Balneis di
Joannis Elysii: vi si legge, infatti, dopo l’elencazione dei
bagni d’Ischia, che l’isola abbonda di «...sulfuris, aluminis,
aurumque». Nella successiva compilazione di Giovanni
Lombardi (1566), a Giovanni Elisio vengono attribuiti solo
i bagni di Ischia, ai quali vengono aggiunti, singolarmente,
delle osservazioni classicheggianti (non inutilibus Scholiis),
ma sono omesse le notizie generali sull’isola, quindi anche
quella che ci interessa; lo scritto verrà riproposto nella seconda edizione del libro di Iasolino (1689), preceduto da una
introduzione del medico Giovanni Pistoia.
Mazzella (1591), che probabilmente ebbe a modello non
l’originale di Elisio, ma la compilazione De Balneis, e non
ebbe il tempo di consultare Iasolino, riproduce la descrizione
dei bagni Puteolanorum, Baiarum et Pithecusarum, attribuita
al medico Ioanne Elisio, con alcune aggiunte e riferimenti
ad altri autori: ripropone fra l’altro, i canoni balneari di
Francesco Aretino e la di lui dedica a Pio II, contenuta nella
prefazione del 1475. La breve descrizione dei bagni di Ischia
è preceduta da una sommaria descrizione storica e naturalistica dell’isola, nella quale l’Autore ricorda l’affermazione
di Strabone sulla presenza e sull’abbondanza delle miniere
d’oro; continua poi elencando le risorse naturali, tra le quali,
tradotto dal latino: «...miniere d’oro, di allume e di solfo, che
furono scoperte nell’anno 1465 dal genovese Bartolomeo
Perdice». Quest’ultima affermazione, che si trova poi tal
quale in autori successivi, in particolare Aldrovandi (1648), è
evidente frutto di confusione fra un passo del Pontano (1509)
che, come vedremo, non parla di oro e non cita la data precisa,
e quanto ricavato dal passo di Elisio pubblicato, tronco, nel
De Balneis.
Per quanto riguarda il medico napoletano di origine calabrese Giulio Iasolino, possediamo una dettagliata biografia
ad opera di Buchner (1958) che, fra l’altro, ne evidenzia la
scrupolosità e la profonda conoscenza dell’isola d’Ischia.
Iasolino (1588) dimostra di conoscere bene l’opera di Elisio
e ne riporta importanti passi, con piccole modifiche e con
integrazioni dovute alle sue osservazioni personali: «...e
sono in essa miniere d’oro, come è manifesto non solo per
quello che lasciò scritto Strabone, ma anche col testimonio
de’ moderni: sì come si dimostra con l’autorità di Giovanni
Elisio: il quale nel suo libro, che scrive de’ Bagni di Terra di
Lavoro, e dedicato al serenissimo Bernardino Sanseverino,
principe di Bisignaio, dice che l’isola d’ Ischia è abbondante
e ferace di frutti, di eccellentissimo grano e vino generoso, di
solfo, di allume e d’oro, come ancora l’hanno ritrovata e sperimentata i nobilissimi e ingegnosissimi Signori Venetiani».
E, poco oltre: «...Vi è anco la miniera dell’oro a Campagnano
vicino la cappella di Santo Sebastiano; e questa credo sia
quella che scrisse Strabone, e ancor quella che avessero gli
anni a dietro esaminata, e fattone pruova i Signori venetiani,
secondo quando si legge appresso a Giovanni Elisio, come
abbiamo detto».
La localizzazione della miniera d’oro a Campagnano fu
probabilmente suggerita a Iasolino da ricordi ancora vivi
sul posto e, a quanto dice, egli poté vederne le tracce (...e
chiaramente se ne vede una, in quel luogo, dove dicono
Campagnano). Sempre nei pressi di Campagnano, l’Autore
segnala la presenza di altri interessanti elementi geo-minerari,
che non mette in relazione con la miniera d’oro: «...Viene dopo
il gran promontorio detto della Parata...dopo l’altro, detto
Pisciazza della Vecchia, così chiamato per una linea minerale,
che in esso di vede, che scende dal monte sopra il Casale
di Campagnano...Si vedono in quelle rupi (lungo il mare) li
colori delle miniere, e massimamente del ferro, e dell’ocri;
è copiosa di arena nera, ferrigna, che tira la calamita come
il ferro».
La miniera d’oro è indicata, in latino (Auri fodina), sulla
carta topografica allegata alla pubblicazione, carta eseguita
nel 1586 dall’incisore romano Mario Cartaro su incarico
del medico napoletano e su sue precise indicazioni. Nella
carta, orientata a sud, è riportata la leggenda dei bagni e dei
toponimi, in latino e in italiano, con riferimento alla Fodina
auri, Miniera di oro.
La carta Iasolino-Cartaro ebbe molto fortuna e fu riprodotta, con o senza riferimenti al primo autore e più o meno
modificata, in molti atlanti cartografici successivi, di scuola
fiamminga e italiana (Niola Bucchner 2000). L’Auri Fodina
è, in particolare, riportata nella carta inserita da Ortelio nel IV
Additamenta (1590) del Theatrum Orbis Terrarum e nelle successive ristampe dell’opera, dal 1601 al 1612, mentre in quella
inserita nel 1620 da Antonio Magini nel Disegno dell’Italia,
il toponimo è italianizzato (Minera d’oro), come tutti gli altri.
Minera d’oro si legge ancora nelle carte di Ischia riportate nel
Théatre du Monde di J. Janssonius, del 1639, e nel Theatrum
Orbis Terrarum di J e C. Blaeu, del 1640, in quella rifatta
da Francesco Massari per la seconda edizione dell’opera di
Iasolino (1689), e in quelle riportate nella raccolta Magni
Atlantis Systema, della fine del Seicentro, nel secondo volume
dell’ Atlante veneto di Vincenzo Coronelli, del 1696, nel IX
volume del Thesaurus Antiquitatum et Historiarum Italiae,
del 1723.
Tra i “bagni” elencati da Iasolino, due ci interessano in
modo particolare, il bagno Aurifero, o bagno dell’oro (Balneum Auriferum), e il bagno Argenteo, o bagno dell’argento
(Balneum Argenteum), ubicati nella valle d’Ombrasco (Cala
Umbrasci) . Il primo è «... un fonte non molto grande, ma di
copiose e abbondanti acque chiare, e dolci... e senza nessun
odore ingrato. Quivi non senza grande stupore, s’osserva
una bellissima meraviglia della natura: peròche quando il
fonte è pieno, e ben netto, quelle acque mostrano nella loro
superficie uno escremento d’oro, che fa una tela sottile, quasi
un sottil velo d’oro finissimo, di più di ventiquattro carati....
noi l’abbiamo voluto chiamare bagno Aurifero: perché mena
seco l’oro, siccome si legge fanno molti fiumi; anzi abbiam
più volte sperimentato e particolarmente quest’anno, 1583,
abbiamo fatto vedere a molti signori...che accostando leggermente la pianta della mano sopra la superficie dell’acqua vi
si attacca quella tela d’oro... È la miniera di questo bagno
(per quello che si può raccogliere dalla sua distillazione e
dall’essamine della terra e del sale) di oro: ma (per quello
che io giudico), mescolato con qualche parte di rame, e con
alcuni pochi vapori di solfo... Nè si deve meravigliare niuno
di sì fatto bagno, poiché Strabone, e altri scrivono in quella
isola essere miniere d’oro, e chiaramente se ne vede una, in
quel luogo, dove dicono Campagnano». Il bagno Argenteo si
trova a tre passi da quello Aurifero e vi si trovano «... acque
chiare e limpide e dolci, con un poco di odore di solfo, che
a guisa di quelle dell’oro sono continuamente coperte d’una
sottilissima tela d’argento, sì puro che può simigliare la
serenità del giorno».
Nelle vicinanze delle due sorgenti, Iasolino localizza
altre particolarità geologiche che meritano attenzione. Dal
bagno Argenteo, procedendo verso monte, «... infino alle
radici dell’Epomeo» si incontra il bagno d’Umbrasco, con
acqua «... calda, chiara, e dolce, con odore di solfo. La sua
miniera è solfo, con poca mescolanza di rame, e d’alume».
Nella stessa zona, è riportata la Fodina aluminis (miniera
d’allume), e ancora alle falde dell’Epomeo, è indicata una
Minera Aluminis et calchanti (miniera di allume e calcanto,
che nella traduzione di Magini diventa Minere di Alume et
Vitriolo).
La Rassegna d’Ischia 6/2009 21
La carta Iasolino-Cartaro e suo particolare con la "Auri fodina"
È certamente difficile credere alla formazione di tele d’oro
e d’argento sulla superficie di pozze d’acque, ma la cosa non
è impossibile, e Iasolino parla espressamente, per quanto
riguarda l’oro, di specifiche analisi. La presenza di sottili
pellicole d’oro (flor or float gold) e d’argento (flor or float
silver) è stata osservata con certezza nei pressi di giacimenti
dei due metalli, in varie parti del mondo, come risultato di
locale addensamento del metallo contenuto in soluzione
o dispersione colloidale. Per quanto riguarda l’oro, alcuni
esempi sono già illustrati da Maclaren (1908) e il fenomeno
è stato studiato da Boydell (1924) e da autori successivi, in
particolare da Goni et Al (1964), che lo hanno riprodotto in
laboratorio facendo precipitare l’oro contenuto in vari tipi
di soluzione e riproponendo, in pratica, la fabbricazione di
pigmenti aurei utilizzati dagli antichi artigiani romani per la
decorazione di oggetti in vetro.
Che poi all’interno dei corpi mineralizzati in questione l’oro
non sia visibile, questo non impedisce che nelle parti superficiali dei “filoni”, soggette ad alterazioni e riconcentrazioni,
si possano formare zone ad oro ben visibile, anzi la cosa è
piuttosto comune, ma è ovvio che tali parti siano abbastanza
sottili e possano essere completamente asportati nel corso
dei primi lavori di coltivazione mineraria, come accaduto
recentemente proprio nel più classico dei giacimenti auriferi
epitermali (Carlin in Nevada).
Tra gli autori più recenti che si sono occupati degli aspetti
naturalistici di Ischia, l’unico a non scartare del tutto la possibile presenza dell’oro è Chevalley de Rivaz (1831), il quale,
pur riconoscendo che non se ne trova più alcuna traccia, crede
non essere improbabile che un tempo ne fosse stato trovato,
poiché «... la ricca miniera di Nagyac, posta nel cratere di
un vulcano spento, prova che non è impossibile la presenza
di una miniera d’oro in un paese vulcanico». E, infatti, le
condizioni geologiche dell’isola d’Ischia, secondo le conoscenze più recenti e contrariamente alla vecchia opinione,
sono favorevoli alla presenza dell’oro e alla sua precipitazione
sotto forma di particelle submicroscopiche di origine epitermale (oro invisibile). Particolarmente indiziati sono l’attività
vulcanica recente, l’ambiente acido, la presenza di campi di
fratture (faglie), di fenomeni di alterazione delle rocce (caolinizzazione, alunitizzazione e argillificazione), la diffusione di
solfo, di solfati di potassio e di alluminio (allume e allumite) e
di solfato di rame (calcantite). Mancano però, o sono scarsi, i
fenomeni di silicizzazione e, quindi, la formazione di potenti
banchi silicei necessari per ospitare importanti concentrazioni
aurifere, ma non è detto che non ce ne fosse stata qualche
vena, e proprio a Campagnano dove è evidente la presenza
di estese faglie allungate in direzione NE-SW. D’altra parte,
la presenza di silice è segnalata in varie parti dell’isola, sotto
forma di stallatiti di natura silicea e di incrostazioni silicee
su la superficie di ammassi di puzzolana (De Siano 1801),
nonché di opale stallattitico (Jervis 1874).
22 La Rassegna d’Ischia 6/2009
Va ancora ricordato che in tempi recenti è stata evidenziata
la presenza di oro epitermale in molte zone storicamente note
per la produzione di allume, in Italia (Pipino 1988, 1989),
in Grecia, Bulgaria e Turchia (Newsletter LGMM 19852004).
L’Allume di Ischia e
la crisi dell'allume orientale
Con il termine allume viene designato un gruppo di sali
(solfati doppi idrati di metalli trivalenti e monovalenti) che,
a seconda dell’elemento prevalente, assumono nomi specifici
diversi. Quello che qui interessa è l’allume potassico naturale
(kalinite), minerale abbastanza comune in ambienti vulcanici, sotto forma di estese ma sottili efflorescenze, e, in aree
desertiche, come impregnazioni in scisti argillosi attaccati
da soluzioni idrotermali acide. Noto ed apprezzato sin dal
neolitico per le sue qualità astringenti e ignifughe, il prodotto
trovava largo impiego anche nella concia delle pelli, come
fissante nella colorazione dei tessuti e come fondente nella
lavorazione dei metalli e del vetro. Con l’aumentare delle
necessità e degli impieghi, aveva bisogno di essere purificato
e concentrato, e sin da tempi antichi venne sviluppandosi un
procedimento di produzione “industriale”: nel sistema più
semplice ed essenziale, le efflorescenze saline venivano raccolte e poste a “lisciviare”, in vasche o bacini d’acqua poco
profondi, e man mano che l’acqua evaporava (occorrevano
ovviamente mesi) si formavano cristalli di minerale puro che
venivano raccolti; siccome, però, raramente le efflorescenze
erano pure, occorrevano procedimenti di purificazione, ottenuti con bolliture ed evaporazioni ripetute (Picon 2006 con
bibliografia precedente).
Date le sempre crescenti necessità, accanto alla produzione
da efflorescenze naturali era venuto sviluppandosi, sembra fin
da tempi antichi, la produzione di allume da alunite o allumite,
un solfato idrato di potassio e alluminio, insolubile, che forma
rocce monomineraliche, generalmente sotto forma di filoni più
o meno potenti ma quasi sempre molto estesi in lunghezza e in
profondità. La roccia aveva bisogno di preliminari operazioni
di frantumazione e di calcinazione (torrefazione) per ossidare
l’alluminio, ma in compenso si aveva un prodotto più puro e,
soprattutto, molto più abbondante.
Nel corso del Medio Evo questo secondo prodotto era
spesso designato come allume di rocca, cioè allume di pietra,
seguito dalla città o zona di provenienza (Pegolotti 1340).
Non ha fondamento l’affermazione, ripetuta anche in scritti
riguardanti l’allume di Ischia, secondo la quale il termine
rocca stesse a designare, almeno in origine, la città siriana di
provenienza, Roha, l’odierna Odessa. Questa è una ipotesi
avanzata da Liebnitz (1749) che, riprendendo un passo del
Pontano (1509), scrive, tradotto dal latino: «...Consta che l’arte di cuocere l’allume ritornò in Europa dopo trecento anni
da Rocco di Siria», e aggiunge di suo: «...da cui l’appellativo
volgare di allume di Rocca». Dato lo spessore dell’Autore,
l’ipotesi fu accolta e divulgata da famosi chimici successivi,
senza alcuna valutazione critica, ma, come ha evidenziato
Heyd (1885-86), la zona di Odessa è del tutto sconosciuta
per quanto riguarda la produzione e la commercializzazione
dell’allume, ed è probabile che il genovese responsabile del
“ritorno” (Bartolomeo Pernice) abbia, come altri suoi concittadini, appreso l’arte a Focea (o Foglia), dove i genovesi
possedevano importanti miniere.
Anche su base linguistica, la derivazione della medioevale
Roha appare poco probabile, così come poco probabile sembra
essere un possibile collegamento fra Roha e Roccho, e non
soltanto per il genere.
Altre considerazioni fanno scartare l’ipotesi. Prima di tutto
l’incerta esattezza del passo “ischitano” del Pontano (1509),
il quale afferma che Bartolomeo Pernice aveva riportata, ad
Ischia, l’arte appresa a Roccho di Syria, notizia contenuta nel
De Bello Neapolitano che, però, fu pubblicato alcuni anni
dopo la sua morte (da Pietro Summonte). Anche l’ipotesi
di Liebnitz venne pubblicata postuma, e senza che l’Autore
avesse potuto leggere l’affermazione di Mercati, scritta nella
seconda metà del Cinquecento e a sua volta pubblicata anni
dopo la morte dell’Autore (1717), secondo la quale, tradotto
dal latino, «... si chiama roccia d’allume la vena contenuta
nelle spaccature dei monti, da cui viene estratta, e che in volgare viene detta rocca d’allume». E, infatti, per tutto il basso
Medio Evo troviamo designato il prodotto, con tal significato,
in varie lingue e dialetti: allume di rocca in Italiano, alume de
roza (o roça) in veneziano, alum de roche in francese, alum
de roqua in spagnolo (AA.VV. 2006). Inoltre, in documenti
del Quattrocento e del Cinquecento non è raro imbattersi in
richieste o concessioni per allume di pietra o di pietra da far
allume.
L’attribuzione del termine all’alchimista arabo Geber, già
nel sec. IX, è una ingenuità di molti autori, perché è noto che
sotto il nome di questo, così come di altri famosi alchimisti
antichi, veri o presunti, circolavano molte opere «...che in
buona parte sono però produzioni e rifacimenti scolastici dei
secoli XII e XIII» (Pipino 1994).
Tornando ad Ischia, non vi sono testimonianze sulla presenza di efflorescenze naturali di allume, ma è probabile che
ce ne fossero state, stando alla sicura presenza del minerale
nei prodotti caolinici-argillosi derivati dalla decomposizione
delle rocce trachitiche, ad opera di fluidi termali solforosi, ed
oggetto di raccolta ed utilizzo da tempi remoti, nonché alla
sicura presenza dello zolfo, oggi non più accertabile ma la
cui raccolta è testimoniata per tempi prolungati.
A proposito dello zolfo, Jervis (1874) lo cercò inutilmente,
nel 1869, presso le Stufe di San Lorenzo, dove gli era stato
assicurato che un in passato veniva scavato: vide invece una
frattura diretta verso il Monte di Vico e interessata da venute
di vapor acqueo, le quali alteravano profondamente la trachite
in materiale argilloso e pomice friabile bianca. Vide poi, alle
Stufe del Frasso, nel burrone di Mostichiello, «...molti spiragli
o fumaioli nella roccia vulcanica» con temperatura variabile
da 83 a 99,5 gradi, intorno ai quali osservò «...qualche traccia
di zolfo sublimato». Lo stesso Autore segnala la presenza,
in più punti, di «opale stallatitico, ossia Jalite...prodotto
dall’azione dei vapori acquei caldissimi sulla trachite, dalla
quale separasi la silice»; ritiene inoltre che gli stessi vapori
sono responsabili della decomposizione della trachite in «...
un’argilla bigia, rosso scura o varicolore, secondo le località», e che in passato erano molto più numerosi ed estesi,
stando all’abbondanza delle argille decomposte in vari luoghi.
Riguardo alle argille, aggiunge: «....Queste sono precisamente
le medesime che forniscono l’ottimo materiale attivamente
scavato per far tegole ed altri lavori in terra cotta fabbricati a
Casamicciola e in Napoli. È indubitato poi che fu l’azione dei
vapori caldi sulla roccia vulcanica la quale diede origine alle
argille adoperate per le celebri terre cotte storiche d’Ischia
e di Cuma».
È quindi possibile, oltre alla probabile raccolta dell’oro,
una raccolta antica di allume naturale e di zolfo. Ed è anche
possibile la raccolta dell’ossidiana, prodotto segnalato in
alcune zone dell’isola, compresa «...la parte inferiore del
Monte di Campagnano» (Fuchs 1873).
Quanto all’allumite, prodotto sicuramente associato ai
depositi di argille più o meno caoliniche e alluminose, non
possiamo sapere se sia stato oggetto di raccolta in tempi
antichi, dato che, come detto, non sappiamo a quale periodo
risale il complesso procedimento di trasformazione in allume.
Certo è che le parti affioranti delle vene sono state oggetto
di intensa raccolta per tutto il Medio Evo e per buona parte
dell’Evo Moderno. Alla fine del Settecento se ne vedevano
ancora e furono oggetto di studio da parte di Breislak (1798)
che, come noto, aveva lavorato alle allumiere di Tolfa ed era
stato chiamato nel Regno di Napoli da re Ferdinando, proprio
per sviluppare i giacimenti di Ischia e di Agnano. Secondo
questo Autore, l’Epomeo sarebbe composto da tre tipi di
roccia: lave, pietra alluminosa e tufo; «... La pietra alluminosa
La Rassegna d’Ischia 6/2009 23
dell’Epomeo ha molta analogia con quella della Tolfa. Il suo
colore è bianco e nelle fratture recenti candidissimo, talora
però le superfici di qualche fenditura sono colorite di un rosso
cupo, la grana è molto fine, la tessitura compatta e stretta,
la frattura costantemente concoide È del tutto opaca e dura
a segno che rompendola in frammenti piccoli le loro parti
angolari presentano delle punte dure e resistenti. Se si esamini colla lente vi si scorge talora qualche particella lucente
cristallina feld-spatica. Questa pietra si trova frequentemente
in pezzi isolati sparsi nella montagna, ma in alcuni luoghi
comparisce colla superficie della terra in massi e filoni uniti,
cosicché sembra che formi una parte dell’ossatura del monte...ed è molto probabile che l’escavazioni dirette ad estrarre
la pietra alluminosa abbiano contribuito a cambiare l’aspetto
dell’Epomeo. Ad esse si deve l’origine di molti valloni che
si veggono in questa montagna. Il luogo che maggiormente
abbonda della pietra alluminosa è quello, che dicesi Catrico,
trovasi però frequentemente sopra tutta la costa settentrionale
dell’Epomeo».
Nello stesso periodo De Siano (1801) non vede alcun filone, e scrive: «In Catreca si riscontra della terra argillosa
bianca simile a quella delle piazze della Pera, stimata di
essere stata antecedentemente alluminosa;...Vi sono bensì in
tutto l’Epomeo dei rottami di schisto, o sia di pietra candida
alluminosa molto dura, i quali contengono ancora dell’acido
solforico, mentre si attaccano bene alla lingua e vi lasciano
il sapore stittico. Questa pietra sarebbe a proposito per la
fabbrica del solfato d’allumina, ma poca quantità ve n’è,
non essendovene filoni. Da Catreca l’allumina e li schisti si
trasportavano al laboratorio delle piazze della Pera».
Comunque sia, a quel tempo, non vi era possibilità di sviluppo dei giacimenti naturali di allume e di allumite, data la
concorrenza del prodotto di sintesi chimica, e quelli di Ischia
vennero trascurati, come tanti altri.
Trent’anni dopo si trovavano ancora dei massi sciolti di
allumite, ma la produzione d’allume era un lontano ricordo:
«...La pietra alluminosa risultante dalla decomposizione della
lava per azione dei vapori solforosi, che si trovava anticamente a Catreca, non si trova più che in pezzi erratici. Nel luogo
detto Pera si vedono ancora le rovine delle grandi vasche in
muratura che servivano alla fabbricazione dell’allume, che
veniva poi portato alla marina di Casamicciola che, per tale
ragione, porta ancora il nome di marina delle allumiere»
(Chevalley de Rivaz 1831). Nelle successive numerose descrizioni geologiche dell’isola, dell’Ottocento e del Novecento,
il prodotto non viene neanche menzionato.
Se ne occupa nel 1933 il chimico Orazio Rrbuffat, il quale,
oltre a non conoscere l’opera di Breislak, fa una grande confusione di fatti e di notizie storiche apprese di seconda mano.
Egli cerca l’allume nelle lave dell’Arso (quelle dell’eruzione
del 1301), che si trovano dalla parte opposta dell’Epomeo
rispetto ai giacimenti alluminosi di Catreca, convinto che
siano questi i massi alluminosi trovati da Bartolomeo Pernice secondo il racconto di Pontano (?), e, non trovandovi
tracce di allume, conclude che «...la fabbricazione iniziata
con grandi speranze dal Pernice sia stata dopo non molto
24 La Rassegna d’Ischia 6/2009
tempo abbandonata per la scarsezza e la cattiva qualità del
prodotto». Cirilli (1941), analizza invece il materiale argilloso
estratto «...dalla regione nord-orientale dell’isola», al tempo
indicato come materiale caolinico e utilizzato dalla Soc. An.
Calce e Cementi di Segni nello stabilimento di Castellamare
di Stabia, «...per confezionare dei leganti pozzolanici». Secondo le sue dettagliate analisi, il materiale»...sciolto, di colore
giallo, grigiastro o bianco sporco”, era costituito da «...un
miscuglio complesso di silice amorfa, caolino, alunite, sanidino inalterato, ai quali si associano piccole quantità di pirite
e di solfati di alluminio e di ferro»: l’alta quantità di silice
amorfa (50-60%), rendeva il materiale adatto «...a fissare, e
rapidamente, dei forti quantitativi di calce da soluzioni sature
di questo composto».
* * * * *
Le prime testimonianze certe sulla presenza di un’industria
dell’allume all’isola d’Ischia risalgono al Duecento, ma non
mancano riferimenti a tempi precedenti, come si ricava dagli
atti processuali del 1271, riguardanti la rivendicazione fiscale
delle miniere di allume e di zolfo sfruttate abusivamente da
Guido de Burgundio de castro novo, castellano di Ischia
(Cestari 1790). Secondo tutti i testimoni, le miniere erano
demaniali, o della curia imperiale, sin dal tempo del conte
Enrico (II di Ventimiglia, III di Geraci); l’anziano Stefano
Calillo, in particolare, dichiara che le miniere erano imperiali
dal tempo degli imperatori prima, del conte Enrico poi, come
lui stesso aveva veduto circa 80 anni prima. Per cui Cestari le
considera attive intorno al 1191, ai tempi di Guglielmo III, di
Tancredi e di Arrigo VI. Non si capisce perché Testi (1931),
che si rifà interamente a Cestari, dati la testimonianza al 1201
e, di conseguenza, i primi lavori documentati al 1131: d’altra
parte non è questa l’unica svista dell’Autore, che confonde
spesso date e personaggi, fino ad affermare che lo scopritore
delle miniere della Tolfa, Giovanni de Castro, era genovese
come Bartolomeo Pernice e, come questi, aveva esercitato il
commercio dell’allume a Rocca di Siria, salvo definirlo poi
compatriota di Pio II (che era senese).
La datazione della controversia sulla proprietà delle miniere di Ischia è confermata da atti riportati da Minieri Riccio
(1874, 1875) e dai Registri Angioini (1957-1970), dai quali
ricaviamo anche altre notizie.
Il 12 novembre 1270, trovandosi Carlo I a Tunisi per la
guerra, i capitani reggitori del Regno ordinano, al maestro
Portolano, Maggio Rosso di Napoli, di rivendicare alla Regia
Curia un monte di Ischia dove si fabbrica zolfo e allume, di
antico demanio ma occupato da Guido di Castronuovo. L’11
marzo 1271 è il principe vicario del Regno ad ordinare, allo
stesso Maggio Rosso, di togliere a Guido Castronuovo il
monte, ovvero il sito di Ischia dove si fanno allume e zolfo,
che in tempi antichi fu del demanio e appartiene per metà
alla Regia Curia. Verso la fine dell’anno viene emesso un
mandato a favore dei medici Giovanni di Casamicciola e
Simone Archidiacono, per una certa somma da saldare con
i proventi dell’allume dei monti di Ischia. Nel 1272 viene
emesso un altro mandato a favore dei frati Delobohe e Nicolao
Assanto, di Ischia, procuratori della Curia «...montis aluminuis
Iscle» e, il 24 marzo dello stesso anno, si ordina al castellano,
Guidone Burgundo, che nessuno osi molestare il procuratore
delle entrate sull’allume ed altri diritti. Il 4 marzo 1273 il re
ordina, da Capua, che il vescovo di Ischia abbia la decima
sulla bagliva e sull’allume di Ischia, e, il 23 dello stesso mese,
da’ mandato al suo procuratore di attivarsi affinché nessuno
osi molestare i diritti vescovili sui proventi dell’allume. Il
1° dicembre 1277 viene ribadito il diritto del vescovo sulla
decima dell’allume, con aggiunta di quella sullo zolfo.
Anche se reputato di mediocre qualità, il prodotto veniva
esportato in vari paesi. Ė a questo periodo che, forse, va riferita la notizia riportata da De Roover (1988) secondo la quale
«L’allume d’Ischia era così scadente che a Bruges e a Parigi
gli statuti delle corporazioni ne proibivano l’uso». Però, per
tale affermazione l’Autore fa preciso riferimento a De Poerck
(1951, I, p. 170), che non dice proprio così (occorre sempre
andare alla fonte...); infatti, nella pubblicazione e alla pagina
citata si legge, tradotto dal francese: «...l’isola di Vulcano...
forniva una qualità d’allume di cui la cattiva qualità era
solidamente stabilita; è quindi a giusto titolo era proibito a
Valenciennes. L’allume che si estraeva dalle miniere d’Ischia
(“Nysche”) non doveva essere migliore, poiché la stessa
misura è presa nei suoi riguardi a Bruges».
Da un documento d’archivio del 1301, integralmente
pubblicato da Del Gaizo (1884), apprendiamo che il 4 agosto
1299 i proventi e reddditi delle miniere curiali di zolfo e di
allume di Ischia, ammontanti a trecento oncie d’oro annue,
dei quali la metà spettanti alla curia, erano stati concessi al
milite ischitano Pietro Salvacossa ed eredi, in riconoscimento
dei servizi prestati: il 18 aprile 1301, essendo morto Pietro, la
concessione veniva confermata al figlio ed erede, Pietruccio.
La concessione del 1299 è ricordata anche da Cestari (1790),
che indica la collocazione archivistica del tempo.
L’eruzione e il conseguente incendio della fine del 1301,
che portarono al momentaneo spopolamento dell’isola, dovettero necessariamente comportare l’abbandono anche delle
attività minerarie, che però ripresero ben presto. Già nel 1305
furono riconfermate le decime al vescovo d’Ischia, mentre il
1° settembre 1313 l’ischitano Pietro Salvacossa pagava, al
fisco, 15 once, 22 tarì e 10 grani per «...tenimento sulfuris
at aluminis in insula Iscle in loco ubi dicitur Mons Iovis».
Il diritto alle decime fu ancora confermato, al vescovo, nel
1386 e nel 1390 (Di Lustro 2006), ma non è chiaro se esse
riguardassero ancora l’allume e non è dato sapere se le miniere
fossero ancora attive. Certo ai primi del Quattrocento dovevano essere abbandonate, come tutte le altre antiche miniere
italiane (Argentario, Agnano, Isole Eolie), data la concorrenza,
l’abbondanza e il basso prezzo dell’allume orientale.
Verso la metà del Trecento, come apprendiamo da Pegolotti
(1340), i giacimenti della Turchia e di alcune terre e isole
vicine producevano non meno di 60.000 cantari genovesi di
allume l’anno (circa 5.350 tonnellate), che in gran parte prendeva la via dei mercati occidentali, su navi genovesi in prevalenza, ma anche veneziane, francesi, catalane. La produzione
andò aumentando nel secolo successivo, grazie all’apertura di
nuove miniere e all’incremento della produzione in quella di
Focea, di proprietà genovese, che da sola poteva produrre più
di 1000 tonnellate l’anno. Di conseguenza il prezzo andava
sempre più diminuendo: alla fine del 1448 era dimezzato
rispetto agli inizi del secolo, per cui le famiglie genovesi,
proprietarie o concessionarie della maggior parte delle miniere, decisero di correre ai ripari costituendo, nell’aprile del
1499, una società con lo scopo di diminuire la produzione, a
non più di 4.000 tonnellate annue, e concentrare il prodotto
nei magazzini dell’isola di Chio, da cui distribuirlo a prezzo
convenuto (Heyd 1885-86, Heers 1954). Lo scopo del “cartello” fu raggiunto e il prezzo cominciò subito a salire.
La successiva conquista turca di Costantinopoli (1453) e,
soprattutto, la conquista della Macedonia (con le sue miniere)
e il sacco di Focea (1455) portarono a momentanee sospensioni della produzione e ad enormi aumenti di prezzo del prodotto
stoccato a Chio: la crisi cominciò a farsi sentire pesantemente
alla fine del 1458, quando nella stessa Genova dovettero essere
adottate speciali misure di sequestro per garantire un minimo
di prodotto ai locali artigiani della lana, a prezzi esorbitanti
(ASGe: Arch. Segr. n. 3043; Heers 1954).
Logica conseguenza della crisi, in Occidente, fu la riapertura
di vecchie miniere e la ricerca di nuovi giacimenti, concretizzate soprattutto con la scoperta e la messa in produzione
delle miniere della Tolfa nello Stato Pontificio (1462), il cui
prodotto, secondo i proclami papali, avrebbe dovuto liberare
dalla necessità di acquistare l’allume dai turchi e, nel contempo, costituire i fondi necessari per una ulteriore crociata
(Zippel 1907, Delumeau 1962).
Tutti gli Autori che si sono occupati dell’argomento concordano nel ritenere che la spinta diretta alla riapertura delle
vecchie miniere e alla ricerca di nuovi giacimenti fu la crisi
del 1458-60. Per quanto riguarda il Regno di Napoli, la causa
scatenante sembra invece essere stata l’aumento di prezzo
del 1449 e, forse, la non difficile previsione dell’imminente
catastrofe da parte di un sovrano illuminato, quale era Alfonso
il Magnanimo.
Bartolomeo Pernice
e la riscoperta dell'allume in Italia
Bartolomeo Pernice è tipico rappresentante di quei mercanti
genovesi che all’occorrenza, fra Medio Evo ed Evo Moderno,
si improvvisano imprenditori minerari (Pipino 2003). Intorno
al 1450 era impegnato in attività di mercatura nel senese ed era
imprenditore navale nel porto di Talamone (Piccinni 1999).
La prima notizia certa sulla sua attività mineraria è la concessione decennale ottenuta, il 15 giugno 1451, dal Comune
di Siena (integralmente pubblicata da Lisini 1939). Secondo
la concessione, Bartolomeo e soci sono autorizzati a cercare
qualsiasi genere di metallo, minerale e roccia utile nel Monte
Argentario e in tutto il contado di Siena, ad eccezione della
corte di Massa, previo il pagamento delle solite decime e con
esonero per il primo anno di lavoro, a cominciare dal gennaio
successivo: questo perché «... è verosimile che inanzi genaio
La Rassegna d’Ischia 6/2009 25
poco o niente potrà trovare, perché gli bisogna conduciare a
Roma molti legni, e quali à promessi al sancto Padre».
Fra gli altri prodotti, nella concessione, è indicato anche
l’allume, ma senza alcun rilievo speciale: gli unici obblighi
specifici riguardano oro e argento, che debbono essere venduti
alla Zecca di Siena. Secondo le dichiarazioni rilasciate più
tardi, in occasione di altra concessione ove l’allume assume
un ruolo primario, Bartolomeo aveva trovato, a Monte Argentario, «... la vena del ferro et del argento et d’altre cose»:
nessun accenno alla scoperta del prodotto che ci interessa, il
quale sarebbe certamente stato indicato, se trovato. Nel 1277
si vendeva, a Genova, un allume dell’Argentario (Canale
1845), ma non se ne trova cenno in documenti successivi:
però negli anni ’40 e ‘50 del Novecento vi furono ricerche e
concessioni per caolino (Fosso Boccadoro, Casetta dei Frati),
ed è noto che l’allume si associa sempre a questo prodotto.
La notizia della scoperta dell’allume ad Ischia, da parte
del genovese, è contenuta all’inizio dell’ultimo capitolo del
“De Bello Neapolitano” di Pontano, pubblicato postumo da
Pietro Summonte (1509). Si tratta della guerra di successione
napoletana (1459-1464) che fu definita «la guerra più bella
del mundo», nella quale Ischia assunse un ruolo importante.
L’episodio che c’interessa non è datato ed è raccontato, dopo
la descrizione degli aspetti naturali dell’isola (Enaria), nella
parentesi che ricorda l’eruzione, pure non datata, del 1301.
Tradotto dal latino e semplificato, il passo in questione dice:
«... l’isola...abbonda di molto allume. In quegli anni Barlomeo Pernice, mercante genovese, mentre si recava a Napoli,
notò sulla spiaggia dell’isola massi alluminosi. Circa 163
anni prima della guerra le viscere della terra si erano aperte e
si era sviluppato un grande incendio che aveva distrutto gran
parte di Enaria, compresa una cittadina che poi fu inghiottita
da una voragine;... dalla parte della spiaggia Cumana furono
gettati in aria massi voluminosi, con fumo, fiamme e polvere,
i quali, ricaduti nelle campagne, rovinarono la più bella e
fertile parte dell’isola. Alcuni dei massi erano ricaduti sulla
spiaggia e vi si trovavano ancora: Bartolomeo li raccolse, li
fece cuocere nelle fornaci e li dissolse in allume, rinnovando
l’arte appresa a Roccho di Siria, dove aveva negoziato molti
anni, arte che da molti secoli era negletta in Italia».
Dato il contesto storico e la citazione dei 163 anni trascorsi
dall’eruzione trecentesca, Scipione Mazzella si sente autorizzato a datare l’episodio al 1465 e, storpiando il nome e facendo
confusione con quanto appreso dall’opera di Elisio, in una
prima opera scrive: «... vi sono le miniere dell’oro, che furono
insieme con quelle del solfo trovate, nel 1465, da Bartolomeo
Perdice Genovese», e, nel capitolo specifico sulle miniere: «...
Nell’isola d’Ischia, detta anticamente Enaria, vi è la miniera
dell’oro, e dell’allume, le quali le ritrovò Bartolomeo Perdice
Genovese nel 1465» (Mazzella 1586); poi, nell’opera sui bagni di Elisio, tradotto dal latino: «.. fertilissima è quest’isola,
di pascoli, di generoso vino, di miniere d’oro, di allume e di
zolfo che nel 1465 furono scoperte da Bartolomeo Perdice
Genovese» (Mazzella 1591).
La data e le storpiature furono riprese da autori successivi
e sono arrivate fino a noi, eppure si sapeva che nel 1462 era26 La Rassegna d’Ischia 6/2009
no state aperte le miniere d’allume della Tolfa, sicuramente
successive a quelle d’Ischia. Lo stesso scopritore, Giovanni
da Castro, nel dare trionfalmente la notizia al papa afferma,
tradotto dal latino: «... perché Ischia ne produce pochissimo,
e le miniere di Lipari furono esaurite dai Romani» (Pio II
1614). La cosa doveva essere ben nota al vescovo genovese
Giustiniani (1537) che, invece, aveva anticipato la data della
scoperta all’inizio della guerra napoletana (1459), facendola
coincidere con il presunto dominio del doge Pietro Campofregoso sull’isola d’Ischia: per il resto, aveva ripetuto le parole
di Pontano.
Ma, se vogliamo prendere per buona la dichiarata priorità
dell’allume di Ischia, anche la datazione del 1459 è tarda,
dato che fra marzo e aprile 1452 già operava l’allumiera
di Agnano. Ce ne dà precise informazioni un Anonimo
del tempo, presente alla gita alla solfatara di Pozzuoli e ad
Agnano, seguita dalla fantastica caccia agli Astroni, che vide
protagonisti Alfonso il Magnanimo, l’imperatore Federico III
con la neosposa Eleonora di Portogallo, nipote di Alfonso, e
il re d’Ungheria, con dame e cavalieri tedeschi e ungheresi.
Partita da Pozzuoli, la comitiva si inoltrò nella Solfatara, dove
poté vedere molti uomini dediti alla raccolta e alla raffinazione dello zolfo: nel vicino mare, presso Nisida, grosse navi
fiamminghe, che avevano portato panni a Napoli, aspettavano
di caricare zolfo e allume che avevano acquistato col ricavato
delle vendite. Un miglio più avanti della Solfatara, alle spalle
della montagna che la circondava, i nostri presero una strada, fatta spianare dal re, che percorsero per un miglio fino a
trovare una grande pianura, poi un’altra montagna di zolfo:
«...Da mezzo quella montagna nasce una pietra la quale
biancheggia ed è tutta venata di rosso. E quella si taglia con
artiglio di picconi di ferro, zappe, magli, qual’è dura, e quella
si cuoce.... in quelli lochi sono molti puzzi d’acqua assai che
servono per adacquare molti apparecchi delle dette pietre.
Da mano stanno molte carcare (calcinaie) dove quelle pietre
s’abbrusciano come calce, e bagnate prima diventano polvere. Quella polvere si pone dentro certi stagnati, anzi conche,
ovvero caccavi (pentole) di rame grandissimi, e tutti stanno
locati dentro certi gran magazzini a filara. Sono circa dieci
per magazzini molto larghi, tutti coperti d’embrici. Poi... vi
sono molte stanze e casamenti, e molte poteche (botteghe)
di ogni arte, ferrari, carpentarii, pizzicaroli, taverne, molti
forni di panettieri. Perché in tale officio sono di bisogno molti
huomini e faticatori... haverno trovati da 600, che a vedere
pareva che fusse una piccola città».
Proseguendo, giunsero alle rive del lago d’Agnano, sormontate dal Monte Spina, ben noto anche ai tedeschi perché
famosa sede del re dei serpi velenosi, e videro i numerosi
fabbricati antichi adibiti a bagni e sudatari, molto frequentati
dagli infermi. Videro anche la “grotta d’Agnano”, anzi un
cavaliere tedesco vi entrò e rimase subito tramortito: fu tirato
fuori e, legato un cane, «... lo buttarono dentro e lo cavarono
morto». Salirono quindi su una collina, dalla quale si vedeva
bene il lago, e proseguirono verso gli Astroni per il pranzo e
la caccia.
La fabbricazione dell’allume in quel periodo è avallata, se
mai ce ne fosse bisogno, dal fatto che alla fine del 1453 la
compagnia Muntmany-Rovira «... si assicurava la fornitura
dell’allume napoletano al mercato di Barcellona» (Del Treppo 1967).
La relazione del 1452 che, come visto, contiene anche la
prima descrizione del crudele esperimento della “grotta del
cane”, è stranamente ignota a Benedetto Croce, autore di
uno scritto sull’allumiera di Agnano (1949), sebbene fosse
contenuta in un noto manoscritto e fosse stata pubblicata,
in una rivista napoletana, ai tempi della sua adolescenza.
Essa è invece nota a Feniello (2003, 2005 e 2006) che però,
nonostante la precisa e dettagliata descrizione, confonde l’allumiera di Agnano con la Solfatara, e non è questa l’unica sua
“distrazione”. Egli afferma infatti, nell’articolo pubblicato tre
volte senza sostanziali differenze: «... I membri della famiglia
Sannazaro... ne rivendicarono la proprietà. Per aggirare
l’ostacolo di un intervento regio, Jacopo non domandò il
possesso del terreno, che almeno formalmente apparteneva
al demanio, ma solamente il diritto di sfruttamento del sottosuolo». È ovvio, mi pare, che l’Autore dimostra di non aver
capito le motivazioni dei processi illustrati da Cestari (1790),
a cui fa riferimento: i Sannazaro, infatti, erano proprietari del
terreno e la cosa non era in alcun modo contestata; anche sul
diritto di sfruttamento il fisco non aveva molto da opporre, se
non che fosse stato proprio l’intervento non di uno, ma di due
re, sollecitati dal poeta, a risolvere in suo favore la questione.
E sarà ancora un altro re, pure sollecitato dal poeta, a chiudere
il processo contro di lui: altro che «... aggirare l’ostacolo di
un intervento regio», come vorrebbe Feniello.
Il diritto di sfruttamento di zolfo, allume e vetriolo, era in
effetti legato alla proprietà del terreno, sembra per antica
donazione di Federico II. La famiglia Brancaccio, prima
proprietaria, aveva affittato più volte, nella seconda metà del
Duecento, il Monte della Bolla, ad Agnano, col diritto di fare
zolfo e allume, mentre nel 1315 sono membri della famiglia
Yoffredo ad affittare solamente il diritto di estrarre solfo e
allume, per 10 anni ad un’oncia d’oro l’anno. Verso il 1415
il Monte della Bolla, «... donde si cavava il Zolfo, l’Allume,
e la Cenere», fu portato in dote, da Cicella de Anna, a Giacomo Sannazaro, nonno ed omonimo del poeta e, per un certo
periodo, vi si cavò solo zolfo.
Il “monte” prende ovviamente il nome dall’antica sorgente
delle bolla o bulla, uno stillicidio solfureo che fuoriusciva ai
suoi piedi, nel cratere di Agnano, un chilometro e mezzo circa
ad ovest del paese, successivamente nota come sorgente de’
Pisciarelli e, fino a qualche decennio fa, Terme Pisciarelli.
Era attraversato da una strada che da Napoli conduceva a
Pozzuoli, passando per Agnano e per la solfatara.
In data che Cestari non indica, ma evidentemente verso il
1450, Nicola, figlio ed erede di Giacomo, si rivolse ad “un
genovese”, per rimettere in funzione l’allumiera, e la cosa
dovette riuscire bene, stando alla cronaca del 1452. Nel
1456 vi fu però il disastroso terremoto che non poté non fare
ingenti danni e, verso il 1460, Nicola morì lasciando i due
figli Giacomo e Marcantonio in tenera età, rispettivamente
quattro anni e sei mesi. La vedova si trasferì nel Salernitano,
dove morì a sua volta, dieci anni dopo il marito.
In tale situazione avvenne “lo spoglio” dei diritti Sannazaro
sull’abbandonata allumiera di Agnano. Gugliemo lo Monaco
cominciò ad interessarsene nel 1462 e nel 1465 propose a re
Ferrrante (Ferdinando I) alcune condizioni per lo sfruttamento, che il re accettò: si noti che al capo 10 della concessione,
interamente riportata da Cestari, è detto che in caso qualche
persona reclamasse la proprietà della «... montagna donde se
piglia la petra del Alume», il re avrebbe dovuto concordare
il pagamento di un risarcimento, al quale il concessionario
avrebbe contribuito per la metà. Solo molti anni più tardi,
raggiunta la maggiore età, i fratelli Sannazaro reclameranno
i loro diritti sull’allumiera: avevano, a quanto pare, mantenuto quelli sulla solfatara (di Agnano), che la loro madre
“madamma Masella”, aveva affittato a Colangelo Mormile
(Percopo 1931).
Come mai, e se lo chiede anche Cestari, pur non conoscendo
la relazione del 1452, Pontano ignora l’allume di Agnano e
attribuisce il primato ad Ischia? Egli era molto amico del poeta e aveva una certa conoscenza dell’argomento: fu, infatti,
segretario di Alfonso d’Aragona, a partire dal 1486, e poi del
figlio Ferdinando, per cui poté seguire la causa; inoltre, nel
1495 controfirmò l’atto col quale re Ferdinando restituiva
l’allumiera riconoscendo gli antichi diritti della famiglia.
La risposta, forse, sta proprio nella particolare situazione
giuridica dell’allumiera di Agnano, il cui sfruttamento, prima
del 1462, avveniva in forma privata e senza alcun intervento
burocratico-amministrativo statale.
Riguardo al “genovese” che mise in funzione l’allumiera di
Agnano, Feniello (2003, 2005 e 2006) è convinto che fosse
Bartolomeo Pernice, e per farlo credere anche a noi ricorre
ad un vero e proprio falso: afferma, infatti, citando Cestari:
«... In tempo di re Alfonso I...per uno genoese fu optenuto
privilegio da li discti signuri nde lo fare de dicto alume...e
crede che dicto genoese se chiamasse Bartholomeo Pernice
come pare per privilegio ad ipso concesso quale è registrato
in la Summaria». Nell’originale si legge invece: «... in tempo
di Re Alfonso I o vero ne la intrata di re Ferrante I (cioé nel
1458) da quale tempo in qua fo introducta in Iscla & Pezulo
lo exercitio de fare dicto alume & miniere». L’Autore citato
parla quindi di miniere di Ischia e di Pozzuoli e ne fa risalire
l’apertura a dopo il 1458. Da notare, ancora, che egli riporta
la testimonianza del presidente del fisco, Pietro Lupo, nella
seconda causa Sannazaro, testimonianza molto sospetta
perché tesa a dimostrare, falsamente, che anche ad Agnano,
come ad Ischia, fosse necessario ottenere una concessione
reale per estrarre e lavorare l’allume. Nessuno dei numerosi
altri testimoni, fa notare ancora Cestari, parla del Pernice a
proposito dell’allumiera di Agnano.
Anche Boisseuil (2006), ingannato da Feniello, assegna un
ruolo importante a Bartolomeo Pernice nella scoperta e messa
in funzione dell’allumiera di Agnano, cosa che non solo non
è certa, ma è del tutto improbabile: la fabbrica, infatti, deve
essere entrata in funzione, al più tardi, negli anni 1450-51,
mentre l’attività di Bartolomeo e i contenuti della citata concessione senese del 1451 (e di quella successiva) portano ad
escludere un suo coinvolgimento in attività riguardanti l’alluLa Rassegna d’Ischia 6/2009 27
me, in quegli anni. E poiché in una successiva concessione per
l’allume di Ischia, Ferdinando ricorda che suo padre Alfonso
aveva fatto costruire una grande allumiera nell’isola, dalla
quale la Curia traeva molti utili (Del Gaizo 1884), parrebbe
che qui la scoperta fosse avvenuta negli ultimi anni di vita del
Magnanimo e che lo scopritore non avesse beneficiato di una
vera concessione: in caso contrario, essendo egli genovese e
Genova nemica di re Ferdinando, la avrebbe comunque perduta nel corso della guerra napoletana. Nel 1462-63 troveremo,
infatti, Bartolomeo impegnato completamente nella ricerca
dell’allume in territorio senese.
Giovanni Antonio Summonte (1643) lo vorrebbe anche scopritore delle allumiere di Tolfa (... colui che alla Tolfa l’aveva
dimostrato al Pontefice), ma lo chiama Perdice, dimostrando
così di aver assunto notizie da Mazzella e altri autori poco
affidabili. Genovese, come risulta dal primo appalto (1462),
fu comunque uno degli scopritori di quelle miniere, ma non
ci è pervenuto il suo nome. Stando a Cestari, per verificare
il minerale «... Si chiamarono da Genova gli artefici, i quali
avevano travagliato nelle miniere di Alume dell’Asia.....
Lavorarono l’Alume della Tolfa il quale riuscì migliore di
quello del Levante». E, infatti, il primo “mastro principale
delle miniere” fu il genovese Biagio Centurione Spinola, e
genovesi furono anche i primi appaltatori e distributori del
prodotto (Zippel 1907, Pipino 2003).
In precedenza, nel 1461, Biagio Centurione Spinola era
impegnato in una miniera d’allume scoperta nei pressi di
Innsbruck, per conto di due veneziani (Zippel 1907).
Bartolomeo Pernice, che non aveva potuto iniziare le ricerche all’Argentario a causa di conflitti militari, cercò di farlo
nel 1462, ma trovò il campo occupato da ricercatori senesi,
che a loro volta avevano ottenuto la concessione dal Comune
(Volpe 1961, Pipino 2003).
Anche Siena, ovviamente, era molto interessata ad avere
fonti d’allume nel proprio territorio: nel giugno 1460 il minerale era stato trovato, casualmente, al Poggio di S. Cecilia e,
fatte le prove, era risultato allume di ottima qualità; poiché
il prezzo del prodotto era più che quadruplicato, il Comune
venne interessato direttamente «... perché tanta ricchezza non
rimanesse abbandonata», ma la cosa non ebbe comunque
molto seguito (Volpe 1924, 1961).
Il 31 gennaio 1463, il Comune di Siena concordò, con Bartolomeo Pernice e compagni, un’altra concessione, il cui testo
è riassunto da Piccinni (1999) e integralmente riportato da
Boisseuil (2006). La precedente concessione veniva annullata
e il genovese e compagni ottenevano la facoltà, novennale, di
«... poter cavare et fare cavare, lavorare allume et minere d’allumi» in tutto il territorio del dominio di Siena, con obbligo di
scegliere, entro sei mesi, tre luoghi ove concentrare la propria
attività, lasciando libere le altre zone per altri ricercatori, e di
vendere poi l’allume al Comune; ottenevano anche la facoltà
di cercare altri metalli, con l’obbligo di versare il sei per cento
degli utili e di vendere alla zecca senese i due terzi dell’ oro e
dell’argento. Nella concessione viene espressamente sancito
28 La Rassegna d’Ischia 6/2009
il diritto di Mino Tolomei e Francesco Germano di cavare, in
società fra loro, due miniere d’allume, una a Monte Rotondo
ed un’altra al Monte Labro.
Dal testo della concessione risulta evidente che molti, oltre
a Bartolomeo Pernice, erano dediti alla ricerca dell’allume nel
territorio senese e che erano già state scoperte due cave: alla
prima potrebbe corrispondere il giacimento di Monte LeoFrassine, alla seconda le manifestazioni presenti alle falde
meridionali del Monte Labbro, nei pressi di Stribugliano.
Nella Toscana meridionale verranno in seguito aperte altre
allumiere, a Castel di Pietra, al Lago dell’Accesa e a Montioni:
i lavori in quest’ultima risultano diretti, nel luglio del 1474,
da un genovese di nome Antonio, mentre un altro genovese,
Luigi Campofregoso, figura, nel 1473, tra i soci concessionari
dell’allumiera dell’Accesa (Boisseuil 2006).
Per la Toscana settentrionale va segnalata la concessione
rilasciata dal Comune di Firenze, il 21 agosto 1463, a Rodolfo
dei Firidolfi da Ricasoli «... che s’intende di vene, di miniere et
di metalli et pietre da fare allume» (Pampaloni 1975). Sono
poi note la scoperta e l’apertura, seppure per brevi periodi,
nel 1470 della miniera del Sasso di Volterra, nel 1483 della
miniera di Campiglia, entrambe con il coinvolgimento di
Lorenzo de’ Medici (Fiumi 1948).
Non ha fondamento la notizia riportata da Sanudo (1493?) e
riprese da molti autori recenti, a partire da HEYD (1885-86),
secondo la quale nel 1459 «... un certo genovese» avrebbe scoperto «allume di Rocca» a Volterra: essa è frutto di un’errata
trascrizione dal Bergomensis (1483), il quale scrive, tradotto
dal latino: «... allume di rocca, la cui lavorazione fu importata in Italia la prima volta da un genovese, è stato trovato
nell’agro volterrano». E’ comunque interessante notare che
l’autore bergamasco era al corrente, nel 1483, della scoperta
genovese (di Agnano o di Ischia?). Quanto alla data della
presunta scoperta (1459), essa è chiaramente mutuata da
quella attribuita, dai più, alla scoperta ischitana.
Nel territorio di Genova è invece un milanese, Boniforte
Rotulo, impegnato a cercar miniere dal 1462, che nel 1465
crede di aver trovato una vena d’allume verso il Capo di Noli,
ma deve farne la prova (ASGe: Div. Com. Januae nn. 30473048; Pipino 1977, 2003).
Nel Ducato di Milano, il 13 febbraio 1461 il duca Francesco Sforza versa duemila ducati d’oro al monaco Nicolao
Bleymnit, in acconto dei seimila richiesti, per iniziare la ricerca e la produzione dell’allume, impegnandosi a versargli un
vitalizio di 25 ducati al mese sull’introito del prodotto; nella
stessa occasione gli rilascia un salvacondotto per recarsi nel
Bresciano. La cosa non pare avere alcun esito e, il 15 agosto
1465, lo stesso duca scrive al Capitano di Novara di assistere
Ferrando di Vigevano, il quale afferma di aver trovato una
vena di vetriolo in un monte del Vescovado novarese e spera
di trovarci anche allume di rocca: egli tiene molto a che
la cosa abbia seguito e raccomanda di far accompagnare il
ricercatore da un uomo fidato che «... stia a vedere in qual
modo farà detto ferrando» (Pipino 2008).
Anche a Venezia la crisi dell’allume orientale aveva reso
drammatica la situazione di lanaioli e tintori, e furono presi
alcuni provvedimenti. L’11 settembre 1460, considerato che
il prezzo dell’allume di sorta era passato da 5-6 ducati a 45
ducati al mier, la Signoria accolse la proposta fatta da Giovanni Mocenigo el Chavalier di costruire una o più fabbriche
nel golfo di Venezia, in cui condurre e trattare la pietra per
fabbricare allume di sorta e di rocca, con privativa di 15 anni
e proibizione ad altri di impiantare analoghe fabbriche nelle
vicinanze delle sue. Il 20 settembre 1461, il senato, dopo
aver ricevuto richieste da parte di vari cittadini, fra i quali il
milite Pietro de Advocatis, per scavare e fabbricare allume in
tutto il territorio della Repubblica, specie nell’agro bresciano,
stabiliva che chiunque avesse trovato materia da far allume
doveva far richiesta di concessione ai rettori, entro un mese,
e aveva pieno diritto di scavare e fare allume pagando ogni
anno la decima: i proprietari dei terreni erano liberi di lavorare
nelle loro proprietà, mentre nessuno poteva farlo in terreni
altrui senza il consenso del proprietario. Il 7 agosto 1467 un
cittadino dichiarò di aver trovato «pietra atta a far allume di
sorta», in terreni delle marche trevigiana e cenetense; nel
1468 e nel 1472 altri dichiararono di aver trovato vene di
allume in luoghi non precisati (Mandich 1958).
All’8 febbraio 1482 risale la concessione ad Aloise da Verona per «... la pietra de la qual se fa l’alume de rocca», da
lui trovata nel Monte Baldo (Oreglia 1915).
Per il Vicentino, dove da sempre accanto alle miniere
d’argento venivano coltivati giacimenti di terre bianche caoliniche (e alluminose), la documentazione storica, come noto,
presenta una lacuna dal 1440 al 1480: tuttavia, il 27 febbraio
1594 Filippo de Zorzi, vicario Generale delle Miniere, nel
discutere se le pietre bianche dovessero pagare la decima
come i minerali, afferma: «... Ritrovo che nelle investiture dei
miei antecessori, che sempre si ha riconosciuto il Principe...
de alumi di ogni sorta prodotti de monti di sabbioni bianchi,
et de terra rossa et di scaglia» (Oreglia 1915).
Nel Regno di Napoli, oltre alla coltivazione delle allumiere
di Agnano e di Ischia, sembra che venisse ripresa la raccolta
delle povere efflorescenze nella Solfatara di Pozzuoli e in
alcune grotte del Capo Miseno (Cestari 1790).
In Sicilia, oltre alla ripresa della produzione a Lipari e
a Vulcano, si registrano interessanti attività di ricerca e di
coltivazione: nel giugno 1461 Bartolomeo Caputo cuoceva,
a Patti, l’allume importato da Lipari; fra il 1460 e il 1461
una compagnia di minatori aveva già una licenza per cercare
miniere d’allume, con obbligo di versare la decima parte del
prodotto; nel marzo 1462 si scavava e si lavorava allume
locale a Paternò, pagando la solita decima; il 26 dello stesso
mese fu accolta la domanda di Damiano Spinola e altro mercante genovese per ottenere la privativa della ricerca nell’isola, pagando 100 onze l’anno per i primi tre anni, 200 per i
successivi tre anni (Trasselli 1964). Non meraviglia, quindi,
che il 5 gennaio 1463 sia venduta, a Genova, una partita di
allume di Sicilia caricata a Licata (Heers 1954), e nemmeno
ci stupisce di trovare, nel 1479, Damiano Spinola alla ricerca
di vene d’oro nel territorio genovese (Pipino 2003).
Tra i giacimenti siciliani, il più noto è quello di Allume,
presso Roccalumera nei Peloritani, nel cui circondario la
presenza dell’oro è storicamente nota ed è stata recentemente
accertata (Pipino 1988, 1989).
Di tutti i giacimenti di allume scoperti ed attivati in quegli
anni, nessuno raggiunse l’importanza di quello della Tolfa.
Va però sottolineato che la Santa Sede cercò, in vari modi, di
ostacolare la produzione dei giacimenti italiani che si venivano
scoprendo e, in definitiva, «... tentava di imporre, con l’azione
diplomatica e col ricatto religioso, il monopolio del proprio
allume ai paesi cristiani» (Pipino 1976). L’abbondanza del
prodotto romano, e la sua ottima qualità, gli consentirono
comunque di conquistare il mercato, ma non impedirono
del tutto la produzione di altre miniere italiane e nemmeno
l’importazione dell’allume turco. Nel 1481 esisteva ancora,
a Genova, un appalto “«aluminum Grecie et Turchie et ultimo
loco facto in Chio»: il 30 settembre di quell’anno Sisto IV
scriveva al Comune lamentando che alcuni genovesi commerciavano l’allume turco, nonostante la proibizione sua e
dei suoi predecessori; il 19 novembre il doge e il consiglio
degli anziani, sentito il Banco di San Giorgio, decretarono la
proibizione, sotto pena di confisca e altre pene, avvertendo
tutti gli ufficiali, «... e specialmente il podestà e Maonesi,
governatori della Maona di Chio», di far rispettare l’ordine,
ma, si noti bene, questo «... sia valevole fino a che l’appalto
dell’allume del prefato santissimo signore nostro papa è e
sarà nelle mani e trattato dai Genovesi». Va da sé che tale
postilla non compare nell’editto ufficiale «... proclamato per
la città», così come non vi compare lo specifico richiamo
alla Maona di Chio (ASGe: not. Gallo Ant. n. 143, Div. Com
Januae n. 3061). E possiamo anche aggiungere che tra gli
anziani firmatari del decreto vi era Agostino Doria che, col
congiunto Giovanni e con Domenico Centurione, faceva parte
della società appaltatrice di tutto l’allume prodotto nei monti
della Tolfa.(Zippel 1907, Pipino 2003).
Le vicende dell’allume di Ischia
(e di Agnano) dopo la riscoperta
Appena assunto al regno (1458-59), re Ferdinando concedeva il diritto di fabbricare allume ad Ischia, al nobile Antonio
di Cervera e, nell’atto di concessione, ricordava che suo padre
Alfonso vi aveva fatto costruire una grande allumiera che
procurava utili alla Curia (Del Gaizo 1884). L’inizio della
guerra di successione e le vicende politiche che interessarono
direttamente l’isola impedirono, con ogni probabilità, che
la cosa avesse un qualche sviluppo. Alla fine della guerra,
l’allume d’Ischia fu affidato a mercanti veneziani che commerciavano a Napoli (ai quali si riferisce certamente Elisio).
Infatti, il 2 maggio 1465 il re prestava, al veneziano Marino
da Cataponte, «... maestro di panni di seta», 1000 ducati per
tre anni senza interessi, per agevolare l’industria della seta a
Napoli, ma non gli versava contanti, bensì lo autorizzava «...
di volersi pigliare ditti mille ducati alla pietra dell’allume
d’Ischia della parte che tocca alla maestà del Sig. Re, cioé
dello partito che haveno con Hieronimo Michaele et Jacopo
Zanni», al prezzo di giornata (Pescione 1919). Tre anni dopo,
La Rassegna d’Ischia 6/2009 29
quando si trattò di restituire il prestito, il magnifico Pascasio
Diaz Garlon etc. ricordava che Marino e i suoi soci avevano
a suo tempo prelevato l’allume dalla Regia Curia e l’avevano
venduto a prezzi diversi, come da informazioni assunte dagli
ufficiali della dogana maggiore (Silvestri 1952): per il solito
Feniello (2003, 2005, 2006), che pure cita l’Autore suddetto, si sarebbe invece trattato di un nuovo acquisto di allume
(???).
Anche Michaele e Zanni, che gestivano l’allume di Ischia,
erano veneziani, e sappiamo che il primo era stato uno dei
concessionari delle miniere di Focea e aveva dovuto abbandonarle, nel 1463, all’inizio della guerra fra Venezia e i Turchi
(Heyd 1885-86). Nello stesso periodo troviamo che un altro
veneziano, Paolo Contarini, è «... arrendator alumerie insule
hyscle» (Di Lustro 2003).
In questo periodo l’allume di Ischia è ancora ben separato
da quello di Agnano: nella concessione del 10 maggio 1465 a
Guglielmo lo Monaco, al capo I, il re si riserva espressamente
il diritto di produrre allume ad Ischia e a Lipari, in concorrenza
con quello di Agnano, del quale pure gli spetta il 50%, partecipando egli al 50% delle spese. Inoltre, secondo il capo 14, il
concessionario non può vendere la sua parte nel Regno, salvo,
in caso di necessità e per un valore massimo di trecento ducati
al mese che, però, il re si riserva di acquistare personalmente a
prezzo di favore (Cestari 1790). La prosperità del giacimento
di Agnano, a meno che non si tratti di altro deposito aperto
nei monti della Solfatara, è testimoniata da una relazione, del
1470, secondo la quale il trattamento finale avveniva fuori
dalle mura di Pozzuoli, dove «... si lavano gli allumi e si
fanno bollire. A circa mezzo miglio ci sono i monti dai quali
si estraggono gli allumi in forma di pietre e grossi massi,
che giù nella valle vengono cotti nelle fornaci, proprio come
se si cuocesse la calce. Poi queste pietre così cotte vengono
trasportate nel luogo che ho detto per la bollitura» (Heers e
De Gröer 1978).
Ma non era l’allumiera di Agnano (o di Pozzuoli), bensì
quella di Ischia, ad impensierire proprietari e appaltatori delle
miniere della Tolfa Infatti, nella lunga introduzione all’accordo siglato l’11 giugno 1470 con re Ferdinando, è detto che la
concorrenza dell’allume ischitano poteva nuocere alla causa
della Santa Crociata, destinataria dei proventi dell’allume di
Tolfa. Secondo l’accordo, venivano messe in comune «...
tutte allumere, sono si de la Santita de nostro Signore et de
la Camera Apostolica, come de la Maiesta de Signore Re...
per anni venticinque proximi a venire. Che le allumere de la
Santita de nostro Signore et Camera apostolica et quelle de
la Maiesta del signore Re per il tempo supradicto sentendano
essere un corpo o vero anima». Tutte le vendite dell’allume
andavano quindi fatte da due deputati, uno per parte, a prezzo
concordato, e ciascuno dei soci doveva concorrervi per la
metà, salvo integrazioni da parte di uno di essi, con adeguato
risarcimento, nel caso l’altro non fosse in grado di provvedere.
A garanzia e verifica, ciascuna delle parti avrebbe inviato un
Commissario stabile presso le allumiere dell’altra.
L’accordo, assieme alla procura data da Ferdinando ad
Anello Perozzo (Perocius) per la sottoscrizione, è pubblicato
30 La Rassegna d’Ischia 6/2009
integralmente da Theiner (1863). Ampi stralci, senza però il
preciso ed esclusivo riferimento introduttivo ad Ischia, si trovano in Zippel (1907), Delumeau (1962) e De Roover (1970).
Secondo Feniello (2003, 2005, 2006) l’accordo sarebbe stato
voluto da Roma «... per neutralizzare la concorrenza d’Agnano», in quanto «... la capacità produttiva dell’allumiera fu
consistente e tale da rivaleggiare per qualche tempo con
quella della Tolfa» (???). La maggiore, se non esclusiva,
importanza dell’allumiere di Ischia, in quel tempo, è invece
testimoniata dal fatto che il Commissario romano, Nanni di
Vezzano, milite bolognese, andò a stabilirsi «... nella miniera
regia ad Ischia» (Zippel (1907).
Anello Perozzo, oltre ad essere il plenipotenziario di re
Ferdinando per la firma dell’accordo, era anche appaltatore
(arrendatore) delle allumiere, di Ischia e di Agnano, o lo diventerà subito dopo: secondo la testimonianza del presidente
Lupo, egli (Anello Piroczo) subentrò a Guglielmo lo Monaco
nell’allumiera di Agnano, e, secondo un altro teste, aveva
tenuto l’allumiera d’Ischia ai tempi di re Ferrante (Cestari
(1790).
L’accordo di “cartello”, che avrebbe dovuto durare 25 anni,
ne durò poco più di due, con varie controversie, e sopravvisse
pochissimo alla morte di Paolo II (settembre 1471). Nel
giugno del 1471 alcune galee genovesi cariche d’allume napoletano furono sequestrate a Middelbourg perché, secondo
gli accordi, l’allume di Napoli non doveva essere introdotto
nei Pesi Bassi prima che fossero esaurite le scorte pontificie
che vi si trovavano (Delumeau 1962). Fra il re di Napoli e la
Santa Sede esistevano altre annose controversie, ma la morte
di Paolo II e l’elezione di Sisto IV «... fece cessare tutte quelle
discordie» (Giannone 1753): in questo nuovo clima, fra il
nuovo papa e re Ferdinando fu amichevolmente concordato
di annullare l’accordo per l’allume. Come nota Zippel, l’ultimo mandato di pagamento della Depositeria Generale della
Crociata per il Commissario Nanni di Vezzano, di stanza ad
Ischia, è dell’ottobre 1472.
«Dopo il 1473 le galee ferrandine, cioè napoletane, esportavano allume anche da Ischia alla rada di Zelanda, donde
veniva poi reimbarcato per Bruges, Anversa o Bergen-opZoom» (De Roover 1970). Da un documento dell’Archivio di
Stato di Genova (Div. Com. Januae n. 3055) risulta anche che
il 1° aprile 1474 una nave carica di allume, di re Ferdinando,
fu aggredita da navi portoghesi.
In quell’anno si verificò quello che il cartello avrebbe
voluto evitare, cioè una grande disponibilità di prodotto
con conseguente crollo del prezzo, tanto che il papa dovette
dimezzare la tassa pagata dai Medici per l’allume caricato a
Civitavecchia (De Roover 1988). L’abbondanza dell’offerta
fu in parte dovuta all’apertura delle miniere toscane, in parte
all’afflusso dell’allume orientale, nonostante le proibizioni.
Le miniere napoletane non dovevano essere molto produttive
se nel 1476 e 1478 il Regno era costretto ad importare allume
romano (Delumeau 1962).
Il 21 ottobre 1481 Francesco Coppola, conte di Sarno,
ottenne la concessione vitalizia delle miniere d’allume di
Ischia con la nomina, pure vitalizia, di capitano e governatore
dell’isola. Il 19 marzo dell’anno seguente il re gli confermò
tutti i privilegi goduti dai precedenti concessionari, quali la
giurisdizione civile criminale, il diritto di tagliare legna in tutta
l’isola, il pascolo e il transito dei buoi adibiti al trasporto del
materiale da e per le miniere, l’esenzione dai dazi sul minerale
e su ogni cosa necessaria alle miniere. Pochi mesi dopo, il 27
luglio 1482, il re ordinava che gli fossero restituiti i buoi fatti
venire dalla Calabria e fermati dai gabellieri, in quanto ogni
cosa riguardante le miniere d’Ischia era esente da gabelle in
tutto il Regno (Schiappoli 1972).
Oltre che nell’isola, il concessionario aveva diritto di taglio
degli alberi e di pascolo anche in terraferma, a Baia e a Patria.
Nell’isola cominciava a farsi sentire la penuria della legna
necessaria all’allumiera, provocando quel calo di produzione,
a favore di Agnano, ricordato nel 1501 da alcuni testi (Cestari
1790). In particolare, Filio de Anna depose che, essendo
stato mandato da re Ferrante ad Ischia, per affari di corte, era
andato ad alloggiare nell’allumiera del Coppola e «... trovò,
che quella non si poteva fare per la grande spesa di acqua
e di legname, e che quella di Agnano si poteva lavorare per
l’abbondanza delli materiali».
Nel 1487, comunque, Francesco Coppola perse la concessione, e la vita, perché aderente alla congiura dei baroni. Non
sappiamo a chi passò la concessione: Pontano, che scriveva
negli ultimi anni del Quattrocento, ci dice solo che l’isola
abbondava di molto allume. Nel 1501 l’allumiera risulta
gestita dal “Marchese del Vasto” che, invitato a pagare il
“Relevio”, protestò che ne traeva poco profitto; tuttavia nel
1504 Ferdinando ed Elisebetta avrebbero concesso la stessa
allumiera ad “Alfonso d’Avalos de Aquino Marchese di
Pescara e del Vasto”. (Cestari 1790). È ovvio che non può
trattarsi del famoso condottiero di Carlo V, nato nel 1502 (nel
castello d’Ischia): quindi, o si tratta di un parente omonimo,
oppure c’è un errore di nome e si tratta del padre Innaco, che
fu castellano in quegli anni. Comunque, subito dopo (non nel
1484 come dice Feniello) l’allumiera d’Ischia passò sotto il
controllo di Gaspare Scozio, già affittuario di quella di Agnano, che ne affidò la gestione a Colanello Imperato, poi, morto
lui, passò al fratello Marcantonio Scozio. Però, secondo una
testimonianza riportata da Cestari, Ferdinando il Cattolico
gli proibì di lavorarla per compiacere Agostino Chigi (e il
papa). La proibizione, semmai ci fu, ebbe brevissima durata
o fu del tutto inattesa: nel 1517, infatti, Marcantonio Scozio
pagava i diritti sull’allume estratto ad Ischia, e prima di lui li
aveva pagati Colanello Imperato, a partire, almeno, dal 1505
(Cestari 1790).
Il 21 luglio 1487 i fratelli Sannazaro, dopo controversie e
ricorso ad arbitri, addivennero ad una prima divisione dei beni
paterni: questi furono divisi in due parti, delle quali Giacomo,
come primogenito, aveva diritto di prima scelta. In una parte
erano comprese le entrate della «Zulfatara cum omnibus juribus et pertinentiis», ma si specificava poi che su tali entrate,
della «Zulfatara o vero alumera», si poteva far poco conto
e quel poco dovuto più «... ad industria ed affanno» che ad
altro, per cui, a qualunque dei fratelli fosse toccata, questi
non avrebbe dovuto poi dividere con l’altro gli utili derivati
da eventuali accordi con Gaspare de Scocio (Scozio), con la
corte o con qualsiasi altro (Percopo 1931). L’allumiera toccò
a Marco Antonio che, dieci giorni dopo, l’affittò a Gaspare
Scozio per 34 ducati l’anno: questo era stato possibile perché
re Ferrante, per intercessione del principe Federico, molto
amico di Giacomo Sannazaro, «... ordinò per memoriale li
fossero restituite ad dicti fratelli costandono essernoli loro
dicta Lumera», ma la cosa non fu poi formalizzata perché,
essendo intercorsi nuovi contrasti fra i due fratelli, Giacomo
chiese al principe di non intercedere più presso il re, «con dire
che lo fratello li era inobediente & che ipso non se ne curava
de impaczarsene più de recuperare robba ma quella che havea
andasse in mala hora» (Cestari 1790). Nel 1490 l’allumiera
era coltivata da Colantonio Gagliardo, per conto di Gaspare
Scozio che aveva avuto la concessione dalla Regia Curia.
Nel 1494, Alfonso II la affittò a Pietro de’ Medici, per dieci
anni, in cambio di 7000 ducati, ma la cosa non ebbe seguito,
per la calata di Carlo VIII e la cacciata di Pietro da Firenze.
L’8 febbraio 1495 Ferdinando II, re da pochi giorni ma
praticamente spodestato da Carlo VIII, nel castello di San
Germano firmava un decreto, sottofirmato dal Pontano, con
il quale dichiarava non legittima l’incorporazione della Regia
Curia e ordinava la restituzione, a Giacomo Sannazaro, per i
suoi meriti e servizi, dell’allumiera di Agnano «... che la Regia
Curia ed altri posseggono da un certo tempo al presente»,
con tutti i diritti, territori, proprietà, giurisdizioni e pertinenze,
annullando nel contempo la precedente concessione fatta da
suo padre a Pietro de’ Medici (Percopo 1931, Barbieri 1940).
Pochi giorni dopo, l’allumiera, gestita da Colantonio Gagliardo, venne occupata dai francesi ed affidata ad un capitano
d’artiglieria (Cestari 1790), ma il 9 marzo Carlo VIII, appena
insediatosi a Napoli, concesse al “dilecti nostri” Giacomo
Sannazaro di mantenere il diritto «... fieri sulfur et alumen...
in loco dicto la bulla cum suis pertinenciis»: chiunque avesse
avuto qualcosa da obiettare poteva farlo presso la Sommaria,
entro alcuni giorni (Percopo 1931, che però assegna al documento la data, visibilmente errata, del 1494). Il 16 luglio
1495 Giacomo Sannazaro, in presenza di notaio e testimoni,
prendeva “possesso corporale” del «... monte dell’allumiera
sito vicino la Bolla e il lago d’Agnano...con diritti e pertinenze
annessi e connessi», già spettanti ai suoi avi e restituiti, a
lui, da re Ferdinando II (Percopo 1931). È appena il caso di
ricordare che Ferdinando era ritornato in possesso del Regno
e di notare che, nell’atto, manca ogni riferimento al decreto
di Carlo VIII.
Due anni dopo, il 12 agosto 1497, dopo appena 4 giorni
dall’elezione, il nuovo re Federico concedeva al suo amico
poeta, e successori, il mero e misto imperio sull’allumiera, con
diritto di amministrare la giustizia per quanto riguardava le
liti e le risse fra gli uomini che vi lavoravano. L’atto è riportato da Barbieri (1940): Percopo (1931), avendone trovato
cenno negli atti del processo Sannazaro, lo cercò inutilmente
a Napoli e lo datò, indicativamente, al 1501.
Verso la fine del secolo, i fratelli Sannazaro intentarono un
processo per ottenere «... la rescissione del contratto per la sua
patente enormissima lesione», dato che l’affittuario, Gaspare
La Rassegna d’Ischia 6/2009 31
Scozio, si era enormemente arricchito, mentre corrispondeva
un misero canone perché, si diceva, a suo tempo aveva raggirato Marco Antonio, giovane e privo di esperienza. Il primo
dei testimoni chiamati dai ricorrenti fu proprio re Federico,
convinto, a dire di Percopo (1931), da quell’epigramma
(III,5), a lui intestato, in cui il poeta «... scherza sul nome di
Scozio».
In tutto questo periodo l’allumiera continuava comunque
a produrre, e discreti quantitativi di allume venivano spediti
all’estero dai porti di Napoli, Pozzuoli e Nisida: dal tempo
di Ferdinando II al 1501 i fratelli Sannazzaro ne avevano
venduto a mercanti catalani e francesi, «... & ultimamente
ne have facto partito con Julio Spannochis de una gande
quantitate»; ai tempi di Ferdinando II e Federico, il mercante
Pirro Lauritano ne aveva comprato diverse quantità, prima da
Gaspare Scozio, poi da Colantonio Gagliardo e da Francesco
Piczola, il mediatore catalano Pietro Vaglies aveva trattato il
prodotto «... con molti mercanti di diverse nazioni»; Raymo
Ciolla, misuratore della dogana, «... piu & diverse volte...e
andato in dicta alumera ad pesare multe & diverse quantità
da Alume ad istancia de comparaturi»; Antonio Regulano
ne aveva comprato circa ottocento cantari, all’epoca di re
Federico, e l’aveva caricata a Bagnoli su una nave biscaglina.
L’allume veniva venduto a due ducati al cantaro (poco più
di 89 Kg), di più in caso di baratto, e l’utile era elevatissimo:
«... andando uno ducato de spesa per ciascuno cantaro de
Alume un altro ducato se ne piglia di guadagno». (Cestari
1790). Per Feniello, che riporta la stessa frase nelle tre pubblicazioni citate, il «ricavato, alla vendita» sarebbe stato del
50%: evidentemente per questo Autore anche la matematica
è un’opinione (infatti, il «ricavato» è del 200%, mentre il
guadagno, a cui voleva certo alludere, è del 100%).
Ritornato nel pieno possesso dell’allumiera, il 19 maggio
1501 Giacomo Sannazaro concordò con gli appaltatore
dell’allume di Tolfa, Agostino Chigi e compagni, la vendita
in esclusiva di tutta la produzione, stimata ad un massimo di
5000 cantari l’anno, per 10 anni: sulla produzione totale il
concessionario era però libero di vendere i quantitativi che
il mercato napoletano poteva assorbire ed era autorizzato a
consegnare al mercante fiorentino Salvatore Billi, sulla prima
produzione, gli 850 cantari d’allume venduti in precedenza;
il prezzo pattuito era di 17 carlini e 2,5 quattrini al cantaro
per il primo anno, 17 carlini il secondo anno, e così alternativamente per gli anni successivi (non, come dice Feniello, il
primo prezzo per i primi cinque anni, il secondo per gli altri
cinque); il prodotto non doveva essere rosso, ma «... bono e
recipiente...quale è stato solito farsi per lo passato in la dicta
lumera», e doveva essere trasportato a Bagnoli, per l’imbarco,
a spese dei compratori; questi, inoltre, prestavano a Giacomo
2000 ducati, da restituirsi nell’agosto dell’anno successivo
(Montenovesi 1937). Dato che ci volevano 10 carlini per fare
un ducato, è evidente che il prezzo di vendita era alquanto al di
sotto di quello corrente. Da notare, ancora, che 5000 cantari
corrispondono a più di 445 tonnellate, mentre per Feniello, a
conferma di quanto sopra, sono 250 tonnellate.
Successivamente, secondo le testimonianze riportate da
Cestari, Chigi pagava al Sannazzaro un affitto perché tenesse
32 La Rassegna d’Ischia 6/2009
completamente chiusa l’allumiera: l’affitto, secondo Pietro
Concio, custode maggiore dei fondaci e dogane di Napoli,
era di circa mille ducati l’anno. La cosa fu certamente determinata dalle vicende del tempo: nel settembre dello stesso
1501, infatti, il poeta lasciò Napoli per seguire in esilio il suo
sovrano ed amico (Federico), mentre il Regno passava a Luigi
XII di Francia. Due mesi dopo, il fisco gli intentò causa per
ottenere la restituzione dell’allumiera, per esserne stato «...
spogliato ingiustamente dai fratelli Sannazaro fin dal tempo
di Carlo VIII» (Cestari 1790). Giacomo, che si trovava in
Francia ed era reputato «buon servitore» da Luigi XII, ricorse
al re e questi, il 7 maggio 1502, scrisse a suo cugino, viceré di
Napoli, di assumere sommarie informazioni, senza processo,
e se i diritti del poeta avevano qualche fondamento, «... vui
lo mantenite... pacificamente in dicta possessione..et fando
cessare tutti processi e atti...imponite silenzio al ditto procuratore et altri miei officiali» (Percopo 1931, da trascrizione
contenuta negli atti processuali).
Nel 1517 fu iniziata altra causa contro Giacomo Sannazzaro
e suo nipote Gio. Francesco (figlio del fratello Marco Antonio), da parte degli appaltatori della Dogana e delle Gabelle:
«Pretendevano costoro, che l’Alume non potea né vendersi
in Regno, né fuori senza che si pagasse la gabella del buon
denaro, e il dazio al fondaco della Dogana grande». I Sannazaro sostenevano invece che l’allume di Agnano era sempre
stato immune da gabelle: dai testimoni presentati dalle parti,
apprendiamo che, scaduto il contratto con Agostino Chigi,
l’allumiera era stata affittata ad Antonio Regulano, il quale,
dal 1512, «... ha fatto de continuo lavorare dicta Lumera si
come se lavora al presente», con i Cuccari di Roma e con
Simone Ricasoli (Cestari 1790).
In seguito la produzione divenne sempre più scarsa ed
irregolare, mentre andava aumentando la corrente d’allume
romano verso Napoli, ed è interessante notare che anche navi
ischitane caricavano allume della Tolfa, a Civitavecchia, per
trasportarlo a Londra e nelle Fiandre, almeno negli anni 154143 (Delumeau 1962). Evidentemente nei tempi migliori si era
andata formando una flotta locale per il trasporto dell’allume
d’Ischia, che veniva caricato a Casamicciola in quella che,
fino a tempi recenti, era nota come marina delle lumiere.
A partire dal 1531, nei contratti d’appalto per l’allume di
Tolfa, cominciò ad essere inserito un articolo che impegnava
la Santa Sede a tener chiuse le altre allumiere italiane, ed in
particolare quelle napoletane, a pena di risarcimento (Delumeau 1962). La diversa situazione giuridica delle allumiere
di Ischia e di Agnano non consente, come invece è stato fatto,
di accomunarle riguardo ai metodi utilizzati per ottenere lo
scopo: l’allumiera di Agnano, di proprietà e diritto privato,
consentiva alla Camera Apostolica o agli appaltatori di
concordare la chiusura con i proprietari, mentre, per quanto
riguarda Ischia, poteva essere concordato l’acquisto totale del
prodotto, dai concessionari, oppure, a seconda delle necessità
e dei rapporti, più o meno buoni, con i governanti napoletani,
sollecitarli affinché non rilasciasse concessioni per la produzione o, almeno, che il prodotto non venisse esportato fuori
dal Regno.
Verso il 1536 l’allumiera di Agnano fu visitata da Leandro
Alberti che ci ha lasciato una precisa testimonianza nella fondamentale “Descrizione di tutt’Italia”, pubblicata per la prima
volta nel 1550 (e poi numerose altre volte). Stranamente, essa è
ignorata da tutti gli autori italiani citati; solo Delumeau (1962)
ne dà qualche cenno, ricavato da un autore inglese (Singer):
ritengo quindi utile riportarne i passi salienti. Scrive, dunque,
che passato il colle che chiude la Solfatara, verso oriente, si
inoltrò nella valle dove si fabbricava l’allume con «... le pietre
estratte da questo colle.... Coceno dette pietre nella fornace, e
estratte le compongono insieme, e vi superinfondono l’acqua
estratta di alcuni pozzi che quivi sono, alquanti giorni. Onde
per tale infusione d’acqua tanto sono macerate che in cenere
si risolvono. Di poi estraeno il liscivio di dette ceneri, e lo
ripongono nei vasi di legno. Il quale a poco a poco circa
l’estremità de’ vasi anzidetti congelandosi, che vi rimane
congiunta tal congelatura di grossezza di un’onza, o circa,
che par’un natural ghiaccio, overo cristallo, che fa bisogno
col ferro separarlo. Ella è cosa molto bella da vedere; di
cui gran guadagno se ne cava». Nella successiva descrizione
delle isole (1561 e segg.), parlando di Ischia dice soltanto, per
quel che c’interessa: «... Che sieno quivi le miniere del solfo
e dello Alume, chiaramente si conosce dai Bagni di odore di
solfo molto giovevoli a diversi infermità».
diritto sulle miniere di solfo, vetriolo e altro, e si impegnava
a tutelare il contratto nei confronti di chiunque, anche della
Camera Regia. E poiché egli aveva vincolato tutti i suoi
beni a favore della moglie Beatrice, dichiarava che questa
acconsentiva alla cessione. Ed infatti, il 1° giugno, davanti a
pubblico notaio, Beatrice attestava di non aver alcun diritto
sull’allumiera, che non c’erano ipoteche sui beni dotali del
marito, e che rinunciava espressamente al diritto di fabbricare
allume. Il 14 di maggio dell’anno successivo, per accordo fra
le parti, l’affitto annuo fu trasformato in un pagamento unico
di 23.500 scudi (non 25.000 come dice Feniello), da pagarsi
entro il successivo mese di settembre.
Per eliminare la concorrenza di Agnano, nel 1539 la Camera
apostolica si accordò con Cesare Mormile, succeduto ai Sannazzaro nella proprietà dell’allumiera, il quale s’impegnò a
tenerla chiusa per 14 anni, col compenso di 1000 scudi l’anno;
scaduto il contratto, nel 1552 fu rinnovato per altri 16 anni. A
quanto pare, però, le ultime rate non furono pagate, e l’allumiera riaprì: nel 1567 venivano vendute circa 130 tonnellate
di allume prodotto a “Pozzuoli” (Delumeau 1962). Nello
stesso anno (non nel 1561 come dice Feniello), Gio. Camillo
Mormile vendette la proprietà di Agnano, con la “Lumera”,
a Pietro de Stefano e congiunti, per 20.000 ducati da pagarsi
a rate. La Camera Apostolica reagì intimando a Mormile di
non far lavorare alcuno in terre che, diceva, erano soggette
alla Santa Sede, e, avendo quello ignorato l’ammonizione,
fu condannato «... per aver fatto lavorare, e vendere l’Alume
in Regno... attento che questo Regno è soggetto mediate alla
Sede Apostolica». Il vicerè di Napoli protestò con Filippo II,
sembrandogli la cosa «... di molto pregiudizio alla Giurisdizione di Sua M. poiché pretendono di comandare, e citare, ed
astringere i Laici di questo Regno, come Regno della Chiesa
mediate soggetto». Cestari (1790), dal quale abbiamo tratto
queste notizie, non dice come andò a finire, ma lo sappiamo
grazie a due altri documenti pubblicati da Barbieri (1940): la
Camera apostolica fece marcia indietro e si accordò nuovamente col proprietario dell’allumiera, rimasto lo stesso Gio.
Camillo Mormile perché, evidentemente, la vendita non era
andata a buon fine. L’accordo prevedeva che, a partire dal 15
agosto 1568, Mormile avrebbe tenuta ferma l’allumiera per
15 anni, in cambio di 1000 scudi l’anno.
Da notare che Cestari, non avendo letto Iasolino e male
informato sui contenuti, attribuisce la produzione dei 1500
cantari ad Agnano e, su tale produzione, basa i suoi ipotetici
conti sulla perdita subita dallo Stato per la chiusura forzosa
di quella miniera.
All’avvicinarsi della scadenza, il 28 maggio 1582 Mormile
cedette ogni diritto sull’allumiera al Sommo Pontefice e alla
Camera Apostolica, impegnandosi a non fabbricare allume, in
perpetuo, in cambio di 1300 scudi l’anno; manteneva però il
Per quanto riguarda Ischia, intorno alla metà del Cinquecento vi si lavorava certamente: Cestari segnala due atti d’affitto
per l’ Alumiera, uno del 1548 per 500 ducati l’anno, l’altro
del 1560 per 1000 ducati l’anno. E si lavorava ancora (o di
nuovo ?) intorno al 1585, come apprendiamo da Iasolino
(1588) che ci dà poche ma interessanti informazioni: «qui
vicino (al Monte e alla Casa Cumana) sono le Alumiere, nelle
quali ogni anno quasi si fa tanta copia d’alume, che ascende
al numero di mille e cinquecento cantara....Sono anche minere
d’alume in molte parti dell’isola, e specialmente vicino al
Monte della Guardia».
La produzione d’Ischia, seppur modesta, dava pretesto agli
appaltatori dell’allume romano di chiedere un risarcimento
alla Camera Apostolica: nel 1590, al termine del loro contratto
iniziato nel 1578, Olgiatti e Ridolfi chiesero un risarcimento
di 6.500 scudi «... per il torto subito nei primi quattro anni del
nostro contratto, perché le alumiere d’Ischia non sono state
chiuse contrariamente alle convenzioni» (Delumeau 1962).
Da questo si ricava che la produzione, ad Ischia, cessò nel
1582.
Negli ultimi anni del secolo i commercianti e gli utilizzatori
d’allume del Regno presero a protestare contro il regime di
monopolio dell’allume romano, che erano costretti a pagare
otto denari al cantaro, mentre lo stesso prodotto ne costava sei
a Venezia. La Camera Regia liberalizzò l’importazione degli
allumi e concesse la riapertura delle allumiere di Agnano e di
ischia, ma per breve tempo, perché, a seguito delle proteste
romane, «... Nel 1608 il viceré rinnovava il divieto, in favore
della Camera apostolica » (Zippel 1907).
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All’Archivio di Stato di Genova sono stati consultati documenti
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DIVERSORUM COMMUNI JANUAE, nn. 3047, 3048,
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NOTAIO GALLO ANTONIO, n. 143
La Rassegna d’Ischia 6/2009 35
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Oro e Allume nella storia dell`isola d`Ischia