- - - - LE ARTI-- RASSEGNA MUSICALE. Durante il mese di gennaio e fino al primo di febbraio incluso i teatri lirici italiani hanno messo in scena alcune novità di nostri autori, le quali, come di solito accade in queste circostanze, hanno riunito, ora in questa, ora in quella città, i critici musicali dei principali giornali e riviste della Penisola. A leggere i resoconti della gran parte di tali critici si può dedurre che tutte le novità, dal Candeliere di Ezio Carabella, su libretto di Emidio Mucci, al Re Hassan di Giorgio Federico Ghedini, su libretto di Tullio Pinelli, rappresentatisi, il primo al Carlo Felice di Genova, il secondo alla Fenice di Venezia, hanno avuto, come si dice, una buona stampa e, da parte del pubhlico, delle accoglienze favorevoli. Tutte .... meno una, l'eccezione essendo costituita proprio dall'opera ·per la quale, almeno nel pubblico, maggiore era l'aspettativa, data la popolarità e i precedenti successi dell'autore. Il lavoro in questione è la Dama boba di Ermanno W olf Ferrari, su libretto di Mario Ghisalberti, datasi alla Scala di Milano la sera del primo febbraio. Con che non si vuoI sottintendere che la Dama boba sia « caduta »; il bilancio della serata registra al contrario un successo. Ma, in verità, è stato un suceesso alquanto stentato e, come dire, a bassa temperatura: fatto insolito per un'opera di Wolf Ferrari, compositore « moderno» fra i pochissimi amati dal pubblico italiano. Quanto a noi, la Dama boba è la sola novità alla quale abbiamo assistito; e purtroppo non possiamo dissentire dal giudizio che ne ha dato la quasi totalità della critica. Un desiderio di semplicità estrema o forse l'aspirazione ad un nuovo tipo di commedia lirica o più probabilmente un malaugurato inaridimento della « vena» han portato in questi ultimi anni Ermanno W olf Ferrari a prediligere una forma di teatro musicale dal dialogo sempre più abbondante e scoperto, e dalla musica sempre meno invadente e sostanziosa. Dalle Donne curiose ai Quattro rusteghi, alla Vedova scaltra, la musica di Wolf Ferrari è come un braccio di mare non profondo, ma limpido e tranquillo, che si sia ottimamente allungato e sistemato sulla fertile terra del libretto. Il libretto, cioè, appare in queste opere interamente o quasi « coperto» dalla musica; e sebbene questa non risulti in ultima analisi che il grazioso e superficiale prodotto di un'assimilazione (assimilazione di quanto l'opera giocosa ha creato da Mozart a Rossini, via via fino a Verdi del Falstaff), nondimeno la facilità della vena melodica, l'ele- -297 - ganza della scrittura, il buon gusto della strumentazione fanno delle Donne curiose, dei Qua.ttro rusteghi e della Vedova scaltra delle opere piacevoli e scorrevoli. A prescindere dagli autentici valori di originalità, di stile e di interiore forza drammatica, noi abbiamo quasi sempre riscontrato in questi lavori un felice modo di « rifare il verso» a questo o a quel musicista del pas~ato. Tanto felice e, in certo senso, tanto spontaneo, che siamo riusciti talvolta fino a dimenticarci degli antichi aulici modelli, e a godere con gl'ignari le simpatiche, fluenti pagine melodiche, o gli spigliati, leggeri scorci ritmici delle più indovinate scene dei Rusteghi o della Vedova scaltra. Gli è, per l'appunto, che tali scene, già di per sè « parlanti» nel libretto, maggior forza cd evidenza rappresentativa avevano acquistato dalla musica, la quale le aveva totalmente assorbite in sè. Col Campielo le acque della musica wolferrariana hanno cominciato a ritirarsi dalle placide rive del libretto; ed ora questa Dama boba è un'opera veramente a bassa marea, in cui la gran parte degli episodi scenici, e proprio quelli che dovrebbero dare il tono all'opera, emergono come tanti isolotti nudi e rocciosi sulle timide onde del suono orchestrale. Nè quel che c'è di musica è della migliore che sia scaturita dalla fantasia del nostro compositore; in particolare è una musica dalla melodia fiacca e generica, senza il mordente capace di trasfigurare la parola, mettendo a giusto « fuoco» il senso che vi è riposto. Nella Dama boba si trattava di creare il personaggio della fanciulla boba, cioè sciocca, stolta, tonta: com'è nella commedia di Lope de Vega, da cui Mario Ghisalberti ha ricavato il libretto; e trasformarla poi, per virtù d'amore, in una ragazza scaltra e intelligente. Ora W olf Ferrari è mancato proprio nel rendere la psicologia della ragazza scema, lasciando per lo più al dialogo il compito di rappresentare l'incredibile ignoranza e babbeaggine di Finea; ed intervenendo più « direttamente» soltanto, per cosÌ dire, a cose fatte: quando ormai Finea, mentalmente fecondata dall'amore di Lorenzo, è diventata una fanciulla normale e astuta e spiritosa. Ciò avviene verso la fine del secondo atto, dopo una lunga serie di recitativi e declamati e parlati vari, che nulla aggiungono e nulla tolgono all'anemico d.ialogo della commedia. E troviamo finalmente il W olf Ferrari delle melodie meIate ed espansive, il W olf Ferrari che, con i mezzi lievi ed eleganti che tutti conoscono (ma quanto più lievi del solito in questa Dama boba), riesce a concretare e circoscrivere musicalmente un episodio dramma- ,- --- - 298 - tico, a dargli per lo meno una cornice e uno sfondo. Più precisamente ritroviamo qui il W olf Ferrari della canzone dipanata e amplificata a larghe onde concentriche; il Wolf Ferrari, insomma, che, nel sospiroso regime della canzone o della serenata o della barcarola o delle espressioni liriche affini, sa governare il suono vocale e orchcstrale con grande abilità, riuscendo a sostenere un'intera scena mediante il minuscolo apporto, magari, di un solo motivo popolare o popolaresco. Che è per l'appunto il caso del duetto Finea-Lorellzo, al secondo atto: duetto, naturalmente, d'amore. Da questo punto in poi le cose procedono meglio: con maggiore pienezza e fluidità musicale. II motivo del duetto è largamente sfruttato, c riappare più volte nello stesso secondo atto e nel terzo, dove assume la funzione di motivo conclusivo dell'opera. Ma nel terzo atto, che ci sembra il migliore, ossia il più sveglio e nutrito, c'è ancora qualcosa di buono: la brevc scena in cui Finea, diventata scaltra, si finge sciocca. Ebbene qui, finalmente, il senso della « tonteria» di Finea è reso efficacemente; proprio quando la fanciulla s'esprime, come avverte il libretto, « con voce da bambina, con espressione da idiota». Poche parole, bene intonate, bene accentate e pausate, scivolanti su di un vetro d'orchestra estremamente sottile, riescono a darci il senso di tale idiozia, vuoi o non vuoi simulata. Se Wolf Ferrari fosse riuscito a caratterizzare Finea cosÌ felicemente fin dal principio dell'opera, la Dama boba, sia pure con le limitazioni da porsi all'intero teatro wolferrariano, sarebbe lavoro da non sfigurare al paragone dei suoi maggiori fratelli. Dopo dieci anni d'assenza è tornato sulle scene del Teatro Reale dell'Opera il Fra Gherardo di Ildebrando Pizzetti, diretto da Tullio Serafin. Opera non « nuova», dunque; soprattutto perchè non più « nuovo)) è ormai il nostro compositore al pubblico romano, tutti i suoi lavori teatrali, dalla Fedra all'Orseolo, dalla Debora allo Straniero, essendo stati nel frattempo eseguiti nella nostra città. Attraverso questi contatti si è avuto modo di conoscere abbastanza a fondo il teatro pizzettiano (abbastanza, dato il numero limitato delle recite), di penetrare sufficientemente nelle idealità che lo sostengono. Insistere ancora, pertanto, sulla logora questione chc concerne il « sistema» del declamato pizzettiano, sulle possibilità o meno di esso declamato a concretarsi in spontanea, irrefrenabile creazione artistica, è cosa che, genericamente, può considerarsi cc superata ». Me- - - - -.- -.- .- .- LE ARTI - ---- glio è porsi dinnanzi al Fra Gherardo, come agli altri lavori di Pizzetti, considerando unicamente la realtà sonora e il dramma che palpita entro di essa, senza far differenze aprioristiche fra la realtà che si attua in forza del declamato e quella che si attua in forza del canto; tanto più che non semprc il canto, come si sa, è sinonimo di musica, e viceversa. Lo stesso Pizzetti ci ha dato più musica in certe pagine di declamato, ad esempio, di Debora, che in altre di canto melodicamente spiegato, ad esempio di Orseolo. Senza scendere al dettaglio, la realtà sonora di Fra Gherardo ci si mostra in tre aspetti fondamentali, i quali coincidono pressappoco con i tre protagonisti del lavoro: Gherardo, Mariola c il popolo di Parma. Gherardo, le sue aspirazioni, i suoi tormenti, i suoi furori, i suoi , pentimenti, insomma tutta la sua coscienza complessa e contraddittoria di povero uomo fanatizzato da un disegno di giustizia umana troppo più grande di lui: Gherardo si concreta musicalmente in una sorta di sostanza vocale densa, opaca, cupa, dura, che si distende nell'opera seguendo il fluire del discorso verbale, gonfiandosi e agitandosi, placandosi e turbando si dell'intima commozione della parola. II « tracciatO)) musicale di questo personaggio è quasi rettilineo nell'insieme; vale a dire rare sono le grandi curve, le ampie anse in cui il discorso s'inarchi librandosi sulle ali del canto. Ma movimentato di asperità, variato di accenti e so ttolineature, il discorso di Gherardo appare di frase in frase, talora di parola in parola; ed è attraverso queste articolazioni c( interne» del declamato che bisogna cogliere il dramma del tormentato personaggio. Al suo confronto Mariola è più chiara ed evidente, perchè è più musicalmente sintetizzata. Ma la figura di Mariola è innanzi tutto più decisa perchè più illuminato e sicuro è l'animo suo. Mariola è infatti pilI istintiva, più semplice e ardente, in una parola più umana. Ella è il sentimento senza complicazioni, laddove Gherardo è una specie di problema condannato a 'non risolversi. Gherardo ragiona e conciona, in balìa di forze che lo stringono d'ogni parte, che ne premono d'ogni lato l'oscura coscienza. Mariola, invece, è una donna libera, padrona di sè c del suo amore, della sua gioia e della sua pena. Tutto ciò si sente benissimo, anche se Mariola, al pari di Gherardo, talora declami. La differenza sta per l'appunto nella sostanza del declamato, che sulle labbra dclla fanciulla sboccia più fresco e leggero, più limpido e cordiale. E ancora meglio si sente nel canto vero e proprio, diciamo pure nella LE ARTI - - - - - -- - -- - - - - - - -- - - - - 2 9 9 - - melodia, in cui si raccoglie e condensa il racconto del secondo atto; non, si badi bene, In quanto melodia a sè stante, ma sibbene m quanto melodia di quel momento, di quella situazione drammatica. Il terzo protagonista del dramma, il popolo di Parma, è il coro. Il coro declama e canta nel medesimo tempo; ma con una tale spontaneità e immediatezza d'espressione, che a momenti non""si sa dove finisca la declamazione e dove cominci il canto. Veramente nel Fra Gherardo il coro ha quel colore « incolore», ossia difficilmente determinabile, della folla accesa da un sentimento improvviso e incontrollabile. Il coro del Gherardo è, propriamente, anima di popolo schietto, cui la commozione e l'ispirazione del musicista, nonchè il suo magistero tecnico, dànno perfetta forma artistica, senza che questa s'irretisca negli schemi e nei modi d'una fredda esposizione accademica. La sostanza sonora del coro non è mai inerte, nè opaca. Essa è al contrario agitata da scatti passionali, accesa da fulgori metallici. Lungo i due primi atti le parole vi battono sopra come il martello sul ferro molle e incandescente appena uscito dalla fucina. Nell'ultimo atto, infine, il metallo corale prende la sua forma definitiva, duratura e indimenticabile. Quivi, atterrita e sgomenta, la folla della povera gente, della gente più povera e negletta di Parma, sembra come squassata dall'incubo d'una catastrofe naturale, come fuggita dalle livide macerie d'una città distrutta dal terremoto: gente « vera», gente di tutti i giorni e di tutti i paesi, gente che si prostra urlando nelle piazze, che si tra~cina bocconi sui pavimenti polverosi delle chiese di campagna, che striscia con la sua miseria gemente fin sui gradini dell'altare maggiore, ad invocare disperatamente la grazia. Tutto ciò che di più emotivo è nell'ultimo atto si sprigiona per l'appunto dal coro di questa gente invasata e terrorizzata. Ora unito in un insieme compatto e travolgente, ora diviso in due sottocori, - dei quali, mentre l'uno sommessamente prega in una sorta di lamentazione affannata, l'altro dialoga concitatamente in disparte -, il coro riempie di sè l'intera scena conclusiva del dramma, e la dilata, le imprime un empito straordinario. Vorremmo dire, a mo' di conclusione, che il coro rappresenta il punto di confluenza e di amplificazione di tutte le vibrazioni drammatiche sparse nel Fra Gherardo. Esse vi giungono attraverso il declamato dei vari personaggi, e il coro le raccoglie e le intensifica con i mezzi fonici, - proprio di vastità sonora, di « dimensioni» -, che gli sono peculiari. 12 Un altro « ritorno » romano, anche questo interessantissimo e, per molti aspetti, non privo di attualità, è stato quello della Salome di Strauss. L'opera più corposa del compositore bavarese figurava in uno spettacolo tripartito (direttore Serafin), di cui, insieme ad un balletto ricavato dalle suite respighiane delle Antiche danze e arie, faceva parte altresì l'opera più scarna e sottile di Malipiero: Il finto Arlecchino. Anche qui il termine « scarno» va inteso nel senso propriamente malipieriano di una musica essenziale, ridotta all'intima vibrazione poetica, sfrondata di tutto il sovrappiù (melodico, armonico, timbrico) non necessario. Anche qui, cioè, ritroviamo, e sia pure nell'occasionale veste settecentesca della commedia veneziana (il Finto Arlecchino, come si sa, è la seconda parte della trilogia Il mistero di Venezia, composto intorno al 1925-28), il Malipiero amaro, ironico, malinconico, il Malipiero antirettorico, il Malipiero, in qualche modo, « contro il mondo» della produzione più significativa, cosÌ teatrale come sinfonica. Ritroviamo in altri termini quel Malipiero intriso di dolore, cui si accennava nella Rassegna precedente, a proposito della Missa pro Mortuis. E per convincersene basterebbe considerare appena l'Arlecchino di quest'operina breve e succosa. Quale Arlecchino ci ha dato mai il teatro, - di prosa, di musica -, più sconsolato e sofferto di questo? Poco importa che Arlecchino sia « finto», e che sotto la sua maschera si nasconda un qualsiasi innamorato di Rosaura. È il senso umano di tale finzione che conta nell'atto di Malipiero: il senso, diremmo quasi, della « maschera». Perchè Don Ippolito copre il volto e si finge Arlecchino, allo scopo di conquistare l'amore di Donna Rosaura? Sembra rispondere Malipiero con la sua musica: perchè è questo il destino ingrato dell'uomo, di dover sovente apparire quel che non è, di dover usare le armi dell'astuzia e della finzione, per vincere le sue battaglie e salvare quel che resta di salvabile della sua umanità. C'è dunque molto di più nel Finto Arlecchino che non una semplice graziosa ed elegante rievocazione del Settecento veneziano. Per meglio dire c'è, sì, la galante rievocazione settecentesca, ma presentata sotto una luce del tutto nuova, dai riflessi talora crudi e taglienti. In ciò risiede il fascino maggiore del lavoro, nel modo in cui il Malipiero uomo e artista alimenta della sua personalità inconfondibile le fibre della lieve commedia, nel modo in cui vecchi schemi e personaggi convenzionali, sepolti sotto due secoli di rettorica, appaiono « riesumati » dallo spirito di una musicalità del tutto attuale e vivente. -- --- 298 - tico, a dargli per lo meno una cornice e uno sfondo. Più precisamente ritroviamo qui il W olf Ferrari della canzone dipanata e amplificata a larghe onde concentriche; il WoH Ferrari, insomma, che, nel sospiroso regime della canzone o della serenata o della barcarola o delle espressioni liriche affini, sa governare il suono vocale e orchestrale con grande abilità, riuscendo a sostenere un'intera scena mediante il minuscolo apporto, magari, di un solo motivo popolare o popolaresco. Che è per l'appunto il caso del duetto Finea-Lorenzo, al secondo atto: duetto, naturalmente, d'amore. Da questo punto in poi le cose procedono meglio: con maggiore pienezza e fluidità musicale. II motivo del duetto è largamente sfruttato, e riappare più volte nello stesso secondo atto e nel terzo, dove assume la funzione di motivo conclusivo dell'opera. Ma nel terzo atto, ch e ci sembra il migliore, ossia il più sveglio e nutrito, c'è ancora qualcosa di buono: la breve scena in cui Finea, diventata scaltra, si finge sciocca. Ebbene qui, finalmente, il senso della « tonteria» di Finea è reso efficaccmente; proprio quando la fanciulla s'esprime, come avverte il libretto, « con voce da bambina, con espressione da idiota». Pochc parole, bene intonate, bene accentate e pausate, scivolanti su di un vetro d'mchestra estremamente sottile, ricscono a darci il senso di tale idiozia, vuoi o non vuoi simulata. Se WoH Ferrari fosse riuscito a caratterizzare Finca cosÌ felicemente fin dal principio dell'opera, la Dama boba, sia pure con le limitazioni da porsi all'intero teatro wolferrari ano, sarebbe lavoro da non sfigurare al paragone dei suoi maggiori fratelli. Dopo dieci anni d'assenza è tornato sulle scene del Teatro Reale dell'Opera il Fra Gherardo di Ildebrando Pizzetti, diretto da TuIlio Serafin. Opera non « nuova», dunque; soprattutto perchè non più « nuovo» è ormai il nostro compositore al pubblico romano, tutti i suoi lavori teatrali, dalla Fedra all'Orseolo, dalla Debora allo Straniero, essendo stati nel frattempo eseguiti nella nostra città. Attraverso questi contatti si è avuto modo di conoscere abbastanza a fondo il teatro pizzettiano (abbastanza, dato il numero limitato delle recite), di penetrare sufficientemente nelle idealità ehe lo sostengono. Insistere ancora, pertanto, sulla logora questione che concerne il « sistema» del declamato pizzettiano, sulle possibilità o meno di esso declamato a concretarsi in spontanea, irrefrenabile creazione artistica, è cosa che, genericamente, può considerar;;i « superata». Me- LE ARTI - --glio è porsi dinnanzi al Fra Gherardo, come agli altri lavori di Pizzetti, considerando unicamente la realtà sonora e il dramma che palpita entro di essa, senza far differenze aprioristiche fra la realtà che si attua in forza del declamato e quella che si attua in forza del canto; tanto più che non sempre il canto, come si sa, è sinonimo di musica, e viceversa. Lo stesso Pizzetti ci ha dato più musica in certe pagine di declamato, ad esempio, di Debora., che in altre di canto melodicamente spiegato, ad esempio di Orseolo. Senza scendere al dettaglio, la realtà sonora di Fra Gherardo ci si mostra in tre aspetti fondamentali, i quali coincidono pressappoco con i tre protagonisti del lavoro: Gherardo, Mariola e il popolo di Parma. Gherardo, le suc aspirazioni, i suoi tormenti, i suoi furori, i suoi . pentimenti, insomma tutta la sua coscienza complessa e contraddittoria di povero uomo fanatizzato da un disegno di giustizia umana troppo più grande di lui: Gherardo si concreta musicalmente in una sorta di sostanza vocale densa, opaca, cupa, dura, che si distende nell'opera seguendo il fluire del discorso verbale, gonfiandosi e agitandosi, placandosi e turbandosi dell'intima commozione della parola. II « tracciatO» musicale di questo personaggio è quasi rettilineo nell'insieme; vale a dire rare sono le grandi curve, le ampie anse in cui il discorso s'inarchi librandosi sulle ali del canto. Ma movimcntato di asperità, variato di accenti e sottolineature, il discorso di Gherardo appare di frase in frase, talora di parola in parola; ed è attraverso queste articolazioni « interne» del declamato che bisogna cogliere il dramma del tormentato personaggio. AI suo confronto Mariola è più chiara ed evidente, perchè è più musicalmente sintetizzata. Ma la figura di Mariola è innanzi tutto più decisa perchè più illuminato e sicuro è l'animo suo. Mariola è infatti più istintiva, più semplice e ardente, in una parola più umana. Ella è il sentimento senza complicazioni, laddove Gherardo è una specie di problema condannato a -non risolversi. Gherardo ragiona e conciona, in balìa di forze che lo stringono d'ogni parte, che ne premono d'ogni lato l'oscura coscienza. Mariola, invece, è una donna libera, padrona di !'oè e del suo amore, della sua gioia e della sua pena. Tutto ciò si sente benissimo, anche se Mariola, al pari di Gherardo, talora declami. La differenza sta per l'appunto nella sostanza del declamato, che sulle labbra della fanciulla sboccia più fresco e leggero, più limpido e cordiale. E ancora meglio si sente ncl canto vero e proprio, diciamo pure nella LE ARTI - -- - - -- - - - - - - - -- - - -- - 2 9 9 - - melodia, in cui si raccoglie e condensa il racconto del secondo atto; non, si badi bene, In quanto melodia a sè stante, ma sibbene In quanto melodia di quel momento, di quella situazione drammatica. Il terzo protagonista del dramma, il popolo di Parma, è il coro. Il coro declama e canta nel medesimo tempo; ma con una tale spontaneità e immediatezza d'espressione, che a momenti non si sa dove finisca la declamazione e dove cominci il canto. Veramente nel Fra Gherardo il coro ha quel colore « incolore», ossia difficilmente determinabile, della folla accesa da un sentimento improvviso e incontrollabilc. Il coro del Gherardo è, propriamente, anima di popolo schietto, cui la commozione e l'ispirazione del musicista, nonchè il suo magistero tecnico, dànno perfetta forma artistica, senza che questa s'irretisca negli schemi e nei modi d'una fredda esposizione accademica. La sostanza sonora del coro non è mai inerte, nè opaca. Essa è al contrario agitata da scatti passionali, accesa da fulgori metallici. Lungo i due primi atti le parole vi battono sopra come il martello sul ferro molle e incandescente appena uscito dalla fucina. Nell'ultimo atto, infine, il metallo corale prende la sua forma definitiva, duratura e indimenticabile. Quivi, atterrita e sgomenta, la folla della povera gente, della gente più povera e negletta di Parma, sembra come squassata dall'incubo d'una catastrofe naturale, come fuggita dalle livide macerie d'una città distrutta dal terremoto: gente « vera», gente di tutti i giorni e di tutti i paesi, gente che si prostra urlando nelle piazze, che si trascina bocconi sui pavimenti polverosi delle chiese di campagna, che striscia con la sua miseria gemente fin sui gradini dell'altare maggiore, ad invocare disperatamente la grazia. Tutto ciò che di più emotivo è nell'ultimo atto si sprigiona per l'appunto dal coro di questa gente invasata e terrorizzata. Ora unito in un insieme compatto e travolgente, ora diviso in due sottocori, - dei quali, mentre l'uno sommessamente prega in una sorta di lamentazione affannata, l'altro dialoga concitatamente in disparte -, il coro riempie di sè l'intera scena conclusiva del dramma, e la dilata, le imprime un empito straordinario. Vorremmo dire, a mo' di conclusione, che il coro rappresenta il punto di confluenza e di amplificazione di tutte le vibrazioni drammatiche sparse nel Fra Gherardo. Esse vi giungono attravcrso il declamato dei vari personaggi, e il coro le raccoglie e le intensifica con i mezzi fonici, - proprio di vastità sonora, di « dimensioni» -, che gli sono peculiari. 12 Un altro « ritorno» romano, anche questo interessantissimo e, per molti aspetti, non privo di aUualità, è stato quello della Salome di Strauss. L'opera più corposa del compositore bavarese figurava in uno spettacolo tripartito (direttore Serafin), di cui, insieme ad un balletto ricavato dalle suite respighiane delle Antiche danze e arie, faceva parte altresÌ l'opera più scarna e sottile di Malipiero: Il finto Arlecchino. Anche qui il termine « scarno» va inteso nel senso propriamente malipieriano di una musica essenziale, ridotta all'intima vibrazione poetica, sfrondata di tutto il sovrappiù (melodico, armonico, timbrico) non necessario. Anche qui, cioè, ritroviamo, e sia pure nell'occasionale veste settecentesca della commedia veneziana (il Finto Arlecchino, come si sa, è la seconda parte della trilogia Il mistero di Venezia, composto intorno al 1925-28), il Malipiero amaro, ironico, malinconico, il Malipiero antirettorico, il Malipiero, in qualche modo, « contro il mondo» della produzione più significativa, cosÌ teatrale come sinfonica. Ritroviamo in altri termini quel Malipiero intriso di dolore, cui si accennava nella Rassegna precedente, a proposito della Missa pro Mortuis. E per convincersene basterebbe considerare appena l'Arlecchino di quest'operina breve e succosa. Quale Arlecchino ci ha dato mai il teatro, - di prosa, di musica -, più sconsolato c sofferto di questo? Poco importa che Arlecchino sia « finto», e che sotto la sua maschera si nasconda un qualsiasi innamorato di Rosaura. ~ il scnso umano di tale finzione che conta nell'atto di Malipiero: il senso, diremmo quasi, della « maschera». Perchè Don Ippolito copre il volto e si finge Arlecchino, allo scopo di conquistare l'amore di Donna Rosaura? Sembra rispondere Malipiero con la sua musica: perchè è questo il destino ingrato dell'uomo, di dover sovente apparire quel che non è, di dover usare le armi dell'astuzia e della finzione, per vincere le sue battaglie e salvare quel che resta di salvahile della sua umanità. C'è dunque molto di più nel Finto Arlecchino che non una semplice graziosa ed elegante rievocazione del Settecento veneziano. Per meglio dire c'è, si, la galante rievocazione settecentesca, ma presentata sotto una luce del tutto nuova, dai riflessi talora crudi e taglienti. In ciò risiede il fascino maggiore del lavoro, nel modo in cui il Malipiero uomo e artista alimenta della sua personalità ineonfondibile le fibre della lieve commedia, nel modo in cui vecchi schemi. e personaggi convenzionali, sepolti sotto due secoli di rettori ca, appaiono « riesumati )) dallo spirito di una musicalità del tutto attuale e vivente. ---300 La rassegna degli spettacoli lirici al Teatro Reale dell'Opera non può concludersi senza citarc, sia pure di volata, la rappresentazione diretta da Serafin, dell'Obel'on di Weber, nuovo per Roma; l'allestimento di duc lavori, anche questi nuovi per Roma, ma già noti altrove: la Nave di Italo Montemezzi e la Figlia del Re di Adriano Lualdi; del balletto di Manuel De Falla Il cappello a tre punte (direttore Oliviero De Fabritiis); dell'Emani di Verdi (direttore Serafin); altro contributo, secondo noi necessario, alla conoscenza integrale del nostro massimo operista; e finalmente la ripresa del Tristano e lsotta diretto da Victor De Sabata e interpretato da artisti tedeschi del Teatro di Bayreuth: un autentico avvenimento che ha costituito il maggiore successo della stagione. Quanto ai concerti sinfonici all'Adriano, fra i più interessanti vanno annoverati i due concerti diretti da Vittorio Gui, che ha presentato programmi nutriti di pezzi nuovi o poco conosciuti, quali la Partita di Luigi Dallapiccola, due tempi d'una Sinfonia di Ghedini, la Nenia di Brahms e il Natale di Ugo Wolf. Fernando Previtali, poi, ha fatto conoscere uno dei lavori più significativi di questi ultimi tcmpi: la Mu- sica per strumenti a corda, xilofono, celeste e batteria del compositore ungherese Bela Bartok, che lo stesso Previtali diresse al Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia del 1937. II titolo della composizione è già di per se stesso eloquente. Invero non potrebbe intitolarsi altrimenti che ~(musica II questo pezzo in cui non c'è una sola battuta che non vibri se non d'emozione musicale, di immediata ebbrezza sonora. È proprio il modo di nascere e d'effondersi del suono, il modo con cui il suono « cerca II gli affratellamenti timbrici o contrappuntistici che più gli convengono, il suo distendersi o contrarsi nel ritmo, chc genera e impone la forma di ciascuno dei quattro tempi della Musica. La logica del discorso musicale, una ferrea logica priva di qualsiasi digressione superflua, ha la sua base nei nuclei motori essenziali dei quattro movimenti. L' « idea II musicale qui è effettivamente tutto; è la vera madre, riconoscibilissima, delle filiazioni dialettiche che seguiranno. Ancora una volta il cosiddetto oggettivismo musicale si rivela dunque totalmente .... soggettivo: appunto in forza dell'inscindibile coesione fra le varie parti del discorso sonoro e del loro scaturire da un unico soggetto inspirativo. L'impressione che questa Musica suscita nell'ascoltatore è singolarissima. A momenti - LE ARTI sembra che la composizione si sviluppi per suo conto, per una sorta di fenomeno naturale che esclude il concorso della mcnte umana. La stessa natura dei temi, lo stesso colore degli impasti orchestrali, la stessa struttura dei ritmi, di rado fanno pensare ai tcmi, alle armonie, al colore strumentale della musica « normale ll. Ad escmpio, lo xilofono, il secco e legnoso xilofono, ncl quale si riflettono di solito gli atteggiamenti ironici o caricaturali o grotteschi di tanta musica contempOl'anea, ha nell' « adagio II il senso allucinato come dei rintocchi laceranti dell'incudine. La composizione dell'orchestra, la divisione degli archi in un doppio quintetto, l'impiego del pianoforte, dell'arpa, della celesta e dei timpani: tutto o quasi tutto in questa musica è originale, fuor del comune e del già fatto, del facilmente suggestivo e pittoresco. Se non temessimo di sfiorare il paradosso, diremmo che Bartok con la sua Musica ha « inventato II una nuova orchestra: l'orchestra, naturalmente, di quelle « idee II cui s'è accennato dianzi. Difficilissimo è perciò troval'e dei riferimenti storici a questo lavoro. COlI molta approssimazione ci si potrebbe richiamare ad alcune parti dell'Apollo musagete di Stravinski. Ma la Musica è mossa da un fervore, da un'energia emotiva, da un calore lirico dei quali soltanto a tratti è provvista la squisita esercitazione stilistica stravinskiana. Energia emotiva: cioè sentimento inspiratorc. Giacchè, (ulteriore avvertimento agli anti.... oggettivisti), non si creda all'estrema purezza e rarefazione di questo lavoro come ad una realtà sonora arida e scardinata dalla vita. Ma, come avviene di tanta musica musicale da Bach a Hindemith, qui il sentimento nasce col suono stesso, si identifica col suono e con esso procede e si sviluppa. Vogliamo dire, per concludere, che l'apparente astrattezza della Musica non prova affatto la mancanza entro di essa di una volontà e di una coscienza umana. LUIGI COLACICCHI. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. MACCARI. - Segno di sveglia attenzione, da parte della critica d'arte più catafratta sull'antico, questo saggio di Longhi su Maccari l), in occasione di una Mostra, che tenuta fuor di stagione, poteva passare inosservata (e così press'a poco avvenne) anehe per le più aggiornate effe1) R. LONGHI. MACCARI. Arcobaleno, pp. 7-8, novembre-dicembre, 1933-XVII, Venezia.