Sapienza Università di Roma
Dottorato di Ricerca in Storia e Analisi delle Culture Musicali e
Curriculum Storia e Analisi delle Culture Musicali del
Dottorato di Ricerca in Musica e Spettacolo
Ottavo Seminario Annuale dei Dottorandi
19 e 20 febbraio 2014
Aula di Storia della Musica “Nino Pirrotta”
IV Piano, Edificio di Lettere e Filosofia
Come ogni anno l’attività dei dottorandi in Storia e Analisi delle Culture Musicali trova uno spazio
di confronto all’interno della programmazione accademica. Gli iscritti al terzo anno e i dottorandi in
consegna propongono una relazione su alcuni risultati o nodi teorico-metodologici della propria
ricerca. Il convegno, aperto a tutti, è introdotto da una lezione magistrale di Simha Arom, insigne
etnomusicologo.
Programma del seminario
Mercoledì 19 febbraio
15:00
Lezione magistrale
Simha Arom (Centre National de la Recherche Scientifique): “Georgian and Medieval vocal
polyphonies : Analysis and modelization”
Pausa
17:00
Marco Crescimanno
“Strutture e memoria nella musica di Morton Feldman”
17:30
Daniele Caibis
“Sperimentazione e linguaggio musicale in Sylvano Bussotti”
18:00
Vincenzo Della Ratta
“L’Unesco negli Altipiani Centrali del Vietnam: lo ‘Spazio della cultura dei gong’”
18:30
Claudio Rizzoni
“Dalla piazza allo schermo: alcune considerazioni sulla diffusione e l’utilizzo di YouTube tra i
‘battenti’ della Madonna dell’Arco”
Giovedì 20 febbraio
9:30
Jorge Morales
“Sigismondo D’India et le cardinal Maurice de Savoie : Univers musical, activité artistique et
imaginaire poétique à Montegiordano en 1625”
10:00
Diana De Francesco
“Elementi di riforma della musica sacra nella Missa choralis di Franz Liszt”
10:30
Elisa Novara
“«Soll denn diese verdammte deutsche Höflichkeit Jahrhunderte fortdauern?» Osservazioni sul
problema della produzione e ricezione del trio con pianoforte fra 1830 e 1860 nella stampa musicale
tedesca”
Pausa
11:30
Ernesto Pulignano
“Lyric Form e «pezzi a mosaico» nell’opera italiana del secondo Ottocento”
12:00
Marco Andreetti
“Sempre libera prima del Sessantotto: La traviata, Pasolini, Bellocchio”
12:30
Marco Stacca
“‘Orsù, presto a bottega’. Jean Pierre Ponnelle e la scenografia rossiniana
Pausa pranzo
14:30
Riunione del collegio dei docenti
16:30
Discussione generale
ABSTRACTS
MARCO ANDREETTI
Sempre libera prima del Sessantotto: La traviata, Pasolini, Bellocchio
La cabaletta Sempre libera degg'io dal primo atto della Traviata è stata utilizzata all'interno della
colonna sonora di due titoli fondamentali della cinematografia italiana del Novecento: La Ricotta
(1963) di Pier Paolo Pasolini e i Pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio. Mentre nel film più
compiuto e denso mai girato da Pasolini la musica di Giuseppe Verdi si presenta come un tema
ricorrente con funzioni centrali nell'ambito di un'articolata drammaturgia della forma, nei Pugni in
tasca essa diviene elemento sonoro fondante della scena conclusiva, ritenuta un momento
emblematico dell'esordio di Bellocchio alla regia. Che cosa accade agli affetti espressi dalle pagine
verdiane quando questi si trovano ad essere riconfigurati all'interno dell'esperienza filmica?
Rintracciando quello sguardo ossimorico che secondo Francesco Casetti ha permesso al
cinema di mettere in atto una continua rinegoziazione di termini antitetici (L'occhio del Novecento.
Cinema, esperienza, modernità, 2005) e considerando con Michel Chion il fenomeno
dell'audiovisione in tutta la sua complessità (L'audio-vision. Son et image au cinéma, 1990), la mia
relazione suggerirà in che modo, nel momento in cui le due pellicole vengano poste in rapporto
dialettico con il loro tempo e con la partitura verdiana, queste siano in grado, nella loro diversità, di
sollevare interessanti questioni sulla sfuggente relazione di amore e odio, distanza e
riavvicinamento fra il melodramma e la società italiana degli anni a ridosso del Sessantotto. Nella
Ricotta e nei Pugni in tasca, infatti, la musica della Traviata precede ed eccede le cornici
ideologiche e visive nelle quali transita, e i due film trasportano a loro volta in una zona più esposta
elementi presenti nella cabaletta che spesso risultano sepolti sotto i sedimenti di tradizioni
interpretative e convenzioni sceniche.
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DANIELE CAIBIS
Sperimentazione e linguaggio musicale in Sylvano Bussotti
Le relazioni che la musica di Bussotti ha stretto con quelle dei principali compositori d'avanguardia
del secondo Novecento non sono emerse, fino ad oggi, con molta chiarezza. Gli aspetti più evidenti
delle partitura bussottiane, primo fra tutti la spiccata sperimentazione grafica e aleatoria, hanno
costituito per anni una pregiudiziale musicologica capace di occultare eventuali e profonde
contingenze con le innovazioni compositive più recenti. Spesso e volentieri, infatti, Bussotti è stato
facilmente catalogato come totalmente distante e alieno rispetto agli esperimenti e le ricerche
compiute dalla nuova musica: l'interesse, da parte del compositore fiorentino, per un esplicito
lirismo e per un continuo riallacciarsi alla tradizione musicale di epoche passate, ha posto in
secondo piano la possibilità di confronti dialettici con gli autori più innovativi a lui contemporanei.
Prendendo i corsi estivi di Darmstadt come fondamentale punto di riferimento storico, e
partendo dal lavoro pratico e dalle riflessioni teoriche di coloro che ne sono considerati gli
esponenti tra i più rappresentativi – Pierre Boulez, Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen – si è
cercato di articolare un quadro panoramico delle principali innovazioni linguistiche della nuova
musica facendo ricorso ai concetti chiave utilizzati in tale ambito (dalle questioni sul materiale
sonoro ai problemi legati alla forma). Attraverso questa griglia orientativa si è costruito un
confronto con le partiture di Bussotti, nel tentativo di fare emergere quanto più chiaramente gli
importanti aspetti che legano la musica quest'ultimo ai decisivi mutamenti estetici avvenuti a partire
dagli anni '50, permettendo così di potere ridefinire con maggiore precisione la posizione storica
occupata da Bussotti.
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MARCO CRESCIMANNO
Strutture e memoria nella musica di Morton Feldman
Il ruolo della memoria nella musica di Morton Feldman è stato tematizzato da Feldman stesso fin
dagli anni Ottanta e poi da molti contributi musicologici sulla sua opera. Tuttavia è mancata nella
maggior parte dei casi una prospettiva più specificamente cognitivista, basata sul riconoscimento
della relazione tra percezione, schemi strutturali e memoria.
Gli studi sulla memoria hanno dimostrato come essa dipenda fortemente dalla presenza di
schemi strutturali tra gli elementi con i quali entriamo in relazione. La presenza di una struttura
riconoscibile che metta in relazione i vari elementi di una certa sequenza permette cioè di ricordare
quella sequenza più facilmente rispetto ad un’altra in cui non vi siano collegamenti strutturali
riconoscibili. Questo vale per sequenze di numeri, come per lettere, parole o suoni.
Il modo in cui determinate caratteristiche sonore producono – a vari livelli – relazioni
strutturali significative alla percezione è stato indagato tra gli altri in modo particolarmente
approfondito da Albert Bregman che nei suoi studi su quella che viene definita Auditory Scene
Analysis descrive i meccanismi che consentono al nostro sistema uditivo di
rintracciare/riconoscere/costruire relazioni strutturali significative tra i suoni.
Nel mio intervento analizzerò alcune opere di Feldman appartenenti alle tre fasi stilistiche
che si possono delineare all’interno della sua produzione, contraddistinte da caratteristiche affatto
diverse. I principi dell’ASA saranno alla base della mia analisi che in questa prospettiva metterà in
evidenza come le scelte compositive operate da Feldman in alcuni casi tendano ad assecondare la
formazione di strutture percettive significative ed in altri invece a contrastare la formazione di
relazioni strutturali. Nella sua produzione più tarda Feldman sembra infine tentare una paradossale
ossimorica sintesi tra questi estremi. I principi dell’ASA forniranno inoltre una cornice esplicativa
all’interno della quale dare ragione delle conseguenze di queste scelte sulla percezione e sulla
memoria.
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DIANA DE FRANCESCO
Elementi di riforma della musica sacra nella Missa choralis di Franz Liszt
L'impegno di Franz Liszt nel campo della musica sacra, concentrato nel periodo 1861-1869,
converge in direzione di quei progetti di riforma avvertiti ormai come necessari in molti ambienti
musicali. Nonostante la copiosa produzione critica, il compositore non chiarì mai i termini di tale
riforma nei suoi scritti, quanto piuttosto tramite alcune opere “riformate”; fra queste, la Missa
choralis, organo concinente riveste un ruolo cruciale. Composta nel 1865, quando Liszt stava
preparandosi a ricevere gli ordini minori, la messa costituisce la sua opera sacra più personale e
forse più sentita, la summa di tutti i requisiti richiesti alla “nuova” musica sacra dalla critica del
tempo, la definitiva manifestazione dei caratteri della riforma secondo.
“Ritorno all'antico”, per Liszt, denota una volontà di ritorno al canto gregoriano, in linea
con le tendenze riformistiche esposte dalla critica del tempo: su tutte, si prendano in
considerazione le opere di Joseph d'Ortigue, grande sostenitore del recupero del gregoriano,
impegnato a elaborarne perfino un modello di armonizzazione. Il “primato della tradizione”,
d'altra parte, coinvolge un concetto di difficile interpretazione – quello, appunto, della tradizione –
identificabile, almeno in materia di musica sacra, con le tendenze esecutive della Cappella
Pontificia, erede di una prassi esecutiva risalente a Palestrina e alla musica rinascimentale.
L'adesione di Liszt alla prassi esecutiva della cappella pontificia, che il compositore avvertiva come
confortante, appare in tutta evidenza nello stile della Missa choralis, che tuttavia, all'epoca, non
venne mai eseguita in Italia. Certamente il «compositore tedesco» – così chiamato da Pio IX per
la familiarità del suo linguaggio con le difficoltà armoniche della scuola sinfonica tedesca –
non riuscì ad affrancare l'opera da alcune «modulazioni» che la resero comunque inusuale per la
compagine cui era destinata,
finendo per far naufragare una composizione non particolarmente originale, almeno nelle
intenzioni.
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VINCENZO DELLA RATTA
L’Unesco negli Altipiani Centrali del Vietnam: lo “Spazio della cultura dei gong”
Gli Altipiani Centrali del Vietnam circoscrivono un’area abitata da una ventina di gruppi etnici
differenti, conosciuti collettivamente col termine francese Montagnards. Dopo la riunificazione del
paese, avvenuta nel 1975, una politica di ricollocazione della popolazione in esubero – per lo più
vietnamiti propriamente detti – ha interessato quest’area remota e sottopopolata, comportando
drastici cambiamenti nella vita delle popolazioni autoctone. Un’ulteriore accelerazione al processo
di trasformazione delle culture tradizionali è pervenuta dall’adozione su scala nazionale della
politica di ”economia di mercato orientata verso il socialismo”, così come definita dal governo
centrale. Gong e set di gong, oggetti preziosi denotanti l’elevato status sociale del possessore,
presero ad essere venduti per far fronte all’esigenze della vita quotidiana e cominciarono
rapidamente a ridursi nel numero. Nuove religioni si sostituirono gradualmente alle credenze
tradizionali, comportando conseguenze per la musica dei gong, essendo i gong strumenti sacri che
consentono all’uomo di comunicare con gli Spiriti. Questo, in breve, il contesto socio-culturaleeconomico degli Altipiani Centrali presente nel 2005, quando l’Unesco dichiarava lo “Spazio della
cultura dei gong” patrimonio culturale intangibile dell’umanità.
Lo scopo di questo intervento è quello di dare qualche indicazione utile a capire come la
musica tradizionale – tanto per gong quanto per altri strumenti – si sia ricontestualizzata nella
società moderna degli Altipiani Centrali, attraverso l’analisi di una performance per turisti
organizzata da una troupe del gruppo etnico Ede.
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JORGE MORALES
Sigismondo D’India et le cardinal Maurice de Savoie : Univers musical, activité artistique et
imaginaire poétique à Montegiordano en 1625
La Rome des premières décennies du XVIIe siècle peut être considérée comme le centre culturel le
plus influent de la péninsule italienne. C’est dans ce contexte, où le mécénat tient une place
primordiale, qu’il convient d’appréhender les rapports entre le compositeur Sigismondo D’India et
son protecteur le cardinal de Savoie. L’année 1625 est particulièrement importante pour les deux
personnages. À cette époque, au palais de Montegiordano, se tiennent en effet les réunions de
l’Académie des Desiosi créée par le cardinal, véritable laboratoire artistique et intellectuel, miroir
d’une nouvelle ère politique et culturelle au début du pontificat d’Urbain VIII.
Guidé par des documents d’archive, nous tenterons de donner un nouvel éclairage sur
l’ambiance culturelle dans laquelle a vécu le compositeur, faite de discussions intellectuelles,
discours, dîners, banquets, fêtes, célébrations, fables, comédies, ballets et concerts, et dans laquelle
musiciens, artistes et poètes côtoyaient comtes, ducs et cardinaux. C’est ainsi que musique, art et
poésie dialoguent avec la politique et participent à la construction d’un imaginaire culturel qui reste
en grande partie à étudier.
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ELISA NOVARA
«Soll denn diese verdammte deutsche Höflichkeit Jahrhunderte fortdauern?» Osservazioni sul
problema della produzione e ricezione del trio con pianoforte fra 1830 e 1860 nella stampa
musicale tedesca
Nel 1833 un anonimo recensore (leggi: Robert Schumann) si esprime in questi termini riguardo la
critica musicale dell’epoca: deve dunque durare ancora per secoli, questa maledetta cortesia
tedesca? L’invettiva schumanniana prende di mira lo stile ampolloso e retorico dei giornali musicali
dell’epoca, che raramente si discostano, nelle recensioni, dal descrivere le qualità più elementari
dell’opera. Pochi mesi più tardi Schumann fonderà la Neue Zeitschrift für Musik, in aperta polemica
contro ogni universalismo e qualunquismo.
Nel 1861 un articolo di Selmar Bagge per la Deutsche Musik Zeitung, intitolato Das
moderne Claviertrio und seine Vertreter, mette nero su bianco la situazione del trio contemporaneo
e dei suoi rappresentanti: di cortesia ne è rimasta ben poca e le opere sono analizzate fin nei più
intrinseci procedimenti compositivi.
La critica musicale ha dunque subito un cambiamento importante nell’arco del trentennio
preso in considerazione, ma i cambiamenti che hanno investito il genere trio, rispecchiano quelli
auspicati dai recensori? O la critica musicale “d’arte” del dopo Schumann è arrivata ad essere
talmente idealistica e utopica, da non trovare più eco nella realtà?
Alla luce di alcune significative recensioni, nel mio intervento propongo come caso di
indagine il protratto processo compositivo del primo trio di Schumann, l’op. 88, che si inserisce a
pieno titolo nel periodo che vede nella stampa musicale i maggiori cambiamenti di paradigmi
estetici nei confronti del genere: iniziato come trio per pianoforte nel 1842, l’opera sarà pubblicata
nel 1851 come Phantasiestücke, pezzi fantastici, con alterazioni sostanziali rispetto alla prima
versione.
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ERNESTO PULIGNANO
Lyric Form e «pezzi a mosaico» nell’opera italiana del secondo Ottocento
Negli ultimi vent’anni i musicologi si sono dedicati con assiduità allo studio delle forme melodiche
nel melodramma ottocentesco: dall’approccio eminentemente formalistico e analitico, l’indagine
sulla lyric form si è estesa alla correlazione tra strutture poetiche, musicali e teatrali, ai diversi
significati dei modelli di base (‘periodo’ e Barform), alla loro valenza sentimentale e finanche alla
loro efficacia ‘pedagogica’ sullo spettatore-ascoltatore.
Dopo il 1850 Verdi, alla ricerca di un arco melodico “lungo” e dinamico — consono a un
modello di aria non più unidimensionale dal punto di vista affettivo — plasma ed estende le
componenti della lyric form in base alle esigenze del testo verbale e del dramma; a tal fine ricorre di
volta in volta alla reiterazione di moduli per delineare uno stato ossessivo; alla dilatazione della
frase di mezzo («Pace, pace, mio Dio» ne include due, corrispondenti alle strofe che chiariscono il
senso della sventura che ha colpito Leonora); alla giustapposizione di più lyric forms, ciascuna
corrispondente a uno stato emotivo («Ritorna vincitor» allinea, dopo il parlante iniziale, tre periodi
consecutivi — i primi due dedicati ai due distinti legami affettivi di Aida, nei confronti del padre e
dell’amante — che sfociano in altrettante Barform interlocutorie, e una ulteriore lyric form
composta da un periodo e da un’autentica Barform).
Nelle opere dei giovani compositori attivi nell’ultimo decennio del secolo, l’accostamento di
più idee melodiche si osserva nei cosiddetti «pezzi a mosaico» o «arie composite»: le singole
componenti, che non si limitano a tratteggiare il vissuto interiore dei personaggi, si articolano
secondo le immagini evocate nel testo e gli effetti indotti negli altri personaggi in scena, come
nell’Improvviso di Chénier; oppure in base agli artifici retorici, come nel ‘dialogo poetico’ di
Rodolfo nell’ultimo atto della Bohème di Leoncavallo. In questi casi, l’analisi della melodia deve
tener conto non solo dei singoli ingredienti formali, perlopiù disposti liberamente e in modo
asimmetrico, ma anche del ruolo svolto dall’orchestra, dai motivi conduttori, dalla ‘descrizione
sonora’ di situazioni e parole; ciò anche in assoli riconducibili a schemi standard come la Romanza
di Santuzza, dove il costrutto melodico dipinge realisticamente l’angoscia arrecata dal tradimento.
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CLAUDIO RIZZONI
Dalla piazza allo schermo: alcune considerazioni sulla diffusione e l’utilizzo di YouTube tra i
“battenti” della Madonna dell’Arco
Lo scopo di questo intervento è quello di illustrare l’impatto che la recente crescita dell’utilizzo di
YouTube ha avuto nel modificare le modalità di interazione tra i battenti devoti alla Madonna
dell’Arco: in un contesto devozionale già caratterizzato da interazioni dense e strutturate e dalla
presenza di complessi sistemi di carattere simbolico, valoriale ed estetico, l’utilizzo di YouTube
non va considerato come un fenomeno a sé stante, ma come un elemento in grado di stabilire un
rapporto complesso con dinamiche locali preesistenti. Con un’attenzione specifica rivolta ai
fenomeni musicali che caratterizzano le pratiche rituali dei battenti, illustrerò come l’utilizzo di
YouTube – su cui i battenti “caricano” regolarmente filmati da loro realizzati che documentano i
rituali – abbia provocato un’estremizzazione delle strategie di imitazione e distinzione già presenti
tra differenti gruppi di devoti appartenenti alle associazioni presenti nei quartieri di Napoli,
presentando quindi elementi di continuità con le dinamiche tradizionali di interazione tra i battenti.
Allo stesso tempo, soffermandomi sulla recente affermazione dell’esecuzione di canzoni in stile
neomelodico durante i rituali, evidenzierò altrettanto evidenti elementi di discontinuità che si
palesano nella rapidità di diffusione di radicali innovazioni in grado di modificare la struttura
profondamente la struttura dei rituali. Alcune considerazioni finali saranno dedicate al ruolo di
YouTube come strumento di interazione tra ricercatore e informatori: pensata come specifica
metodologia di ricerca, la “navigazione” su YouTube, svolta insieme agli attori locali, costituisce
una nuova pratica di osservazione partecipante e, allo stesso tempo, una modalità di intervista, in
cui l’informatore ha l’occasione di organizzare un discorso costruendo una “mappa” di riferimenti
facendo uso di un amplissimo repertorio di documenti audiovisuali.
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MARCO STACCA
“Orsù, presto a bottega”. Jean Pierre Ponnelle e la scenografia rossiniana
Il 9 dicembre 1969 Claudio Abbado, neo direttore musicale del Teatro alla Scala, inaugura la nuova
stagione lirica con Il barbiere di Siviglia. L’allestimento, a firma del regista francese Jean-Pierre
Ponnelle e prodotto in toto dalle maestranze del teatro milanese, aveva visto la luce l’anno
precedente al Festival di Salisburgo, ottenendo uno sbalorditivo successo. Pochi anni più tardi,
Abbado e Ponnelle consolidano il loro sodalizio scaligero mettendo in scena La Cenerentola (1973)
e L’italiana in Algeri (1974); la prima acquistata, non senza polemiche, dal Teatro Comunale di
Firenze, la seconda prodotta dal teatro milanese. Ponnelle completa così la sua prima trilogia (alla
quale seguirà quella mozartiana), mentre la direzione del teatro milanese già mirava ad investire su
una sicura fortuna degli allestimenti.
Seppure suggellate dalla presenza cast prestigiosi, le tre produzioni devono il larga parte il
loro successo alla regia e alla scenografia, che propone una nuova concezione dello spazio scenico.
In un percorso che avrà come fonti principali documenti provenienti dagli archivi del teatro
milanese e del Comunale di Firenze (bozzetti, piante di palcoscenico, foto di scena), ripercorreremo
la genesi delle scenografie del Barbiere di Siviglia e della Cenerentola, in larga parte ispirate alla
tradizione italiana della scena dipinta. Discuteremo quindi il processo creativo dei due allestimenti
(accentuando alcune apparenti discrepanze fra il bozzetto e la sua realizzazione performativa), la
loro funzionalità drammatica e l’aderenza alle esigenze della musica e del libretto. Titoli
indipendenti nella programmazione dei teatri di allora, Il barbiere e La Cenerentola diventano ora,
nell’estetica di Ponnelle, volti diversi di un progetto unitario, che troverà nell’unitarietà dell’idea
registica suo pieno compimento.
Alcuni riferimenti bibliografici:
Alessandro Sanquirico: il Rossini della pittura scenica, a cura di Maria Ida Biggi, Maria Rosaria
Corchia, Mercedes Viale Ferrero, Pesaro, Fondazione Rossini, 2007;
Vittoria Crespi Morbio, Ponnelle alla Scala, Milano, Allemandi, 2013;
Frederick J. Marker, Retheatricalizing opera. A conversation with Jean-Pierre Ponnelle, in «The
opera quarterly», 3/1985;
Mercedes Viale Ferrero, Scenography. Perspectives on the Evolution of Operatic Stages, in That’s
Opera. 200 Years of Italian Music, Ricordi, 2008
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Programma - Dipartimento di Storia dell`Arte e Spettacolo