Anno XL - n. 3 - marzo-aprile 2010 ISSN.: 0391-6154 In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Vicenza per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere la tassa di spedizione. Direzione: Via delle Grazie, 12 - 36100 Vicenza - tel. 0444 324394 - e-mail: [email protected] - Direttore responsabile: Giuseppe Dal Ferro Mensile registrato al Tribunale di Vicenza n. 253 in data 27-11-1969 - Reg. ROC 11423 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) - art. 1, comma 1 DCB Vicenza - Associato USPI - Stampa CTO/Vi - Abb. annuale 20,00 €; 3,00 € a copia DALL’ARATRO ALLA FABBRICA IL LAVORO VALORE SUPREMO Il lavoro nel Veneto ha rappresentato un valore supremo, di fronte al quale sacrificare la famiglia, la salute e la religione. Dapprima perseguito per avere cibo per sé e per la famiglia, poi per mettersi in proprio nel decollo industriale. Il Veneto e il suo benessere sono frutto di mille mani callose, protese a mangiare a sufficienza, a costruire un benessere per i figli, a raggiungere i traguardi economici delle regioni limitrofe. Il lavoro però cambia la vita ed imprime in essa le sue caratteristiche. Esso ha segnato profondamente la vita dei Veneti, caratterizzato gli stili di vita e il costume. Anche la donna, quando per i figli e per le usanze trascorreva la sua vita in casa, nonostante il lavoro domestico, trovava il tempo di aiutare gli uomini in campagna nei momenti di urgenza e riempiva gli spazi vuoti con lavori a casa, quali la treccia, il rammendo, piccoli capi di sartoria. Le Università adulti/anziani del Vicentino, impegnate a scrivere la storia esistenziale del costume provinciale dell’ultimo secolo, si sono impegnate nell’anno 2009/2010 a descrivere l’attività lavorativa degli ultimi decenni e i mutamenti avvenuti nel costume al variare dell’attività lavorativa. Dopo un questionario distribuito a tutti, in ognuna delle 25 Università, si è costituito un gruppo di analisi e di valutazione collettiva. I partecipanti, seduti in cerchio, hanno creato fra loro un moderno filò, nel quale, attraverso il racconto, hanno dato dignità e visibilità postuma a genitori, nonni e zii, che oggi non ci sono più, ma dei quali le esperienze sono scolpite profondamente nella memoria. Il quadro emerso dalla ricerca è di grande interesse, proprio perché si può costatare il profondo cambiamento del costume avvenuto negli ultimi cinquant’anni essendo passato il lavoro da agricolo a industriale ed ora a digitale-informatico. Nel cambiamento tuttavia sono rimaste alcune costanti che caratterizzano i Veneti e la loro cultura: il senso di autonomia, la laboriosità, il risparmio, il gusto per l’innovazione, il pudore dell’autoesaltazione, la ricerca di una convivenza pacifica. La documentazione del presente numero è redatta da Giuseppe Dal Ferro. IL LAVORO NEL TEMPO Una Laboriosità frutto di un lavoro duro e faticoso Negli ultimi cinquant’anni il lavoro è profondamente cambiato nel Veneto, ma ha lasciato una impronta profonda nella cultura. Dal duro e faticoso lavoro dell’agricoltura si è passati a forme meccanizzate e al lavoro industriale e terziario, sempre più caratterizzato dallo stress e dalla ricerca innovativa. Rimane comunque l’attaccamento al lavoro considerato uno degli elementi fondamentali per la crescita umana e per l’inserimento nella società. a) Agricoltori. Per gli agricoltori, che nel Basso Vicentino erano l’80% (Noventa Vicentina), il lavoro era duro: ci si alzava alle 4 o alle 5 del mattino e non vi erano veri e propri orari; i campi erano la “vita” e richiedevano tempo, costanza, dedizione se si desideravano i frutti. Si lavorava per tagliare il fieno, mietere il grano, allevare gli animali da cortile, concimare e arare fino a sera; tutta la famiglia era impegnata, ognuno con il proprio contributo (Carmignano di Brenta). È “fatiga dei brasi” che durava tutta la settimana ed era sospesa la domenica, perché i lavori fati de festa, i va fora della finestra (Sovizzo). Molti di questi lavori ricordano la raccolta del fieno, che, dopo il taglio con la falce, richiedeva tante operazioni: “slargare, voltare, rastrellare, muciare” prima del trasporto a casa su un carro, puntellato dai forconi perché non cadesse (Camisano Vicentino). Per segare l’erba di un campo si mettevano in fila i giovani più robusti e questi procedevano insieme ritmando il lavoro delle falci. Era un lavoro che alla fine lasciava dolori in tutto il corpo e torceva le budella (Breganze). Qualcuno, che non trovava lavoro in paese, faceva il “segantin”, cioè il falciatore: scarpe grosse, pantaloni rattoppati e l’immancabile “corno”, con la pietra che veniva adoperata ogni venti o trenta minuti per rendere tagliente la falce. Il lavoro veniva retribuito con una paga da sopravvivenza, con il pranzo e cena e con un letto nel fienile (Longare). Altri ricordano la trebbiatura del grano sull’aia, fra la polvere, da cui ci si riparava con un fazzolettone, e il caldo, che costringeva a bere continuamente. Si incominciava a trebbiare ad ore piccole e per parecchie ore si udiva anche in lontananza il battito frenetico del trattore e il rombo cupo della trebbiatrice (Arzignano). Terminato il giro dei contadini, la trebbiatrice veniva posizionata in uno spiazzo detto la “laguna” al centro del paese a disposizione degli spigolatori che con carrettini e cariole prese a prestito, accorrevano a treb- Le Università adulti/ anziani recuperano immagini e testimonianze dell’ultimo secolo. biare il loro piccolo prezioso raccolto (Villaverla). Era però una festa popolare di cui approfittavano i bambini, nella quale si solidarizzava fra vicini, che rappresentava la conclusione di un percorso lavorativo: il grano una volta trebbiato veniva portato a spalle su dei sacchi nel granaio e con la paglia venivano fatti dei pagliai a forma di pera (Marano Vicentino). Talvolta il frumento veniva raccolto e steso in piazza sopra dei teli per asciugarlo (Marostica). Alcuni ricordano l’aratura fatta con antichi aratri tutti di legno, tramite la lamina in ferro nella parte più bassa, la quale incominciava dal centro dell’appezzamento, con pause per evitare l’affaticamento delle bestie e dei bovari che con la frusta, e ancor più con le esortazioni a voce, guidavano le bestie da traino (Costabissara). Le coltivazioni spesso si susseguivano in modo da ricavare il più possibile dalla terra. Dopo il grano si seminava il granoturco e in alcune zone montagnose si coltivavano dopo il fieno le patate, ponendole nel solco con il germoglio verso l’alto. Le patate venivano zappate e a ottobre raccolte a mano (Costabissara). In alcune zone c’erano altre coltivazioni come quelle delle viti, del riso e del tabacco. Del tabacco, pianta biennale, si ricorda la piantagione, l’inaffiamento, la zappatura, la potatura (Noventa Vicentina e Bassano). In campagna i contadini temevano soprattutto “i capricci del tempo” e molte credenze superstiziose sono rimaste a lungo. Quando il tempo minacciava, si ricorda, la padrona di casa metteva le “bronze” a bruciare con l’ulivo benedetto preso in chiesa durante la domenica delle Palme per allontanare il pericolo della grandine (Caldogno). b) Allevatori. Un secondo grande lavoro contadino era rappresentato dall’allevamento degli animali. Il lavoro incominciava alle prime luci dell’alba, alle 3 di mattina in estate e alle 5 in inverno, quando Venere, la stella “boara”, stava per tramontare ed i campanari avevano l’obbligo di suonare le campane per far iniziare il lavoro nelle stalle. La stalla, la pulizia del letto delle mucche, la mungitura, la somministrazione del cibo: fieno o erba fresca, mangimi, erano i primi lavori della giornata. Il lavoro della stalla era tra i più pesanti e ad esso erano addetti i “boari” (Breganze). Questi abitavano nella fattoria e dovevano sorvegliare le bestie anche di notte. Loro compito era anche portare il letame fuori dalla stalla con il “cariolon”. Il letame era poi portato nei campi nei mesi di gennaio e febbraio e, con un forcone ricurvo, accatastato in mucchi in file a 5/6 metri l’uno dall’altro e poi allargato su tutto il campo (Camisano Vicentino). Alla stalla erano legati i caseifici. Tutti i contadini cercavano di avere qualche mucca per il lavoro dei campi e per quanto produceva: vitellini, latte, letame e calore nelle lunghe serate di filò, nelle quali si socializzava, ma anche si preparavano gli arnesi di lavoro e ciò che serviva per la famiglia. GIUSEPPE DAL FERRO (continua a pag. 2) Pag. 2 REZZARA NOTIZIE DALL’ARATRO ALLA FABBRICA (continua da pag. 1) c) Boscaioli. In montagna, cioè sull’Altopiano di Asiago, il lavoro principale era quello del boscaiolo, che doveva abbattere con la scure la base del tronco delle piante da tagliare. Doveva poi staccare la corteccia dal tronco, tagliare i “gropi” (nodi) e trainare i tronchi d’albero fuori dal bosco con il cavallo, che era stato lasciato sulla strada. Il lavoro era pericoloso perché gli alberi erano spesso intrecciati tra loro e si rischiava di farli muovere, tagliando i rami si poteva anche scivolare sui tronchi. Il cavallo era un amico fedele: ci fa tanta nostalgia pensare ai cavalli, alcuni dicono, che una volta erano molto numerosi e con i quali c’era un rapporto quasi umano. Nel bosco, continua la testimonianza di Asiago, si raccoglieva anche la legna da ardere, che doveva essere tagliata, raccolta e trascinata fino a casa, con il cavallo o con carrettini a mano. Sia il taglio delle piante sia la raccolta della legna era regolamentata ed assegnata dal Comune. d) Artigiani. Accanto ai lavoratori della terra c’erano molti artigiani, dal meccanico di biciclette in tuta blu e mani nere, al falegname in uno stanzone pieno di segatura, al materassaio con un grande tavolo che rimetteva a nuovo ogni due anni i materassi, al fabbro che riparava i manici delle pentole e risistemava le senature, al calzolaio che risuolava le scarpe, al sarte che faceva i vestiti su misura (Bassano del Grappa). Ad Asiago l’attività del sarto (sròotar) si sviluppava a casa. “La nonna aveva un gonnellino nero arricciato e uniforme lungo fino ai piedi per non mostrare le caviglie”. Anche gli uomini avevano vestiti semplici, scuri e uguali fra loro: pantaloni lunghi o alla zuava, camicia e giacca sempre grossolanamente confezionate in casa (Asiago); a Villaverla invece un sarto vestiva addirittura un giornalista di Venezia. Circa il fabbro un corsista ricorda: “Ero el bocia de bottega. Tra me ed il fabbro nasceva una simbiosi: a me il forgiare il ferro caldo, a lui l’immediato martellamento” (Bassano del Grappa). “…E il maiaro produceva gli attrezzi in ferro - afferma altro corsista -. Aveva la bottega vicino al ruscello che serviva ad azionare il maglio, enorme martello che batteva con regolarità sull’incudine per modellare i pezzi” (Sovizzo). Conosciuti da tutti erano coloro che raccoglievano con il carro il latte per le contrade e coloro che lo lavoravano nei caseifici (Carmignano di Brenta). C’erano poi gli ambulanti, fi- gure a volte un po’ strane, che arrivavano all’improvviso a piedi o con sgangherati mezzi di trasporto ad offrire la loro abilità, la loro arte, in cambio di qualche soldo. Erano i pollivendoli, gli straccivendoli, gli stagnini, gli spazzacamini (Marostica). Fra i lavori artigianali sono da ricordare i mastellai, che, con un tronco segato a pezzi e tagliato verticalmente, riuscivano a dare la curvatura al legno così da farne un mastello (Asiago). Non va dimenticato il lavoro del bottegaio, che, di dietro ad un bancone, dava merce sfusa e vendeva cose impensabili, ma utili (Breganze). I negozi erano i luoghi delle confidenze e delle chiacchiere delle donne, come le osterie per gli uomini. Alcuni lavori artigianali erano fatti direttamente dagli agricoltori nelle lunghe serate d’inverno, quando si rifacevano i manici degli attrezzi di lavoro, i denti dei rastrelli e con le “strope” si preparavano i legami dei vitigni (Costabissara). In casa si coltivavano i bachi da seta, in un angolo della cucina o in qualche stanza calda e areata, su graticci o intelaiature in legno in canne o tela, sovrapponibili per risparmiare spazio. In meno di un mese, passando attraverso quattro dormite, i bachi arrivavano a 7/8 centimetri e a divorare foglie di gelso (Arzignano). Da ricordare infine coloro che si dedicavano al trasporto: c’erano per i ricchi i landò, cioè le carrozze a quattro ruote e doppia copertura detraibile a mantice, trainati da due o quattro cavalli, destinati al trasporto (Marostica). La gente invece per andare al lavoro usava la bicicletta o andava a piedi (Vicenza). e) Operai. Il Vicentino ha registrato anche lo sviluppo di forme industriali fin dalla fine dell’Ottocento. Accanto al lavoro agricolo hanno preso forma opifici di varia natura. Schio ricorda la Lanerossi, i suoi stabilimenti e la “riparatrice tessile”: “Si andava due volte alla settimana con il motocarro a prendere le pezze finite: si dovevano caricare sulle spalle per trasportarle ed erano molto pesanti”. Valdagno parla dei ritmi serrati di orario e del lavoro a cottimo. Ad Arzignano è ancora vivo il ricordo dello scalpitìo delle sgalmare dei turni di notte. Parlando delle filande si ricorda il vapore malsano delle vasche e della polvere, le mani tenute nell’acqua calda (80 gradi), i salari da fame. Nelle concerie la calce usata per eliminare il pelo della pelle determinava sulle dita dei conciapelle la spaccatura dei polpastrelli. Dueville ricorda i turni della Lanerossi che incomincia- vano al suono della “cuca” e la pausa pranzo nella quale i familiari portavano in fabbrica dei neonati affinché le mamme potessero allattarli. Marostica ricorda la famosa “palpa”, che aveva il compito di perquisire a campione le operaie per controllare che non ci fossero furti. Di industrializzazione parlano anche i contributi di Carmignano di Brenta in riferimento alla cartiera e alle fornaci, Breganze con le fabbriche di Laverda e con la cartiera Burgo, Vicenza, Malo, Marano Vicentino. Thiene ricorda le 48 ore alla settimana del 1959 e l’ordine e la disciplina in fabbrica: si timbrava il cartellino all’ingresso e si indossava la divisa (grembiule e cuffia). f) Noia e stress per star bene. Oggi tutti stanno bene, ma, nonostante l’agiatezza, la gente è più stressata di un tempo. Lo stress è causato dal traffico per andare e tornare dal lavoro, per gli studi non congeniali, per le mille incombenze contemporanee (Noventa Vicentina). Si fa meno fatica ma vengono meno i rapporti umani (Lonigo). La fatica ai nostri giorni ha cambiato nome, si chiama stress; una volta era il sudore della fronte che si asciugava con il fazzoletto andando a casa, adesso la si porta a casa (Creazzo). Tutto è scandito da alcune parole: monetizzazione, meccanizzazione, specializzazione, individualismo, incertezza (Sovizzo). L’agricoltura è industrializzata; si usano fertilizzanti e antiparassitari potenti di natura chimica, gli allevamenti sono concentrati in grandi aziende automatizzate (Marano Vicentino). Computer misurano la quantità di cibo da somministrare in base al latte che la vacca produce. C’è un vero controllo qualità (Camisano Vicentino). Molti mestieri sono solo un ricordo, diventano spettacolo o argomento di visite didattiche (Camisano Vicentino). Sono scomparse le figure che riparano, aggiustano, riassettano, con conseguente perdita dell’attaccamento affettivo agli oggetti e perdita di valore simbolico. Il lavoro industriale ha sostituito il lavoro agricolo ed è meno faticoso, ma più logorante per la corsa sfrenata alla maggior produttività (Arzignano). Si è rotto il bel rapporto che legava l’uomo alla natura (Malo) ed un individualismo esasperato è subentrato alla solidarietà di un tempo (Vicenza). “Al lavoro non si sa mai bene con chi è possibile sfogarsi; i colleghi sono tutti potenziali nemici-concorrenti. Ne risente la famiglia, ultima valvola di sfogo” (Dueville). L’uomo rischia di essere inserito nella ruota commerciale del consumo, nell’“usa e getta”, e nel diventare oggetto anziché soggetto (Carmignano di Brenta). Si è passati negli acquisti da una prudenza proverbiale ad una facilità estrema. La casa si acquista con il mutuo, i mobili, l’automobile, gli elettrodomestici si comperano a rate (Montecchio Maggiore). È venuta meno la trasmissione culturale: una volta le diverse generazioni si comunicavano conoscenze e saperi, ora domina la televisione (Montecchio Maggiore). Sembra che la felicità sia inversamente proporzionale al benessere economico: si possiede molto in termini materiali ma si è persa la serenità d’un tempo, quando delle vacanze non si sentiva il bisogno e la vita di relazione era fatta di piccoli vicendevoli favori (Malo). REZZARA NOTIZIE Pag. 3 UN CAPPOTTO PER 4 FIGLIE ECCO COS’ERA IL RISPARMIO le grandi aziende agricole e d’inverno nei magazzini sociali del tabacco (Noventa Vicentina). Tutto con i mutui. Anche oggi si parla di precarietà, ma in modo diverso dal passato. Una famiglia media oggi, anche se senza figli, generalmente fatica a vivere con un solo stipendio (Carmignano di Brenta). Si vuole però aver tutto e subito (elettrodomestici, macchina, viaggi, vestiti) e si fanno mutui (Marostica). La coppia che si sposa vuole avere la casa arredata anche delle cose superflue (Torri di Quartesolo), non avendo la capacità e la pazienza di aspettare la realizzazione dei propri desideri (Camisano Vicentino). “Oggi il debito, oltre che rate, si chiama anche leasing. Uno stipendio va per pagare i debiti e uno per vivere” (Dueville). La pubblicità quotidiana spinge continuamente ad acquistare prodotti nuovi, magari inutili, e a dismettere vestiti, mobili ed elettrodomestici ancora in ottimo stato (Creazzo). Lo spreco finisce poi per riempire le discariche (Lonigo). Le nostre esigenze si sono trasformate in veri e propri capricci (Arzignano). La televisione finisce per fare da padrona ed imporre l’acquisto anche di oggetti costosi secondo lo slogan “possiedo, dunque sono” (Noventa Vicentina). Alla povertà di sussistenza, protesa al risparmio di chi viveva del proprio lavoro, è subentrata una povertà ricca, che vive al di sopra delle proprie possibilità sulle spalle degli altri. La precarietà era una condizione di vita in campagna. Oggi con banche e mutui ci si concede di più ma sempre senza certezze. Le scarse possibilità economiche dell’agricoltore non permettevano una volta di fare progetti. La massima aspirazione di una famiglia era di possedere una casa e vivere del proprio lavoro (Carmignano di Brenta). Non si buttava via niente del cibo avanzato e si riciclavano vestiti, calzini ed altri oggetti utili (Camisano Vicentino). Si viveva con quanto si produceva e raramente si andava dal “casolin” a fare la spesa con il libretto del debito o con qualche uova (Creazzo). Una corsista ricorda di aver comperato un solo cappotto per le quattro figlie, indossato in ore diverse (Longare). Si viveva autenticamente e con alcuni prodotti si otteneva il baratto di ciò che mancava (Valdagno). La donna in particolare sapeva fare piccoli risparmi. Qualche volta con alcune uova, magari all’insaputa della suocera, si comperava un paio di calze (Marostica). Le uova servivano anche per comperare dal “casolin” ambulante lo zucchero, il sale, la mortadella, un po’ di detersivo (Torri di Quartesolo). Una provvidenza era la vendita delle “galète”, del vitello nato nell’anno. Molte cose erano fatte in casa, tagliatelle, “bigoli”, polenta, vino, salami, animali da cortile o raccolte dall’orto (Marano Vicentino). Il pane era di solito fatto ogni mese o ogni due. L’economia della famiglia era un perenne problema tanto che il vecchio era contento quando alla fine dell’annata non aveva né debiti né guadagni (Torri di Quartesolo). Come si è detto il sogno era una casa propria, piccola, composta da una cucina con focolare, camere, stalla, granaio e “tesa”. Il bagno era fuori di casa. I mobili erano semplici e costruiti durante tutta la vita (Marano Vicentino). I più abitavano casa e terra in affitto (in mezzadria) e ogni sei mesi il padrone veniva a riscuotere il dovuto, ricevendo, inoltre, qualche prodotto della terra (Arzignano). Incombeva, poi, come una spada, San Martin, giorno in cui si poteva essere estromessi dalla terra e dalla casa. L’attività lavorativa il più delle volte bastava appena a mangiare, vestirsi e curarsi con i mezzi più strani (Lonigo). “La mia famiglia - afferma un corsista - possedeva una mucca che partoriva annualmente un vitello, la cui vendita rimpinguava le misere finanze e consentiva di pagare i debiti” (Noventa Vicentina). Un dramma per i contadini erano le malattie del bestiame, ad esempio l’afta epizootica; per contrastare il contagio, le fattorie colpite venivano messe in quarantena e nessuno si avvicinava (Dueville). Molti ragazzi si recavano come garzoni nelle aziende ricche e le ragazze andavano d’estate presso DUE EPOCHE A CONFRONTO Indagare sul costume significa scoprire l’identità dei popoli e riflettere sull’evoluzione nel tempo. C’è una espressione superficiale del costume caratterizzata dalle mode, che tuttavia manifestano fermenti ed aspettative presenti nella società. Con il passar del tempo alcune mode scompaiono, altre si trasformano in nuove forme del costume. L’analisi non è altro che una riflessione sulla società in cui viviamo, la quale negli ultimi cinquant’anni è profondamente cambiata sotto l’influsso dallo sviluppo economico, tecnologico e per l’allargamento dei confini fino al loro annullamento. Come ha reagito il costume? Che cosa è rimasto degli stili antichi di vita? Sono gli interrogativi a cui si è cercato di dare una risposta con le ricerche, non tanto per rimpiangere il passato scomparso, quanto per individuare il permanere di alcuni significati profondi, che danno sapore all’oggi. Una società totalmente disancorata dai significati sarebbe destinata al nichilismo, alla disumanizzazione; una società che volesse conservare o peggio riproporre il passato non sarebbe altro che una forma di rimpianto e di difesa da una modernità, che è progresso e che indubbiamente è conquista positiva dell’uomo. Dalle ricerche sono emerse chiaramente le caratterizzazioni di due epoche profondamente diverse, collegate da alcuni valori simbolici, che, come abbiamo detto, danno sapore alla vita. Una prima differenziazione è rappresentata dal binomio povertà e ricchezza. Il tutto ha portato all’esibizionismo e allo spreco, all’ostentazione e alla trasgressività per farsi notare. La nuova situazione indubbiamente ha liberato dal bisogno, forse ha fatto perdere il valore delle cose, il gusto di una vita semplice e sobria, l’attenzione ai tanti poveri del mondo. Una seconda differenziazione appare dal binomio persona e immagine. Pensiamo all’esibizionismo trasgressivo, ai piercing a volte assurdi, agli status symbol esibiti. Una terza differenziazione è rappresentata dal binomio diversità e omologazio- ne. Ricchi e poveri, uomini e donne, adulti e giovani avevano identità precise, differenze invalicabili. La società gerarchizzata indicava identità precise ed offriva sicurezze certe. La democrazia ha fatto saltare molte differenziazioni sociali, ma ha anche indebolito le identità. Una quarta differenziazione fra due epoche è indicata infine da un altro binomio, vita di relazione e solitudine. La povertà, la solidarietà quotidiana, la condivisione delle fatiche per confezionare gli indumenti in casa, erano strumenti di relazione, i quali legavano le persone. Oggi la crisi delle relazioni si manifesta ed è rafforzata dal modo di vestire e di ornarsi, nel quale prevale la ricerca del potere e della seduzione, attraverso le varie forme dell’eccentricità e della trasgressione. Nasce così un individualismo competitivo, la ricerca del successo a tutti i costi, senza il rispetto di chi ci sta accanto. La persona si condanna però alla solitudine, all’incapacità di comunicazione dei propri sentimenti profondi, perché protesa soltanto a sfruttare quanto la corporeità le offre per conquistare prestigio. In questa breve analisi appare chiaramente la diversità di due epoche, ieri ed oggi, e si delineano opportunità da valorizzare attraverso una continuità di significati e di valori che permangono nel cambiamento degli stili di vita. G.D.F. Pag. 4 REZZARA NOTIZIE i ruoli e gli strumenti CUOCHE, ORTOLANE E LAVANDAIE I MILLE MESTIERI DELLE DONNE La donna ha sempre lavorato moltissimo, dentro e fuori casa. I lavori erano nettamente divisi. Mentre il capofamiglia badava al bestiame e alla campagna, la moglie era regina incontrastata della cucina. Aveva il compito di preparare da mangiare, di tenere in ordine la casa, la biancheria, allevare il pollame, che assieme al latte, burro, formaggio e verdure dell’orto costituiva il cibo per la famiglia (Villaverla). Non esisteva lavoro non adatto alla donna: dal taglio del fieno, allo spaccare la legna, alla cura dell’orto e del giardino; inoltre aveva il compito di curare non solo i bambini, ma anche gli anziani di casa che una volta venivano assistiti in famiglia (Marostica). Le donne erano lavandaie, ricamatrici, ma sapevano anche fare le iniezioni. Molto importante era la preparazione del cibo, utilizzando i prodotti che la terra offriva e le conoscenze trasmesse da madre a figlia, di generazione in generazione (Breganze). Il peso della casa gravava completamente sulla donna. Si alzava prima ancora dell’alba per accendere il grande camino ed abbrustolire alcune fette di polenta sulle quali stendeva sottili fette di lardo o di salame per la colazione degli uomini, che poi uscivano a falciare l’erba (Torri di Quartesolo). Altre volte la colazione si riduceva a una scodella di latte e caffè cicoria e qualche fetta di polenta abbrustolita (Malo). A mezzodì e a sera i primi a mangiare erano gli uomini. Era costume portare nei campi uno spuntino a quanti lavoravano, fatto di pan biscotto e salame o formaggio e vino abitualmente nero. Erano le donne a portare il tutto a chi lavorava (Montecchio Maggiore). a) In casa. Alla domenica alle otto la donna di casa metteva la gallina a bollire, continuava poi a “sbiumare” il brodo, oppure preparava “pianelo, pianelo” lo spezzatino (Camisano Vicentino). Se c’era il forno in contrada, le donne si accordavano in tre o quattro e predisponevano con scadenza mensile una “infornà”. Il pane biscottato era poi raccolto in ceste, attaccate alle travi, e usato con parsimonia (Breganze). Il cuore della casa palpitava presso il focolare (Bassano del Grappa); addossato ad un lato del muro della cucina c’era il seciaro, vasca di pietra con bordi rialzati (Costabissara). La finestra a nord era la finestra scura per mantenere gli alimenti (Bassano del Grappa). La donna doveva provvedere a tutte le pulizia di casa. Ogni giorno riordinava i letti e le camere, sbattendo i cuscini e la trapunta di penne (Torri di Quartesolo). I letti spesso erano un sacco riempito di “scartossi”, ossia foglie delle pannocchie di sorgo. Allora introduceva le mani nel “sacon” e smuoveva i scartassi che si erano impaccati (Marano Vicentino). Quando faceva i letti, vuotava anche i vasi da notte, riordinava, spazzava, spolverava tutto (Dueville). Le case erano piccole, con pavimenti in terra battuta o di legno o, più tardi, di cemento e mattonelle. La loro pulizia era importante per l’igiene della casa (Malo). Periodicamente puliva con il saldame o l’“olio fumante” i secchi di rame presenti sopra l’acquaio. I secchi in rame di- Totalmente assorbite dalla vita domestica, se avevano tempo erano chiamate anche nelle stalle e poi nelle filande. venivano luccicanti, anche se erano pesanti da portare con il “bigolo” (Breganze). Lavoro impegnativo era la “lissia”, che durava tre giorni. Era fatta in uno stanzone del portico dove c’era un gran camino, un lavatoio e un’enorme tinozza. Il primo giorno si riscaldava l’acqua nel “calieron” e la biancheria veniva messa in “a mollo”, nel secondo giorno si versava l’acqua sopra il “bugarolo” dove c’era un abbondante strato di cenere, e il terzo giorno si risciacquava il tutto alla fontana (Bassano del Grappa). Si doveva lavare con metodo consolidato: si doveva prendere assieme gli angoli giusti e sbattere forte sull’asse da lavare (Breganze). Al lavatoio le donne si recavano a piedi, cariche di gerle e ceste; quando la roba era tanta anche con gli asini e con la cariola. Non si sprecava niente: anche l’acqua con la cenere (lissiasso) veniva riutilizzata per lavare i pavimenti e gli indumenti colorati (Costabissara). Le persone si lavavano al sabato in un mastello nella stalla col sapone fatto in casa con soda caustica, ossa di maiale e cotecchie di maiale (Camisano Vicentino). Le donne erano poi abili al lavoro a ferri e al rammendo. Esse spesso lavoravano in cucina, usando la mulinella, il fuso, l’aspo (Malo, Caldogno, Marano Vicentino). Alla luce del canfin, in cantina la nonna tesseva le lenzuola di casa (Bassano del Grappa). Per sé le donne si riservavano un vestito scuro, in modo che non si vedessero le macchie, e una serie di “traverse” (Longare). Per stirare poi c’erano i ferri con le braci, nei quali si aggiungeva la carbonella (Bassano del Grappa, Asiago, Breganze). A tempo perso poi non mancava il lavoro della paglia, il quale consentiva qualche piccolo introito (Marostica). I rapporti coi vicini di casa erano contraddittori: ottimi a Caldogno e a Noventa Vicentina, idilliaci a Creazzo, pieni di litigi ed incomprensioni a Thiene, competitivi a Montecchio Maggiore. Una nonna della borgata non era parente di nessuno, ma tutti, per rispetto, la chiamavano nonna. Faceva lavoretti di cucito per tutti (riparava calze, calzini…). Era seduta vicino al pozzo ed andava d’accordo con tutti (Bassano del Grappa). b) Cura dell’orto. Orgoglio della donna era l’orto, nel quale si recava al mattino presto o alla sera; era una vera fonte per preparare da mangiare a buon mercato. Si raccoglieva il necessario per il giorno e si preparava con i suoi prodotti svariati vasetti da porre sulla mensola di cucina o nel vano dispensa per i mesi morti dell’anno (Longare). In alcuni casi, come a Creazzo, la produzione dei broccoli era abbondante, così da portarli in corone a Vicenza al mercato sul manubrio della bicicletta. Nell’orto c’era l’angolo del giardino con i fiori da portare in cimitero, mentre sulle finestre venivano coltivati gli immancabili gerani (Longare). c) Animali da cortile. All’orto si aggiungeva l’incombenza degli animali da cortile, vera risorsa per sopravvivere. Non raramente alla sera gli animali e le galline si rifugiavano sotto il “seciaro” e al mattino venivano fatte uscire dicendo: “Ve’ nei campi del Signore”. Venivano così lasciate libere anche di andare sul sagrato della chiesa (Marostica). Ulteriore attenzione era rivolta al “mascio” a cui si portava nell’“albio” il “bearon” composto di avanzi, crusca, bucce di patate con acqua (Torri di Quartesolo). Fra i lavori domestici al primo posto era l’allevamento dei figli e la cura degli anziani (Camisano Vicentino). Quando qualcuno in casa si ammalava, era la donna che lo accudiva. Faceva da infermiera ed aveva una piccola scatola con una siringa che usava per le punture e poi faceva bollire per la disinfezione (Costabissara). I risparmi faticosamente raccolti servivano per andare qualche volta al negozio, dove con soldi, con uova o con il libretto dei prestiti si prendeva l’assoluto indispensabile per vivere. Il negozio era il luogo anche delle chiacchiere e del comarego (Costabissara). d) Fuori casa. Infine le donne, se avanzavano qualche spazio, andavano ad aiutare nei campi, mungevano le vacche e fornivano il pasto agli animali (Arzignano). Con l’industrializzazione le donne incominciarono ad uscire di casa per integrare le limitate condizioni economiche. A Lonigo si ricorda il lavoro nelle filande e nella fabbrica di caramelle. A Schio e a Valdagno il lavoro tessile. Ciò però non esonerava la donna dal lavoro in casa, nell’orto e con gli animali da cortile. Riportiamo la testimonianza di un’operaia: “Avevo 14 anni quando arrivai in azienda. Ricordo che il primo mese di lavoro è stato molto duro. Ognuno stava al proprio posto e doveva lavorare sotto lo sguardo vigile del caporeparto e, a volte, del proprietario che, se vedeva qualche piccolo pezzo caduto sul pavimento, lo raccoglieva e diceva: ‘Attenta, tosa, io andavo con il mulo fino a poco tempo fa, per aiutare i miei genitori che lavoravano sodo’” (Thiene). e) Ricca e stressata. La condizione della donna oggi è profondamente cambiata. A casa ha a disposizione una serie di elettrodomestici e il lavoro esterno ha una sua autonomia economica (Carmignano di Brenta). Può comprare tutto a prezzo conveniente al supermercato riempiendo un carrello (Breganze). Si è creata nelle case una situazione opposta alla condizione precedente: l’accumulo di prodotti alimentari, di capi di vestiario, di calzature e di altri oggetti a volte inutili o scarsamente usati (Torri di Quartesolo). Qualcuno sottolinea come spesso gli attrezzi familiari sono complicati: gli elettrodomestici sono molto veloci e basta una imprudenza perché si inceppino. Un ago entrato nell’aspirapolvere lo ha rotto e un frullatore si è bruciato per essere stato troppo a lungo attaccato alla corrente (Breganze). Le donne non rammendano perché è più conveniente comperare il capo nuovo. Si afferma così il costume “usa e getta” (Torri di Quartesolo). Gli armadi delle case sono pieni di vestiti non utilizzati e i cassonetti dei rifiuti sempre pieni (Caldogno). “A volte mi stupisco - scrive una corsista di Creazzo - perché mi lascio tentare dal desiderio di comperare qualche cosa solo per il taglio o il colore dell’indumento”. La corsa ai soldi è diventata una patologia da curare (Longare). Se non ci sono i soldi, c’è sempre la possibilità di pagare a rate (Arzignano). Per la casa provvede l’invenzione dei piatti pronti, che hanno rimpiazzato le lunghe ore di cottura (Valdagno). La televisione è al riguardo la cattiva maestra (Malo). La donna ha la possibilità di trovare tutto dedicandosi allo shopping, alla cosmesi, frequentando parrucchiera, estetista, palestra e cose simili (Noventa Vicentina). Il lavoro fuori casa delle donne esige un grande impegno: i bambini da collocare presso i nonni, asili nido, scuole (Camisano Vicentino). Il consumismo sembra prevalere sull’antica rigorosa parsimonia e lo spreco sull’antico risparmio. La donna deve fare tutto di corsa, non perdere le mille occasioni che si presentano; è sempre stressata e alla ricerca di qualcosa che l’appaghi. A farne le spese sono le famiglie e i figli (Noventa Vicentina). REZZARA NOTIZIE Pag. 5 i ruoli e gli strumenti QUANDO IN STRADA PASSAVANO ´ L’“ACQUAROLO” E IL “MOLETA” Gli attrezzi per il lavoro erano preziosi e continuamente riparati specie d’inverno. Pochi i mezzi di trasporto, anche il carrettiere era importante e spesso guidato dagli stessi animali. Il mobilio essenziale era tutto fatto in casa. Per secoli nell’agricoltura si sono usati gli stessi attrezzi fatti a mano in casa nelle sere d’inverno o da artigiani locali: forche, rastrelli, badili, zappe, cariole, che spesso portavano i segni di molteplici riparazioni (Vicenza). C’erano attrezzi in metallo che dovevano essere comperati: la falsa, la forbase da brusca, la sega e il segon, la menara, el cortelasso, la mola per gussare (Torri di Quartesolo). Quando è apparso il trattore lo si è chiamato il “bue di ferro” ed era a servizio di più poderi (Noventa Vicentina). a) Attrezzi agricoli. Per la stalla l’attrezzatura era assai limitata. La mungitura era fatta al mattino e nel pomeriggio mentre le mucche mangiavano, a mano, seduti su uno sgabello a tre gambe, con un secchio tra le ginocchia, dopo aver bloccato la coda (Torri di Quartesolo). Si usavano poi forconi, badili e spazzole per la cura degli animali e la pulizia (Valdagno). Durante l’inverno si rifacevano i manici, si riparavano le greppie, i ripiani dei carri, i solai delle tezze e dei granai, si impagliavano le sedie rotte, si facevano i girelli e i caregoti per i bambini. In granaio si faceva girare con una manovella la sgranatrice per le pannocchie di granoturco (Breganze). Tipica è la memoria della sostituzione dei denti del rastrello (Torri di Quartesolo). “Quando i campi dormivano - afferma una corsista - si riparavano gli attrezzi” (Valdagno); “altro che dentista! La riparazione dei denti dei rastrelli era un’impresa ed una abilità di pochi” (Creazzo). C’era chi era in grado di fare anche le ruote per le cariole e gli zoccoli di legno (Camisano Vicentino). In cucina l’utensileria non era molto varia: alcuni mobili semplici, l’acquaio per i piatti (Camisano Vicentino). b) Attrezzi degli artigiani. Abbondante e varia era invece l’attrezzatura degli artigiani, che, al pari dei contadini, cominciavano a lavorare fin dalla prima luce e protraevano a volte il lavoro alla luce di qualche lanterna. Il fabbro faceva anche il maniscalco e ferrava i cavalli. Faceva poi “varsori” (vomero) usando l’incudine; il “gusa-moleta” si serviva di una mola per affilare coltelli e forbici; il calzolaio aveva forme di ferro o di legno per modellare la pelle; il falegname foggiava mobili rudimentali, porte e finestre per l’acqua piovana (utili ai cavalli); avevano sacchi d’ogni tipo per le diverse merci. Portavano con sé un cagnolino per compagnia. Il carrettiere era sempre sulla strada; a volte, stanco, si addormentava, ma le bestie, che conoscevano la strada, lo riportavano a casa (Caldogno). Immancabile nelle famiglie legare alla bicicletta due ceste, una molto grande davanti e una più piccola dietro (Noventa Vicentina). Arzignano ricorda i coltelli per raschiare il pelo delle pelli, l’inchiodatura di esse sui telai di legno e successivamente le speciali pinze. Quando si diffusero le prime macchine, tutto cominciò a cambiare. Il luzionato la comunicazione (Carmignano di Brenta). La vera rivoluzione del lavoro agricolo è iniziata con l’introduzione della BCS, che ha messo a disposizione di tutti un piccolo motore poco costoso e che serviva per falciare erba, frumento, orzo, segala e poteva funzionare da piccolo trattore usando trivelle e pialle (Camisano Vicentino). Nelle famiglie c’erano anche delle pesanti gabbie di ferro per certi animali, le quali dovevano essere pulite e lavate periodicamente (Camisano Vicentino). L’“acquarolo” passava con il trattore che trainava una cisterna piena d’acqua per irrigare i campi in periodo di siccità e le strade polverose, non ancora asfaltate (Bassano del Grappa). C’erano inoltre i “recuperanti di ubriachi” incaricati dal Comune che, per esigenze di ordine pubblico, recuperavano gli ubriachi (che importunavano le donne) (Bassano del Grappa). c) Mezzi di trasporto. I mezzi di trasporto, prima dell’avvento delle macchine, erano pochi: il carro per le merci, la barela (carrettino con due sponde laterali) per il fieno, il cariolon per il letame, il biroccio (calesse) per gli uomini (Marano Vicentino). Il mestiere di carrettiere non si improvvisava; si trasmetteva di padre in figlio. Essi abitavano in case spaziose con cisterne contadine era la cariola. Per il trasporto si ricorreva al “bigolo” per riequilibrare il peso e alle seste e sporte (Costabissara). L’aratro era trainato dai buoi per dissodare il terreno (Caldogno). Per gli spostamenti la gente andava a piedi o in bicicletta (Dueville). Si ricordano i ragazzini, che imparavano di nascosto ad usare la bicicletta degli adulti con un piede appoggiato su un pedale e l’altro con cui si dava l’avvio (Longare) oppure pedalando sotto il palo. Una bicicletta da donna serviva in genere a tutta la famiglia (quattro persone) (Schio). A scuola o per visitare i parenti dei paesi vicini ci si spostava a piedi (Schio). Qualcuno per andare al lavoro doveva superare qualche ostacolo. “Abitavo a Malo - afferma un corsista - ma iniziai a fare il saldatore a Marano. Per raggiungere la fabbrica dovevo attraversare il torrente Leogra e dovevo pagare un pedaggio al contadino che si offriva al trasporto all’altra riva” (Malo). Non c’erano pericoli per le strade, a parte le buche, si potevano, quindi, trattore divenne il sussidio più utile alla campagna, perché sostituiva gli animali e l’uomo (Noventa Vicentina). Nella bottega artigiana è entrata la sega a nastro e la combinata (piallatrice, spessoratrice, modanatrice, foratrice) (Camisano Vicentino). Un corsista afferma di aver fatto il “marcatempo”, un lavoro non faticoso né difficile, ma non molto gradito a chi doveva essere marcato. “Le mie osservazioni servivano a definire i tempi per la programmazione del tempo e stabilire quanti ‘pezzi’ si facevano in un’ora” (Breganze). Sono apparse la “vaca mora” e le prime corriere (Lonigo) e per le famiglie la Topolino, giardinetta tutto fare. La gente finalmente aveva la “Vespa” o la “Lambretta” per muoversi, anche se tutti non potevano permettersela (Bassano del Grappa). d) L’era del computer. Oggi la crescente tecnologia mette a disposizione dell’agricoltura, delle fabbriche e delle famiglie macchinari sempre più sofisticati. Il computer ha rivo- (Caldogno). Hanno cominciato a diffondersi le colture biologiche grazie anche ad apparecchiature particolari (Torri di Quartesolo). La cucina si è riempita di elettrodomestici, forni a microonde (Costabissara). In tutte le famiglie ci sono più di una macchina, computer, telefoni cellulari, televisori, fotocamere. Le bilance sono tutte digitali (Dueville). La posta è sostituita da e-mail (Creazzo). È cambiato il modo di lavorare per tutti. Sono scomparsi i lavori di riparazione per l’affermarsi dell’utilità dell’“usa e getta”. I nuovi strumenti elettronici invecchiano in fretta e nessuno più li ripara, né ci sono pezzi di ricambio (Valdagno). In questo vortice l’uomo non si ferma più a riflettere (Noventa Vicentina). Le persone sono indotte continuamente a comperare l’ultimo prodotto da un’informazione mediatica (Carmignano di Brenta). L’aumento di materiali da rottamare nei siti di stoccaggio continua ad aumentare con problemi ecologici (Torri di Quartesolo). Pag. 6 REZZARA NOTIZIE dal dire al fare LA SAGGEZZA IN UN CORTILE ALL’OPERA ANCHE I BAMBINI Il mondo contadino aveva lavori per tutti, a meno che non si fosse ammalati. I vecchi lavoravano sotto il portico ad aggiustare gli attrezzi di lavoro, a impagliare sedie, a costruire “caponare”, a sbattere il latte per fare il burro (Camisano Vicentino). Loro erano i piccoli lavori di riparazione (Creazzo), la cura dell’orto e degli animali da cortile, soprattutto dei conigli (Sovizzo). Il nonno era “sacro” e la nonna, in quanto donna più anziana, era la “grande reggitrice” con un enorme mazzo di chiavi pendente davanti al grembiule (Noventa Vicentina). Le case di campagna non erano mai incustodite, proprio per la presenza del vecchio che di esse era il custode da eventuali malintenzionati (Longare). a) I vecchi. Compito dei vecchi era accudire ai bambini piccoli e controllare coloro che giocavano nella “corte”, in mezzo alle galline, oche, cani, gatti e capre (Breganze). Seduti in stalla o sotto il portico, essi trasmettevano ai nipoti i segreti della vita contadina, le astuzie nel riparare gli oggetti utili dei campi, tramandavano conoscenze e insegnavano sobrietà, risparmio e solidarietà (Montecchio Maggiore). Il lavoro dei nonni era spesso fatto davanti ai bambini perché imparassero il mestiere. Intanto raccontavano loro storie animate da “salbanei” che mettevano paura, ma ascoltate con grande interesse dai nipotini (Costabissara). Essi erano la memoria storica, per cui dispensavano consigli di ogni genere ed erano determinanti nel risolvere i problemi difficili dei figli e di tutti i parenti (Arzignano). La nonna ad una certa ora del mattino mandava i ragazzi a portare a chi lavorava nei campi (se lontani da casa) una sporta con pane e un bottiglione di graspa o di acqua fresca con l’aggiunta di un po’ di aceto (Torri di Quartesolo). Si dedicava poi alla cucina pulendo le verdure, rammendava, faceva la calza e si occupava della biancheria (Sovizzo). b) I bambini e i ragazzi. Per i ragazzini non mancavano i piccoli servigi come innaffiare l’orto, dare il cibo agli animali da cortile, raccogliere le uova deposte nel fienile (Camisano Vicentino). Nei campi era assegnato loro il compito leggero di spigolare, raccogliere le foglie e i rami di alberi o viti per fare le “fassine” (Costabissara). Altro lavoro dei bambini era strisciare a piedi nudi sul frumento in granaio per rigirarlo allo scopo dell’essiccazione (Camisano Vicentino). Attraverso questa esperienza venivano responsabilizzati e si addestravano alla vita (Dueville). Ai bambini veniva assegnato il compito di portare al pascolo le mucche e le altre bestie, magari alle 5, prima di andare a scuola (Sovizzo). Uno dei compiti loro assegnati era riempire d’acqua gli abbeveratoi e controllare gli animali perché non scappassero quando uscivano di stalla (Schio). I bambini, come si è detto, portavano la merenda ai ge- nitori e ai parenti nei campi con sporte piene di pane, salame, acqua, vino e talvolta focaccia. Le bottiglie pesavano molto; pertanto spesso il peso veniva equilibrato distribuendolo in due borse, oppure si caricava tutto sulla cariola (Longare). I più grandicelli, dopo aver portato gli animali al pascolo, andavano a scuola con un vestito più decente, scarpe o “sgalmare”, la “sacheta” di stoffa, dentro la quale c’era il libro di lettura, il sussidiario, un quaderno e la penna (Montecchio Maggiore). Le bambine andavano al doposcuola ad imparare a ricamare e a fare la maglia (Costabissara). I più piccoli giocavano sotto il portico, vigilati dal nonno, con qualche giocattolo di legno costruito dal nonno stesso (Arzignano). Far lavorare in piccoli servigi i ragazzi, non appena erano in grado, era una forma di responsabilizzazione e di educazione alla vita che li attendeva (Dueville). I più grandicelli poi venivano mandati a “bottega” ad I vecchi avevano il compito di trasmettere conoscenze con il racconto orale. I nipoti, dopo la scuola, avevano piccole incombenze nei granai o al pascolo. imparare un mestiere. Si accordavano per un modesto salario, che all’inizio poteva anche non esserci o consistere in un chilo di pane al giorno (Carmignano di Brenta). Marostica ricorda come i bambini aiutavano le mamme a “fare peretti” per la ditta Viaro. Una corsista ricorda di aver lavorato da piccola nell’osteria dei genitori sia di giorno che di sera, magari con una seggiolina sotto la macchina del caffè (Marostica). Non mancava ai bambini il gioco sulla strada o in cortile a “nascondino” o ai “quattro cantoni” (Caldogno). In alcuni casi vecchi e bambini giocavano insieme, annullando la differenza di età (Longare). c) Un mondo nuovo. I cambiamenti profondi della società hanno cambiato profondamente la vita e il ruolo dei vecchi e dei bambini. I vecchi godono in genere buona salute e sviluppano interessi culturali, viaggi, attività educative nel tempo libero che hanno (Marostica). Sono passati dalla povertà al benessere, dal duro lavoro dei campi a una discreta disponibilità economica (Torri di Quartesolo). Con i risparmi accantonati curano il proprio fisico con stili di vita più salutari e ginnastica, con controlli sanitari, terapie e farmaci (Torri di Quartesolo). Possono rimediare ai loro disagi con occhiali, apparecchi acustici, deambulatori, pannoloni (Costabissara). C’è un “exploit” delle qualità sommerse degli anziani: è data loro la possibilità di esprimersi, di studiare, di viaggiare, di trovare soddisfazione nel loro operare (Camisano Vicentino). Sono ricercati dai figli per l’affido dei nipoti, dato il lavoro del padre e della madre (Creazzo). Sono numerosi gli anziani che trovano nel volontariato e nelle attività culturali un nuovo modo di vivere e di essere utili (Marostica). In alcuni casi sono presenti agli incroci come “nonno vigile” (Creazzo). È frequente il caso di vedere i nonni a condurre a scuola i nipoti, magari portando loro la cartella, ed andarli a riprendere. Ci si chiede oggi se, data l’assenza prolungata dei genitori dalla famiglia, i nonni non abbiano un nuovo ruolo di educatori (Camisano Vicentino). L’anziano di oggi è molto libero, però in alcuni casi deve pagare il prezzo della sua inutilità (Schio). Per lui è difficile stare al passo con le tecnologie, anche se è lodevole il suo impegno. È legato a mantenere la patente perché per lui essa è strumento di autonomia (Dueville). I vecchi sarebbero disposti a trasmettere le loro esperienze ai giovani, ma non trovano accoglienza (Arzignano). Spesso vivono in casa loro, anche se i figli non abitano lontano. Se sopraggiunge la non autosufficienza, allora la soluzione è quella del ricovero in casa di riposo o dell’affido ad una badante (Lonigo). Se la condizione anziana è profondamente mutata, ancor più lo è quella dei bambini divenuti iperattivi, viziati, abituati ad aver tutto e subito. Se crescono meglio di un tempo, incontrano maggiori difficoltà di relazionarsi in famiglia e a scuola (Carmignano di Brenta). Essi non hanno tempo di giocare, perché dopo la scuola hanno la palestra, la musica, il nuoto, la danza ed altre incombenze (Vicenza). Prevale lo spirito competitivo per cui devono possedere l’ultimo ritrovato tecnologico (Creazzo). Il bambino non impara più a vivere dalla natura, dalla pratica quotidiana, ma dalla televisione, dai corsi (Sovizzo). Usano presto il cellulare, navigano in “internet”, comunicano non direttamente ma attraverso “messaggi” (Longare). Rischiano così di perdere ogni creatività, sopraffatti da mille cose da fare e distratti dalla televisione, dai computer e dai videogiochi (Arzignano). Terminata la scuola devono proseguire e rischiano di prolungare un modo di vivere alternativo alla vita reale per molti anni (Noventa Vicentina). Il quadro tracciato è piuttosto negativo. Esso richiede di essere analizzato più approfonditamente dagli adulti per individuare nuovi orientamenti educativi. REZZARA NOTIZIE Pag. 7 dal dire al fare C’ERA UNA VITA DI RELAZIONI ORA IL PREDOMINIO DEI CONSUMI Si sono trasformate la famiglia e le relazioni. I valori che governavano il lavoro sono cambiati: dalla solidarietà all’individualismo, dalla rettitudine alle gratificazioni immediate. L’uomo, un tempo legato ai ritmi naturali, si è emancipato ed ha l’idea di essere “padrone” del mondo in cui vive. L’evoluzione avvenuta nel lavoro ha cambiato in cinquant’anni il modo di pensare. a) Riferimenti valoriali agricoli. La vita era dura fatica per tutti e richiedeva adattamento. Una corsista ricorda che una sua cugina, quando si è sposata, si è accontentata di un letto matrimoniale composto da due lettini, uno più alto e uno più basso (Longare). L’adattamento portava allo spirito di sacrificio, in forza del quale la popolazione ha saputo risollevarsi dalle disgrazie venute dalle calamità naturali e dalle conseguenze delle guerre (Valdagno). Qualcuno ricorda che, nel periodo tra le due guerre, si mangiava “polenta e pipistrei” catturati nelle grotte per mezzo di un bastone sulla cui sommità era stata fissata della paglia che faceva fumo bruciando del pungitopo (Longare). La conseguenza era in tutto il senso del risparmio. Spesso non si consumava un fiammifero per accendere il fuoco, ma si riattizzavano le braci coperte sotto la cenere per tutta la notte (Torri di Quartesolo). Il lavoro era considerato sacro. Lavorare era un dovere assoluto, religioso (Arzignano). Esso garantiva il sostentamento della famiglia, la possibilità di scaldarsi, di vestirsi dignitosamente, di avere un po’ di benessere (Dueville). I frutti quindi non andavano sprecati, anche perché viveva una grande insicurezza per il futuro: bastava una calamità naturale o una epidemia per distruggere tutto (Noventa Vicentina). Il lavoro dava pace e serenità interiore ed era fonte di relazioni. Da ciò prendevano corpo le virtù dell’onestà, della rettitudine, del valore della parola data, del risparmio (Vicenza). I valori, essendo il lavoro sacro, guidavano l’agire quotidiano ed aprivano al senso di religiosità (Lonigo). Era vivo il senso della Provvidenza e si ricorreva spesso a benedizioni. Le rogazioni, che ponevano ad ogni bivio di campagna croci e capitelli, testimoniano la fede rogazionale. Se il tempo minacciava ci si raccoglieva in preghiere davanti a una immagine sacra (Montecchio Maggiore). Anche quando iniziò l’industrializzazione, molti lavo- ratori appendevano sui macchinari di lavoro l’immagine della Madonna, la corona del rosario o un crocifisso e avevano momenti di preghiera stata quella dei genitori ed era quella che si riscontrava negli animali: “nei campi e nel paese in cui si svolgeva la vita di ogni giorno l’uomo condivisione del pensiero esistenziale, della trasmissione della vita, delle tradizioni e dei beni posseduti. Le regole al suo interno erano chiare e (Montecchio Maggiore). La parrocchia diventava così il centro dell’incontro delle persone ogni settimana ed in occasione delle festività dei santi protettori: S. Antonio da Padova, S. Biagio, S. Bovo, S. Maria Maddalena, S. Antonio del deserto, S. Maiolo ed altri (Longare). Nasceva così nelle piccole comunità agricole una vita di relazione intensa (Dueville) e un certo ottimismo, perché la fede dava forza, speranza e animava il pensiero e i gesti della vita (Marano Vicentino). La vita era accettata come tale. Era ripercorreva il tempo che aveva preceduto la sua nascita e si proiettava in quello che seguiva la sua morte” (Torri di Quartesolo). Una attenzione si apriva anche nei confronti degli altri, soprattutto se bisognosi di aiuto (Dueville). L’aiuto vicendevole era quotidiano: si andava in prestito di qualcosa che mancava in cucina e anche in prestito di soldi da parenti e da amici. La legge della civiltà contadina era di non sprecare nulla (Costabissara). Valore e perno della vita contadina era la famiglia, luogo di rigide: matrimonio celebrato in chiesa, ruoli dei genitori, autorità del padre e cura dei figli e dei vecchi della madre (Montecchio Maggiore). La famiglia assicurava anche la trasmissione culturale e le tecniche del lavoro nei luoghi caldi della stalla quando si faceva filò (Costabissara). Nelle fabbriche invece, osserva Schio, dove si anticipavano i tempi nuovi, vigeva la regola del più forte, del più bravo che faceva soccombere il più debole, per una sorta di principio della sopravvivenza. Uno (continua a pag. 8) NUOVI STILI DI VITA UNA SFIDA Risulta evidente la diversità degli stili di vita dell’agricoltore di ieri e dell’uomo che vive la realtà d’oggi. In cinquant’anni la società nel vicentino è passata da agricola a industriale e telematica. La povertà e il risparmio si sono trasformati in benessere e spreco. L’uomo, un tempo legato ai ritmi naturali, si è emancipato ed ha l’idea di essere “padrone” del mondo in cui vive. Le antiche paure naturali si sono trasformate in paure sociali: si vive sotto l’incubo di fenomeni mondiali incontrollabili, nella incomunicabilità e nella paura dell’uomo che ci sta accanto. Si sono trasformati la vita, la famiglia, le relazioni, l’economia, il modo di pensare e i valori. Il collegamento fra lavoro e vita quotidiana è evidente. L’emancipazione dalla natura, dalla pura sussistenza e dalla società è indubbiamente un valore. La libertà conquistata, la cultura a portata di tutti, il benessere raggiunto sono espressione di una vita umana. La religione purificata dal magico e dal controllo sociale consente una interiorità ed una partecipazione prima non presenti. Rimane tuttavia all’uomo d’oggi il compito di costruire un mondo umano fatto di relazioni, di solidarietà, di responsabilità, sulle ceneri di una società che in qualche modo aveva raggiunti questi valori per necessità. Forse questa è la sfida, perché sono crollati tutti i supporti e molte espressioni sociali sono frutto dell’arroganza e della temerarietà del potere e dell’utilità di persone spregiudicate. Potrebbe essere utile allora chiedersi come recuperare i valori antichi oggi nella libertà, attraverso la responsabilità individuale e sociale, perché, come abbiamo detto, sono venute meno certe paure e ne sono nate di nuove e l’uomo ancor oggi ha bisogno di amore, di benevolenza, di accoglienza, di felicità come un tempo. Collegare in questo modo ieri e oggi significa riscoprire la civiltà, intesa come frutto di un popolo che si evolve senza perdere le sue radici. Pag. 8 REZZARA NOTIZIE ISTITUTO DI SCIENZE SOCIALI “NICOLÒ REZZARA” - VICENZA 43° Convegno sui problemi internazionali NEL MEDITERRANEO, IL RIFLESSO DEL MONDO (Recoaro Terme, 10-12 settembre 2010) Sono molti coloro che oggi si interrogano intorno al Mediterraneo, spinti dalla nuova crucialità che lo investe. Solitamente, gli esiti delle riflessioni oscillano tra il suo essere lago di pace o mare di guai. Ciò accade dal momento in cui la questione viene affrontata secondo i canoni della storiografia classica, quella che presenta “al pubblico” l’elenco cronologico e sistematico delle vicende intercorse fra le sue acque, tra coloro che popolano le sue sponde: il Mediterraneo contenitore. Vi è però poi un’altra corrente di pensiero che sorpassa l’annosa questione tra le due antinomie, alimentata da quanti guardano al Mediterraneo “personaggio”, riconoscendolo come soggetto unitario, pur composto da molteplici anime. Non interessa a loro stabilire se intorno al Mediterraneo siano stati più i conflitti o i momenti di pace, un saldo algebrico, ma, sancita l’innegabilità degli uni e degli altri costoro scelgono consapevolmente di valorizzare i momenti e i passaggi di contaminazione pacifica tra le genti. Nella lettura della sue potenzialità, il Mediterraneo soggetto, conscio di sé, vede il proprio percorso di sviluppo derivato dalla storia delle sue genti, dalla geografia delle sue coste; luogo di frontiera, tra Occidente cristiano e popoli infedeli, tra sud di caldo e pigro scirocco e nord di fredda e industriosa tramontana; di etnocentrismo attivo ed espansivo. Questa prospettiva ci consente di cogliere una delle ragioni per cui il ruolo di mediazione non è così, appunto, immediato e facilmente agibile ma anzi doloroso e faticoso: tira in ballo il rapporto con l’alterità. Se riusciamo, in uno slancio di onestà intellettuale, a riconoscere cosa causi in ognuno di noi, preso come singolo, il rapporto con l’altro, non ci sorprenderemmo dell’effetto esponenziale prodotto, passando dal soggetto individuale, a quello di popolo, razza, nazione. La teoria sociologica insegna che le civiltà non sono blocchi monolitici ed ermetici, ma che si modellano e rimodellano attraverso un processo di apprendimento favorito e reso possibile dalle relazioni con l’esterno, dal contatto con l’altro. Sta di fatto che oggi nel Mediterraneo si riflettono i problemi del mondo, quali la civiltà dei popoli, la quale qui trova le sue radici; i conflitti che da oltre cinquant’anni giustificano le molte guerre presenti nel mondo; il drammatico confronto fra popoli poveri e popoli ricchi, con le terribili potenzialità eversive. “5 PER MILLE” COME DESTINARLO Al momento della presentazione del modello Cud, 730 o Modello unico, il contribuente può decidere di destinare la quota del 5 per mille della propria imposta sul reddito delle persone fisiche, relativa al periodo d’imposta 2009, mettendo la propria firma in uno degli appositi quattro riquadri che figurano sui modelli di dichiarazione. A tale riguardo va evidenziato che è consentita una sola scelta di destinazione e che il contribuente non si trova a pagare più tasse, ma a decidere come destinare una somma che comunque deve pagare. Oltre alla firma il contribuente può indicare il codice fiscale del soggetto al quale intende destinare direttamente la quota del 5 per mille. Noi vi proponiamo di assegnarla al Rezzara. La tua FIRMA e il nostro codice fiscale 00591900246 dona il 5 per mille a ISTITUTO CULTURALE DI SCIENZE SOCIALI NICOLÒ REZZARA con noi ci sei anche tu C’ERA UNA VITA DI RELAZIONI (continua da pag. 7) dei problemi allora era far studiare i figli perché fossero un domani competitivi. b) Dal risparmio allo spreco. Il salario fi sso e il benessere del lavoro industriale ha cambiato profondamente i riferimenti valoriali. Rimane il valore del lavoro e si soffre per la precarietà, ma questo è incentrato più sulle macchine che sull’uomo che, da arte- sempre più alti, a tenere cani in giardino che difendano la nostra proprietà, ci dà la misura di quanto ci stiamo chiudendo (Marano Vicentino). La troppa abbondanza dei tempi moderni, il consumismo e lo spreco, nonché il forte individualismo hanno portato a vivere in maniera diversa il rapporto con il sacro e la divinità (Carmignano di Brenta). Emerge il valore dell’affermazione e ai mutui per una vita al di sopra delle reali disponibilità economiche (Vicenza). La religione si è purificata dalle forme magico sacrali ed è diventata più privata, motivata, fatto personale (Sovizzo). I principi religiosi sono soffocati però da una mentalità consumistica che spinge a considerare importante solo l’attimo presente e a cercare la gratificazione immediata (Valdagno). fice del proprio benessere, è diventato fruitore dei beni prodotti dalle macchine stesse con la conseguenza di un vuoto motivazionale (Arzignano). Oggi sembra proprio che i lavoratori siano una merce come un’altra, tanto che si parla di “mercato del lavoro” (Marostica). La realizzazione non è più ricercata nel lavoro ma nei consumi. Il benessere, ostentato dai mass-media, ha portato sì a stare bene, ma anche la chiusura mentale nel non saper vedere al di là dei nostri muri di casa, all’individualismo, all’indifferenza, alla chiusura nei confronti di chi ha bisogno (Dueville). Il fatto che continuiamo a costruire cancelli personale, della riuscita, dell’apparire, con la conseguenza di una chiusura nei confronti dei poveri e degli emarginati. Quello che conta è avere e possedere quello che si desidera materialmente (Camisano Vicentino). I frutti nefasti sono lo stress, la concorrenza spietata e la mancanza di comunicazione (Thiene) se non la droga (Arzignano). Ormai si è spento anche il desiderio, perché tutto è appagato subito (Torri di Quartesolo). Vige la regola del “mordi e fuggi”, oppure “cogli adesso l’attimo fuggente, domani non sai cosa avverrà” (Creazzo). La vita dispendiosa ha molto attenuato il risparmio ed ha creato l’abitudine alle rate L’insicurezza della vita non si apre più alla provvidenza ma riempie le sale d’attesa dei maghi e degli astrologi (Longare). Sono venute meno le antiche paure, ma ne sono sorte di nuove: droghe, terrorismo, inquinamento, surriscaldamento del pianeta, malattie (Noventa Vicentina). L’uomo non crede più nell’immortalità nello sforzo di emanciparsi da tutto, anche dalla fede (Carmignano di Brenta). La fatica è quella di individuare i nuovi valori o meglio come gli antichi valori possano prendere forma nella nuova realtà. Indubbiamente fra questi è il senso maggiore di responsabilità, le varie forme di volontariato, il senso critico più diffuso (Schio). programma venerdì 10 settembre introduzione ai lavori prolusione: San Paolo e l’evangelizzazione del Mediterraneo intervento: Problemi geo-politici del Mediterraneo sabato 11 settembre lezione: lezione: Ripercussioni mondiali dei conflitti del Mediterraneo Mediterraneo, frontiera fra Nord e Sud tavola rotonda: Radice dei conflitti 1. Ruolo dei Paesi mediterranei nell’Unione Europea 2. Forme di collaborazione fra i Paesi rivieraschi 3. Flussi migratori, viaggi della speranza 4. L’Italia e il suo ruolo di pace domenica 12 settembre 1. intervento: Civiltà antiche mediterranee 2. intervento: Le religioni abramitiche a confronto 3. intervento: Prospettiva europea per un Mediterraneo fonte di umanizzazione QUOTA D’ABBONAMENTO La quota di abbonamento per il 2010, da versare sul c.c.p. 10256360 intestato a Istituto “Nicolò Rezzara”, contrà delle grazie 14, 36100 Vicenza è di € 20,00. A quanti invieranno una cifra significativa sarà inviata al più presto una pubblicazione delle nostre edizioni.