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uovo o
gallina:
questo è il dilemma
a freemag
azine nove
mbre 2014
100
0miglia fr
eemagazin
e novem
supplemento n. 2 al numero 26 - marzo aprile 2014 - anno VI - UNICO PEOPLE & STYLE
Ente Autonomo di Promozione
Sportiva, Culturale, Turistica e Ricreativa
“ LO SPORT DI TUTTI, PER TUTTI “
CENTRO PROVINCIALE LIBERTAS CUNEO
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perché 1000miglia
1OOOmiglia alla meta, tenendo alto l’ottimismo. 1OOOmiglia più una,
e poi sempre più una, perché la vera meta non è mai l’arrivare. E qui
1OOOmiglia non sono 1609,344 chilometri. Qui il tempo non si misura
in secondi, ma in racconti, in articoli, in sogni. Le miglia non sono lo
spazio percorso, ma l’attesa della meta, che non è il traguardo. La meta è
tutto il viaggio, ogni pagina, ogni singola miglia, ogni singolo passo, qui,
come fuori di qui. E sempre queste fatidiche 1OOOmiglia devono essere
accompagnate dall’ottimismo, dall’energia, dall’entusiasmo e dalla passione, ad ogni passo. Ad ogni singola miglia. Perché senza cuore non si va da
nessuna parte. Che siano imprese titaniche o che siano piccoli obiettivi
quotidiani realizzati, nulla di ciò che esiste viene fatto senza l’apporto
della passione. Come pure la pazienza è indispensabile per andare avanti,
perché come dice Lao Tze: “Un viaggio di mille miglia inizia sempre con
un passo.”
un semplice grande inizio
per dirti che il protagonista sei tu
dall’origine...
novembre
editoriale
2014
Io,
gli altri,
i miei posti,
la mia origine
Ci sono giorni dove un po’ di musica nelle orecchie e un paio di
scarpe da ginnastica sono i migliori amici e un posto tranquillo
in cui passeggiare il paradiso desiderato. Ci sono giorni in cui
spegnere il cellulare è un piacere e estraniarsi dalla fretta quotidiana il bene più voluto. Ci sono giorni in cui non si fa altro che
volere se stessi, essere a tu per tu con il proprio io per riflettere,
parlare e capire che cosa si abbia intenzione di fare della propria
vita.
Ci sono giorni dove abbiamo bisogno di incontrare alcune persone perché un loro abbraccio ci rasserena o ci motiva. Ci sono
giorni in cui c’è bisogno degli amici per divertirsi e fare due risate. Ci sono giorni nei quali c’è bisogno di ragazzi o ragazze che
ci sappiano amare. Ci sono giorni in cui c’è bisogno di mamma
e papà.
Ci sono giorni dove sogniamo di tornare nel nostro paese di origine. Ci sono giorni in cui non si desidera altro che il cibo simbolo della propria cucina. Ci sono giorni dove cantare il proprio
inno nazionale è un orgoglio. Ci sono giorni in cui il proprio
paese è il regalo più grande.
Ci sono giorni e giorni, ma ogni giorno nuovo è diverso dal
precedente. In ogni giorno ci siamo noi, gli altri e il luogo dove
viviamo insieme alle sue basi culturali, sociali, politiche e economiche. In ogni giorno c’è il ricordo di quello che è stato e il
pensiero a quello che sarà. In ogni giorno c’è la gioia e la paura
del futuro. Il pentimento del passato, ma anche la contentezza
del ricordo.
In ogni giorno c’è qualcosa di nuovo che ognuno di noi porta e
che nessuno ha mai proposto in questo modo. In ogni momento
c’è la nascita della novità e ognuna di queste è particolare. Particolare perché portatrice dell’origine diversa di ciascuno di noi:
luogo, famiglia, amici, cultura, cibo,... Un’origine così grande da
portare con sè storie lunghissime, differenti l’una dall’altra. Di
portare con sé la bellezza di 7 miliardi di origini diverse.
Luca Lazzari
1000miglia
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chi siamo
dIRETTORE: LUCA LAZZARI (1994)
Studente dall’animo politico e sognatore.
Sempre in ricerca e pieno di idee.
Un po’ particolare a volte, ma non troppo.
VICEdIRETTORE: yLENIA ARESE (1994)
Ama la scienza, ma non si perde l’umano.
Frequenta Medicina, ma forse avrebbe dovuto fare Lettere.
Cerca di farsi rientrare negli schemi, ma esplode nelle parole.
Poliedrica.
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direttore artistico: oscar giachino (1989)
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Eccentrico e a volte misantropo. Cinico, superficiale e meticoloso
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espressione dei visi. Romantico al punto giusto, ma non troppo.
Avvincente.
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a cui piace sentir parlare le persone e provare a capirle.
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ha studiato per tre mesi in Belgio.
Interculturale.
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È studentessa in Lettere, parla tanto e fa sogni da matti.
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Romantinca e sognatrice guarda il futuro con gli occhi insicuri
di chi ama. A volte troppo seria nella ricerca di capire un mondo
incomprensibile.Cerca di catturare in uno scatto ogni raro momento di semplicità in questa vita
pagina 5
editoriale
pag 3
pag 6-8
Personaggi in ombra
Un giovane a Bruxelles: l’Europa dai suoi occhi
Giorgio Amedeo e il Castelmagno: Amore dalle origini
pag 9-11
Vorrei quindi scrivo
Le mani sporche di terra
Un brusco risveglio
Parentesi di viaggio
pag 12-13
Il lusso della filosofia
Caro Professore
L’amor che move il sole e l’altre stelle
pag 14-17
Chi cerca trova
Neanderthal allo specchio
Emozioni rivelatrici
Terra vs Kepler 186f
Progetto e protoripo
pag 18-22
Dai banchi
Leopardi era pessimista
Passato ed eccentricità
Searching for suger men
pag 23-25
Photologia
E luce fu
Le foto del mese: i quattro elementi
pag 26-28
Foreign opportunities
Parti italiano, torni “Global Citizen”
Da grande voglio fare il pompiere
Casa è mondo
pag 29
LifeStyle
Cimiteri digitali
pag 30
pag 32
Notizie dal mondo
cosa ci piace...
pagina 6
E’ qui riportata l’intervista di Luca Lazzari all’europarlamentare italiano
Brando Benifei.
di Luca Lazzari
un giovane a bruxelles:
l’Europa dai suoi occhi
Ciao Brando! Perché hai scelto di candidarti per il Parlamento dell’Unione Europea?
Pensandoci bene, sono almeno tre le ragioni che hanno portato alla mia candidatura. La prima consiste nel
fatto che, nonostante abbia 28 anni, il mio impegno sui temi europei viene da lontano. Oltre ad avere da
sempre partecipato a tantissimi incontri e iniziative, negli scorsi anni sono stato, in tempi diversi, responsabile Europa del PD ligure e dei Giovani democratici a livello nazionale, oltre che vicepresidente dei Giovani
socialisti europei per quattro anni. Gli altri due aspetti sono tra loro intrecciati, perché sono profondamente
convinto che la generazione più toccata dalla crisi sia quella dei giovani e che la sede più opportuna per
portare avanti una battaglia anche generazionale sia quella europea.
L’Europa è solo parole o anche fatti? Dove la possiamo vedere nella nostra vita quotidiana da cittadini?
Credo non ci siano dubbi che l’Europa sia soprattutto fatti. Si tende a dimenticare che ormai una grandissima parte delle legislazioni nazionali è fortemente influenzata dalle norme europee (di cui l’Italia, sia ben
chiaro, è attore alla pari degli altri paesi europei). Il 9 maggio si celebra la festa dell’Europa. Ritengo possa
essere un’idea interessante quella di organizzare una “festa della non-Europa”, dove tutto quello che è stato
costruito a livello europeo fosse sospeso per 24 ore: reintroduzione dei confini nazionali; reinserimento di
tariffe doganali; annullamento delle leggi sulla tutela dei consumatori, sulla protezione degli animali, sulla
sostenibilità ambientale e via dicendo. Potrei continuare per ore. Forse solo così ci renderemo conto di quali
siano gli enormi benefici del vivere quotidianamente in una tale comunità di fatto e di diritto.
Ritornando alla tua persona... Grande esperienza all’interno del Partito PD, soprattutto tra i Giovani Democratici: quali sono stati i trucchi del tuo successo, del tuo farti conoscere nella sezione nord ovest e soprattutto farti accettare e apprezzare dai candidati PD per un proveniente dalla giovanile?
Credo che siano stati importanti diversi elementi. Ad esempio il fatto di essere un ragazzo può avermi attirato qualche simpatia, ma essere giovane non è un valore in sé. Sono, infatti, convinto che sia stato premiato
il mio percorso personale nel quale era da subito evidente che la mia passione politica mi aveva spinto quasi
naturalmente verso i temi legati all’Europa. Poi aggiungerei il legame con il territorio: non solo in Liguria,
ma un po’ per tutto il collegio Nord-Ovest non credo di essermi risparmiato e ho partecipato a moltissime
iniziative, girando molto e provando a portare anche la sensibilità di una generazione che più di altre risente
della crisi.
pagina 7
Personaggi in ombra
Con quale spirito e quale intenti sei andato a Bruxelles?
Sono andato a Bruxelles per far sentire più forte la voce della
mia generazione, considerando anche che sono solo una manciata i deputati con meno di 40 anni, e per rafforzare i valori
e la visione del federalismo europeo in cui credo fermamente.
Poi, per carattere e formazione, sento molto il legame con la mia
regione e il collegio, avendo avuto anche in precedenza la possibilità di conoscerlo bene.
Cosa può dare e soprattutto ricevere un giovane dall’Europa?
L’Europa può dare tantissimo a un giovane, anche se mi rendo
conto che purtroppo oggi il dibattito sembra essere incentrato
quasi solo sugli aspetti negativi dell’Europa, vista come qualcosa di distante che impone sacrifici a casa nostra. Un giovane,
grazie all’Unione europea, ha possibilità di studio, di lavoro e di
viaggio, che prima erano semplicemente impensabili. Pagando
meno di un treno da Milano a Reggio Calabria, si può andare in
un altro Paese, spesso senza nemmeno dover cambiare i soldi
che si hanno in tasca. Sul tema dello studio e del lavoro è necessario però andare nella direzione che impedisca la costruzione
di un’Europa a due velocità, che divida tra “ricchi” e “poveri”.
Ciò che voglio dire è che bisogna mettere tutti i giovani o, per
meglio dire, i giovani di tutti i Paesi in condizione di sfruttare
appieno le opportunità che offre l’Europa.
I tempi dei Mitterrand e dei Kohl sembrano essere passati... Chi
è l’uomo solo al comando in Europa in questo momento, colui
che coordina e detta la linea?
La Germania?Il momento storico attuale è chiaramente imparagonabile con quello di Mitterrand e Kohl, alla luce almeno di
due elementi: la situazione internazionale e la crisi economica. È
evidente che almeno nell’ultimo decennio si sia affermato come
attore principale la Germania di Angela Merkel, che ha grandemente influenzato buona parte dello scenario e del dibattito
politico, economico e sociale nell’Unione. Ciò è bene esemplificato da Ulrich Beck nelle sue ultime pubblicazioni, che si spinge
addirittura a parlare di “Europa tedesca”.
Il tema è complesso e il giudizio meriterebbe di essere articolato,
ovviamente. Mi limiterò a dire che è sempre più fondamentale
superare la contrapposizione crescente tra l’area del Mediterraneo e gli Stati più ricchi del Continente, anche e soprattutto
rivedendo molti aspetti della “dis-integrata” politica economica
europea, responsabile dell’allargamento di questa forbice.
C’è bisogno di più o meno Europa? Perché?
Credo fortemente che ci sia bisogno di più Europa, ma di
un’Europa diversa, che porti avanti il sogno di Altiero Spinelli
di costruire una comunità di cittadini più solidale, più giusta
e più inclusiva. Le sfide della modernità non possono essere
affrontate facendosi sviare da un anacronistico desiderio di
ripiegamento nella dimensione degli stati-nazione. Bisogna
costruire uno stato federale europeo, capace di dare rappresentanza alle istanze locali, ma allo stesso tempo all’altezza di
far sentire la sua voce sul palcoscenico mondiale.
Raccontaci una giornata vissuta a Bruxelles...
Le giornate di un parlamentare europeo sono davvero molto
intense e, se si cerca di fare tutto nel modo migliore, si arriva
a sera tardi distrutti. Le ore per cui è richiesta la presenza in
aula sono tante a cui si aggiungono i lavori da portare avanti
in commissione parlamentare. Si deve poi lavorare moltissimo sui provvedimenti di cui si è relatori, senza tralasciare
tuttavia tutte le altre questioni rilevanti. Bisogna mantenere il
contatto con la cittadinanza, sforzandosi al massimo per costruire quel ponte tra istituzioni e persone che costituisce il
fondamento della democrazia rappresentativa.
Opportunità europee per i giovani?
Per citare solo un esempio, penso alla Garanzia giovani, rivolto a tutti i giovani tra 15 e 29 anni, che non studiano, non
lavorano e non sono impegnati in un percorso formativo, i
cosiddetti NEET. L’Italia ha ottenuto un finanziamento di 1,5
miliardi di euro ed è possibile aderire all’iniziativa fino al 31
dicembre 2015 andando sul sito, che si trova anche con una
semplice ricerca su Google. Credo molto in questa opportunità, avendoci lavorato quando era ancora una proposta in
via di elaborazione da parte del Partito socialista europeo e
avendo sollecitato il Presidente della Commissione europea
Juncker a rinnovare questi fondi. È importante fare una grande campagna di comunicazione e spendere effettivamente
queste risorse per dare lavoro a chi ne ha bisogno.
pagina 8
di Beniamino
Arrigo
giorgio amedeo e il
castelmagno:
amore dalle origini
l segreto del suo sapore è nell’erba e nei
fiori estivi delle Alpi. Questi profumi e
gusti tanto dolci quanto delicati si ribaltano all’interno di una piccola forma
fino a diventare particolari e spettacolari per molti fini palati. Non si tratta di
un cibo proveniente da terre lontane,
ma di qualcosa che tocca la provincia Granda molto
da vicino.
“Il Castelmagno Dop, formaggio preferito di Carlo
Magno e dei Papi d’Avignone, è ritornato a essere il
simbolo della cuneese valle Grana da circa vent’anni.”
Queste sono le orgogliose parole di Giorgio Amedeo. Infatti l’allora sindaco di Castelmagno, Gianni
De Matteis, comprese la ricchezza che racchiudeva il
formaggio della zona e per rilanciarlo affidò l’impresa all’ingegnere Giorgio Amedeo, amministratore
dell’azienda di casseforti Parma Antonio. Motivato
dalle giovani vacanze trascorse nella località montana presso casa Viano, Giorgio ha coinvolto il fratello Pier Andrea e il figlio Andrea in un progetto
accattivante e sfizioso: riqualificare il Castelmagno.
“Abbiamo creato una società per poter aiutare i piccoli produttori locali nella diffusione di un marchio,
ma soprattutto di un “prodotto eccezionale” afferma
Giorgio mentre afferra una forma di circa 3 kg.
“Questo formaggio era stato ridotto a una pallida imitazione dell’originale da molti produttori estranei all’antica arte della produzione
che prosegue seguendo un manoscritto del 1200: la cagliata si fa a
pezzi e si lascia appesa in un telo per 24 ore. Dopo tre giorni di riposo
nel siero di latte si procede con la seconda rottura. Sminuzzata e poi
ricompattata, la cagliata va compressa e poi lasciata riposare per circa
due anni e mezzo.”
Il periodo di stagionatura è molto duraturo. Durante questa lunga
maturazione il formaggio si colora di muffe nobili. Amedeo mostra
con molta passione la stalla, voluta dalla sua società Terre di Castelmagno, ai piedi dell’omonimo santuario. “Le mucche devono essere
felici, devono sentirsi volute bene - e perché il Castelmagno sia degno
di tale nome, continua l’ingegnere - devono godere di circa 3-4 mesi
di vacanza in alpeggio”.
Nei 150 ettari che salgono dai 1600 ai 2400 metri, su per la valle del
torrente Grana, si godono il paesaggio e l’ottima erba ben 82 mucche,
di cui 60 dell’allevatore al quale Amedeo concede l’uso dei pascoli,
che la conduttrice Rai Elisa Isoardi definisce Vacchecapre date le loro
capacità di arrampicata. La caragliese Isoradi, spinta anche dall’ondata di entusiasmo portata dall’amico Giorgio, ha aperto un piccolo
ristorante a Pradelves con uno scopo ben definito: la degustazione del
Castelmagno Dop.
“Poco alla volta il nostro prodotto sta facendo il giro del mondo. commenta Andrea, il figlio di Amedeo - Da New York alla Croazia
fino a San Pietroburgo si può assaporare un gusto unico che solo la
valle cuneese sa donare a questo mondo.” Risale a poco tempo fa la
visita alla stalla di Terre di Castelmagno degli studenti dell’università
del Gusto di Pollenzo. Sinonimo di ammirazione per la propria terra
di origine, la visita a fatto apprezzare il rituale di produzione del formaggio a molti studenti.
L’ingegner Amedeo ha concluso la visita guidata con un piccolo pensiero, probabilmente frutto del suo passato. “Vi auguro buon rientro,
con l’auspicio che ognuno di voi sappia guardare al proprio passato
con occhio critico e meravigliato per donare al futuro di tutti noi un
piccolo sfizio che renda saporita la nostra presenza su questa Terra.”
Aggiungerei: proprio come la famiglia Amedeo fa con il Castelmagno
sulle nostre tavole.
pagina 9
le mani sporche di
terra
di Simona Bianco
ggrapparsi a un racconto con le mani sporche di terra. Non conosceva altra ispirazione che i granelli tra le dita sporche, di chi ha appena smesso di falciare un campo o diaccarezzarne l’erba. Quando
si sedeva e davanti scopriva la macchina da scrivere, sentiva i brividi camminargli sulla pelle scura.
Non aveva bisogno di fare lo scrittore per sentirsi uomo, si diceva: possedeva la campagna, con i
suoi ritmi, le sue promesse, la terra bagnata e la nebbia di certe mattine, a ricordarglielo. La macchina da scrivere lo spaventava, invece, di un silenzio indolenzito, di quelli che promettono parole che
già dimenticano. Gli sembrava di non aver più nulla di cui scrivere, ora che non stringeva in mano
niente della sua terra, nemmeno un frutto ammaccato o un taglio profondo e ormai secco.
Ogni giorno scoprì la terra fra le dita, i granelli gocciolanti sulla scrivania abbandonata e la storia che si muoveva
dentro al ritmo di un aratro.
Aveva una nipote, ne aveva quattro. La più grande scriveva, per quello a volte si scopriva ad osservarla. Prima di
scrivere con la penna, lei componeva nella mente e raccontava con espressioni del viso, che talvolta incutevano
terrore. Lui la guardava e segretamente indagava ciò che si celava oltre il fitto aggrovigliarsi di muscoli, dietro
la deformazione di un viso gentile. Lei guardava lui mentre mieteva, o puntava verso il cielo, a un uccello o al
sole tiepido (lei non capiva), il fucile. Lo vedeva camminare con calma schiva e attenta, guardare oltre i limiti
di un cortile disordinato, oltre la cancellata che si usava da piccoli per giocare a pallavolo tra cugini. Il nonno
in cammino l’arricchiva di realtà sconosciute, che mai le raccontava, ma che lei leggeva muoversi nei suoi passi
misurati, mai uno più lungo dell’altro, come contati minuziosamente, per non perderne nessuno sulla strada.
Eppure il senso, quella verità assoluta e vertiginosa che avvertiva nella ghiaia sotto i piedi di lui, le restava celato,
in un grido d’aiuto mai lanciato.
E così guardandosi e arrendendosi, si invidiavano e vicendevolmente provavano una venerazione che aveva il
sapore dolciastro del desiderio. Lei voleva macchiarsi di terra, lui di inchiostro. Lei nella terra si sporcava con
violenza, lui nell’inchiostro sprofondava per sfogo. Ma a nessuno dei due apparteneva il profumo dell’altro. Senza saperlo sognavano una terra più scura e un inchiostro più denso, percorso da granelli di sabbia. Sognavano
di scrivere di campagna, ma a volte taceva la scrittura, a volte la campagna.
Se intuivano quel legame segreto di pienezza e mancanza nel loro non dire, nel loro osservare, nessuno seppe
mai. Loro mai chiedevano, o spiegavano. A volte, però, dalla finestra al primo piano, seduta al tavolino rigato su
cui scriveva, lei si scopriva a guardare lontano, un paese, le case, terra secca e frutteti, e più in basso, da un orto
in bilico su di un piano inclinato, lui guardava lo stesso. Poi si voltava e lei abbassava gli occhi. Si incontravano
allora, e entrambi capivano, in un tremolio delle labbra, un sorriso inespresso.
Poi lei riafferrava la penna, lui riprendeva l’aratro.
pagina 10
Vorrei quindi scrivo
di Gabriele Arciuolo
Un brusco
risveglio
uido non capiva il motivo per cui si trovava lì
dentro. Era stordito ed allo stesso tempo sbalordito. Durante l’aggressione qualcosa era andato
storto. Ah, forse ricordava! Erano stati i vicini a
fregarli! Dovevano aver sentito le loro minacce,
le urla delle vittime e poi lo sparo. Che stupidi
erano stati a fidarsi di Giovanni! Era certo che
non avrebbe resistito più di cinque minuti con quella pistola
in mano senza sparare, ma gli altri la pensavano diversamente.
E adesso si ritrovava in cella insieme a quel cretino!
Guido ripercorse rapidamente ciò che era accaduto quel giorno di settembre: aveva salutato la madre, che lo aveva ospitato
per la notte, aveva incontrato gli altri al bar verso le sei e poi
erano partiti. Con i soldi rubati avrebbe finalmente risolto i
suoi problemi economici, e la casa dei Barletta era quella perfetta per un furto: i due coniugi infatti erano ricchi ed anziani,
quindi anche facilmente minacciabili. I due vivevano in un appartamento in centro, poco distanti dal bar.
Quando erano entrati in casa e avevano svegliato le vittime,
i due vecchietti erano quasi morti perlo spavento. La signora
Barletta, mentre la legavano, continuava a pregarli di non fare
del male a suo marito. Svuotata la cassaforte sembrava che il
piano stesse per essere concluso alla perfezione, ma ad un tratto i ladri avevano sentito uno sparo. Giovanni aveva perso la
sua già esigua dose di pazienza quando il signor Barletta aveva
gridato per cercare aiuto dai vicini. Un colpo secco ed egli era
crollato a terra, privo di vita.
Quello che era successo dopo forse era ancora peggio. I vicini
avevano chiamato la polizia e durante lo scontro Giovanni era
stato ferito e Guido stordito da un colpo alla testa. Poi erano
stati arrestati. Gli altri erano riusciti a scappare.
La cella fece ricordare a Guido dove aveva conosciuto gli altri: l’osteria. Sporca e mal illuminata, era spesso teatro di affari
loschi e di riunioni tra malviventi. Ci era entrato per la prima
volta alla ricerca di qualcuno che organizzasse furti, costretto
dalla povertà e dalle gravi condizioni di salute dello zio, che
richiedevano cure molto costose. Ne era uscito con qualche
livido ed un appuntamento, durante il quale aveva conosciuto
gli altri componenti di quella che sarebbe stata la sua banda.
Guido sapeva bene che non sarebbe uscito presto dalla galera,
e che ormai i soldi non contavano più nulla. Inoltre non riusciva a togliersi dalla mente l’orribile immagine del signor Barletta
e della moglie, svenuta subito dopo l’accaduto.Ad un tratto la
porta della cella si aprì e Guido fu accompagnato in un locale
dove gli dissero che avrebbe incontrato una persona. Pochi minuti dopo un’altra porta si aprì e apparve la signora Barletta. Si
avvicinò, si sedette di fronte a lui e iniziò a raccontargli una storia. La sua storia. E quella del marito. Guido avrebbe voluto non
sentire nulla e scappare, ma si accorse immediatamente di non
poter interrompere la signora. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a comunicare con la signora. Avrebbe voluto dirle che gli
dispiaceva e che lui lo aveva fatto solo per i soldi, ma non riuscì
ad articolare una parola. Era come se fosse seduto davanti ad
uno schermo e non potesse cambiare nulla di ciò che succedeva.
Finalmente si svegliò. Aveva urlato e stava mordendo le lenzuola. Aveva le lacrime agli occhi. “Guido! Cosa è successo, caro?”
gli chiese la madre, che per lo spavento era corsa di sopra, nella
sua vecchia camera.
“Nulla mamma, soltanto un incubo. Scusa se ti ho svegliato.”
In quel momento la sveglia di Guido suonò. Lui guardò l’orologio: segnava le cinque del mattino.
“Tranquillo caro. Ti devo preparare la colazione in fretta, perché
tra un’ora hai appuntamento con i tuoi amici, non è così?”.
A Guido venne la pelle d’oca. “E con chi?”
“Come con chi? Con i ragazzi che hai conosciuto in centro, in
quell’osteria! Me l’hai raccontato mille volte in questi giorni!”
“Ma dove?”
“A New York! Guido, sveglia! Vai in gita in campagna con i tuoi
amici! Hai anche lo zaino pronto di sotto!”
“Si certo mamma, scusami, mi preparo in un secondo”.
Appena uscì di casa, Guido guardò il cielo, che non tradiva le
previsioni di una bellissima giornata di sole.Tutto quello che
aveva sognato di certo aveva un senso. Un lieve soffio di vento
lo fece sentire rinato, come nuovo. Non avrebbe più commesso
certi errori. Si incamminò lungo il viale, pronto a godersi una
frizzante giornata di settembre. Lo stesso giorno, una telefonata
anonima segnalò alla stazione di polizia della città un furto a
casa dei Barletta, previsto per le sei del mattino. Inizialmente
i poliziotti credettero che fosse uno scherzo, ma quando controllarono per sicurezza il quartiere dei Barletta, trovarono quattro ladri incappucciati pronti ad entrare nell’appartamento dei
vecchi nobili. Tra gli arrestati ci fu anche il criminale Giovanni
Bunno, pluriomicida.
pagina 11
PARENTESI
DI VIAGGIO
di Anna Mondino
l treno quella mattina sembrava più lento del solito, forse anche a causa dell’aria grigia e pungente attraverso cui era costretto ad avanzare. Seduta
come sempre vicino ad un finestrino, una ragazza
sbadigliava e ascoltava senza troppa attenzione una
canzone, giocherellando con il cavo delle cuffiette.
Guardò l’ora, ormai non mancava molto. Doveva
per forza abbandonare quella sensazione di torpore che la cullava, e per farlo cominciò a guardarsi intorno.
Qualche studente si stava preparando, come lei, ad una nuova
giornata di lezione. C’era chi aveva un’ espressione rassegnata,
come se non potesse pensare ad una prospettiva migliore per
quelle ore, pur non amando ciò a cui stava andando incontro.
Altri apparivano semplicemente assonnati.
Come dar loro torto. Era strano immaginare come sarebbe stata
la giornata di un perfetto sconosciuto, basandosi solo su una
smorfia sbirciata in treno e sull’idea di trovarsi in una situazione
simile. Eppure le capitava spesso. Una signora sulla cinquantina,
con i capelli raccolti, un tailleur ed una ventiquattrore, controllava l’agenda. Aveva un’aria familiare, doveva averla già incrociata su qualche altro treno. Non mostrava dettagli che permettessero alla sua osservatrice di lasciare spazio ai pensieri, così tornò
a far parte dello sfondo indistinto su cui ogni passeggero vede
scorrere il proprio viaggio.
Una coppia di anziani dallo sguardo spaesato parlottava, alternando frasi nervose ai sorrisi dolci di chi conosce da una vita i
difetti dell’altro, e sa di non poterne fare a meno. Poi il treno rallentò e si fermò alla stazione di un piccolo paese, che la ragazza
conosceva solo come una tappa del proprio tragitto quotidiano,
e salì quel ragazzo. La salutò a voce bassa con il solito sorriso
imbarazzato, si sedette e non disse niente per un minuto. Poi,
come spesso succedeva, azzardò un timido «Tutto bene?» e la
loro conversazione cominciò.
Quello strano rapporto era cominciato mesi prima, quando lei
si era ritrovata per caso davanti a lui, e aveva notato che stava
leggendo un libro che non era mai riuscita a finire. Con quella scusa gli aveva rivolto la parola, e si era sentita dire che no,
quello era un libro splendido, non molto scorrevole forse, ma
bello davvero, che doveva ricominciarlo. Da quel giorno, tutte le
mattine si scambiavano un paio di frasi, e a volte si buttavano in
discorsi più complessi, soprattutto riferiti a libri e film.
Era un ragazzo strano. O forse era strano il modo in cui lei
lo concepiva. Conosceva il suo nome, Marco, ma nelle rare
occasioni in cui ci pensava o parlava di lui lo chiamava “quello
del treno”. Perché, in effetti, per lei Marco non era che una persona che casualmente andava nello stesso posto alla stessa ora
in cui ci andava lei, e anzi faticava ad immaginare che avesse
una vita normale al di fuori di quel vagone. Era un abitante
del treno. Uno dei tanti esseri senza nome che animavano quel
mezzo che, proprio perché si muoveva da un posto all’altro,
non era in nessun posto. Marco, o meglio, “quello del treno”,
era parte di quella parentesi di viaggio della sua vita, ma tutto
sommato a lei non dispiaceva, perché le sembrava che i loro
dialoghi rendessero quella parentesi più significativa. O perlomeno un po’ meno apatica.
«Tutto bene», rispose lei. «Un po’ infreddolita.»
«Si vede che da quelle cuffie non esce la musica giusta, altrimenti non avresti freddo.»
«C’è una musica giusta?»
«No, forse ci sono solo diversi tipi di ascoltatori.»
Non era particolarmente bello, ma sorrideva spesso e aveva un
modo di parlare interessante. Forse, pensò in quel momento,
se l’avesse conosciuto in un altro contesto le sarebbe piaciuto.
Ma in realtà non riusciva ad inserirlo in alcun contesto, se non
in quello dei dieci minuti al giorno in cui i loro percorsi si
intersecavano. Mentre il discorso continuava, le venne da ridere. Non avrebbe parlato di “diversi tipi di ascoltatori di musica” con un amico. L’idea che di vedersi soltanto in viaggio,
in quella specie di non­luogo, la portava a non preoccuparsi di
cosa Marco avrebbe pensato di ciò che lei diceva. La portava
a fidarsi di lui, in qualche modo, e questo le regalò una sensazione a metà tra la tranquillità e la curiosità, che l’avrebbe
accompagnata fino alla fine della giornata.
«Non ho ancora ricominciato il tuo libro.» Si ritrovò a dire,
senza rendersene conto.
«Puoi cominciare subito. Volevo portarlo ad un mio amico,
ma non lo leggerà mai. Se vuoi te lo presto.»
La prima reazione della ragazza fu lo strano effetto che le provocava l’idea di portare con sé, nella sua vera giornata, un pezzetto di quella parentesi surreale di viaggio. Ma poi accettò.
«Non ti assicuro che mi piacerà.»
«Te lo assicuro io.»
La ragazza si alzò e scese alla sua fermata, salutando.
Avrebbe avuto il tempo di parlare di quel libro nei giorni successivi. In un contesto lontano da tutto il resto. Per
dieci minuti al giorno.
Vorrei, vorrei...tanto vorrei. Ma che cosa posso realmente? Forse poco, a volte nulla. Però le parole tutte
possono. Scrivi e lascia viaggiare la tua creatività. Inviaci a [email protected] la tua storia, la pubblicheremo sul sito e le migliori sul nostro
magazine
pagina 12
Il lusso della filosofia
Caro professore,
mi è capitato più volte di chiedermi cosa voglia dire essere davvero felici. Non capisco cosa si prova, nessuno mi
dà un sengale, mi dice: «Ehi! Guarda che questo momento
è importante, vivilo!». Ho sempre paura di non rendermi
conto della felicità che alcune persone mi danno. Come se,
nel momento in cui la vivo, fosse già scomparsa e, anche
cercando di ricordare, non mi rimane che qualche fatto nella mente, niente che assomigli a quell’emozione. Mi chiedo,
dunque, se è possibile dare una definizione alla parola “felicità”, cosa dicono i grandi filosofi? La felicità è forse, solamente, il nostro modo per chiamare “un bel discorso ormai
scomparso”?, oppure, quando sono felice ho dei segnali che
però non riesco a comprendere?
Giulia, 2C
Cara Giulia,
Il filosofo italiano Salvatore Natoli ha scritto dei libri
bellissimi sulla felicità. Ti consiglio la lettura di un
breve libretto che ha pubblicato da poco, (Salvatore
Natoli, L’educazione alla felicità, Roma, Aliberti editore, 2012, pp. 63, euro 7,00), e di cui ti racconto alcune
linee di fondo.
Siamo abituati - e un po’ assuefatti - ad ascoltare profeti di sventure che del futuro evidenziano più i pericoli
che le opportunità. E sono davvero molti gli autori (e
anche i filosofi) che prediligono parlare delle minacce
che la nostra epoca porta con sé.
“A volte ci si sente perduti, altre troppo forti.
E’ difficile, però, sentirsi pieni di risposte per tutte le domade che abbiamo.”
Alberto Lusso, professore di filosofia nei licei cuneesi,
risponde con piacere alle domande dei giovani su tutti
i fronti. Scrivigli la tua esperienza a [email protected].
Le sue risposte saranno pubblicate sul suo blog (http://
albertolusso.blogspot.it), sul nostro sito
e sul nostro giornale 1000Miglia!
Il filosofo Salvatore Natoli, per fortuna, non appartiene a questo gruppo: sa bene che «siamo in una società dove il futuro
non si presenta più come il luogo del progetto, dell’utopia, ma
come luogo vuoto dell’incertezza (p. 20)», tuttavia si comporta
in modo diverso da alcuni suoi colleghi; infatti, pur definendo il
nostro tempo “l’età del rischio”, non ama esibire scenari tragici,
ma si propone di insegnare a tutti, soprattutto ai giovani, come
comprendere l’epoca attuale per affrontare il futuro. Si tratta di
un’operazione che Natoli ha compiuto sistematicamente anche
in altre opere recenti (Il buon uso del mondo. Agire nell’età
del rischio, 2010), e in questo libricino, che ha il respiro di una
conferenza, egli ribadisce tuttavia alcuni concetti fondamentali.
Partendo da una riflessione sull’“accelerazione della storia” (Blumenberg, Koselleck, Fusaro), e dai contraccolpi anche dolorosi
che ogni cambio di epoca porta con sé, egli mostra come oggi
si siano moltiplicate (o fluidificate) le età della vita e come sia
difficile definire persino la giovinezza (“pressoché illimitata”).
Se c’è stato un tempo in cui le tradizioni accompagnavano il succedersi delle generazioni, un tempo in cui l’obbedienza era una
virtù e un tempo in cui non lo era affatto, secondo l’autore oggi
si ha la sensazione che non sia tanto importante obbedire o disobbedire, ma «pervenire ad un pieno governo di sé pena la propria dissoluzione» (p. 26). Natoli è un esperto della riflessione
sulla virtù, che tuttavia non intende come obbedienza a comandi esterni, bensì in senso greco come capacità di dare norma a se
stessi per diventare liberi. Egli vuole insegnare ai giovani a non
dissipare le energie, a distinguere tra il godimento (illusorio) e
la soddisfazione (stabile), a differenziare l’iperstimolazione del
desiderio (che impoverisce) dal governo delle proprie risorse
che consente di raggiungere i propri obiettivi. Così insegna a
non confondere la libertà con l’arbitrio e il fare con l’agire. Se la
società richiede solo prestazioni, significa che il nostro tempo
ha smarrito la distinzione tra il fare e l’agire, perché esige soprattutto il fare, ossia privilegia le abilità per produrre oggetti,
mentre per condurre una buona vita è fondamentale recuperare
l’agire, ossia la capacità di dare direzione al proprio movimento
nel mondo. Se i sentieri da percorrere non sono più quelli intrapresi dai genitori e non vi sono mete prefissate da raggiungere,
significa che ognuno deve imparare a stabilire la propria meta
e ad aggiustarla, dando senso alla propria direzione. Sapendo
amministrare la propria potenza, i giovani possono nuovamente
cogliere il momento opportuno (kairos) per agire nella vita. Per
questo, il titolo del libro “L’educazione alla felicità” è perfetto,
perché ricorda che solo riappropriandosi delle redini del proprio cammino è possibile costruire la felicità.
pagina 13
di Simona Bianco
L’amor
che move il sole e l’altre stelle
isognerebbe scrivere un libro ogni volta che si esce
di casa. Del resto le grandi rivelazioni della vita arrivano quando la concretezza del quotidiano appare
così banale da aprire gli occhi e la mente a ciò che
normalmente superiamo indifferenti. Come quella
mamma che spinge il passeggino, che ogni tanto
si allunga in avanti, inarca la schiena e controlla
dall’alto il figlio addormentato; come il kebabbaro su Via Po che
quando ti vede passare, ti allunga una patatina, senza chiederti nulla in cambio. Come il giovane smarrito in qualche viuzza
sbagliata, che ti chiede indicazioni, proprio a te, che sei più persa
di lui; e allora ci si avvia insieme, da qualche parte si arriverà.
Sono momenti in cui il mondo fa un rumore un po’ strano, tu
a malapena te ne accorgi, ma se ci presti attenzione lo senti, il
signore accanto a te che ha il singhiozzo. E magari ti viene da
ridere, e magari lui ti guarda, e magari una bella risata insieme
ve la fate.
A Torino i rumori sono un po’ troppi, per accorgersi sempre di
quelli che il mondo si fa scappare accanto a noi. Ci va un orecchio attento, o forse è meglio la stanchezza di una mattina gelata
e un pullman troppo affollato di gente con ombrelli troppo bagnati. A me è successo così.
Nel sobbalzare monotono dell’autobus ho scoperto una grande
verità: la vita non è altro che un atto di fiducia, un continuo,
inalterato, folle fidarsi. Per quanto la realtà ci possa deludere,
per quante sofferenze la vita ci abbia riservato, non possiamo
sfuggire a questa legge e, credo, non vogliamo.
La realtà è che se l’autista sbandasse sulla strada bagnata, probabilmente avrei sbagliato a fidarmi di lui. Ma conoscete altri
modi di vivere? Conoscete modi altrettanto belli di vivere?
Lo sguardo di un passante che si sofferma sui miei capelli disordinati, l’autore che ha scritto il libro che sto leggendo, la persona
svenuta alla fermata, la ragazza conosciuta a lezione, il vecchietto che rovista nel bidone mentre butto la pattumiera... Basta incrociare il loro sguardo una volta, o forse nemmeno, perchè la
loro storia mi riguardi.
E loro si fidano di me, perchè in quel brandello di loro vita che
mi lasciano intravvedere, sento tutto il loro modo di essere
uomini, e proprio in quell’istante, magari uno in tutta l’esistenza, tocca a me occuparmene.
E’ il meccanismo che manda avanti il mondo, è una storia che
fatichiamo a capire, perchè ci siamo troppo dentro, perchè è
l’unico vero modo di Esistere. Nell’altro uomo mettiamo radici.
In fondo se mi sentissi male per strada so per certo che ci
sarebbe qualcuno pronto a lasciar perdere il giornale che sta
leggendo per aiutarmi. So che se in una sera triste camminassi
sola per strada, troverei qualcuno che un sorriso pronto dietro le labbra ce l’ha. So che se correndo mi scontrassi contro
un vecchietto burbero, nel frattempo gli avrei lasciato qualcosa, fosse anche solo un livido sul braccio.
La nostra vita in fondo è grande quando la carta lucida di
una caramella, se la infila nel taschino chiunque ci incroci.
E se andrà male, pazienza: in fondo abbiamo anche noi un
taschino pieno di carte; le nostre preferite, quelle di cui ci
prendiamo più cura, quelle stropicciate, dimenticate, tenute
per ricordo, appiccicose o profumate di fragole. L’importante
è che in qualche momento, sparso qua e là nella nostra storia,
le sentiamo fare sul petto quel rumore che solo le carte delle
caramelle accartocciate sanno fare.
Basta ricordarci ogni tanto degli sguardi che abbiamo incrociato, delle mani che abbiamo stretto, per continuare lo spettacolo.
E credo che il mondo potrebbe fermarsi, tutto l’universo prendersi un attimo di pausa, quando su quel pullman, schiacciati
e annoiati, ci scappa insieme da ridere per qualcosa visto fuori
dal finestrino. In quel momento, nella mia risata amplificata
da quella degli altri, c’è tutta la forza per farlo ripartire.
Non basterebbe una vita per scrivere un libro su una sola volta
che si è usciti di casa. Ma in fondo a che servirebbe? E’ una
storia che conosciamo bene, che ci riguarda tutti. E’ una storia
bellissima.
pagina 14
progetto e
l passaggio dal disegno manuale a quello mediante
sistemi CAD, acronimo di Computer Aided Design
(in italiano: progettazione assistita al computer), ha
permesso un’evoluzione del concetto di progettazione. La progettazione ha lo scopo di realizzare un prodotto funzionante e innovativo, riducendo i costi e i
tempi di produzione attraverso lo sviluppo di metodi
altamente tecnologici.
Una volta progettata una macchina, un dispositivo o un qualsiasi
oggetto bisogna eseguire delle verifiche che servono per individuare quanto spazio occupa il mio oggetto, se l’oggetto riesce a eseguire la propria funzione senza rompersi o danneggiarsi e infine le
ultime sono le verifiche di protezione della sicurezza e della salute
dell’utilizzatore. Proprio per eseguire queste verifiche si decide di
costruire un prototipo.
Il prototipo può essere costruito con i materiali utilizzati nel prodotto finale o con materiali sostitutivi (legno o polimeri), metodo
questo meno costoso e più veloce. Per produrre un prototipo reale,
la tecnica più moderna utilizzata è la prototipazione rapida. Questa consiste nel trasformare un disegno CAD tridimensionale in
un modello matematico che suddivide il prodotto in strati, che a
sua volta sarà trasformato nell’oggetto reale mediante una prototipatrice rapida.
La prototipatrice rapida è una stampante che utilizza, al posto dell’inchiostro, una resina o un polimero, generalmente ABS
(Acrilonitrile Butadiene Stirene), sotto forma di fogli, fili, o polveri. Questo materiale viene posato su un piano tramite un ugello riscaldato che permette una microfusione e segue il percorso
dettato dal modello matematico derivante dal disegno dell’oggetto.
Depositato il primo strato, si passa al secondo, poi al terzo e cosi
fino a ottenere il prototipo finito.
prototipo
di Silvio Quaglia
Con il prototipo non si possono fare prove sulle sollecitazioni e la resistenza delle parti meccaniche, essendo il suo materiale differente da quello dell’oggetto da produrre. Per questo motivo si è sviluppata la
prototipazione digitale.Attraverso software CAD di
fascia alta si possono effettuare analisi, simulazioni e
calcoli di dinamica, cinematica, fluidodinamica e di
resistenza alle sollecitazioni. Queste prove possono
essere ripetute per infiniti casi differenti senza dover
costruire alcun prototipo. Un esempio è il caso di una
cassa legata su un ponte di una nave: il software simula
il moto ondulatorio delle onde e calcola la resistenza
delle funi e lo spostamento della cassa, tutto questo
senza caricare il prototipo su una nave e aspettare una
tempesta.
Questa tecnologia informatica non ha ancora soppiantato l’uso del prototipo reale, ma ha permesso di
estendere l’utilizzo delle stampanti 3D in altri campi,
come la produzione di palette dei turbocompressori
(attraverso la microfusione di polveri di metallo sinterizzato) o addirittura quello alimentare (stampaggio
di pasta asciutta).In un futuro prossimo le stampanti
tradizionali, presenti in casa, saranno sostituite con
quelle tridimensionali e ogni persona potrà produrre
oggetti di qualsiasi forma senza aver bisogno di capacità e conoscenze particolari.
pagina 15
emozioni
rivelatrici
di Davide Ghisolfi
on c’è niente di più umano delle emozioni. Noi
siamo rabbia, paura, disgusto, disprezzo,tristezza e felicità; siamo animali in grado di comunicare senza emettere suoni, animali che vivono
in gruppo e che la natura ha dotato di linguaggi
fisici per comprendersi universalmente. Il bello
di tutto ciò è che già dalla nascita possediamo
la capacità di capire cosa una persona sta provando; si tratta
però di un qualcosa di inconscio, dato che è il nostro cervello a tradurre il messaggio cifrato. Tutti noi ben sappiamo che
ogni emozione produce un comportamento differente a livello fisico: accelerazione del battito cardiaco, della respirazione,
dilatazione delle pupille o, per esempio, sudorazione.
Ma non tutti sanno che ad ogni sensazione emotiva viene
associato un determinato insieme di movimenti di muscoli
facciali. Essi sono involontari, noi non li controlliamo. Oggigiorno vengono studiati sempre di più, insegnati a membri di
polizia e forze dell’ordine di tutto il mondo per combattere la
criminalità e in generale migliorare le loro capacità di lie detector. Gli agenti devono imparare a diventare macchine della
verità, perché quelle meccaniche da film di spionaggio non
servono proprio a niente. Misurano la veridicità della risposta
semplicemente verificando la variazione del battito cardiaco
del soggetto, non curandosi del fatto che essa può variare a
seconda di che emozione prova. Posso essere completamente
innocente, ma essere così spaventato da avere il cuore a mille,
dire la verità, ma essere ritenuto colpevole. Per ovviare a queste lacune si sta costruendo una macchina che è in grado di
percepire le emozioni dell’interrogato attraverso l’analisi di ciò
che ho prima citato, potendo così aiutare l’interrogando a collegare l’emozione con la risposta che gli viene data e decidere
come strutturare l’interrogatorio. Per esempio, se alla domanda “ Lei ha mai conosciuto quest’uomo?” si risponde di no,
ma la macchina ha riconosciuto una manifestazione di rabbia
mista ad un aumento di temperatura corporea, allora significa
che l’interrogato sta mentendo, poiché nasconde risentimento
verso quella persona! Per cui non dimenticate che il vostro
viso è un libro aperto, l’emotività umana è più rivelatrice di
quanto pensiate.
via Valle Maira, 109 Confreria - Cuneo
tel 0171 613419 - cell 366 8314125
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pagina 16
Neanderthal
oihcceps olla
lank Institute di Lipsia, Germania. 2010, dipartimento di Genetica, un gruppo di scienziati coordinati da Svante Pääbo sequenzia il 60% del DNA
genomico ricavato da fossili di Homo di Neanderthal, provenienti dalla Croazia, Russia e Germania.
Dati sorprendenti emergono dalle ricerche: comparando i risultati ottenuti con il DNA di cinque
uomini provenienti da Europa, Africa Occidentale, Sudafrica,
Papua Nuova Guinea e Cina, si è scoperto che alcuni geni degli
uomini preistorici sono uguali a quelli ritrovati nel genoma degli
individui viventi analizzati, in particolare in quelli di origine non
africana. Da ciò la scombussolante deduzione che una piccola
parte del genoma umano, come noi oggi lo conosciamo, avrebbe
un’origine neandertaliana. Tutto questo ci porterebbe a sospettare episodi di incrocio tra la popolazione di Homo Sapiens e
di Neanderthal, probabilmente avvenute in un tempo successivo rispetto a quello dell’uscita dei primi uomini dall’ Africa, ma
precedenti alla diversificazione delle popolazioni umane nelle
diverse parti del mondo.
La scoperta è considerata tanto sensazionale perché prima d’ora
non si avevano prove concrete sull’avvenuta mescolanza tra le
due specie, anzi, le analisi sul DNA mitocondriale ne escludevano ogni possibilità. Con le ultime scoperte, la scienza riscrive
la storia, o meglio, la preistoria: se prima si pensava che i Neanderthal e i Sapiens non avessero nulla a che fare, ora invece lo
scenario più plausibile sarebbe l’opposto.
Tuttavia emerge una contraddizione: nel DNA dell’uomo di Neanderthal non ci sarebbe traccia del nostro DNA, nonostante sia
stato provato che nel nostro DNA ci siano tracce dell’uomo primitivo. Ciò può essere spiegato con il fatto che a seguito dell’ibridazione tra le due specie diverse, la quantità di ominidi di
origine Sapiens è aumentata enormemente rispetto a quelli di
Neanderthal, determinando la riduzione dei suoi geni presenti
nella popolazione, andando incontro ad una progressiva riduzione ed estinzione di questa specie, così come degli effetti dell’ibridazione.
Sono sopravvissuti infatti solo quegli ibridi che portarono con sé
mutazioni favorevoli all’ambiente. Per questo motivo la maggior
parte degli ibridi sono andati incontro ad estinzione. E furono
quelle stesse mutazioni poi, ad essere state portate avanti nel
corso dell’evoluzione, tratti genici che possediamo ancora oggi,
e che ci distinguono da qualsiasi altro primate. È interessante
notare che la maggior parte dei geni che ci contraddistinguono
sono quelli relativi alla pelle, alle funzioni cognitive, al metabolismo e alla formazione di specifiche strutture ossee.
di Ylenia Arese
Milioni di miliardi di anni di evoluzione per arrivare ad essere fatti così come siamo. Delicati connotati visivi, pelle
liscia e glabra, mandibola e arcate sopracigliari meno prominenti, arti superiori più corti, che non toccano il suolo,
la stazione eretta. È stupefacente la strada che Madre Natura, Dio, il signor Caso, o comunque voi vogliate chiamarlo,
hanno compiuto su materia organica trovatasi, forse per
caso, su un pianeta creatosi, forse per caso, in una galassia
generatasi, forse, per caso. Che sia per casualità o per un
disegno divino, nulla viene tolto alla genialità e alla perfezione di cui oggi, noi siamo portatori. Il complesso meccanismo che ci permette il semplice gesto di alzare un dito,
oppure, immaginare come possa originarsi il pensiero, la
parola, la nostra capacità di astrazione. Questo misto di
genialità, complessità e perfezione sono il frutto di un processo evolutivo che ci ha portato, nel corso di miliardi di
milioni di anni, a camminare sugli arti inferiori, a prendere
in mano una penna, a dare senso a una parola, a pronunciare quella parola. È lo stesso meccanismo che ci ha portati
ad essere Homo sapiens sapiens. A perdere peli superflui,
assumere connotati più delicati, ridurre la dimensione della mandibola, indossare i vestiti, saperci umani e uomini,
quali oggi ci riconosciamo allo specchio.
Milioni di miliardi di sforzi, vittorie e sconfitte, sbagli e mutazioni, ci hanno portato fin qui, così come siamo, ma non
basteranno altrettanti anni per capire pienamente il perché,
il come. Non ci sarà abbastanza tempo e non avremo mai
sufficienti mezzi per dare una risposta esauriente ad ogni
domanda, che oggi abbiamo la capacità di porci, sulla nostra origine. Questo perché le meraviglie non si possono
esaurire nelle risposte finite. Ma anzi, ogni domanda si apre
in un universo di ulteriori interrogativi. Non riusciremo
mai fino in fondo a capire come e perché siamo fatti così,
ma questo non vuol dire che la curiosità si affievolirà, anzi,
si rinvigorirà.
Perché per capire chi siamo oggi, è necessario saperci riconoscere anche in chi eravamo. Per capire cosa potremo fare
in futuro, come ci potremo evolvere, è necessario capire
come abbiamo fatto ad essere chi siamo. Per essere davvero
consapevoli, dobbiamo conoscere le nostre radici. Per poter diventare chi vogliamo, dobbiamo partire dalle nostre
origini. E non parlo solo in termini evoluzionistici. Nella
storia dell’uomo, come nella storia di ogni uomo.
terra vs
kepler 186f
Risale al 18 aprile 2014 l’annuncio della Nasa
sulla rivista Science che dichiara la scoperta
dell’ennesimo pianeta. Si chiama Kepler 186f,
ma non è il solito sterile ammasso roccioso
come i mille altri pianeti che si scoprono ogni
giorno nell’universo che ci circonda. Kepler 186f
possiede qualcosa di più: tracce di acqua, tracce
di vita. Il nuovo pianeta sembra avere notevoli somiglianze
con il nostro Pianeta Terra: è composto da una massa rocciosa, ha raggio simile e si troverebbe ad una distanza perfetta
dalla sua stella nana rossa chiamata Kepler 186 (l’equivalente del nostro Sole nel Sistema Solare), che gli consentirebbe
lo sviluppo della vita. Infatti grazie a questa distanza l’acqua
potrebbe trovarsi in forma liquida. Il tempo di rivoluzione
attorno al suo sole è di 130 giorni, mentre il moto di rotazione attorno al proprio asse sembra essere più lento rispetto a
quello terrestre, in quanto la distanza dalla sua stella è minore rispetto alla distanza Terra-Sole.Kepler 186f si colloca in
una fetta precisa di universo, chiamata “zona abitabile”: è la
porzione di infinito in cui sono stati trovati negli ultimi anni
circa duemila pianeti, dove però è impossibile ipotizzare l’esistenza della vita. Kepler 186f rappresenta l’unica eccezione,
ma gli animi dei più entusiasti devono essere riportati con i
piedi per terra.
di Camilla Dutto
Perchè ci sia vita infatti, è necessaria la combinazione di diversi
fattori, come la presenza dell’atmosfera e la tipologia dei gas che
la compongono e, tanto per cominciare, essa è tutt’ora sconosciuta e sarà difficile studiarla in futuro, a causa della grande
distanza rispetto alla Terra e degli strumenti a disposizione. Ma
per questo si stanno già mettendo in moto interi team di scienziati determinati a progettare strumenti ancora più sofisticati,
per ottenere informazioni sempre più precise.
Con la scoperta di Kepler 186f sono stati individuati anche altri
quattro pianeti ruotanti attorno alla stessa stella, ma sono troppo caldi e vicini ad essa per consentire la presenza di acqua in
forma liquida. È molto difficile stabilire la sua età, ma si ipotizza
che questo sistema si sia sviluppato circa due miliardi di anni fa,
poco meno della metà del Sistema Solare.
Stupitevi quando vi dico che il nostro Sistema Solare è nato circa
quattro miliardi di anni fa. C’è voluto tutto questo tempo per
consentire all’evoluzione di darci la parola, il pensiero, il movimento. Stupitevi quando alzate un dito, una cosa così banale
direte voi, ma vi prego percepitene l’implicita complessità. Miliardi di anni di evoluzione per permettere agli uomini di domandarsi cosa ci sia al di là delle stelle. La scienza che studia
i mondi dell’aldilà, non ha che lo scopo di risolvere gli interrogativi legati alla nostra identità. Perciò stupitevi di fronte ad
ogni pianeta scoperto che porta in sé la formula della vita, in
qualunque forma essa sia. Stupitevi quando di notte alzerete lo
sguardo in direzione della costellazione del Cigno. Proverete a
immaginare la distanza di cinquecento anni luce dalla Terra, e lì,
troverete Kepler 186f. Lì, forse, troverete la vita.
pagina 18
Dai banchi
leopardi era
pessimista
di Margherita Schellino
eopardi era pessimista. Montale aveva il male di vivere. D’Annunzio no, lui ci sapeva fare, ma era un
po’ fascista. Foscolo era un illuso. Nietzsche era nazista, ma le sue idee sul superuomo non erano niente male. Schopenhauer invece... peggio di Leopardi
se possibile. Tasso? Un pazzo, che pensava solo ad
andare d’accordo con la Chiesa. Dante non ne parliamo, poteva evitare di scrivere un poema così lungo che ora ci
tocca trascinarcelo per tre anni consecutivi. Non se ne salva uno,
insomma. Sembra che tutti loro abbiamo vissuto per questo, per
essere liquidati con una certa spavalderia da qualche anonimo del
futuro. E non mi rivolgo certo a chi di questi autori non ha mai
letto nemmeno una riga, ma a chi, per l’interrogazione del giorno
dopo, si è già ritrovato a dover sacrificare il proprio pomeriggio
per qualche stramaledetto poeta o filosofo, e soprattutto si è anche sforzato di capirlo ­come è successo a me, d’altronde. Perché
insomma gli stereotipi di questo tipo sono così superficiali, che
spero nessuno ci creda davvero. In effetti no. Però qualcosa di
vero c’è: Leopardi era davvero pessimista, questo non lo si può
negare. E aggiungerei che era così solo perché era gobbo e brutto.
L’hanno pensato tutti, questo. E poi hanno chiuso il libro di italiano, soddisfatti di aver imparato cosa significa natura maligna e
ancora più soddisfatti per aver confermato la propria convinzione: Leopardi era pessimista, punto e basta.
pagina 19
E si è anche pronti a citare, con una certa facilità, che nessun ragazzo sano di mente
dedicherebbe la sua giovinezza ad uno “studio matto e disperatissimo” -­l’ha detto
Leopardi eh, mica io! ­e che avrebbe fatto meglio a godersi la vita e farsi avanti con
Silvia prima di diventare così. Fine della storia. E così ogni scrittore ­poeta, filosofo,
artista, e chiunque sia entrato a far parte di un libro di scuola ­rimane nulla più che
un nome. Un nome, sì: Ungaretti, Virgilio, Hegel, Petrarca. Un nome e qualche opera scritta ­e speriamo che di opere non ne abbia scritte troppe. Ma davvero non sono
nient’altro che un nome? Certo che no, sono delle persone. Ungaretti ha partecipato
alla Prima Guerra Mondiale, Virgilio è vissuto a Roma, con Augusto credo, Petrarca
invece visse nel Medioevo, e amò Laura. Insomma, sulle biografie siamo più o meno
ferrati, specialmente prima del compito in classe. Ma forse conoscere davvero uno
di loro non significa saperne recitare vita morte e miracoli, perché così facendo egli
continuerà a rimanere null’altro che un nome per noi. Un nome e qualche opera,
ripeto. Per esempio, immaginate di diventare famosi: non necessariamente come
scrittori, ma abbastanza famosi da essere ricordati per molti secoli. E un giorno, tra
molti secoli, un altro anonimo del futuro leggerà la vostra biografia, che all’incirca
inizierebbe così: “Tal dei Tali, nasce a Cuneo nel 1997, frequenta il Liceo di Cuneo,
si laurea, ecc”. Ecco. I primi vent’anni della vostra vita riassunti in una decina di
parole. Qualsiasi cosa abbiate fatto per essere diventati famosi, tra qualche secolo
sarà facile giudicarvi, e liquidarvi con due parole da parte di chi, con una certa arroganza, sarà certo di aver capito tutto di voi. Ma come? E io che a volte non riesco
nemmeno a farmi capire dal mio migliore amico, e che ieri ero così triste e oggi sono
così felice. Questo non lo ricorderà nessuno? Inutile far notare quanta densità di vita
c’è in ogni nostra giornata, quanti sentimenti, quante passioni, gioie e dolori ognuno di noi abbia già vissuto. E sono quindi sicura che nessuno di noi si lascerebbe
mai giudicare da qualche sconosciuto che tra qualche secolo potrebbe leggere per
un’interrogazione il nostro nome, e magari la data di nascita. Gli diremmo che non
può capire un bel niente, che non ha idea di quello che stiamo vivendo. Ma noi degli
scrittori passati non sappiamo solo il nome. Leopardi era pessimista per quello che
ha scritto, mica per il nome. Certamente noi uno scrittore lo conosciamo per le sue
opere. Ma forse ammettere che in realtà non lo conosciamo affatto, e che quindi non
possiamo giudicarlo, è già un primo passo. E io sarò ben disposta a dialogare sul
pessimismo di Leopardi, sulla pazzia di Tasso e sulla depressione di Schopenhauer
con qualsiasi persona che, senza illudersi di avere la risposta in tasca, ammetta di
non avere nessun diritto, né nessuna capacità, di giudicare ogni vero genio del passato.
Cari giornalisti studenti, amate scrivere? Siete parte della redazione del
giornalino scolastico e volete condividere tramite noi i pezzi migliori con
gli altri istituti? Inviaci a [email protected] i tuoi articoli,
ci pensiamo noi a portarli nelle scuole
e agli altri studenti.
pagina 20
di Sofia Ostellino
passato ed eccentricità
l “meglio” non esiste. Posti di fronte a varie alternative, ci rendiamo conto che nessuna sarà quella
giusta.
Le “strade giuste” non esistono. La “scelta” non esiste. Posti di fronte a varie alternative, ci rendiamo
conto che usare la parola “scelta” sia il peggior errore lessicale, giusto perché essa non sussiste. Nel
mondo ci sono molte possibilità, ma non scelte.
La “possibilità” esiste. Ogni, volgarmente chiamata, “scelta” non
è altro che una “possibilità”. Il paragone migliore che viene in
mente è il classico bivio nella foresta, al freddo e al buio. La “scelta”, più che un bivio, è un atterraggio. Nel momento in cui ponderiamo una decisione, voliamo nel cielo delle alternative e ci
lasciamo distrarre dalla forma delle nuvole, ovvero permettiamo
agli infiniti “...e se” di prendere il sopravvento e di disegnare, con
il vapore, le vite che possiamo imboccare “scegliendo”. Mentre
voliamo e pensiamo ci avviciniamo sempre di più alla pista di
atterraggio: non vorremmo mai “scegliere”. Solo i pigri volano in
eterno. Contro di essi nessuno ha potere.
La pista di atterraggio termina però con un precipizio. La nostra
libertà ci permette solo di scegliere in che punto del precipizio
caracollare, ma la fine sarà la stessa. Dov’è dunque la “scelta migliore”? Tutto conduce al peggio. Perché il meglio sarebbe avere
la sicurezza di mettere i piedi a terra e starci, senza problemi,
senza preoccupazioni. La realtà ci dice, invece: “Ehi, atterra dai.
Buttati anche se non è morbido. Lo vedi quel masso là? Magari
ti va bene e ti ci siedi sopra. Lo vedi quel cespuglio? Magari ci
guadagni e ti adagi sui suoi rami senza lividi. Pensa, forse sotto il
masso c’è una vipera. O sotto il cespuglio c’è solo aria. Prova, vedi
Tutto dipende da chi siamo nell’esatto istante in cui ci assumiamo la responsabilità di optare per una possibilità piuttosto che per un’altra. Dopo aver visto cose, sentito cose e
parlato di altre cose, cambiamo. È come essere tra gli scaffali del supermercato: è sicuro che saremo più o meno propensi ad acquistare ciò di cui abbiamo visto, giorni prima,
una suadente pubblicità. Ho detto che non esistono il “meglio” e la “scelta” perché sono a favore dell’errore: di per sé,
ogni cosa risulterà sbagliata in un senso piuttosto che in un
altro. Oggi potremmo scegliere di atterrare sul sasso mentre
domani potremmo optare per il cespuglio. Tutto è potenzialmente giusto. Tutto dipende da cosa incontriamo per
strada, quel qualcosa che dirigerà il nostro volo. Tanti pensatori, pontificando, ci dicono che siamo sostanzialmente
liberi e che il libero arbitrio è presupposto imprescindibile
per definirci umani. La realtà, mi pare, è un’altra.
Viviamo e ci muoviamo in una società già formata e plasmata da altri prima di noi: quando nasciamo ci caliamo
in un mondo già confezionato a cui difficilmente potremo
adattarci in una vita.
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Come possiamo crederci liberi se tutto quello che conosciamo
è frutto di quello che ci circonda, che a sua volta è dipeso da
fatti a cui non abbiamo partecipato?
Durante il fantasmagorico volo verso il crepaccio delle decisioni sentiamo nelle vene il brivido dell’essere padroni di noi
stessi e lasciamo che questa sensazione pervada ogni nostra fibra, senza ritegno. Quante volte abbiamo riso con il nostro ego,
sicuri che quel “sono grande e padrone di me stesso” fosse il
principio su cui costruire ogni certezza?
Combattiamo delle guerre, scendiamo a patti e stringiamo
mani cercando di stemperare tensioni antiche, ma è questa la
libertà? Libertà vuol dire prendersi la responsabilità per crimini non commessi? Liberà vuol dire curare ferite che non
avremmo mai inflitto? Libertà vuol dire crescere su terre divise
che noi avremmo voluto vedere unite? Libertà è accollarsi responsabilità, credendo di sceglierle spontaneamente, che nessuno ha risolto prima di noi, giusto perché “se non lo faccio io,
chi lo fa”? Lasciare ai posteri questioni da risolvere, è potere?
E noi, noi che viviamo nel futuro e nel presente, siamo certi di
non vivere solo ed esclusivamente nel passato?
Per quanto mi riguarda, potremo solo esistere nel passato.
Creiamo un futuro, ma questo non sarà mai il nostro. Esso
apparterrà ai Figli, ai Nipoti. Viviamo nel presente solo per
risolvere i guai degli Avi. Ergo, siamo passato perché esso ci
determina. Ergo, non siamo liberi, ma determinati. Forse solo
qualcuno potrà fare un salto oltre il crepaccio di cui parlavo prima magari con una rivoluzione, una scoperta, un’idea
stramba. Quello che ci salva, Lettori cari, è l’eccentricità. Dobbiamo avere quella spinta ed essere soggetti alla giusta velocità
di fuga che ci permetta di balzare fuori dal loop in cui il Passato ci imbriglia. Dobbiamo essere alternativi per creare un
percorso contemporaneamente parallelo e collaterale a quel
circolo vizioso. Dobbiamo osare.
Sbagliando, si impara? No.
Osando, si impara.
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Searching for Sugar man
di Agnese Lerda
iglio di immigrati messicani, Sixto Rodríguez viene scoperto
alla fine degli anni Sessanta in uno sperduto locale di Detroit,
dove si è fatto notare per le sue canzoni di protesta. Firma un
contratto con una casa discografica e incide due dischi, ma i
sogni di gloria svaniscono in fretta, i dischi non hanno successo e nel giro di pochi anni Rodríguez abbandona la musica e si
ricicla come muratore, guadagnando a mala pena per sfamare
la sua famiglia.
Sarebbe una storia come tante, un cantante fallito costretto all’oblio, la condanna peggiore per ogni rockstar.
Invece Sixto Rodriguez, incredibilmente, è l’unico cantautore diventato una
rockstar senza saperlo. Importati in Sud Africa da una persona sconosciuta,
i suoi dischi conoscono un successo enorme. All’insaputa di Rodriguez, il
disco Cold Fact diventa disco d’oro ed in seguito di platino.
I giovani trovano nei testi impegnati in difesa delle classi più povere un
eco alla loro rivolta: diventa in breve tempo un simbolo della rivolta contro
l’apartheid.
Canzoni come “Sugar man” e “Street boy” accompagnano le manifestazioni contro la segregazione e il servizio militare, diventando “più grande dei
Rolling Stones”.
L’album è così censurato e tutti gli esemplari in circolazione confiscati, ma
le radio pirata continuano a trasmettere le sue canzoni nonostante i divieti. Nonostante la fama raggiunta, non si conosce nulla della vita di questo
cantante: tutti sono convinti che sia morto; si diffondono varie versioni: si
è suicidato durante uno spettacolo, è morto per overdose, alcuni affermano
pure che si sia dato fuoco.
Stephen Segerman, un venditore di dischi di Città del Capo, non convinto da queste storie, nel 1996 crea
un sito Internet, “The Great Rodriguez Hunt”, per condividere le informazioni trovate sul misterioso Rodriguez.
Per una fortunata combinazione, la figlia maggiore di Sixto scopre il sito e si mette in contatto con Segerman: Rodriguez non è morto, vive ancora nella periferia di Detroit, dove da più di trent’anni lavora come
manovale, all’oscuro del suo successo. Come nelle migliori storie a lieto fine, Rodriguez, venuto a conoscenza del suo incredibile successo, nel 1998 vola in Sud Africa; qui viene accolto da milioni di fan che
non si capacitano di vedere l’idolo di intere generazioni e voce della loro ribellione, vivo, cantare davanti
ai loro occhi.
I suoi concerti registrano sempre tutto esaurito. Sulla straordinaria epopea di Sixto Rodriguez e sullo lo
sforzo dei fan sudafricani intenti a rintracciarlo, nel 2012 è stato realizzato il documentario “Searching for
Sugar Man”, vincitore nel 2013 dell’Oscar come miglior documentario.
“Thank’s for keeping me alive!” disse Rodriguez ai suoi fans durante quello che fu il suo primo concerto
dopo quarant’anni. A ricordare quanto la vita, anche di nascosto, ci possa offrire, e quanto speranza e fortuna possano portare lontano le nostre azioni quotidiane.
Photologia
“Andai a Marsiglia. Un piccolo assegno mi
permetteva di tirare avanti e lavoravo con
gusto. Avevo appena scoperto la Leica. Divenne il prolungamento del mio occhio, e
da quando l’ho trovata non me ne sono
più separato. Vagavo tutto il giorno per le
strade, sentendomi molto teso e pronto a
buttarmi, deciso a “prender in trappola” la
vita, a fermare la vita nell’atto in cui veniva vissuta. Volevo soprattutto cogliere, nei
limiti di un’unica fotografia, tutta l’essenza
di una situazione che si stava svolgendo
davanti ai miei occhi.”
Henri Cartier-Bresson
e luce
fu
di Fabrizio Garelli
la luce che ci ha portato fino a qui, il più delle volte inconsapevoli
dell’atto fotografico, inconsapevoli del manifestarsi dell’oggetto
che va oltre la volontà delle nostre scelte stilistiche e personali, anche quando sentiamo che quel che abbiamo immortalato è quello
che abbiamo profondamente pensato.
Il risultato che appare è una sorta di magia chimica o elettronica
generata dall’azione della luce su materiali sensibili e non un’opera
prodotta dalle nostre mani, accessori meccanici che ci ingannano, che instaurano in noi la supposizione di poter sottomettere alle nostre esigenze il mondo
che ci circonda. E’ in questo atto di coscienza tecnologica che la luce, come
elemento naturale basilare, ci destabilizza ma ci riconduce ad uno stato di viva
presenza, un collegamento tra il conscio e l’inconscio.
Accettare la fotografia come una presenza viva o come una mera rappresenta
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Mania
della fotografia?
L’ obiettivo è il tuo terzo
occhio? Allora inviaci i tuoi scatti!
Ogni mese, 1000miglia ti propone un
concorso a tema. Le prime 3 fotografie
selezionate verranno pubblicate
nel numero successivo! Scriveteci nome
cognome, titolo delle fotografie, scuola e
classe frequentata.
Concorso del mese:
zione della realtà?
Il gesto fotografico ci può permettere una spontanea relazione tra noi ed il soggetto ripreso, è uno strumento di indagine
rivelatore verso nuovi universi paralleli alla nostra vita quotidiana, un’esperienza data dalla grande energia evocativa trasmessa dalla luce e trasportata al nostro livello di coscienza.
E dunque potremmo supporre che la fotografia non sia una
rappresentazione di un ricordo ma più che altro un’esperienza,
una memoria-oggetto. Confondere il senso della fotografia con
il senso del soggetto fotografato potrebbe essere il malinteso
concettuale di molte riflessioni interpretative dell’atto fotografico in genere.
“Venire alla luce”, è la nascita di ogni cosa, è la priorità su cui
anche la fotografia fa riferimento, la luce è l’elemento concomitante che genera, che media e che permette il relazionarci con il
resto dell’esistente. Forse, ponendo l’attenzione sul linguaggio e
non sull’oggetto in sè, si potrebbero avviare considerazioni sui
limiti, non solo scientifici, che la fotografia ha, non può essere
onnicomprensiva, ogni ambito ha il suo “codice” strutturato
su un linguaggio che deriva da esperienze culturali. Il fatto più
interessante che può scaturire è comunque proprio la commistione tra questi linguaggi, che annullano la specificità di ogni
singolo per aprirsi ad una nuova esperienza sensoriale condivisa.
Chissà se questo trasferimento da un contesto specifico ad un
contesto diverso e più ampio farà si che la comune fotografia
diventi una sorta di storia della luce e delle sue applicazioni,
certamente avremmo meno potere sulla “memoria-oggetto” e
trasformerà il nostro sguardo non più in una nostra personale
testimonianza di vita ma anch’esso diventerà una cosa, come
tutte le cose esistenti al mondo.
Forse hanno ragione i primitivi ad avere quel “vago terrore “
di essere fotografati, quel pauroso dubbio che l’infernale marchingegno ti carpisca l’anima o ti rubi una di quelle infinite
immagini spettrali di cui è composta la nostra persona.
Pensieri
d’inverno
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i quattro
elementi
“Aria” Emanuele Bessone - 1° classificato
“Acqua” Barbi-94 3a classificata
foto del mese
“Terra” Gaia Bruno - 2a classificata
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Foreign opportunities
pARTI ITALIANO
TORNi “GLOBAL CITIZEN”
di Cecilia Sponza
Riaprono le iscrizioni per partire in stage con AIESEC Torino
Torino, 2 ottobre 2014 – AIESEC Torino apre le iscrizioni per
partire in stage con il programma MOVE Impact nei mesi di
ottobre, novembre e dicembre.
“Il primo pensiero è stato: devo scappare. Dopo 3 giorni non
volevo più saperne di tornare. Ho passato sei settimane fantastiche, conoscendo persone meravigliose e mi sono sentito come
rinato.”
“Quest’ estate ho trascorso sei settimane nel regno del Bahrain,
isola nel mezzo del Golfo Persico, e posso tranquillamente dire
che è stata l’esperienza più bella della mia vita.”
Queste le parole con cui Daniele e Marco descrivono le loro
esperienze rispettivamente in Brasile e Bahrain. Entrambi
quest’estate hanno deciso di partire per uno stage di volontariato
del programma MOVE Impact e diventare dei “Global Citizen”.
I motivi che spingono gli studenti universitari a partire per uno
stage con AIESEC sono diversi, ad esempio “bisogno di una
nuova prospettiva.” - come dice Daniele, ma anche la voglia di
scoprire nuove culture, di mettersi alla prova e di collaborare
con studenti di tutto il mondo.Il programma MOVE Impact,
infatti, permette agli studenti universitari di allontanarsi dall’Italia per poi tornare arricchiti dalle sei settimane di esperienza
all’estero.
L’opportunità è rivolta a tutti gli studenti universitari al di sotto dei 30 anni e laureati da meno di due anni, che vogliono
vivere un’esperienza all’estero migliorando la lingua inglese e lavorando all’interno di un team internazionale per la realizzazione di progetti incentrati su tematiche quali: educazione multiculturale, diritti umani e collaborazione con le NGO.
Le partenze sono previste a partire da ottobre 2014, e le principali destinazioni sono: Serbia, Egitto, Bharein, Brasile, Argentina e India.
Attraverso AIESEC, i ragazzi vengono preparati e supportati nella ricerca e nel conseguimento dello stage, che si pone come
obiettivo un’importante crescita personale, una migliore comprensione di nuove culture e dei problemi globali e l’acquisizione di soft skills che favoriscono il posizionamento sul mercato del lavoro.
“Grazie al progetto Colors of Bahrain di AIESEC Manama ho avuto l’opportunità di conoscere usi, luoghi, tradizioni del
mondo arabo e della nazione, sospesa tra le abitudini islamiche come il periodo del Ramadan e la ricca lussuosa modernità.
Insieme agli altri stagisti provenienti da tutto il mondo, abbiamo tradotto ciò in contenuti multimediali promozionali a
scopo turistico e di marketing.L’esperienza è stata formativa, divertente, coinvolgente, indimenticabile. Ho migliorato il mio
inglese, conosciuto molti nuovi amici sparsi per il mondo, lasciato un pezzettino del mio cuore in Bahrain.”
Per partecipare agli stage di volontariato è necessario compilare un form online che si trova al link http://aiesec.it/move/
subscribe/ , in seguito ci sarà la possibilità di partecipare ad eventi informativi organizzati da AIESEC. I candidati saranno
poi intervistati per verificare i requisiti richiesti, una volta superata la selezione potranno accedere alla piattaforma online
dove vengono registrati tutti i possibili stage di volontariato. Ogni studente in partenza viene seguito direttamente da un
ragazzo dell’associazione e prima di partire potrà anche partecipare a un seminario di preparazione al viaggio.
“Non so se l’ho trovata, ma ho vissuto un’avventura incredibile e, se ci fosse la possibilità, ritornerei.Galera, obrigado para
tudo (grazie di tutto, ragazzi).”
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di Tommaso
Marro
Da grande
voglio fare il
pompiere
uglio 2014 – Esco di casa rabbrividendo, sfilo
per le silenziose strade del centro e appena fuori dalle mura cittadine trovo la tramontana che
mi accompagna leggera nel mio abituale tragitto
mattutino. Ad accogliermi sono le consuete facce allegre dei bambini, pieni di vitalità a qualsiasi
ora del giorno e della notte, pronti ad iniziare una
nuova giornata colma di attività insieme. Come mi sia venuta
in mente questa idea di fare l’animatore non lo so, in Francia
per di più, non parliamone. Una catena di occasioni mi ha travolto in questa avventura e non mi ha lasciato il tempo di riflettere sulle mie scelte.
“La vera felicità è quando non ti chiedi se sei veramente felice”
mi disse una volta un amico e, solo adesso che mi ritrovo senza
pensieri ad apprezzare ogni giorno come un’esperienza unica,
capisco a fondo le sue parole.
Mi sento parte di un progetto che coinvolge ogni persona che
mi circonda, ogni vicolo desolato di questo posto, ogni minimo misterioso anfratto che ogni giorno mi induce a proseguire
il mio cammino, anzi, la mia corsa, spinto dall’impulso della
curiosità. Così ogni volta che rientro dal lavoro la voglia di tornare a casa diminuisce con l’avvicinarsi della porta d’ingresso,
perché rinchiudermi in una stanza buia quando là fuori c’è un
mondo tutto da scoprire? Cambio direzione e mi infilo in strade sconosciute, attacco bottone con estranei e mi faccio trasportare nel mondo della spensieratezza per il puro gusto di
soddisfare la mia irrefrenabile voglia di non perdermi nessun
istante di questa meravigliosa città.
Ma oggi c’è qualcosa di nuovo ad attendermi. Le strade del
centre-ville sono interamente tappezzate da cartelloni di ogni
forma e grandezza, curiosi personaggi mi vengono incontro
per lasciarmi tra le mani una colorata pubblicità del loro spettacolo e un insolito affollamento di valigie turistiche scombussola i ritmi provenzali della città: il Festival del Teatro di Avignone ha ufficialmente inizio. Il più vasto panorama teatrale
europeo, che offre più di 900 rappresentazioni e raccoglie nella
città francese migliaia di persone si tiene ogni anno nel mese
di luglio e cambia completamente la faccia e i ritmi di vita di
questa città.
Non solo immense code fuori dai piccoli teatri che spuntano
ad ogni angolo, ma anche spettacoli di strada di artisti da tutto
il mondo contribuiscono a trasformare l’atmosfera in un misto
di esuberanza e vitalità che travolge in primo luogo gli abitanti
oltre agli immancabili turisti. Mi perdo nei giorni seguenti abitualmente tra gli sguardi intensi della gente e cammino fino a
ritrovare la via di casa.
Quando ho modo di sedermi di fronte ad un palco, che io sia
in un teatro per pochi intimi o un semplice punto in un’enorme
sala colma di gente, sempre le stesse emozioni risalgono la mia
colonna vertebrale e mi coinvolgono appieno nello spettacolo.
Guardando gli attori che interpretano personaggi di ogni tipo
e mestiere, il ricordo mi trasporta alla mia infanzia, ai tempi
in cui il mio futuro rimaneva un’incognita costante ma in cui
avevo ogni giorno un’idea quasi ferrea di cosa sarei diventato
da grande. <<Mamma, da grande voglio fare il pompiere! L’astronauta! Il medico! Lo scienziato!>>, vorrei vedere cosa ne
penserebbe adesso il bambino che voleva cambiare il mondo,
osservando quello che sono diventato e le scelte che ho attuato finora. Sicuramente però vorrei avere ancora il coraggio di
quel bambino, che seguiva fino in fondo le sue intuizioni e i
suo sogni senza lasciarsi sgualcire dal pensiero altrui, per non
lasciarmi sfuggire le occasioni che la vita costantemente mi
propone. Ritrovo questa spensieratezza e determinazione negli
occhi dei fanciulli con cui faccio l’animatore ogni giorno e immancabilmente mi assale il pensiero che senza quella vena di
intraprendenza infantile probabilmente non sarei qui in questo
momento. In quante esperienze mi sarei realmente buttato, se
mi fossi fatto condizionare dalla mentalità chiusa della società
d’oggi? E cosa avrebbe pensato a quest’ora quel bambino che
aveva come motto la frase di E. Roosevelt “Il futuro appartiene
a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”? I suoi occhi me li porto dietro ancora oggi, e nascondono nel profondo
tutte le speranze di un ragazzo che inseguirà affannosamente
tutte le avventure possibili, pur di riuscire a realizzare i sogni
di un curioso bambino.
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Casa è mondo
di Ylenia Arese
asta, pizza e mafia. Per un australiano l’Italia è questo. Surf, barriera corallina e canguri. Per un italiano, invece, questa è l’Australia. Che si viaggi con
l’intento di tornare, o con quello di restare, lo scambio è garantito. Londra è una capitale multinazionale: lingue provenienti da ogni angolo di mondo,
fisionomie a ricordarci il valore della diversità, occhi che hanno visto chissà quali meraviglie, chilometri di distanza riuniti in una sola città.
Quartiere Soho, in un qualunque Starbucks, dipendenti indiani ti preparano il caffè. Sorridono e proponendoti un assaggio
della famosa english breakfast, ti salutano con un “Buongiorno”
dall’accento straniero. Anche se qui, il termine “straniero” quasi non esiste. Scendi in metro, ed ecco, una civiltà quasi disarmante: la moltitudine si muove senza intralciare nessuno, l’organizzazione non lascia spazi a ritardi, e la prevenzione corregge
i guasti. Fuori dalla metro, due controllori di origine africana
a testare il corretto funzionamento dei totem all’uscita. È immediato il paragone italiano: a Torino i controllori hanno paura
degli immigrati neri che viaggiano sui pullman, tanto da venir
meno al loro lavoro, non controllando i biglietti.
Quartiere di China Town, il cielo si fa rosso e a scritte cinesi sopra Londra. Una spagnola ci chiede di fargli una foto, favore poi
ricambiato. Ci congediamo con un “Muchas gracias” e un sorriso, con direzione ristorante cinese. La cultura culinaria cinese,
con la nostra mentalità italiana, poste in contatto dalla lingua
inglese, da considerarsi patrimonio dell’umanità. In un comune McDonald londinese, incontriamo Giulia, che ci riconosce
dai nostri discorsi in italiano, e che ci racconta un po’ di sé. Lei
studia a Milano, vive a Londra; con il lavoro riesce a mantenersi
da sola. È arrivata qui che non sapeva una parola di inglese, lo
testimonia il fatto che ha tentato per dieci volte l’esame di inglese
prima di passarlo. Qualche giorno di disorientamento, qualche
settimana per adattarsi, e poi eccole, le radici. Non se ne andrà
più via da lì. Così come Andrea, che lavora in coppia con il suo
amico inglese in un Caffè nero, che riconosciamo dalla pronuncia di un inglese troppo scandito.
E’ qui da qualche mese, ma è già casa sua. Giovani che con
coraggio e un po’ di ingenuità, hanno deciso di trasferirsi
all’estero, così come anche Emanuele, inserviente di un altro
McDonald, che sogna in grande, ma per il momento, viene
preso in giro da un gruppo di nigeriani che cena con hamburger e patatine. È un razzismo per noi inconsueto, che ci
lascia stupefatti, perché in mezzo a tanta civiltà, ebbene sì,
rimane ancora questa ignoranza, per fortuna sporadica, che
fa credere inferiori i diversi.
La sera in ostello, a parlare con Josh, Tim e Troy, australiani
di nascita, spiriti di mondo. Noi a sforzarci di capire il loro
inglese stretto e ad esprimerci nel nostro inglese scolastico, e
loro a farsi capire, parlando lentamente; perché ancora una
volta l’inglese è il ponte, l’elemento comune di due civiltà,
poste agli antipodi del mondo. Acquistato un camioncino,
con dei soldi da parte, hanno viaggiato per tutta l’Europa,
meravigliandosi della Sagrada Familia di Barcellona, dei paesaggi della Croazia, e avendo visitato più Italia di quanta
ne abbia vista io. Siamo fortunati noi, dicono, che sappiamo
parlare –a loro dire- due lingue, l’inglese e l’italiano, e che
viviamo in Europa, il sogno di ogni australiano. Infatti Josh,
pensa di trasferirsi proprio a Londra, perché in poco tempo potresti raggiungere qualsiasi città d’Europa. L’isolamento geografico dell’Australia, invece, costringe a ore di volo.
Paradosso se penso che proprio questa voglia di mondo, si
manifesta all’inverso nei sogni concretizzati di molti italiani:
Alessandro che ci vive ormai da tempo, dirige un ristorante
giapponese dove vi lavorano anche indiani, e Elena, interprete nell’ambasciata italiana australiana, insegna danza alle
bambine.
Ritorni in Italia, e incontri un’amica, di ritorno da un viaggio
di volontariato in India, dove a far da ponte non può essere
l’inglese, parlato da un piccola parte di popolazione, contrariamente al comune pensiero, ma la propria umanità: un
bacio di un bambino, uno sguardo di diffidenza, un gesto di
gentilezza, l’adattarsi a costumi diversi. Lo stupore e la meraviglia, circondati da una completa mancanza di parole, che
esprimono tutto.
La voglia di scoprirsi è la migliore comunicazione tra diversi.
Il coraggio di partire è la più efficace opportunità. Spegnere il
cellulare è il miglior modo per entrare nel mondo.
LifeStyle
di Davide Ghisolfi
cimiteri
digitali
irezione China town, città di inchiostro e calamari, lodata e ricercata da poeti e artisti che di penna e pennello
feriscono più che di spada. Così Michele Salvemini, in
arte Caparezza, interpreta il suo amore nel comporre i
suoi versi attraverso l’inchiostro su carta anziché pixel su
schermo. Una canzone che ho scoperto per caso nel mix di
video che youtube offre e che mi ha rapito grazie alla sua
forza testuale. Per la prima volta mi ha dato un suggerimento azzeccato.
Mentre la stavo riascoltando per l’ennesima volta, mi è partito una specie di flash mentale, una riflessione che vorrei mostrarvi in queste poche righe e che si lega al nostro vivere di oggi. In questa era tecnologica
dove il computer ha preso quasi di forza il posto del cartaceo, gli errori
hanno un peso meno rilevante che in passato. Non fraintendetemi non
sto parlando di quelli ortografici -inaccettabili a prescindere- ma della
possibilità di cancellare e riscrivere così facilmente grazie ai computer.
In maniera del tutto inconsapevole, essa ci ha gradualmente plasmati,
celando il pericolo dello svuotare il concetto di errore. Basti pensare,
per esempio a quante foto facciamo prima di scegliere quella che più
ci piace, scartando tutte le altre. Abituarci ad avere un seconda,terza,
quarta possibilità, porta inconsciamente a vivere come se davvero le
avessi. Anche i videogames non sono da meno, le mille vite del tuo
giocatore non sono affatto di aiuto nel prepararti alla vita reale. Forse la
faccio più grande di quello che è, però si tratta di un messaggio subliminale che c’è e che investe i più giovani.
Considero più utile e forgiante la scrittura a mano, che obbliga a pensare due volte prima di scrivere, dato lo spazio limitato della carta e dal
segno che lasciano le cancellature e le correzioni. Per quanto ci abbia
reso le cose più facili, il cimitero digitale, luogo immaginario dei dati
cancellati, dovrebbe essere dove si colloca generalmente quello reale,
il più lontano possibile dal centro abitato, per non essere infettati dal
virus della leggerezza di vivere.
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Notizie dal mondo
Da New York a Tokyo, il 16 maggio i dipendenti dei fast
food hanno scioperato e in tutto il mondo per chiedere
aumento dei salari e contratti più equi. 15 dollari all’ora
la richiesta, portata in strada tramite scioperi, manifestazioni e flash mob.
Quanti astronauti sono
stati nello spazio dal 12
aprile 1961, quando Jurij
Gagarin compì la prima
orbita terrestre completa
a bordo della navicella
sovietica Vostok 1, fino a
oggi? 539 (una media di
10 all’anno). Il record di
permanenza continuativa appartiene a Valerij
Poljakov, che passò 437
giorni a bordo della stazione spaziale sovietica
Mir tra il 1994 e il 1995.
Dallas Buyers Club
L’oasi di Berlino: così viene chiamato l’ex aeroporto
di Tempelhof. Un piano
del comune per renderlo
in parte edificabile è stato bocciato dagli abitanti,
così questo immenso parco è diventato luogo di ritrovo per fare picnic, pattinare, assistere a concerti
ed eventi culturali e perfino per fare windskate.
Uno sherpa che lavora al di sopra del campo base
dell’Everest ha dieci volte più probabilità di morire rispetto a un pescatore statunitense – che secondo i Centri per la prevenzione e il controllo
delle malattie è il mestiere più pericoloso in America
in ambito civile – e oltre 3,5 probabilità in più di morire rispetto a un soldato statunitense nei primi quattro
anni della guerra in Iraq.
Tra il 1980 e il 2008, negli Stati Uniti i bianchi sono passati dall’80 al 66 per cento della popolazione, gli ispanici dal 6 al 15 per cento, i neri sono rimasti al 12 per
cento. Entro il 2030 i bianchi saranno la minoranza degli statunitensi sotto i 18 anni ed entro il 2042 saranno
la minoranza totale della popolazione.
Witanhurst è la seconda residenza privata più grande di
Londra, preceduta solo da Buckingham Palace. Quando i
restauri da 50 milioni di sterline saranno ultimati, questa
proprietà di 8.800 metri quadrati avrà venticinque camere da letto, dodici sale da bagno, una piscina di venti
metri e un cinema su due livelli. I proprietari? Neanche
Robert Adam, l’architetto a cui è stato affidato il progetto,
li conosce.
Film di grande impatto sociale ed emotivo, è il vincitore dei premi oscar come
miglior attore protagonista, miglior
attore non protagonista e trucco nel
2014. Acclamato dalla critica di tutto il
mondo, racconta le vicende di Ron Woodroof, uomo che vive ai margini della
società, ormai condannato a morte a
causa dell’HIV si batte per i diritti sanitari per tutte le persone. Basato su una
storia vera.
Luigi Pirandello – Il fu Mattia
Pascal
Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Un uomo che improvvisamente scopre di essere ritenuto morto ha un’opportunità unica:
fuggire dalla propria soffocante vita, cancellare
il passato e reinventarsi, creando a piacere una
nuova identità. Ma si può fuggire da se stessi?
Tutto ciò che ha cercato di lasciarsi alle spalle
lo segue, come un’ombra di cui non ci si può
liberare.
Ryan Bingham - “Junky Star”
Junky star è il terzo album del cantautore statunitense insieme al suo
gruppo The Death Horses. L’album è
dominato da sferzate di rock, insieme ovviamente ai classici toni aspri e
malinconici di Ryan.
Pubblicato nel 2010 contiene la traccia “ The Weary kind” vincitrice del
premio oscar come migliore canzone.
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Il castello errante di Howl
Noi siamo infinito
La pellicola è autobiografica ed è ispirata dall’omonimo romanzo scritto dallo
stesso Dito Montiel. Si presenta con un
incredibile cast: Robert Downey Jr, Shia
leBeuf, Channing Tatum e Federico Castelluccio. Il film racconta in modo genuino e schietto il ritorno in patria dello
scrittore Montiel, e nella sua sfida personale contro il suo passato ritrovandosi
a fare i conti con gli eventi che segnarolo
la sua adolescenza.
Il castello errante di Howl è un capolavoro d’animazione mondiale.
Prodotto dallo studio Ghibli e diretto dal maestro Hayao Miyazaki
ha avuto diverse nomination agli
oscar, anche come miglior film d’animazione. Racconta un avventura
anacronistica e ricca di magia e freschezza attraverso il classico tratto
orientale. Da vedere assolutamente.
Il film è tratto dal romanzo epistolare “Ragazzo da parete” scritto dallo
stesso regista Stephen Chbosky.
Racconta le vicende e i primi turbamenti adolescenziali. Tratta diversi
temi molto delicati, come la droga,
la discriminazione e la violenza, visti dal punto di vista di un ragazzino.
Alterna sapientemente momenti divertenti con attimi di riflessione.
musica
Un romanzo che apre una finestra sulla città
di Bahia, sulle mille storie dei suoi abitanti
e sulla magia con cui convivono. Accompagnato dal personaggio magnetico di Dona
Flor, dai suoi dubbi, dalle sue passioni e dal
profumo che sfugge dalla sua cucina. In sottofondo, una musica sempre diversa e sempre intensa, che scandisce la vita della protagonista e resta in testa al lettore.
Jorge Amado – Dona Flor e i
suoi due mariti
Un libro avvolto da un’atmosfera di
dolcezza e mistero, così come la sua
protagonista. “Clara chiaroveggente
conosceva il significato dei sogni”. Ed è
intorno a sogni, incomprensioni e scelte coraggiose che ruota questa storia.
Tre generazioni di donne, raccontate
in tutta la loro forza e fragilità, nel loro
modo di rapportarsi con il Cile del Novecento, e con la vita stessa.
The Darkness – “Permission to Land”
Il vibrante falsetto di Justin Hawkins
permette ai Darkness di creare il proprio
suono distinguibile da tutti quando, nel
2003, esce il loro primo album ispirato
alle maggiori band hard rock degli anni
’70 quali gli AC/DC e i Led Zeppelin. Tra
assoli di chitarra e costumi bizzarri questo gruppo inglese si fa presto strada nel
cuore dell’ascoltatore, che cadrà innamorato dalla traccia “Love is only a Feeling”.
Nick Hornby – Un ragazzo
libri
Isabelle Allende – La casa degli
spiriti
movies
Guida per riconoscere i tuoi santi
Una storia raccontata con il tono ironico
e pungente di Nick Hornby, che ci lascia
sbirciare nella vita di Will, trentaseienne
ricco e viziato, apparentemente troppo
“figo” per avere a che fare con uno come
Marcus, dodicenne timido e abituato
alle prese in giro dei compagni. Eppure
i due vedranno i loro destini avvicinarsi,
impareranno ad unirli e a crescere insieme.
Edward Sharpe & The Magnetic
Zeros – “Here”
Come un’onda di ebbrezza, una canzone
dopo l’altra ci trasportano in una spiaggia
hawaiana in cui la tranquillità del mare danza soavemente con le pieghe del tramonto.
Come sia riuscito Alexander Ebert a creare
questo ritmo indie anni ’70 è inspiegabile, ma
all’ascolto la mente viene trasportata via da
ogni interrogativo e lavata dalla pioggia come
dice la canzone di apertura “All Wash Out”.
Mumford & Sons – “Sigh no more”
Dolce e delicato, ti travolge subito dal primo ascolto con una melodia generata da
un’incalzante varietà di strumenti. Il risultato del primo lavoro della band inglese
guidata dal leader Marcus Mumford viene
apprezzato dalla critica mondiale con dischi di platino in cinque Paesi diversi. Ma,
al di là dei premi, rimane quell’atmosfera
folk londinese che mette il sorriso e voglia
di trasformare tutta la vita in un ballo.
Fonti delle immagini:
http://www.cittadellaspezia.com/foto/2014/09/04/prugqfth.jpg
http://www.terredicastelmagno.com/Castelmagno%20Montagna.jpg
http://4.bp.blogspot.com/­0yGKZiSdA1Q/UWL0HdH6q-I/AAAAAAAAEN8/1g5Q5cJH2fs/s1600/lavorare­la­terra.jpg mani terra
http://www.sapere.it/sapere/medicina-e-salute/enciclopedia-medica/Anatomia/faccia.html
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http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/resources/images/leopardi_3_nel_testo.jpg
http://biografieonline.it/img/bio/Dante_Alighieri_1.jpg
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