www.arcipelagomilano.org numero 16 anno VII – 29 aprile 2015 edizione stampabile www.arcipelagomilano.org LA CITTÀ COL FIATO SOSPESO Luca Beltrami Gadola Milano ha il fiato sospeso, magari anche il fiato grosso: grosso perché sta correndo a più non posso, sospeso perché mancano due giorni all’inaugurazione di Expo2015; che tutto vada bene è ancora una speranza ma non una certezza. Sappiamo che qualcosa non sarà finite ma questo è più o meno normale soprattutto da noi -, sempre che l’incompleto non sia così visibile e massiccio da sollevare critiche e perplessità da parte dei visitatori: certo i primi tempi vedremo ancora operai al lavoro, magari di notte per non mettere in pericolo i visitatori. Se le cose andranno in modo ragionevole, ne saremo tutti contenti perché salvo alcuni irriducibili del tanto peggio tanto meglio, checché ne dica Diana Bracco, nessuna persona normale sarebbe contenta di un insuccesso, nemmeno nel nostro Paese di auto flagellatori: la pessima figura di Expo sarebbe una pessima figura per il Paese intero e non lascerebbe fuori nessuno. Anche se quel che succederà il Primo Maggio già sarà un segnale, prima di esprimere un giudizio bisognerà lasciar passare un paio di mesi perché la prova non si fa in un giorno e nemmeno in una settimana. Difficoltà e intoppi ve ne saranno certo ma anche qui si vedrà se la squadra di Expo sarà in grado di reggere il colpo. E fin qui abbiamo parlato di Expo2015 e di quel che succederà all’interno del suo recinto o nelle sue immediate vicinanze. Resta un’inesorabile riflessione: la vicenda di Expo è stata tutta gestita senza che il pericolo di un insuccesso fosse attentamente evitato, cosa certamente possibile. Ricordo una riunione in via San Tomaso nella sede comunale di Expo quando ancora si parlava di indire i bandi per la famosa piastra e, come membro della Comitato antimafia, partecipavo a qualche riunione: scorrendo i cronoprogrammi di attività non trovavo alcuna previsione che riguardasse fatti imprevisti quali le avversità atmosferiche o di altro tipo, cose che nei cronopragrammi non dovrebbero mancare mai. Sentir dire negli ultimi tempi che tutto sarebbe dipeso dalla pioggia o dal gelo invernale era solo la manifestazione di scarsa o nessuna avvedutezza. Far correre rischi inutili è un reato? Farli correre a una città, a un Paese? Non so, certo val la pena di cambiare chi sta al volante o quanto meno non essere troppo generosi nei giudizi a posteriori. Per la città, per Milano, il discorso è diverso. Se nell’accoglienza ai visitatori qualcosa non funzionerà, non ci sono scuse. Expo ha avuto i suoi travagli ed è inutile ricordarli ma Milano no. Che questo ”Primo Maggio” dovesse arrivare lo sapeva la Giunta Moratti e dal giugno 2011 lo sapeva per certo anche la Giunta Pisapia quando si è insediata: se i la- vori programmati non saranno finiti, se i cantieri ancora aperti intralceranno il traffico, se le biglietterie automatiche nei mezzanini della MM avranno code infinite, se le scale mobili saranno ancora in manutenzione, se i visitatori del Cenacolo saranno costretti a fare la coda sotto il sole cocente dell’estate senza il riparo di una tenda, tanto per citare due o tre dei mille possibili punti di crisi ma anche se per eccesso di informatizzazione troppi digitali non nativi resteranno disinformati e persi, se tutto questo accadrà la città farà una vera figuraccia: l’imminenza di nuove elezioni amministrative rischia di far giustizia sommaria, travolgendo tutti per le inadeguatezze di pochi. A ciascuno il suo e dunque alla gente comune, ai privati quel che loro compete e i relativi meriti: sino a ora l’aver mostrato un’intelligenza e una voglia di fare e una creatività che Expo ha risvegliato al di là di ogni aspettativa. Dal Primo Maggio in avanti i cittadini dovranno mostrare una serena pazienza per gli inevitabili disagi e confermare lo spirito di accoglienza che ha sempre distinto i milanesi, pacati, parsimoniosi ma disponibili. Il vero bilancio si farà a partire da ottobre e da quel momento potremo valutare il lascito di Expo, i suoi costi e i suoi ricavi. M4 E CITTADINI: PER UNA GESTIONE PARTECIPATA DEI CANTIERI Davide Corritore* La storia della metropolitana di Milano è probabilmente l’esempio più bello e concreto dell’amore e del senso di appartenenza dei milanesi verso la propria città. Per raccogliere i fondi ed essere in grado di finanziare la costruzione della M1, infatti, MM lanciò un prestito obbligazionario ventennale che i cittadini sottoscrissero con entusiasmo, contribuendo direttamente e in modo decisivo allo sviluppo e alla crescita di Milano. Sono passati 50 anni dall’inaugurazione della Linea Rossa e la nostra città è oggi alle prese con un nuovo e importante progetto infrastrutturale: la realizzazione della M4, la nuova metropolitana di Milano. La Blu - questo il colore scelto per la Linea - è un’opera strategica, che permetterà di collegare la zona n. 16 VII -29 aprile 2015 ovest con la zona est, collegando il centro città con l’aeroporto di Linate. Nel suo ruolo di direzione lavori e assistenza al Responsabile Unico del Procedimento per M4, MM ha potuto “tastare il polso” del territorio, dal quale è emersa una forte domanda di partecipazione, anche con idee per migliorare il progetto definitivo. Questa volontà di confronto sui lavori della Linea Blu (riscontrata durante gli incontri territoriali, ma anche dal proficuo dialogo con i Consigli di Zona) ha indotto ad attivare un processo partecipativo e un percorso di discussione organizzata, con l’obiettivo di arrivare a un progetto di comunicazione condiviso tra tutte le parti coinvolte: amministratori, costruttori, cittadini, associazioni, enti, studi professionali. In questa fase iniziale di cantierizzazioni, i cittadini residenti nelle zone interessate dai lavori per la M4 sono sensibili a ogni cambiamento che possa avere ripercussioni sulla propria quotidianità, anche per i disagi che comporta un’opera pubblica di questa portata. È quindi il momento in cui l’attenzione è più alta e in cui le richieste di informazioni sull’impatto e la durata dei lavori sono, giustamente, più frequenti e puntuali. Proprio il cantiere, però, può giocare un ruolo determinante nel racconto alla cittadinanza della città che verrà. I cantieri possono diventare spazi di aggregazione e confronto, attraverso i quali riscoprire luoghi spesso dimenticati, innescando un processo di riqualificazione del territorio circostante. 2 www.arcipelagomilano.org Da qui nasce l’opportunità di rafforzare un rapporto diretto, costante e costruttivo con i milanesi: spiegando loro il progetto, i passaggi necessari della sua realizzazione e, allo stesso tempo, coinvolgendoli in un percorso di trasformazione di un momento di potenziale disagio (per residenti o commercianti) in una occasione per sperimentare e condividere un nuovo modo di “vivere i cantieri”. Gli anni da qui al 2022, anno in cui la M4 diventerà operativa, sono un’occasione unica per riscoprire la storia e il vissuto delle zone interessate dagli scavi. Il disagio per la temporanea sottrazione di un’area, un parco, una via, può essere superato dal racconto di quello che la M4 sarà, attraverso la riap- propriazione di quegli stessi spazi. In un’ottica e una forma diversa da quella abitudinaria. Per questo, MM Spa ha voluto promuovere il primo workshop partecipato per la definizione di un progetto di comunicazione integrato, che si terrà mercoledì 6 maggio dalle ore 18.30 presso Spazio “Open” di Viale Montenero 6 (per partecipare inviare una e-mail a [email protected]). Grazie alla stretta collaborazione tra chi vorrà partecipare e un Comitato Tecnico qualificato, sarà possibile dare vita ai cantieri della metropolitana proponendo (e realizzando) progetti per interventi sulle cesate, funzioni del perimetro di cantiere, attività ricreative e culturali, riqualificazione delle aree al ter- mine dell’opera. In questo senso il cantiere può diventare uno spazio vivibile e fruibile dai cittadini per tutto il periodo dei lavori. Lo sviluppo di una metropoli come Milano non può prescindere dal coinvolgimento dei suoi cittadini. I milanesi sono conosciuti per la laboriosità e per la capacità di abbinare alla creatività un’indiscutibile concretezza. Un patrimonio irrinunciabile, che è doveroso mettere nelle condizioni di potersi esprimere: rendendo, ancora una volta, i milanesi protagonisti del cambiamento della propria città. *Presidente Metropolitana Milanese LA VERA ROTTAMAZIONE: SI LEGGE D'ALEMA, S'INTENDE PRODI Giuseppe Ucciero Ce n'è voluto un po', ma alla fine il tempo, che è galantuomo, rivela l'autentico segno dell'avventura renziana: rottura netta con la stagione riformatrice dell'Ulivo. Gabellato come cacciata di un ceto politico immobile e rissoso, contraffatto come finale regolamento di conti tra democrazia e veterocomunismo, il cambiamento renziano più che rivoluzionario si dimostra “eversivo”. Non si tratta né di D'Alema né di Bersani, né di Cuperlo né di Fassina, si tratta di Prodi, della sua sintesi “cattocomunista” e del suo Ulivo. E' stato zitto per un po', il totem di tutta una stagione del riformismo italiano, forse perfino gratificato nella sua perfida ritrosia dall'impeto iconoclasta della nouvelle vague renziana ma alla fine i conti, che devono tornare, non tornano per niente. Partito come sempre con sussurro, un borbottio quasi inudibile, il vento contrario dell'ex leader, dell'Ulivo prima e dell'Unione poi, è divenuto brezza, poi vento, infine quasi tempesta. Non riconosce alcuna continuità tra la sua politica e quella dell'attuale Presidente del Consiglio, cui preferisce senza alcuna remora il predecessore, quel Letta di cui apprezza il metodo del “cacciavite” almeno quanto lo indispone lo scomposto precipitare in avanti di Renzi. Per Romano Prodi, l'azione politica di Renzi contraddice su tutta la linea valori guida dell'Ulivo, stile, metodo democratico e programma. Ne aveva forse oscura percezione dall'inizio ma i fatti hanno dato sostanza concreta a preoccupazioni e sospetti. n. 16 VII -29 aprile 2015 Decisivo è stato lo snodo dell'elezione del Presidente della Repubblica, cui Prodi aspirava, non senza ragioni. D'altro canto, non era stato proprio Renzi ad aver ripudiato, lui ora campione della disciplina di partito, il candidato di partito Marini per fargli spazio e non aveva gridato proprio lui al tradimento dopo la vicenda dei 101? Prodi attendeva la chiamata al soglio presidenziale ma ha dovuto assaggiare di nuovo amarezza e disillusione: convocato a Palazzo Chigi si è sentito dire che andava bene per … un incarico all'ONU. Silenzioso fino allora, si è sentito tradito nelle aspettative che nutriva, dove il riconoscimento personale si sarebbe unito al sigillo su di una lotta di popolo ventennale: disilluso, ha dovuto prendere atto della sensibilità di Renzi all'elettorato post berlusconiano, non meno decisiva dell'Ego di un leader che non tollera figure forti vicino a sé. Qui lo strappo personale è divenuto segno di una distanza politica ormai non più occultabile. Una distanza tra il riformismo ecumenico ulivista, ispirato ai principi della stretta connessione tra azione politica e corpi sociali, e l'arrembante e scomposto “nuovismo” renziano, neppure definibile nel campo social liberale. Del PD, erede legittimo, con tutti i pregi e difetti, del convergere delle culture politico sociali che hanno dominato il novecento italiano (dottrina cristiano sociale e comunismo democratico), non resta più nulla, giusto il marchio che non dispiace ai nuovi padroni per la sua capacità di alludere a un riformismo tanto “debole” nella sostanza quanto “forte” nelle apparenze, un bello specchio per allodole elettori ormai disillusi e disorientati. Fatto fuori Berlusconi, ora tocca per forza a Prodi, che, come quello, non ci sta ma fatica a trovare risorse, tempi ed eredi. E del resto cosa ha fatto anche lui per vent'anni (misura aurea dello spazio temporale negazionista del “nostro caro leader”)? Certo, Enrico Letta. Certo, una figura di politico che, pur relativamente giovane, mantiene tutti i caratteri del politico ulivista, nel tratto personale, nel metodo politico, nella cautela di riformista delle cose e non delle parole, nelle relazioni intrecciate con il Gotha del riformismo europeo e internazionale, che tuttora guarda con sospetto all'uomo di Firenze, forse perché ne intravede, nello stile più che nei contenuti, l'inquietante continuità con il pregiudicato di Milano, entrambi visti come espressione dell'inesausta fucina di caratteristi italiani imprestati alla politica. Che Prodi indichi Letta come suo successore appare più che comprensibile, ed anche qui l'avversione a Renzi e al renzismo trova la sua massima caratura simbolica, segnando visione e proposta politica idealmente erede della stagione ulivista. Basteranno simboli e ricordi, o non siamo piuttosto di fronte al sommarsi, infine impotente, di livori personali, di figure sbiadite dal tempo, di energie impoverite dalle sconfitte, insomma di un sentire della memoria, pur lodevole ma incapace di saldarsi con la cultura diffusa ormai nel Paese, così distante da quella temperie in cui si formò l'Uli- 3 www.arcipelagomilano.org vo, e con i suoi soggetti sociali, stretti sempre più tra rabbia, isolamento e impotenza? Se guardiamo alla politica dell'oggi, scorgiamo un forte centro gravitazionale e ai lati le macerie di forze e figure che pure un tempo erano dominanti, o almeno forti protagoniste. Domani un sistema elettorale progettato ad hoc per dare potere senza adeguata rappresentanza, toglierà ulteriore spazio di manovra, ostacolando la formazione di forze politiche capaci di indicare alternative praticabili. Per chi non vede in Renzi un interlocutore credibile sul fronte riformatore, sembrano intravedersi in nuce due prospettive, precarie e in competizione tra loro: la riproposizione dell'Ulivo, riveduto e corretto, e un cotè di sinistra - sinistra, dove si è candidata la “coalizione sociale” di Landini. Mentre quest'ultimo però traccheggia, la mossa di Prodi - Letta avrebbe il pregio di indicare un soggetto già oggi spendibile per aggregare la vasta area dello scontento PD, offrendo il calduccio ristoratore di una memoria ancora cara a tutti. Ma basterà evocare l'Ulivo 2.0 per riaprire una prospettiva riformatrice, capace di riconnettere passato e futuro in un presente efficace? E che dicono infine le “anime belle” del PD, numi tutelari dello spirito originario dell'Ulivo? Che dicono quelle che, a Roma ma anche a Milano, hanno benedetto il Renzi “terminator” della tardiva egemonia post comunista, godendo delle umiliazioni ripetutamente inflitte ai suoi leader? Che fanno ora, che sono invocate da Prodi a unire gli scudi a quelli di Bersani e Cuperlo, e perfino di D'Alema? Faranno spallucce, intente a raccogliere i dividendi di un accorto posizionamento, o rimetteranno in discussione, con le decisioni ultime, anche se stessi. Ne fa di scherzi la politica. BELLA CIAO MILANO, UN PROGETTO LUNGO UN ANNO Mario Vanni* Tutto è cominciato nel luglio 2014 al tavolo di una festa dell’Unità in provincia di Milano, oggi Area metropolitana milanese. La domanda che circolava da un po’ di tempo all’interno di un gruppo variegato di persone era la seguente: come possiamo celebrare degnamente il settantesimo anniversario della Liberazione, uscendo dagli schemi e dalle ritualità che spesso accompagnano questi momenti, facendo conoscere alle nuove generazioni il sacrificio e le passioni politiche che animarono gli uomini e le donne della Resistenza? Una sfida che sentivamo doverosa, attuale e appassionante ma anche difficile, perché includeva la capacità di trovare un registro nuovo, capace di coniugare la “tradizione liturgica” delle celebrazioni con cui siamo cresciuti - e a cui siamo comunque legati - con elementi di innovazione e in qualche caso di rottura. Una sfida molto milanese, sia per le implicazioni che comporta progettare e realizzare a Milano, sia perché ad essere rappresentato è un pezzo importante della storia della nostra città, medaglia d’oro alla Guerra di Liberazione e Capitale della Resistenza. Con questa consapevolezza, abbiamo cominciato a condividere la volontà di iniziare un percorso con amici, compagni e simpatizzanti, ma anche a persone senza trascorsi o appartenenza politica. Così da un gruppo intergenerazionale di volontari - e dalla contaminazione tra buone pratiche consolidate e spinta alla sperimentazione - è nata Bella Ciao Milano e il suo programma di eventi lungo un anno. Militanti, ricercatori, grafici, musicisti, alpinisti, comunicatori che hanno dedicato n. 16 VII -29 aprile 2015 molto del loro tempo libero al lavoro di gruppo, all’ideazione, agli allestimenti, all’organizzazione, alla tecnologia. Abbiamo così costruito il sito www.bellaciaomilano.com, dove è possibile ritrovare le storie e le immagini della Resistenza a Milano, che fanno parte di un ricco patrimonio archivistico costruito negli anni da storici e associazioni, ancora poco conosciuto. Allo stesso tempo, perché questa storia sia patrimonio comune, soprattutto dei più giovani, stiamo realizzando una App per smartphone sui luoghi della Resistenza e sulle lapidi dei martiri che si chiamerà “quello che le lapidi non raccontano”. Si tratta di una mappatura della città, che racconta cosa siano stati alcuni luoghi di Milano durante l’occupazione nazifascista. È un lavoro in divenire, aperto al contributo di tutti e sul quale abbiamo già raccolto diverso materiale. Per sostenere la sua realizzazione, abbiamo lanciato anche una campagna di crowdfunding attraverso la piattaforma DeRev. Questa modalità di finanziamento, inoltre, consente a tutti di sentirsi parte di un progetto di memoria collettivo. L’obiettivo è quello di estendere questa mappatura a tutta l’area metropolitana, che è stata teatro della guerra di Liberazione e di cui, purtroppo, spesso non ci sono più tracce che lo ricordino. Abbiamo dato un’anticipazione di cosa conterrà la App e di quello che è stata l’area metropolitana durante l’occupazione nazifascista anche con gli eventi “Passi nella memoria”, passeggiate accompagnate da storici e testimoni sui luoghi simbolo della Resistenza a Milano, Rho e Sesto San Giovanni. Abbiamo promosso convegni storici come quello che ha ristabilito che i giovani volontari della Brigata ebraica meritano a pieno titolo un posto d’onore tra i combattenti per la libertà dell’Europa. Abbiamo poi camminato in montagna sui sentieri dei partigiani, inaugurato il primo Trofeo di calcio della Liberazione e percorso come pellegrini, insieme a testimoni e alle comunità religiose milanesi, le strade dell’odio e del terrore nazifascista che a Milano si concludono al Binario 21. Un percorso che qualcuno ha definito pop un termine che a noi non dispiace soprattutto se per pop si intende popolare, capace di aprirsi, attrarre e parlare a tutti. Un progetto che è stato adottato e valorizzato fin dalla sua fase iniziale dal Segretario Metropolitano del PD Pietro Bussolati che ha così permesso a Bella Ciao Milano di coinvolgere tutte le articolazioni del PD e i territori e che dai territori ha ricevuto molto in termini di idee, volontariato e partecipazione. Abbiamo riscoperto e spinto al massimo pur nelle difficoltà il piacere di sentirsi comunità, di lavorare insieme e di creare valore per gli altri con quel minimo di sacrificio che è niente rispetto a quello incommensurabile delle persone che ci hanno lasciato in eredità la libertà di cui godiamo. Adesso a pochi giorni dal 25 Aprile 2015 ci sentiamo un po’ stanchi ma molto soddisfatti di avere dato il nostro contributo unitamente a tutte le realtà impegnate nel tenere viva la memoria in primis l’Anpi, il Sindacato e gli Istituti di ricerca a trovare e conservare i tasselli di quel passato così importante per la vita democratica dell’Italia e dell’Europa resti- 4 www.arcipelagomilano.org tuendo quelle testimonianze in una forma accessibile a tutti. * coordinatore Progetto Bella Ciao Milano EXPO: DONNE, TERRA, LAVORO E CIBO UN DIBATTITO IN CORSO Roberta Pellizzoli Negli ultimi anni, grande attenzione è stata dedicata agli effetti del sostanziale aumento delle acquisizioni di terra su larga scala da parte del settore privato, prevalentemente straniero, in molti paesi in via di sviluppo. Riconoscendo i rischi del land grabbing - inclusi quelli legati alla sicurezza alimentare - attori chiave nel mondo dello sviluppo hanno avviato una riflessione su come gli investimenti possano creare opportunità per lo sviluppo economico e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni delle aree rurali e su come, dunque, regolamentarli al fine di promuovere modelli di investimenti equi, sostenibili e di mutuo beneficio per tutti coloro che ne sono coinvolti. In Mozambico, come in altri paesi, una delle soluzioni individuate è quella della promozione di partenariati tra investitori e comunità o gruppi di piccoli produttori rurali. I casi qui presentati mostrano la complessità e le ambiguità di queste soluzioni e ci permettono di approfondire la riflessione su donne, terra, lavoro e cibo in prossimità di Expo. Nel distretto mozambicano di Sussundenga, nella Provincia di Manica, vicino al confine con lo Zimbabwe, l’associazione KK dal 2009 alleva vacche da latte grazie alla formazione e al sostegno ricevuto da una cooperativa di produttori agricoli statunitense. Con 26 vacche per 23 membri (due dei quali sono donne vedove e gli altri registrati come coppia), l’associazione riesce a ottenere dai 70 agli 80 litri di latte al giorno. Terminata la mungitura, i membri portano il latte presso la casa del presidente dell’associa-zione, viene calcolata la quantità consegnata da ciascuno e il latte viene travasato nei contenitori per il trasporto. I bambini e i ragazzi, in bicicletta, consegnano il latte a un’impresa danese, che nel 2012 ha rilevato una piccola impresa zimbabwana e che produce, processa e commercializza formaggio, latte e yogurt. La segretaria dell’impresa annota sul registro la quantità ricevuta e paga la KK a fine mese il prezzo concordato al litro. Il tesoriere dell’associazione divide il ricavato tra i membri sulla base delle quanti- n. 16 VII -29 aprile 2015 tà di latte prodotte. I membri dell’associazione ritengono di avere la capacità di allevare più vacche, cosa che permetterebbe loro di aumentare la produzione e, dunque, le entrate. Con un guadagno mensile che si aggira intorno ai 2.500 meticais (circa 65 euro) (1), i membri dell’associazione si ritengono comunque soddisfatti perché l’accordo con l’impresa permette loro di non soffrire più la fame – soprattutto nel periodo peggiore dell’anno, quello delle piogge. Poco distante, nel distretto di Belas, i membri dell’associazione IV Campo coltivano peperoncini e fagiolini che vengono venduti a una impresa sulla base di un contratto individuale di produzione che stabilisce il prezzo al quale il prodotto verrà acquistato, gli standard di qualità da rispettare e l’obbligo per il contadino di ripagare (attraverso una detrazione sul guadagno) i costi di sementi, fertilizzanti e pesticidi forniti dall’impresa stessa. Ogni membro coltiva un appezzamento di terra (registrata nel catasto a nome dell’associazione) di circa un decimo di ettaro, una dimensione che, secondo l’impresa, può essere lavorata da una coppia adulta senza che sia necessario impiegare manodopera o i bambini della famiglia. La produzione e il guadagno sono estremamente variabili, ma generalmente le donne sono le migliori produttrici, siano esse membri registrati dell’associazione o lavorino un appezzamento di terra intestato al marito. In quest’ultimo caso, l’impresa favorisce il passaggio di intestazione dell’appezzamento di terra, di modo che il guadagno sia ricevuto – e, auspicabilmente, controllato – da chi lavora la terra. Tutti i membri dell’associazione coltivano un altro appezzamento di terra, che si trova generalmente nei pressi della loro abitazione e che viene prevalentemente dedicato alla produzione per il consumo familiare. La produzione per l’autoconsumo è migliorata nel corso del tempo perché i contadini riescono ad utilizzare parte degli input che ricevono dall’impresa per il campo familiare. Questi modelli di partenariato tra associazioni di piccoli produttori e produttrici e imprese private, che possono apparire virtuosi perché basati su modelli partecipativi di sviluppo locale, soprattutto a fronte dei conosciuti fenomeni di land grabbing, ci mettono tuttavia di fronte a una serie di ambiguità e dinamiche che raramente emergono nel dibattito più mainstream su donne, terra, produzione agricola e sicurezza alimentare. Primo, le donne lavorano sempre nelle imprese famigliari come manodopera non pagata o con limitate capacità di controllare il reddito che producono. Secondo, è necessario ricostruire i nessi tra le spinte alla produzione commerciale dei piccoli contadini e la qualità del cibo prodotto e consumato dentro l’aggregato familiare. Terzo, le entrate prodotte dai questi accordi generalmente permettono di fare fronte alle crisi alimentari, ma difficilmente producono un surplus che possa essere reinvestito; in ogni caso, il rischio della mancata produzione rimane sulle spalle del piccolo produttore. Quarto, la diversificazione della produzione rischia di essere un’arma a doppio taglio per le donne, che si trovano a dover gestire – ma, come detto sopra, non necessariamente a controllare - svariate attività produttive e riproduttive che si basano sul loro lavoro gratuito e su una presunta infinita disponibilità di tempo. Quinto, le forme associative sono cruciali per l’empowerment delle donne, ma la loro promozione non può prescindere dall’analisi delle disuguaglianze di potere e di genere esistenti a livello locale che rischiano di relegare le donne a sacche di produzione marginali, cristallizzando così le disuguaglianze esistenti anziché produrre cambiamento. Queste dinamiche complesse e interconnesse richiedono approcci articolati e che siano in grado, anche, di valorizzare i saperi e le esigenze identificate da produttori e produttrici rurali, soggetti della produzione di conoscenza, le cui voci, nei grandi dibattiti ed eventi in corso, rimangono spesso inascoltate. (1) I dati qui presentati sono stati raccolti dall’autrice nel corso di una ricerca su campo svolta nel 2011-2012. I risultati di 5 www.arcipelagomilano.org questa ricerca, insieme a quelle dei colleghi che hanno partecipato al progetto IAO/Gender sono pubblicati in Donne, terre e mercati. Ripensare lo sviluppo rurale in Africa sub-sahariana (a cura di R. Pellizzoli e G. Rossetti, CLEUP, Padova, 2013). LA DARSENA LIBERATA Ilaria Li Vigni Nel settembre 2014 scrivevo dalle pagine di questo giornale che i lavori di riqualificazione di Piazza XXIV Maggio e della Darsena di Milano, dopo anni di incertezze, erano finalmente iniziati: un progetto ampio e complesso per trasformare un’area trascurata in un nuovo polo d’attrazione della città in vista di Expo 2015, nell’ottica di rivalutazione di una zona, i Navigli, con un passato glorioso, ma con un presente caotico e architettonicamente molto disordinato. Ma, come spesso accade in Italia per le ristrutturazioni complesse, vigeva tra i milanesi un po’ di scetticismo, in particolare riguardo ai tempi dei lavori, spesso lunghissimi e al risultato finale che sembrava difficile da immaginare, considerato che gran parte dell’area era stata davvero sventrata. Lavori in corso e calcinacci non riuscivano, nonostante la fantasia e l’immaginazione, a dare l’idea del progetto finale. La secca dei Navigli era cominciata a settembre, non certo un bel vedere per una delle zone più belle e storicamente più piene di storia della nostra città. E già da settembre scorso si sapeva che l’assenza di acqua nel canale sarebbe durata a lungo: perché questa volta, oltre alla periodica pulizia del letto dei Navigli, c'era anche da far tornare l'acqua in Darsena, dopo anni di incuria e di abbandono. L'acqua è tornata a riempire i bacini milanesi e domenica 26 aprile, come anticipo dell’avvio di Expo 2015, c’è stata la grande inaugurazione della nuova Darsena con la presenza di molti cittadini, giunti a vedere i grandi cambiamenti di questa particolare zona di Milano. È stata una grande festa di città, con musica dal vivo e artisti di strada e la partecipazione attiva delle associazioni e dei commercianti della zona, visto che ormai sono finiti i lavori di riqualificazione dell'alzaia Naviglio grande e delle stradine lì vicino, da via Corsico a via Casale. C’è stato il ritorno, davvero storico, del Barchett de Boffalora, una delle ultime antiche chiatte sopravvissute finora, un’imbarcazione senza motore di 40 metri e 30 tonnellate, utilizzata nel corso dei secoli per trasportare materiali edili nel cuore di Milano. La grande chiatta, dopo aver risalito il corso d’acqua da Cuggiono, è stata posizionata tra il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese e diventerà un palcoscenico galleggiante per spettacoli ed eventi. Piazza XXIV Maggio, con la nuova pavimentazione, è stata aperta al traffico con: una nuova viabilità più scorrevole e una nuova area pedonale intorno ai due caselli daziari e al monumento del Cagnola. Sullo specchio del bacino è stato posizionato un grande cubo luminoso galleggiante, the Cube, da cui è partito il countdown per i giorni mancanti all’apertura di Expo. Questa struttura sarà per tutti i 6 mesi di Expo un touch point con un palinsesto continuo e originale di video e contenuti editoriali. I milanesi possono, così, rivedere la Darsena piena d'acqua com’era prima del 2004, quando si aprì il cantiere per la costruzione di un grande parcheggio che fu poi bloccato per ragioni amministrative. Ora il bacino diventerà una zona di passeggio: dal nuovo mercato comunale si arriverà al ponte appena realizzato per collegare viale Gorizia a viale D'Annunzio e lungo il percorso ci saranno panchine e un bar. Dopo anni di abbandono, nel vecchio bacino è tornata l'acqua e vi saranno importanti piantumazioni di alberi, anche ad alto fusto e la progettazione di banchine per organizzare manifestazioni e spettacoli, oltre al nuovo mercato comunale che già si intravede nella sua struttura in ferro. Con l’inaugurazione della nuova Darsena, ripulita, ampliata, accessoriata, Milano ritrova il suo storico porto e insieme le sue radici fluviali. Quante volte siamo rimasti senza parole di fronte a certe vecchie fotografie della città attraversata dai Navigli? Pareva davvero più vivibile, armoniosa e a misura d’uomo. Anche se i Navigli non sono ricomparsi, recuperiamo però, previo robusto lifting, il suo porto, quello dove una volta arrivavano e partivano barconi con carichi d’ogni genere. Un simbolo di partenza e di arrivo, utilizzando l’elemento dell’acqua, così poco presente a Milano dopo l’interramento di gran parte dei Navigli, un simbolo di collegamento con il grande fiume Po e con il mare. Milano, città certamente votata al lavoro, anche da un punto di vista architettonico e strutturale, anche nella fase successiva all’esposizione universale avrà bisogno di luoghi dedicati al tempo libero, in cui la bellezza artistica e naturale possa essere un sostentamento per il benessere di cittadini e turisti. La Darsena sarà anche questo. E non solo per gli uomini: in questi lunghi mesi di lavori in corso, alcune delle anatre dei Navigli erano rimaste in zona, accontentandosi delle pozze d'acqua che si formavano nel cantiere della Darsena. Ora torneranno, grazie anche alla primavera, in un luogo a loro più confacente, godendosi uno degli scorci più belli di Milano. RIVEDERE LEONARDO DA VINCI: IL GENIO SENZA TEMPO Laura Antonella Carli La mostra temporanea Leonardo 1452-1519. Il disegno del mondo, aperta a Milano a Palazzo Reale dal 16 aprile al 19 luglio ha due grandi meriti: il primo è quello di proporre una figura così famigerata senza adagiarsi sulla vuota celebrazione del “genio totale”, mostrandoci inve- n. 16 VII -29 aprile 2015 ce un Leonardo in tutto e per tutto figlio del suo tempo; il secondo è di aver spostato il focus sul disegno, proponendo dagli schizzi preparatori ai lavori autonomi, dagli studi del panneggio alle mirabolanti progettazioni di qualche macchinario di gusto steampunk. Le mostre di grandi pittori imbastite sui disegni danno spesso l’idea di essere andate al risparmio, accontentandosi di opere minori, non rappresentative (dove la rappresentatività è uno dei principali criteri di successo di un’opera d’arte), di aver insomma giocato (sporco) sulla fir- 6 www.arcipelagomilano.org ma di richiamo. In questo caso però, nonostante i disegni siano gran parte del materiale esposto, queste obiezioni non trovano fondamento. Anche perché, nel caso di Leonardo, i disegni sono forse quanto di più rappresentativo possiamo osservare. Naturalmente nessuno vuole sminuire un’icona come la Gioconda o capolavori qui esposti come la Madonna Dreyfus o la Belle Ferronière, ma è proprio attraverso i suoi schizzi – elaboratissimi, maniacali e densi di appunti – che si può davvero intuire l’ingegno davinciano all’opera. Ancor più che nel quadro finito. La mostra di Leonardo a Palazzo Reale è definita «la più grande e importante esposizione dedicata a Leonardo mai realizzata in Italia». Unica rivale: l’ambiziosa mostra del 1939, sempre milanese, questa sì grondante retorica sul genio italico (e visti i tempi c’era da aspettarselo). Da più parti acclamata come «la più rilevante offerta culturale di Milano durante il semestre Expo», è stata però ideata, organizzata e finanziata da un soggetto privato, Skira editore, che ha affidato la curatela a Pietro C. Marani, professore al Politecnico e presidente dell’Ente Raccolta Vinciana di Milano, e a Maria Teresa Fiorio, vice presidente dello stesso ente. L’allestimento comprende 225 opere, recuperate da un centinaio di musei e collezioni internazionali. Niente Gioconda e niente Vergine della Rocce, del tutto inamovibili dal Louvre, che ha però concesso la Belle Ferronière, il San Giovanni Battista e la Piccola Annunciazione. Ben trenta disegni autografi provengono direttamente dalla Royal Collection di Elisabetta II, mentre la Pinacoteca Ambrosiana, la “casa milanese” di Leonardo, presta il Ritratto di musico e ben trentotto disegni del Codice Atlantico. L’importanza del disegno: la natura, il corpo e la macchina - Il concept, dicevamo, è il disegno: fondamento pedagogico nelle botteghe fiorentine ma anche, e soprattutto, strumento conoscitivo privilegiato di Leonardo per la sua lunga, complessa scoperta del mondo. Scettico nei confronti della scrittura, egli considerava invece la pittura alla stregua di una vera scienza, in quanto «sola imitatrice di tutte le opere evidenti in natura». Il disegno in particolare ha per lui un valore euristico: disegnando i fiumi indaga sul loro moto, così simile ai suoi occhi a quello del sangue nelle vene; schizzando cavalieri, cavalli e battaglie nei disegni preparatori (come lo studio prospettico per l’Adorazione dei magi) analizza le anatomie, i volumi e le dinamiche di movimento. Il disegno poi è terreno fertile per i suoi studi di carattere scientifico, in virtù di quell’approccio interdisciplinare (dalla fisiologia alla meccanica alla cosmologia) che è poi una delle sue grandi peculiarità: quella che gli è valsa la fama, così radicata, di genio versatile. O, come si usava dire allora, di polimata, di uomo universale. Ma i disegni, spesso corredati dalla sua celebre scrittura speculare (che secondo teorie più recenti non ... Per continuare a leggere l'articolo su LINKIESTA clicca qui CITTÀ BENE COMUNE 2015: QUATTRO LIBRI PER DISCUTERE Renzo Riboldazzi La città è un bene comune? E se lo fosse, in che modo il progetto e il governo urbano e territoriale contemporanei possono contribuire a garantire ai cittadini questa condizione di civiltà? A queste e ad altre questioni rispondono quattro autori di pubblicazioni più o meno recenti che, sollecitati da un nutrito gruppo di discussant, parteciperanno alla terza edizione del ciclo di incontri di cultura del progetto urbano “Città Bene Comune”, organizzato anche quest’anno da chi scrive per la Casa della Cultura e il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. La tesi di fondo è che la città sia un bene comune e lo siano non solo gli spazi o gli edifici di proprietà pubblica, ma l’intero organismo urbano nel suo insieme come fatto fisico, sociale e politico, con tutto quel corollario di diritti che ne consegue ben esemplificato da Edoardo Salzano nel suo La città bene comune (ed. Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna 2009). Il primo incontro alla Casa della Cultura (lunedì 4 maggio alle ore 18) sarà con lo storico dell’arte Tomaso Montanari che nel 2013 ha pubblicato, per i tipi di Minimum fax, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane. Non si tratta dell’ultimo libro di n. 16 VII -29 aprile 2015 questo generoso autore ma questo lavoro - di cui discuteremo con il contributo di Giulio Ernesti, Jacopo Muzio e Paolo Pileri – appare interessante perché – di là degli incresciosi fatti di cronaca di cui narra relativi al patrimonio artistico e culturale italiano e di là della vivida e condivisibile denuncia circa la mercificazione delle cosiddette “città d’arte” nonché delle opere che dovrebbero gelosamente custodire – è fondato sulla tesi dell’inscindibilità tra forma dello spazio pubblico, identità collettiva e democrazia. «Per secoli, anzi per millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si sono definite e si sono riconosciute nella forma dei luoghi pubblici – scrive Montanari –. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano». Il secondo incontro (lunedì 11 maggio alle ore 18) sarà con il giurista Paolo Maddalena autore de Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico (Donzelli, Roma 2014), un libro che – come osserva Salvatore Settis nell’introduzione al volume – si muove entro tre coordinate principali – quella della politica, quella della cittadinanza e quella dello «scontro frontale fra le ragioni del mercato e i principi del bene comune». Maddalena – che alla Casa della Cultura si confronterà con Giancarlo Consonni, Luigi Mazza e Gabriele Pasqui – apre la sua riflessione evidenziando i pesanti squilibri ambientali ed economici del pianeta. Ne deduce l’improcrastinabile necessità «di agire […] colpendo le idee che sono la causa diretta e immediata di [quella che definisce una] immane tragedia». Infine propone di passare da una «visione individualistica dei diritti a quella collettivistica […] secondo il principio indefettibile dell’uguaglianza economica e sociale di tutti i cittadini». Tutto ciò, facendo sereno affidamento sulla Costituzione italiana in cui già oggi – sostiene l’ex giudice della Corte costituzionale – «nulla si oppone, dal punto di vista del diritto positivo, a considerare l’uomo e l’ambiente sul piano dei valori». Il terzo incontro (lunedì 18 maggio alle ore 18) sarà con l’urbanista Paolo Berdini autore de Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (Donzelli, Roma 2014). Si tratta di un libro da cui – osserva Paolo Maddalena nella prefazione – emerge chiaramente come, in Italia, la «distruzione territo- 7 www.arcipelagomilano.org riale e ambientale [degli ultimi decenni] sia andata di pari passo con la cancellazione delle regole dell’urbanistica» e da cui appare in modo altrettanto evidente «l’importanza delle regole urbanistiche, del loro valore di civiltà». Berdini – che alla Casa della Cultura discuterà dei temi del suo libro con Corinna Morandi, Federico Oliva e Graziella Tonon – traccia un quadro desolante di come, tanto per ragioni economico-finanziarie quanto per ragioni politiche, negli ultimi decenni si sia progressivamente smantellato un «patrimonio di idee e conquiste» faticosamente costruito dalla cultura urbanistica e amministrativa nel XIX e nel XX secolo. «Oggi – afferma – stanno [perfino] venendo meno le condizioni culturali, economiche e sociali che hanno garantito alle città una storia ininterrotta di sei millenni. La finanza dominante – prosegue – ha deliberatamente rotto lo storico patto sociale su cui è fondata la vita delle città ed è stata conseguentemente minata alla radice la stessa concezione del vivere comune». Il quarto e ultimo incontro del ciclo Città Bene Comune (lunedì 25 maggio alle ore 18) sarà con il politico Walter Vitali che lo scorso anno ha curato, per i tipi de il Mulino, Un’Agenda per le città. Nuove visioni per lo sviluppo urbano, un libro che raccoglie tredici saggi in cui si indagano, anche a partire dal caso bolognese, temi e questioni inerenti il futuro delle politiche urbane praticate dalle grandi città. Si tratta di un lavoro – di cui discuteremo alla Casa della Cultura con Alessandro Balducci, Matteo Bolocan Goldstein e Patrizia Gabellini – che si inquadra in quelle attività volte a rispondere all’invito dell’Unione europea «a ciascun paese membro, di dotarsi di “un’ambiziosa Agenda urbana” con almeno il 5% delle risorse assegnate a livello nazionale». L’ex sindaco di Bologna ed ex senatore del PD imposta la sua riflessione su due questioni fortemente interrelate. La prima riguarda la distribuzione della popolazione sul territorio, le concentrazioni urbane e il loro impatto ambientale. La seconda concerne gli impatti della crisi economica e le potenzialità di ripresa che passano da un ripensamento integrale delle città, dalla loro riprogettazione «come affermazione di un nuovo modello di sviluppo su scala globale». EXPO 2015: LA CONTABILITÀ DI UN SUCCESSO Giulia Mattace Raso Di cosa parliamo quando parliamo di Expo 2015, chi misurerà il suo successo, con quale criterio di giudizio e unità di misura? È una difficile contabilità quella di Expo: il numero dei visitatori, i posti di lavoro creati, le opportunità di sviluppo del territorio, la messa in opera (i cantieri) e in scena (la gestione) della esposizione, la capacità di accoglienza della città, la compiutezza delle infrastrutture, il destino delle aree, l’eredità materiale e immateriale declinata sul tema e non solo. Quali di questi parametri ci interessa di più? In che momento è lecito esprimere un giudizio? Valuteremo l’opera in sé o il meta progetto che si è generato per produrla? Bisogna che ci si metta d’accordo, di numeri ne sono stati detti tanti e da più parti, a volte contraddittori e la credibilità delle affermazioni ne ha pagato le spese: il caso esemplare, i visitatori attesi e il numero dei biglietti venduti necessari per raggiungere la parità di bilancio. Oscillato senza che mai si avesse ben chiara la cornice di riferimento, o il reale interesse di chi l’affermazione la andava facendo: eravamo uditori clienti o uditori portatori di interessi? Interlocutori passivi di una strategia di marketing o ascoltatori meritevoli di comunicazioni inter pares? Gli oppositori delle Vie d’acqua ancora se lo domandano, e il fatto che l’iter fosse viziato in partenza dalla corruzione non lenisce certo l’amarezza. Expo in questi anni di gestazione è stata una nebulosa, alimentata dalla ambiguità di fondo tra le aspettative n. 16 VII -29 aprile 2015 generate dalla retorica del tema e il compimento di quanto previsto dal contratto col Bie, la realizzazione di un parco tematico per famiglie. E al tempo stesso una stella cometa per la città che ha voluto seguirla e concentrato le proprie energie creative per la realizzazione dell’obiettivo. In questa tensione si registra l’innovazione di Milano al format con l’introduzione dei padiglioni tematici, i Cluster, e del Padiglione della Società Civile (Cascina Triulza) con alle spalle una Fondazione ad hoc che fa riferimento al Terzo Settore. Senza dimenticare l’unicità dell’expo diffusa, la capacità di uscire dal sito espositivo e di coinvolgere la città in un palinsesto di eventi sul modello Fuori Salone che in questo caso si è tradotto in Expo in città, una esplosione di intelligenza creativa che ha portato a riempire un calendario di 17.000 eventi. Expo in città è in sostanza una piattaforma, sviluppata in un ecosistema digitale E015 che permette a data base di diverse origini di dialogare, creata da Comune di Milano e Camera di Commercio, un open data cui attingere per creare itinerari di senso, stuzzicando la capacità editoriale dei milanesi, di cui certo non fanno difetto. Un lascito non indifferente per una città come Milano che finalmente ha gli strumenti per mettere in comunicazione le sue istituzioni. Il fatto che si sia così indietro nella definizione della eredità materiale delle aree Expo, rischia di sminuire la vivacità e la ricchezza della sua eredità culturale. Lo Urban Food Policy Pact: il Comune di Milano si fa promotore di un patto internazionale che coinvolga il maggior numero di città del mondo nella costruzione di sistemi alimentari centrati sulla sostenibilità e sulla giustizia sociale, un impegno per un coordinamento delle Food Policies che verrà sottoscritto dai Sindaci. Il Patto rappresenta anche uno strumento di politica estera di Milano, a partire dalle reti internazionali cui è già collegata: dalle tante e importanti città con cui è gemellata alla rete C40 – Climate Leadership Group, le 69 grandi città del mondo impegnate nella lotta al cambiamento climatico. Mentre la UE con la sua partecipazione ad Expo invita a riflettere sul ruolo della scienza nella nutrizione globale e per la sicurezza alimentare, la Carta di Milano, rappresenta la legacy immateriale per volontà del governo, nella figura del Ministero della Politiche agricole, alimentari e forestali che ha coinvolto il Laboratorio Expo della Fondazione Feltrinelli per la sua stesura. Con le parole del Ministro Martina: “promuoviamo la «Carta di Milano», non come documento intergovernativo fra addetti ai lavori, ma come vero e proprio strumento di cittadinanza globale. Per la prima volta nella sua storia una Esposizione universale promuove un atto d’impegno verso i governi, che tutti i cittadini potranno sottoscrivere contribuendo alla definizione di precise responsabilità dei singoli, delle imprese e delle associazioni”. 8 www.arcipelagomilano.org Expo dei Popoli è il forum internazionale della società civile e dei movimenti contadini che si svolgerà a Milano, alla Fabbrica del Vapore, dal 3 al 5 di giugno 2015 “per rispondere alla sfida di “Nutrire il Pianeta” applicando i principi della Sovranità Alimentare e della Giustizia Ambientale. Obiettivi principali del forum sono quelli di affiancare le voci dei popoli a quelle dei governi e delle imprese transnazionali e di qualificare Milano e l’Italia come una delle tappe della società civile e dei movimenti mondiali verso i due grandi appuntamenti ONU dell’an- no: l’Agenda di Sviluppo Post-2015 e l’Accordo globale contro il Cambiamento Climatico”. The Zero Hunger Challenge la call to action di Onu, che nell’anno della verifica degli Obiettivi del Millennio (di cui l’eliminazione delle povertà estrema e della fame nel mondo era il primo) vede in Expo 2015 l’occasione ideale per promuovere il dialogo e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sicurezza alimentare e la nutrizione, lo sviluppo rurale e la gestione sostenibile delle risorse naturali, per far capire ai visitatori che “insieme possiamo costruire un mondo in cui tutti hanno accesso a cibo sicuro, sufficiente e nutriente, e si può condurre una vita sana e produttiva, senza compromettere le necessità delle generazioni future”. Aspettiamo quindi il 16 ottobre, la giornata mondiale per l’alimentazione indetta dall’Onu che sarà festeggiata a Milano a livello mondiale: è quello il giorno in cui la Carta di Milano sottoscritta durante Expo sarà consegnata a Ban Ki-moon, e sancito lo Urban Food Policy Pact, definitiva epifania per Nutrire il pianeta, energia per la vita. LA CINA È VICINA? NO È QUI Pier Vito Antoniazzi “La Cina è vicina” intitolava un film di Marco Bellocchio del 1967. Allora il riferimento era la rivoluzione culturale, alla ricerca di nuovi miti rivoluzionari “dell’origine”, che attraversarono il 68. Oggi la Cina è vicina perché protagonista della scena economica e politica mondiale. Perché, solo a Milano, di recente sta perfezionando l’acquisto della Pirelli e del Palazzo ex Credito Italiano in piazza Cordusio, mentre si parla di interesse al A.C.Milan. Ma come cercare di capire questi cambiamenti? “Che c’azzecca” l’ultimo grande paese che si definisce comunista con lo sviluppo di un capitalismo sfrenato che produce milioni di “signori dollaroni” e, supponiamo, aumenta il divario con un miliardo di poveri. Io ho trovato una strada semplice e piacevole. Certo non esaustiva, ma per la mia generazione di sinistra post sessantottina, molto interessante. Ho scoperto i romanzi di Qiu Xialong (nove quelli finora pubblicati in Italia da Marsilio) e con essi il protagonista, l’ispettore Chen Cao della polizia di Shangai. Qiu Xialong, scrittore e traduttore (come il suo personaggio Chen, certo un po’ autobiografico) di poesie cinesi e di poesie di Eliot e altri autori anglosassoni, vive dal 1989 negli Stati Uniti dove insegna Letteratura Cinese nell’università di St. Louis, dove ha preferito rimanere dopo i fatti di Tien An Men. Questo strano tipo di ispettore, laureato in lettere ma assunto in Polizia perché uno dei migliori laureati, che cita poesie classiche mentre cerca di scoprire i responsabili di delitti, al quale piace degustare piatti della “cucina di strada” ma anche di grandi ristoranti, alla presa con donne affascinanti ma senza poi mai legarsi in un rapporto stabile (con grande cruccio della madre poiché per Confucio un uomo retto deve prendere moglie e avere figli …), passa attraverso i luoghi e le persone delle trasformazioni cinesi. Molti personaggi hanno vissuto le svolte del Presidente Mao, hanno subito gli alti e bassi, a volta tragici, delle campagne politiche contro “i neri”, gli intellettuali, “i nemici del socialismo” per poi trovarsi nell’epoca in cui “arricchirsi è positivo” come ha detto Deng Xiao Ping, per cui alcuni fanno fortune enormi e altri vivono in vecchie case con fornello in comune e un solo locale dove stare. Chen è figlio di uno studioso di Confucio e mantiene un’onestà specchiata che è insieme figlia di valori originari del socialismo e di valori tradizionali. Ripete spesso una massima di Confucio “Ci sono cose che un uomo può fare e ci sono cose che un uomo non può fare”. È ben consapevole di un potere sovrastante che vuol difendere l’immagine di “una via cinese al socialismo” e che non tollera trasgressioni o cadute. Spesso mentre fa indagini il Servizio di Sicurezza del Partito indaga su di lui. Per il Partito la buona reputazione dello stesso è più importante della verità. Fino ad accettare la condanna dei corrotti, come capro espiatorio e a dimostrazione che il Partito si autocorregge, piuttosto di andare avanti nel trovare i burattinai dentro il partito, che siano a Pechino o a Shangai. Si capisce molto di una società frammentata alle prese con i problemi dell’inquinamento (rimosso per decenni dall’agenda politica), della libertà di internet cosi difficile da gestire e capace di creare vere campagne di controinformazione feroci. E finiamo per affezionarci all’ispettore Chen che è un’idealista come la nostra generazione. Che voleva cambiare il mondo con una rivoluzione poetica e si trova a navigare a vista in una società piena di contraddizioni e che cerca di assimilarlo o alla disciplina del realismo o alla condanna di una marginalità definitiva. Le storie dell’ispettore Chen sono una guida perfetta dentro i meandri di una società in pieno cambiamento. Un continente, quello cinese, cosi difficile da capire per noi occidentali ma che nelle storie di Qiu Xiaolong diviene più vicino a noi, e i suoi conflitti e le sue contraddizioni (tutte ancora da decifrare nei loro sviluppi futuri) ci sembrano non cosi lontani dai nostri. Capire di più la Cina è un obbligo del XXI secolo e leggere le vicende dell’ispettore Chen può essere un buon inizio. Scrive Fausto Scarpato a proposito della Brigata Ebraica n. 16 VII -29 aprile 2015 9 www.arcipelagomilano.org Concordo con l’articolo in questione. Il collegare la Brigata Ebraica con gli attuali conflitti Israeliani - Palestinesi è assolutamente antistorico e frutto di ignoranza se non malafede. Ho 85 anni e quindi ricordo benissimo “la spada dell’Islam” di Mussolini e la presa di posizione degli arabi a favore dei Tedeschi, o, peggio dei nazisti come il Gran Muftì. Un po' quella di certe popolazioni Sovietiche anti Staliniane che si arruolarono nelle SS. Certo si può e si deve considerare il colonialismo Anglo Francese, anche se quello Italiano in Libia fu assai peggio ... . Oggi certamente i Palestinesi si sentono privati di una pa- tria, ma la sinistra Israeliana avversa fortemente Nethaniau e i destrorsi del loro paese. Quindi invito una certa nostra vetero-sinistra a documentarsi meglio che di guai ne hanno già fatti tanti con la loro faziosità. Scrive Piero Basso a proposito della Brigata Ebraica Ho letto con un certo disappunto l'articolo di Massimo Cingolani sulla Brigata Ebraica, e desidero chiarire perché non sono d'accordo. Nessuno contesta il contributo dato alla campagna d'Italia dalla Brigata Ebraica, come da tutte le altre brigate aggregate agli eserciti alleati, tra cui brasiliani, francesi, greci, polacchi e arabi (nel corpo di spedizione francese). Il problema però non è quello che è accaduto settant'anni fa (se mi met- tessi sullo stesso piano di Cingolani dovrei ricordare che furono molto più numerosi gli ebrei che si candidarono ai consigli ebraici o alla polizia ebraica nei ghetti, di quanti si opposero ai nazisti nell'eroica resistenza del ghetto di Varsavia), ma il problema è quello che succede oggi: perché mai i discendenti (?) di un corpo di spedizione straniero, che ha validamente combattuto in Italia, sente il bisogno di sfilare in un corteo di partigiani (tra cui furono an- che numerosi ebrei italiani), corteo cui non ha mai sentito il bisogno di partecipare nessun altro corpo di spedizione? A me questo atteggiamento "presenzialista" ricorda un po' quello della signora Letizia Moratti, che prima di governare Milano con i fascisti sentì il bisogno di far sfilare l'anziano padre in carrozzella lungo tutto il corteo. Replica Massimo Cingolani Veramente il contributo dato dalla Brigata Ebraica è spesso contestato, come è successo questo 25 Aprile. Polemiche che sicuramente a nessuno verrebbe in mente di fare se sfilassero greci, polacchi, brasiliani, ecc. Non si può paragonare la Brigata agli altri reparti militari, perché la sua principale caratteristica era quella di essere formata da volontari, che tra l'altro in caso di cattura non sarebbero stati considerati normali prigionieri di guerra. È come valutare i volontari garibaldini che combatterono a Digione nella guerra franco-prussiana un corpo di spedizione straniero. Per quanto riguarda brasiliani, francesi greci e polacchi erano parte degli eserciti alleati avendo dichiarato guerra alla Germania. Gli arabi aggregati al corpo di spedizione francese,i goumier più assimilabili a dei mercenari che a dei volontari, furono, dopo i tedeschi, le truppe che commisero più crimini di guerra in Italia, commettendo stupri e uccisioni. Per documentarsi basta leggere “La ciociara” di Moravia. Alcuni ebrei entrarono nella Judenpolizei, è normale che in una fase di annientamento come la vita in un ghetto, ci siano scelte opportunistiche. Il fatto è che si parla di decisioni individuali, che, anche se riguardarono diverse persone, sono ben diverse dalle posizioni prese da élite religiose e politiche, come ad esempio il Gran Muftì di Gerusalemme e Alì al Gaylani ex primo ministro iracheno. La tradizione che vuole, anche in ricorrenze particolari come il settantesimo, l'assenza delle rappresentanze degli eserciti alleati, è senz'altro un'anomalia, visto il contributo militare determinante. Probabilmente è un'eredità della guerra fredda, quando la presenza della bandiera americana avrebbe potuto creare imbarazzo, anche se credo sarebbe fischiata anche adesso e comunque cosa “c’azzecca”quella palestinese con il 25 Aprile? Scrive Sergio Brenna a proposito di Giunte e realizzazioni Stefano Boeri scrive al B.I.E. chiedendo di non demolire i padiglioni nel dopo Expo, in nome della "sostenibilità" dell'operazione: anche il padiglione a tronchetto, a cappello di paglia, a seme, ad alveare (per decenza non sto a dire a cosa assomiglia quello di Libeskind per l'immobiliare cinese Vanke)? Un conto è salvaguardare l'impianto a cardo-decumano, altro rendere permanenti le bizzarìe progettuali permesse ai singoli espositori. Da Parigi dovrebbero rispondergli "Il aurait fallu y penser auparavant!", quando si potevano prevedere padiglioni-tipo facilmente riconvertibili: n. 16 VII -29 aprile 2015 oggi si può salvare ben poco e la "sostenibilità" diventa l'alibi per rendere permanenti gli errori e gli orrori! Pisapia in Tv e sulla stampa: tremulo e inconsistente come sempre, assolve le scelte delle amministrazioni precedenti «Partirei dallo skyline intorno a piazza Gae Aulenti. Lì i grattacieli si uniscono con sintonia alle case "vecchia Milano", moderno e antico si fondono insieme e la vista va verso il quartiere Isola. Un'istantanea perfetta di quello che la città rappresenta oggi: una metropoli inclusiva, innovativa, interculturale e interreligiosa. Che non si è lasciata trascinare nel baratro della crisi perché ha avuto la forza di anticipare il futuro». «Pisapia: siamo cambiati così», intervista a cura di Giovanni N. Ciullo, in «D», suppl. a «La Repubblica», a. XX, n. 935, 18 aprile 2015, p. 62. Intanto Gian Giacomo Schiavi sul Corriere Milano trova del buono in tutti i Sindaci da Albertini "amministratore di condominio" alla Moratti "Maria Antonietta dei Navigli" a Pisapia "tremulo e amletico" e quindi Albertini ha gioco facile a dire che Pisapia si può vantare solo di cose avviate da lui: tutti insieme appassionatamen- 10 www.arcipelagomilano.org te, peccato che siano quelle sba- gliate! Scrive Sergio Murelli a proposito di graffiti Lodevolissima l’attività di Retake Milano: però, se si vuole essere veramente efficaci e scoraggiare l’aggressione dei Bad Writers, il Sindaco e le forze dell’ordine devono agire in stretto collegamento per individuare le diverse bande (crew) attraverso i loro segni e simboli e punirle severamente (gli imbrattatori vanno denunciati e costretti sotto sorveglianza ad eseguire la pulitura dei muri). Utili i corsi di sensibilizza- zione nelle scuole: ma attenzione che siamo di fronte a delinquenti abituali che spesso vengono dall’estero attratti dalla nostra proverbiale mancanza di certezza della pena. MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola [email protected] Una settimana di fiati Zefiro è un vento che arriva da occidente, leggero come una brezza, ma da venticinque anni è anche il nome di un Ensemble di fiati “d’epoca” creato dai fratelli (gemelli) mantovani Paolo e Alberto Grazzi e dal loro amico romano Alfredo Bernardini, appassionati oboisti, fagottisti e costruttori dei loro preziosi strumenti; l’entusiasmo, la simpatia e soprattutto le grandi qualità musicali che li caratterizzano hanno fatto esplodere la loro fama e oggi Zefiro è uno dei più conosciuti Ensemble di fiati al mondo. I concerti e i CD dei loro “organici variabili” (dal trio fino all’orchestra barocca) portano ovunque una straordinaria eccellenza italiana. L’altra sera al Conservatorio Zefiro si è esibito in un concerto totalmente mozartiano in due diverse formazioni: nel primo tempo era un ottetto classico per fiati (due flauti, due oboi, due fagotti e due corni) che ha eseguito la Serenata n. 12 in do minore K. 388; nel secondo tempo si sono aggiunti due meravigliosi corni di bassetto, altri due corni e un contrabbasso, formando così una classica “Harmonienmusik” (quelle piccole orchestre da camera che si costituivano presso le Corti delle capitali europee fra il sette e l’ottocento) per eseguire la celeberrima “Gran Partita” - o Serenata - in si bemolle maggiore K. 361. Sembrava di essere alla Corte dell’Imperatore, nell’Hofburg di Vienna, in quei magici anni ’80 del settecento in cui la città era al centro dell’Europa e viveva uno dei momenti più effervescenti della storia della musica; il gruppo di strumentisti di Zefiro (chissà perché tutti maschi e tutti rigorosamente in nero dalla testa ai piedi, ma con belle cravatte dai colori sgargianti, una diversa dall’altra) hanno inebriato il n. 16 VII -29 aprile 2015 folto pubblico della Società del Quartetto con queste due gioiose e pervasive Serenate la cui scrittura riflette con grande chiarezza l’intento di divertire e intrattenere ascoltatori colti ed esigenti. Nel programma di sala di Oreste Bossini - come sempre ricco di osservazioni e notazioni molto utili alla comprensione del concerto - viene riportata la frase con cui Don Giovanni, nella prima scena del Finale, invita i suonatori che accompagneranno la cena del padrone a dare inizio al concertino: “Già che spendo i miei danari io mi voglio divertir; voi suonate amici cari!” ed eccoci dunque al vero spirito della serata. Che non a caso si è conclusa con due bis rappresentati da perfette citazioni delle Nozze di Figaro (“Non più andrai farfallone amoroso”) e del Don Giovanni (“Là ci darem la mano”) mimate dagli stessi musicisti con grandissimo spirito ed esilarante teatralità (il fagotto-don-giovanni che concupiva l’oboe-zerlina era assolutamente irresistibile!). Una serata indimenticabile. Sembra che in questi anni ci sia una gran voglia di rinnovare la liturgia del concerto di musica classica, anche attraverso operazioni discutibili, mentre la strada maestra sarebbe proprio quella di riproporre partiture collaudate di capolavori poco frequentati, scritti per organici difficili da mettere insieme e da inserire nel circuito dei recital e delle tournée orchestrali. *** Un altro esempio di questo genere si è presentato il sabato successivo a villa Bossi di Bodio, sul lago di Varese, un luogo magico cui avevo già fatto cenno in questa rubrica nello scorso novembre. Lì il trio formato dal flautista Giuseppe Nova, dal fagottista Rino Vernizzi e dal pianista Giorgio Costa, ha eseguito un programma di trascrizioni di arie d’opera (Verdi, Donizetti, Bellini, Mozart) che si è concluso con le Quattro Stagioni di Piazzolla; musiche che hanno divertito enormemente il pubblico di appassionati cultori di musica da camera che una volta tanto, anziché concentrarsi sulla complessità dell’ascolto, hanno potuto provare il piacere dell’ascolto disimpegnato e giocoso. *** Nella settimana appena trascorsa gli strumenti a fiato sono stati protagonisti anche del concerto diretto da John Axelrod all’Auditorium in cui è stata eseguita una suite orchestrale della “Ascesa e caduta della città di Mahagonny” – l’opera di Kurt Weill su libretto di Bertold Brecht – seguita dalla famosissima e amatissima Quinta Sinfonia di Mahler. La piacevolezza della musica di Weil è arcinota e anche questa Suite è stata travolgente; forse non si è rivelata l’introduzione più appropriata alla Sinfonia di Mahler, sia dal punto di vista psicologico (da una parte ironia e indignazione, dall’altra la depressione e il senso della tragedia più profonda) che con riferimento alla cronologia (l’opera di Weil è stata scritta un quarto di secolo dopo quella di Mahler e c’è stata di mezzo la grande guerra!). Non occorre essere dei grandi mahleriani per amare questa Sinfonia il cui “Adagietto” (unica parte senza fiati, affidata solo agli archi e all’arpa) è la struggente colonna sonora del film “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, a sua volta tratto dal romanzo di Thomas Mann: un vero grandioso monumento letterario - cinematografico - musicale del novecento che tocca il cuore a qualsiasi appassionato di musica, dai più giovani ai più attempati. 11 www.arcipelagomilano.org Benché caratterialmente poco adatto a dirigere il cupo e depresso Mahler - e in particolare questa Quinta Sinfonia dominata dal senso della morte - grazie alla passione che le dedica e al temperamento che lo guida, il texano John Axelrod è riuscito a rivelare inattesi risvolti della grande costruzione sinfonica mahle- riana e a suscitare forte emozione nel pubblico. Certamente il carattere estroverso del direttore ha prevaricato la compostezza e la concettualità dell’opera di Mahler (la gravità della Marcia funebre e la lievità dell’Adagietto, per esempio, si sono perse un po’ per la strada!) e tuttavia l’interpretazione che ne ha offer- to non l’ha penalizzata più di tanto. Ovviamente anche in questo caso la parte del leone è toccata – non inopinatamente – ai legni e agli ottoni che hanno brillato per precisione, generosità e qualità del suono. ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi [email protected] Parigi è a Milano grazie agli scatti di Brassaï In tempo di Expo Palazzo Morando porta Brassaï a Milano: dal 20 marzo al 28 giugno 2015 sono esposte al piano terra del palazzo di via S. Andrea 260 immagini di una Parigi onirica e poetica attraverso lo sguardo innamorato dell’artista ungherese che fece sua la capitale francese. Nato nel 1899 a Brasso (l’attuale Braşov) in Transilvania, Gyula Halász - che prenderà il nome di Brassaï quando inizierà a fotografare, nel 1929 - arriva la prima volta a Parigi a soli 4 anni, con il padre, professore di letteratura che vi trascorre un anno sabbatico. I ricordi di quegli anni, come "petites madeleines" di proustiana memoria, rimarranno in lui riaffiorando talvolta e lasciandogli perennemente dentro uno sguardo incantato nei confronti della città. Le prime tre sale portano il visitatore in una Parigi dolce, malinconica: dove i bambini dai calzini bianchi giocano con le barchette al Jardin du Luxembourg o i leoni di pietra hanno criniere di neve nel parco delle Tuileries. La Tour Eiffel luccica nella notte e a Longchamp si pesano i cavalli da corsa. Passano gli anni e lo sguardo muta, giunge il disincanto ma rimane l’accuratezza e le assenza di giudizio nel raccontare la notte e i suoi protagonisti. Brassaï inizia a inseguire, nella luce notturna della città, una Parigi insolita, sconosciuta e finora non degna di attenzione. Durante le sue lunghe passeggiate che lo portano solo o in compagnia di Henry Miller, Blaise Cendrars e Jacques Prévert, complici nell’alimentare le sue curiosità, rende visibili le prostitute dei quartieri “caldi” o i lavoratori della notte alle Halles, o ancora i quarti di animali appesi dai macellai. Brassaï in quegli anni ricerca gli oggetti più ordinari e ne trasforma il significato, osa giustapposizioni insolite e defamiliarizza la percezione, togliendo il reale dal suo contesto. Il suo pensiero si concentra nel trasformare il reale in decoro irreale, è a partire dal 1929 che nascerà la sua ostinata ricerca dei graffiti. Circo, nudi femminili, ancora Parigi, Picasso e molti altri artisti sono i soggetti degli scatti del grande fotografo (ma anche scrittore e cineasta) che testimoniano il tanto profondo quanto fecondo rapporto che per oltre cinquanta anni lo ha legato alla Ville lumière, fino alla sua scomparsa nel 1984. Brassaï. Pour l’amour de Paris Palazzo Morando | Costume Moda Immagine via Sant’Andrea 6, piano terra, spazi espositivi 20 marzo – 28 giugno 2015, mart. – dom., ore 10 19 Biglietteria € 10,00 / 8,50 / 5,00 Pietà Rondanini: la nuova casa aspetta i milanesi Dopo una vicenda travagliata durata alcuni anni, la Pietà Rondanini trova finalmente pace in un Museo a lei interamente dedicato. Dopo sessant’anni trascorsi nell’allestimento di BBPR nella Sala degli Scarlioni del Museo d’Arte Antica, l’ultimo lavoro di Michelangelo, quello forse più intimo ed emozionante, raggiunge una nuova collocazione, anch’essa densa di valore e simbologia. È l’antico Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco, realizzato nella seconda metà del Cinquecento per i soldati della guarnigione spagnola colpiti dalla peste, che porta in sé, per sua natura, l’essenza del dolore e della sofferenza. Termina così il percorso durato tre anni, da quando si è riconosciuta l’esigenza di dare rinnovato valore alla scultura michelangiolesca, che l’ha vista al centro di accesi dibattiti sia nel mondo politico che n. 16 VII -29 aprile 2015 in quello culturale e si conclude in un evento di grande festa cittadina dove l’opera preziosa torna a Milano e ai milanesi in occasione dell’inaugurazione del palinsesto di Expoincittà. «Il nuovo allestimento ribalta completamente la visione a oggi consueta dell’opera: entrando i visitatori vedranno infatti la scultura di spalle e scorgeranno per prima cosa ciò che Michelangelo scolpì per ultima, la schiena della Madonna ricurva sul Cristo, rendendo ancora più intensa l’emozione per l’opera», afferma l’architetto Michele De Lucchi, cui è stato affidato il progetto allestitivo. «Solo girando attorno alla statua si vedrà la parte anteriore, con il Cristo cadente sostenuto dalla Madre: una prospettiva assolutamente inedita, voluta per mettere in risalto quella dimensione della scultura, incompiuta, prima impossibile da osservare nella sua completezza». Un allestimento che invita alla contemplazione e al raccoglimento di fronte all’opera incompiuta di Michelangelo e che forse, più di ogni altra, racchiude nell’abbraccio dei due corpi il senso dell’amore. L’ingresso nel museo conduce ad un’immersione che coinvolge tutti i sensi grazie al profumo del legno, il silenzio che inevitabilmente cala di fronte alla scultura e alla penombra che avvolge la sala concentrando la luce solo sulla statua. Museo Pietà Rondanini_Michelangelo - Milano, Castello Sforzesco, Cortile delle Armi Sabato 2 maggio apertura inaugurale alla città dalle ore 14 fino alle ore 23 Ingresso gratuito al Museo Pietà Rondanini tutti i giorni (lunedì 4 maggio compreso) fino a domenica 12 www.arcipelagomilano.org 10 maggio Giovedì 6 apertura prolungata dalle ore 9.00 fino alle ore 22.30 (ultimo ingresso ore 22) Dal 12 maggio 2015 l’ingresso al Museo della Pietà Rondanini è compreso nel biglietto unico per i Musei del Castello Sforzesco al co- sto di 5 euro (ridotto 3 euro) acquistabile presso la biglietteria dei Musei del Castello Sforzesco L’Africa si mostra a Milano L’Africa approda a Milano con una mostra allestita nel nuovo Mudec, il Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12 anni di agognati lavori. Il capoluogo lombardo, a breve al centro del mondo come sede dell’Esposizione Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli spiriti” è un interessante progetto espositivo che raccoglie circa 270 manufatti e che da il via alla vivace stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO 2015. La mostra si articola in vari ambienti presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e le cerimonie religiose. Sorprendenti risultano essere alcuni manufatti come cucchiai e olifanti realizzati interamente in avorio ed eseguiti con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è an- che il progetto d’allestimento che tenta di creare un’atmosfera intima e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è la soluzione adottata nella prima sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche sorrette da una struttura che vuole forse richiamare le affascinanti e impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di alcuni effetti sonori come il frinire dei grilli o il penetrante ritmo delle percussioni, espedienti che aiutano il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è la possibilità che ha quest’ultimo di far rivivere le divinità di un altare vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita gratuitamente, il visitatore è invitato a lasciare un oggetto personale in segno di devozione per manufatti che riescono ancora oggi a serbare in sé un elevato valore sacrale. La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e suggestiva illuminazione, i singoli reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di polvere e di impronte lasciate sulla superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni pannelli, ora velati da un sottile tessuto reticolato, ora posti in una zona d’ombra, lontano del cono di luce. Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio, elemento che porta il visitatore a doversi sforzare per leggerle. Tutti questi aspetti di disturbo non vanno, comunque, a intaccare una mostra che nel complesso risulta essere un ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea. Giordano Conticelli Africa - la terra degli spiriti fino al 30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro Italia Inside Out: i maestri della fotografia raccontano l'Italia Dal 21 marzo al 27 settembre 2015, Palazzo della Ragione ospita Italia Inside Out, la grande mostra di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più importanti fotografi del mondo. Un’unica iniziativa articolata in due successivi allestimenti, dal 21 marzo al 21 giugno con i fotografi italiani e dal 1° luglio al 27 settembre con i fotografi del mondo, che raccontano a chi li visita le trasformazioni e le emozioni di un’Italia che cambia dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. E il cambiamento si percepisce in ogni cosa: nelle tecniche, nell’uso del bianconero e del colore, nei ritratti e nelle storie dei protagonisti ritratti. Promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm Giunti, curata da Giovanna Calvenzi; l’allestimento si deve a un progetto scenografico di Peter Bottazzi dove ogni autore è una carrozza di un immaginario treno che porta il visitatore alla scoperta del Bel Paese. n. 16 VII -29 aprile 2015 Il viaggio inizia da Milano con le immagini storiche di Paolo Monti e qui si conclude con le vedute della nuova Milano di Vincenzo Castella; su ciascuna carrozza si scopre un’Italia differente per geografia (dalla Venezia degli anni cinquanta di Berengo Gardin alla Palermo della Battaglia, passando per il delta del Po di Pietro Donzelli); per epoche (la Sardegna dei primi anni ’60 di Franco Pinna, gli estemporanei anni ’80 della Via Emilia di Luigi Ghirri, ma anche il terremoto dell’Aquila ritratto da Marta Sarlo); per progetti (Io parto di Paola de Pietri, Gli ultimi Gattopardi di Shobha, Florence versus the World di Riverboom). La prima parte - INSIDE - accoglie dal 21 marzo al 21 giugno 2015 una selezione di oltre 250 immagini di quarantadue fotografi. Nella seconda parte - OUT -, dal 1° luglio al 27 settembre 2015, saranno protagoniste le fotografie dei grandi maestri internazionali, quali Henri CartierBresson, David Seymour, Alexey Titarenko, Bernard Plossu, Isabel Muñoz, John Davies, Abelardo Morell e altri. Quella ospitata negli spazi del Palazzo della Ragione è una mostra davvero ricca, piena di punti vista e sguardi, quasi troppo: al punto che il visitatore talvolta si smarrisce, vista l’assenza di un percorso definito, rischiando di non vedere alcuni degli autori. L’allestimento, poi, pare incompleto (o la scelta molto curiosa) laddove solo alcuni pannelli con le fotografie hanno le didascalie mentre altri no. E va aggiunto che al terzo giorno dall’apertura le audioguide sono ancora non pervenute, causa corriere. Si perdona tutto davanti alla bellezza di questa italianità per immagini? Italia Inside Out - I fotografi italiani fino al 21 giugno 2015 Palazzo della Ragione Fotografia Milano, Piazza Mercanti, 1 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 20.30/ Giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietto €12/10/6 Congiunto €18/16/9 13 www.arcipelagomilano.org Gli scatti di David Bailey: star system (e non solo) al PAC Varcare la soglia del PAC in questi giorni (fino al 2 giugno) è fare un tuffo tra i volti pop degli ultimi 50 anni: nella mostra Stardust sono esposti più di 300 scatti di David Bailey tra divi del cinema, grandi artisti visivi, top model ma anche persone normali e scatti sociali per risvegliare le più pigre coscienze. Curata dallo stesso artista e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra e con il magazine ICON, la mostra contiene una vasta serie di fotografie, selezionate personalmente da Bailey come le immagini più significative o memorabili della sua carriera, che ha attraversato più di mezzo secolo. Nello spazio progettato da Ignazio Gardella si articolano per temi alcuni dei progetti più interessanti del grande fotografo: dagli scatti realizzati per Vogue che lo hanno reso famoso nei primi anni ’60, alle immagini realizzate per i dischi dei Rolling Stones o ai gemelli pugili Reggie e Ronnie Kray; i grandi ritratti che hanno per protagonista Catherine Dyer, talvolta straordinaria modella talaltra moglie e madre dei loro tre figli, sempre donna di straordinaria femminilità. L’arte di Bailey non si limita però alle celebrità: sono una decina le fotografie appartenenti al progetto “Democracy”, realizzato tra il 2001 e il 2005, dove un gruppo di sconosciuti, a turno, ha posato nudo per 10 minuti; ci sono le immagini degli anziani con i costumi tradizionali scattate durante il viaggio nella regione indiana di Naga Hills; ci sono gli scatti dedicati ai teschi; c’è il reportage realizzato negli anni ’80 per portare l’attenzione mondiale sulla situazione in Sudan. Non l’ordine cronologico ma quello tematico sancisce ancora una volta la profondità e la qualità del lavoro del grande artista inglese, che attraverso le proprie immagini racconta non solo le storie dei protagonisti ritratti, ma anche del mondo attorno che li circonda. Unica pecca della mostra: l’assoluto divieto di usare gli smartphone e di fare fotografie all’interno degli spazi, curioso e un po’ anacronistico in un mondo dove la promozione e la comunicazione dell’arte passano anche attraverso la condivisione digitale. Stardust. David Bailey fino al 2 giugno 2015 PAC Via Palestro 14, Milano Da martedì a domenica 9.30 – 19.30, giovedì fino alle 22.30 Biglietti € 8,00/ 6,50 /4,00 Medardo Rosso alla Gam, con molti dubbi Medardo Rosso, torna ad essere protagonista di una mostra monografica a Milano dopo 35 anni dall'ultima. Organizzata e prodotta dalla Galleria d'Arte Moderna di Milano, da 24 ore Cultura - Gruppo 24, insieme al Museo Rosso di Barzio, la mostra è a cura di Paola Zatti, conservatore della Galleria d’Arte Moderna di Milano. Rosso è l'artista della forma che prende vita: nel percorso espositivo, tra gessi, bronzi e modelli in cera, oltre ad immagini d’archivio, i personaggi ritratti sono vive idee che si animano, con l’intento di perseguire non una verosimiglianza ma una rappresentazione dell’impressione. Le 15 opere di Rosso della GAM sono affiancate da una selezione significativa proveniente dal Museo Rosso di Barzio, che ha partecipato alla curatela della mostra, e una serie di prestiti nazionali e internazionali (Musée d’Orsay e Musée Rodin di Parigi, Staatliche Kunstammlungen di Dresda, il Museo d’Arte di Winthertur, Szepmuveszeti Muzeum di Budapest). L’insieme di queste opere consente di avere una visione ampia sia dei soggetti affrontati dall’artista sia della sua evoluzione interpretativa e della sua competenza e passione per la tecnica fotografica. Infatti ad arricchire l’esposizione è presente un cospicuo contributo iconografico che documenta il lavoro di Medardo: l’artista infatti quando esponeva i propri lavori creava loro intorno una sorta di scenografia che ne accresceva, o addirittura modificava, il senso. La straordinaria Madame X, opera del 1896, è al centro della terza sezione della mostra, e dialoga con due versioni a confronto in bronzo e cera dell’Enfant Malade, documento della fase sperimentale di Rosso. Seppur interessante il dialogo che si va a creare tra le sale della galleria e i lavori dell’artista, dove i grandi specchi consentono di osservare da diversi punti di vista le stesse opere, gli spazi danno poca aria alle sculture che ne risultano penalizzate e laddove vi siano dei gruppi guidati la visita risulta estremamente complessa, quasi impossibile. Il costo dell’ingresso è piuttosto alto (12€) considerando che si tratta di una mostra articolata in sole sei sale e che poi per visitare gli altri spazi della Galleria deve essere acquistato un ulteriore biglietto. Purtroppo si deve notare che il livello della conoscenza della lingua inglese da parte degli operatori della biglietteria non è adeguato, elemento invece che dovrebbe essere curato e seguito da ogni organizzazione in particolar modo nell’anno di Expo. Medardo Rosso la luce e la materia - fino al 31 maggio Galleria d'Arte Moderna di Milano via Palestro 16 - Lunedì 14.30 – 19.30 Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30 Giovedì 9.30 – 22.30 Food. Quando il cibo si fa mostra Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso di avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è seme fino alle reazioni chimiche che sottendono la cottura, passando at- n. 16 VII -29 aprile 2015 traverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi. La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del Museo di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal Comune di Milano sul tema di Expo 2015. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”. Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle più importan- 14 www.arcipelagomilano.org ti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato, senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo. Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di tante ricette vi siano principi di chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della mostra illustra come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa fare se la maionese impazzisce?). Quando poi sembra che niente in materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare giocano un ruo- lo determinante, al punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione. Il costo del biglietto è medio alto (12/10 euro), ma la visita merita davvero il prezzo d’ingresso se non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015. Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero [email protected] Ludovico Festa e Giulio Sapelli Se la Merkel è Carlo V Perché l'Italia può sfasciarsi come 500 anni fa Guerini & Associati 2014 pp. 175 euro 14,50 Un "pamphlet" che un celebre storico dell'economia e un non meno famoso giornalista politico hanno confezionato, in forma di dialogo, con un intento divertito e graffiante di descrivere le inquietanti analogie tra due fasi della storia italiana: il 1494-1527 e il 1992-2014. Vengono così messi a confronto due momenti cruciali di rottura. Il ventennio dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e quello successivo alla prima denuncia di Tangentopoli, individuando alcuni personaggi, eventi e istituzioni emblematici di entrambi. Naturalmente la provocazione è un'ospite fissa nella comparazione di due stagioni così lontane. Ma lo spirito di Sapelli e Festa è quello di indurre a ogni costo il lettore a una riflessione, magari stralunata ma impellente, al di là della miseria delle 140 battute, in cui si richiude oggi quasi ogni discussione pubblica. Il dialogo fra i coautori si snoda intorno a dieci comparazioni tra uomini, istituzioni e circostanze storiche di cui fa da sfondo il binomio, già da solo poco rassicurante, tra il fallimento del tentativo di costruire uno stato unitario alla fine del '400 e la disgregazione (relativa ma crescente) dell'attuale condizione repubblicana. Il primo capitolo, dedicato alle vite parallele di Ludovico il Moro e Enrico Cuccia ruota intorno al carattere autorevole/fragile di Milano e delle forze che nella capitale lombarda prevalevano a quei tempi, circo- n. 16 VII -29 aprile 2015 stanza questa che spiega in parte alcuni degli errori di due uomini non certo privi di grandezza, ma indotti, se non costretti, alla ricerca dell'"aiutino" straniero. I parallelismi tra Cesare Borgia e Bettino Craxi testimoniano nel secondo capitolo come sia difficile affermare una dinamica centripeta in una nazione dalle tendenze prevalentemente centrifughe, che li travolgeranno entrambi. La comparazione tra le stagioni delle grandi scoperte geografiche e dell'ingresso della Cina nel WTO, oggetto del terzo capitolo, fa pensare a come queste due fasi storiche abbiano cambiato il mondo e come in entrambe l'Italia si sia trovata spinta ai margini. Il quarto capitolo ruota sul gustoso confronto tra i Medici e la Democrazia Cristiana e sulla riflessione di come i processi della storia vadano esaminati con respiro adeguato: grandi forze, pure sconfitte, che hanno segnato la vita nazionale, non evaporano nel nulla ma mantengono un'influenza profonda. In questo senso, osservano maliziosamente Sapelli e Festa, anche il fenomeno Renzi ne è una manifestazione. Il paragone Dogi- Berlusconi, nel quinto capitolo, pure vistosamente spericolato, fa capire come certi fallimenti (quello veneziano nell'impedire un'egemonia straniera e quello berlusconiano nel guidare un qualche rinnovamento nello stato) ab- biano cause strutturali e non solo di natura etica o intellettuale. Non meno godibili i successivi capitoli dal sesto al nove. Il sesto è dedicato al binomio Papato rinascimentale e Quirinale post '92, invita a fondare eventuali giudizi morali su un 'attenta analisi di poteri che, per quanto programmaticamente super partes, vengono trascinati nel merito delle vicende politiche dalla propria struttura istituzionale. L'accoppiata Carlo V - Angela Merkel ruota attorno a una costatazione preoccupante: i danni per l'Italia sono inevitabili quando il centro del continente europeo si sposta verso l'interno e il nord, piuttosto che verso i grandi mari dell'Atlantico e del Mediterraneo. Il capitolo sulla "Riforma contrapposta di due agostiniani tedeschi", vale a dire Lutero e Ratzinger, si pone un interrogativo intrigante: il cristianesimo, che si divise nell'era del trionfo dell'Occidente, riconvergerà al momento del declino di quest'ultimo? Il confronto Lega di Cognac e coppia Tremonti - Fazio invita a meditare sul fatto che la tentazione di dividersi anche di fronte a un pericolo mortale è caratteristica di una nazione come l'italiana , che ancora si considera "in qualche modo", più parte di un impero che comunità anche solo relativamente autonoma. L'ultima sferzata è dedicata al binomio Sacco (anzi Sacchi) di Roma e svendita delle aziende italiane. E ce n'è per tutti in un impasto di iro- 15 www.arcipelagomilano.org nia crescente e di riferimenti corrosivi a nomi ed eventi che abbiamo troppo presto dimenticati e che ci ricordano tutti che "la situazione è disperata ma non seria". Paolo Bonaccorsi SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi [email protected] Al Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 30 aprile, è ancora possibile vedere Divine Parole, regia di Damiano Michieletto Divinas palabras racconta la storia di una comunità di “ultimi”, creature disperate, straccioni, ladri, prostitute, emarginati, che vivono alle porte di una città, in un’epoca e in un tempo non definiti, lottando gli uni con gli altri per la sopravvivenza. "È una sorta di parabola moderna, un racconto disperato e ancestrale – spiega Damiano Michieletto –. Una parabola nel senso di racconto epico, stagliato in una atmosfera nera e violenta. Racconta l'avarizia, la lussuria, l'ipocrisia. Racconta l'assenza di Dio e la lotta per recuperare in qualche modo il valore di una spiritualità. Le parole divine sono quelle che fermano il tempo. La necessità, il bisogno delle divinas palabra intese come elemento di spiritualità che sollevi l'essere umano da una quotidianità di squallore mi è sembrato l’elemento affascinante di questo testo barbaro ed enigmatico. Una invenzione teatrale ruvida e ostica, che mi ha portato a trovare certe affinità con il teatro di Pasolini In un contesto in cui vige lo scardinamento dei valori della convivenza civile, in una dimensione ferina, in cui tutto è violenza, sopraffazione, abiezione dell’individuo, il bisogno di qualcosa che sia "oltre" mi è apparso immediatamente contemporaneo. Una vicenda intrisa di sangue fin dai primi minuti, e dominata dal fango della strada in cui gran parte dell'azione si svolge, fino alla lapidazione finale, parallelo biblico in cui il Cristo ferma il tempo con le parole divine (qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat)". * da https://www.piccoloteatro.org/events /2014-2015/divine-parole Al Franco Parenti, sempre fino al 30 aprile, l’Amleto di CollettivO CineticO L’Amleto di CollettivO CineticO é un meccanismo letale. La scena é spazio preparato ad ospitare aleatorietà e inevitabilità in un limbo costante tra ironia e tragedia. Attori professionisti, dilettanti, malcapitati, timidi intellettuali, registi, parrucchieri, esibizionisti, danzatori, assicuratori annoiati, sostituti dell’ultimo minuto, critici, virtuosi e sfigati si contendono il titolo di protagonista dello spettacolo. Reali candidati che non sanno quello che li aspetterà in scena. Il loro unico riferimento è un manuale di istruzioni inviatogli due setti- mane prima. Ciascuno si prepara da solo presentandosi a teatro direttamente per salire sul palcoscenico. Guidati da una incorporea voce fuori campo e seguiti da secondini muti, i candidati si sfidano in una serie di prove che sintetizzano i principi formali dell’opera shakespeariana. Lasciati in balia di un’istruzione e nell’impossibilità di controllare fenomeni e competenze, precipitano tutti nella condizione amletica per eccellenza. Tra desolazione e intrattenimento sono gli spettatori di ciascuna replica ad eleggere il vincito- re del titolo, unico superstite tra i corpi e i resti dei suoi avversari abbandonati al suolo. Un panorama improbabile di Amleti tra gli innumerevoli interpreti che si sono confrontati per secoli con il più emblematico testo teatrale.* *da https://www.piccoloteatro.org/events /2014-2015/divine-parole Emanuele Aldrovandi CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi [email protected] I bambini sanno di Walter Weltroni [Italia, 2015, 113’] musiche Danilo Rea I riferimenti del documentario di Walter Veltroni, hanno origini lontane, non solo in tutte le pellicole del passato che sui bambini hanno incentrato il loro racconto cinematografico, (‘Billy Elliot’, ‘Io non ho paura’, ‘Stand by me’ e 'I 400 colpi' tra gli altri) a cui il regista fa un sentito omaggio in apertura di film. Riprendono quella strada tracciata da quel maestro del cinema italiano che era Comencini, a cui il film è n. 16 VII -29 aprile 2015 dedicato, quando rappresentò il mondo dell’infanzia che gli girava intorno, attraverso la realizzazione dei 6 episodi del programma televisivo “I bambini e noi” prodotto dalla RAI nel 1970 e andato in onda otto anni dopo. Quarant’anni fa Comencini si era messo in ascolto, senza maniera e senza una chiave interpretativa precostituita, girando l’Italia per intervistare e seguire tanti bambini con storie differenti, per appartenenza geografica, estrazione sociale e culturale, e ne aveva fatto un quadro collettivo dell’infanzia, con grande rispetto e pudore, restituendone i pensieri sulla loro condizione, e rivelando anche il suo personale stupore, sul racconto che ne era uscito. Veltroni ha cercato di riprendere quel filo, con l’idea di raccontare lo sguardo sull’Italia di oggi, attraverso le voci di 39 bambini tra i 9 e i 13 16 www.arcipelagomilano.org anni, sollecitati a parlare di tanti argomenti differenti, cercando di far affiorare quale consapevolezza, istintiva e ragionata insieme, i bambini abbiano della società in cui sono immersi, dei suoi cambiamenti, e delle relazioni non sempre facili con il mondo adulto e con le ‘cose’ dei grandi. Temi difficili, domande non semplici a cui i bambini rispondo in modo diretto, con profondità, questo anche grazie alla scelta di non parcellizzare le loro risposte in funzione dell’efficacia e dell’effetto di una battuta singola, ma lasciando scorrere il discorso, a volte saggio, a volte ingenuo, quasi sempre autentico. Lo sguardo dell’autore rimane fuori campo, come la voce, scegliendo ambientazioni che rischiano di sembrare troppo simili, e privilegia volti e voci, per lasciare spazio a un racconto dai tempi distesi dei protagonisti, evitando la strada più facile della raccolta di frammenti abilmente montati. Questo permette a chi guarda di entrare nelle storie, per saperne di più di questi bambini che hanno vissuti diversi. Di lasciarsi coinvolgere nelle rappresentazioni personali delle loro storie, sia che abbiano origini nella comunità di un orfanotrofio in Colombia, sia che rivelino la capacità di misurare la propria adolescenza con la piccola stanza di un albergo occupato, o di mostrare con sincerità la difficoltà di fare i conti con il talento non scelto di bambino geniale, o ancora la forza bella di un rapporto di sorellanza di reciproco aiuto. Lo scorrere quieto dei racconti permette di comprendere che i bambini sanno, sanno cosa sia la crisi, sanno che cosa siano le famiglie allargate, l’assenza di un genitore, la perdita di un lavoro, l’amore nelle diverse forme, e che per loro ‘futuro’ è una bella parola. Se lo spaccato sociale dei documentari di Comencini era più articolato e meno omogeneo, il ritratto meno consolatorio e più spiazzante e sorprendente (e la sua lunghezza tutta utile, mentre in questo caso qualche lunghezza poteva essere alleggerita), la visione in sala del film di Veltroni innesca nel pubblico adulto (e dicono anche in quello dei bambini) un vivace sentimento di partecipazione: si ride, si sorride e si pensa, ci si commuove. Si è coinvolti dalla diversità e vivacità delle voci di tutti, con pizzico di nostalgia per quel tempo in cui alla domanda ‘Cosa serve nella vita per essere felici’ si poteva anche rispondere subito: “Sognare”. Adele H. IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE DARSENA BELLA DI NOTTE http://blog.urbanfile.org/2015/04/26/zona-ticinese-la-piazza-della-gente/ videomakARS [ Milano, a place to BE ] “BE Art” https://youtu.be/Q_n_r_PHuQ8 n. 16 VII -29 aprile 2015 17