Intervista al professionista
Daniele Pellegrini e i grandi
reportage di viaggio
I grandi reportage
di viaggio di
Daniele Pellegrini
sono stati pubblicati
dalle maggiori riviste,
da Airone a Geo,
da Grands Reportages a
Terre Sauvage.
Daniele ci racconta
le difficoltà di affrontare
le diverse situazioni
e di comunicare
con la gente dei diversi
paesi, e poi i cambiamenti
avvenuti nella tecnica
fotografica.
Architetture di Napata, nella Nubia che si
estende tra la prima e la sesta cateratta
del Nilo. Posa lunga con fotocamera su
treppiede, come testimonia la traccia delle stelle; colpi di flash, a mano, davanti a
ciascuna costruzione.
Daniele Pellegrini e Cesare Gerolimetto sono entrati nel Guinness dei primati per avere effettuato il primo giro del mondo in camion, un autocarro Fiat-Iveco con ottime
capacità di fuoristrada. È stata la realizzazione di un sogno a lungo coltivato; l’impresa, durata due anni e otto mesi, è stata
celebrata da un bel libro e soprattutto ha
prodotto una sterminata messe di immagini che sono state raccolte nei corposi archivi
fotografici dei due protagonisti.
Al di là di questa impresa Daniele Pellegrini e Cesare Gerolimetto sono tra i migliori documentaristi, spesso presenti con
ampi reportage su numerose testate. Daniele
Pellegrini è stato anche il fotografo ufficiale
della rivista Airone assolvendo ad incarichi
estremamente mirati, spesso anche molto
impegnativi. L’abbiamo intervistato.
In primo luogo: come sono cambiati i
tempi nel particolare mondo della fotografia “documentaristica” per l’editoria?
Posso essere telegrafico: prima ero un fotografo esclusivamente “con pellicola”, che
quasi non sapeva cosa fosse uno scanner.
Lavorando per un solo committente, pur
con elevate esigenze di qualità, non avevo
la necessità di operare in modo digitale. Oggi la situazione è molto cambiata. Infatti
Il supergrandangolare nel ritratto. Il soggetto è un Kirghiso.
opero come free-lance per diverse testate.
Mi sono adeguato al digitale e l’uso di Photoshop è divenuto familiare. Tra l’altro tutte le fotografie sono, ormai, espressamente
richieste in forma digitale. E come tali vengono fornite alle riviste, da Grazia Neri che
è l’agenzia che mi rappresenta.
Però scatti ancora diverse immagini su
diapositiva. Sei davvero soddisfatto della
qualità della fotografia digitale?
Le agenzie semplificano: “basta che il file
sia di almeno 30 Megabyte, poi eventuali
aggiustamenti si fanno con Photoshop”. L’affermazione è sbrigativa, se pur vera. Certamente i tempi sono cambiati.
Commercialmente ciò che importa è fare in
fretta: ogni immagine va fornita con immediatezza. Se si aspetta anche soltanto un giorno, l’occasione è persa; la competizione è
Ci si disseta, a Makallé.
Un branco di renne ed un ritratto al
mandriano tra gli animali.
Powow, danza tradizionale di pellirosse; luce ambiente e colpo di flash.
spesso giocata sulla quantità più che sulla
qualità, sulla velocità del servizio. Pur con
queste premesse, e anche perché per carattere sono un perfezionista, spesso adopero
comunque la diapositiva, anche per sfruttare una specifica esperienza in ripresa.
Alcune grandi agenzie dichiarano di archiviare le foto ad elevata risoluzione, addirittura a 50 Megabyte.
Scattare in diapositiva e poi digitalizzare
con lo scanner è il metodo migliore per
archiviare a 50 Megabyte. Posso comunque testimoniare che la rivista regina della documentazione d’ambiente, National
Geographic Magazine, lavora ancora oggi prevalentemente in diapositiva e, come
si sa, lavora molto bene. Ha naturalmente usato il sistema digitale per servizi particolari.
Sempre per esperienza diretta, dico che il
digitale incontra, a volte, qualche problema
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di stampa tipografica che per lo più è legato alla capacità dell’operatore in sede. Può
accadere che si preferisca la diapositiva soprattutto perché è un “originale di riferimento”, utile per correggere le prove di stampa. Ho constatato che si incontrano difficoltà, con il digitale, quando gli addetti lavorano a contratto ed hanno soltanto pochi
minuti per “aggiustare” ogni fotografia. Se
una foto ha bisogno di un po’ di maschera
di contrasto e l’operatore non la mette, certamente esce un’immagine senza grande
“appeal”. Come sempre, tutto dipende dalla persona; posso comunque dire di avere
visto stampe tipografiche perfette, ottenute
da scatti digitali.
Hai viaggiato molto all’estero. Per quanto tempo e quali testate?
Per le esigenze di Airone sono stato spesso
fuori sede, anche per 8 mesi all’anno. Oggi all’interno della rivista sono però avve-
nuti cambiamenti significativi. Sono tramontati i tempi dei grandi servizi, magari
anche di quaranta pagine su singolo tema.
E mi è stato chiesto, già in passato, di lavorare anche per le riviste Bell’Italia e Bell’Europa. Credo che accetterò. Avrò l’occasione di eseguire lavori molto interessanti
perché le vedo con un taglio classico e moderno nello stesso tempo. Il direttore editoriale, che opera su entrambe le testate, ha
grande esperienza, è preparato e attento, sa
benissimo dove sta andando il mercato e lo
segue con un giusto grado di “conservazione” della qualità.
Si potrebbe dire che hai girato davvero
tutto il mondo, con e senza camion.
Con una battuta, la risposta potrebbe essere “…sì, e anche un po’ di più!”. In realtà
però, mi mancano diversi Paesi. Non ho fatto una “collezione” di Stati. Dico invece che
su molte mete sono tornato più volte e che
Quasi una prospettiva da film western, con i cavalieri che si stagliano nel tramonto grazie ad un teleobiettivo di lunga focale.
l’indagine approfondita è vantaggiosa, perché permette di capire meglio. Il giro del
mondo in camion è stato molto utile: mi ha
preparato un po’ su tutti i Paesi e sugli argomenti più disparati.
Quanto alle lingue, parlo inglese, francese
e spagnolo, nonché un poco di tedesco, sufficiente per farmi capire. Rimpiango molto
di non parlare il russo e l’arabo. Tra l’altro… porto i baffi: ho scoperto che questo
particolare a volte mi ha aperto un rapporto privilegiato con gli arabi. Mi è anche accaduto che qualcuno si rivolgesse a me in
lingua araba, per chiedere informazioni.
Il tuo genere di fotografia richiede un variegato impiego di attrezzature. Quali?
Il tema “che cosa spostavo ieri e cosa sposto oggi”, è legato essenzialmente all’andamento economico dell’editoria. Posso dire che un tempo, negli anni fino al 1997, le
disponibilità delle case editrici erano mag-
giori: mi capitava di fotografare per numeri speciali che uscivano in parallelo alla rivista. Ero impegnato a coprire tutti i temi e
ciò significava trasportare attrezzature adatte al grande paesaggio, o magari all’antropologia e all’etnografia. Dovevo essere attrezzato anche per lo still-life archeologico.
Significava dovere trasportare il materiale
necessario per allestire un piccolo studio
mobile: treppiedi, fondali, sistemi di illuminazione sia ad incandescenza sia flash.
Avevo sempre bagaglio in eccedenza sugli
aerei e incontravo, sistematicamente, difficoltà sul posto: succedeva che, nonostante
gli accordi telefonici preventivi, l’automobile in attesa non fosse mai sufficientemente
grande. Spesso occorreva, al minimo, almeno un pulmino.
Per l’illuminazione artificiale che cosa
preferisci?
Una mia caratteristica è sempre stata viag-
giare con molti flash, preferibilmente i lampeggiatori Metz 45. Ho usato anche 6 o 7
flash, potenziati con batterie Quantum Turbo per avere maggiore autonomia. Su di una
fotocamera è sempre montato un lampeggiatore. È utile in fill-in, come luce di rischiaramento ombre. In tasca poi, ho sempre un cavo SC-17. È prezioso per evitare
un’antiestetica illuminazione troppo frontale, perché con il cavetto si può infatti distanziare bene il lampeggiatore dalla macchina. Adopero il flash normalmente con
esposizione TTL-flash. Se occorre, correggo l’esposizione generale con il comando
di compensazione intenzionale. Per interventi più decisi ritengo infine che sia preferibile rinunciare alla lettura TTL-flash e
sia meglio passare alla regolazione completamente manuale.
Ricorri a volte a soluzioni speciali?
Adopero spesso gelatine di correzione, uti-
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Una danza rituale nel Borneo. L’uso del flash combinato con tempi d’otturazione lunghi rafforza la dinamicità della scena.
li per modificare la luce “troppo solare” del
flash. Senza gelatine scatto solo nelle ore
davvero centrali della giornata, quando effettivamente la luce del sole e quella del flash hanno la stessa temperatura di colore.
Nelle prime e nelle ultime ore della giornata, che spesso sono anche quelle più fotogeniche, le gelatine abbassano la temperatura di colore e scaldano la scena. È importante adattare la luce del flash a quella dell’ora in cui si fotografa. Questo modo di lavorare è un po’ una mia caratteristica. Ho
un taccuino che contiene numerose gelatine, adatte a tutte le occasioni. Le incollo con
il doppio adesivo. Sono abbastanza economiche: sono quelle che si adoperano normalmente nel mondo dell’illuminazione,
non sono i classici filtri fotografici “in gelatina”.
Quanto a pellicole e formati fotografici
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hai sempre preferito il 35mm?
Fino al 1979 ho lavorato anche con il medioformato. Poi, avviato il rapporto stabile
con Airone, ho sempre preferito il 24x36mm.
Ho puntato alla trasportabilità ed alla versatilità. Sono stato un Kodachromista convinto per molti anni, in pratica fino al 1992.
Con l’avvento della Fujichrome Velvia 50
ISO, e visto il generalizzato miglioramento delle pellicole fotografiche, l’insistenza
nel preferire la diapositiva Kodachrome ha
perso significato.
Posso dire tuttavia che adesso pago le conseguenze delle mie scelte. Infatti il Kodachrome è molto, ma molto più difficile da
digitalizzare con gli scanner di oggi e mi fa
diventare matto. Lavoro con l’ottimo scanner Nikon 5000, che offre una sicura qualità ed una definizione è eccellente. Però le
scansioni si presentano, con facilità, troppo
scure o troppo chiare ed è difficile intervenire sui colori. Il Kodachrome, infine, presenta un serio problema di “sporco”: con le
normali pellicole per diapositive a trattamento E6, che hanno i telaietti in plastica,
mi trovo sempre bene; con il Kodachrome,
che ha i telaietti di cartone, occorre staccare i telaietti, pulire la diapositiva – spesso
con il liquido apposito - intelaiarla nuovamente su plastica. È un lavoro lungo ma indispensabile: è la strada più rapida per non
avere problemi, visto che affidarsi ai software di eliminazione di polvere e graffi comporta tempi di elaborazione decisamente
troppo lunghi. Il software Digital Ice antipolvere è miracoloso… ma il lavoro preparatorio lo è di più.
Quali fotocamere adoperi?
Prima dell’avvento degli zoom di alta qualità giravo con cinque fotocamere e sem-
bravo quello che si dice un albero di Natale. Ero il contrario della scuola Leica, che
suggerisce di passare inosservati. La soluzione era obbligata, soprattutto perché era
diverso il prodotto finale al quale miravo:
non la foto colta al volo, ma il reportage inteso come indagine approfondita, con tutti
gli strumenti necessari; meno male che da
militare ho fatto l’alpino, che le spalle sono ancora buone.
Normalmente la mia attrezzatura è sempre
stata Nikon, basata su di un paio di macchine ammiraglie e su tre fotocamere minori. Ad esempio: due Nikon F, oppure due
F2, oppure F3 o F4 o F5, rispettivamente
affiancate ad esempio da tre Nikkormat, oppure tre FM2 o FM3, e poi F-801 o F-90
quando è giunto l’autofocus.
Oggi il mio corredo base è incentrato su tre
macchine: una Nikon F5, una F-100, una F90X che gioca un po’ il ruolo di fotocamera di scorta. Più due digitali. Nikon D1H e
Coolpix 8400.
Quali obiettivi usi, di preferenza?
Sul campo, mi muovo normalmente con una
macchina al collo e le altre due sulle spalle. L’ottica 17-35mm opera come obiettivo
base; il 35-70mm f/2.8 copre le focali normali; lo zoom 80-200mm oppure, più recentemente, l’80-400mm nella versione stabilizzata, copre le situazioni “tele”.
Come lunghissima focale ho un vecchio
Nikkor 600mm f/5.6. Non è autofocus ma
è davvero meraviglioso sotto il profilo della resa ottica.
Mi accade, a volte, di fotografare animali,
ma la maggior parte del mio lavoro non è
di fotografo naturalista o sportivo. Dunque
non sento la necessità di cambiare questo
supertele. L’autofocus è certamente comodo ma il 600mm f/4, versione AF, pesa molto di più rispetto al mio f/5.6.
Adoperi obiettivi speciali?
Uso moltissimo il fish-eye. Non lo adopero mai in “vera deformazione”, perché non
voglio creare effetti innaturali. Lo concepisco piuttosto come prezioso super grandangolare per il paesaggio: cerco di adattare l’inquadratura alle caratteristiche dell’obiettivo e faccio in modo di non esaltare la
curvatura delle linee. Se non compaiono elementi geometrici ai bordi dell’inquadratura, ad esempio se c’è una montagna invece
di un grattacielo, la deformazione non risalta. L’effetto di “curvatura terrestre” è leggero e non disturba. Con il fish-eye realizzo “colpi d’obiettivo” che l’occhio umano
non riesce normalmente a cogliere ma che,
con opportuno allenamento, il fotografo può
sapere immaginare. Cerco sempre di ottenere deformazioni che siano giustificate: ciò
che conta è l’armonia, che deve sempre essere alla base delle fotografie.
Adopero volentieri lo zoom 80-400mm stabilizzato, anche se ritengo che della stabilizzazione non si debba abusare. Mi spiego:
se devo scattare a 400mm preferisco affidarmi comunque al treppiede. La stabilizzazione è comoda, e concretamente utile,
con focali relativamente più corte. Ad esempio sotto i 200mm o, meglio ancora, quando si lavora ad 80mm.
Come trasporti l’attrezzatura?
Con uno zaino fotografico. È un contenitore pratico, utile anche per materiali pesanti. Lo uso da anni anche se ammetto che è
lento da togliere e rimettere sulle spalle. Per
questo, normalmente mi muovo con un gilet fotografico multitasche, riempito abbondantemente con i più diversi accessori .
Sono una coppia di polarizzatori, le cartine
e il pennellino per la pulizia delle ottiche.
Oltre allo zaino ho sempre il treppiede. Intendiamoci: se sono a distanza ragionevole
dall’automobile, ad esempio a cinque minuti a piedi, ecco che allora la grande borsa fotografica diviene l’automobile stessa.
Da essa tolgo di volta in volta ciò che mi
serve per le foto. Ho un fuoristrada Land
Rover che ho attrezzato appositamente,
schermato. È, di fatto, un autocarro: ha i soli sedili anteriori, dietro è un unico vano di
carico senza finestrini. Ho pannellato tutti
i vetri con lastre di alluminio nero. Dall’esterno non si può capire cosa c’è nell’auto
e naturalmente il mezzo può essere bene
chiuso a chiave. Non è possibile che un ladro prenda un sasso, rompa un vetro e porti via una borsa fotografica; dovrebbe impegnarsi in un vero lavoro di scasso, troppo laborioso. Naturalmente conosco bene
l’altro problema, quello delle vibrazioni in
viaggio. L’attrezzatura è sempre appoggiata sopra il bagaglio principale, sopra il vestiario.
Quanto all’esposizione in ripresa, come
ti regoli?
Dicono che i professionisti lavorano preferibilmente in manuale. Ebbene, io lavoro
sempre in automatismo. Scatto a volte a priorità di diaframma ma il più delle volte opero in program con il “programma flessibile”. È una soluzione che permette di variare a piacere le coppie tempo-diaframma ed
essere molto veloci nelle correzioni. Ho scoperto che è un’opportunità molto comoda
ed ho constatato che pochissimi fotografi
professionisti la conoscono. Mi è successo
di spiegarla anche a “grandi nomi”, che mi
è accaduto di incontrare. È curioso che non
sia molto enfatizzata nemmeno sul libretto
d’istruzioni.
Uso molto il comando di compensazione
intenzionale dell’esposizione: +/-0.3, oppure +/-0.5 valori, eccezionalmente +/-0.7.
Quante e quali pellicole porti con te?
Consumo pellicole, nell’ambito di un viaggio, secondo una media di 10 rulli al giorno. Come dire: se sto via 15 giorni, porto
150 rulli. Naturalmente ci sarà il giorno in
cui ne utilizzerò 20 o anche 25, ma ci sarà
il giorno di trasferimento in cui non ne consumerò.
Il mio gilet fotografico pesa molto anche
perché normalmente in esso trasporto i rulli: le pellicole vergini in una tasca, senza
confezioni, e le pellicole scattate in un’altra. È un modo di lavorare che favorisce la
rapidità. Espongo i rullini alla sensibilità
nominale. Faccio eccezione soltanto con la
Provia 400F che ha una grana così fine che
spesso trovo utile adoperarla a 800 ISO fotografando in condizioni limite. Non più di
800 ISO, però: forzare la sensibilità espone
al rischio di una esagerata crescita di contrasto. I grandi effetti Push li lascio ai fotografi sportivi.
È importante, professionalmente, conoscere molto bene la propria attrezzatura anche
nei minimi dettagli. Un esempio: la Fujichrome Velvia è una splendida pellicola che
carico sistematicamente nella Nikon F-100,
perché ho notato che la taratura di base questa macchina tende leggermente a sovresporre rispetto alla Nikon F-5. La Velvia, di
norma, rende meglio con un’esposizione
leggermente generosa. La Nikon F5 invece
viene usata normalmente con la Fujichrome Provia 100F. Gli sviluppi sono eseguiti
da Zebra, un laboratorio professionale milanese di cui sono molto soddisfatto.
A proposito di sensibilità ISO, posso dire
di avere scattato recentemente con la macchina digitale Olympus E-1 ed avere ottenuto splendidi risultati anche a 3200 ISO,
un livello di amplificazione in cui di solito il disturbo di fondo appare in modo intollerabile. In questo caso le immagini sono state ottime, superiori a quelle di altre
concorrenti di gran nome; merito del
software molto avanzato, probabilmente.
Il digitale mi affascina. Si ha il vantaggio
di verificare subito ciò che si è ottenuto, pochi attimi dopo lo scatto; oppure la sera, in
albergo. Ciò può anche indurre a cambiare
le valutazioni operative, sul campo. Il fotografo può decidere di dedicarsi a soggetti
che, ad una prima impressione, erano ap-
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A Gourara, nell’area desertica algerina del Grande Erg Occidentale,
un grande silenzio e luci davvero da favola.
parsi poco promettenti.
Lavorare in digitale significa obbligarsi a
portare un adeguato parco batterie e una sufficiente quantità di schede di memoria.
Ti sei mai imbattuto in problemi di assistenza tecnica fotografica?
Non ho mai incontrato inconvenienti particolari, tranne in un caso di parecchi anni or
sono. Ero in Africa, nel 1996. Una Nikon
F-801S era caduta, a causa di un sobbalzo
della jeep. All’apparenza non aveva subito danni. Viceversa, ma non lo potevo sapere, si era danneggiata la tendina. Me ne
sono accorto solo a casa, dopo avere scattato una quarantina di rulli, di cui una ventina dall’aereo. Tutti da buttare. Per fortuna avevo continuato a scattare anche con le
altre fotocamere e alla fine il danno è risultato sufficientemente ridimensionato.
Il treppiede è un accessorio importante
nel tuo lavoro?
Certamente. Sono andato recentemente in
Giordania, a Petra, ed ho percorso tutta la
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zona con il treppiede sempre a tracolla. Esistono numerosissime grotte, molte antiche
tombe. Adopero normalmente diversi stativi: ho un Gitzo ed anche un treppiede Manfrotto in fibra di carbonio, equipaggiato con
una testa che ha un sistema di serraggio
idraulico, praticissimo e molto solido.
In anni eroici andavo in montagna con il
treppiede Manfrotto Tri Aut, con tasti di
sblocco vicino alla crociera centrale, lo strumento che ha fatto la fama di Manfrotto. Era
pesante ma anche praticissimo nei livellamenti su terreno diseguale. Mi muovevo in
stile Ansel Adams, con la macchina già montata sul treppiede ed il treppiede appoggiato sulla spalla come se fosse un badile.
Tra gli accessori fotografici, adoperi anche filtri?
Normalmente, no. Adopero due polarizzatori, che nel paesaggio sono utilissimi. Qualche volta mi servo di un filtro azzurro-blu,
per raffreddare intenzionalmente alcune scene. Per effetti particolari dispongo dei digradanti Cokin, che uso però non come fil-
tri d’effetto ma come accessori per compensare l’esposizione. Possono salvare fotografie in cui il cielo è molto bianco, troppo slavato.
Oggi con Photoshop si aggiusta tutto, si interviene rapidamente anche nella correzione della prospettiva, si può addirittura evitare l’uso ottiche decentrabili. Attenzione,
tuttavia: bisogna sempre stare attenti a non
eccedere nelle correzioni per non creare effetti innaturali.
A proposito di fotogenicità, quali sono le
zone più belle della Terra?
Sono un fotografo che si è mosso prevalentemente nel mondo della natura, anche
se non mi definisco un fotografo naturalista; ho fotografato ambienti urbani ma non
posso dire che le città siano la mia passione.
E allora, ecco: ho una grande predilezione per il deserto, il Sahara per me è sempre un luogo straordinario.
Apprezzo le zone aride, sono felice quando c’è la sabbia; nel deserto c’è “grafica”,
Davvero a tu per tu, con il supergrandangolare, con il lupo d’Abruzzo;
naturalmente dopo un lungo appostamento.
si può aggiungere una persona, un cammello che passa, ma l’essenza del luogo
non viene tradita. Mi piace anche la montagna. Mi commuovo meno con le grandi
foreste.
Luoghi straordinari sono quelli della fascia
sahariana dall’Algeria alla Libia, l’area dell’Akakus in Libia offre dune molto fotogeniche. La Namibia è meravigliosa. Il mio
primo amore, come paesaggio ed anche come rapporto con la gente e come esperienza di antropologia, è stato l’Afghanistan.
Gli azzurri cinque laghi di Band-I-Amir, le
dighe dell’emiro, in quota e in ambiente desertico, ai piedi di pareti rocciose, sono
straordinari.
Rispondono perfettamente all’idea dei luoghi della narrazione delle “Mille e una notte”. In Afghanistan oggi c’è qualche sporadico barlume di turismo, aiutato dal governo centrale. Invece gli Stati Uniti sono un
paese che, al di fuori dell’emergenza attentati e fatta l’eccezione delle città, è affasci-
nante, estremamente sicuro, variegato nelle possibili mete, nei paesaggi, nelle popolazione e situazioni locali.
È difficile fotografare le persone, nel mondo?
Fotografare la gente moderna, in città, in alcuni casi è diventato difficilissimo. È aumentata la diffidenza.
Tre anni or sono, a Montreal in Canada, appena alzavo la fotocamera per scattare vedevo persone che si scansavano e borbottavano.
Viceversa, un paese ultra-avanzato dove fotografare la gente è un Paradiso, è il Giappone: là, come il fotografo alza la fotocamera tutti si mettono quasi in posa, felicissimi di essere ripresi.
Analizzando il problema professionalmente dico che esiste un serio problema di ottenere le liberatorie alla pubblicazione. Oggi sto molto attento a “come fotografo e chi
fotografo”. È vero che non si può correre
dietro a tutti, per farsi firmare la liberatoria:
una firma è una firma e normalmente non
la si concede volentieri. Ho anche conosciuto un fotografo, di National Geographic,
che a Napoli fotografava con cinque assistenti. Tra essi, uno era espressamente incaricato dell’impresa disperata di ottenere
le liberatorie.
In molti casi dipende dalla situazione e dal
luogo in cui si opera. Nel mondo anglosassone è tutto più facile. Occorre anzitutto presentarsi: “io sono, faccio questo, le dispiace se…”? Se si è giudicati positivamente,
la liberatoria viene tranquillamente concessa.
Nel mondo musulmano non ho mai incontrato particolari problemi nel fotografare gli
uomini. Con le donne è invece tutto un altro discorso: è realmente difficile fotografarle, anche se non ho mai capito perché non
si possano fotografare donne velate se, per
l’appunto, sono velate.
È opportuno disporre sempre di una guida,
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ad esempio anche un tassista o una persona
di fiducia, che consigli: qui puoi fotografare, in questo caso è meglio di no.
Nell’Afghanistan dei vecchi tempi non ho
mai incontrato difficoltà, anche nel fotografare le donne. Non ho ricordi di reazioni violente. Dico poi che in generale il mondo musulmano, di per sé, non è violento (tra
l’altro lo proibisce il Corano). Però, mi è accaduto di vedermi sequestrare una pellicola in Iran, nonostante avessi un permesso
ufficiale a fotografare rilasciato addirittura
dal Ministero degli Interni. È stato contestato da un agente di polizia. La spiegazione: esistono un Iran moderato ed un Iran radicale. L’agente era radicale e mi ha detto
“non sono d’accordo con chi ha rilasciato
questo permesso; secondo la mia convin-
zione lei dovrebbe fotografare soltanto mo- to avrà nella propria vita, si diventa amici,
numenti, il paesaggio e non le persone”. Do- si viene accettati.
podiché mi ha sequestrato la pellicola.
In Ciad, con l’antropologo Alberto Salza, ho
addirittura provocato uno sciopero in un camSono difficili i rapporti con i soggetti?
po agricolo: ho scattato una Polaroid e, quanMolto dipende dal livello culturale. In al- do hanno visto che la foto “veniva subito”,
cuni casi accade che una persona fotogra- tutti i lavoranti si sono fermati e si sono mesfata abbia il dubbio che sia stato colto, di si in fila per essere fotografati.
lei, qualcosa di negativo.
Oppure pensa che le macchine sofisticate Infine, il ritorno in a casa, con le imma“spoglino”, “rubino l’anima”, e così via. Per gini scattate.
fotografare gente etnica, un grande vantag- Al rientro la selezione è il momento decisigio è scattare immagini Polaroid.
vo: considerato il numero si scatti che si eseHanno conquistato la simpatia di popola- guono, richiede quasi lo stesso tempo delle
zioni intere.
riprese. Mi è capitato di preparare 100 rulli
Quasi lo stesso accade, oggi, con gli scatti in una notte perché le esigenze editoriali eradigitali. Se poi si può regalare lo scatto, che no stringenti ma questa non è la regola, permagari è l’unica fotografia che l’interessa- ché rischia di essere una scelta troppo frettolosa.
Cerco di catalogare fin dall’inizio: didascalizzo i rulli, pongo un’etichetta indicando il
contenuto; sono disposti cronologicamente,
così da fornire la cronistoria di un viaggio e
di tutte le situazioni incontrate.
Daniele Pellegrini, classe 1945, è nato a Crespano del Grappa ed è fotografo speAnche operando rapidamente è difficile riucializzato in reportage geografico, etnografico, archeologico, zoologico e scienscire a selezionare più di trenta rulli al giortifico. Laureato in Scienze Politiche all’Università Cattolica di Milano, con tesi
no. Ho l’abitudine di scrivere le didascalie
in etnologia sull’etnia afgana dei Kafiri, è figlio d’arte: Lino ed Elena Pellegrisu ogni telaietto: è l’informazione base. A
ni, per oltre cinquant’anni, hanno realizzato reportage fotogiornalistici in tutto il
parte allego annotazioni supplementari, riemondo. Poco più che ventenne ha documentato due suoi raid automobilistici in
samino gli appunti, integro con i dati presi
Asia e Sud America. Matura la decisione del primo giro del mondo in camion,
da libri, enciclopedie, Internet. In qualche
con Cesare Gerolimetto, nel 1976-’79. L’impresa, di 184.000 chilometri attracaso lavoro con il redattore che scriverà il
verso 48 Paesi nei cinque continenti, è compiuta con il Fiat-Iveco 75 PC 4x4, auservizio, facendo un vero de-briefing sul
tocarro da fuoristrada ribattezzato Antonio Pigafetta in onore dello storiografo
viaggio.
vicentino della spedizione di Magellano. Il libro “Un camion intorno al mondo”
La pre-selezione è una operazione chiave:
(Arnoldo Mondatori) è del 1980. Dal 1967 al 1981 i servizi di Daniele Pellegriindividua le migliori foto di ogni rullo, tra
ni sono su Epoca, Oggi, Domenica del Corriere, Atlante e così via. Airone, naquelle pur simili. È la primissima scelta.
sce nel 1981, ed è un successo; Daniele Pellegrini collabora fino a diventare foLa fotografia non si esaurisce con l’atto di
tografo di staff per 21 anni. Realizza circa 200 reportage, talora pubblicati anche
fotografare, esiste un grande lavoro di posu Geo (Germania), Geo (Francia), Grands Reportages (Francia), Terre Sauvage
st-produzione. Aprendo le immagini con
(Francia). Partecipa al progetto librario internazionale A Day in the Life, realizPhotoshop si è poi tentati di aumentare legzato congiuntamente da gruppi di fotografi scelti tra i migliori del mondo. Semgermente il contrasto, ritoccare i livelli, il
pre per Airone, Daniele Pellegrini è anche testimone di eventi storici come la cacolore, in qualche caso di correggere imrestia dell’Etiopia nel 1985, la guerra civile in Afghanistan nel 1990, la tragedia
perfezioni e, nelle immagini d’architettudei Curdi dopo la guerra, magari modificare anche la prospettira del Golfo in Irak nel
va.
1991 dove fotografa l’e-
L’autore:
sercito dei volontari di
pace delle Nazioni Unite e delle organizzazioni
umanitarie. Nel 2001 la
sua professione è oggetto di una tesi di laurea all’Università degli Studi
di Parma, dal titolo “Daniele Pellegrini, fotografo di viaggio”. Dal
2004 è rappresentato in
Italia dall’agenzia Grazia Neri.
Daniele Pellegrini; foto di Michele Bozzetto.
Intervista raccolta da
Maurizio Capobussi
Scarica

Daniele Pellegrini ei grandi reportage di viaggio