Relazione
GIANNI VENTURI
Segretario Generale Cgil Marche
Bozza non corretta
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In questi anni che ci separano dal precedente Congresso si è prodotta un’ulteriore, brusca accelerazione
dei processi e degli effetti di ciò che, per semplicità, definiamo globalizzazione dei mercati e delle
economie.
Un’accelerazione tanto brusca da impedire, a volte, di coglierne il concatenarsi nello spazio e nel tempo.
Viviamo, in una sorta di “presente permanente”, la crisi più drammatica degli ultimi cento anni.
Non siamo né alla fine del capitalismo, né a quella del mercato e probabilmente non siamo nemmeno,
così come in parte avevamo sperato, alla crisi irreversibile delle più evidenti degenerazioni del mercato e
del capitalismo.
Ma siamo pur dentro ad una trasformazione epocale.
Tutti avvertiamo e ciascuno di noi intuisce che, in una qualche misura, qualcosa di molto profondo, nel
nostro modo di vita e nel nostro modo di pensare, sta confusamente cambiando.
Di questo cambiamento non distinguiamo nettamente i profili, non scorgiamo nettamente gli esiti, ma è a
noi tutti evidente che nuovi equilibri e nuovi rapporti di forza si vanno definendo nel nostro luogo di
lavoro, nelle nostre scelte di risparmio e di consumo, nell’impatto che esse avranno con il nostro futuro.
Questa percezione e questa capacità di leggere il cambiamento è decisamente indebolita da quell’effetto
di schiacciamento sul presente prima richiamato che distrugge tutto ciò che non sia “quotidiano”.
Ad esempio: di che cosa si discuteva appena due anni fa nel nostro Paese? Qual’era il mondo che
abitavamo, che abbiamo abitato fino all’estate del 2008, prima della grande crisi della finanza globale?
Era un mondo in cui il petrolio stava a 147 euro al barile; i prezzi di tutte le risorse di base, dai minerali
alle derrate agricole essenziali, erano in preda ad un impazzimento generale; la speculazione finanziaria
sulle materie prime imperversava; in tanti paesi emergenti erano in atto le rivolte per il riso; l’inflazione
era tornata a crescere pericolosamente.
E se vogliamo restare al nostro paese da noi imperversava il dibattito sulla capacità dei nostri salari e
delle nostre pensioni di arrivare alla quarta settimana o alla terza settimana del mese.
Quando il 14 settembre 2008 le autorità americane non riescono ad impedire la bancarotta, il fallimento
di Lehman Brothers tutto ciò scompare.
Scoppia la bolla finanziaria globale e tutti gli squilibri e le disuguaglianze dei modelli di sviluppo che ne
sono l’origine, la causa e non l’effetto, improvvisamente scompaiono.
L’eccesso di indebitamento, di capacità produttiva, di disuguaglianza sociale, le teorie e le politiche che ne
hanno concretamente sostenuto le sorti magnifiche e progressive tornano nell’ombra.
Non c’è nemmeno il tempo di avviarla questa discussione, di argomentare seriamente sulle responsabilità
liberiste della crisi, di indicare qualche possibile responsabile: i banchi dei possibili imputati risultano
immediatamente ed irrimediabilmente vuoti.
I più tenaci sostenitori delle virtù del mercato senza regole, degli spiriti animali del “turbocapitalismo” si
sono improvvisamente scoperti sostenitori dell’intervento pubblico, hanno ricominciato a pronunciare una
parola considerata fino a quei giorni impronunciabile: qui ci vuole lo Stato.
Uno di questi, che conosciamo molto bene perché è l’attuale Ministro del Tesoro del nostro paese, ha
pensato di scrivere addirittura un libro sul fallimento dell’ideologia liberista, sugli eccessi del
“mercatismo”, sull’uso spregiudicato della finanza creativa.
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E’ un po’ come se una volpe, più intelligente delle altre, avesse scritto un trattato sulla sicurezza del
pollaio.
E quando la crisi si allarga ed i fallimenti non riguardano più soltanto qualche banca, qualche fondo
assicurativo ma persino la tenuta di intere nazioni (ieri l’Irlanda e l’Islanda, oggi la Grecia) l’impiego di
risorse pubbliche per evitare il peggio diventano colossali.
Hanno ordini di grandezza che superano ogni immaginazione.
A marzo 2009 ammontano a 5.500 miliardi di dollari.
Tanto per avere un termine di paragone a valori correnti sono 7 volte il costo della guerra in Vietnam; 23
volte il programma spaziale Apollo, quello dello sbarco sulla luna; 47 volte il Piano Marshall per la
ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Di questo e di tanto stiamo parlando.
Poteva tutto ciò restare confinato nella sfera finanziaria?
Poteva tutto ciò non trasferirsi, rapidamente e pervasivamente all’economia reale, al sistema delle
imprese, alla condizione materiale di vita e di lavoro delle persone?
E si può immaginare di tornare agli equilibri ed ai meccanismi pre-esistenti nella distribuzione della
ricchezza, nella struttura dei redditi, nelle dinamiche salariali, nel rapporto tra finanza e produzione?
Oppure, come sosteniamo noi, siamo in presenza di una prospettiva globale che senza una fortissima
innovazione, senza l’introduzione di una regolazione possibile di questi processi su quella scala, è
destinata a tradursi in una lunga stagnazione, in una ripresa finta, senza crescita e senza occupazione e
soprattutto esposta al rischio ricadute?
Di questo si discute nel mondo. Governi, Parlamenti, Premi Nobel, Banche centrali, il Fondo Monetario
Internazionale, di questo discutono.
Non così accade in Italia. Con l’eccezione non trascurabile del Governatore della Banca d’Italia. E non
perché ovviamente il nostro Paese non sia stato colpito dalla crisi ma perché si è scelta
irresponsabilmente una linea “negazionista”: la crisi non c’è e se mai c’è stata adesso è alle nostre spalle.
La “bufala” era talmente grossa che, per renderla più credibile, si è pensato bene di accompagnarla con
misure da vigilia di un nuovo miracolo economico come la
detassazione dello straordinario e la
partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Com’è noto in questi diciotto mesi le imprese sono state
piene di lavoratori che facevano lo straordinario e di altri che festeggiavano la distribuzione dei profitti.
Purtroppo come faceva notare non più tardi di qualche giorno fa l’inserto economico di “Repubblica”, non
solo il miracolo non c’è stato, ma ciò che ha conosciuto il nostro Paese è esattamente il contrario.
L’economia italiana, dati alla mano, è quella che ha resistito meno alla crisi globale, non perché sia stata
colpita più di altre economie, ma perché la crisi globale si è sovrapposta ad una fragilità pre-esistente, ad
una condizione di declino relativo del nostro sistema produttivo che era già iniziata e che si era protratta
per tutti gli anni 2000.
Il nostro Paese rispetto ai paesi dell’Unione Europea ha registrato una minore crescita, una maggiore
contrazione dei consumi privati ed una maggiore inflazione.
Nell’ultimo biennio il PIL è diminuito del 6% in Italia, del 3,8 in Germania, del 2% in Francia.
I prezzi nei servizi sono cresciuti molto sopra la media: da febbraio paghiamo per un biglietto ferroviario il
15% in più; l’11% in più per i servizi postali; il 7% in più quando andiamo in autostrada e quando
dobbiamo pagare l’assicurazione dell’auto; il 6,5% in più per rifiuti urbani e per l’acqua.
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L’inflazione è cresciuta del 4,2% in Italia, in Francia ed in Germania del 3%; i consumi privati, in termini
reali, sono diminuiti del 2,7% in Italia e sono invece aumentati dell’1% in Germania e dell’1,7% in
Francia.
Insomma i dati contraddicono la propaganda, il “mantra” trasmesso dai telegiornali, secondo cui le cose
anche se non vanno benissimo, vanno comunque meglio che negli altri paesi.
E’ del tutto evidente che ormai le opinioni sono del tutto svincolate dalla realtà dei fatti.
E la realtà dei fatti dovrebbe suggerire l’urgenza di una strategia che difenda il lavoro, le imprese nella
crisi introducendo una riforma degli ammortizzatori sociali ad accesso universalistico, a prescindere dal
settore, dalla dimensione di impresa, dalla tipologia di contratto di lavoro.
Una riforma che sottragga i lavoratori colpiti dalla crisi, alle disposizioni attuali e che soprattutto li
sottragga all’autentico calvario cui sono sottoposti per il pagamento delle prestazioni in deroga, con tempi
che gridano vendetta rispetto alla loro condizione.
Una strategia che mentre difende il lavoro e le imprese riduca da subito le tasse sui lavoratori e sui
pensionati; ne sostenga il reddito; rilanci la domanda interna ed i consumi.
Realizzi una riforma fiscale motivata non solo da ragioni di giustizia e di equità, ma dalla necessità di
correttere alcune strettoie a cui è giunto il finanziamento del nostro sistema di protezione sociale
attraverso risorse derivanti dalla fiscalità generale.
Ne cito una per tutte: il sistema previdenziale pubblico e la necessità che esso nei prossimi anni sia in
grado di garantire una copertura credibile per intere generazioni di lavoratori precari, discontinui,
intermittenti altrimenti destinati a diventare pensionati poveri; o al massimo, come accade oggi a tante
persone anziane, di diventare soggetti umiliati da una politica che riscopre la carità, le “tessere del pane”
come alternativa al diritto ed alla valorizzazione dell’invecchiamento attivo.
Ed infine, la realtà dei fatti dovrebbe suggerire una strategia che mentre difende il lavoro e le imprese
imposti una traiettoria di uscita dalla crisi fatta di politiche attive del lavoro, di politiche industriali, di
sostegno alla ricerca, all’innovazione, ai saperi, alla conoscenza.
Invece nulla di tutto ciò, spesso il contrario di tutto ciò. Basti pensare al processo di distruzione di quel
grande patrimonio nazionale rappresentato dalla scuola pubblica, dal sistema pubblico della conoscenza.
Oppure all’insistenza con la quale si lavora allo smantellamento della stessa idea di lavoro pubblico, di
funzioni pubbliche.
In questa logica, secondo Brunetta, i figli dei lavoratori pubblici si dovrebbero vergognare di padri e madri
che fanno i vigili del fuoco, gli infermieri, gli insegnanti, e che ogni giorno presidiano, spesso in condizioni
drammatiche quei servizi che abbiamo efficacemente definito “fabbriche dei diritti” perché è ai diritti
delle persone che il lavoro pubblico deve dare esigibilità.
C’è in tutto questo una scelta lucida e cinica: la scelta di usare strumentalmente la crisi per dividere il
sindacato ed i lavoratori, incentivare risposte neo-corporative, indebolire le tutele individuali e collettive,
attaccare il cuore costituzionale delle stesse.
E’ avvenuto il 22 gennaio 2009 quando si è consumata una drammatica lacerazione sulle regole
contrattuali, è avvenuto qualche giorno fa con la dichiarazione comune sull’arbitrato a poche ore dallo
sciopero generale del 12 marzo.
Le metto insieme, perché insieme stanno.
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Quando a gennaio 2009 si decise di smantellare la costituzione materiale delle relazioni industriali nel
nostro Paese, risultò a noi subito evidente che l’innovazione di cui si vagheggiava, riguardava un punto
cruciale e per noi indisponibile: la possibilità cioè di andare ad un progressivo svuotamento del CCNL
come strumento unificante ed imprescindibile di regolazione dei rapporti tra capitale e lavoro.
Non solo dal versante del salario, ma delle regole, delle tutele, dei diritti, della rappresentanza e della
democrazia.
La decisione di contrastarlo e di riconquistare un nuovo sistema di regole condiviso è stata una decisione
di tutta la Cgil.
Contrastare e riconquistare non significa condannarsi all’inevitabilità degli accordi separati ed alla pur
necessaria azione giudiziaria contro l’applicazione degli stessi.
Molti contratti si sono rinnovati unitariamente ben oltre i vincoli ed i parametri che si intendevano
imporre, per ultimo quello del settore gomma-plastica.
Non per questo in quei contratti non sono presenti limiti e contraddizioni che l’autonomia delle categorie
ha diversamente contenuto e regolato: limiti e contraddizioni che un’applicazione attenta e dinamica di
quelle intese può aiutare a superare.
Laddove ciò non si è realizzato, o perché si è arrivati ad un accordo separato come nel caso di
metalmeccanici o perché non si riesce a chiudere come nel caso dei lavoratori della sanità privata che
attendono da 50 mesi, o laddove non si è riusciti nemmeno a presentare una piattaforma unitaria, più
acuta e più urgente si è fatta la necessità di darsi regole vincolanti sulla rappresentanza e sulla
democrazia sindacale, sull’estensione generalizzata delle RSU.
Su questo tema la CGIL avanzerà, subito dopo il Congresso, una proposta della Confederazione basata su
un unico modello per i settori pubblici e privati.
Così come proporrà un’eccezione di costituzionalità sul ddl “lavoro”.
Attraverso la certificazione e l’arbitrato, non solo si aggira l’art. 18 ma si svuota la funzione del contratto
collettivo.
Sarà infatti possibile, per il datore di lavoro, imporre un contratto certificato in cui il lavoratore rinuncia a
priori alla tutela giudiziaria per affidare l’eventuale controversia ad una “giustizia privata”, all’arbitrato.
E gli arbitri potranno giudicare “secondo equità”, ovvero senza il rispetto delle norme di legge e dei vincoli
del contratto collettivo (che i giudici dello Stato sono tenuti invece ad applicare).
I lavoratori sarebbero più soli e più ricattabili, di quanto soli e ricattabili non li abbia già resi un decennio
di assalti al diritto del lavoro.
Si vuole equiparare il diritto del lavoro al diritto commerciale, considerare appunto il lavoro come una
merce qualsiasi, cancellare l’asimmetria ineliminabile di condizioni, di poteri tra il datore di lavoro,
l’impresa ed il lavoratore.
Quell’asimmetria che è il fondamento, la ragione per la quale da sempre i lavoratori si organizzano
collettivamente per rimettere in equilibrio la bilancia dei diritti, dei poteri.
Ci si dice: ma la “dichiarazione comune” impedisce di applicare l’arbitrato alla risoluzione del rapporto di
lavoro che resta sotto la tutela giudiziale: l’art. 18 è salvo.
Formalmente sì, ma nella sostanza no. Si pensi che il termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento
è stato esteso anche ai licenziamenti intimati oralmente. I licenziamenti orali dilagheranno a macchia
d’olio: si accettano scommesse.
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Ad un datore di lavoro basterà sostenere che il licenziamento orale c’è stato, ben prima della data
indicata dal lavoratore, ben prima della scadenza del 60° giorno e si impedirà così di entrare nel merito
del giudizio.
E c’è da scommettere che nessuno si agiterà per un “decreto interpretativo” così come ci si è agitati per
riammettere le liste elettorali presentate dopo la scadenza prevista.
I diritti si distruggono anche aggirandone la tutela.
Saranno ovviamente gli organi di garanzia costituzionale a doversi pronunciare e, come sempre, la CGIL
rispetterà quei pronunciamenti.
Ma non c’è dubbio che siamo di fronte ad un attacco al cuore delle tutele costituzionali, alle fonti del
diritti del lavoro, alle ragioni della rappresentanza collettiva.
E’ per questa ragione, ed anche per il modo con cui si è voluto produrre questo ultimo strappo, che penso
sia giusto lanciare un monito a Cisl e Uil.
Chi avvelena i pozzi deve sapere che prima o poi l’acqua potabile finisce anche per chi quei pozzi li ha
avvelenati.
Definire “una vergogna” lo sciopero generale del 12 marzo, così come ha fatto Bonanni, è altra cosa dal
non condividerlo; non è una mancanza di rispetto verso chi lo ha proclamato: è un’offesa per qualche
milione di persone che scioperando e riempiendo le piazze hanno, come sempre, scioperato e manifestato
non solo per loro stessi, ma anche per gli altri, anche per difendere i diritti di chi è iscritto ad altre
Organizzazioni o non è iscritto a nessun sindacato.
Occorre invertire la marcia, ricostruire le condizioni e le ragioni di un’unità possibile.
Tanto più se quelle ragioni ci hanno consentito in questi mesi di lottare fabbrica per fabbrica, territorio
per territorio, per difendere anche un solo posto di lavoro che potesse essere difeso dentro la crisi.
Tanto più se quelle ragioni ci hanno consentito, qui nelle Marche, di raggiungere intese importanti con la
Giunta regionale, di sostenere e conquistare un Accordo di Programma con il Governo così significativo
per il territorio fabrianese e non solo; ci hanno consentito in decine e decine di comuni di contrastare e
contenere con la contrattazione sociale nei territori gli effetti della crisi sulle fasce più deboli, a cominciare
dalla condizione degli anziani.
Tanto più se quelle ragioni, qui nelle Marche, ci consentono anche in questi giorni, anche in queste ore, di
lavorare alla preparazione di una possibile iniziativa di sperimentazione di politiche attive del lavoro, nel
rapporto con le Associazioni di rappresentanza delle imprese, per i lavoratori in Cigs ed in mobilità!
Alla Regione, al Presidente Spacca, volentieri riconosciamo di aver svolto un ruolo importante nella crisi;
di aver messo in campo non solo strumenti e risorse, ma anche una sensibilità ed una volontà politica
senza le quali non sarebbe stato possibile costruire l’intesa di novembre e di rendere già operativi tutti gli
impegni in essa contenuti: dagli interventi di sostegno al reddito con il fondo di solidarietà, agli interventi
di stabilizzazione sul mercato del lavoro; dagli incentivi per l’occupazione ai contratti di solidarietà;
dall’intervento sui precari della scuola al sostegno per il diritto allo studio dei figli dei lavoratori colpiti
dalla crisi; dall’esenzione al pagamento dei ticket per le prestazioni specialistiche e di diagnostica
strumentale alla distribuzione garantita dei farmaci di fascia C.
Per ultimo, ma non certo per importanza, l’intervento sulla non-autosufficienza: l’impegno, deliberato
lunedì, ad utilizzare 5 milioni di euro dei 18 del finanziamento quadriennale per ridurre, già nel 2010, in
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termini significativi, il costo della retta per gli utenti delle residenze protette e per elevare la qualità e la
quantità dell’assistenza giornaliera all’interno delle stesse.
E’ un risultato davvero importante che ci consente di chiudere una partita che ci ha visti impegnati per
tutta la legislatura regionale e che non potevamo consegnare ad una fase, quella che si aprirà dopo il
voto di domenica, verso la quale nutriamo una qualche preoccupazione.
Non spetta a noi, alla CGIL, ricercare ed attribuire le responsabilità del mancato conseguimento di un
quadro politico e programmatico in grado di allargare la maggioranza che ha governato in questi anni.
Si vede che per una sorta di legge del contrappasso quando gli obiettivi sono troppo dichiaratamente
condivisi si finisce per mancarli.
Non c’è dubbio però che i problemi che si presentano all’apertura della nuova legislatura regionale
avranno comunque bisogno, per poter essere affrontati e risolti, anche del contributo di chi, a prescindere
dal dato puramente elettorale, ha radici e riferimenti tra chi è più colpito dalla crisi, nel mondo del lavoro.
In questi giorni, com’è naturale in una campagna elettorale, si sono moltiplicate le iniziative, i confronti
fra i candidati, la presentazione da parte di diverse associazioni delle priorità che legittimamente ognuno
considera tali.
Noi abbiamo chiesto al Presidente Spacca e a Massimo Rossi di partecipare ai lavori del nostro Congresso.
Li ringraziamo per aver accettato l’invito e per il contributo che intenderanno portare.
Noi non abbiamo la pretesa di presentare una piattaforma organica, né semplicemente di considerare
questa occasione di confronto come una occasione di circostanza.
Riteniamo utile piuttosto recuperare alcuni cenni di analisi e da questi far derivare alcune priorità su cui ci
piacerebbe conoscere l’opinione dei candidati ed, ovviamente, non solo dei candidati.
Da tempo, in particolare con il seminario di settembre, organizzato insieme ad Ires e Cgil nazionale,
abbiamo provato a contribuire ad una riflessione sui caratteri di fondo del modello di sviluppo
marchigiano su una crisi che ne muta i paradigmi e che è intervenuta in una fase in cui era già in atto un
significativo riposizionamento della struttura produttiva.
Si è andata profilando una mutazione dei caratteri della tradizionale organizzazione distrettuale in ragione
di un capitalismo “abitato” da imprese con percorsi di innovazione che hanno creato reti tra settori e
territori diversi; che hanno allungato la catena del valore intrecciando progettazione, produzione,
distribuzione ed assistenza ai prodotti.
Un processo di apertura, di internazionalizzazione degli investimenti che, come ha dimostrato anche un
recente studio dell’Osservatorio MET, ha assunto negli anni, qui nelle Marche, caratteristiche
profondamente diverse da quelle che ha assunto in altri sistemi territoriali.
Non a caso, ad esempio, nel Veneto, dove tale processo ha avuto un profilo di pura e semplice
delocalizzazione di fasi di lavorazione o di intere attività produttive, si assiste oggi ad un rientro di una
quota delle stesse.
Paradossalmente la qualità del processo di internazionalizzazione degli investimenti rende indisponibile,
nella crisi, questa leva e le strategie di uscita dalla crisi stessa, quando esistono, si affermano a livello di
singola impresa: producono differenze più che identità, esaltano difficoltà pre-esistenti come nel caso
dell’A. Merloni, non risparmiano imprese innovative come nel caso dell’Aethra, colpiscono realtà come la
Morbidelli SCM, producono desertificazione industriale come nel caso del territorio di Ascoli Piceno; si
estendono dai settori manifatturieri ai servizi, alla grande distribuzione organizzata.
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C’è il rischio che chi intravede una possibile uscita dalla crisi, in particolare ovviamente le imprese più
innovative, imbocchi una traiettoria che separa i destini della propria impresa da quelli del resto del
territorio, dalla catena dei sub-fornitori, dalla prospettiva dei lavoratori, da quella dei servizi locali.
In questo senso le difficoltà del distretto sono evidenti.
Come già segnalava la CARIFAC nel 2008 “…. volge al termine una filosofia produttiva senza che
all’orizzonte se ne scorga ancora con chiarezza una nuova”.
Come sempre il problema non è se si uscirà dalla crisi, ma il come.
Chi governerà le Marche nei prossimi anni sa bene che il tema è questo e che non saranno anni facili.
Bisogna risalire una china difficile. Esportazioni, fatturati ed ordinativi che in alcuni casi ed in alcuni settori
hanno conosciuto flessioni da brivido; 22 milioni di ore di cassa integrazione e 7 milioni di ore di
ammortizzatori in deroga nel 2009; 4.000 lavoratori che entro aprile vedranno esaurirsi i trattamenti di
integrazione al reddito e che l’INPS stima saranno 18.000 a fine 2010; la cassa integrazione di febbraio
che scende rispetto al mese di gennaio, ma che raddoppia rispetto allo stesso mese di febbraio dell’anno
scorso.
E’ quindi del tutto evidente che per noi la priorità resta la necessità di contenere e contrastare gli effetti
della crisi sull’occupazione, sul mercato del lavoro.
Ma non vi è dubbio che occorra anche una capacità di sapere usare la crisi per sostenere un
riposizionamento strategico del nostro modello produttivo.
Non stiamo vagheggiando di modelli post-industriali o post-manifatturieri.
I settori cosiddetti “maturi” riservano ancora margini interessanti di innovazione e di competitività
soltanto che si colga e soprattutto si realizzi un deciso sviluppo di servizi qualificati alla produzione.
Si pensi ai processi di trasferimento di nuovi materiali e di nuove tecnologie nel Tessile Abbigliamento
Calzaturiero; alle potenzialità della domotica nell’arredamento, ai materiali bio-energetici nell’edilizia; alle
inesplorate potenzialità dell’integrazione della meccanica e dell’elettronica
con la medicina e le
biotecnologie, con le cosiddette scienze della vita e come tutto ciò può interagire con una diversificazione
ed una riconversione produttiva necessaria e possibile.
Non si tratta anche qui di inseguire e di vagheggiare modelli di green e di soft economy.
Si tratta di ben altro; si tratta di assumere il concetto e l’orizzonte dell’eco-industria come un concetto ed
un orizzonte dove nascono e dove si possono riconvertire nuove e vecchie figure professionali, dove si
possono integrare nuovi e vecchi settori di intervento.
Se una grande azienda francese di auto, mette in commercio un modello costruito interamente con
materiali riciclati e riciclabili, perché una grande azienda del “made in Marche” non può fare altrettanto
sulla propria specializzazione produttiva? (e non soltanto in termini di consumo energetico).
E perché non si dovrebbero aprire anche da noi capitoli cruciali che legano ad esempio la raccolta
differenziata dei rifiuti, il recupero dei materiali, anche per filiere produttive, al sostegno di una più
elevata vocazione tecnologica dei nostri territori, delle nostre imprese?
Occorre impegnare le Università marchigiane (e non solo) sulla ricerca e sulla progettazione di una nuova
frontiera che può riguardare non necessariamente “l’invenzione di nuove produzioni”, ma la
trasformazione in senso eco-compatibile delle specializzazione produttive esistenti: dall’abbigliamento,
all’arredamento, agli elettrodomestici.
Perché non usare in questa direzione selettiva la riduzione dell’Irap; come peraltro, in parte già avviene?
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E perché non immaginare un grande piano sulle strutture pubbliche (scuole, ospedali, sedi istituzionali) a
cominciare dai materiali da usare, dall’ergonomia, dalla sicurezza?
Lo stesso principio può essere usato come potente fattore di propagazione dell’innovazione anche
nell’organizzazione del territorio, delle reti urbane, della mobilità sostenibile, della logistica intermodale:
per quanto ci riguarda può avere nel triangolo porto-interporto-aereoporto una straordinaria area di
sperimentazione.
E perché non usare la crisi per un “censimento”, per una ricerca e certificazione delle competenze, dei
saperi, delle esperienze delle persone che la crisi espelle dai cicli produttivi, per legare politiche attive del
lavoro ad obiettivi e piani di riconversione industriale?
Bilancio delle competenze, certificazione delle competenze, libretto formativo possono e devono diventare
anche in ragione del recente accordo sulle linee guida della formazione per il 2010, una leva formidabile
per sostenere questi processi.
Certo abbiamo bisogno di ripensare un po’ di cose: dai centri servizi alle imprese che nascono e che
operano con una logica di settore, alla rete pubblica di servizi al lavoro, alla necessità di rilanciarne, in
anni che saranno difficili per la bassa crescita e quindi per la ricollocabilità delle persone, le funzioni di
orientamento e formazione.
E certo dobbiamo ripensarle anche noi e il sistema di rappresentanza dell’impresa, non solo le Istituzioni.
A cominciare da come raccordiamo e decidiamo di usare in questa direzione le potenzialità legate ai fondi
interprofessionali, nel manifatturiero, come nel terziario e nei servizi consolidando ed estendendo le
buone pratiche di questi anni, in particolare per quanto riguarda l’impegno della CGIL e di IRES sui temi
della salute e della sicurezza in ambiente di lavoro.
Si può e si deve sperimentare un approccio, una contrattazione di filiera anche a partire dagli spazi che in
tale direzione apre il documento di valutazione dei rischi per le imprese e le attività cosiddette interferenti
(l’indotto, gli appalti, i sub-appalti) e dobbiamo sollecitare, da parte della Regione, una funzione di
raccordo sui fondi disponibili (dal FSE, ai Fondi Interprofessionali, alle risorse regionali e statali) con un
diretto coinvolgimento di RLS e RLST.
Come spero si sia capito, noi non siamo interessati a questa discussione sul modello di sviluppo per una
semplice curiosità intellettuale.
Infatti il collocarsi delle produzioni su frontiere a maggior valore aggiunto, l’incremento della produttività
totale dei fattori, non favorisce soltanto la competitività delle imprese.
Determina anche le condizioni per un’occupazione di qualità, per ridurre il differenziale tra domanda ed
offerta di lavoro intellettuale, per ridurre l’uso della flessibilità interpretata come primo fattore di costo e
che ha determinato, in questi anni, un rallentamento della produttività del lavoro e dell’efficienza
produttiva realizzando, tranne rare eccezioni, un ulteriore spostamento delle specializzazioni verso settori
a minor contenuto tecnologico.
Abbiamo poi il versante dei servizi alla persona e di come tutto ciò che ci siamo detti finora, incrocia la
loro organizzazione e la loro fruibilità.
Il nostro sistema regionale di welfare insieme a punte e reti di eccellenza presenta elementi di criticità e
strozzature che la dissennata politica dei governi centrali di questi anni non ha consentito di superare;
criticità e strozzature che l’Osservatorio sulla contrattazione sociale (CGIL – SPI – IRES) puntualmente
rileva e che la negoziazione regionale e locale non è riuscita a colmare.
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E’ così per le politiche sociali, per i servizi di frontiera che sopravvivono ad una condizione nella quale al
crescere quantitativo e qualitativo della domanda (si pensi alle ricadute su questi servizi di fenomeni
come l’immigrazione, la dispersione scolastica, il disagio, la non-autosufficienza) ha corrisposto una
progressiva riduzione di risorse professionali e finanziarie.
Si pensi alla condizione degli alunni disabili: a 5.000 di questi nella nostra regione non viene neanche
garantito il rapporto medio di un docente ogni due alunni; per poterlo garantire servirebbero altri 269
docenti di sostegno.
Condizioni per le quali non esiste ragione di sottrarre neanche un euro al welfare pubblico regionale, oltre
quelli di cui è stato già “depredato” e che costringe le famiglie ad acquistare persino la carta igienica da
portare a scuola.
Ed è così anche per il sistema sanitario regionale. Si è realizzata in questi anni un’operazione di
risanamento contabile necessaria in particolare per evitare il rischio di ulteriori penalizzazioni nei
finanziamenti statali. Tuttavia, come tutte le operazioni di risanamento, essa ha avuto un “costo”.
Ha avuto un “costo” in termini di riduzione e di utilizzo intensivo delle risorse umane e professionali. Ha
avuto un “costo” in termini di contenimento dell’innovazione tecnologica.
Ha avuto un “costo” in termini di riduzione, in alcuni casi anche giustificata, dei costi relativi alla voce
beni e servizi.
Più volte la CGIL e la categoria della Funzione Pubblica hanno sottolineato e denunciato un “clima” tra gli
operatori della sanità non certamente tra i migliori:
tra gli operatori della sanità pubblica, tra gli operatori della sanità privata, tra gli operatori di quelle
cooperative sociali su cui spesso si è scaricata una parte consistente del “risanamento”, in termini di
salario e di diritti e per i quali la CGIL rivendica, per loro come per tutti coloro che svolgono funzioni
appaltate dal pubblico, una legge quadro regionale di tutela e di valorizzazione.
Ma ciò su cui insisteremo ancora di più con il prossimo Governo regionale è la necessità di far
corrispondere all’equilibrio finanziario, un profondo, reale processo di riorganizzazione dei servizi.
Più qualità, meno liste di attesa, più integrazione, più prevenzione.
Per fare ciò è indispensabile un rigoroso percorso di autorizzazione ed accreditamento delle strutture
pubbliche e private; è necessario darsi obiettivi di salute misurabili; è necessario costruire un rigoroso
controllo di impatto sulla salute delle tecnologie strumentali ed organizzative; investire sulla formazione
degli operatori; rilanciare la partecipazione alle scelte.
Ed è necessario correggere il modello organizzativo.
Nei programmi elettorali vi sono segni, tracce che lasciano pensare di aver intrapreso la via giusta: vi
chiediamo di fare “l’ultimo miglio” insieme, ognuno nella propria autonomia, ognuno con la propria
responsabilità.
Autonomia e responsabilità che va messa a disposizione di una iniziativa più generale sui destini dello
sviluppo locale con la consapevolezza che essi dipenderanno sempre di più dall’attivazione di “processi
intenzionali” e sempre meno, quei destini, potranno essere lasciati alla combinazione spontanea dei
fattori che hanno sostenuto in passato il nostro modello di sviluppo: la flessibilità del lavoro ed i bassi
salari, la conoscenza senza investimenti, l’innovazione senza ricerca, la coesione senza welfare.
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Sempre più cioè la capacità di creare economie esterne e beni collettivi sull’asse innovazione –
sostenibilità dipenderà da processi consapevoli di scambio e di relazione tra governance territoriali e
capitale sociale disponibile.
Il tema non è certamente nuovo; è l’urgenza che deriva dalla crisi che è nuova e che però può indicare
alla legislatura regionale che si apre un sentiero virtuoso e stimolante da praticare.
In questo contesto fatto di crisi aziendali quotidiane, di urgenze da inseguire, di strettoie da presidiare, di
scioperi da organizzare, abbiamo tenuto il nostro congresso.
2.401 assemblee di base alle quali hanno partecipato in 44.724. Di questi 44.724 partecipanti, anche non
iscritti alla CGIL o iscritti ad altre Organizzazioni sindacali, in 36.945 hanno scelto, deciso, votato
assegnando 31.182 voti (85,44%) al documento Epifani; 5.312 voti al documento Moccia (14,56%).
Un livello di partecipazione decisamente superiore a quello che abbiamo registrato al Congresso
precedente, in cui i voti certificati furono 30.086, assolutamente non scontato e superiore a tante nostre
aspettative.
Abbiamo scelto di tenere questo XVI^ Congresso su documenti completamente alternativi. Molti di noi, io
tra i tanti, si sono battuti per evitare che ciò accadesse mossi da una unica preoccupazione: che il
presentarsi alle assemblee di base con queste modalità potesse indurre tra i nostri iscritti la percezione di
una divisione insanabile nel gruppo dirigente.
E che tale percezione costituisse in sé un danno: per l’insieme della CGIL, non favorisse né l’una, né
l’altra delle mozioni, potesse generare una sorta di rigetto.
Il punto della discussione non ha mai quindi riguardato la legittimità di tale scelta.
I congressi di categoria, territoriali e regionali, e delle Camere del Lavoro Territoriali come dimostrano
anche i documenti conclusivi, gi ordini del giorno presentati, hanno segnato
uno sforzo notevole di
misurarsi con ciò che il percorso precedente ci ha riconsegnato, oltre ai rapporti di forza tra le mozioni, in
termini di nodi irrisolti e di sfide che stanno di fronte a tutti noi.
Sfide che riguarano, in primo luogo, la neessità di consolidare e di estendere un processo di
rinnovamento, spesso faticoso, della nostra Organizzazione. Abbiamo infatti, in questi anni, promosso
quadri, lavorato per riequilibrare la presenza di genere negli organismi e nella responsabilità generale di
direzione di alcune, importanti strutture, insistito con qualche maggiore difficoltà e resistenza per
promuoere la presenza ed il ruolo dei lavoratori immigrati.
I risultati, gli esiti parziali non devono scoraggiarci, né indurci a pensare che sulla parzialità di quei
risultati non pesino, al di là delle nostre volontà, contesti e difficoltà di ordine più generale. Al contrario
devono renderci più esigenzi, più realisticamente esigenti.
Questo sforzo, che compete ovviamente anche al lavoro che dovremo fare in questi due giorni di
Congresso regionale, non deve né nascondere, né banalizzare le differenze che hanno attraversato il
nostro Congresso.
Per rispetto delle persone che su quelle differenze si sono espresse, per rispetto di chi ha ritenuto che
esse fossero tali da giustificare un congresso su mozioni contrapposte, per rispetto di chi pure
immaginando modalità diverse di dibattito non le ha appunto né sottovalutate, né banalizzate.
Resto, com’è evidente, della mia opinione. In particolare dell’opinione che se non si fosse affermata così
nettamente l’idea di confederalità contenuta nel primo documento, noi ci saremmo avviati, la CGIL si
sarebbe avviata, su un percorso che ne avrebbe cambiato legittimamente, ma profondamente la natura.
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La CGIL non solo non è una sommatoria di strutture di rappresentanza, né tantomeno la risultante dei
rapporti di forza tra esse, ma il suo pluralismo interno, le diverse sensibilità si organizzano, quando e se
decidono di farlo, per aree programmatiche, non per categorie di appartenenza.
Se vogliamo preservare, aggiornandola, questa straordinaria esperienza di rappresentanza generale e
solidale, che consente di tenere insieme, alla pari sul piano dei diritti statutari, gli addetti delle imprese di
pulizia con i ricercatori ed i docenti universitari, i metalmeccanici con gli stagionali dell’agricoltura o del
turismo, i lavoratori pubblici con i lavoratori privati, i precari ed i giovani con i pensionati; i lavoratori
italiani con i migranti; se vogliamo fare questo ci è richiesto un po’ di più, non un po’ di meno di
responsabilità verso chi si rappresenta anche e soprattutto quando si decide di esprimere valutazioni
legittime, ma di affidarle ad un quotidiano piuttosto che alle commissioni che preparano i documenti
congressuali.
Si rischia altrimenti di ingenerare qualche imbarazzo e qualche incomprensione. A me è capitato di fare
congressi di base con compagni onestamente e convintamente impegnati a sostenere le ragioni del
secondo documento che iniziavano così: “ per fortuna che in questo Paese c’è la CGIL”
Forse non sapevano che le ultime righe della “presentazione” del documento che stavano sostenendo
indicano la CGIL come un potenziale problema per i lavoratori di questo Paese, o almeno che così viene
percepita la CGIL nell’opinione pubblica.
E’ giusto essere esigenti con noi stessi, avere la consapevolezza dei ritardi e dei limiti della nostra
iniziativa, ma allo stesso tempo è necessario avere la consapevolezza che nella crisi se una percezione tra
i lavoratori c’è, è quella di una Cgil che fa da argine, spesso solitario, ad una deriva che non è soltanto
della struttura produttiva del Paese, che non riguarda soltanto il suo declino economico, ma che riguarda
il patto costituzionale, il sistema di regole condivise, le prospettive della democrazia, i diritti di
cittadinanza.
E’ anche per questo che siamo onorati della scelta dell’ANPI di tenere a giugno ad Ancona la Festa
Nazionale e di dare a questa festa già nello slogan che la promuove “Italiani, di Costituzione” il senso ed il
segno di un appuntamento non puramente celebrativo, un appuntamento che sarà concluso
dall’intervento del Segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, insieme a Martin Shultz e ad Armando
Cossutta.
Sarà l’occasione per festeggiare, ma anche per riflettere, dibattere attorno alle sfide che attendono noi,
Italiani di Costituzione.
Tra queste sfide forse la più difficile è la sfida dell’integrazione, della capacità cioè della nostra società,
non solo della nostra economia, di misurarsi con gli effetti dei flussi di lavoratori migranti.
Nei giorni scorsi, il 1° marzo, hanno deciso di non esserci: in realtà sono stati costretti, paradossalmente,
a scomparire per diventare visibili.
Eppure gli immigrati sono una realtà importante di questo Paese.
Sono il 7% della popolazione italiana, nelle Marche nel 2010 la popolazione extracomunitaria raggiungerà
il 10%.
Rappresentano il 13% dei nuovi nati; il 10% della forza lavoro con punte del 12 nell’industria, del 15 in
agricoltura, del 18 nei servizi, del 30% in edilizia.
L’80% del lavoro domestico e dell’assistenza familiare si regge su di loro.
Producono il 10% del PIL, pagano 11 miliardi all’anno di tasse e contributi.
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Nessuno può pensare che non siano anche destinatari di diritti e nessuno può pensare che sia una
questione che riguarda soltanto loro.
Bisogna avere e dare la consapevolezza che quei diritti sono diritti di tutti. Per questo facciamo bene a
fare il 1° maggio, insieme a Cisl e Uil, a Rosarno.
Sono diritti che oggi si scontrano con i rigurgiti xenofobi e razzisti che hanno condotto ad una
legislazione, penso all’introduzione del reato di clandestinità, che rappresenta un vero e proprio strappo
nella cultura giuridica e nella civiltà di questo Paese.
Quando non vengono respinti in mare, quando non vengono rinchiusi nei centri in attesa di essere
respinti li condanniamo all’irregolarità, al lavoro sommerso, allo sfruttamento peggiore.
Ed invece di combattere lo sfruttamento, il lavoro sommerso, le condizioni spesso disumane in cui si
trovano, ne organizziamo “la deportazione” com’è avvenuto a Rosarno, li trasformiamo in bersagli per le
nostre carabine non appena quelle braccia da sfruttare diventano persone che rivendicano diritti o che
addirittura ci insegnano come ribellarsi alle stragi mafiose com’è accaduto a Castelvolturno.
Non c’è nessuna inclinazione “buonista” in tutto questo. C’è la consapevolezza che possiamo e dobbiamo
pretendere da loro il rispetto delle regole e della legalità se prima di tutto siamo in grado di esigerle per
noi stessi e di rispettarle per primi.
La responsabilità forse più grave di chi governa il Paese è aver decisamente indebolito la percezione della
legalità, la necessità, prima ancora che il rispetto, delle regole.
Come sosteneva lo scrittore e giornalista Corrado Alvaro, poco prima di morire negli anni ’50, “la
disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente,
rispettando le regole, sia del tutto inutile”.
Quando i primi a violarle sono coloro che ne dovrebbero pretendere il rispetto, diventa difficile essere
credibili.
Un governo che non rispetta le regole a partire da quelle costituzionali, e pensa di interpretarle di volta in
volta a seconda delle proprie convenienze, segnala un problema democratico. Segnala la necessità che a
partire dal mondo del lavoro, da una sua ritrovata unità, venga una reazione in grado di difendere e
rafforzare le fondamenta costituzionali di questo Paese. Altro che usare la crisi per dividere il mondo del
lavoro.
Nella storia del nostro Paese, nei suoi passaggi più stretti e difficili, i lavoratori hanno saputo unirsi e
indicare una fuoriuscita da quelle strettoie.
E’ stato cosi nel secondo dopoguerra!
E’ stato così quando abbiamo sconfitto il terrorismo!
E’ stato così quando il nostro Paese si è trovato sull’orlo della bancarotta.
Dobbiamo riuscirci di nuovo oggi per uscire dal declino e fermare la deriva costituzionale.
La CGIL è in campo!
W la Costituzione, il lavoro, la CGIL.
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