LA DONNA FATALE TRA EVOLUZIONE ED EMARGINAZIONE A Thesis submitted to the Faculty of the Graduate School of Arts and Sciences of Georgetown University in partial fulfillment of the requirements for the degree of Master of Arts in Italian Studies. By Courtney N. Owens, B.S. Washington, DC April 23, 2013 Copyright 2013 by Courtney N. Owens All Rights Reserved ii LA DONNA FATALE TRA EVOLUZIONE ED EMARGINAZIONE Courtney N. Owens, B.S. Thesis Advisor: Gianni Cicali, Ph.D. ABSTRACT In the history of women there have been many controversial figures that have challenged the stereotypes and traditional ideas about women formed by patriarchal societies. Amidst the women who chose to break the rules of society and contradict the perfect, “feminine” model of purity, there are some women that can be considered true heroines of their time. Such women outside of the regular schemas of society are called many different names: vampire, man-eater, ogress, siren, tiger, witch, amazon, seductress, or courtesan. The all-encompassing name is femme fatale and she finds an ally in the beginnings of cinema and she becomes known as diva. The silent movies become her world stage and with the silver screen she finds an outlet to seduce a new audience: the everyday people. The purpose of this thesis is to examine the evolution of the Italian femme fatale of Italian silent film by following examples of her origins in 19th-century history, art, fashion, poetry, theater and literature. The popularity of the femme fatale culminates in the 1910s and then her figure eventually becomes marginalized by societal pressures. The function and role of the Italian femme fatale is discussed from a symbolic and iconographical point of view, while considering the femme fatale’s implications for feminism. Does the Italian femme fatale represent modernity and the emancipation of women? Or, does she only confirm gender roles set by men? Does her role in Italian silent film mirror changes, or represent progress off the silver screen? The thesis attempts to answer such questions by analyzing the films and the lives of Francesca Bertini, Pina Menichelli, Lyda Borelli as well as Eleonora Duse. iii The research and writing of this thesis is dedicated to everyone who helped along the way. Vi ringrazio tanto, Courtney iv TABLE OF CONTENTS INTRODUZIONE ...................................................................................................................................................... 1 LA NASCITA DELLA FEMME FATALE ............................................................................................................ 3 LA BELLE ÉPOQUE E L’ART NOUVEAU ........................................................................... 4 DECADENTISMO ...................................................................................................................... 9 CHARLES BAUDELAIRE E LES FLEURS DU MAL, 1857 ......................................... 11 FEMME FATALE E MODA EMANCIPATA ..................................................................... 15 LA DONNA FATALE TRA TEATRO E LETTERATURA ........................................................................... 20 LA SECONDA DONNA DEL TEATRO ............................................................................... 22 DIVISMO .................................................................................................................................... 24 IL DIVA-‐FILM ........................................................................................................................... 27 THE TRAGEDY OF MACBETH, WILLIAM SHAKESPEARE 1606 ......................... 28 LA LOCANDIERA, CARLO GOLDONI 1752 ................................................................... 30 FOSCA, IGINIO UGO TARCHETTI 1869 ........................................................................ 33 LA LUPA, GIOVANNI VERGA 1880 ................................................................................. 35 SI GIRA, LUIGI PIRANDELLO 1916 ................................................................................ 37 BUONA O CATTIVA? – L’OTTICA FEMMINISTA .................................................................................... 43 IL MODELLO DA SEGUIRE: LA DONNA EMANCIPATA ......................................... 43 L’ANTI MODELLO: LA DONNA MALVAGIA ................................................................ 46 LE GRANDI DIVE DEL CINEMA MUTO ITALIANO ................................................................................ 50 FRANCESCA BERTINI .......................................................................................................... 51 ASSUNTA SPINA, CAESAR FILM 1915 ........................................................ 52 MARION, BERTINI FILM 1920 ....................................................................... 57 PINA MENICHELLI ............................................................................................................... 64 IL FUOCO, ITALA FILM 1915 .......................................................................... 65 TIGRE REALE, ITALA FILM 1916 .................................................................. 81 LYDA BORELLI ....................................................................................................................... 86 RAPSODIA SATANICA, CINES FILM 1917 .................................................. 87 L’ANTI-‐DIVA: ELEONORA DUSE E CENERE, AMBROSIO FILM 1916 .............. 91 IL RUOLO DELLA DONNA FATALE ................................................................................. 93 CONCLUSIONI ....................................................................................................................................................... 95 BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................................... 98 v INTRODUZIONE Nella storia delle donne che hanno sfidato gli stereotipi formati dalla società patriarcale, ci sono sempre state figure controverse. Fra le donne che non si sono conformate alle regole sociali della loro epoca, o al modello della “femmina” perfetta, ci sono alcune che possono essere definite come eroine della loro epoca. Tali donne fuori dagli schemi regolari della società sono state chiamate con molti nomi diversi: vampira, mangiatrice d’uomini, donna rapace, sirena, tigre, seduttrice, strega, orchessa, o chanteuse. Il nome onnicomprensivo è femme fatale e con l’inizio del cinema la femme fatale diventa una diva. Il cinematografo diventa il suo palcoscenico mondiale e con il grande schermo trova uno sbocco per sedurre un nuovo pubblico: la gente comune. Discuteremo l’evoluzione della donna fatale nel cinema muto italiano seguendone esempi della storia, nell’arte, nella poesia, nel teatro e nella letteratura ottocenteschi. La donna fatale rappresenta la modernità e l’emancipazione delle donne negli anni dieci o conferma soltanto le strutture patriarcali? Rispecchia la società italiana contemporanea o solo una sua piccola frazione? La popolarità della donna fatale culmina negli anni dieci e poi la sua figura diventa marginalizzata dalle pressioni sociali. La funzione e il ruolo della donna fatale in particolare sono discussi da un punto di vista simbolico e iconografico, considerando nello stesso tempo le implicazioni della femme fatale per il femminismo. La tesi cerca di rispondere a tali domande analizzando i film e la vita di Francesca Bertini, Pina Menichelli, Lyda Borelli, e in piccola parte Eleonora Duse. Le immagini e i simboli sono importanti non solo quando sono indicatori di caratteristiche intrinsecamente femminili come i fiori, ma anche quando rappresentano elementi determinanti di aspettative culturali e sociali. Le prime dive del cinema italiano “provide a kind 1 of visual archetype of the notion of representational fatality connected to larger issues of desire and shifting cultural fantasies about women in art” (Ramirez 65). La diva è una figura le cui origini si trovano nel repertorio pervenutoci di immagini e nei temi dei romanzi decadenti e dell’arte ottocentesca. In questa discussione tratterò il potere iconografico della femme fatale e come i suoi simboli caratteristici sono universalizzati nel tempo, portando con sé tutte le nozioni essenziali della sessualità femminile (e i pericoli di quella sessualità) che essi implicano. I simboli della femme fatale, se prodotti dalla poesia, dall’arte, dalla moda, dalla letteratura o dal cinema muto, creano costantemente immagini nella nostra mente in contrasto con il loro vero significato. È il loro vero significato che cerco di definire. Com’è stata rappresentata sul grande schermo l’anti-modello “mangiatrice” d’uomini, la donna androgina e moderna? Si può dire che essa sia una finestra sul futuro di una certa condizione femminile? Vedere l’effetto della donna fatale nel cinema muto, e chiedersi quale siano state la reazione e le prime impressioni del pubblico è una domanda che ha una sua rilevanza. Perché proprio negli anni dieci la femme fatale raggiunge un livello di celebrità nazionale che attraversa tutte le classi sociali? Esamineremo queste domande in aggiunta alla figura della donna fatale seguendo l’ottica femminista per vedere se aveva contribuito a emancipare le donne, o se le aveva soltanto condannate a un’immagine negativa. Prima di poter rispondere a queste domande, dobbiamo iniziare dalle origini della femme fatale quasi cinquant’anni prima che diventi una diva. Da dove proviene? Come si è trasformata nella stella del cinema muto? 2 LA NASCITA DELLA FEMME FATALE Non possiamo essere sicuri quando o dove il termine femme fatale sia esattamente nato. Sappiamo tuttavia che il termine si trova nella letteratura francese nel 1854 e la comparsa di donne che possono essere alternativamente denominate come figlie d’Eva o donne fatali appare nelle rappresentazioni visive negli anni sessanta dell’Ottocento (Menon 3). Ma il suo personaggio si trova in una certa misura già nella letteratura più antica della storia, cioè nella Bibbia. Nell’Antico Testamento, ad esempio, è Eva che tenta Adamo per fargli mangiare la mela proibita, esiliando così per sempre l'umanità dal giardino dell'Eden. Il Medio Evo è “tormentato” da storie di streghe pericolose e potenti, la più conosciuta delle quali era la Fata Morgana, una maga malvagia e seducente nella storia di Re Artù. Lei è l'antagonista di Re Artù e del mago Merlino e prova a far cadere il regno (anche se sono molte le varianti, e la fonte principale rimane il cosiddetto ciclo arturiano). Altri archetipi leggendari sono Lilith, Salomé, Jezebel nella Bibbia, la Maga Circe di Omero, Elena di Troia, Cleopatra, la maga Alcina e Armida della letteratura epico-cavalleresca Rinascimentale, solo per citarne alcuni. Però la figura della femme fatale diviene particolarmente celebrata e personificata nell'arte e la letteratura dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Perché lei è assurta a tale importanza in questo periodo nella storia europea? E’ un prodotto dell'epoca che riflette i cambiamenti della società da cui è venuta. La femme fatale è una costruzione, una ricostruzione e un’esigenza per l'espressione culturale del diciannovesimo secolo. In questo capitolo seguiremo l’evoluzione della femme fatale dalle sue origini nella Belle Époque francese, dalla sua popolarità nell’art nouveau, per poi seguire le tracce della sua essenza e della sua natura in coincidenza con i temi del decadentismo, per giungere infine al suo ruolo nello sviluppo e nell’emancipazione nella moda coeva. Tutto questo è importante per capire da 3 dove la figura della femme fatale sia venuta e anche per fornire uno sfondo storico in cui nasce questa figura ambigua. LA BELLE ÉPOQUE E L’ART NOUVEAU E’ in questo momento della storia, chiamato la Belle Époque, che iniziamo il nostro viaggio. I termini di questo periodo della storia francese ed europea sono convenzionalmente fissati tra il 1871 e gli anni subito precedenti la Prima guerra mondiale, che inizia nel 1914. E’ stato un periodo caratterizzato da ottimismo, dalla pace in Europa, dalle nuove tecnologie e dalle scoperte scientifiche, celebrate anche nel famoso Ballo Excelsior andato in scena alla Scala nel 1881. In quest’epoca nasce l’art nouveau, un nuovo stile d’arte e architettura che avrà la sua maggiore diffusione negli anni tra il 1890 e il 1910. L’art nouveau era molto diffusa anche nella cultura italiana, e viene definita come Stile Liberty.1 Lo Stile Liberty include sia lo stile art nouveau di aspetto commerciale, sia il suo elemento esotico. Esempi di questo stile, che influenzò vari tipi di arte e architettura, si possono ancora osservare in alcune parti d'Italia – per lo più a Torino, Milano e Napoli.2 Lo stile in generale era ispirato da strutture e forme naturali come i fiori, le piante e anche le linee curve, rendendo lo stile fluente, floreale e dal movimento naturale. Architetti e pittori intendevano armonizzare i loro lavori con la natura, per rendere, ad esempio, la statua una parte naturale di un palazzo e l’arte una forma viva. L’arte non era più solo riservata ai dipinti e alle statue, ma anche ai palazzi, ai gioielli e ai mobili – tutto poteva essere un’opera d’arte vivente. 1 Questo stile “nuovo” ha rappresentato i disegni moderni dai negozi “Liberty & Company” a Londra che apparteneva ad Arthur Liberty. 2 Gli esempi dell’architettura italiana nello Stile Liberty sono la Galleria Principe di Napoli, la Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, o la Casa Fenoglio-‐Lafleur a Torino, solo per citarne alcuni. 4 In piena in art nouveau francese, Oscar Wilde ha reinventato la femme fatale nella rappresentazione di Salomè (1891)3. Certi modelli del cinema muto italiano furono influenzati dalle tendenze nella produzione artistica contemporanea, che migra in parte nel cinema muto, ma le loro tracce si possono trovare chiaramente nella letteratura del diciannovesimo secolo. I codici estetici, i gusti e le idee che emergono dal film muto italiano sono derivati direttamente dall'arte e dalla letteratura decadente che li hanno preceduti. Nella Belle Époque, la Salomè di Oscar Wilde (1891) è diventata una figura popolare anche nell’arte coeva. Per esempio, Aubrey Beardsley4 è stato senza dubbio uno degli artisti più controversi dell’epoca ed era noto per le sue immagini erotiche e stilizzate, a volte quasi grottesche, che erano i temi principali delle sue opere. Le sue illustrazioni per il testo di Salomè (la versione inglese fu rappresentata a Londra per la prima volta nel 1894) sono emblematiche del periodo. Salomè è raffigurata come una donna esotica, sanguinaria, oscura, crudele e seducente: 3 Salomè è un personaggio biblico che appare nel Nuovo Testamento come la figlia di Erodiade. Secondo le tradizioni cristiane Salomè è dipinta come un’icona della pericolosa seduzione femminile, soprattutto per quanto riguarda la danza (anche citata nel Nuovo Testamento). La sua danza “erotica” diventa famosa come “danza dei sette veli” nella Bella Époque. La tradizione cristiana la guarda come la donna che ha causato la morte di San Giovanni Battista. 4 Aubrey Beardsley è stato un illustratore inglese. I suoi disegni a inchiostro nero con uno sfondo bianco hanno sottolineato il grottesco, il decadente e l'erotico (i temi prominenti dell’epoca). 5 (The Dancer’s Reward, 1894 e The Peacock Skirt, 1893 di Aubrey Beardsley) Nell’illustrazione, The Dancer’s Reward (1894), la testa di Giovanni Battista è servita a Salomé su un piatto d’argento dopo che ha inscenato la sua danza leggendaria dei sette veli. L’altra illustrazione di Beardsley con l’immagine di Salomè, The Peacock Skirt (1893), mostra una donna moderna vestita con una gonna con disegni di pavoni e piume di pavone tra i capelli – un simbolo di bellezza e una moda moderna. La moda delle piume ha raggiunto il suo apice negli anni 1901-1910 ed è diventata così popolare nell’epoca che un “Plumage Bill”5 a Londra era stato proposto e poi rifiutato dalla Camera dei Comuni nel 1920. Il 10 di luglio dello stesso anno, H. W. Massingham (1860-1924), con lo pseudonimo di ‘Wayfarer’, ha fatto le seguenti osservazioni relative al fallimento del “Plumage Bill”: What does one expect? They have to be shot in parenthood for child-bearing women to flaunt the symbols of it, and, as Mr. Hudson says, one bird shot for its plumage means ten other deadly wounds and the starvation of the young. But what do women care? Look at Regent Street this morning! (Wayfarer cited in The Plumage Bill by Virginia Woolf; 337) 5 “The Plumage Bill” è stato un progetto di legge nel 1920 che voleva “prohibit the importation of the plumage of birds and the sale or possession of plumage illegally imported” (Collinge, “The Plumage Bill and Bird Protection”). 6 Woolf dipinge un ritratto duro della spensierata, auto-indulgente donna di moda – l'acquirente delle piume. Woolf la presenta in un modo che conferma quello che ha detto Wayfarer: One can look at Regent Street without leaving one’s room […] Men and women pass incessantly this way and that […] And then there comes on foot, so that we may have a good look at her, a lady of a different class altogether. A silver bag swings from her wrist. Her gloves are white. Her shoes lustrous. She holds herself upright. As an object of beauty her figure is incomparably more delightful than any other object in street or window. It is her face that one must discount, for, though discreetly tinted and powdered, it is a stupid face, […] When she comes to the display of egret plumes, artfully arranged and centrally placed, she pauses. So do many women. For, after all, what can be more ethereally and fantastically lovely? The plumes seems to be the natural adornment of spirited and fastidious life, the very symbols of pride and distinction. (Woolf 337) Ma altrove Woolf presenta un ritratto molto più duro degli uomini – sono i cacciatori e i commercianti che trasformano l'uccisione in una merce, e peggio ancora gli uomini del parlamento che non sono riusciti a passare il “Plumage Bill” e vietare il commercio delle piume. Woolf chiede al suo pubblico di mettere in discussione il codice sociale che condanna i piaceri delle donne – l’amore per la bellezza e la moda – come un peccato, mentre i piaceri degli uomini – le loro passioni per la caccia, le donne e i soldi – sono accettati e addirittura valorizzati: “Can it be that it is a graver sin to be unjust to women than to torture birds?” (Woolf 338). La “Lady Soand-So” – la donna elegante che segue la moda delle piume notata dalla Woolf – è una figura prodotta e commercializzata dal sistema maschile (Foster & Patchett 3-4). Salomè è un’icona inventata dagli uomini eppure consumata voracemente dalle donne. Hanno cercato di imitare una figura popolare che era spesso rappresentata a teatro e nell’arte. Il desiderio della donna aristocratica o borghese di assomigliare a Salomè era personificato nella moda contemporanea (perché le donne di certo non potevano esibirsi in danze erotiche in pubblico, ancor meno chiedere di tagliare la testa a un uomo e servirla su un piatto d'argento). Salomè (e come vedremo anche nel caso della diva italiana) è un personaggio vanesio e 7 narcisistico e a lei non importa chi uccide per amore di se stessa. E’ un paradosso totale, perché la moda è in parte un riflesso e un prodotto della società maschile ma è consumata da donne che stanno cercando di apparire “moderne” ed “emancipate”. La figura della femme fatale e Salomè stessa erano prodotti del loro tempo, la loro immagine era associata ad una moda esotica e orientaleggiante, che nasce dal desiderio di fuggire in un mondo lontano. Il soggetto di Salomè era utilizzato come una metafora del potere seducente delle donne. In un clima decadente, la figura di Salomè è legata all’esaltazione della femme fatale: una donna crudele e seducente che porta alla morte un uomo (spesso il suo amante). Salomè è simbolica ed è una rappresentazione tipica della femme fatale, oltre ad essere un motivo quasi popolare dell’inizio del secolo. Salomè rappresenta il pericolo di una donna cattiva e seducente. Per esempio, lo scrittore francese Karl Joris Huysmans descrive la reinvenzione di Salomè nella Belle Époque in questi termini: Elle n’était plus seulement la baladine qui arrache à un vieillard, par une torsion corrompue de ses reins, un cri de désir et de rut ; qui rompt l’énergie, fond la volonté d’un roi, par des remous de seins, des secousses de ventre, des frisons de cuisse ; elle devenait, en quelque sorte, la déité et de rut ; qui rompt l’énergie, fond la volonté d’un roi, par des remous de seins, des secousses de ventre, des frissons de cuisse ; elle devenait, en quelque sorte, la déité symbolique de l’indestructible Luxure, la déesse de l’immortelle Hystérie, la Beauté maudite, élue entre toutes par la catalepsie qui lui raidit les chairs et lui durcit les muscles ; la Bête monstrueuse, indifférente, irresponsable, insensible, empoisonnant, de même que l’Hélène antique, tout ce qui l’approche, tout ce qui la voit, tout ce qu’elle touche. Ainsi comprise, elle appartenait aux théogonies de l’extrême Orient ; elle ne relevait plus des traditions bibliques, ne pouvait même plus être assimilée à la vivante image de Babylone, à la royale Prostituée de l’Apocalypse, accoutrée, comme elle, de joyaux et de pourpre, fardée comme elle ; car celle-là pas jetée par une puissance fatidique, par une force suprême, dans les attirantes abjections de la débauche. (Huysmans 74-75) Il suo personaggio è reinventato in quest’epoca e diventa qualcosa d’altro. E’ una donna bella che però diventa anche una donna mostruosa e bestiale che utilizza le sue armi femminili: “The 8 threat posed by the fatal woman lies ultimately not in her feminine beauty or eroticism but rather in the way in which she establishes rule over men by utilizing the apparently “masculine” qualities of power and authority” (Sully 57). E’ possibile che la figura di Salomè sia una personificazione di ansie e paure maschili, ma è anche possibile che sia una rappresentazione dei cambiamenti moderni coincidenti con i diritti delle donne. L’unica cosa sicura è che la figura di Salomè ha avuto grande successo e popolarità in questo momento della storia, e senza la reinvenzione di Salomè in quest’epoca la donna fatale del cinema muto italiano non si sarebbe mai evoluta. DECADENTISMO La figura della Vamp (un soprannome creato nel cinema muto per la donna vampiro)6 è molto simile alla femme fatale francese e il personaggio diventa molto popolare nel Decadentismo. Il Decadentismo è centrale nello sviluppo della donna fatale nel cinema muto e fondamentale per la letteratura italiana contemporanea. Il movimento artistico-letterario si è sviluppato in Europa a partire dalla seconda metà dell'Ottocento fino agli inizi del ventesimo secolo. I decadenti “refused objective representations of the world, employing fantasy, myth and allegory as their chosen subjects. They desired to escape the mundanity of commonplace existence and were interested in altered states of reality” (Sully 48). In senso negativo, il Decadentismo è spesso associato a un crollo dell’umanità, indicando quelli che preferiscono vivere fuori dalle norme comuni in favore di una vita esotica, piacevole e di lusso. Per dare un esempio visivo, guardiamo un dipinto in stile “decadente”: 6 L’appellativo fu coniato per Theda Bara (al secolo Theodosia Burr Goodman, 1885-‐1955), la prima vamp della storia del cinema americano (e mondiale), oltre che oggetto di desiderio erotico per il pubblico dell’epoca. 9 (The Roses of Heliogabalus, 1888 di Lawrence Alma-Tadema) In questo dipinto, un imperatore romano, Eliogabalo, ricopre gli schiavi con un’abbondanza di fiori. L’imperatore nel dipinto uccide i suoi schiavi con una cascata di fiori (una metafora per i piaceri, il lusso e l'eccesso): alcuni muoiono soffocati perché non possono sfuggire alla follia di Eliogabalo. L’abbondanza dei fiori sarà un tema popolare nella letteratura italiana decadente (per esempio, ne Il Piacere di Gabriele D’Annunzio), e apparirà spesso nel cinema muto italiano delle dive.7 La femme fatale nel Decadentismo appare di solito come un personaggio di donna dissoluta e tentatrice che si diverte a rendere gli uomini suoi schiavi. Il mondo decadente tende a enfatizzare la figura femminile creando una miscela agrodolce di attrazione e diffidenza. In quest’ambito nasce la tendenza all’emancipazione perché queste donne sono descritte come personaggi dominanti e autorevoli. Inoltre si creano ritratti di donne sensuali e disinibite che sollevano tempeste di passione e di lussuria (Giovambattista Fatelli). Queste figure femminili 7 Nel capitolo sesto, “Le grandi dive del cinema muto”, vedremo esempi specifici in cui si trova il tema dei fiori e l’influenza del Decadentismo. 10 sono essenzialmente “cattive” e di solito moralmente ambigue, e spesso delle antieroine contrapposte alle eroine positive. Fisicamente le donne fatali sono brune con occhi castani quasi socchiusi e di solito i loro corpi sono voluttuosi. Questo tipo di donna è spesso rappresentato con un gran potere sugli uomini: lei è maga, seduttrice, vampira, strega o demone. Fra i più grandi dei decadenti dell’epoca c’è l’italiano Gabriele D’Annunzio, e parleremo di lui e dell’influenza della sua letteratura più avanti. Per ora è importante notare uno dei primi decadenti in Europa e il suo ruolo nello sviluppo della femme fatale: Charles Baudelaire. CHARLES BAUDELAIRE E LES FLEURS DU MAL, 1857 Charles Baudelaire era un poeta parigiano “decadente” che ha scritto molto sulle donne e l’amore nel suo capolavoro, pubblicato per la prima volta nel 1857, Les Fleurs du mal. La femme fatale è esplicitata bene nella sua poesia perché Baudelaire scrive delle caratteristiche animalesche delle donne e del loro potere carnale. E’ possibile anche che il titolo sia ispirato alle donne: sono i fiori del male, belle ma pericolose come la mela proibita del Paradiso terrestre. Per Baudelaire, una donna era un bell’animale – bella ma pericolosa. Come Eva del giardino d’Eden, le donne hanno la potenzialità di portare la fertilità o la distruzione totale. Sul soggetto delle donne nelle sue poesie, Baudelaire ha dichiarato “The strange thing about woman—her preordained fate—is that she is simultaneously the sin and the hell that punishes it” (Richardson 75). E’ probabile che l’immagine femminile della femme fatale sia cominciata con Jeanne Duval, l’amante e musa di Baudelaire. Il poeta l’ha chiamata la sua "venere nera", forse perché era haitiana, o forse anche a causa delle sue caratteristiche oscure. Per Baudelaire, Jeanne Duval rappresenta una bellezza nuova: né idillica, né angelica, è una bellezza oscura e quasi brutta, animalesca e fatale. La donna è spesso rappresentata come una vampira o una diavolessa 11 incantevole. Baudelaire si sente vittima dei suoi incantesimi ed è sempre incapace di combattere il suo potere su di lui. I suoi sentimenti ambigui contro la Duval sono documentati nella sua poesia. Non è un segreto che Baudelaire abbia sofferto di sifilide, (che molto probabilmente ha contratto dalla Duval o da una prostituta) ed è ironico che la malattia venerea si manifesta in pezzi di petali che si formano intorno ai genitali – perciò les fleurs du mal. Tutto sommato non è sicuro che la sua donna fatale personale fosse l’ispirazione per le sue poesie; però è chiaro che le donne raffigurate nelle sue poesie hanno delle caratteristiche che riconosciamo come femme fatale, e Baudelaire utilizza spesso simboli ricorrenti (per esempio, la donna-vampiro, i fiori, il carattere dark8 e feroce, la donna-serpente). Nelle poesie c’è un tema chiaro: la donna può essere un'incantatrice capace di distruggere (o meglio, succhiare) l'animo di un uomo; ma, allo stesso tempo, è la sua strada per il cielo – un paradiso terreno di piaceri e desideri. Le donne raffigurate nelle poesie di Baudelaire sono la sua principale fonte ispirazione “decadente”, e spesso la donna funziona come intermediaria tra il suo paradiso personale e l'inferno. Le donne sono la sua potenza e tuttavia comportano anche la sua rovina totale. In realtà la sua amante haitiana aveva la pelle nera, ma era però un carattere dark che allo stesso tempo serve come ispirazione, fornisce la perfezione fugace, è una maledizione e lo condanna all'amore non corrisposto e ad una morte prematura. Le donne, per Baudelaire, incarnano l'elevazione verso Dio insieme alla discesa graduale verso Satana. Questa dinamica era nata dalle sue relazioni ossessive e morbose con la Duval – la donna è Beatrice ma anche la Vampire. In altre poesie Baudelaire associa le donne alla natura con caratteristiche animalesche creando così un nuovo ruolo femminile in cui la donna è rappresentata come la rovina per l’uomo, la sua 8 In questa tesi la parola dark è utilizzata in riferimento all’aspetto fosco di malinconia o di mistero e ha una connotazione inquietante. La parola suggerisce anche le caratteristiche o le forze di un male minaccioso. 12 antagonista. Per il poeta parigino, la donna fatale esisteva nella sua vita reale ed era anche l’ispirazione per la sua arte. Vediamo ora come Baudelaire ha raffigurato la sua esperienza personale con una femme fatale nelle sue poesie. Tra le poesie di Baudelaire, le seguenti trattano delle donne femme fatale: Les Métamorphoses du vampire; Le Serpent qui danse; Le Vampire; Les Chats; La Destruction; Le Chat; Une Martyre; Allégorie; Sed non satiata; L'Idéal; Les Hiboux; La Beauté; L’Idéal; Danse macabre. Secondo Baudelaire, le donne sono viste sempre come intrinsecamente sessuali, come esseri portatori di un notevole erotismo. Di solito hanno un potere ingannevole sessualmente e sono raffigurate come vampire o felini. Baudelaire dipinge ciò che deve essere una femme fatale, e ne vedremo delle tracce nel personaggio donna fatale del cinema muto italiano. Per esempio, nella poesia intitolata Les Métamorphoses du vampire Baudelaire nota la trasformazione di una donna che all’inizio del loro incontro amoroso è seducente e gradevole. Però cambia il suo carattere come se lei avesse due facce – quella prima della conquista, e poi quella successiva, ed è questa che prende quello che voleva da lui: […] Quand elle eut de mes os sucé toute la moelle, Et que languissamment je me tournai vers elle Pour lui rendre un baiser d'amour, je ne vis plus Qu'une outre aux flancs gluants, toute pleine de pus! Je fermai les deux yeux, dans ma froide épouvante, Et quand je les rouvris à la clarté vivante, À mes côtés, au lieu du mannequin puissant Qui semblait avoir fait provision de sang, Tremblaient confusément des débris de squelette, Qui d'eux-mêmes rendaient le cri d'une girouette Ou d'une enseigne, au bout d'une tringle de fer, Que balance le vent pendant les nuits d'hiver. (Baudelaire, Fleurs du Mal; Les Métamorphoses du vampire) In questa poesia Baudelaire raffigura una donna che utilizza le sue armi femminili come una vampira, lo seduce per sfruttare le debolezze maschili e poi, appena ha preso quello che voleva, 13 si trasforma nella sua forma reale. In Danse macabre la donna è raffigurata come uno scheletro, e il corteggiamento di questa sorta di donna è un ballo di morte. In Sed non satiata il poeta scrive: Bizarre déité, brune comme les nuits, Au parfum mélangé de musc et de havane, Oeuvre de quelque obi, le Faust de la savane, Sorcière au flanc d'ébène, enfant des noirs minuits, Je préfère au constance, à l'opium, au nuits, L'élixir de ta bouche où l'amour se pavane; Quand vers toi mes désirs partent en caravane, Tes yeux sont la citerne où boivent mes ennuis. Par ces deux grands yeux noirs, soupiraux de ton âme, Ô démon sans pitié! verse-moi moins de flamme; Je ne suis pas le Styx pour t'embrasser neuf fois, Hélas! et je ne puis, Mégère libertine, Pour briser ton courage et te mettre aux abois, Dans l'enfer de ton lit devenir Proserpine! (Baudelaire Fleurs du Mal; Sed non satiata). Questa donna “bruna come le notti” è assolutamente incantevole, e con l’elisir dei suoi baci l’uomo diventa schiavo dei propri desideri bestiali. Megera viene dalla mitologia greca ed è la ragione per la gelosia e l’invidia nel mondo. Nella lingua italiana il nome stesso denota una donna gelosa o dispettosa – letteralmente significa una donna malvagia, perfida, strega, oppure un’arpia. L’autore si riferisce in parte a Prosperina, una divinità greca che, innocente e bellissima, fu rapita da Ade, dio degli Inferi, per essere la sua sposa. L’anima dell’uomo è stata rapita da un demone femminile che, senza pietà, la porta negli Inferi. Les amoureux fervents et les savants austères Aiment également, dans leur mûre saison, Les chats puissants et doux, orgueil de la maison, Qui comme eux sont frileux et comme eux sédentaires. Amis de la science et de la volupté Ils cherchent le silence et l'horreur des ténèbres; L'Erèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres, S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté. Ils prennent en songeant les nobles attitudes Des grands sphinx allongés au fond des solitudes, 14 Qui semblent s'endormir dans un rêve sans fin; Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles magiques, Et des parcelles d'or, ainsi qu'un sable fin, Etoilent vaguement leurs prunelles mystiques. (Baudelaire Fleurs du Mal; Les Chats) In questa famosa poesia di Baudelaire è indubbio che les chats siano una personificazione delle donne. Parla della loro sensualità e della loro forza in aggiunta al loro aspetto dark. Sono creature della notte, e una divinità greca, Erebo (il figlio di Caos e il fratello della Notte), le avrebbe utilizzate come destrieri. Erebo rappresenta l'oscurità del mondo e può anche alludere agli inferi. Tra altro parla anche del potere mistico dei loro occhi, un tema che continuerà a essere in tutte le descrizioni e rappresentazioni delle donne fatali. Per quanto riguarda l’evoluzione della figura femme fatale e della sua immagine, è ovvio che le donne rappresentate nelle poesie che abbiamo visto sono figure cattive. Baudelaire aveva timore di queste donne e allo stesso tempo le rispettava. Il poeta era in anticipo sui suoi tempi, cioè viveva una vita già decadente, e ha vissuto più per piacere e per i vizi umani. Dobbiamo ricordarci che i Fleurs du mal di Charles Baudelaire è pubblicato nel 1857, prima dell’art nouveau, prima della rappresentazione di Salomè, e prima del Decadentismo, e senza dubbio Baudelaire e le sue poesie con la figura di femme fatale svolsero un ruolo importante nella sua ascesa alla popolarità nell’Ottocento. E’ vero che la donna oscura nella sua vita lo tormentava molto, tuttavia, le sue caratteristiche (preservate nel tempo nella poesia di Baudelaire) saranno la base dell’immagine della femme fatale rappresentata più tardi nel cinema muto italiano. FEMME FATALE E MODA EMANCIPATA Oltre all’arte, al Decadentismo e alla poesia, si possono trovare altre tracce della femme fatale anche nella moda coeva. Ovviamente il cinema degli anni dieci era muto, quindi, come 15 spettatori, dobbiamo utilizzare l’iconografia per capire meglio i personaggi, le loro caratteristiche e le trame in generale. È sorprendente che la moda fosse un modo utile per diffondere dei messaggi perché l’evoluzione delle donne fatali nel cinema muto è collegata allo sviluppo della moda “alta” dell’epoca coeva. Per esempio, le case di alta moda (haute couture) del diciannovesimo secolo hanno aderito a una sensibilità derivante dall’art nouveau, puntando alla massima bellezza attraverso una combinazione di eleganza e opulenza. Le loro creazioni ornate hanno richiesto corsetti lunghi per ottenere l'effetto desiderato, cioè un’artificiale silhouette per creare una curva che assomigliava a una S (nota come la “S-curve”). Questi corsetti lunghi distorcevano il corpo naturale e ostacolavano così tanto la mobilità che, anche se le donne hanno seguito tali stili in pubblico, hanno cercato una fuga da quest’abbigliamento restrittivo all'interno delle loro case. L'emancipazione della moda femminile è iniziata intorno allo stesso tempo dell'emergere del cinema muto italiano. I riformatori degli abiti da donna avevano sollecitato l'abolizione del busto a partire dalla metà del XIX secolo, tuttavia, è stato con lo stilista francese Paul Poiret che l'Europa ha visto finalmente una mossa drastica verso la sua abolizione. Nel 1907 Poiret è stato il primo a progettare abiti sciolti, eleganti, con un giro-vita elevato e senza un busto. Poiret ha respinto l'uso di un corsetto per gli abiti femminili spostando il punto di gravità dalla vita alle spalle. Questo è venuto dal desiderio di Poiret di liberare le donne dal corsetto per creare nuova forma di bellezza. Il suo nuovo disegno “a vita alta” aveva solo bisogno di un reggiseno. Molti dei suoi disegni o modelli includono uno stile esotico e orientaleggiante (compresi i turbanti) con colori vivaci (Fukai, Suoh, Zaidan, and et al 332). Il busto nel passato è stato usato essenziale per la creazione di una perfetta figura femminile “a clessidra”, e fino al 1907 gli abiti da donna erano specificamente tagliati per 16 adattarsi a un corsetto. Poiret era un rivoluzionario perché ha creato vestiti per dare una forma naturale al corpo di una donna. I suoi vestiti erano più sciolti, più morbidi e in linea con il corpo di una donna vera, invece di costringere il corpo a conformarsi ai capi di abbigliamento come gli stilisti precedenti avevano fatto. Il corpo della donna non deve più essere strettamente tenuto in una silhouette definita. Oltre alla costrizione del corpo di una donna, i busti erano estremamente scomodi e avevano lo scopo di controllare i movimenti . L'abolizione del busto è stata un punto di riferimento nel processo di emancipazione e indipendenza delle donne del tempo. Le “curve” di una donna non sono più esagerate nell'abbigliamento. Le influenze della moda “emancipata” e “androgina” sono chiaramente visibili nel cinema muto italiano, e vedremo più avanti degli esempi specifici della moda contemporanea quando discuteremo le dive e i loro film (“Fashion in the 1910’s”). 17 (Evening Dress: Label Paul Poiret. 1910-1911) (“The Kimono Coat”: Label Paul Poiret. Rue Pasquier 37 Paris c. 1909) (Fukai, Suoh, Zaidan, and et al. 346-350) Con la nascita delle dive del cinema muto, l’abbigliamento femminile ha trovato un nuovo mezzo per pubblicizzare l’ultimissima moda emancipata. Alla fine, la moda nel cinema muto era ispirata dalla moda contemporanea, e poi le dive hanno portato la moda “alta” alle donne di tutti i giorni. Le donne hanno cominciato a vestirsi come le attrici che avevano visto sul grande schermo (Fukai, Suoh, Zaidan, and et al 332). Lo sviluppo della femme fatale non è avvenuto improvvisamente. In modo relativamente lento, è apparsa in poesia, nell’arte, nel teatro, e ha anche influenzato la moda moderna. Il momento storico era perfetto: la Belle Époque e il Decadentismo erano necessari per stabilire lo sfondo ideale in cui la femme fatale poteva essere messa in risalto. Inoltre, Salomè e tutte le altre 18 femme fatale del periodo sono comunemente percepite come un archetipo fondamentalmente femminile, ma sarebbe più corretto considerarle come figure cui la bellezza femminile si combina con caratteristiche maschili (Sully 57). L’immagine decadente della femme fatale, che nasce nell’Ottocento in piena Belle Époque, univa tradizione e modernità. La femme fatale ha attraversato una grande reinvenzione nell’Ottocento ed era utilizzata per esprimere le idee contemporanee, però le sue primissime origini provengono da miti e leggende antiche della nostra storia (Sully 56). Fortunatamente, la reinvenzione e l’evoluzione della femme fatale non si ferma qui – presto affronterà un’altra riscoperta nel teatro e letteratura italiana. 19 LA DONNA FATALE TRA TEATRO E LETTERATURA La donna fatale non è comparsa dal nulla, è nata e ispirata anche dal teatro coevo. Il suo ruolo cinematografico è strettamente legato alla tradizione teatrale dell’inizio secolo XX. In tutte le sue molteplici espressioni, il teatro “fornisce al cinema un elemento chiave del film, l’attore, portando nella nascente industria una consolidata rete di tradizioni legate all’organizzazione del mestiere sulle scene” (Jandelli, “La nascita del ruolo cinematografico in Italia”: 1). In queste compagnie di attori, il capocomico è sempre un solo attore (o anche un’attrice). Le compagnie hanno una gerarchia rigida con il capocomico in vetta alla scala gerarchica: lui o lei decidono tutto, scelgono quali testi mettere in scena e quali attori interpretano le diverse parti secondo i loro ruoli nella compagnia (ad esempio prima attrice, primo attor giovane, generico, servetta ecc.). La gerarchia e gli attori del cinema muto hanno tracce spettacolari nelle compagnie degli attori legate alla gerarchia dei ruoli. Il ruolo particolare di un attore è definito nel contratto di scrittura e rappresenta una sorta di super-testo: Un modo per conoscere a priori alcuni aspetti fondamentali dello spettacolo e ne influenzava la recitazione. L’attore ottocentesco sapeva come il proprio ruolo doveva intonare le battute, come si doveva vestire, truccare e come interpolare la parte con brani scelti per ottenere il consenso del pubblico. Per merito del commercio costante con il proprio ruolo, specializzazione che cambiava nel corso della vita, l’attore dell’Otto-Novecento poteva recitare testi drammatici diversi ogni sera anche per venti, trenta giorni di fila. (Jandelli, “La nascita del ruolo cinematografico in Italia”: 1) I ruoli e la loro gerarchia continuano anche nel cinema muto, per esempio nelle immagini qui sotto, tratte da un film, l’attrice protagonista è Pina Menichelli e il suo nome appare come il più 20 grande, oltre ad essere l’interprete più pagata. Un procedimento che è erede delle locandine delle compagnie teatrali, dove compariva al primo posto della lista degli interpreti l’attrice o l’attore con il ruolo principale, e spesso, ancor prima di loro, il nome della compagnia composto di solito, ma non sempre, dal nome degli attori principali. (Inquadrature dai film: Tigre Reale 1916, Assunta Spina 1915 e La Signora delle Camelie 1915) Nella seconda e terza inquadratura, il nome di Francesca Bertini appare subito dopo il titolo e così fornisce un’attenzione speciale verso l’attrice protagonista. In una compagnia teatrale, la celebrità di un’attrice (o un attore) da sola poteva portare tutta la compagnia al successo. L’attore più famoso e con più battute riceve lo stipendio più alto. Nel teatro del primo Novecento, di matrice ancora sette-ottocentesca, il ruolo dell’attore determina i personaggi che recita. Questa struttura gerarchica, che ha influenzato sia il teatro che l’opera, si travasa nel cinema degli anni dieci ma anche, in parte, in quello successivo: “Il cinema delle dive è il luogo dell’affermazione di una nuova arte della recitazione che ognuna intende affermare e difendere per confrontarsi con un inarrivabile modello di riferimento culturale, l’attore del teatro italiano” (Jandelli 2006, 18). La struttura per i ruoli delle compagnie teatrali trasmigra nel cinema, anche per una necessaria mancanza di nuovi modelli organizzativi per cui il cinema, che ancora deve affermarsi come arte completamente indipendente e autonoma, si rivolge al teatro coevo. Infatti, molti attori teatrali migrano verso il cinema: “I grandi attori teatrali furono tutti, nei film, primi attori, cioè mantennero la loro supremazia anche in ambito 21 cinematografico, almeno finché non incontrarono il cinema delle dive” (Jandelli, “La nascita del ruolo cinematografico in Italia”: 3). LA SECONDA DONNA DEL TEATRO Le attrici del cinema muto sono venute da queste compagnie di attori. Il sistema dei ruoli ha continuato nel cinema muto però in un maniera modificata o, meglio, moderna. Le donne che recitano i ruoli di seconda donna nel teatro diventano le dive del cinema muto. Ma come? La seconda donna nel sistema teatrale tradizionale ottocentesco è un ruolo minore e appartiene a un’attrice in posizione subordinata rispetto alla prima attrice ed è la sua antagonista quasi naturale. La seconda donna, come ruolo, di solito interpreta parti in cui è l’amante, o in generale “l’insidiosa antagonista della prima attrice nell’intrigo amoroso” (Jandelli 2002, 357). A causa della sua posizione nel triangolo amoroso, le sue caratteristiche sono legate all’aspetto esteriore. E’ sempre giovane, bellissima, seducente, e molto spesso è la causa di un adulterio. Anche la moda della seconda donna la faceva apparire intrigante e seducente perché indossava gli abiti con un’ampia scollatura e un lungo strascico. E’ una “donna in carne, pettoruta e procace” e soprattutto “attraente”, “né troppo giovane né attempata” e “capace di innescare al solo apparire i meccanismi della seduzione adulta e consapevole” (Jandelli 2002, 357). Secondo le regole del teatro dell’epoca, per essere una seconda donna, l’attrice non può esserlo “prima dei vent’anni, perché ancora intrisi di candore giovanile, né superata la quarantina per non cadere nel grottesco” (Jandelli 2002, 357). Più importante è che la seconda donna non abbia alcun rimorso né pentimento, è un essere senza moralità, o per lo meno non segue le regole morali consuete. Inoltre, la seconda donna del teatro ottocentesco è “la figura nera del dramma, la macchinatrice subdola e malevola che gode delle disgrazie provocate e infierisce sulle sue vittime causandone 22 la rovina per puro piacere” (Jandelli 2002, 357). Molto spesso una volta che un’attrice diventa seconda donna, resta nel ruolo finché raggiunge la sua maturità. La seconda donna del teatro è diventata “il tipo” della donna fatale nel cinema muto. La prima attrice del teatro è una donna virtuosa mentre la seconda donna è sempre giovane, ha un’aspetta fisico (o meglio, carnale) attraente ed è una seduttrice. E’ la peccatrice che seduce senza rimorsi e incarna le parti della cortigiana, della delatrice, o dell’adultera. Dietro la trasformazione della seconda donna si nasconde l’emergenza di nuovi modelli sociali femminili: la donna moderna, emancipata e più importante fatale. Le caratteristiche della seconda donna teatrale diventano le caratteristiche essenziali per l’attrice protagonista nel cinema muto (Jandelli “La nascita del ruolo cinematografico in Italia”, 3-4). La diva “è condensata in una tipologia definita dei due principali ruoli presenti nel teatro di prosa, quelli di prima e di seconda donna. La Diva assume i caratteri di entrambi, e in più intende venir riconosciuta come artista, si ritiene depositaria di un sapere che poggia su secoli di pratica scenica e di plauso popolare” (Jandeli 2006, 221). La diva è l’equivalente dell’Artista: Cioè donna intellettuale e donna emancipata, letteralmente: gli altissimi compensi percepiti trasportarono le principali attrici del cinematografo in quegli stessi paradisi dannunziani che avevano decretato sullo schermo il loro successo, determinandone un repentino innalzamento sociale. La diva delinea l’esistenza di una nuova figura di donna: è una bellezza particolarmente fotogenica e lautamente remunerata dalla nascente industria cinematografica per le sue performance spettacolari che diventa un oggetto del desiderio e un modello da imitare (Jandelli 2006, 221). 23 Tutte queste caratteristiche si aggiungono alla definizione del “tipo” cinematografico della donna fatale. E’ evidente che le attrici cinematografiche abbiano reso ancora più intense le tinte del ruolo della seconda donna teatrale, comportando con il ruolo l’esagerazione massima della femminilità, lo splendore dei vestiti e l’esibizione della vanità. Con questo gusto decadente per l’esagerazione, insieme alle radici teatrali, la donna fatale diventerà l’icona di un’epoca intera. DIVISMO Le caratteristiche della seconda donna non bastano per essere una diva del cinema muto italiano, bisogna aggiungerne un’altra parte importante come quella del divismo che la trasformerà in una vera stella del cinema. Diversamente dal teatro, il cinema muto Esperisce la realtà attraverso la sua riproduzione meccanica e a sua volta essa penetra nell’esperienza umana: il mondo “visto” rende reali, attraverso lo schermo, gli esseri umani raffigurati nella loro dimensione prima solo visiva, poi visiva e sonora. Questo modello cinematografico della realtà permette all’uomo novecentesco di compiere una nuova esperienza. (Jandelli 2007, 10) Con questa nuova esperienza moderna nasce il divismo cinematografico in Italia, un fenomeno mutuato sui modelli del teatro coevo. Un divo è paragonabile a una grande star del sistema americano. Il divismo è un fenomeno nato verso il ventesimo secolo ed è cominciato a teatro. Il termine divo viene dalla divinizzazione di un attore o attrice. Un’attrice diventa divina quando la sua immagine si trasforma in un’icona e in qualcosa di simbolico, e la sua faccia viene conosciuta da tutti. Il divismo cinematografico è nato in Italia a causa dei famosi divi teatrali italiani. All’inizio del ventesimo secolo, come abbiamo visto, la popolarità di un solo attore o di una sola 24 attrice poteva creare una compagnia intera intorno a lui (o lei). Per esempio, la fama di una come Eleonora Duse permetteva alla compagnia di girare di più il paese, di suscitare molta attenzione tra i giornalisti e attrarre più spettatori. In altre parole, la gente va a vedere una rappresentazione solo perché il suo attore o la sua attrice preferiti recitano il ruolo di primo attore o di prima donna. Per esempio, la gente va a guadare Cavalleria Rusticana di Giovanni Verga perché la Duse recita la parte di Santuzza. La popolarità e l’uso del divismo a teatro nell’Ottocento sono trasferiti nel cinema degli anni dieci del Novecento però con un pubblico molto più vasto. Al cinema la rappresentazione può raggiungere facilmente e velocemente un numero maggiore di spettatori ed è il pubblico che ha reso i divi così famosi perché s’identifica con loro e/o sogna di essere come loro (Jandelli 2007, 10). L’attore era già delineato dal teatro, però Mancano ancora […] altri tre incontri decisivi: con il personaggio cinematografico, con il film narrativo e con l’impiego seriale della propria professionalità. Da questi presupposti nasce l’attore di cinema. Ma sarà da un altro incontro, quasi contemporaneo alla definizione del suo ruolo e del suo status sociale, quello fra i personaggi cinematografici e la persona dell’attore che li interpreta –promosso, orchestrato e utilizzato dai media per incrementare i loro profitti, d’intesa con il comparto produttivo –, che il divismo cinematografico vedrà la luce. (Jandelli 2007, 20) Il divo cinematografico è sempre un attore, però qualsiasi attore non è sempre un divo. Un attore ha la capacità di recitare personaggi diversi, mentre il divo è più come una produzione del cinema: “…ogni attore cinematografico interpreta un personaggio, ma solo il divo sa impersonarlo in modo convincente sovrapponendo a esso la propria immagine” (Jandelli 2007, 25 11). I divi riescono anche a creare un personaggio su loro stessi. Francesca Bertini era senza dubbio la migliore a creare la sua persona-diva come “la Bertini” e ha dovuto mantenere il suo personaggio tutti i giorni fuori dallo schermo: era sempre “in personaggio”. Lei cammina per le strade sempre in un’aura di splendore e fascino insieme alla sua grande personalità, e nessuno sapeva che lei viveva invece, nei suoi ultimi anni, in povertà. L’impegno del divo cinematografico “non è solo dare vita ai delicati processi empatici…ma anche nel prolungarne l’illusione fuori dallo schermo con la loro immissione nel circuito più vasto della comunicazione” (Jandelli 2007, 11). In vita sono cartelloni vivi che pubblicizzano se stessi, cosicché il divo è completamente legato alla sua immagine, cioè alla sua identità sul grande schermo e anche fuori. Quell’identità poi è continuamente rigenerata e ripetuta in altre pellicole. Quando il cinema delle dive nasce negli anni dieci del Novecento, c’era bisogno di nuove tecniche e nuovi trucchi per il grande schermo. I gesti sono esagerati come a teatro, però per rendere il personaggio più vivo ed espressivo ci vuole qualcosa di nuovo: la risposta è il primo piano Il primo piano è quando la macchina da presa viene vicinissimo al volto dell’attore o dell’attrice e diventa “tipico” del diva-film nel 1915 con Pina Menichelli in Il Fuoco, diretto da Giovanni Pastrone. Così il cinema delle dive crea un nuovo codice che mostra brillantemente le espressioni facciali e le smorfie (Jandelli 2007, 17). L'uso di questi straordinari primi piani caratterizza il cinema delle dive. Vedere i volti indimenticabili in primo piano diventa uno stereotipo del periodo. Dobbiamo ricordare che il cinema degli anni dieci non ha il sonoro, quindi le espressioni e i gesti degli attori devono essere esagerati per comunicare il messaggio al pubblico. Il messaggio può essere la storia, un segreto, un pensiero o un’emozione: “La recitazione cinematografica è l’espressione del viso che nello schermo bianco deve supplire la parola” (34). E’ chiaro che recitare nel cinema muto è una “scienza” tanto quanto un’arte. Per 26 essere una diva vera, si deve allenare il viso, gli occhi e i muscoli facciali per arrivare a un’espressione facile e mobile. Il primo piano, come un’arte, deve seguire alcune caratteristiche: Si deve curare parecchio l’espressione del viso ben pronunciato, il gestire lento e corretto. Il primo piano afferma, o mette a dura prova il valore dell’artista […]. Il primo piano si può paragonare ad una lente d’ingrandimento che fa risaltare i pregi ma non nasconde i difetti […]; tutta la scena sia traffica o brillante, deve essere eseguita senza parlare; soltanto l’espressione del viso coadiuvata dal gesto deve supplire la parola (Jandelli 2007, 36). I primi piani diventano uno stereotipo dell’iconografia dei diva-film negli anni dieci. Con le grandi dive, il primo piano diventa il simbolo di un’epoca intera, portando con sé le caratteristiche e i codici del divismo e della seconda donna del teatro. IL DIVA-‐FILM Negli anni dieci del Novecento vediamo una creazione di un genere particolare chiamato diva-film, un genere nuovo di film caratterizzato dalle grandi attrici italiane e dal loro divismo. Ogni casa di produzione “had a female star, an idealized beauty, around whose gestures and bodily presence a drama of Eros and Thanatos9 was constructed in film after film with minor variations” (Sitney 224). Il diva-film è caratterizzato anche dai primi piani. Un primo piano nel film, o “close-up” nel sistema americano, è un’inquadratura che accosta e circonda la faccia di 9 Eros & Thanatos: “Freud theorized that the duality of human nature emerged from two basic instincts: Eros and Thanatos. He saw in Eros the instinct for life, love and sexuality in its broadest sense, and in Thanatos, the instinct of death, aggression. Eros is the drive toward attraction and reproduction; Thanatos toward repulsion and death. One leads to the reproduction of the species, the other toward its own destruction.” (Michael Dunev Art Projects, “Eros & Thanatos” http://www.dunev.com/archive/eros_i_thantatos/eros_en.html) 27 un attore o un’attrice. I primi piani sono impiegati per mostrare dei dettagli, per esempio le emozioni di un’attrice protagonista. I primi piani sono spesso utilizzati dal regista per mettere in evidenza il personaggio principale (o i personaggi principali). Ancora più interessante il fatto che si possa sempre dire il livello di popolarità e importanza di qualsiasi attore dalla quantità e dalla durata dei primi piani, un elemento che diventerà uno stereotipo del genere. Il diva-film nasce per la prima volta nel 1913 con Lyda Borelli e il film Ma l’amor mio non muore, con la regia di Mario Caserini. Del film “colpisce soprattutto il suo ballo sensuale e seduttivo attorno all’uomo, che inaugura una figura femminile dominatrice e protesa verso un nuovo ruolo sociale” (Giovambattista Fatelli, PPT). Il film segna il passaggio completo della corona: la prima donna del teatro non regna più nel mondo di cinema. Con il divismo un’attrice protagonista del cinema muto può diventare una stella, una diva. THE TRAGEDY OF MACBETH, WILLIAM SHAKESPEARE 1606 Come abbiamo già detto la donna fatale non è nata dal nulla. La nozione della donna fatale non era nuova per l’epoca. In effetti, la sua figura era già stata situata in profondità all'interno della società italiana da molti anni. Gli esempi più importanti per noi sono quelli che vengono dalla letteratura italiana, però vale la pena di cominciare con un esempio di una donna fatale scozzese – Lady Macbeth, l’unico personaggio femminile femme fatale di William Shakespeare. Sappiamo che Giuseppe Verdi ha composto la sua opera Macbeth (originalmente composto da Shakespeare nel 1606 circa) nel 1847. L’opera, che andò in scena per la prima volta al teatro della Pergola di Firenze, divenne molto popolare e fu messa in scena ovunque in Italia. Lady Macbeth è l’orchestratrice e la forza che spinge Macbeth a uccidere il re e prendere il trono scozzese per se stesso. Lady Macbeth diventa la regina di Scozia, ma più tardi soffre di un 28 dilaniante senso di colpa per la sua parte nel delitto. Nel primo atto, scena quinta, Lady Macbeth chiede agli spiriti di prendere la sua femminilità: The raven himself is hoarse That croaks the fatal entrance of Duncan Under my battlements. Come, you spirits That tend on mortal thoughts, unsex me here, And fill me from the crown to the toe top-full Of direst cruelty! make thick my blood; Stop up the access and passage to remorse, That no compunctious visitings of nature Shake my fell purpose, nor keep peace between The effect and it! Come to my woman's breasts, And take my milk for gall, you murdering ministers, Wherever in your sightless substances You wait on nature's mischief! Come, thick night, And pall thee in the dunnest smoke of hell, That my keen knife see not the wound it makes, Nor heaven peep through the blanket of the dark, To cry 'Hold, hold!' (Shakespeare, I, 5, The Tragedy of Macbeth) Lei è avida di potere, senza pietà: è l’anti-madre. Chiede agli spiriti di farla come un uomo e prendere le sue parti femminili che la rendono debole. Lady Macbeth è assolutamente crudele e per questo ha caratteristiche più maschili che femminili. E’ anche paragonata a una strega perché manipola suo marito. E’ una donna anticonformista, provocante e sprezzante. Sfida l’autorità maschile e minaccia i sistemi di genere. Per il sistema tradizionale Lady Macbeth è la femme fatale malvagia. In entrambi i casi, si deve convenire che lei è crudele, e infatti sia nella tragedia di Shakespeare, sia nell’opera di Verdi, finisce completamente pazza e ossessionata dal delitto e dal sangue che immagina di vedere sulle sue mani durante la famosa scena del sonnambulismo. Nello spettacolo è ancora una donna ed è incapace di liberarsi della sua debolezza femminile, e si suicida fuori dal palcoscenico perché si sente in colpa per la sua parte nella morte di Re Duncan 29 e di tutta la famiglia di Macduff. Già nel XVII secolo e da un posto dove una donna non poteva essere un’attrice, viene un forte personaggio di femme fatale a teatro. LA LOCANDIERA, CARLO GOLDONI 1752 Circa centocinquant’anni dopo The Tragedy of Macbeth arriva un altro spettacolo con un personaggio di femme fatale. La Locandiera è una commedia scritta dal veneziano Carlo Goldoni nel 1752. La commedia tratta di una bella donna giovane, Mirandolina, che gestisce una locanda a Firenze con l’aiuto del suo cameriere, Fabrizio. Mirandolina è costantemente corteggiata dai clienti che frequentano la locanda; uno dei suoi corteggiatori è il nobile Marchese di Forlipopoli (un aristocratico “decaduto” che ha venduto il suo titolo): MIRANDOLINA (sola): Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. […] La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura. (Goldoni, I, 9, La Locandiera) Un altro corteggiatore è il Conte di Albafiorita (un mercante che ha comprato il suo titolo). Entrambi i gentiluomini pensano che la loro nobiltà basti per conquistare l’amore di Mirandolina: “Si contendono il suo amore, il primo con doni che può facilmente permettersi grazie alla sua buona posizione economica, il secondo, appartenente a quella parte di nobiltà decaduta e ormai senza mezzi, tenta di conquistarla con promesse di protezione” (Barberi 3). 30 Però lei è furba e non vuole sposarsi con nessuno, sapendo che se si sposasse a un nobile perderebbe subito la sua libertà. Lei cerca costantemente di prenderli in giro. Per impartirgli una lezione, Mirandolina fa innamorare il Cavaliere di Ripafratta con tutto il suo arsenale femminile. E’ davvero una sfida perché il Cavaliere è un “convinto misogino che si vanta di essere immune al fascino femminile ed anzi sostiene di disprezzare l'intero sesso debole” (Berberi 3). Abbastanza facilmente, la sua strategia di seduzione funziona e il Cavaliere si arrende. Il Cavaliere dà un regalo a Mirandolina, una boccetta d’oro, però il Cavaliere è molto sospettoso di lei – la vuole ma ha paura di essere ingannato dalle malizie di una donna. Alla fine, Mirandolina rifiuta l’amore del Cavaliere così come prima aveva rifiutato il Marchese e il Conte. Il Cavaliere è molto arrabbiato e tutti sanno che il potere femminile di Mirandolina è assoluto, può far innamorare chiunque di lei. CAVALIERE: Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m'ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d'avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch'io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (Parte.) (Goldoni, III, 18, La Locandiera) Il Cavaliere lascia la scena assolutamente disperato perché Mirandolina decide di sposarsi con Fabrizio (che era sempre stato innamorato di lei e geloso degli altri uomini). Lei non lo ama, ma è meglio sposarsi con lui perché lui non è un ostacolo alla sua libertà. Promette che non farà innamorare più altri uomini solo per gioco e vanità. MIRANDOLINA: Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell'onestà. Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera. (Goldoni, III, 20, La Locandiera) 31 Queste sono le ultime parole di Mirandolina, che rappresentano anche un avvertimento. E’ una morale dichiarata agli uomini nel pubblico – un uomo dovrebbe sempre stare in guardia contro le malizie dalle donne furbe (specialmente un uomo aristocratico). Le donne hanno armi pericolose per ingannare gli uomini. Se guardiamo bene i personaggi e i loro caratteri, si nota che la furbizia e la malizia di Mirandolina vincono sempre contro l’arroganza e la testardaggine degli uomini, specialmente quelle del Cavaliere. Mirandolina è una piccolo borghese calcolatrice che inganna i personaggi maschili. Il ruolo sarebbe quello di servetta, inferiore nella scala gerarchica a quello di prima donna, ma la Mirandolina di Goldoni, interpretata da Maddalena Marliana, passa dal ruolo di servetta a quello di prima donna mantenendo caratteristiche di entrambi. Si deve notare come Mirandolina sia una donna moderna ed emancipata per l’epoca. Lavora e le piace avere la sua libertà invece di sposarsi con un nobile; si preoccupa dei suoi interessi – è una piccolo borghese che rappresenta la sua classe sociale anche sposando il suo aiutante Fabrizio. Mirandolina è un personaggio ben definito caratterialmente e anche socialmente, “non è più la servetta intrigante della commedia precedente, il tipo della donnina brillante e capricciosa, ma è una locandiera con i suoi affari, i suoi interessi” (Barberi 4). Lei rappresenta un nuovo ruolo nella società per le donne, quelle che non devono sposarsi con un nobile per salire la scala sociale. Inoltre, è un ruolo positivo per le donne perché non è assolutamente cattiva o malvagia. Sì, è vero che lei fa arrabbiare gli uomini rifiutati da lei, ed è vero che alla fine accetta di sposarsi comunque, però tutto sommato è una protagonista moderna che in parte va contro l’ordine sociale più accettato, anche teatralmente. Si devono considerare i personaggi di servette che nell’opera buffa coeva avevano già tracciato in 32 parte il solco dove Mirandolina poi potrà esercitare il suo fascino, ma anche la sua liberà.10 Nella famosa opera buffa La Serva padrona di Pergolesi (libretto di Gennarantonio Federico, Napoli 1733), la servetta alla fine si sposa con il suo padrone, mentre Mirandolina non rientra completamente in questa tipologia del ruolo ma, al contrario, rifiuta gli spasmanti altolocati per riaffermare la sua identità di donna libera nelle sue scelte rimanendo una donna con una morale profonda. Ha delle caratteristiche di femme fatale nella misura in cui tutti gli uomini si dannano per lei e ruotano intorno al suo sex appeal, ma alla fine della commedia riafferma la sua identità e la sua libertà di scelta e non viene punita dalla società proprio grazie alla sua moralità. E’ una donna fatale più buona e ha un carattere più luminoso rispetto alle altre soprattutto perché nessun uomo muore per lei, non è punita, e con Mirandolina non c’è un aspetto dark. Però in accordo con le altre donne fatali, c'è un senso di giustizia-poetica perché con le sue ultime parole, che sono un avvertimento agli uomini nel pubblico, dichiara che si deve fare attenzione alle donne come lei. FOSCA, IGINIO UGO TARCHETTI 1869 Il personaggio di Fosca è molto diverso dalle altre donne che abbiamo già visto, e anche da tutte le altre che vedremo in questa discussione sulla femme fatale. Fosca è un personaggio fisicamente brutto e metafisicamente bello, e nasce con il romanzo di uno dei più grandi scapigliati, Iginio Ugo Tarchetti nel 1869. Giorgio, un soldato e il protagonista del romanzo insieme a Fosca, scrive i suoi ricordi di un periodo della sua vita cinque anni dopo che gli eventi dolorosi sono accaduti. In questo periodo Giorgio s’innamora di due donne così diverse come l’oscurità e la luce. Clara è la donna di luminosa bellezza, ma non virtuosa perché tradisce il 10 Si veda Cicali, cap. II passim. 33 marito; è la sua Beatrice ma è già sposata con un altro. Giorgio viene promosso e si trasferisce a un nuovo reggimento dove incontra la cugina del suo colonnello, Fosca. Giorgio descrive Fosca come la donna più brutta che sia mai esistita: Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era né suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano cosí naturalmente dolci, cosí spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura piú che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso. (Tarchetti, Fosca 28) Nonostante Giorgio la trovi bruttissima, lentamente comincia a cedere al suo oscuro fascino, in parte perché Fosca lo perseguita e lui non riesce a evitarla. Viene irretito in una strana storia d’amore morbosa e impossibile. Secondo Giorgio, non era una donna normale: Oltre a ciò Fosca non era una donna comune. Il suo spirito era assai colto, la sua intelligenza assai vasta; e la sua stessa infermità, la sua bruttezza erano tali circostanze che concorrevano a formare un’eccezione. Le sue passioni, i suoi sentimenti, le sue idee dovevano anche essere eccezionali; ed era forse sotto questo aspetto che bisognava giudicarne. (Tarchetti, Fosca 38-39) La sua perseveranza è premiata dalla conquista dell’amore di Giorgio, e la loro relazione (sebbene breve) è appassionata. Con questa relazione Fosca sembra migliorare e trovare un nuovo vigore contro la sua malattia. Però come Fosca migliora dalla sua condizione nevrotica, Giorgio sembra peggiorare. Come un vampiro succhia il sangue e si rafforza con ogni morso, 34 così la sua povera vittima s’indebolisce. Così Giorgio contrae la stessa malattia di Fosca, la pazzia. Una cosa sovratutto — e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me — contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole. (Tarchetti Fosca 82) Giorgio, che vuole allontanarsi da lei, riceve un trasferimento a Milano. Alla fine, Fosca muore della sua malattia dopo aver passato una sola notte di amore con Giorgio. Nel romanzo, Giorgio è indeciso fra il suo amore per Clara e Fosca. Clara è una donna serena, (il suo nome significa chiarezza), angelica e il simbolo di vita e di felicità. Rappresenta la salute e la bontà. Dall’altra parte c’è Fosca, la donna il cui nome significa oscurità, ed è minacciosa e inquietante. E’ una sorta di vampiro, che succhia fuori la vita dell'uomo, lo corrompe e lo porta quasi sul punto di morire. Fosca è una sorta di una femme fatale (anche se brutta) sui generis. Il romanzo scapigliato di Tarchetti evoca già degli elementi del Decadentismo, oltre a una moralità in declino. È’ importante per l’evoluzione della femme fatale in Italia perché rappresenta una donna che usa la sua intelligenza, determinazione e furbizia per conquistare l’anima di un uomo ignaro. Lei rappresenta la paura degli uomini: essere intrappolati e sfruttati da una donna astuta che usa le loro debolezze e porta la morte. LA LUPA, GIOVANNI VERGA 1880 La Lupa è una novella di Giovanni Verga che è inclusa nella Vita dei campi e pubblicata nel 1880. Questa novella è rivoluzionaria per la sua tipologia del personaggio femminile La Gnà Pina, “detta la Lupa, ancora bella e provocante, malgrado i suoi trentacinque anni suonati, col 35 seno sodo da vergine, gli occhi luminosi in fondo alle occhiaie scure e il bel fiore carnoso della bocca, nel pallore caldo del viso” (Verga, La Lupa: 3). La Lupa è un personaggio molto diverso dagli altri personaggi femminili nella letteratura italiana dell’epoca. La donna è presentata quasi come una strega o un demone che ha una sessualità vorace (per non dire perversa e immorale). La protagonista nella novella è descritta così: Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna--e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Perché la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei. (Verga, Tutte le novelle: 52) Nell’introduzione della novella, il suo personaggio è presentato come una donna assolutamente fatale le cui descrizioni saranno le caratteristiche fisiche della figura della femme fatale nel cinema muto Italiano: bruna, pallida, due occhi grandi, labbra fresche e rosse, occhi da satanasso. Anche in questa descrizione della Lupa vediamo i tratti della sua personalità: “ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, non era sazia giammai, aveva persa l’anima per lei” (Verga, Tutte le novelle: 52). Così è nato l’incubo degli uomini: la femme fatale. La Lupa è pericolosa per gli uomini di questo paesino in Sicilia – è una donna emancipata perché non vive seguendo le leggi e le norme della società e della tradizione, specialmente in un mondo dove la chiesa Cattolica regna (la simbologia cattolica è ovunque nella novella). La Lupa è emarginata dal villaggio (molto simile a Santuzza di Cavalleria Rusticana) perché è una donna emancipata e vive la sua vita come fosse un uomo: “Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un 36 uomo” (Verga, Tutte le novelle 52). Maricchia è la figlia della Lupa ed è la donna addomesticata, buona e sottomessa. Nella novella, la Lupa convince un giovanotto (Nanni) a sposare sua figlia per motivi immorali. La Lupa guarda e segue Nanni come la sua preda e vuole averlo in casa con sé, così può sempre sedurlo. Nanni alla fine uccide la Lupa durante la Pasqua perché non lo lascia in pace e lui vuole essere fedele a sua moglie Maricchia (da cui ha due figli): “Ammazzami,” rispose la Lupa, “ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci.” Egli come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. “Ah! malanno all'anima vostra!” balbettò Nanni. (Verga, Tutte le novelle: 53-54) Il personaggio femminile nella novella di Verga è emancipato, ma è sempre cattivo ed escluso da una società che non l'accetta. E’ possibile che Verga volesse fare un paragone tra una donna cattiva emancipata contro la povera, buona contadina Maricchia. E’ l’unico personaggio con dignità e valori morali, ed è lei che denuncia sua madre e rifiuta di essere immorale come lei. Maricchia rappresenta la normalità e il modello perfetto che le donne dovrebbero seguire, mentre sua madre è punita a morte. SI GIRA, LUIGI PIRANDELLO 1916 Quaderni di Serafino Gubbio operatore è un romanzo di Luigi Pirandello, originariamente pubblicato nel 1916 come Si gira e successivamente, nel 1925, con il titolo cambiato in Quaderni di Serafino Gubbio operatore . In questo romanzo, il grande autore siciliano affronta i temi del cinema, della macchina da presa, e della produzione cinematografica in Italia precedenti la Prima guerra mondiale. Il romanzo è particolare per quanto riguarda l’epoca moderna perché “it offers a profound examination of the way the new machine art of the 37 motion picture helped fashion a modern mentality as well” (Gunning viii). Il narratore è l’operatore11 Serafino Gubbio che lavora per la casa cinematografica Kosmograph Studio. La Kosmograph sta girando un film di grande impegno produttivo intitolato La Donna e la Tigre, con il piano di uccidere una tigre vera per la scena finale. Ogni giorno di produzione, Gubbio nota tutti gli avvenimenti che succedono sul set: “Gubbio watches, observes, records, but remains unmoved by the dramas enacted before him […] Gubbio strives to remain detached – ‘impassive,’ as he puts it – a modern man trapped within his observing self-consciousness, alienated from both action and affection” (Gunning viii). Gubbio nota anche un’attrice russa – la grande seduttrice e mangiatrice di uomini Varia Nestoroff: “Physically and emotionally, she possesses the sinister allure, sadomasochistic passion, and strangely moving sense of hysterical vulnerability that marked the femme fatales of the early Italian silent screen” (Gunning xi). L’ex-amante della Nestoroff è il geloso Aldo Nuti, un giovane attore nel film. La Nestoroff non ha una grande parte nella pellicola, però incarna un ruolo più grande fuori del film ed è paragonata alla tigre selvatica in gabbia. Nel quarto “quaderno”, Gubbio viene a parlare con la tigre imprigionata che verrà uccisa per divertimento, per lo spettacolo, e per Gubbio “nessuna bestia m’ha parlato come questa tigre” (Pirandello 47). Gubbio guarda in profondità la tigre, chiamandola “lei”. Gubbio riflette molto e profondamente sulla tigre e sul fatto che deve morire per il cinema: Ucciderla, per propria difesa o per difesa dell’incolumità altrui, passi! Quantunque non da sé, per suo gusto, la belva sia venuta qua a esporsi in mezzo agli uomini, ma gli uomini stessi, per loro piacere, siano andati a catturarla, a strapparla dal suo covo selvaggio. Ma ucciderla così, in un bosco finto, in una caccia finta, per una stupida finzione, è vera nequizia che passa la parte! Uno dei corteggiatori, a un certo punto, sparerà contro un rivale a bruciapelo. Voi 11 “Operatore” è il tecnico che lavora con la macchina da presa: “Si gira…refers literally to turning the handle of the camera, which Hollywood chose to describe more aggressively as shoot” (Gunning viii). 38 vedrete questo rivale traboccar giù, morto. Sissignori. Finita la scena, eccolo qua che si rialza, scotendosi dall’abito la polvere della piattaforma. Ma non si rialzerà più questa bestia, quando le avranno sparato. Porteranno via il bosco finto e anche, come un ingombro, il cadavere di lei. In mezzo a una finzione generale soltanto la sua morte sarà vera. (Pirandello 48) Il protagonista accomuna la tigre alla femme fatale italiana del cinema muto. E’ per nostro piacere, quello degli uomini e del pubblico, che la uccidiamo sul grande schermo per trarne profitto. Viene uccisa perché una come lei non può esistere nella società. La donna è raffigurata come una bestia e facendo così ha delle caratteristiche bestiali e selvatiche – mangia gli uomini perché è la sua natura. Poi la condanniamo a morte, la teniamo chiusa in una gabbia (una metafora del matrimonio) oppure viene esiliata dalla società. Gubbio continua a riflettere: Chiunque t’osservi da vicino, gode della gabbia che t’imprigiona e che arresta anche in lui l’istinto feroce, che la tua vista gli rimuove irresistibilmente nel sangue. Tu qua non puoi stare altrimenti. O così imprigionata, o bisogna che tu sia uccisa; perché la tua ferocia – lo intendiamo – è innocente: la natura l’ha messa in te, e tu, adoprandola ubbidisci a lei e non puoi aver rimorsi. Noi non possiamo tollerare che tu, dopo un pasto sanguinoso, possa dormir tranquillamente [...] Vogliamo difenderci da te, dopo averti portata qua, per nostro piacere, e ti teniamo in prigione: [...] t’uccideremo per giuoco, stupidamente [...] Tigri, più tigri d’una tigre. (Pirandello 48-49). Gubbio nota anche che la Nestoroff viene tutti i giorni sul set per studiare la tigre imprigionata: come la tigre gira la testa, come cammina, lo sguardo degli occhi – la Nestoroff è la studentessa e la tigre la maestra. Questa scena con Gubbio e la tigre imprigionata è paragonabile alle dive che recitano nel cinema. La ferocia della tigre (che rappresenta il potere e il pericolo di una donna fatale come la Nestoroff) è pericolosa per gli uomini. Invece di apprezzare la sua bellezza e il suo potere gli uomini la uccidono prima che la tigre possa annientare loro. Come in tanti altri casi, per quanto riguarda le donne in cinema muto, la Nestoroff ispira un desiderio che porta gli uomini a disprezzarla piuttosto che ammirarla. Così funziona l’industria cinematografica e la società in cui ci troviamo. 39 Il romanzo mostra come il cinema sia un esempio e una metafora dell’alienazione e della disumanizzazione. Gubbio si sente completamente alienato dal suo lavoro finché si sente come “una mano” che gira la macchina. Nella scena finale, Gubbio gira con la sua cinepresa una scena terrificante: Aldo Nuti deve uccidere la tigre vera per la scena finale del film. Tuttavia, invece di rivolgere la pistola verso la tigre, uccide Varia Nestoroff. Come se fosse una vendetta, Nuti viene sbranato dalla tigre vera. Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l’affanno orrendo dell’uomo che s’era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto; udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell’affanno là, il ticchettìo continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; […] Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s’era spenta in gola, per sempre. (Pirandello 174). Alla fine la femme fatale viene uccisa dal suo amante geloso (che lei ha lasciato per sposarsi con un uomo che proveniva da una famiglia rispettabile e che si è suicidato), e in seguito anche lui viene ucciso dalla tigre, in una sorta di vendetta allo specchio. Gubbio, che girava tutta la scena senza fermarsi, diventa muto per lo shock rinunciando a ogni forma di sentimento e di comunicazione umana: No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore. La scena è pronta? – Attenti, si gira… (Pirandello 175). E’ ironico che nella fine il cinema muto prenda la voce di Serafino Gubbio. Gubbio, a questo punto, è diventato completamente una macchina. Questo si accompagna al concetto che la macchina da presa aliena gli attori e tutti coloro che sono coinvolti con l’industria cinematografica, e priva gli interpreti di tutti gli elementi contingenti della loro realtà vivente. La cinepresa li priva: 40 Con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vôtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, private della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che tremolo per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’uno tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela. (Pirandello 55-56) La cinepresa ruba l’aura dell’attore, cioè la sua personalità individuale. L’aura viene esiliata dal pubblico e anche dall’attore. Per Pirandello, la cinepresa ha un treppiede come: Un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica davanti al pubblico. E colui che li spoglia della loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che reduce ombra il loro corpo…(Pirandello 56) Quando Gubbio s’identifica con la cinepresa, si dissocia completamente dalla vita reale che sta succedendo intorno a lui diventando una sorta di robot. Il ragno brama la realtà (o l’illusione di realtà) ed è Gubbio che nutre il ragno, rinunciando alla sua umanità. Il pubblico è anche come Gubbio e la sua cinepresa – la gente si siede davanti allo schermo consumando tutto. E’ più facile osservare e consumare che agire o sentire (Gunning x-xi). Le diverse femme fatale della letteratura, Lady Macbeth, Mirandolina, Fosca, la Lupa, e la Nestoroff, sono utili per capire l’evoluzione della donna fatale nella letteratura e la provenienza della figura. I loro caratteri unici saranno la base in cui le dive degli anni dieci prenderanno l’ispirazione. Ora che abbiamo visto l’evoluzione della femme fatale tra teatro, opera, letteratura e cinema, possiamo utilizzare gli esempi del passato per stabilire la definizione di donna fatale per questo discorso. Una donna fatale è relativamente giovane, immorale, in possesso di un potere carnale sopra gli uomini, e la sua bellezza porta sfortuna a uno o più uomini. Inoltre, per definire meglio la femme fatale, vale la pena di capire quello che non è, cioè la sua anti-definizione. Durante gli anni dieci la femme fatale rappresentava una donna che andava contro i ruoli di 41 genere di una società patriarcale di cui lei non accettava lo status quo rifiutando di essere passiva o arrendevole. Era semplicemente una donna che non seguiva i ruoli di genere stereotipati del passato e contraddiceva quello che era accettato dalla società come “donna”. Una donna degli anni dieci era resa fatale perché contraddiceva la norma, ed era essenzialmente una ribelle. Non era una donna “addomesticata” o angelica. Non faceva la buona moglie, non obbediva né s’inchinava alle aspettative patriarcali. Forse per questo trovava vita più nella rappresentazione che nella realtà, ad eccezione di alcune esclusive cerchie aristocratiche e dell’alta borghesia. E’ probabile che anche a causa di questa definizione alcuni critici dicano che la femme fatale sia stata una rappresentazione della donna moderna, nuova e soprattutto emancipata per l’epoca. Tuttavia, non riescono a guardare più in profondità per com’era rappresentata sul grande schermo negli anni dieci, cosa che invece ci proponiamo di fare in questa ricerca. 42 BUONA O CATTIVA? – L’OTTICA FEMMINISTA Nell’ambiente sociologico, ci sono molti critici che dicono diverse cose per quanto riguarda la donna fatale e quello che rappresentava. Alcuni dicono che la donna fatale sia nata per mostrare un anti-modello – creato della misoginia e della paura delle donne. Altri invece dicono che sia un gran simbolo d’indipendenza femminile; è una figura emancipata che assume anche le caratteristiche maschili di potere, ambizione e autorità. Prima esamineremo entrambi i lati dell’argomento: un modello emancipato da seguire o l’anti modello prodotto dagli uomini. Entrambe le posizioni ci serviranno per decifrare la vera funzione della donna fatale nel cinema muto italiano. IL MODELLO DA SEGUIRE: LA DONNA EMANCIPATA Prima di tutto, per investigare la funzione di una figura così grande e scandalosa come la femme fatale, è fondamentale citare Simone de Beauvoir e la sua filosofia femminista rivoluzionaria per l’epoca che ispira Le Deuxième Sexe (1949). Il lavoro in generale è una panoramica del trattamento delle donne nel corso della storia. Non è lo scopo di questa discussione coprire l’intero contenuto di Deuxième Sexe, però, essendo una delle più grandi e più conosciute opere della teoria femminista, è importante citare la Beauvoir specialmente per quanto riguarda quello che lei scrive sulle attrici. Secondo Beauvoir, le attrici, le ballerine e le cantanti sono le uniche donne al mondo che possono raggiungere l’indipendenza in una società maschile (Beauvoir 741). Le attrici e le artiste si suppone siano le più emancipate e libere di tutte le donne. Invece di danneggiare l'affermazione della loro femminilità, le attrici la rafforzano attraverso l'espressione artistica (Beauvoir 741). Secondo Beauvoir, soltanto le attrici godevano di un grado ineguagliabile di libertà personale e sessuale nella pratica del loro mestiere. Nel 43 passato, le attrici (ancor più dei loro colleghi uomini) erano condannate dalla Chiesa cattolica: questa condanna ordinata dalla Chiesa ha permesso alle donne una grande libertà di comportamento sebbene ai margini della società. Le attrici sono spesso coinvolte in giochi di seduzione e, come le cortigiane, spendono molto delle loro giornate in compagnia di uomini. Come le cortigiane, le attrici si guadagnano da vivere da sole e trovano il significato della loro esistenza nel loro lavoro, e perciò le attrici “escape men’s yoke” (Beauvoir 741). Il loro grande vantaggio è che il loro successo professionale contribuisce al loro appeal erotico. Una donna infatuata della propria immagine trova una grande soddisfazione facendo un un mestiere in cui può esibirsi naturalmente. Trovano anche una giustificazione per il loro narcisismo nel loro lavoro: i costumi, il trucco e il fascino sono tutte parti dei loro doveri professionali come attrici. Beauvoir osserva che nella loro auto-realizzazione, nella loro validazione di se stesse come esseri umani trovano realizzazione di sé come donne (Beauvoir 741). Inoltre, "acting was the only living other than prostitution in which a woman's own labor could be so financially rewarding, with the added advantage of paying regularly and predictably at such brief intervals” (Davis 18-19). Il palcoscenico ha fornito dei salari migliori rispetto a qualsiasi altra occupazione legittima liberamente accessibile a una donna. Tuttavia, i vantaggi di essere un’attrice sono rari e inoltre sono collegati a diversi inconvenienti. Invece di integrare la sua indulgenza narcisistica e la libertà sessuale per cui si diverte nella sua vita artistica, l'attrice cade spesso in una sorta di auto-adorazione (un comportamento frequente delle dive) o seduzione. Molte attrici, dopo aver raggiunto lo status di diva, vogliono soltanto “make a name for themselves” nel cinema e cominciano a vivere solo per se stesse. Ancora peggio, molte attrici scelgono il comfort e il lusso del sostegno maschile, invece di correre i rischi di una carriera e affrontare la durezza che ogni vero lavoro comporta 44 (Beauvoir 741). Il desiderio di un destino femminile, come un marito, una casa, dei bambini, e l'incantesimo dell'amore non sono sempre facilmente conciliabili con il desiderio di riuscire come attrice. Soprattutto, è l’auto-ammirazione dell’attrice che la limita. Spesso lei s’illude sul merito e il valore della sua sola presenza al posto di un lavoro serio che le sembra inutile. Più che altro preferisce mettersi sotto la luce della fama e della celebrità e sacrifica il personaggio che sta interpretando. Beauvoir cita la Duse come una delle poche attrici che supera questi rischi e che si dedica a servire l’arte (la Duse si è sposata una volta per poco tempo e poi si è separata dal marito, ed ha avuto una relazione estremamente complicata, e fuori da ogni vincolo matrimoniale, con Gabriele D’Annunzio). Nonostante la Duse, tutte le attrici appariranno sempre vanesie, permalose, e false — l’attrice tratta il mondo intero come se fosse un palcoscenico ed è questo il suo limite che le impedisce di raggiungere l’indipendenza (Beauvoir 741-742).12 Beauvoir nota anche che agli uomini piace incoraggiare le mancanze delle donne adorandole per i loro stessi difetti e debolezze: Se la donna non è pericolosa, frivola, spaventata o indolente, perde il suo fascino (Beauvoir 741-742). Perché una donna sia attraente lei deve conformarsi a quello che un uomo pensa che la donna dovrebbe essere. In una società maschile così rigorosa, una donna non può essere forte, ambiziosa, attraente e anche di buon carattere. Se seguiamo la filosofia di Beauvoir, le dive del cinema muto sono figure indipendenti, emancipate e moderne che domandano rispetto. Tuttavia, la loro indipendenza non viene senza limitazioni e la maggior parte delle dive italiane (la Duse esclusa) lascia il cinema all’apice della carriera in cambio della comodità del matrimonio. Infatti, il palcoscenico potrebbe essere utilizzato come un 12 Beauvoir, tuttavia, ignorava attrici cinquecentesche come Isabella Andreini che, scientemente, creò per sé la fama non solo di attrice, ma anche di letterata e madre premurosa e integerrima proprio per emanciparsi dai limiti sociali che la professione le imponeva. Si veda a questo proposito Ferrone, passim. 45 trampolino di lancio verso il matrimonio. Questo potrebbe servire a eclissare la classe originale di alcune attrici e fornire un’uscita di salvezza verso classi agiate, o potrebbe migliorare la stabilità delle donne nel settore del commercio (Davis 18). Dalle Vacche sostiene che nonostante i numerosi sforzi del cinema muto italiano di spingere l’Italia nella modernità essi non erano in grado di produrre una trasformazione significativa dei ruoli di genere nel cinema e soprattutto non all’interno della società. Anche se le dive non potevano fare dei veri cambiamenti, erano molto più di un bel viso in primo piano, o un modo per gli spettatori di fuggire verso un mondo lontano. Tra l’ascesa del Fascismo, la predominanza della Chiesa cattolica e i ruoli di genere rigorosi stabiliti da una società patriarcale, molte forze invisibili hanno combattuto lo sviluppo delle dive. In generale, la femme fatale rappresenta una donna ancora da venire – la donna del futuro: “She is the city that does not sleep, and she is the night of a new era about to begin” (Dalle Vacche 253-57). Per molte femministe, la femme fatale è un simbolo della forza e indipendenza femminile (sebbene con delle limitazioni). L’ANTI MODELLO: LA DONNA MALVAGIA Ci sono alcuni critici che guardano la femme fatale non come un soggetto del femminismo, ma come un sintomo di paure maschili riguardo al femminismo perché lei è spesso punita o uccisa per le sue azioni (Doane 2-3). Secondo tali critici, la femme fatale è una produzione diretta e un’invenzione degli uomini per combattere la donna amazzone. Come se l'esotica, sessualmente promiscua alterità della femme fatale minacciasse di destabilizzare l'ordine culturale. Molti suggeriscono che la femme fatale sia un risultato diretto di un’ansia maschile per quanto riguarda le classi inferiori, l’invasione straniera e il femminismo. Lei è 46 spesso, se non sempre, dipinta come la donna malvagia e quindi un complesso di paure e preoccupazioni culturali, ed è allo stesso tempo minacciosa e affascinante come gli artisti e scrittori che la raffiguravano (Sully 47). Camille Paglia nel suo libro Sexual Personae concorda con quest’argomento. Lei sostiene che gli archetipi demoniaci delle donne riempiono il mondo mitologico e rappresentano la vicinanza incontrollabile della natura. Questa tradizione di demonizzare le donne è una tradizione che passa quasi ininterrotta dagli idoli preistorici attraverso la letteratura e l'arte al cinema moderno. E’ raro che vediamo una femme fatale “buona” come Mirandolina. La femme fatale è un archetipo represso ed emarginato dagli uomini, spesso dipinto come una vittima della società. Paglia discute che il mito della femme fatale infatti non è un mito, ma una realtà biologica che esiste in tutte le donne; però è la società patriarcale che calunnia questa “altra” faccia oscura in tutte noi come malvagia. Esiste un mito indiano nordamericano della vagina dentata – una trascrizione orribile del potere femminile e la paura maschile. Metaforicamente, ogni vagina ha “denti segreti”; il maschio esce da essa con meno di quando vi è entrato, cioè, perde una parte di sé e si sente "svuotato" o “succhiato” della sua energia maschile dalla pienezza femminile (si deve pensare alla vampira raffigurata nelle poesie di Charles Baudelaire (Paglia 13). Paglia descrive questo processo come una castrazione fisica e spirituale che terrorizza tutti gli uomini. Loro temono la vampira, il drago femminile della natura (Paglia 1314). Più che malvagia, la femme fatale è una psicopatica: “Her cool unreachability beckons, fascinates, and destroys […] she has an amoral affectlessness, a serene indifference to the suffering of others, which she invites and dispassionately observes as tests of her power” (Paglia 15). E' ironico che nel regno animale gli animali femminili sono di solito meno belli di quelli 47 maschili. Gli uccelli maschi, in particolare, sono spesso creature con piumaggi spettacolari esibiti per l’accoppiamento in cui i maschi usano le loro piume in parte per impressionare le femmine e anche per sconfiggere i rivali (Paglia 15). E’ interessante che le donne aristocratiche e borghesi del diciannovesimo secolo abbiano imitato gli uccelli maschi della natura selvatica e “ostentassero” il loro piumaggio. Così facendo, la femme fatale utilizza questa tecnica biologicamente maschile e bestiale per aggiungere qualcosa alla sua bellezza, al suo fascino e alla sua desiderabilità. E’ curioso che sia la nostra coscienza come esseri umani razionali che ci porta ad agire come animali. Beauvoir nota un confronto tra le donne e un animale – il mito della mantide religiosa. Secondo Le Deuxième Sexe, le donne che cercano di raggiungere la trascendenza rifiutano la passività imposta a loro. Se raggiungono un certo dominio sulle proprie vite, poi vengono etichettate con cattiveria dalla società patriarcale. Tra i tanti stereotipi negativi accumulati in questo tipo di donna c’è quello della mantide religiosa, che è il peggiore. Il simbolo poco lusinghiero si riferisce all'abitudine dell'insetto femminile di divorare il maschio subito dopo il rapporto sessuale (che in realtà non accade molto spesso) (Beauvoir 33). Per gli uomini, una donna appare come carne, la carne maschile è generata dal grembo materno e ricreata nell'abbraccio dell’amante femminile, in tal modo la donna incarna la natura: Animal, little vale of bloods, rose in bloom siren, curve of a hill, she gives humus, sap tangible beauty, and the world’s soul to man, she can hold the keys to poetry; she can be mediator between this world and the beyond: grace or Pythia, star or witch, she opens the door to the supernatural, the surreal; she is destined to immanence; and through her passivity she doles out peace and harmony: but should she refuse this role she becomes a praying mantis or ogress (Beauvoir 267). Qualsiasi donna che minaccia quello che una donna dovrebbe essere è accusata di minacciare la supremazia maschile, e quindi lei è una mantide religiosa – in altre parole, una femme fatale. 48 Altri critici sono convinti che la femme fatale sia un simbolo del desiderio erotico maschile di essere dominato dalla femmina, e discutono che l’uomo in aggiunta allo spettatore (il sottomesso) riceve piacere dall’essere “torturato” e “incantato” dall’“aggressore” (interpretato dalla femme fatale). Questo punto di vista è in linea con i temi del Decadentismo, perché tutto ciò è legato al piacere. Il femminile in quest’estetica masochista è solo un oggetto passivo del desiderio di possesso maschile: “La star femminile è una donna la cui bellezza e il cui potere ipnotizza chi guarda, ispirando un culto sottomesso” (Festinese 26). Magari la femme fatale è una combinazione, è sia buona che cattiva come I fiori del male. Questi due lati del suo carattere la rendono una donna moderna e realistica; il nostro carattere non è semplicemente in bianco e nero ma ha molte sfumature di grigio. La femme fatale contiene contemporaneamente sia i tratti femminili che quelli maschili ed è ciò che la rende una forza che non possiamo sottovalutare. Per quanto riguarda la questione della sua emancipazione, è giusto dire che le attrici in generale erano le donne più emancipate del loro tempo. Tuttavia negli anni dieci, nasce un’alleanza tra le donne e il cinema. Possiamo concludere che le dive ed i loro personaggi erano "futuristi", nel senso che erano i modelli "del futuro", intrappolati in un tempo non ancora pronto. 49 LE GRANDI DIVE DEL CINEMA MUTO ITALIANO Le dive dei primi anni del cinema hanno una forza durevole nell’immaginario ancora oggi. Le loro immagini fissate nel tempo sono tutto ciò che rimane di un'epoca perduta e ci forniscono testimonianze viventi e vitali dagli anni dieci del Novecento, come una sorta di capsula del tempo mandata da un altro mondo. In un mondo dominato dagli uomini, un luogo dove le donne lottano ogni giorno per la libertà, l'uguaglianza e l'indipendenza, che cosa rispecchiano le donne fatali per quanto riguarda la situazione femminile contemporanea? Quali messaggi ci mandano queste dive silenziose dal passato, e che cosa rappresentano? Per rispondere a queste domande si possono esaminare le maggiori dive di quel periodo: Francesca Bertini, Pina Menichelli, Lyda Borelli ed Eleonora Duse. Attraverso le loro storie di vita, i loro stili unici di recitazione, la loro filmografia è possibile comprendere la loro funzione nelle loro vite, così come nei loro film. Sono dannunzianamente un’opera d’arte vivente, come a dire che il confine tra spettacolo e mondo reale è sempre confuso. Le attrici assorbono gli stessi personaggi che interpretano, tutte sono incantevoli e nessuna è senza peccato. Le protagoniste femminili si alternano costantemente tra la seduttrice malvagia e la creaturina fatalmente condannata (Ramirez 68). Sono le stesse attrici che forniscono “a large part of what makes these films stand out in the collective imagination as vehicles of pure emotion and melodramatic symbolism” (Ramirez 63). Utilizzeremo quei simboli per decifrare se le dive fossero figure femministe, l'antimodello, le donne del futuro, o qualcosa di diverso. Non è lo scopo di questa discussione esaminare ogni diva-film del periodo in cui la protagonista è una donna fatale (per i film di Francesca Bertini da soli ci vorrebbe almeno un libro intero). Invece l’obiettivo di questa discussione è indagare alcuni esempi unici che contribuiranno in maniera originale all’argomento. Nella lunga e impressionante filmografia 50 disponibile tra cui scegliere, ci concentreremo sui seguenti film: Assunta Spina (1915), Marion, artista di caffè-concerto (1920), Il Fuoco (1915), Tigre Reale (1916), Rapsodia Satanica (1917) e brevemente Cenere (1917). FRANCESCA BERTINI Francesca Bertini era la diva più celebrata e famosa dell’epoca, ed anche l’attrice più pagata al mondo. Il suo compito ai suoi tempi era “di trasformare la sua vita – dannunzianamente – in un’opera d’arte” (Jandelli 2006, 22). E il divismo è la più grande creazione di Francesca Bertini. Era amata da tutto il pubblico, desiderata dagli uomini, dettava le regole della moda e appariva in pubblico per autocelebrarsi. Lei viveva il suo personaggio di donna fatale non solo nei suoi film ma anche nella vita, pubblicizzando sempre la sua immagine come donna desiderata ma moralmente irreprensibile (23). Francesca Bertini (1892-1985) è nata Elena Taddei Vitiello a Roma e ha cominciato la sua carriera a teatro. Nel 1913, la Bertini ha recitato una parte en travesti, il personaggio maschile di Pierrot per L’Histore d’un Pierrot di Baldassarre Negroni. E’ stato nel 1915 che è diventata popolare con il successo del film muto Assunta Spina. Nel 1921 ha abbandonato il cinema e la sua gran carriera (ha rifiutato un lucroso contratto con la casa di produzione americana Fox) per sposarsi con un nobile francese, Paul Cartier. La filmografia della diva è impressionante: La signora delle camelie (1915, ispirato dal romanzo di Alexandre Dumas), Histoire d'un pierrot (1913), L'Amazzone Mascherata (1913-1914), Don Pietro Caruso (1914), Nelly La Gigolette (1914), The Clemenceaus Affair (1917), L'Orgoglio (1918), La Tosca (1918), La Piovra (1919), e La Serpe (1920) solo per citarne alcuni. 51 ASSUNTA SPINA, CAESAR FILM 1915 Questo film muto è stato originariamente ispirato da un lavoro di Salvatore Di Giacomo recitato a teatro nel 1909, e Francesca Bertini ha effettivamente recitato nella stessa rappresentazione come comparsa. Anni dopo, nel 1915, la Bertini e l'attore-regista Gustavo Serena hanno adattato il dramma per il cinema. La pellicola era colorata in quadricromia e distribuita dalla casa di produzione Caesar Film (Roma). Assunta Spina è una lavandaia che vive a Napoli ed è innamorata di un macellaio violento e geloso chiamato Michele. All'inizio del film lei è anche corteggiata (praticamente perseguitata) intensamente da un giovane chiamato Raffaele. Raffaele appare alla loro scampagnata all'aperto a Posillipo e Michele diventa furioso di gelosia. Assunta cerca di calmare il suo fidanzato ma lui la ignora, e poi Raffaele la convince ad accettare un ballo con lui. Michele, accecato dalla rabbia, si separa dalla coppia che balla e poi taglia il viso di Assunta con un coltello (lo sfregio) mentre lei sta camminando verso casa. Michele viene successivamente arrestato. Durante il processo, Assunta si trova davanti ai giudici e cerca di salvarlo dalla prigione testimoniando che non era stato lui a ferirla. Le sue bugie sono inutili e Michele è condannato comunque a due anni di carcere. In tribunale, un vice-cancelliere (Don Federigo Funelli) vede la disperazione di Assunta e cerca di trarne vantaggio per se stesso: Michele rimarrà nella vicina prigione di Napoli invece di Avellino se lei si “sacrifica”. Dopo qualche esitazione Assunta è d'accordo e l’affare è fatto. Alla fine, Michele è sorprendentemente rilasciato sei mesi prima (per la vigilia di Natale). Arriva a casa e trova Assunta a una tavola apparecchiata per due e, presumibilmente, fidanzata con un altro uomo – Don Federigo. In un altro attacco di furia, Michele uccide Don Federigo Funelli per strada. Federigo, giunto nella casa, crolla morto ammazzato sul pavimento. La polizia entra in casa e trova Federigo deceduto e 52 una spaventata e scioccata Assunta tremante in un angolo con un coltello in mano. La polizia le chiede chi sia l’omicida e lei si assume la responsabilità del delitto (“Sono stata io…”) e la polizia la porta via. Il film è unico e il primo del suo genere. Mostra la potenza espressiva e il vantaggio del cinema. Tuttavia, il film è ancora molto legato al teatro, specialmente se consideriamo la scenografia, il modo in cui i personaggi si muovono dentro allo schermo come se fossero sul palcoscenico, e inoltre il punto di vista frontale della macchina da presa rafforza questa impressione. Per Francesca Bertini Assunta Spina è stato il suo ruolo di immediato successo che ha pienamente mostrato il suo talento per la prima volta. Il film è noto per il suo "realismo" e per l'uso di gesti "naturali" e di pose "non esagerate", contrariamente alla maggior parte degli altri film con la femme fatale. La trama non ha luogo in un luogo esotico o in un mondo di mito o di sogno. Invece il film è "realistico" perché si svolge nella classe operaia di Napoli. E' vero che Napoli è più "realistica" rispetto ad altre località esotiche come la Russia o l'antico Egitto, tuttavia Napoli, per qualcuno del nord (di Milano oppure di Torino) potrebbe essere metaforicamente considerata così lontana come l'India. In generale, l'uso del realismo e uno sfondo operaio pongono Assunta Spina in opposizione diretta a Gabriele D’Annunzio e ai film di Giovanni Pastrone, che di solito sono grandiosi, eccessivi e decadenti. Ad esempio, un film contemporaneo e decadente come Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, con le didascalie curate da Gabriele D’Annunzio, si svolgeva in località esotiche e antiche con scenari sontuosi. Anche se Assunta Spina è innovativo e ha in sé una dose di realismo, non è considerato un film politico-realistico. Inoltre, il contenuto del film si adatta perfettamente alla tradizione dei diva film. Come nelle trame tipiche dei film femme fatale, la donna è sempre costruita come un desiderio eccessivo e pericoloso che porta alla distruzione di tutti coloro intorno a lei, se stessa 53 compresa. Questi codici sono costantemente ripetuti e impiegati e rendono la diva un'icona (Ramirez 65). In Assunta Spina l'attenzione è posta su un amore quotidiano che si trasforma alla fine in un amore fatale nelle strade napoletane. Assunta è una donna di tutti i giorni, eppure non è consentito a una donna del suo status di fare quello che vuole o comportarsi male perché sarà condonata come peccatrice. La Bertini è trasformata nella personificazione del desiderio e incarna questo ruolo in modo sottile e naturale: non guarda mai nella macchina da presa e cerca di usare gesti più naturali e meno affettati o esagerati rispetto ad altre attrici della sua epoca. Tuttavia vale la pena menzionare che gli uomini del film (particolarmente il personaggio di Michele) utilizzano invece gesti stereotipici ed esagerati in tutto il film, in particolare nella scena finale quando Michele diventa aggressivo con Assunta. Il protagonista rappresenta l’autorità maschile mentre Assunta incarna la donna che minaccia la sua vita, il suo benessere e la sua sanità mentale. L’uso di gesti esagerati da parte del protagonista maschile può anche essere una caratteristica della sua personalità rabbiosa. (Scene da Assunta Spina, Caesar Film Roma 1915) Se guardiamo bene alcune scene dal film si può vedere molto spesso una sedia. Francesca Bertini utilizza la sedia in diverse occasioni come un oggetto di scena per esprimere quello che sta dicendo o succedendo in ogni inquadratura. Per esempio, nella prima inquadratura la sedia raffigura la “frattura” tra di loro e li tiene separati – la gelosia cui Michele si aggrappa e 54 impedisce loro di avere una vita felice insieme. Nella seconda scena invece la sedia rappresenta la sua contemplazione della proposta di Raffaele (un corteggiatore), poi nella terza scena la sedia rappresenta la sua ribellione e la sua indisponibilità a partecipare al processo del suo fidanzato Michele. (Scene da Assunta Spina, Caesar Film Roma 1915) Nella quarta scena, al tribunale, la Bertini mette la sedia fra se stessa e Don Federigo Funelli, il che rappresenta il suo rifiuto all’offerta di Funelli. Però, qualche secondo dopo, Bertini toglie lentamente la sedia tra di loro per esprimere l’accordo tra i due. L’utilizzo degli oggetti di scena è una tecnica che viene dal teatro. Utilizzando degli oggetti e non solo i gesti o le espressioni facciali si è creato un metodo efficace per comunicare la trama del film muto senza troppa necessità di didascalie. Per aggiungere pathos al suo ruolo come femme fatale e peccatrice, “her eyes are always emphasized, with dark circles underneath; her hair is left wild and unruly; and her garments are typically flowing and ephemeral, adding to the sense of otherworldliness her portrayal inspires” (Ramirez 65). Questo era fatto per “enfatizzare” la sua femminilità più seducente e provocante, e invece dei primi piani Bertini preferiva in alcuni casi il campo lungo. La sua performance riecheggia le figure femminili di Oscar Wilde, Baudelaire, e dell’art nouveau: “The emphasis is placed on woman’s essentially futile nature as fundamentally immoral, cruel and perverse, as well as on the destructive nature of passion and the dangerous aspects of love that lead man to 55 his destruction” (Ramirez 66). Assunta non è una donna innocente, nonostante che gli spettatori abbiano pietà di lei, e la sua situazione sembra sia senza speranza. Nella società bassa napoletana, essere una femme fatale ha delle limitazioni che richiedono una punizione per le sue trasgressioni. Se non viene punita, la femme fatale si deve sacrificare per un un'esistenza sotto il potere di un uomo. (Ramirez 66). Assunta è sia attiva, sia passiva nelle sue azioni: lei prende attivamente le sue decisioni conoscendo le conseguenze, eppure è passiva nella sua accettazione della sua condanna. E’ una donna del popolo, è una donna qualsiasi della classe bassa. A causa della sua situazione sociale, non può essere una donna fatale senza essere punita dalla società. Il personaggio di Assunta è “una donna sensuale ed irresistibile, ma incapace di godere di questa sua capacità di seduzione. Anche il suo destino è sempre sfavorevole: la morale non permette ad una donna dissoluta di sopravvivere” (Fatelli “Divismo”).13 Assunta è violentemente aggredita dal suo fidanzato, uno sfregio che è inteso per lasciarle pubblicamente il segno come adultera, e lei infatti sarà un’adultera e un’assassina agli occhi della legge. Il destino di Assunta: Is one of the few possible endings that the femme fatale can meet – either she is destroyed herself as the inevitable consequence of the destruction she has caused around her, or she offers herself up for destruction at the hands of a man, by the law, or, in the more sensational ending, by going mad. (Ramirez 69) Perciò è per sempre esiliata e figurativamente emarginata dalla società, e lo status quo, attraverso la sua emarginazione, è ripristinato. Questo ci fa capire che una donna fatale nella vita normale non può sopravvivere se non appartiene a una classa elevata. Una donna così sarà sempre esclusa Giovambattista. “Divismo”. Da Materiali per il corso di Linguaggi e Formati del cinema e dell'audiovisiva. Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Sapienza Università di Roma. Semestre autunnale 2012. (Microsoft Powerpoint PDF) <http://www.coris.uniroma1.it/materiali/12.03.50_divismo.pdf >. 56 13 Fatelli, dalla società. Il film dimostra questo paradigma per cui una donna della classe bassa non può avere il comportamento di una donna fatale, un comportamento che è esclusivo delle classi alte. MARION, BERTINI FILM 1920 Nel 1920 Francesca Bertini ha recitato la parte di Marion nel film muto Marion, artista di caffè-concerto, regia di Roberto Roberti e sceneggiatura di Vittorio Bianchi. Il film era ispirato dal romanzo di Annie Vivanti, Marion artista di caffè-concerto, pubblicato nel 1891, in piena Belle Époque. La protagonista del libro si chiama Marion, una giovanissima figlia d’arte, cantante di un caffè chantant, che conduce una vita assolutamente scandalosa e incarna le esperienze teatrali dell’autrice del libro. Marion è all’inizio “una del popolo”, una povera, però cerca di migliorarsi e diventa una piccolo borghese. Il romanzo comincia quando Marion ha undici anni e muore sua madre. Dopo la sua morte decide di cantare e seguiamo la sua vita a teatro finché ha vent’anni. Come figura femminile è modernissima per l’epoca perché è ambiziosa, spietata e soprattutto immorale: Marion non è una Traviata, non c'è per lei pietà o compassione, né il gusto di trattarla come un fiore nel fango, una figlia del peccato che si perde in una quotidiana dissipazione, com'è nella retorica degli angeli del male, o nelle tante opere di denuncia sociale di quei tempi. (Marion artista di caffè-concerto, nota di Anna Folli)14 Marion è un personaggio indipendente, affascinante, corteggiata e feroce. Non vuole rinunciare alla sua libertà di esprimersi come artista e così rifiuta una proposta di matrimonio con Mario, un bel poeta giovane di cui si è innamorata. Ha un aspetto estremamente seducente e riesce a 14 http://www.sellerio.it/it/catalogo/Marion-‐Artista-‐Caffe-‐concerto/Vivanti/794 57 dominare gli uomini che stanno accanto a lei. E’ forte nella sua indipendenza, però quando si rende conto che il suo amato si sposa con un'altra impazzisce. Alla fine è proprio per un folle desiderio di onore che uccide la moglie di Mario e il vecchio innamorato Max si assume la colpa: Max era lì, curvo sopra a quella nera figura distesa: vide Marion e balzò in piedi tendendo le braccia per mandarla indietro. Ma Marion lo guardò. Poi levò una mano con l’indice testo verso lui, e disse molto lentamente: —Sei stato tu. Egli la fissava inorridito, senza capire. —Sei stato tu. ripeté ella lentamente, sempre colla mano tesa verso lui. —Tu la volevi: essa non ha voluto: e l’hai uccisa. Max, rigido, con gli occhi sbarrati, guardava quella mano ch’essa puntava immobile contro di lui. Allora anch’essa guardò. E stettero entrambi a guardare, a guardare il sangue su quella piccola mano bianca. Ad un tratto Max fece un passo innanzi, si strappò dalla tasca il fazzoletto e le asciugò la mano. Nel lasciarla ricadere, disse: – Baciami. Ma ella alzò la testa: No. Io non li vendo i miei baci. No. E piuttosto...Egli la interruppe: —Hai ragione – disse, con un lampo d’ammirazione negli occhi. – Va’, va’ via. Presto! Va’. Zelinda non cantava più, e s’udivano gli applausi nella sala, interrotti da grida di basta! – Vogliamo Marion! Fuori Marion. – E quella disse come in sogno: – Tocca a me. – Va’ – disse lui a voce bassa. – Va’ presto. Va’ e canta! Ed essa andò. (Vivanti 143-144) Così finisce il romanzo e anche la carriera di Vivanti per i prossimi venti anni. Vivanti si sposa con un irlandese, John Chartres, e i lettori di Marion si ritrovano a indovinare che Marion continui la sua carriera di cantante mentre Max va in prigione per un crimine che non ha commesso (Jandelli “La Marion di Vivanti e Bertini”, 2-3). Quasi trent’anni dopo il romanzo, il personaggio di Marion prende vita sul grande schermo. Francesca Bertini mette in scena il personaggio dark e scandaloso di Marion e la lascia molto simile (quasi identica) al personaggio del romanzo. La Marion bertiniana è ripetutamente contesa, sfiorata, desiderata da una folla di uomini, anche se memore dell’insegnamento impartito dalla madre in punto di morte. Marion disobbedisce alle regole che sua madre le ha lasciato nella sua ultima lettera: “Non credere a nulla, non innamorarti, lascia stare i vecchi, il caso sa quello che fa” (Marion…1920). 58 (Scene da Marion, artista di caffè-concerto, Bertini Film, Roberto Roberti, 1920) E così facendo si paga il prezzo. Il prezzo sarà la morte, ma la morte di chi? La Marion bertiniana rifiuta di innamorarsi. Quando una donna s’innamora si perde ed è più debole. Non vuole soccombere all’amore perché così facendo sarebbe come dare il suo potere a un uomo. Ma è senza speranza, e il suo amato si sposa con un’altra dopo il rifiuto di Marion. E’ adorata da molti uomini e in una scena in particolare mette i suoi spasimanti letteralmente in ginocchio. In gran parte del film Marion si veste quasi tutta di bianco, in abiti fluenti e leggeri. E’ possibile che si vesta così per sembrare più giovane, ingenua e innocente (Francesca Bertini aveva quasi trent’anni e doveva recitare il ruolo di un’adolescente). Si è messa in contrapposizione alle donne aristocratiche nel film, che si vestono in abiti scuri e con le piume sul cappello, al fine di mostrare la sua diversità. Non proviene dalla classe alta, è una chanteuse nata per soffrire nel mondo maschile. E’ anche possibile che si vesta di bianco per mostrare il suo cambiamento nel corso della trama. E’ bellissima e incantevole in tutto il film, però diventa davvero pericolosa quando viene a sapere del matrimonio tra Mario e Anna. Il suo cambiamento è rapidissimo, la furia la prende subito e ci mostra il suo dolore e la sua doppia faccia – quella cattiva e oscura che lei mantiene nascosta. Come il lancio di una moneta, il suo carattere si rovescia e spaventa il pubblico. Soffre e alla fine perde il suo controllo. E’ più probabile che l’idea di vestire la donna fatale tutta di bianco inverta la funzione semiotica: l'icona del pericolo indossa il colore dell'innocenza. Vestita di bianco, Marion può ingannare più facilmente il 59 maschio ignaro (oppure la sua rivale in amore), proprio come dice il proverbio: un lupo travestito da agnello. Nelle ultime scene Marion scopre Anna nel suo camerino privata a teatro mentre sta giocando con il suo trucco, e Marion perde la testa. Ferisce la sua mano (apparentemente un incidente) con il pugnale regalatole da Mario, e poi minaccia la rivale con il pugnale tenendolo sopra la sua testa. Nella sua furia l’ammazza con il pugnale e il corpo rimane sul pavimento come se fosse su un letto di rose (vedere le immagini qui sotto). (Scene Marion, artista di caffè-concerto, Bertini Film, Roberto Roberti, 1920) Poi appare Max, il vecchio innamorato che è ossessionato da Marion. Max è scioccato da quello che vede. Si avvicina a Marion e nota la sua collana con il ritratto di sua madre. Max si rende conto che Marion è sua figlia, e l’ultima didascalia recita “…Sono stato io…va…e canta!” (Marion…1920). Come nel romanzo, Max prende la colpa per aver ammazzato Anna. 60 (Scene Marion, artista di caffè-concerto, Bertini Film, Roberto Roberti, 1920) La differenza più grande fra il romanzo e il film è l’elemento d’incesto e la relazione perversa. Tutto il film gioca con il tema dell’amore perverso fra un uomo anziano e una giovane donna. Già all’inizio, Marion si siede sulle ginocchia di un uomo con i capelli bianchi mentre egli apprezza il suo corpo. (Scene da Marion, artista di caffè-concerto, Bertini Film, Roberto Roberti 1920) In questa scena riportata sopra, Marion si reca da questo vecchio per trovare un lavoro come cantante: (“Vorrei cantare io…”). Dopo aver apprezzato e valutato la ragazzina (secondo il primo romanzo dovrebbe avere undici anni), il vecchio le dà un assegno e dopo poco lei comincerà il suo nuovo lavoro a teatro. Il tema del rapporto perverso padre-figlia sottolineato in due scene 61 particolari è fin troppo chiaro. Per esempio, in una scena troviamo Max e Marion seduti a mangiare e lui dice a Marion: “…un’altra volta dirai a me ciò che desideri” e Marion gli risponde “sì…pa…pà”, e poi lei comincia a ridere e lui sorride furtivamente come fosse uno scherzo segreto tra di loro (Marion…1920). Più tardi il vecchio Max chiede a Marion di andare via con lui nel sole e saranno come “padre” e “figlia”. Il tema dell’incesto fra padre e figlia si trova anche nei Sei personaggi in cerca d’autore, andato in scena quasi nello stesso anno dell’uscita del film, nel 1921. Max e Marion, prima di scoprire che in realtà sono padre e figlia, giocano con l'idea di avere un rapporto perverso e sembrano godere del “role-play”. Poi viene la Marion riscritta da Vivanti nel 1921. Un anno dopo l’uscita del film, Annie Vivanti ha riscritto il suo romanzo con tanti cambiamenti e l’ha intitolato semplicemente Marion. Ha usato la figura originale del personaggio di Marion cambiandola radicalmente. Vivanti si è censurata in modo sistematico rimaneggiando situazioni e personaggi. In questa versione del romanzo è Mario, nel finale, a tentare l’omicidio, non più Marion, verso la rivale Anna. Il poeta la minaccia, ma Massimo (il vecchio) interviene facendolo fuggire. Marion non è più un’assassina guidata dalla furia della gelosia e della passione, per non parlare del fatto che non c’è un omicidio. Soprattutto non tenta di incolpare un innocente di aver commesso un assassinio al suo posto. Alla fine, la parte dove al pubblico è detto che Massimo è in realtà suo padre è “misteriosamente” cancellata. In questa versione, Marion si vergogna, è più innocente e rappresenta una nuova Marion per il pubblico italiano. Questa è la “nuova” donna italiana che si sviluppa durante gli anni venti: la donna censurata. Nella riscrittura di Marion, Vivanti ha pulito il personaggio e ha cambiato la trama. La Marion edulcorata e ammansita è ormai incapace di sedurre, e il cinema delle dive con i suoi feroci slanci espressivi è vicino al tramonto. Alla fine Vivanti “risveglia la sua creatura per anestetizzarla e renderla più angelica” (Jandelli “La Marion 62 di Vivanti e Bertini”, 7). E’ anche possibile che Vivanti abbia ripreso il soggetto Marion perché voleva soltanto guadagnare dei soldi. Il film aveva reso il personaggio famosissimo e la Vivanti ha visto in questo una grande opportunità di scrivere una nuova Marion per un “successo commerciale”, cioè una versione adatta per le masse. Vivanti, così come Francesca Bertini, crea i suoi tipi femminili per rispondere alla loro volontà di avere un “successo di qualità” e artistico. Vivanti e Bertini “erano tutt’e due coscienti che il commercio delle rispettive opere aveva lo stesso peso, se non maggiore, di quello artistico” (Jandelli “La Marion di Vivanti e Bertini”, 8). Senza dubbio erano donne uniche e certamente più originali e moderne delle donne della società italiana del tempo. Però le due figure non hanno costituito un personaggio femminile non censurato e ribelle in contrasto alle donne emancipate d’oltreoceano o dell’Europa del nord. Alla fine non erano in grado di creare un modello da seguire o imitare. In Italia non esisteva “un modello di donna che fuoriesca dal ristretto circolo familiare senza pagare un prezzo altissimo” (Serri 14). Anche se Marion era solo un personaggio fittizio, le sue azioni come femme fatale erano così scandalose che un prezzo doveva essere pagato, e questo prezzo è la censura da parte della sua stessa creatrice (Jandelli “La Marion di Vivanti e Bertini”, 6-8). Nel caso di Marion, ci dobbiamo chiedere: perché Vivanti voleva censurare il suo personaggio femminile ribelle? E’ possibile che a causa della sua posizione nella scala sociale Marion dovesse essere punita in un modo o nell’altro. E’ inimmaginabile che una cantanteprostituta possa uccidere una moglie virtuosa e poi mandare in prigione un uomo al suo posto. Le tre Marion del cinema e della letteratura ci fanno vedere il cambiamento sociale e la forza pura di mettere un’immagine controversa sullo schermo. Se guardiamo bene l’evoluzione delle tre Marion nel corso di trent’anni, si può vedere il cambiamento fra la fine dell’Ottocento letterario e il cinema muto italiano nei tardi anni dieci del Novecento, e poi la riscrittura di un romanzo di 63 consumo. E’ un peccato che Vivanti sia riuscita a costruire un personaggio femminile originale e moderno nel 1891 e poi nel 1921 abbia ripulito il personaggio ribelle per renderlo più “femmina” e più accettabile per il pubblico italiano; tuttavia, è anche significativo per il tempo perché ne riflette i cambiamenti sociali e culturali. E’ evidente che questo è stato l’inizio della fine per lo sviluppo dell’emancipazione delle donne, con la Marcia su Roma che avviene l’anno dopo. In una videointervista a una anziana Francesca Bertini, la diva parla delle sue esperienze e della sua vita durante la sua carriera come donna fatale. Durante l’intervista (in cui lei prende rapidamente il controllo sull’intervistatore giovane che sembra timido in presenza della diva) dice che era troppo giovane per la donna fatale e per rappresentare il ruolo ha dovuto mettere dell’ombretto scuro sugli occhi, e così si vede il potere dei costumi e del trucco. La Bertini, alla fine della sua carriera come la massima femme fatale italiana, ha firmato un contratto con Fox Productions per “un milione di dollari” ma poi l’ha rifiutato per sposarsi (Bertini, “Assunta Spina/Last Diva"). Non si poteva essere un’attrice e anche sposata. Perciò, anche se la diva più grande degli anni dieci ha rappresentato una figura forte e quasi femminista nel cinema, è andata in pensione appena si è sposata per essere una buona moglie. In questo modo, la Bertini scindeva il suo personaggio dalla vita reale, tornando a essere una donna, una donna sposata con un ricco banchiere svizzero, e dunque entrata nell’alta società in maniera rispettabile. Tornerà al cinema, convinta da Bernardo Bertolucci, solo per una piccola parte nel film Novecento. PINA MENICHELLI Giuseppina (Pina) Menichelli è nata a Messina da genitori attori siciliani nel 1890 (morta nel 1984) e ha cominciato la sua carriera a teatro. Tra il 1913 e il 1914 è apparsa in una quarantina di film e sulla copertina di tante riviste, però è diventata una vera diva soltanto dopo 64 che Giovanni Pastrone l’ha scoperta e lei si è trasferita all’Itala Film di Torino, che proprio grazie a Pastrone divenne per un periodo una capitale del cinema. Dopo Il Fuoco (1915) e Tigre Reale (1916) ha scelto di abbandonare i suoi personaggi di femme fatale per altri ruoli più moderni e socialmente controversi. Ha lasciato per sempre il cinema nel 1923, e l’anno successivo si è sposata con il barone Carlo Amato a Milano. Dal 1913 fino al 1925, Menichelli è comparsa o è stata protagonista di oltre quarantacinque film.15 IL FUOCO, ITALA FILM 1915 Il Fuoco è ispirato dal romanzo dallo stesso titolo pubblicato nel 1900 da Gabriele d’Annunzio. Il film è stato girato nel 1915 con la regia di Giovanni Pastrone e la produzione di Itala Film, una delle più avanzate realtà produttivo-cinematografiche dell’Italia ma anche dell’Europa di allora. La protagonista de Il fuoco, recitata da Pina Menichelli, è conosciuta solo come “Lei” o la Duchessa. Mentre sta dipingendo un bosco, la Duchessa (un’aristocratica sposata) trova e insegue l’ingenuo pittore Mario Alberti (recitato dall’attore Febo Mari). La Duchessa comincia a sedurlo con il pretesto di farsi fare un ritratto e presentarlo a un’esposizione. Così facendo, la donna aspira a trasformare la propria immagine in un’opera d’arte vivente. Appena lei raggiunge il suo scopo, l’uomo è brutalmente abbandonato, perde la testa e impazzisce. Il film “più che un melodramma sembra il suo rovescio: non è l’eroina a soccombere, ma il protagonista maschile a finire preda della follia” (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 1). 15 Si veda una lista completa della sua filmografia: http://www.imdb.com/name/nm0579618/ 65 Il film è ben diviso in tre sezioni che sono annunciate proprio all’inizio e profetizza “uno svolgimento drammaturgico in tre atti, concepiti come momenti della passione amorosa” (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 1). (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) All’inizio al pubblico è già detto che cosa succederà: questo film tratterà di una relazione appassionata che finirà in cenere. Come una fiamma, la relazione amorosa si accende con il fuoco, divampa e poi si spenge come un poema tragico. Durante la parte “favilla” lei va a casa di lui apparentemente per vedere i suoi dipinti, rompe una lampada ad olio e con un foglio comincia un grande fuoco. La danza delle fiamme affascina il pittore che ne è subito incantato. Lei dice: “Vedi! Come la passione la sua fiamma si leva fino al cielo e abbaglia……ma dura un attimo. Scegli!” E lui le risponde: “Bruciami!” (Il Fuoco, Itala Film 1915). Con questa scelta il povero Mario Alberti perde la sua anima e il fuoco della passione lo consuma come un predatore fa con la sua preda. Il personaggio femminile ne Il Fuoco è presentato come una donna rapace con ala e artiglio adunco, creando così l’immagine di una civetta. La donna rapace raffigurata come il gufo è ispirata dalla moda “emancipata” contemporanea. 66 (Rosa Genoni, Per una moda italiana. Modelli, saggi, schizzi di abbigliamento femminile, "Abito sportivo per dirigibile dall'arte egizia. Prima di salire in dirigibile", Milano 1909, in Bossaglia 15) In questo schizzo riprodotto qui sopra vediamo la moda civetteria che era l’alta moda dell’epoca specialmente nel nord d’Italia, e da questo disegno possiamo determinare che c’erano delle donne “emancipate” che si vestivano così anche prima dell’uscita del film. E’ così evidente come l’abbigliamento da civetta, o da donna gufo, del personaggio fosse ispirato alla moda “emancipata” del momento. (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) 67 Il tema del gufo è evidente in tutto il film, con la protagonista che si veste seguendo completamente la moda civettesca con un cappello di piume. I suoi movimenti sono ben calcolati e animaleschi, sbatte spesso e lentamente le lunghe ciglia, muove i suoi grandi occhi come se fosse una civetta vera, e a volte si deforma le labbra per farle sembrare un becco. (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) E’ più che evidente l’uso dello zoomorfismo in queste due immagini: le sue posizioni strane, grottesche, bestiali la mutano in una civetta. La donna civetta/gufo incarnata da Pina Menichelli è più che un’immagine, è un simbolo vivente che comunica con sé molti messaggi sul carattere del personaggio: Nella mitologia sumera il gufo è un attributo di Lilith, Luna Nera associata al mondo degli spiriti, alle forze misteriose dell’aldilà e alla magia nera: dea vendicatrice, apportatrice di angosce, presagi, turbamenti e di una sessualità sfrenata. La donna gufo incarnata da Pina Menichelli simboleggia un’angoscia intrisa di erotismo e ammantata da un’aristocratica spregiudicatezza morale. Appare un cascame del Decadentismo, ma allo stesso tempo possiede la potenza di un’originale declinazione visiva della figura femminile zoomorfa che 68 dall’Ottocento letterario e pittorico transita dentro la forma artistica più popolare del Novecento. (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 2) Nei primi due atti, l’uso dell’iconografia civetta connota in modo originale la protagonista fino a farne un autentico tipo cinematografico e crea un “tipo” di donna fatale. E’ anche notevole che il luogo in cui si svolge la loro relazione amorosa sia al Castello di Gufi. La sua crudeltà, la sua spietatezza, e la mancanza di empatia per le sue azioni (caratteristiche che determinano una figura femme fatale) sono attribuiti al suo lato dark, cioè alla parte non-umana, cioè il gufo femmina, una creatura notturna e un predatore. Collegato al tema della donna gufo è il tema dell’ala e dell’artiglio che si trova in tante scene nel film e in una didascalia: “Giungerò nel mistero e nelle tenebre al tuo nido aspettata ed inattesa. Io tenderò l’artiglio adunco e l’ala per ghermirti e levarti fino al cielo. Tu tenterai di farmi prigioniera e chi è più forte vincerà la prova” (Il Fuoco, Itala Film 1915). Queste parole appaiono in una lettera lasciata dalla Duchessa per Mario Alberti. Come la moda civettesca, il tema dell’ala e dell’artiglio non appare per la prima volta in questo film, ma viene infatti dalla vita reale negli anni dieci. Per esempio, in alcuni quadri che ritraggono a marchesa Luisa Casati16 come La marchesa Luisa Casati con un levriero (1908) di Giovanni Boldini, e La marchesa Luisa Casati con piume di pavone (1914) sempre di Giovanni Boldini (uno dei maggiori ritrattisti di questi anni), si trova lo stesso tema. Nel Fuoco il regista Giovanni Pastrone porta il soggetto dal quadro alla vita e lo mette in movimento. C’è una scena in particolare nel film dove “Lei” si è seduta sul divano e fa la stessa identica posa che si trova nel dipinto di Boldini: Casati era un'ereditiera eccentrica italiana, musa, e patrona delle arti nell'Europa del ventesimo secolo, ed è anche possibile che avesse delle relazioni con Gabriele D’Annunzio. Ancora oggi la marchesa Casati è ben conosciuta per le scelte eccentriche di moda (era una sorta di una Lady Gaga della sua epoca). Nei tardi venti la marchesa perse tutti i suoi soldi si trasferì a Londra. Dicono che l’ultima volta che qualcuno l’avesse vista, stesse cercando nella spazzatura delle piume da mettere nei suoi capelli. 69 16 Luisa (La marchesa Luisa Casati di Giovanni Boldini, 1914) (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) E’ possibile che questi due quadri e il loro soggetto (la Marchesa Casati) abbiano ispirato il tema della donna gufo perché non c’è nel romanzo originale, e inoltre la Casati era un’amante di D’Annunzio. Se si guarda bene il dipinto di Boldini accanto alle due scene del film, si possono chiaramente vedere le somiglianze. Pina Menichelli si colloca spesso in una posizione “alata” nel corso del film, e il gesto rievoca come una civetta cattura la sua preda: un gufo si siede sul suo ramo, guardando e aspettando pazientemente la preda ignara, poi improvvisamente il gufo piomba sulla preda, le ali si aprono ampiamente e con i suoi artigli cattura la povera creatura da riportare al nido per farla a pezzi. 70 (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) Nel Fuoco, la Duchessa è fisicamente aggressiva con il giovane artista, spesso afferrandolo, respingendolo e graffiandolo con le sue lunghe dita e le sue braccia “alate”. In altre scene si vede la prova specifica del modo in cui il tema e l'uso di “artigli” sono strettamente legati all’iconografia delle donne fatali come la marchesa Luisa Casati e Giuditta: (Giovanni Boldini, Ritratto di Luisa Casati, 1908 La Marchesa indossa un abito nero di Poiret), (Judith II (Salome)17 Gustav Klimt painting, 1909), (De Meyer photograph, 1919) E’ interessante che le mani in tutti e tre dipinti siano molto simili. Nel primo ritratto della marchesa Luisa Casati la mano è sottile e sembra essere il significante che ci dice chi è e che 17 Il dipinto è conosciuto come Giuditta II perché Klimt ha dipinto un’altra Giuditta nel 1901. La prima Giuditta ha mani diverse. Giuditta II è anche nota come Salomè. 71 cosa la sua personalità sarebbe nella vita reale: è una donna colta, elegante, vestita secondo la moda emancipata. Però Giovanni Boldini ha dipinto molti ritratti famosi di altre donne aristocratiche, e non appare la stessa mano-artiglio.18 Perciò la mano mutata ad assomigliare a un artiglio simboleggia la personalità rapace della donna di quel particolare dipinto. Nel secondo dipinto di Giuditta II (Salomè), la mano-artiglio, che non appare in altri dipinti di Giuditta, rivela la possibilità che le mani dipinte siano simboli utilizzati per legare il soggetto alla Marchesa.19 E’ molto probabile che la Marchesa Luisa Casati fosse una donna fatale e rapace nella vita vera e che il personaggio di “Lei” sia stato ispirato da un personaggio autentico della società aristocratica. Era una donna fatale perché ha avuto una forte presenza in un mondo maschile e ha vissuto una vita esagerata. Dicono che amasse stupire le persone presentandosi con diverse bestie esotiche, come per esempio dei leopardi. Lei era definita come “il bel serpente del paradiso terrestre”. Voleva diventare un’opera d’arte vivente e c’è in parte riuscita. 18 Vedere il ritratto di Mademoiselle Lantelme (1907). 19 Secondo il libro di Giuditta, Giuditta utilizza il suo fascino e la sua bellezza per entrare nel campo nemico e ingannare il generale Oloferne. Ottiene la sua fiducia, viene nella sua tenda una notte e lo trova ubriaco. Lei lo decapita, poi porta la testa ai suoi connazionali paurosi. Senza il loro generale che determina lo scioglimento dell'esercito nemico le forze Israelite vengono salvate. 72 (“Paul Ruckmar & Co.” by Carl Moos, 1910), (Sto (Sergio Tofano) la copertina di Lidel, novembre 1919)20 Non è per caso che, poco dopo che i pettegolezzi erano iniziati sulla Marchesa che camminava per le strade della città con i leopardi selvatici, nel 1910 Carl Moos ha dipinto un poster di una donna elegante che passeggia con un leopardo al suo fianco, e nel 1919 una figura simile, e ancora più androgina, appare sulla copertina della rivista di moda Lidel di Milano.21 Quindi “il tipo cinematografico, e poi il ruolo, nascono quasi contemporaneamente al presentarsi, sulla scena sociale, di figure femminili spregiudicate e provocatorie, minacciose e di forte potere seduttivo, sul cui modello la protagonista del film viene plasmata” (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 2). Sulla scena sociale c’è sempre la moda “emancipata” che si vede nell’iconografia de Il Fuoco. Anche nell’iconografia di Circe, una femme fatale mitica, lei è raffigurata accanto ad una tigre nel ritratto Circe (1885) di Hon John Collier, e poi accanto ai 20 Bossaglia 55 73 leoni nel ritratto Circe (1889).22 Perciò il felino selvatico è senza dubbio un simbolo primario per significare una femme fatale, e in secondo luogo per personificare la sua natura bestiale. (Sto, al secolo Sergio Tofano, Numero, 11 aprile 1915, Bossaglia 26), (Scena da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) La prima immagine è una vignetta della rivista Numero del 1915: “La donna mascolina, […] truccata, elegante; ricca di fascino ma insieme scostante -- e sembra proprio che il disegnatore qui abbia avuto in mente il modello Amalia [Guglielminetti]” (Bossaglia 26-27).23 Non è difficile vedere le somiglianze fra le due immagini androgine: entrambe hanno lunghe piume sul cappello, pellicce pesanti, molte pieghe di stoffa che nascondono le curve del corpo di una donna: erano tutte caratteristiche di una moda “emancipata”, “androgina” e “altolocata” negli anni dieci. A metà del film, la Duchessa viene dipinta dal suo amante e la didascalia relativa è ispirata da un poema di Febo Mari: “Ecco, Venere nova, io ti ritraggo, non muoverti! Nell’ombra che t’avvolge, è il tuo velo il mistero – tu la donna…” (Il Fuoco, Itala Film Torino 1915): Circe (una figura che appare nella mitologia greca e nell'Odissea di Omero) usa le pozioni magiche per trasformare i suoi nemici e gli uomini in animali. 23 Amalia Guglielminetti era una grande scrittrice e una donna assolutamente “emancipata” dell’epoca Déco. 74 22 (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) Così Pina Menichelli diventa la nuova Venere dell’epoca. Come la “venere nera” di Baudelaire, nasce una nuova figura femminile non-perfetta e anti-angelica. La Venere raffigurata ne Il Fuoco deve essere la donna moderna ed emancipata, cioè la donna fatale. E’ una donna celebrata per la sua intelligenza, per la sua bellezza come una dark lady, e per la sua abilità di usare un uomo per motivi passionali e poi vivere la sua fine brutale senza vergogna. Come “tipo” di donna fatale, la Menichelli: Appare un “ritratto vivente” nel senso che riproduce un soggetto femminile fissato sulla pellicola nel preciso istante in cui veniva ripreso dalla cinepresa. L’inquadratura mostra un’attrice intenta a interpretare un personaggio di finzione. Il tempo del ritratto è costituito da un flusso a scorrimento regolare di immagini in movimento. (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 1) I due primi piani riprodotti qui sotto di Pina Menichelli sono particolarmente significativi e appaiono subito dopo che Mario Alberti si confronta con la Duchessa e suo marito al ballo. La didascalia recita: “Chi è costui?” “È pazzo?” (Il Fuoco, Itala Film 1915). Gli uomini aristocratici del ballo prendono Mario Alberti e la macchina da presa torna a “Lei” mentre nasconde il neo con la mano. 75 (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) È un primo piano non-classico perché la Duchessa sembra guardare direttamente nella macchina da presa, è vicina e intima e sembra comunicare un messaggio segreto al pubblico: solo gli spettatori al cinema sanno la verità, la società della finzione cinematografica non saprà mai che cosa è successo. Non è possibile nella vita reale avere una relazione di questo genere perché se fosse davvero successo la Duchessa sarebbe stata espulsa dalla società come una lebbrosa. In queste inquadrature vediamo come il cinema muto sia legato all’arte degli inizi del ventesimo secolo più del cinema di oggi. Però con il cinema si può vedere ancora di più che nell’arte; si può viaggiare nelle emozioni della o del protagonista attraverso l’uso enfatico delle espressioni del volto. Per esempio, nella prima inquadratura in cui sta ridendo, “è infatti il marchio d’infamia, la prova della sua dissolutezza morale” (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 4). In questo cambiamento gli spettatori vedono l’anima nera della protagonista. Quando guarda nella macchina da presa è come una sfida al pubblico. Il nudo ritratto di lei nel film, dipinto da Mario Alberti, nascondeva il suo volto, e né la società aristocratica, né suo marito possono dire se fosse davvero lei. Siamo solo noi spettatori a sapere la verità e veniamo in un certo senso sfidati e minacciati da questa inquadratura. Vediamo il suo ritratto cinematografico, cioè il primo piano che si avvicina al volto dell’attrice sullo schermo 76 gigantesco e fuori scala, ma anche restituendone, perfettamente visibili, dunque interpretabili, le inquietanti e mutevoli espressioni. Poi il ritratto cinematografico svanisce lentamente nel buio ed è l’ultima inquadratura della donna rapace (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 4). Quando ci guarda così è come se fossimo sotto il suo incantesimo e prigionieri anche noi del suo potere carnale: ci sta seducendo. Gli sguardi di Pina Menichelli rispecchiano lo stato d’animo nuovo rispetto all’epoca: una donna senza vergogna per i crimini commessi. La Menichelli guarda tutti gli spettatori, comunica un segreto o forse sta seducendo anche noi. Inoltre, l’inquadratura in primo piano in questo film è come l’arte vivente. Per esempio, dopo che la dipinge e prima che la Duchessa rifiuti Mario Alberti al gran ballo, “Lei” mette una droga nel suo bicchiere per farlo addormentare. Lentamente lui si addormenta e così la Duchessa scappa nella notte. (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) Il primo piano cinematografico non è altro che il ritratto vivente di un’attrice o di un attore che interpreta il personaggio di una storia di finzione. Però in questo caso rispecchia anche una vita “reale”, la vita di una duchessa fatale. Nelle scene sopra riportate si può vedere facilmente il ritratto vivente: mentre si addormenta, la faccia della protagonista cambia velocemente come nella poesia di Baudelaire, Les Métamorphoses du vampire. Lei guarda nella macchina da presa e poi nella terza inquadratura lo bacia per l’ultima volta. Come la vampira di Baudelaire, il bacio 77 assomiglia più a un morso che a un momento di amore o tenerezza, e così la vampira succhia fuori l’anima dell’uomo. Alla fine del film, Mario Alberti diviene completamente matto dopo essere stato abbandonato dalla Duchessa. Così Il Fuoco “si chiude con una forte metafora degli anni di guerra che siglano drammaticamente la Belle Époque: un uomo recluso che realizza origami a forma di gufo, travolto e ghermito da un’ala nera di rapace che l’ha reso demente” (Jandelli “Il ritratto nel cinema muto italiano”, 3). (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) Così finisce il film, che si rivela una metafora della fine della Belle Époque e del Decadentismo. Il soggetto del film è fortemente influenzato dalla letteratura dannunziana, dalla Belle Époque e dalle sue immagini femminili. E’ indubbio che il simbolismo nel Fuoco fosse ispirato da Gabriele D’Annunzio e dalle immagini del Decadentismo. Tutto il film riprende temi decadenti, però ci sono delle scene uniche che ricordano anche il romanzo Il Piacere scritto da Gabriele D’Annunzio e pubblicato nel 1889. Andrea Sperelli è personaggio dandy che cerca sempre la bellezza e disprezza il mondo borghese. Conduce una vita eccezionale costruendo così la sua vita come un'opera d’arte vivente. Rifiuta in gran parte le regole basilari del vivere morale e sociale. Nella sua vita ha relazioni con diverse donne, una in particolare che si chiama Elena. In questa 78 citazione presa dall’inizio de Il Piacere, Andrea Sperelli sta parlando di un ricordo amoroso e “speciale” con la sua amante Elena. C’è anche una rievocazione della donna che affonda la faccia in un mazzo di fiori e ne riemergeva esangue. Andrea la copre di fiori prima di consumare la loro passione, e i fiori sono usati come sinonimo di abbondanza e decadenza: Io pensai, scorato: "Già ella non mi ama più!" Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n'era piena. Io ti veggo ancora, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esanque e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà… -- Segui, segui! -- disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata dal fascino delle acque correnti. -- Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendonti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora…Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie…Ti ricordi? (D’Annunzio Il Piacere, 7) (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino, Giovanni Pastrone 1915) In Il Fuoco Mario Alberti copre la Duchessa di fiori prefigurando così la loro storia amorosa a venire. Elle stava diritta, innanzi ai balaustri, con le mani posate su la pietra, con la testa alzata, più pallida di quando, nella mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Le lacrime le empivano li occhi socchiusi, le rilucevano tra i cigli; e sogguardando innanzi a sé, elle vedeva il cielo farsi roseo, a traverso il velo del pianto. Era, nel cielo, una pioggia di rose, come quando nella sera d'ottobre il 79 sole moriva dietro il colle di Rovigliano accendendo gli stagni per la pianeta di Vicomile. "Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza d'una nevata in un'aurora. (D’Annunzio Il Piacere, 396) E’ chiaro che cosa Giovanni Pastrone volesse, e che l’abbia fatto con precisa intenzione di evocare le scene con i fiori nel Piacere. Se torniamo brevemente a Marion, artista di caffè concerto, vediamo una scena simile: (Scene da Marion, artista di caffè-concerto, Bertini Film, Roberto Roberti 1920) Quando abbiamo parlato di Marion (1920), abbiamo notato la presenza dei fiori nella scena in cui Marion uccide Anna che cade morta nel letto di rose.24 Anche in Marion c’è una forte simbologia con la protagonista coperta di fiori. Nella prima inquadratura alla sinistra Marion ha finito di cantare e tutto il teatro esplode con fiori, nastri e applausi di congratulazioni. Nell’inquadratura a destra Marion (con un cappello di fiori, un mazzo di fiori e un vaso di rose dietro) legge la lettera e scopre che Mario ha sposato un'altra donna. Nel caso di Marion, la donna inondata dai fiori prefigura il suo ultimo appuntamento segreto con Mario. Questi film, dunque, rivelano stilemi sia della moda, sia dell’arte, sia della letteratura contemporanei portati al grande pubblico attraverso il cinema che attinge alla letteratura e all’arte per creare l’immagine di una donna “straordinaria” e al tempo stesso impossibile nella realtà sociale di quel 24 Vedere pagina numero undici per il riferimento alle rose in Marion (1920). 80 tempo. TIGRE REALE, ITALA FILM 1916 Tigre Reale è un film muto ispirato dal romanzo di Giovanni Verga (1875) e messo in scena nel 1916 da Itala Film, con la regia di Giovanni Pastrone con una durata ottanta minuti (una lunghezza ragguardevole per il tempo). Il film ci porta a un ballo a Parigi. L’ambasciatore Giorgio La Ferlita (Alberto Nepoti) incontra la bellissima contessa Natka (Pina Menichelli) durante un ricevimento. Come un colpo di fulmine, Giorgio s’innamora e rimane affascinato da lei. Natka in realtà è infelicemente sposata con un russo come lei, e racconta che è stata innamorata di un altro uomo di nome Dolski (Febo Mari) che, scoperto dal marito, viene da quest’ultimo confinato in Siberia. Poi Natka raggiunge Dolski e lo trova con un'altra donna. Triste e delusa fugge, e Dolski per senso di colpa si toglie la vita davanti a lei. Dopo il suo racconto tragico, la contessa congeda Giorgio e sparisce nel nulla per alcuni mesi. Dopo averla cercata invano, il diplomatico intreccia una relazione con la ricca Erminia. Ottenuto infine un ultimo appuntamento dalla misteriosa Contessa, Giorgio si reca da lei in albergo e la trova gravemente ammalata di tubercolosi e sembra essere morta. Mentre il suo amante piange, l’hotel prende fuoco e i due sono intrappolati in una stanza. Le fiamme invadano lo schermo e tutto sembra perso: le fiamme condannano figurativamente i due peccatori in un grande inferno. Però, come Giulietta, la contessa Natka ha preso una droga per sembrare morta, e quando si risveglia i due si abbracciano. Entrambi riescono a salvarsi, mentre il conte muore nell’incendio. 25 25 Giulietta da Romeo e Giulietta una tragedia in cinque atti di William Shakespeare, composto nel 1594-‐1596. 81 (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino 1916) La protagonista Natka viene immediatamente presentata come una donna pericolosa che incarna la donna-tigre che abbiamo visto con la Nestoroff. Appena inizia il film, infatti, la didascalia recita: “Ecco la contessa russa! Quella che spinse alla morte l’ultimo suo amante!...” (Tigre Reale, Itala Film 1916). Come la tigre feroce in Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello, Natka ha “mangiato” il suo ex-amante: viene metaforicamente classificata come una mangiatrice di uomini e incarna questo lato bestiale della donna fatale. Al ballo Natka è circondata dagli uomini che la pregano di ballare con loro. Giorgio viene presentato alla contessa e le chiede un ballo . Purtroppo il suo cahier de danse è già pienissimo (anche se è appena arrivata) e lo ignora fingendo indifferenza. Poi accetta di cancellare un poverino dalla lista a favore di lui: “Il cancellato sfida La Ferlita a duello, Natka se ne va all’improvviso, come se il destino dei due uomini non la riguardasse affatto” (Jandelli 2006, 199). Tutto sembra essere un disegno segreto per farlo innamorare di lei. 82 (Scene da Il Fuoco, Itala Film Torino 1916) In quest’unica scena nel repertorio della diva-film, la contessa Natka si siede da sola nella parte posteriore di una macchina elegante. Avvolta in una pelliccia di gran lusso e con il cappello ornato di piume stravaganti, mangia petali di rosa. La scena si svolge subito dopo aver conosciuto Giorgio La Ferlita al ballo. Così se ne va via nella notte, riflessa nel finestrino della macchina in movimento fra le luci della città industriale. La scena in macchina è straordinaria e soprattutto complessa. Abbiamo già notato le ovvie influenze de Il Piacere su Il Fuoco, però, nel romanzo di Giovanni Verga, Tigre Reale, i fiori sono menzionati tante volte ma nessuno li mangia mai. Se il riferimento non viene dal libro, dobbiamo esaminare i codici in Tigre Reale e quello che potrebbero significare. Non si può fare a meno di pensare a Ulisse e ai mangiatori di loto – gli uomini che hanno mangiato il loto sono drogati dal suo frutto che li fa vivere in uno stato indolente di oblio. Questa simbologia ci fa pensare alla società aristocratica e alle contesse come Natka. Gli esseri umani non mangiano i fiori – non ci forniscono alcun nutrimento. I carnivori, come il gufo o il serpente in cui la femme fatale è spesso personificata, mangiano la carne. Possiamo quindi presumere che il consumo di fiori deve essere più psicologico che letterale. Mangiare ciò che non è commestibile ma bello, e praticamente inutile come un fiore, è l'essenza 83 stessa del Decadentismo. La contessa Natka fisicamente divora e ingerisce bellezza con ogni boccone di petali morbidi. Lei rappresenta l'eccesso del periodo, perché mangia il surplus. E’ avida e insaziabile, per cui lei mangia tutto. Il mangiare dei fiori potrebbe anche essere uno stratagemma del regista per dimostrare che lei è più di una donna, lei è spettrale, mistica. Mangia letteralmente i fiori come se stesse mangiando la carne di un uomo. Le sue azioni sono superflue e in questo momento segreto mostra al pubblico la sua vera natura, la sua bestialità. D'altra parte, è anche possibile che la contessa Natka, simile ai vampiri che bevono il sangue per rimanere giovani e forti, riceva la gioventù e la bellezza dai fiori, due qualità necessarie per conquistare gli uomini “impotenti” del genere diva-film. La scena secondo Dalle Vacche invece mostra la contessa Natka come: A spectatrix in the movie theater, she can consume glamorous narratives while dreaming about everlasting youth, beauty and love. The fresh rose petals are images of a magic time preserved on screen, feeding the diva’s desire for the happiness she would like to find. (Dalle Vacche 257) E’ innegabile che la contessa Natka, per non parlare di tutte le dive che abbiamo finora discusso, desideri qualcosa in modo quasi melodrammatico. C'è qualcosa nei petali di fiori che sembra rappresentare il desiderio, sia esso insoddisfacente o appagante. In Assunta Spina, il corteggiatore Raffaele regala ad Assunta un fiore, lei lo accetta (solo dopo aver controllato che nessuno li stia guardando), e dopo lei acconsente a ballare con lui, evento che porterà in seguito alla sventura per l’uomo: 84 (Scene da Assunta Spina, Caesar Film Roma 1915) In Marion, artista di caffè-concerto ogni speranza di un lieto fine con Mario è persa quando il cadavere di Anna cade in un letto di fiori. In Il Fuoco la Duchessa è inondata da una pioggia di fiori che prefigura la storia d'amore passionale. In effetti, i fiori simboleggiano il desiderio delle dive, ma desiderio di che cosa? La felicità è generalmente relativa; tuttavia, nel caso delle dive è forse il desiderio di uguaglianza e di emancipazione che cercano in una società che ha negato tale piacere. Più di qualsiasi altra cosa, i fiori sono un simbolo di femminilità eterna: l'innocenza, la fragilità, la bellezza pura, oppure le rose rosse che implicano passione, o le bianche che suggeriscono la virtù e la castità. Quando Natka mangia la rosa, lei distrugge (nel modo melodrammatico della diva) ciò che significa essere femmina; così facendo va contro la tradizione. E’ anche possibile che sia divino mangiare dei fiori: (Gustav Adolphe Mossa, Vénus. 1904. Musée des Beaux-Arts, Nice) 85 In quest’opera d’arte, vediamo Venere che sta mangiando un giglio. Mossa dipinge Venere diversamente: “His Venus spread[s] apart the petals of a lily to chew on the phallic reproductive organs (the flower stamen), an image inspired by Baudelaire’s poem Un voyage à Cythère” (Menon 160). Il giglio è un fiore che è di solito associato con la Vergine Maria ma Mossa sovverte questo simbolo per coinvolgere il lato malvagio della bellezza di Venere. Questo serve come un avvertimento della sua sessualità pericolosa. Simile a Venere, la contessa Natka ha due lati: uno buona e uno cattivo. LYDA BORELLI Lyda Borelli è la Salomè del cinema muto italiano. Nata vicino a La Spezia nel 1884, ha debuttato a teatro quando aveva solo quindici anni recitando in La Veine di Alfred Capus, e poi in La Figlia di Jorio di Gabriele D’Annunzio. E’ apparsa come prima donna accanto al grande primo attore Ruggero Ruggeri nel 1909. Ha interpreto il ruolo di Salomè nell’opera omonima di di Oscar Wilde nel 1909, e quando Gloria Film (Torino) l'ha assunta per il ruolo principale in Ma l’amore mio non muore, era già un’attrice famosa. Più tardi, con la Cines Film (Roma), la Borelli è diventata una grande diva: ha recitato il ruolo di donna fatale in La Donna Nuda (1914), La Marcia Nuziale (1915), La Falena (1916), Madame Tallien (1916), Malombra (1917), La Storia dei Tredici (1917), Carnevalesca (1918), e Una Notte a Calcutta (1918). Di tutti i suoi film il più interessante, per lo scopo della mia discussione, è Rapsodia Satanica (1917). La recitazione di Lyda Borelli in generale è molto influenzata da una “personalissima declinazione del simbolismo dalle venature preimpressioniste ma anche ‘maniera’ teatrale ben definita” (Jandelli 2006, 23). Come attrice la Borelli è l'emblema di “posatrice” in cui le pose sono stanche, languide, assorte, caricate, piene di sofferenza e assolutamente esplosive (Jandelli 2006, 24). 86 Purtroppo per i frequentatori del cinema, la sua carriera fu tanto intensa quanto breve. Nel 1918 (un anno dopo Rapsodia Satanica) ha lasciato il grande schermo per sposarsi con il conte Vittorio Cini (Dalle Vacche 260). Anche in questo matrimonio con un aristocratico, o un appartenente a una classe alta, vediamo come alcune di queste grandi attrici passino dal ruolo di diva sullo schermo a un’elevazione sociale attraverso il matrimonio con un personaggio altolocato. E’ accaduto per la Bertini, che sposò un banchiere, per la Menichelli (che in seconde nozze sposò un barone anche produttore cinematografico), e, prima di loro, era accaduto a una grande prima donna del teatro italiano, Adelaide Ristori, che sposò un marchese elevando così la sua posizione sociale. RAPSODIA SATANICA, CINES FILM 1917 Rapsodia Satanica (Cines, 1917) è un film drammatico con la regia di Nino Oxilia e ispirazioni dannunziane. Il film dura cinquantacinque minuti, con sceneggiatura di Alberto Fassini, scenografia di Giorgio Ricci e musiche del celebre compositore Pietro Mascagni. Con la regia di Nino Oxilia, la musica di Mascagni e la diva Lyda Borelli come protagonista, il film è un cine-poema tragico-musicale. La Borelli interpreta la narcisista Alba d'Oltrevita, una donna anziana che fa un patto faustiano con il diavolo: in cambio dell’eterna giovinezza e dei piaceri mondani, lei deve rinunciare al romanticismo e rompere una statuina di Cupido, simbolo dell’amore. Senza che lei ne sia consapevole, il Diavolo gira la clessidra e Alba diventa una donna giovane e bellissima. Utilizzando questo tema faustiano, il film “rehashes the themes that feminine beauty is lethal and ephemeral and that eternal youth is a reward worthy of any sacrifice” (Dalle Vacche 234-235). Alba è la padrona del Castello di Illusione, dove ci sono molte scene con gli specchi che lo fanno apparire più come una casa degli orrori e forniscono ad 87 Alba una luce d’inquietante mistero in contrasto con lo stesso nome del personaggio. Il Castello “embodies not only the life-preserving power of the filmic image, but also the dream of reversing the death-bound flow of time” (Dalle Vacche 235). L'immagine filmica è transitoria come la gioventù di Alba, ma l'immagine nel film dura attraverso i secoli mentre Alba verrà punita. La trama di Rapsodia Satanica continua quando due fratelli s’innamorano di Alba, che però sembra essere più innamorata della natura e della vita fuori dal palazzo più che degli uomini: lei è affascinata della libertà della natura. La parte finale è straordinaria per quanto riguarda la simbologia e soprattutto per il modo in cui manipola sensualmente il velo traslucido nelle scene di seduzione, di riflessione e di malinconia. Contrariamente alle altre donne fatali del periodo, Alba è rappresentata in maniera più introspettiva e inquietante che seducente. Il film evoca la mania e la popolarità delle danze e dei costumi esotici come quelli di Salomè che ha avuto successo sul palcoscenico e sullo schermo all’inizio del ventesimo secolo. (Lyda Borelli interpreta Salomé in una fotografia di Mario Nunes Vais, 1856-1932) (Scene da Rapsodia Satanica, Cines Film 1917) 88 Il modo in cui la Borelli utilizza i veli evoca il personaggio di Salomè e la sua danza dei sette veli (il film è disseminato di molte sequenze di ballo, oltre alla danza dei veli alla fine). In effetti, la trama di Rapsodia Satanica “seems driven by the dresses used and objects shown rather than by any significant action” (Dalle Vacche 234). Il film si apre con la scena di un ballo dentro un palazzo di lusso in cui i molti ospiti sono vestiti con costumi settecenteschi. La Borelli è vestita come una bellissima Salomè e porta tutto il simbolismo legato alla celebre figura della peccatrice dei Vangeli. Utilizzando i simboli di Salomè, il film “explores the transformation of the cruel femme fatale into the new woman of modernity” ed esemplifica gli stereotipi orientalisti sulle percezioni culturali e sui ruoli (Dalle Vacche 234). La figura di Alba è quasi persa nelle scene al ballo decadente perché ci sono: “Rococò furniture and statuettes, arabesque-like stuccoes, walls covered with pictures of all sizes, oriental rugs, curtains, tapestries, animal skins, gilded frames, and bibelots” (Dalle Vacche 237). Ci troviamo proprio nel massimo mondo aristocratico e decadente. Lyda Borelli credeva nel potere della moda nei film, come il suo costume di Salomè in Rapsodia Satanica che è sia un mezzo poetico, sia uno strumento per l’interpretazione del personaggio. Lei era molto consapevole del potere degli abiti e della loro capacità di generare forme autonome di movimento con una potenza narrativa. Invocava “la poesia delle vesti”, e i vestiti inviano messaggi al pubblico. La moda poteva narrare le storie narrate ad un pubblico mondiale senza il bisogno di parole (Dalle Vacche 242). Per quanto riguarda il nostro discorso, le scene alla fine sono particolarmente importanti. Alba compare come la sposa di Lucifero, completamente velata di bianco. Lei appare come una sacerdotessa dell’amore e anche della morte. Le scene con uno specchio sono tante, come pure quelle in cui si guarda allo specchio, e rappresentano un elemento “surrealista”, poetico e alla fine tragico. Così Alba e la sua danza dei veli diventano una forma di poesia visiva. Rapsodia 89 Satanica fonde allo stesso momento la trama melodrammatica tipica dei film delle dive e la sperimentazione moderna del cinema. Uno degli elementi sperimentali (per non dire pirandelliano) è il gioco degli specchi. Quando Alba si guarda allo specchio, rispecchia il modernismo del cinema e l’abilità di usare la macchina da presa come uno specchio: “Cinema not only reproduces human actions but can also place our own image before us for observation” (Gunning vii). E’ l’abilità di parlarsi, guardarsi, e riflettere sulle nostre azioni e comportamenti. Per la prima volta nella storia abbiamo un attrezzo per rispecchiare noi stessi. (Scene da Rapsodia Satanica, Cines Film 1917) Le immagini di Alba sono caratterizzate da un tentativo metaforico di definire la femminilità secondo i canoni dell’art nouveau, che rinascono in Rapsodia Satanica. Lucifero appare come una figura oscura incappucciata montata su un cavallo nero – un’immagine senza dubbio tratta dal libro della Rivelazione e dalla storia dei quattro cavalieri dell'Apocalisse – dando un senso orribile del castigo a venire. Alba cerca di lasciare il castello a favore della libertà della natura e con questo sembra rappresentare le donne progredite rispetto al passato. Lei lascia la terrazza per il bosco e incontra Lucifero. Entra lentamente nell’abbraccio di Lucifero ed è avvolta dal suo mantello, ricomparendo come una donna anziana. Lucifero la porta a uno stagno e il vero carattere di Alba si rivela quando guarda il suo riflesso nell’acqua e muore presumibilmente per lo shock. Sembra rappresentare il progresso del suffragio femminile – fuori del passato rappresentato 90 metaforicamente dal Castello d’Illusione. Tuttavia Lucifero la ferma e inverte la traiettoria del tempo. Alla fine, Rapsodia Satanica è un passo avanti per quanto riguarda l’emancipazione delle donne, ma sempre seguita da due passi indietro. Alba è giovane, bella, e, cosa ancor più importante lei sceglie la libertà della natura fuori del castello invece di innamorarsi di un uomo. Ma tutto questo non durerà. Alba ha delle limitazioni per quanto riguarda la sua libertà; ha infranto le regole di Lucifero (non ha rotto la statuina di Cupido) e alla fine paga il prezzo più alto: la morte. E’ per questo che Rapsodia può essere considerata solo come Satanica, perché anche se allinea l'emancipazione delle donne con la creatività e la modernità del cinema, alla fine il regista sembra stare dalla parte di Lucifero perché Alba viene punita per i suoi peccati. Così Alba è punita come le altre dive (Dalle Vacche 250). Anche in questo film vediamo un progresso verso modelli femminili anticonvenzionali che però viene in certo senso limitato, se non “punito”, da un finale in cui viene ristabilita la moralità. L’ANTI-‐DIVA: ELEONORA DUSE E CENERE, AMBROSIO FILM 1916 Eleonora Duse è stata una delle più grandi attrici italiane, forse la più grande. Però la sua straordinaria carriera è caratterizzata dal suo lavoro a teatro, non al cinema. Cenere è l’unico film in cui Eleonora Duse ha recitato, dopo l’abbandono delle scena per un lungo periodo. E’ un film muto diretto nello stile dei diva-film ed è ispirato dal romanzo (uscito nel 1904) dallo stesso titolo di Grazia Deledda, che nel 1926 ha vinto il premio Nobel per la letteratura. In Cenere la Duse interpreta il ruolo di una vecchia madre – la mater dolorosa che si sacrifica. Rosalia Derios (interpretata dalla Duse) è una donna non sposata che abita in un piccolo paese della Sardegna. Il suo amante l’abbandona prima della nascita del loro figlio, che lei chiama Anania (Febo Mari). Rendendosi conto che non sarà in grado di allevare adeguatamente il bambino da sola, dà suo 91 figlio al suo amante. Però prima che suo figlio se ne vada, Rosalia gli regala un amuleto sacro. Anania cresce fino all’età adulta e mantiene sempre il possesso dell’amuleto, ma diventa ossessionato dalla mancanza di sua madre e cerca di trovarla. Anania se ne va lasciando tutto per ricercare Rosalia. Alla fine, Anania trova sua madre ma Rosalia non può riunirsi con suo figlio adulto. Per lo shock, o per la vergogna, Rosalia si suicida. L'attrice più grande a teatro della storia italiana è apparsa in un film solo e quindi non può essere considerata una diva, (nel 1916 aveva cerca cinquantotto anni, troppo vecchia per essere una donna fatale) e deve essere considerata l’anti-diva. E’ una mater-dolorosa che sacrifica la sua vita per quella di suo figlio (che assomiglia un po’ alla storia di Assunta che ha sacrificato la propria vita per un uomo). Alla fine la trama di Cenere è diversa da quella dei film femme fatale che abbiamo qui analizzato. Tuttavia, ha ancora un significato per quanto riguarda la situazione sociale delle donne. Il sacrificio di Rosalia è materno, non è legato a una sfrenata passione amorosa. A causa del suo sacrificio, è suo figlio superstite che le sorregge la testa (al contrario dell’immagine religiosa della Pietà dove Maria sorregge la testa di Gesù). Secondo Jandelli, “è un rito primitivo, arcaico, un rito sacro secondo natura che si contrappone all’innaturale realtà delle madri che sopravvivono ai figli falcidiati nelle trincee. La Duse ristabilisce l’ordine naturale delle cose” (2006: 179-180). Rosalia si è sacrificata due volte e ha donato “al figlio una nuova possibilità e la seconda salvezza: è questo il suo compito biologico. A lui resta il compianto della morte che però gli dà nuova vita, garantendone la prosecuzione” (Jandelli 2006, 180). Come una fenice, dalle ceneri nascono scintille di una nuova vita: però non è una nuova vita per le donne, nonostante la straordinaria modernità performativa della Duse. 92 IL RUOLO DELLA DONNA FATALE Nell’analisi di questi film degli anni dieci del Novecento abbiamo visto che quando la protagonista viene dalla classe bassa non le è consentito di sopravvivere o di continuare senza punizione la propria esistenza fuori dalle regole, mentre la donna fatale aristocratica (o esotica) è spesso rappresentata come vivace e bestiale. Una donna fatale della classe alta può esistere, una donna fatale proveniente dalle classi più basse no. La donna fatale “aristocratica” o “esotica” fiorisce ed è più accettata. Nei film dove la diva è una donna ricca, porterà un uomo a un destino fatale. La fatalità in tanti casi include la pazzia, il carcere o addirittura la morte. Le dive e i loro personaggi impersoneranno sempre “the passion, drama and irrational forces that at the turn of the century preoccupy the modern consciousness” (Ramirez 63). Le dive nelle loro rappresentazioni iconiche: Are fittingly and necessarily silent in so far as they do not need sound for the roles they play. Theirs is a purely physical, plastic and transcendent reality, which does not require language and is all the more effective because of its absence. The diva’s gestures and repertory of symbolic language, her eyes, her make-up, and the tropes of the theater stage tell her story better than a verbal performance could. (Ramirez 63) Qual è il messaggio della femme fatale? Qual è la sua funzione in un mondo moderno? Dopo aver esaminato Assunta Spina (1915), Marion, artista di caffè-concerto (1920), Il Fuoco (1915), Tigre Reale (1916), Rapsodia Satanica (1917), si può affermare che la donna fatale raffigurata sul grande schermo era diversa da quello che succedeva nella società contemporanea. Per mettere in scene una figura femminile “emancipata” negli anni dieci del Novecento in Italia, la protagonista doveva essere una donna “del popolo”, e perciò punita, o doveva essere 93 un’aristocratica affascinante con caratteristiche animalesche, o l'incarnazione del male. Quasi tutte, ad eccezione di Assunta Spina, sono senza morale e malvage, e usano il loro potere per il male, non per il bene. Non c’è una rappresentazione di una donna emancipata e anche buona. Le masse andavano al cinema per essere portate in un altro mondo dove evadere dalla loro realtà e sognare la vita di un mondo aristocratico di decadenza e piacere. In Italia, dove il tradizionalismo e la Chiesa cattolica regnavano negli anni dieci e la maggior parte della ricchezza era legata alla terra e/o alla casa, vedere queste dive e il loro mondo affascinante e stravagante è stato proprio lo scopo di andare al cinema: scappare e sognare un mondo lontano da loro. Da un altro punto di vista, si può dire che al cinema si potevano rappresentare dei personaggi femminili che nella società reale non avevano modo di esistere se non in piccolissima parte (come ad esempio la marchesa Casati). Il cinema delle dive e i personaggi di femme fatale sono così sia un progresso, sia un limite, in quanto incarnano istanze di modernità ma anche di conservazione della morale tradizionale. 94 CONCLUSIONI La femme fatale è un’icona congelata del nostro passato, più leggenda che mito, lei è una potente figura reale che richiede attenzione. Il suo vero potere risiede nella sua popolarità nella cultura di massa, e usa il cinema come un mezzo per creare uno scandalo. Il cinema muto è un paradosso totale: belle immagini caricate ma anche silenziose, senza alcuna voce. La diva è associata alla sofferenza e al sacrificio, per quanto sia è associata con la forza e la potenza. In realtà, le “dive” di tutti i giorni nella vita reale erano silenziose; una vera diva ha dovuto affrontare l'esilio o la punizione e addirittura le dive aristocratiche hanno dovuto tenere i loro affari amorosi in segreto. La maggior parte dei critici è d'accordo sul fatto che queste donne erano a modo loro delle donne moderne, rivoluzionarie, e soprattutto emancipate per l’epoca. Però quello che mancano sempre di dire è questo: i personaggi che le dive recitano sono solo personaggi. E’ vero che questi personaggi rappresentano donne fatali ma i film erano finzioni che trattavano di mondi lontani dal pubblico (figurativamente e letteralmente): la vita aristocratica o posti esotici. Il fatto è che queste attrici, in realtà, hanno smesso di lavorare appena si sono sposate, per esempio, “sul modello di Bertini e Borelli, dopo aver convolato a nozze con blasonati furono costrette a rinunciare alla carriera” (Jandelli 2006, 21). Ogni attrice ha scelto il comfort invece dell’indipendenza quando ha lasciato il cinema per sposarsi e raggiungere un’alta posizione nella società. Così, alla fine, le attrici si sono censurate in una società che aveva un bisogno relativo di modelli emancipati. Ciò riflette una società non ancora pronta per la parità di diritti, e, purtroppo, questa coincide cronologicamente con la caduta del cinema italiano negli anni Venti. L’industria cinematografica italiana non riesce a sopravvivere alla crisi economica dopo la Prima guerra mondiale e le donne fatali svaniscono quasi completamente con la restaurazione del ventennio fascista (Jandelli 2006, 21). Qualunque sogno 95 di emancipazione dai ruoli sociali degli anni dieci scompare, le donne italiane tornano in cucina e non è fino al 1948 che le donne guadagnano il diritto di voto in Italia, seguito da altri anni di lotta in una cultura dominata dai maschi. E' vero che i personaggi che rappresentavano erano donne nuove e anche moderne per l'epoca. Ed è anche vero che hanno interpretato personaggi femminili che avevano delle caratteristiche maschili e avevano tanto potere sopra gli uomini, tante volte portando con loro un destino fatale. Ma qual era davvero il loro ruolo della donna durante gli anni dieci? Se avessero fatto così tanto per le donne vere nella società italiana, perché gli anni dieci erano seguiti da tre decenni di non-progresso? Le cause sono molte. Forse erano stati gli uomini o possibilmente anche la Chiesa a bloccare la diffusione di modelli di comportamento estremamente alternativi alla norma comunemente accettata. Magari se non fosse stato per il Fascismo, una forza inarrestabile nella storia italiana, il destino delle donne sarebbe stato un altro. Non penso che le dive abbiano rispecchiato la situazione femminile contemporanea, cioè esistevano poche donne fatali in realtà e solo nell’ambiente aristocratico. Nel migliore dei casi, hanno aperto una piccola finestra sul mondo moderno che aspettava l'Italia nel futuro. Francesca Bertini ha sottolineato l'eleganza e la disperazione; Lyda Borelli ha sottolineato la complessità e la malinconia; Pina Menichelli ha abbracciato la luminosità e la sfida. Mentre un comportamento abbastanza conformista e prevedibile era l'unico modo per inserirsi nella società di massa, il personaggio della diva ha oscillato tra estremi di devianza criminale e solitudine aristocratica. Dall’altra parte, la relazione asimmetrica della diva con il suo pubblico di massa spiega il suo enorme potere di influenzare le convenzioni morali, sviluppare un seguito di ammiratori e scatenare ogni sorta di moda anticonformista (Dalle Vacche 255). 96 Le donne fatali degli anni dieci sono state ispirate dai personaggi della letteratura italiana, da figure mitiche, e molto probabilmente anche da donne aristocratiche. Però i film e le dive degli anni dieci erano i primi a mettere la figura della donna fatale sul grande schermo e i primi a mostrarla alle masse. Hanno portato finalmente un'immagine femminile vivace, potente, in tutta l'Italia per la prima volta nella storia. Negli anni dieci le donne fatali servivano come una luce d’ispirazione e per quello sono donne meravigliose e pionieri per le femministe del futuro. 97 BIBLIOGRAFIA Barberi, Laura. "La Locandiera: Note Critiche." LiberLiber.it. "Progetto Manunzio", 02 Feb 1996. Web. 25 Mar 2013. <http://www.liberliber.it/mediateca/libri/g/goldoni/la_locandiera/pdf/la_loc_p.pdf>. Baudelaire, Charles. "Les Fleurs du mal / Flowers of Evil 1857 Edition." Charles Baudelaire, Self-Portrait Charles Baudelaire's Fleurs du mal / Flowers of Evil. Supervert. Web. 13 Apr 2013. <http://fleursdumal.org/1857-table-of-contents>. Beauvoir, Simone de. The second sex; translated by Constance Borde and Sheila MalovanyChevallier, 1st American ed. New York: Alfred A. Knopf, 2010. Bertini, Francesca. Director, Gianfranco Mingozzi. "Assunta Spina/Last Diva." 1982. Sergio Leone; Cesare Zavattini; Kino International Corporation; Antea-RAI TV, New York. 1990. DVD. Bossaglia, Rossana, A Braggion, and Marziano Guglielminetti. 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