RASSEGNA STAMPA 23 MARZO 2010 www.corriere.it I DATI DELL'UNEP DIFFUSI IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELL'ACQUA La strage di bambini senz'acqua: 1,8 milioni di morti ogni anno Quasi un miliardo di persone non hanno accesso a fonti sicure. In Italia la rete idrica è un colabrodo ROMA - L'acqua fa strage, ogni anno. Non per inondazioni o altre calamità naturali: perché non c'è o è inquinata. La Giornata Mondiale dedicata a questo elemento voluta dall'Onu che si celebra il 22 marzo, serve anche quest'anno per valutare la situazione drammatica in cui versa questa fonte di vita. Sono almeno 1,8 milioni i bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno per malattie collegate alla qualità dell'acqua: uno ogni 20 secondi. Questa terribile contabilità è contenuta in un rapporto diffuso dall'Unep, il programma Onu sull'ambiente, diffuso in occasione della giornata mondiale dell'acqua. Lo stesso rapporto informa che «oltre metà dei letti d'ospedale nel mondo sono occupati da persone che hanno malattie derivanti da acque inquinate». Inoltre, «si stima che intorno al 90% di casi di diarrea, che uccide ogni anno 2,2 milioni di persone, sono causati dal bere acqua poco sicura e da scarsa igiene». 900 MILIONI SENZA ACQUA POTABILE - Sono circa 900 milioni le persone che non hanno accesso ad acqua potabilmente sicura - continua l'Unep - e si stima che 2,6 miliardi di persone non abbiano la possibilità di assicurarsi un'igiene basilare, è per la maggior parte gente che vive nell'Africa subsahariana e nell'Asia meridionale. La situazione di inquinamento delle acque è tale che ci sono molte più persone che oggi muoiono per acqua contaminata o inquinata che per qualsiasi forma di violenza, guerre incluse. LA RETE IDRICA ITALIANA E' UN COLABRIDO - In Italia «l'attuale rete idrica è un vero e proprio colabrodo, soprattutto nel Mezzogiorno. Per la fatiscenza delle infrastrutture, su 383 litri di acqua erogati mediamente per ogni cittadino, solo 278 litri arrivano realmente a destinazione. Solo in Puglia si disperde il 28% dell'acqua trasportata». La denuncia è fatta da Giuseppe Politi, presidente della Cia-Confederazione italiana agricoltori. «Per questo motivo, da tempo - ha detto Politi - si evidenzia l'esigenza di una gestione innovativa delle risorse idriche a livello amministrativo, di investimenti aziendali nei nuovi sistemi di irrigazione, di sostegno alla ricerca per la diffusione di coltivazioni agricole meno idroesigenti». «L'agricoltura intende così fare la propria parte, sostenendo che servono una programmazione dell'impiego dell'acqua, il coordinamento dell'uso con gli altri settori, l'ottimizzazione dell'utilizzo idrico e politiche di ambito e di bacino» ha concluso Politi. 1 CODACONS: LA PRIVATIZZAZIONE COSTERA' IL 30% IN PIU' - Codacons in occasione della giornata mondiale dell’acqua denuncia quanto peserà sulle tasche delle famiglie italiane la privatizzazione dell’acqua decisa nei mesi scorsi dal Parlamento. Una vera e propria stangata, con un aumento medio delle tariffe dell’acqua pari al 30% in 3 anni. «Se nel 2009 - scrive il Codacons - una famiglia media italiana ha speso 268 euro, considerando un consumo medio annuo di 200 metri cubi d’acqua potabile, tra 3 anni quella stessa famiglia spenderà in media 348 euro all’anno, con un incremento di 80 euro, pari appunto al 30%». IL WWF LANCIA IL CENSIMENTO DEI FIUMI - «Non solo rubinetto» è invece l'appello del Wwf nella giornata mondiale per l'acqua a tutela dei fiumi italiani. L'associazione lancia la Campagna «Liberafiumi» 2010, un grande censimento che consentirà di verificare lo stato di salute delle sponde delle principali "vene blu" del nostro paese come il Piave, il Tagliamento, il Tevere, l'Arno, ma anche quelli più piccoli ma strategici per la sicurezza ambientale dei territori da loro attraversati come le fiumare calabresi, i corsi d'acqua della Liguria, della Toscana che anche quest'anno hanno subito inondazioni e smottamenti. Il prossimo 2 maggio il Wwf coordinerà circa un migliaio di volontari per setacciare 25 fiumi italiani lungo l'intera penisola, grandi isole comprese. I primi risultati del censimento verranno divulgati domenica 16 maggio per la Giornata Oasi, IL MOTORE DI RICERCA BAIDU POTREBBE CONQUISTARE IL 95% DEL MERCATO «Basta censura». Google via dalla Cina La società reindirizza il traffico al portale di Hong Kong. Nel Paese resteranno solo alcune attività commerciali MILANO - Google Cina chiude i battenti. Come previsto, dopo due mesi di braccio di ferro con Pechino seguiti a un violento attacco hacker, la società di Mountain View ha deciso di non sottostare alla censura imposta dal regime. E, almeno per il momento, ha trovato un modo per aggirarla: reindirizzando il traffico al sito di Hong Kong, Google.com.hk, che offre risultati non filtrati in cinese. Con la frase: «Benvenuti nella nuova casa di Google Cina». «GROSSO ERRORE» - Un passo che come prevedibile non incontra il favore delle autorità di Pechino, che hanno parlato di una decisione «completamente sbagliata» e di violazione di una «garanzia scritta». «Google è venuto meno al suo impegno scritto fatto quando ha deciso di entrare nel mercato cinese fermando il filtraggio del suo motore di ricerca e addossando alla Cina la responsabilità degli attacchi dei pirati informatici - ha detto un funzionario dell'Ufficio informazione del Consiglio di Stato -. Questo è totalmente sbagliato. Ci opponiamo senza compromessi alla politicizzazione delle questioni commerciali ed esprimiamo malcontento e indignazione per le irragionevoli accuse e il comportamento di Google». Anche la Casa Bianca ha commentato i nuovi sviluppi della vicenda. «Siamo delusi del fatto che Google e il governo cinese non siano stati in grado di raggiungere un accordo» ha detto il portavoce Mike Hammer. ATTIVITÀ DI VENDITA - Una nota pubblicata sul blog della società spiega che 2 resteranno in Cina alcuni servizi commerciali, come la vendita di inserzioni pubblicitarie sui motori di ricerca. Insomma si cerca di tenere almeno un piede in un mercato in piena esplosione. «Riteniamo che questo nuovo approccio di fornire ricerche non censurate in cinese semplice attraverso Google.com.hk sia una soluzione ragionevole - viene spiegato -: è interamente legale e aumenterà significativamente l'accesso all'informazione dei cinesi. Ci auguriamo che il governo cinese rispetti la nostra decisione, anche se siamo consapevoli che potrebbe bloccare l'accesso ai nostri servizi». Una strategia rischiosa, che potrebbe innescare ritorsioni. Le autorità cinesi potrebbero per esempio utilizzare filtri per bloccare l’accesso al motore di ricerca con base a Hong Kong. L'ASCESA DI BAIDU - Secondo le stime della Cnbc Baidu (il principale motore di ricerca in lingua cinese) potrebbe ora conquistare il 95% del mercato della ricerca online. Mentre il quotidiano finanziario Bloomberg prevede che Mountain View si espanderà in mercati come la Corea del Sud e il Giappone, dove finora è riuscita a conquistare solo una frazione della popolarità di cui gode in Europa e Stati Uniti. Non si sa invece quale sarà il destino dei quasi 600 dipendenti della sede di Google a Pechino: «È ancora presto per dirlo» fanno sapere dal quartier generale in California. GLI ATTACCHI DI GENNAIO - Non è chiaro da dove venissero gli attacchi informatici subiti da Google a gennaio, ma alcuni analisti vi hanno ravvisato un coinvolgimento indiretto del governo di Pechino. Tra le vittime degli hacker ci sarebbero infatti diversi dissidenti (le cui caselle di posta elettronica sono state aperte), oltre a grandi multinazionali, molte delle quali statunitensi. Google ha minacciato di smettere di utilizzare i filtri richiesti dalla censura cinese e poi di chiudere il portale se non fosse stata messa in grado di garantire la sicurezza ai suoi clienti. Evidentemente nessun accordo era possibile. Redazione online «Ad Atene prestiti, non sovvenzioni» Monito di Trichet, ma l'euro precipita Il presidente della Bce: «Sostengo solo se Eurozona a rischio». Moneta unica ai minimi sul franco svizzero STRASBURGO- Un intervento «a sostegno della Grecia» deve rispondere a due principi: «non deve essere una sovvenzione» e al tempo stesso deve implicare «condizioni estremamente rigorose»; il secondo «è che ci si deve trovare in una situazione straordinaria che ponga un problema immediato per l'Eurozona». Il presidente della Bce Jean-Claude Trichet - in vista del vertice europeo in programma il 25 e il 26 marzo che sarà chiamato a decidere su eventuali interventi a favore di Atene - ha provato a porre le condizioni dell'istituto centrale di Francoforte durante un discorso all'Europarlamento. Il numero uno della Banca centrale europea ha specificato che aiuti a favore della Grecia, alle prese con un debito pubblico in crescita esponenziale e una situazione di stagnazione economica molto pesante, dovrebbe essere inteso «non come una sovvenzione» ma come un «prestito» a condizioni ben precise e rigorose. Trichet non ha specificato se la Grecia e l'Eurozona attualmente si trovino in questa situazione. E pertanto, vista l'incertezza, i mercati hanno reagito facendo precipitare le quotazioni della valuta europea. 3 L'EURO PRECIPITA - L'euro è infatti crollato pochi minuti fa al minimo storico contro il franco svizzero, toccando quota 1,4310. Il livello raggiunto non era mai stato toccato dal 1999, data di debutto della divisa europea. L'euro ha chiuso debole anche contro dollaro, poco sopra la soglia di 1,35 dollari, dopo aver toccato i minimi da tre settimane a quota 1,3464. La divisa europea passa di mano sul finale a 121,71 yen mentre la moneta giapponese vale 90,01 dollari. RIPRESA MODERATA - Trichet ha anche descritto lo stato di salute dell'economia continentale, affermando che nel 2010 la ripresa sarà moderata e prevarrà uno scenario «di alta incertezza». Nel medio termine si prevedono inoltre «basse pressioni inflazionistiche». CONTI PRIORITÀ ASSOLUTA - «Il rischio che squilibri globali insostenibili possano riemergere nel prossimo periodo non può essere sottovalutato», ha detto ancora il presidente della Bce, invitando tutti i Paesi della zona euro «a rafforzare gli impegni sul fronte del risanamento dei conti pubblici». Questa, per Trichet, deve essere «la priorità assoluta dei governi nazionali, che dovranno prendere ulteriori misure nei prossimi anni per correggere i deficit eccessivi nei tempi previsti». Redazione online INAUGURATA OGGI FILIALE A MILANO. LE GENERALI PRIMO AZIONISTA L'integrazione passa per lo sportello Nasce Extrabanca, istituto di credito per gli immigrati. Prossima apertura a Roma. Nel 2015, 25-40 filiali MILANO - Nasce a Milano Extrabanca, il primo istituto di credito in Italia dedicato ai cittadini immigrati. La banca, che ha come primo azionista Assicurazioni Generali, con una quota di oltre il 12%, punta a diventare l’interlocutore di riferimento per un segmento di mercato in forte crescita attraverso una rete di agenzie nelle principali città del Nord e Centro Italia, a maggior densità di presenza di immigrati. La clientela sarà composta prevalentemente dagli immigrati residenti in Italia, in particolare famiglie, liberi professionisti, esercizi commerciali, ditte individuali e piccole imprese, con fatturato non superiore ai 2,5 milioni. Per venire incontro al meglio alle esigenze dei clienti tutte le filiali saranno aperte con orario continuato dalle 9 alle 19 dal lunedì al sabato e, in alcune occorrenze, anche la domenica. Dopo l’inaugurazione di Milano, con la filiale di via Pergolesi, la prossima apertura sarà a Roma, mentre per il 2015 Extrabanca prevede di aprire dai 25 ai 40 nuovi sportelli, a cominciare dalle città di Torino, Brescia, Verona e Bergamo. LA BANCA - Lo staff della banca conta attualmente 20 professionisti, un team di lavoro multiculturale composto al 55% da stranieri di 11 nazionalità diverse, appartenenti alle più importanti etnie presenti nel Paese. «Siamo la prima banca multietnica e con uno staff multietnico che mette realmente al centro il cliente immigrato, restituendogli dignità - ha commentato il presidente, Andrea Orlandini - La realtà bancaria che abbiamo pensato consente di interpretare al meglio le aspettative di questa clientela e di sostenere l’eccellenza delle loro aziende. E’ un progetto di cui Milano si assume la leadership a livello italiano e l’Italia se la 4 assume a livello europee visto che non esiste nulla di simile in Europa». Fra i principali azionisti di Extrabanca, oltre alle Generali, figurano la Fondazione Cariplo, con una quota di oltre il 4%, e imprese private del Nord-Centro Italia, tra cui il gruppo Arici con il 10%, il gruppo Giglio con l’8% e la famiglia Amenduni con il 4%. IL MESSAGGIO - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato ai vertici di «Extrabanca», ha espresso «apprezzamento» per un'iniziativa «che trova nei principi fondamentali delle moderne società multietniche le ragioni e lo spirito della cua costituzione». I PRODOTTI - L’offerta dei prodotti e dei servizi della banca sarà di facile comprensione e con una struttura di prezzo trasparente: elementi centrali dell’offerta saranno i prodotti di risparmio, i finanziamenti alle famiglie (prestiti personali e mutui) e alle imprese, la monetica (carte di debito, carte di credito a saldo e revolving, carte prepagate, carte conto) e le rimesse. Tra le iniziative commerciali che Extrabanca lancerà ci saranno un conto corrente senza canone (ExtraZero), un libretto di risparmio remunerato al 3% (ExtraRisparmio per gli adulti, ExtraKids per i loro figli) e un concorso a premi che metterà in palio dei biglietti aerei verso i paesi di provenienza dei nuovi clienti. Numerose poi le modalità con cui inviare il denaro all’estero, tra le quali il bonifico friendly e le carte prepagate Bridge. GLI OBIETTIVI - I target fissati al 2015 vedono i clienti ammontare tra 85mila e 130mila per una raccolta totale di 650 milioni-1 miliardo di euro. Quello degli immigrati è un mercato con potenzialità di crescita molto interessanti e stime di sviluppo importanti: il tasso medio di crescita degli stranieri residenti stimato per il periodo 2009-2012 è pari al 17% (6,5 milioni di stranieri residenti previsti nel 2012). Nello stesso periodo, si stima che il tasso medio di crescita sarà pari al 24% per i ricavi generati dagli stranieri, al 26% per gli impieghi, al 21% per la raccolta e al 24% per il numero di imprese da essi avviate (310mila stimate nel 2012). Redazione online «PER USCIRE DALLA CRISI BISOGNA RECUPERARE LA FIDUCIA A LUNGO TERMINE» L'appello di Trichet: «Ricollegare la finanza all'economia reale» Il presidente della Bce: «Serve più trasparenza, soprattutto nel mercato dei derivati» BRUXELLES - Serve al più presto una riforma del sistema finanziario: il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, sottolinea l'importanza di valutare con attenzione le lezioni della crisi economica e - durante un convegno alla Commissione europea - ribadisce la necessità che «la finanza sia nuovamente e adeguatamente collegata all'economia reale». Il presidente della Banca centrale europea chiede poi maggiore trasparenza nel mercato dei derivati, in particolare dei Cds (i credit default swap, ndr): «Le autorità devono essere capaci di raccogliere informazioni, valutare i rischi possibili e rilevare le eventuali condotte improprie». 5 FIDUCIA - Per uscire definitivamente dalla crisi, aggiunge Trichet, «abbiamo bisogno di recuperare la fiducia a lungo termine, e questo richiede quadri di azione politica che dovranno essere robusti contro le sfide future». «Nel momento di massima crisi avevo affermato ripetutamente che il recupero della fiducia era essenziale. Da allora la fiducia a breve termine è stata recuperata, non per ultimo grazie ad azioni politiche coraggiose a livello globale», sottolinea Trichet. Una delle sfide centrali per la gestione delle crisi, a questo punto, è «la velocità». «La rapidità di eventi imprevisti è una delle più grandi sfide per i policy makers», afferma Trichet. Anche se «le crisi finanziarie non sono assolutamente fenomeni nuovi, la velocità della loro trasmissione è aumentata tremendamente negli ultimi decenni - spiega - e l'ultimo intensificarsi della crisi attuale si è diffuso in tutto il mondo nel corso di una mezza giornata». Redazione online www.denaro.it Unicredit, ruolo più forte delle autorità dell'Ue Le autorità europee di vigilanza sul sistema bancario dovrebbero avere un ruolo più forte: così l'ad di Unicredit, Profumo. "In caso di crisi devono avere poteri ancora maggiori, e non minori - ha detto Profumo aggiungendo che nel caso di una crisi di un istituto bancario le autorità dovrebbero essere in grado di nominare un amministratore speciale con poteri adeguati". www.milanofinanza.it Sale tensione tra Grecia e Germania, le banche speculano sui bond greci 22/03/2010 15.10 Sale la tensione tra Grecia e Germania. Il vice primo ministro greco, Theodoros Pangalos, ha infatti accusato le banche tedesche di stare approfittando della critica situazione finanziaria del Paese ellenico, mentre gli esportatori tedeschi traggono beneficio da un euro debole. Ritiene, in particolare, che la Germania stia consentendo alle proprie banche di prendere parte a un "deplorevole gioco" di speculazione sui bond greci. "Tanto più a lungo il sud dell'Europa rimane sotto pressione, l'euro viene scosso e indebolito, mentre migliorano le condizioni che permettono alla Germania di aumentare le 6 esportazioni contro terzi", ha spiegato il vice primo ministro. Theodoros Pangalos si è quindi detto preoccupato che, se non viene presa una decisione velocemente, allora l'euro non avrà senso e, se la moneta unica, fallisce "questo ci porterà di molti decenni indietro in termini di integrazione europea". Dichiarazioni che hanno appesantito l'euro, indicato ora a 1,3480 dollari (1,3513 a metà seduta) e le Borse europee (-0,9% l'indice Ftse Mib a Milano). Un sondaggio FT/Harris pubblicato sul Financial Times di oggi mostra che il 62% dei tedeschi sono contro l'ipotesi che il loro Governo aiuti Atene, mentre solo il 20% è favorevole. Un terzo dei tedeschi ritiene che bisognerebbe chiedere alla Grecia di uscire dall'euro mentre il 40% crede che la Germania starebbe meglio fuori dall'unione monetaria. Parigi e Roma hanno chiesto a gran voce di sostenere Atene in parte perchè temono di poter essere i prossimi obiettivi della speculazione dopo la Grecia. Qualunque programma di sostegno finanziario ad Atene dovrebbe ricevere il via libera della Corte costituzionale tedesca che negli anni Novanta, quando ha approvato il Trattato di adesione alla moneta unica, ha fissato una serie di paletti per evitare trasferimenti di denaro ad Stati membri dell'eurozona. Visti gli ostacoli legali e politici i consiglieri di Angela Merkel hanno suggerito che la Grecia giochi la carta del Fondo monetario internazionale. Ma il presidente della Commissione europea Barroso ha ricordato oggi alla Germania che è nel suo stesso interesse preservare la stabilità della zona euro che rappresenta il primo mercato di sbocco per le esportazioni tedesche. Le autorità elleniche hanno annunciato un terzo piano di austerità da 4.8 miliardi di euro (circa il 2% del Pil), destinato a ridurre in maniera sostanziale il deficit previsto per il 2010. Questo provvedimento, unito al sostegno politico espresso dai Paesi europei, si è tradotto la scorsa settimana in una leggera diminuzione del premio di rischio associato al debito sovrano della Grecia. L'accoglienza favorevole dei mercati finanziari ha permesso alle autorità di lanciare un’emissione a dieci anni di 5 miliardi di euro a un tasso del 6,3%, che è un tasso di certo alto, che però ha generato una domanda di tre volte superiore alla disponibilità. Peraltro, la proposta di creare un meccanismo per prestiti bilaterali per salvaguardare la stabilità dell'Eurozona "vale solo per la Grecia", ha indicato oggi il portavoce del commissario Ue agli Affari Economici, Olli Rehn. La Commissione europea ha anche ribadito che la proposta lanciata dal presidente, Josè Barroso, venerdì sera è pienamente compatibile con la legislazione europea e con i dispositivi della Corte costituzionale tedesca: la clausola europea del "no salvataggio" non vuol dire "nessuna assistenza" a un Paese che si trova in difficoltà. "Questa boccata d'ossigeno è arrivata a segno; sarebbe tuttavia un errore pensare che il problema del controllo del debito pubblico sia definitivamente risolto", sostengono gli esperti di Banca Syz. "Nei prossimi mesi, o anni, non si può escludere il riacutizzarsi delle tensioni legate alla Grecia o ad altri Paesi e non solo della zona euro". Oggi la Banca centrale ha stimato che il prodotto interno lordo greco calerà del 7 2% nel 2010. Secondo il rapporto annuale di politica monetaria, la Grecia si ritrova in "un circolo vizioso" poichè la drastiche misure adottate per ridurre il deficit pubblico non mancheranno di avere un impatto sul ritmo di crescita del Paese. Sempre secondo la banca centrale, la durata della recessione e le prospettive di ripresa dipenderanno in larga misura dall'efficacia con cui il Governo sarà in grado di attuare le misure di austerity varate nel corso degli ultimi mesi. "Il cambiamento di direzione non sarà facile e non avverrà in tempi rapidi". Da una parte il Paese deve infatti affrontare una serie di riforme strutturali di ampio respiro e dall'altra la crisi greca avviene in un contesto in cui l'economia europea rimane debole e strettamente dipendente dalle misure di stimolo fiscale. "La ripresa dell'eurozona rimane fragile ed è ancora basata, in larga misura, dalle misure straordinarie di stimolo che ora dovranno essere lentamente ritirare visto gli alti deficit e il debito accumulato dalla maggior parte delle economie avanzate". Francesca Gerosa Cina, aumento prestiti può riflettere crisi più profonda 22/03/2010 16.30 Il premier cinese, Wen Jiabao, ha detto che un aumento dei prestiti bancari può riflettere problemi istituzionali più ampi. "Ho già detto che è importante gestire le aspettative inflazionistiche e migliorare la gestione dei prestiti. E' corretto dire che abbiamo capito l'importanza di queste misure in una fase preliminare", ha detto Wen. "Ma abbiamo assistito a un altro aumento dei prestiti bancari a gennaio di quest'anno e questo mi fa pensare che forse si tratta di un problema istituzionale", ha aggiunto. Wen Jiabao ha aggiunto che il 'dialogo strategico' che si terrà a maggio con gli Stati Uniti sarà "molto importante" per affrontare i problemi che esistono tra i due paesi. Il premier cinese ha annunciato che la Cina aumenterà le proprie importazioni dagli Usa. Cina: Ocse, rivalutazione yuan per contenere inflazione 22/03/2010 12.30 L'Ocse ha affrontato con la Cina il tema della rivalutazione dello yuan per contenere l'inflazione nel lungo termine, ma la decisione di intervenire spetta ai cinesi. Lo ha detto il vice segretario generale dell'Ocse, Richard Boucher, ai margini di un evento organizzato dalla Banca di riserva dell'India. "Come abbiamo evidenziato nel nostro rapporto sulla Cina, la rivalutazione è una delle strade per contenere l'inflazione", ha detto Boucher. "Il segretario generale lo ha detto chiaramente la scorsa settimana alle autorità cinesi, con le quali il dialogo continua" ha aggiunto, sottolineando che "comprendono la teoria economica, ma è difficile dire quando decideranno di metterla in pratica". www.ilfoglio.it Il potere destabilizzante del web 8 Così l’America esporta Internet gratis nei regimi. La Cina contrattacca Sul ramificato sistema di sanzioni ed embarghi imposti dal governo americano verso stati potenzialmente (o attualmente) pericolosi è improvvisamente calata la parola “deroga”. Lunedì scorso l’ufficio per il controllo degli asset stranieri – un comparto strategico del dipartimento del Tesoro che opera al confine delle competenze diplomatiche – ha annunciato alcune particolari eccezioni per l’esportazione di servizi americani verso Iran, Cuba e Sudan, paesi interdetti a vario titolo dalle relazioni economiche con gli Stati Uniti. La deroga annunciata dal governo riguarda le esportazioni di “alcuni servizi e software inerenti alla comunicazione personale su Internet”, che tradotto significa social network, chat, servizi email, blog, siti per la condivisione di immagini e tutto quell’apparato tecnologico che permette agli internauti di collegarsi e bypassare in qualche modo le rigide maglie del controllo governativo. Una prassi esemplificata a livello mondiale dai racconti dei manifestanti di Teheran dopo le elezioni dell’estate scorsa, scivolate fra le dita dei controllori di regime e finite nel mainstream grazie a Twitter. Nel presentare il decreto il numero due del Tesoro, Neal Wolin, ha ripetuto che il principio ispiratore della deroga è il “profondo impegno dell’Amministrazione nell’estendere i diritti universali a tutti i cittadini del mondo”. Una vasta operazione umanitaria, dunque, che “permetterà ai cittadini dell’Iran, di Cuba e del Sudan di esercitare i loro diritti fondamentali”. Ma al di là di generiche dichiarazioni di principio sulla libertà di parola, la “final rule” emessa dopo mesi di discussioni avviate dal dipartimento di stato contiene una serie di implicazioni politiche. Le comunicazioni personali nell’era digitale sono, si legge nel testo ufficiale, “strumenti vitali per il cambiamento” e il potere di disporre qualche falla nelle dighe commerciali è “necessario per l’interesse nazionale degli Stati Uniti”. Quello che le ventuno pagine della “final rule” rivelano con circospezione è il valore strategico degli asset legati al flusso di informazioni su Internet, un potenziale destabilizzante che gli Stati Uniti non vogliono in nessun modo lasciare nelle mani dei governi locali. Per questo l’Amministrazione ha deciso di aprire un varco apparentemente contraddittorio rispetto alle rigide limitazioni nei confronti di tre stati che si nutrono quotidianamente dell’orwelliana manipolazione delle informazioni e del controllo dell’opinione pubblica. Quella emessa dal dipartimento del Tesoro non è soltanto la toppa legale a un ambito, quello della diffusione di software, non ancora normato da regole precise, ma un vero atto politico: tutti i servizi legati al Web erano già inseriti nella lista dei prodotti commerciali non esportabili in Iran, Sudan e Cuba; oggi tutto questo è finito sotto l’ineffabile “deroga” del governo americano, un misto di universalismo dei diritti e corsa agli armamenti digitali. Berin Szoka, il direttore del Center for Internet Freedom, importante snodo 9 della cultura open source, davanti ai giornalisti si è rallegrato che il “dipartimento del Tesoro stia dando consistenza agli sforzi di Hillary Clinton per rendere più semplice l’accesso ai servizi di comunicazione offerti dagli Stati Uniti per i cittadini di regimi oppressivi e antidemocratici”, ma è rimasto piuttosto interdetto riguardo a un dettaglio del provvedimento, quello che limita gli scambi ai soli servizi gratuiti: “Perché non dovremmo permettere a tutti i cittadini di questi paesi di accedere ai servizi a pagamento? Non tutti gli strumenti utili ai dissidenti sono gratis”. Il decreto su questo punto è esplicito: l’America potrà esportare soltanto prodotti gratuiti, per evitare – questo è chiaro – gli abusi di aziende americane che vedrebbero da un giorno all’altro aprirsi le porte di mercati vergini che brulicano di assetati informatici. D’altra parte, la limitazione ai soli prodotti gratuiti mette in chiaro le cose: non è un fatto di business, soltanto politica. Il sistema di deroghe accordato ai tre regimi è soltanto l’ultima battaglia della guerra digitale dell’Amministrazione, un conflitto logorante e obliquo dove alleati e nemici tendono a confondersi. Il fronte più caldo è quello cinese, dove 384 milioni di persone hanno l’accesso quotidiano a Internet e ogni giorno le squadriglie di hacker reclutano nuovi adepti. La colossale operazione Aurora, in cui le orde digitali provenienti dalla Cina hanno messo sotto attacco per oltre due mesi siti e database di grandi corporation americane, ha mostrato tutti i limiti dell’ideale patinato di uno spazio digitale completamente “libero” e privo di censure. A parte il fatto che la censura cinese, prima di Aurora, era garantita da Google, quello che sta emergendo dalle indagini non è semplicemente un attacco orchestrato dai quadri del regime, ma una cooperazione di forze semiindipendenti canalizzate verso l’unico scopo di destabilizzare un paese ostile. Grandi concentrazioni di hacker come GhostNet e la Red Alliance non sono appena milizie digitali sotto la sovrintendenza del partito, ma per lo più sono fatte da nerd postadolescenti che godono nel vedere che le scorribande digitali producono un qualche effetto, anche se lo scopo finale rimane in fondo oscuro. E’ soltanto uno dei paradossi dello spazio digitale libero, privo di condizionamenti, asettico e senza attriti esterni. Per evitare che le fibre ottiche di altri paesi assomiglino a quelle che portano virus cinesi, l’America questo spazio libero ha deciso di colonizzarlo senza tanti complimenti, contro ogni ragionevole sanzione. © 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO di Mattia Ferraresi Battaglie su internet Molti governi limitano l'accesso alla rete. I social network i più colpiti, “per esigenze di sicurezza” 10 Lo sceicco Said Amer, presidente del comitato per le fatwe dell’Università di Al-Azhar del Cairo, ha smentito la “scomunica” di Facebook che era stata annunciata da un quotidiano arabo londinese proprio in concomitanza con il sesto anniversario della popolare rete sociale, partita il 4 febbraio del 2004. “Incita a relazioni illegali secondo la sharia, un divorzio su cinque è causato da una relazione extraconiugale stabilita attraverso Facebook", avrebbe detto la massima istituzione teologica sunnita secondo la notizia riportata da “Al Quds Al arabi”. “Mai pubblicato fatwe a questo riguardo”, ha detto lo sceicco Amer. A meno che non abbia deciso di soprassedere di fronte alla reazione furibonda che c’è stata su Internet. La versione in arabo di Facebook era partita nel marzo scorso, nella constatazione che il servizio aveva ormai 900.000 utenti in Egitto, 300.000 in Libano e 250.000 in Arabia Saudita, e ormai gli utenti egiziani sarebbero almeno 3 milioni. Già nel 2008, quando gli egiziani usavano ancora le versioni in inglese o in altre lingue straniere, Facebook era stato usato per organizzare una manifestazione contro la chiusura di una fabbrica, aggirando il divieto a raduni non organizzati in vigore con la legge d’emergenza decretata nel 1981 dopo l’assassinio di Sadat e radunando 70.000 persone. Da ciò le voci ricorrenti sull’intenzione del governo del Cairo di mettere Facebook al bando. Il Movimento 6 aprile di quella mobilitazione, comunque, è ancora on line. Ma questo è un momento di particolare effervescenza in tutto il mondo, a proposito della minaccia che la Rete pone ai governi autoritari. Anche ai governi democratici, certo: le minacce lanciate da internauti anonimi o l’aggiramento dei diritti di proprietà intellettuale atttraverso il peer-to-peer sono grattacapi anche per i nostri legislatori. Al massimo, però, in democrazia potrà accadere che qualche elettore dia il suo suffragio a qualche forza come quel Partito Pirata che sta spopolando in Svezia. Facebook, invece, è stato effettivamente bloccato in Iran, dove i 7,5 milioni di internauti rappresentano la seconda percentuale di popolazione on line dopo Israele, e dove dunque gli strumenti della Rete sono stati sempre più usati per aggirare la censura sulla stampa, mentre blog e Twitter sono diventati un importante strumento di mobilitazione dell’opposizione. Ma da quando Ahmadinejad è andato al potere sono stati introdotti filtri sempre più rigorosi. L’accesso a Bbc e New York Times è stato così bloccato, e Facebook è pure finita nel mirino, assieme a Youtube e a Wikipedia. È stata inoltre introdotta una legge che richiede un’autorizzazione ufficiale per lanciare un sito Internet, ed è stata limitata la diffusione delle connessioni olte i 128 kb/s. L’importanza che Ahmadinejad dà alla battaglia su Internet è dimostrata dal particolare che anche lui dispone di un blog. Minacce di un blocco a Facebook sono circolate anche in Vietnam, dove ci sono 22 milioni di internauti e un milione di utenti della stessa Facebook. In Siria Facebook è bloccato, sbloccato e ribloccato in continuazione, “per esigenze di sicurezza”. E anche la Cina blocca abitualmente Youtube, Facebook, Twitter e Wikipedia ogni volta che arriva all’attenzione qulche tema spinoso. Ma la Cina 11 soprattutto ha sviluppato tecnologie di filtraggio che per un po’ sono state accettate dalle imprese straniere operanti nel Paese. Quando però ci si sono aggiunte incursioni di hacker contro gli account Gmail di attivisti per i diritti umani Google ha perso la pazienza, e il 12 gennaio ha annunciato che avrebbe offerto in Cina un servizio senza più filtri, e gli utenti cinesi hanno potuto così vedere immagini come quelle del Dalai Lama, della strage della Tienanmen o delle esecuzioni capitali. E a questo punto è nato in Cina “Goojee”: un sito clone di Google. D’altra parte, già da tempo il governo cinese aveva cercato di bloccare la diffusione di Google attraverso il motore di ricerca nazionale Baidu. Filtri su Internet esistono anche a Cuba, dove peraltro solo lo scorso settembre il Ministero dell’Informatica ha autorizzato le Poste a installare cibercafè nelle sue succursali. Fino a quel momento a Internet si poteva accedere solo dagli uffici pubblici per ragioni di lavoro, e qualche mese prima era stato anche vietato l’accesso dei cittadini cubani ai posti Internet degli hotel e centri di comunicazione per stranieri. Anche questa proibizione è stata revocata, ma i 7-12 dollari ogni ora di navigazione che costa una tessera prepagata equivalgono a da un terzo ai due terzi di uno stipendio mensile. A dicembre è stato arrestato per spionaggio Alan Gross: un esperto statunitense in cooperazione allo sviluppo e in informatica, che dopo aver lavorato alla campagna elettoraloe di Barack Obama era stato mandato a aiutare la comunità ebraica cubana a aggirare i filtri su Wikipedia. E all’inizio dell’anno tre agenti dei Servizi hanno pestatoYoani Sánchez: la blogger ormai diventata celebre granzie a un sito tradotto anche in italiano. Leggi Totalitarismo digitale - Leggi La Rete in catene - Leggi La storia di Terra Naomi insegna che da Internet nascono (anche) i fiori © 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO di Maurizio Stefanini www.ilsole24ore.com Google sposta il traffico cinese su Honk Kong per aggirare la censura Google sfida la Cina e senza abbandonarla del tutto decide però di porre uno stop alla censura e di dirottare i suoi servizi su Hong Kong. La decisione, attesa da giorni, è stata comunicata in serata dal legale della società di Mountain View, Davis Drummond. Il motore di ricerca Usa spiega di voler «restare e mantenere la presenza sul mercato cinese» ma spiega che gli abbonati saranno reindirizzati al sito google.com.hk. Se non un vero e proprio abbandono, è sicuramente una forte avvisaglia che Google prima o poi uscirà definitivamente dal mercato cinese, anche se la società ha deciso di lasciare una porta aperta. Già a giugno del 2009 Google si era scontrata con le autorità di Pechino sulla questione della pornografia: Pechino aveva di diritto imposto dei filtri su alcuni siti hard linkati dal motore di ricerca Usa. A fine gennaio, invece, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, aveva sollecitato la Cina ad aprire un'inchiesta sui cyberattacchi di Pechino a Google e aveva richiamato le società Internet americane a non sottostare alla censura. Dichiarazioni a cui Pechino aveva subito risposto minacciando la fine delle relazioni diplomatiche. Ora comunque, nonostante l'approccio soft di oggi, l'unica strada, secondo gli analisti, sembra veramente quella dell'uscita dal mercato cinese e magari 12 l'aumento di investimenti verso la Corea del Sud e il Giappone, realtà in cui Mountain View non è presente e popolare come negli Usa e in Europa. 22 marzo 2010 L'Italia soffre di sindrome da States di Giuseppe Berta Col procedere dei mesi, anche in Italia si fa strada il timore che la via d'uscita dalla crisi - lenta, faticosa e accidentata come si profila - non intersechi la crescita dell'occupazione. Le ultime rilevazioni sull'andamento dell'economia reale colgono sintomi di miglioramento all'interno di alcune realtà italiane, senza però preludere a una sensibile ripresa dell'occupazione. È il rischio di una "sindrome americana" quella che si affaccia oggi all'attenzione di molti operatori e osservatori, con una ripresa che non ha né la portata né la capacità di riflettersi positivamente sull'occupazione. Negli Usa se ne è tornato a parlare non appena sono usciti i dati sull'andamento del mercato del lavoro nel febbraio scorso: ancora una volta si è dovuto prendere atto che l'emorragia occupazionale non si arresta. Da oltre due anni ormai i posti di lavoro sono in contrazione nell'economia americana: il mese passato ne sono stati persi altri 36mila. Così, mentre le previsioni per l'anno in corso stimano una crescita del Pil intorno al 3%, l'indice di disoccupazione continua a sfiorare il 10 per cento. Due le ipotesi avanzate dall'Economist (13 marzo) per rendere conto di questa anomalia. O la ripresa non è robusta come sembra nemmeno negli Stati Uniti e i dati del Pil mascherano una fragilità più grave di un sistema economico non ancora al riparo dalle ripercussioni della crisi; o la ripresa è trainata da incrementi di produttività riconducibili a una forte ricerca di efficienza da parte delle imprese. Secondo le rilevazioni, la produttività starebbe crescendo negli ultimi mesi a un ritmo del 7% o anche superiore: livelli quasi da record e da salutare in modo certamente positivo, se si accompagnassero a un miglioramento del mercato del lavoro. Ma in questo momento non è così, perché siamo ancora al punto in cui le imprese operano per il loro rilancio ristrutturandosi e facendo efficienza, azioni che semmai tendono a contrarre ulteriormente il numero degli occupati, invece di farlo salire. In Italia, dove la crescita si mantiene ben distante dalle aspettative Usa, è probabile che ci si debba preparare a tempi difficili sul fronte dell'occupazione. Non soltanto anche perché da noi le imprese saranno spinte a battere ulteriormente la strada della compressione dei costi e dei recuperi di efficienza, ma perché l'impulso a ristrutturare ha investito gli ambiti che in passato avevano sorretto l'occupazione. Quando l'industria aveva attuato investimenti a risparmio di lavoro, era stato il variegato arcipelago del terziario a compensarne gli effetti occupazionali. Ora invece sono anche le realtà terziarie a doversi misurare con politiche che puntano al recupero dell'efficienza e della produttività. A comprendere questo nodo aiuta il rapporto appena curato dal Censis sul terziario (Il terziario è un'industria?), che sottolinea il carattere nuovo e cruciale del passaggio affrontato dal settore più capace di creare e di sostenere i livelli dell'occupazione. Fra il 1993 e il 2008 sono stati oltre 3 milioni i posti di lavoro attivati nel sistema dei servizi, che oggi raggruppa tra i 15 e i 16 milioni di lavoratori. Contrariamente 13 a quanto spesso si pensa quando si identifica nel terziario il regno degli autonomi, la grandissima maggioranza di queste nuove occupazioni rientra nel lavoro dipendente (2 milioni 787 mila). Nello stesso periodo, l'industria ha perso 72mila posti di lavoro e l'agricoltura 468mila. Ma con la crisi è venuta meno la "spinta propulsiva del terziario italiano". Il mondo del mercato immobiliare così come, ancora prima, quello della new economy, hanno cessato di attrarre lavoratori. Il pubblico impiego è bloccato dai vincoli di bilancio e dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Lo stesso universo dei servizi alle imprese, che ruota attorno alle attività di consulenza, di ricerca, di comunicazione e di marketing e che il Censis chiama "terziario di mercato", sta scontando un'inevitabile battuta d'arresto. La conseguenza è che nei primi tre trimestri del 2009 l'occupazione terziaria è diminuita dello 0,8% rispetto al periodo analogo dell'anno precedente, rinfocolando i dubbi sulla sua tenuta durante una crisi lunga e complicata come l'attuale. Tutto ciò suona come un campanello d'allarme per le prospettive a breve dell'occupazione. Il peso dei lavoratori non qualificati sul totale del terziario risulta troppo alto (10,2%), in specie se si considera che è quello cresciuto di più negli ultimi anni. Al contrario, il numero dei lavoratori altamente specializzati appare contenuto (sono 79mila i nuovi assunti fra il 2004 e il 2009 che appartengono a questo gruppo, contro i 233mila non qualificati). Poiché la crisi ha sollecitato processi di razionalizzazione, i riflessi negativi minacciano di essere gravi e non di breve durata. La società italiana deve dunque attrezzarsi per gestire una transizione occupazionale complessa, in grado di costituire di per sé una remora ulteriore al rilancio economico. 21 MARZO 2010 In tribunale funziona l'ombrello della «231» di Giovanni Negri L'insostenibile leggerezza dei modelli. Almeno sino a ora. Perché con alcune pronunce importanti, prese di recente, le cose potrebbero iniziare a cambiare. Le imprese vedrebbero cioè giustificata quella scommessa che il legislatore fece nel 2001, quando da una parte introdusse con il decreto legislativo 231 la responsabilità degli enti per i reati commessi da dipendenti, mentre dall'altra mise in campo la possibilità di un'esimente per tutte le aziende che avevano adottato congrui modelli organizzativi. Tali da permettere, almeno sulla carta, di scongiurare illeciti come quelli presi in considerazione dalla normativa. Una possibilità che sinora era stata soprattutto teorica, visto che i pubblici ministeri avevano avuto gioco facile nei procedimenti contro le società: la maggioranza di queste non aveva infatti adottato modelli. Soprattutto non lo aveva fatto in via preventiva e solo dopo l'avvio del procedimento penale, per evitare o ridurre il rischio sanzioni interdittive, si era deciso di introdurli. Nelle rarissime situazioni in cui la magistratura si era trovata ad affrontare (è il caso, per esempio, di Impregilo nella vicenda penale sugli appalti per lo smaltimento dei rifiuti in Campania) società che i modelli li avevano già introdotti, ne era stata di fatto sancita l'inefficacia. Tanto che già nelle Procure, soprattutto per quanto riguarda reati commessi dai vertici dell'azienda, aveva ormai preso consistenza la linea per cui la sola commissione di un illecito rappresentava la migliore prova 14 dell'inutilità del modello (quand'anche introdotto), una sorta di responsabilità oggettiva. Ora una sentenza del tribunale di Milano però quest'orientamento, che di fatto rendeva inutile o comunque inutilizzabile un'esplicita previsione del legislatore, potrebbe iniziare a rivelare qualche crepa. Anche la pronuncia è stata poi doppiata da un'altra, questa volta del giudice unico di Trani, che condannando tre società per una gravissima sciagura sul lavoro, ha però fornito una serie di indicazioni operative sulla fisionomia e i contenuti del modello su un fronte cruciale come quello del presidio penale a tutela della sicurezza dei lavoratori. Il Gip del tribunale di Milano, lo scorso 17 novembre, ha prosciolto così una società (si tratta della stessa Impregilo) sulla base della sua condotta "virtuosa". La società, condotta sul banco degli imputati per avere tratto un beneficio dal reato di aggiotaggio informativo compiuto da suoi manager, aveva inserito specifiche misure organizzative sin dal 2003, due anni dopo l'entrata in vigore del decreto, certo, ma «anticipando di gran lunga le maggiori imprese del comparto» e applicando le Linee guida diffuse nel frattempo da Confindustria. Inoltre, dal 2000, un anno prima dell'esordio della responsabilità amministrativa delle imprese, la società aveva adottato un sistema di controllo interno basato sui principi del Codice di autodisciplina dettato da Borsa italiana. Un'attenzione che veniva da lontano quindi, anche se poi la verifica va effettuata in concreto, con riferimento alla situazione antecedente l'illecito, evitando comunque qualsiasi tentazione di «responsabilità oggettiva» a carico della società. Da Trani, invece, il giudice unico (motivazioni depositate l'11 gennaio) ha chiarito innanzitutto che un'impresa può avere interesse a commettere anche un delitto colposo come le lesioni gravi e gravissime o l'omicidio in materia di sicurezza del lavoro. Non fosse altro che per risparmiare sulle misure da prendere per mettere al riparo dai rischi i propri dipendenti. Quanto ai modelli però, un'impresa che vuole avare le carte in regola davanti alle contestazioni dell'autorità giudiziaria, spiega il giudice, deve evitare almeno due errori: quello di considerare che gli ormai consueti documenti in materia di valutazione rischi possano essere sostitutivi di una specifica organizzazione aziendale intesa a prevenire i reati in discussione. E poi che possano essere evitate misure indirizzate a chi prende contatto con le lavorazioni a rischio della stessa impresa. In altre parole, anche i lavoratori di altre aziende, ingaggiati per fare fronte ad attività anche pericolose, devono essere esplicitamente considerati tra i soggetti cui indirizza il modello. Arriva Extra Banca dedicata ai cittadini extracomunitari di Lucilla Incorvati Parte da Milano e l'avventura dell'ultima nata nel settore del credito. Si chiama Extra Banca, istituto di credito dedicato, anche se non in via esclusiva, ai cittadini stranieri presenti in Italia (i residenti sono attualmente 4,3 milioni), protagonisti principali della crescita demografica e dello svecchiamento del Paese. Perfino il presidente Giorgio Napolitano ha mandato i suo augurio visto che questa banca tra le altre cose può contribuire ad un processo di integrazione. Banca indipendente (nell'azionariato ci sono tra gli azionisti Assicurazioni Generali , Fondazione Cariplo e soprattutto oltre 30 imprenditori) vuole essere multietnica per antonomasia (tra chi ci lavora sono rappresentate 10 etnie, si parlano più di 11 lingue e il vicepresidente è il camerunese Otto Bitjoka che 15 affianca il presidente Andrea Orlandini e il direttore generale Paolo Caroli) e fa perno su un modello unico non solo a livello italiano ma anche in Europa. In Italia esistevano già istituti come Banca Prossima (Gruppo Intesa), unica in Europa dedicata esclusivamente alle organizzazioni no profit e Banca Etica, ispirata nella raccolta e gestione del denaro second principi di finanza etica. Tra le grandi banche commerciali Intesa SanPaolo e Mps sono leader nel seguire il target degli immigrati. Ma nessuna era fino ad oggi punto di riferimento. Extra Banca, invece, con i suoi prodotti e servizi cercherà di intercettare e soddisfare a 360 gradi le esigenze e i bisogni di questo particolare target di risparmiatori, destinato a crescere non solo numericamente (6,5 milioni i residenti stimati nel 2012) ma soprattutto con alte potenzialità proprio per i servizi bancari e finanziari. Oggi ammonta a circa 51 miliardi l'attività bancaria (raccolta e impieghi) attribuibile a cittadini extracomunitari con ricavi (2,5miliardi) simili a quelli generati dalla clientela mass market italiana. E in futuro le prospettive sono molto interessanti. Si stima, infatti, pari al 24% il tasso medio di crescita per i ricavi generati dagli stranieri, al 26% per gli impieghi, al 21% per la raccolta e al 24% per numero di imprese avviate. Ma puntanto sulla convienza dei prodotti offerti e su semplicità e trasparenza dei servizi, Extra Banca spera di attrarre anche chi straniero non è. Già dalla prima fase di attività la nuova banca opererà nelle principali aree di attività del credito: finanziamento alle piccole imprese (ditte individuali e aziende con fatturato superiore ai 2,5 milioni di euro), credito al consumo (incluse anche carte di debito e credito), mutui casa, rimessa di denaro verso i paesi di orgine, gestione del risparmio, polizze vita e danni. Sul fronte del raccolta l'offerta passerà da ExtraZero, conto corrente senza canone e da Extrarisparmio, libretto di risparmio che offre come minimo il 3% sui depositi. Per quanto riguarda i prestiti alle imprese il tasso fisso per prestiti a 3/5 anni sarà del 9,75% contro un 12,5% in media offerta sul mercato. Per i trasferimenti di denaro, rispetto a competitor del calibro di Western Union il bonifico costerà al massimo 6 euro, indipendentemente dall'importo trasferito, e con controllo accurato sia del mittente sia del destinatario. Inoltre, è possibile disporre di una carta Bridge che viene caricata dall'Italia a favore di un beneficiario residente all'estero. Si sta lavorando per creare degli accordi con società di cittadini extracomunitari già molto forti tra le comunità, secondo criteri di massima trasperenza e regolarità. Extra Banca intende sviluppare anche il micro credito (finanziamenti volti a far nascere nuovi micro imprenditori) per raggiungere una leadership in un business ancora poco presente in Italia. Extra Banca, grazie a una struttura molto snella (per ora solo 20 dipendenti) e al forte utilizzo di outsourcing e di partership per le attività non strategiche, punta a raggiungere il break even in soli tre anni. Unicredit e Intesa SanPaolo allineati nel 2009 anche se con strategie diverse di Maria Adelaide Marchesoni e Valeria Novellini Sono due strategie completamente diverse quelle delineate dai due principali istituti di credito italiani. Intesa SanPaolo si pone come "banca nazionale" e punta ad acquisire nuovi sportelli e eventualmente piccole banche italiane mentre Unicredit è interessato a ampliare la sua presenza all'estero con una preferenza 16 ancora per la Germania attraverso l'interesse mostrato per la rete SEB di proprietà di un gruppo svedese. Rafforzamento patrimoniale Anche dal punto di vista del rafforzamento patrimoniale i due istituti hanno seguito percorsi differenti. Intesa non è ricorsa a aumenti di capitale bensì alla dismissione di attività "non core" che culmineranno con il collocamento in borsa di una partecipazione di minoranza della controllata del risparmio gestito Banca Fideuram, presumibilmente nel mese di giugno. Unicredit ha effettuato due aumenti di capitale abbastanza ravvicinati nel tempo e al termine del secondo il core tier 1 è salito all'8,47%, un valore che rispetta pienamente gli attuali requisiti di Basilea II. Non è per ora previsto l'ingresso in Borsa della controllata del risparmio gestito Pioneer. Intesa presenta attualmente un core tier 1 pari al 7,1%, ma considerando le azioni di "capital management" già predisposte tale valore salirebbe al 9,1 per cento. I requisiti di patrimonializzazione sempre più stringenti hanno condizionato anche la politica dei dividendi e a farne le spese sono stati gli azionisti e in primo luogo le Fondazioni e le loro politiche di erogazione. Torna il dividendo Entrambi gli istituti sono tornati al dividendo per la gestione 2009. Il pay-out di Intesa Sanpaolo sarà del 36,8% sul risultato consolidato e per Unicredit sarà del 34 per cento. Sul fronte dei numeri la gestione 2009 ha visto per entrambi gli istituti una forte ripresa della commissioni nette nel quarto trimestre, anche se il saldo annuale rimane in calo. A trainare tale ripresa sono state le commissioni da servizi e intermediazione del risparmio. Margini dell'attività Altra voce critica nel contesto della crisi finanziaria è quella del risultato dell'attività di negoziazione e in tale ambito era stata Unicredit a farne soprattutto le spese, con risultati pesantemente negativi sia nel terzo sia nel quarto trimestre 2008, mentre per Intesa solo il quarto trimestre aveva presentato un dato negativo. Nel 2009 questa voce di bilancio è stata positiva per entrambi gli istituti con valori particolarmente elevati nel secondo e nel terzo trimestre dell'anno, che si sono ridimensionati nel quarto trimestre per effetto di un andamento dei mercati meno favorevole. Evoluzione identica invece per quanto riguarda il margine di interesse che in entrambi i casi ha risentito dell'abolizione della commissione di massimo scoperto (- 9% per il gruppo Intesa e -9,1% per Unicredit). Taglio dei costi energico per Unicredit E sul fronte dei costi? Il cost/income ratio di Intesa ammontava a fine 2009 al 54,1% (55,2% nel 2008). Per Unicredit invece è stato pari al 55,6% (62,1% nel 2008) grazie anche ad una forza lavoro diminuita su base annua del 5,4%. Intesa nel quarto trimestre ha accelerato la riduzione degli organici con il ricorso al prepensionamento per circa 1900 dipendenti. Qualità del credito Per mantenere livelli adeguati di copertura della qualità del credito sono stati necessari maggiori rettifiche e accantonamenti. I due istituti hanno visto nel 2009 un peggioramento del rapporto Crediti deteriorati netti/Crediti verso la clientela 17 che per Unicredit è passato dal 3,24% al 5,5%, e per Intesa dal 2,9% al 5,5%. Nella gestione gli accantonamenti e le rettifiche su crediti per Intesa sono saliti del 39%, mentre per Unicredit il balzo è stato superiore e sono state necessarie maggiori misure cautelative con rettifiche e accantonamenti più che raddoppiati a 8,9 miliardi. (Analisi Mercati Finanziari) www.iltempo.it A Roma squilla il telefono indiano Tata prepara lo sbarco in Italia. Sarà operatore virtuale. Nella Capitale la base legale e commerciale: in futuro potrebbe arrivare anche il software. I telefoni indiani sbarcano in forze nella Capitale. Che sarà la base principale per conquistare una fetta del mercato italiano delle tlc. Il gruppo multinazionale di proprietà della famiglia Tata, nel quale è presente anche un ramo specializzato nelle comunicazioni telefoniche, intende puntare risorse consistenti per ritagliarsi un ruolo da protagonista nel segmento degli operatori cosiddetti virtuali. E cioè quelli privi di reti e infrastrutture che rivendono il servizio telefonico ai clienti acquistando grossi pacchetti di minuti dalle società dotate di reti di trasmissione. Il progetto sarebbe, secondo quanto risulta a Il Tempo, talmente concreto che gli emissari del patron indiano Ratan, attuale presidente della conglomerata di Mumbai, sarebbero già a Roma per colloqui con i partner locali in grado di garantire il supporto tecnico, finanziario e commerciale. Gli indiani, in particolare, avrebbero considerato di posizionare la loro base legale e commerciale a Roma. Non mancherebbe un'antenna specializzata solo nella parte tecnica posizionata a Milano. Mentre per la gestione logistica del magazzino (le offerte prevederebbero anche l'abbinamento di piani commerciali con i telefonini di ultima generazione) il gruppo asiatico avrebbe in mente di trovare una piattaforma nel Centro Italia. Secondo le indiscrezioni uno dei posti papabili potrebbe essere già stato individuato nel Molise. L'arrivo della compagnia non è ridondante nel mercato delle tlc italiano. Paradossalmente l'Italia resta un territorio ancora da sfruttare per gli operatori virtuali la cui presenza è ancora ridotta rispetto agli altri partner europei. In più la Tata potrebbe avvalersi della sua presenza in altre nazioni per avviare roaming e offerte scontate ai clienti verso e dall'estero. Non solo. Lo sbarco di Tata apre la strada anche all'arrivo diretto in Italia della tecnologia informatica indiana che ha 18 ormai raggiunto altissimi livelli di eccellenza nello sviluppo del software con costi competitivi. www.ilgiornale.it articolo di lunedì 22 marzo 2010 Generali, Geronzi gioca tutto nell’ultimo round di Redazione Settimana decisiva per la scelta del prossimo presidente della compagnia. La partita si svolge in Mediobanca, tra il banchiere romano, manager e soci: serve ancora tempo e il comitato nomine potrebbe slittare al 30 marzo. L’ipotesi Perissinotto perde forza Oggi Cesare Geronzi è atteso a Milano sul presto. Il jet privato con il quale va e torna sulla rotta Roma-Milano lo aspetta come al solito a Ciampino, destinazione Linate, poi Piazzetta Cuccia, sede di Mediobanca. Dove oggi e domani il presidente della banca d’affari avrà la serie di incontri decisivi per la definizione del vertice delle Generali, compagnia di cui Mediobanca è il primo azionista. Nelle ultime ore si è chiarito che il candidato numero uno per sostituire Antoine Bernheim alla presidenza triestina è lo stesso Geronzi: il banchiere romano è venuto allo scoperto negli ultimi giorni, in occasione dei ripetuti incontri avuti con i grandi nomi della finanza meneghina e nazionale, a cominciare dal presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Geronzi, a questo punto, si gioca molto: sul suo passaggio a Trieste fa perno una svolta epocale negli equilibri della finanza italiana. Le Generali sono, da oltre cent’anni, la maggiore società finanziaria del Paese, l’unica in grado di confrontarsi alla pari con qualche altro colosso internazionale. Ma fino a oggi la strategia e la guida di Trieste sono state nelle mani di Milano, fatte e disfatte a Mediobanca. Ora Geronzi punta a invertire questa rotta, trasformando Trieste in un potere autonomo. E, giocoforza, depotenziando Mediobanca. Per questo il passaggio non è e non sarà banale. E l’esito, piaccia o meno, decreterà comunque una vittoria o una sconfitta. Gli schieramenti sono due: da un lato Geronzi, dall’altro il management che, sia in Mediobanca (leggi l’ad Alberto Nagel insieme con il dg Renato Pagliaro) sia in Generali (i due ad Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot) fanno blocco per negoziare equilibri desiderati. E si capisce: a Nagel, un Geronzi a Trieste non può essere gradito per quanto fin qui detto. Tuttavia l’ipotesi che lo stesso Perissinotto possa essere un’alternativa a Geronzi sembra troppo rischiosa: un’eventuale bocciatura dei soci rischierebbe di far fuori Perissinotto anche dal vertice del gruppo. L’unica alternativa, per Mediobanca, sarebbe quella di pescare un jolly da fuori, come il numero uno di Allianz in Italia, Enrico Cucchiani. Che però sarebbe un «esterno» forte in sella a Trieste, con tutti altri tipi di rischi. Sull’altro fronte, invece, Geronzi andrebbe in Generali accettando di essere sostituito a Milano da Pagliaro, con una soluzione che darebbe respiro ai manager di Mediobanca. La parola, da stamane, ai soci di Mediobanca. Con particolare riferimento ai francesi e a Unicredit: saranno le loro posizioni, alla fine, a determinare l’equilibrio finale. Tecnicamente, infatti, decideranno i soci rappresentati nel comitato nomine di Mediobanca: oltre a Geronzi, Nagel e Pagliaro, anche Tronchetti Provera, Vincent Bolloré e Dieter Rampl. Il percorso prevede che entro il 6 aprile Mediobanca presenti la lista dei 15 consiglieri, compreso il presidente (un paio di posti finiranno poi alle liste di minoranza). L’assemblea del 24 aprile voterà le liste. E la compilazione della lista dipende dal comitato nomine, che si dovrà riunire in tempo per rispettare tale scaletta. Di fatto ciò avverrà entro il 31 marzo, cioè prima delle vacanze pasquali. Quindi mancano ancora 10 giorni. Dieci giorni per 19 trovare un accordo. E sul tavolo ci sono due date per il comitato nomine: quella di venerdì 26, e quella di martedì 30, che al momento sembra la più probabile: c’è una settimana intera e pure il week end per ragionare e convocare il comitato il 29. Mentre per fare tutto entro venerdì, l’accordo tra i soci dovrà essere trovato nel giro di 2-3 giorni, perché il comitato va convocato almeno 24 ore prima. Un’ipotesi che al momento sembra difficile. www.repubblica.it Ristrutturazioni più facili, il governo cancella la Dia per gli interventi che non cambiano la pianta interna della casa di Antonella Donati Sostituire gli impianti o i servizi sanitari, rifare i pavimenti, installare i pannelli solari: tutti interventi più semplici da ora in poi e anche meno cari. Il governo, con il decreto sugli incentivi varato venerdì 19 marzo, ha infatti deciso anche di abolire la Dia per tutti gli interventi che non riguardano le parti strutturali delle abitazioni, e per quelli volti al risparmio energetico. Niente più attese e nessun obbligo di ricorrere ad un tecnico - Un intervento, quello del governo, motivato con la necessità di accelerare per gli interventi previsti dal piano casa, esclusi quelli che riguardano l'ampliamento degli immobili. A meno che non ci siano vincoli specifici a livello regionale, quindi, vengono totalmente liberalizzati gli interventi in caso, a patto che, però, non si modifichi la struttura interna dell'appartamento. Questo comporta un deciso risparmio dei costi, perché non è più necessario ricorrere ad un tecnico per il progetto e per la firma sulla Dia. Gli interventi liberalizzati - Le norme sono operative fin da subito, dato che si tratta di un decreto legge destinato ad entrare in vigore non appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Tra gli interventi per i quali non occorre più la comunicazione preventiva al comune ci sono tutti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, e quelli relativi all'eliminazione delle di barriere architettoniche. Salvo casi particolari, quali ad esempio l'installazione di un ascensore esterno al palazzo, predisporre scivoli e monta scale o ascensori interni richiede, quindi, assai meno tempo. Analogo discorso per l'installazione di pannelli fotovoltaici e per i pannelli solari termici, per i quali non occorre attendere i 30 giorni di scadenza della Dia. Installazione libera anche per le aree ludiche senza fini di lucro, compresi, quindi, i giochi per bambini, e per le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, come, ad esempio il rifacimento della la pavimentazione dei cortili condominiali. Per i controlli comunicazioni dalle ditte - Questo nuovo sistema, però, non dovrebbe diminuire i controlli dei Comuni sulla correttezza degli interventi effettuati e sulla sicurezza dei cantieri di lavoro. E' prevista, infatti, una comunicazione telematica sui lavori che si stanno eseguendo, comunicazione che sarà a cura dell'impresa alla quale è affidato il lavoro. A che serve spezzare le reni alla Grecia MARCELLO DE CECCO Uno dei problemi dell’Unione Europea è che in qualsiasi momento ci sono elezioni 20 imminenti da qualche parte nei ventisette paesi membri o nei sedici paesi dell’Unione Monetaria. Una parte della classe politica europea è dunque sempre impegnata a organizzarle e disputarle. Gli atteggiamenti che assume nei confronti dei più scottanti problemi europei del momento sono quindi funzionali alla politica elettorale, moltiplicata per ventisette o sedici rispetto a quel che avviene in uno stato nazionale. Lo stesso accade in un grande stato federale come gli Stati Uniti, e le conseguenze le conosciamo da tempo e le vediamo anche oggi.Ora si avvicinano per l’appunto le elezioni nel land della Renania, dove si affrontano non solo governo e opposizione, ma dove i liberali del disinvolto Westerwelle cercano di mantenere le posizioni guadagnate nelle elezioni generali. Ecco dunque il capo liberale affermare che se non fosse per le malefatte della Grecia i tedeschi potrebbero vedersi ridurre il carico fiscale, come lui promise nelle elezioni generali. Ed ecco il ministro Schauble, dal canto suo, proporre un fondo monetario europeo che è in realtà un letto di contenzione per paesi dell’Unione Monetaria che non rispettano le regole di austerità fiscale. La signora Merkel afferma in Parlamento che i trattati europei (forse intende Maastricht) devono essere cambiati, introducendo la esplicita possibilità di espellere un membro fiscalmente reprobo. La signora sa quanto ci vuole a cambiare un trattato europeo, ma non si esime dal proporlo come se si potesse fare in pochi mesi. La destinazione elettorale delle sue affermazioni è evidente, eppure esse sono estremamente pericolose, perché fanno il giro del mondo e suscitano reazioni estremamente allarmate negli altri paesi membri dell’Unione Monetaria. Mentre la cancelliera parla tanto crudamente, il suo consigliere economico Michael Meister afferma che non è assolutamente possibile immaginare un intervento a salvataggio della Grecia che non coinvolga il Fondo Monetario Internazionale. Rivelando in tal modo che la posizione di esclusione del Fmi sta a cuore veramente solo ai francesi. Più in generale i politici tedeschi insieme ai loro media assumono l’atteggiamento di chi parla da una posizione di conti pubblici in ordine nel presente e nel futuro. Ma il deficit pubblico tedesco è oggi di più del 5% del pil, tutte le previsioni danno il rapporto debito/pil della Germania lanciato verso il 100% entro il 2014, e la Commissione europea ribadisce tale concetto affermando, mercoledì scorso, che "la strategia di bilancio della Germania non è sufficiente a portare" il rapporto di cui sopra "indietro verso un sentiero in discesa", aggiungendo che Berlino non ha specificato quali tagli di spesa vuol fare dopo quest’anno. La Commissione ha certo in mente i gravi problemi che la Germania incontrerà nei prossimi anni a ridurre le spese per le pensioni e la sicurezza sociale. Dal loro canto, gli economisti della Deutsche Bank calcolano che per stabilizzare il debito pubblico lordo ai livelli del 2009 nel 2020, il bilancio tedesco dovrebbe esibire un surplus primario annuo del 2,2%, mentre tra il 2003 e il 2007 esso ha realizzato un deficit primario dello 0,3%. Nello stesso studio, naturalmente, così come nelle dichiarazioni della Commissione già citate, i casi di altri importanti paesi europei appaiono anche più gravi di quello tedesco, ma noi vogliamo solo rilevare che tutti questi studi e dichiarazioni non collocano la Germania su un piedistallo di virtù. Riesce a esportare il 48% del suo pil, per due terzi verso gli altri paesi dell’euro, ma può farlo anche perché, avendo creato disoccupazione per la gran parte dello scorso decennio, è riuscita a far aumentare anche in tal modo (oltre che investendo e dedicando risorse alla ricerca) la produttività della forza lavoro occupata e a tenere i salari, a fine decennio, sotto i livelli reali di dieci anni prima. Crescendo poco, inoltre, e realizzando un gigantesco surplus quasi esclusivamente nei confronti dei paesi della Ue e della Ume, si è messa nelle condizioni non invidiabili di essere obiettivo facile per qualsiasi tipo di rappresaglia sul suo commercio da parte dei paesi in deficit. Tali rappresaglie sono state finora impensabili tra paesi europei. Ma non è detto 21 che debbano seguitare ad esserlo se i tedeschi continuano sulla pericolosa via delle dichiarazioni esplosive e contraddittorie che hanno iniziato a percorrere negli ultimi due anni. Dovrebbero sapere che di una distruzione dello spazio economico europeo le principali vittime sarebbero loro, che tanto vitalmente dipendono dalla libertà degli scambi in Europa e dal proseguire della Ume, che ha impedito agli altri paesi di svalutare, come prima facevano per riacquistare competitività con le merci tedesche. Viviamo, in generale, in tempi confusi. Sempre dai conti fatti dalla Deutsche Bank si sono appresi i dettagli della somma della crescita del debito pubblico dei paesi sviluppati nel prossimo quinquennio e decennio. Sono cifre che fanno letteralmente spavento. E lo spavento non scema quando si riflette sulla politica intrapresa, su consiglio delle autorità economiche, dalle principali istituzioni finanziarie private dei paesi sviluppati per recuperare profitti dopo i salassi subiti nel 2008 e 2009. Essa consiste nel prendere a prestito dal pubblico denaro a breve a tassi vicini allo zero, usandolo per comprare proprio quel debito pubblico a media e lunga scadenza che i governi sono costretti a emettere, non in piccola parte per finanziare gli interventi di salvataggio delle banche e di altre industrie cui sono stati costretti nel 2008 e 2009. Anche qui si scherza allegramente col fuoco: le banche hanno in portafoglio enormi quantitativi di titoli pubblici dei paesi sviluppati e una caduta del loro valore nominale le espone a perdite massicce nei loro attivi. Esse, tuttavia, non si esimono dal prendere per buone, come se nulla fosse accaduto, le valutazioni che le screditatissime società di rating continuano a produrre sugli stessi titoli, e dal permettere che il sistema di Basilea 2 si basi ancora essenzialmente su tali rating. In aggiunta, le banche si comportano come se sperassero che lo spread tra i rendimenti del denaro che prendono a prestito dai risparmiatori e quelli dei titoli di stato che hanno in portafoglio si allarghi, per la crescita dei tassi a lunga. Ma se i tassi a lunga salgono, il valore di capitale dei titoli di stato che hanno in portafoglio diminuisce. Non sarebbe il caso di ignorare le società di rating, visto che la loro inaffidabilità in passato è conclamata e che non sembrano aver cambiato i loro metodi di valutazione? Certo, si tratta di non guardare l’orologio invece che di fermare il tempo, ma un orologio che dà l’ora sbagliata serve solo a far confusione. Ma forse è proprio maggior confusione che si vuole. I risultati delle ricerche della Deutsche Bank concordano con quelli della Commissione Ue. Tutti i piani a medio termine di uscita dalla crisi dei paesi sviluppati si fondano su prospettive di crescita che, per i prossimi anni, sono ritenute sia da Ue che da Db eccessivamente ottimistiche. Una visione più sobria del futuro, invece, che sembra assai meglio radicata nella realtà, induce a ritenere che il tasso di crescita delle stesse economie sarà assai minore, e tale da rendere necessario il massiccio ricorso all’indebitamento pubblico da parte di quasi tutti i paesi. La gran parte di essi raggiungerà tra pochi anni la soglia del 100% nel rapporto debito/pil e si sa, dalla ricerca storica di due economisti di valore, Ken Rogoff e Carmen Reinhart, che raggiunto stabilmente questo livello i paesi rallentano la loro crescita dell’1%. Noi italiani possiamo confermare, ma anche i giapponesi possono farlo. Se da queste previsioni le banche centrali degli stessi paesi fanno discendere la necessità di perseverare nella politica monetaria condotta finora, che ha spinto i tassi a breve a livelli prossimi allo zero, se ne deve trarre la conclusione obbligata che si è deciso che debbano essere anche in futuro i risparmiatori a pagare il conto della crisi e della recessione, tramite i tassi a zero sui loro depositi bancari. Dai calcoli della Db si apprende anche che se dai bilanci pubblici degli stessi stati fosse scaricato il peso dell’aumento previsto per previdenza e assistenza dovuto all’invecchiamento della popolazione, il compito delle autorità nel cercare l’equilibrio per gli stessi conti sarebbe assai più agevole. 22 Di quanto diminuiranno i consumi privati se i cittadini saranno costretti a vivere con pensioni ridotte e a pagare una parte delle spese sanitarie è facile immaginarlo. Sarà allora richiesto a tutti i paesi un massiccio sforzo di esportazione, una soluzione di tipo tedesco, generalizzata a tutti i paesi sviluppati, in particolare a quelli europei. Ma se tutti cercano di esportare le merci che i loro vecchi non hanno più soldi per comprare, chi sarà in grado di comprarle, dato che queste merci i paesi sviluppati se le scambiano essenzialmente tra loro e che i paesi emergenti sono a loro volta grandi esportatori netti? E i soldi che i vecchi italiani e tedeschi, risparmiatori inveterati, tengono in banca, chi li sostituirà quando essi saranno costretti a ritirarli per pagarsi la sanità e per far fronte a pensioni più basse? Visto che a Berlino invece di preoccuparsi di queste quisquilie si minaccia di "spezzare le reni alla Grecia"(e si sa come finì la volta scorsa, quando ci provarono tedeschi e italiani), sarà utile proseguire noi il filo del ragionamento appena iniziato. Supponendo che le banche dei paesi sviluppati, con il "carry trade" tra breve e lungo termine che stanno conducendo, riescano ad accumulare profitti e a restaurare così il proprio capitale, la stasi perdurante delle loro economie le indurrà nuovamente a correre la cavallina sui mercati finanziari internazionali dando vita a nuove bolle destinate a esplodere richiedendo nuovi salvataggi pubblici. Mentre Berlino se la prende con Atene, e tutto il resto d’Europa <\-> a uso di coro di tragedia <\-> depreca il nuovo corso tedesco, cinesi coreani, indiani, brasiliani continuano a crescere e a esportare, guardandosi bene dal rivalutare le proprie monete. Le liti nel campo di Agramante li divertono ampiamente perché i paesi sviluppati si preoccupano solo di trovare ciascuno per suo conto soluzioni bilaterali ai problemi con i paesi emergenti. Derivati, il Tesoro da 300 miliardi ADRIANO BONAFEDE Giulio Tremonti ha una bella gatta da pelare con lo scandalo dei "derivati" degli enti locali. Un caso finito sui principali giornali economici internazionali, dal Financial Times al Wall Street Journal: è infatti la prima volta in assoluto che quattro grandi banche vengono rinviate a giudizio per queste operazioni. Ma il ministro dell’Economia ha un’altra segreta preoccupazione, che lo scandalo dei derivati possa arrivare anche a lambire il proprio dicastero. Perché se è vero che gli enti locali hanno fatto derivati per 35 miliardi, è altrettanto vero che il Tesoro ha fatto più o meno le stesse cose in questi anni. Anzi, casomai con qualche eccesso in più, oltre che con cifre ben più consistenti (si parla di 2300 miliardi). Ma andiamo con ordine. In pochissime settimane il nostro paese è riuscito a finire sui giornali di tutto il mondo in diverse circostanze ma tutte collegate a un uso distorto o non trasparente dei "derivati". Ovvero di quei complicati contratti finanziari che vengono usati da soggetti come gli hedge fund, le banche d’investimento e le società di gestione del risparmio.È dei giorni scorsi la notizia del rinvio a giudizio di quattro grandi banche internazionali. Ma qualche settimana prima era stato sollevato il tema di un costoso derivato sul debito pubblico greco che Goldman Sachs aveva messo in piedi nel 2001, grazie al quale di fatto il paese mediterraneo era riuscito ad entrare nell’euro. Tale circostanza è stata ricordata da chi in Europa ha avversato la candidatura del Governatore Mario Draghi a presidente della Bce, affermando che lui a quell’epoca era consulente della banca, circostanza poi smentita dallo stesso Governatore, che ha ricordato 23 di essere arrivato dopo quell’episodio. Draghi ha anche risposto a un articolo uscito sul New York Times il 15 febbraio scorso, che ricordava che operazioni su derivati simili a quelle della Grecia erano state fatte sul debito pubblico anche in Italia negli anni Novanta con l’aiuto di Jp Morgan e altri istituti quando lui era direttore generale del Tesoro. E che per tali servizi il Tesoro aveva pagato laute commissioni. «Ma tali operazioni – ha spiegato una nota della Banca d’Italia – avevano il fine di diminuire il costo del denaro e non quello di nascondere l’effettivo stato dei conti pubblici». Ma tutti questi eventi servono ad arrivare a una prima conclusione. Con la storia dei derivati l’Italia ha perso un bel po’ della sua credibilità internazionale. Certo, sul caso Draghi c’è stata una chiara strumentalizzazione da parte di chi ha avversato la sua candidatura a presidente della Bce. Rimane il fatto di un paese dove un normale strumento finanziario ha dato adito a sospetti sui suoi possibili usi distorti. Il punto è però che Comuni, Regioni e Province sono soltanto la punta di un iceberg. Sotto la quale c’è un’attività dello stesso Tesoro, mai esplicitata e resa pubblica e mai verificata con attenzione da altri organi dello Stato (Parlamento o Corte dei Conti). Intanto c’è da dire che gli enti locali sono potuti entrare nel mondo della finanza proprio grazie a una norma voluta dal governo Berlusconi nel 2001. Il ministro Tremonti (anche allora come oggi capo dell’Economia) firma nel giugno 2003 il decreto attuativo. Gli enti locali si buttano a capofitto sui nuovi strumenti finanziari, tanto che in meno di sette anni mettono in piedi operazioni sui derivati per ben 35 miliardi, circa un terzo del loro debito. E si può peraltro capire il perché di tanto entusiasmo. Con tassi di mercato che nel 2005 raggiungevano i minimi storici, perché magari non swappare a tasso variabile un tasso fisso elevato (magari di vecchi mutui della Cdp), in una situazione nella quale i trasferimenti statali venivano sempre più ridotti e i bilanci erano in piena sofferenza? A un certo punto, però, entrano in scena i pm, che cominciano a guardare dentro a quei contratti pieni di termini tecnici (swap, collar, mark to market, ecc.) scoprendo – è il caso di Milano – che potrebbero essere state pagate decine di milioni di commissioni non dovute. Poi lo stesso ministro Tremonti, nel 2008, appena insediato, sull’onda degli scandali che stanno montando, decide di bloccare l’utilizzo dei derivati per gli enti locali fino a un nuovo regolamento. Il quale gira come bozza da mesi ma finora non ha visto la luce. Nel frattempo, la VI Commissione del Senato guidata da Mario Baldassarri ha prodotto due voluminosi tomi per dare dei consigli al ministro dell’Economia, appoggiando comunque la sua bozza di regolamento. Il nuovo regolamento dovrebbe precisare le operazioni che possono fare e quelle che non si possono fare. E, soprattutto, dovrebbe determinare un compenso "equo" per ciascun tipo di derivato in modo che i giudici – in caso di incertezza abbiano dei riferimenti, che dovrebbero essere validi anche per il passato fornendo una sorta di "interpretazione autentica". In mancanza della quale c’è il rischio che a stabilire l’equo compenso siano i giudici, alcuni dei quali non sembrano accettare il principio per cui le banche vanno pagate, ed ogni operazione può avere un prezzo diverso in funzione della sua complessità. Inoltre, tutte le operazioni degli enti locali venivano regolarmente inviate prima della chiusura al ministero per il controllo. Dunque – salvi i casi di truffe – tutto è stato fatto secondo le regole, e se queste non hanno funzionato è perché avevano le maglie troppo larghe. Mentre i controlli, semplicemente, non sono stati accurati. Un’altra cosa imbarazzante per Tremonti è che se il ministero dell’Economia emana un nuovo regolamento non si comprende perché non debba valere anche per il Tesoro (e di conseguenza anche per il passato). In pagina è pubblicato un 24 grafico che dimostra che il Tesoro ha fatto molte operazioni in derivati: dal 2002 al 2006 ha "fatto cassa" creando flussi positivi per circa 6,4 miliardi, ma poi gli stessi contratti che durano nel tempo hanno cominciato a mostrare il rovescio della medaglia producendo delle perdite: tra il 2007 e il 2008, quando peraltro governava il centro sinistra, sono stati persi 1,2 miliardi. È stato commesso qualche errore? E se è così, è lo stesso di cui sono accusati gli enti locali per il fatto di aver creato con le loro manovre possibili perdite future? Ma se anche le scommesse fatte fossero state vinte, poiché il New York Times ha definito laute le commissioni pagate dal Tesoro italiano, non c’è il rischio che siano addirittura più alte, in percentuale, di quelle pagate dai Comuni ora sotto accusa? E non è finita. Certamente fra le operazioni autorizzate per gli enti territoriali non c’era quella dei contratti "senza sottostante". Ovvero quelli in cui non si scambia (swap) un mutuo a tasso fisso per uno variabile o viceversa, ma dove invece si fa una pura e semplice scommessa, come quella sui cavalli. Tra il 2001 e il 2005 sembra che effettivamente siano state messe in atto operazioni senza sottostante come incasso anticipato di flussi cedolari futuri, vendita di opzionalità e scommesse sulla forma della curva. Qualcuno ha sbagliato la scommessa? Ha guadagnato prima causando successivamente un danno erariale, che magari andrà avanti anche per i prossimi anni? Oppure sono cose che si possono fare: ma chi le verifica? Tremonti controlla i Comuni, ma chi controlla Tremonti? Tutte domande, per ora, senza risposta. È finita l’epoca della "one man bank" MARCO PANARA L’epoca della "one man bank" è finita, almeno in Italia. A decidere che è giunto il momento di fa evolvere un modello che ha avuto grande successo, portando alla costruzione di gruppi bancari di taglia europea, sono gli azionisti, viziati prima da dividendi forse troppo generosi e poi costretti a tirare la cinghia in questi anni difficili. Le due grandi banche italiane, Unicredit e Intesa San paolo, hanno attraversato la tempesta senza tracolli, ma il prezzo dei tempi difficili lo hanno pagato anche loro e, inevitabilmente, i loro soci, che hanno visto cancellare o ridurre le cedole e che nel caso di Unicredit sono stati chiamati due volte ad aumentare il capitale. Probabilmente se le banche avessero continuato a macinare utili come prima della grande crisi queste pressioni non ci sarebbero state, ma l’impressione è che più che i minori dividendi a spingere gli azionisti sia una nuova paura della complessità. I tempi difficili li hanno messi di fronte ad una realtà che era lì anche prima ma che evidentemente non percepivano sino in fondo. Le difficoltà li hanno svegliati e il pensiero che si va affermando è che sia Unicredit che Intesa San Paolo siano ormai realtà troppo grandi e complesse perché tutte le decisioni siano affidate alla saggezza di un uomo solo. L’origine della richiesta di un nuovo direttore generale a Intesa San Paolo e di un capo per le attività italiane a Unicredit ha motivazioni di base più prosaiche, il potere per esempio. La Fondazione San Paolo ha posto chiaramente la questione in questi termini, le fondazioni azioniste di Unicredit in via più indiretta. Fatto sta che gli azionisti dell’una e dell’altra banca si sentono un po’ ostaggi di due figure pesantissime come sono Alessandro Profumo e Corrado Passera. Se si va più a fondo però, emerge che il problema vero, quello che va oltre gli interessi del momento, è la gestione della complessità. Gli azionisti delle grandi banche, le fondazioni e non solo, avvertono la necessità di adeguare la governance di 25 sistemi divenuti ormai molto grandi e articolati, tanto forse da aver fatto trascurare la parte che soprattutto alle fondazioni sta più a cuore, il rapporto con il territorio. La Banca d’Italia ha fatto capire chiaramente che non gradisce dualismi, il capo azienda deve essere uno e tale resterà, come è giusto e opportuno che sia, ma quell’uno dovrà delegare di più, lasciare spazi a chi gli sta sotto, essere il punto di riferimento del gruppo ma non l’unico gestore. Queste sono le premesse del cambiamento in atto, più difficile è però anticiparne gli esiti. Corrado Passera ha ora un direttore generale vicario, Marco Morelli, che giunge dal Monte dei Paschi, che non è cresciuto con lui, non è un "alter ego" e Profumo presto anche lui avrà a capo di metà del suo business un manager che i suoi azionisti chiedono abbia deleghe adeguate. Per tutte e due le banche la ricerca di un nuovo equilibrio sarà un passaggio delicato. Sarà bene che gli azionisti, una volta ottenuta la nuova governance, sappiano tenersene fuori: cavalcare scontri di potere interni non gioverebbe alle banche, e quindi neanche a loro. "Parti correlate", chi dovrà fare i conti con le nuove regole ennewitz e Vittoria Puledda Milano Sembra quasi uno scherzo del destino: a una manciata di ore dall’approvazione del Regolamento Consob sulle operazioni tra parti correlate, Unicredit vende ad una joint venture in cui c’è la Fondazione Crt – cioè uno dei suoi azionisti di riferimento – una partecipazioni importante, oltre il 2%, di Generali. Esempio tipico di operazione tra parti correlate da sottoporre al vaglio dei consiglieri indipendenti? Neanche per sogno, per una serie di ragioni: la transazione è stata fatta a prezzi di mercato; la parte correlata non è quotata (circostanza che le vale una serie di esenzioni); infine, il controvalore è di gran lunga inferiore al 5% della capitalizzazione (o dell’attivo) di Unicredit. Eppure, quel pacchetto significa anche un pezzo di potere che si sposta, da un piano all’altro di una stessa "famiglia" (Unicredit) e che avrà eccome effetti sulle "parti correlate" del listino di Piazza Affari. Questo non significa che i due anni di gestazione e il paio di Bozze precedenti abbiano alla fine partorito il classico topolino. Il Regolamento di per sé è già una forte moral suasion a evitare operazioni poco trasparenti che trasferiscono valore tra controllanti e controllante, ma incontrerà non pochi scogli nelle interpretazioni e nei mille distinguo all’impianto generale. I punti da chiarire restano molti e ne è in qualche misura consapevole la stessa Consob, tanto che ha già annunciato alcune note interpretative che saranno diramate entro Pasqua. E lo sanno gli avvocati esperti nelle cose societarie, che stanno già affilando le armi per sfornare pareri ed eccezioni, anche se il Regolamento almeno un cambiamento forte lo introduce: «L’attenzione deve essere rivolta alla sostanza del rapporto è scritto e non semplicemente alla sua forma giuridica». Ad esempio non è chiaro se le collegate di una parte correlata, lo siano anche della sua controllante. Fonsai che è parte correlata di Mediobanca, lo è anche di Generali? E Pirelli che è correlata di Mediobanca lo è anche di Telecom? Domande, forse retoriche, ma da cui ci si aspetta una risposta dalle note interpretative che la Consob sta mettendo a punto. Anche perché se vale il principio di guardare alla «sostanza», esistono anche molte esenzioni (per alcuni osservatori, troppe) come un congruo periodo di grazia per le neoquotate (e sul listino ne stanno arrivando alcune di peso come Enel Green Power e Banca Fideuram, peraltro entrambe con azionisti "forti"). Altro punto delicato, quello sull’«influenza notevole» tra parti correlate, che sembra fatto apposta per far 26 volare le carte bollate: l’influenza è infatti scontata sopra il 20% di controllo azionario, ma può essere dimostrata anche sotto questo livello quando ad esempio ci sia una rappresentanza diretta in consiglio. A quel punto acquistano valore una serie di elementi più sfumati – tra cui la partecipazione alla politica dei dividendi e in generale alla politica gestionale della società – grazie a clausole societarie o ad accordi. Inoltre, il fatto che ci sia un azionista che ha la maggioranza assoluta, non elimina la possibilità che un altro socio abbia comunque un’influenza notevole sulla società medesima. Infine quando si parla di «Patti di sindacato» non si specifica se valga indistintamente per i patti di gestione e per i sindacati di blocco, il cui unico vincolo che lega i soci dovrebbe essere quello di non vedere la partecipazione per un determinato periodo. Dunque, tanto per fare qualche esempio, la famiglia Pesenti è parte correlata di Mediobanca e Rcs, mentre è più sfumata la posizione in Unicredit, Mittel e Ubi, dove ha quote o presenza nei consigli di diverso peso. Certamente Benetton, Gavio e Ligresti sono parti correlate in Impregilo (perché nella Igli, la scatola attraverso cui esercitano l’influenza notevole, hanno quote paritetiche ma anche un diritto di veto). In altri casi la partita è un po’ più difficile da interpretare, come nel caso di Gilberto Benetton, che attraverso Edizione ha una quota minima nel patto di sindacato di Mediobanca, ma siede nel consiglio di amministrazione di Piazzetta Cuccia. E’ invece espressamente definito parte correlata il fondo pensione complementare dei dipendenti di una società (elemento importante, perché possono esserci "tentazioni" poco nobili da parte del casa madre rispetto al Tfr dei propri dipendenti). In tutti questi casi le operazioni di rilievo devono passare al vaglio dei consiglieri indipendenti e, se questi non sono d’accordo, devono essere approvate dall’assemblea. Ma anche in questo caso la disciplina rischia di avere una smagliatura: è previsto infatti che il voto importante sia quello dei soci "non correlati" con l’azionista di controllo, insomma, che le minoranze possano votare ma anche contare. Tuttavia è anche previsto che gli statuti possano fissare un tetto minimo perché tale voto contrario sia determinante e questo tetto può arrivare fino al 10% (e non oltre). Poco? Rischia di essere tanto, se si pensa che i piccoli soci difficilmente vanno in assemblea e quindi fissare al 10% il quorum minimo della minoranza che dovrebbe dire no, può equivalere a svuotare la norma di qualsiasi senso. Scalata padana a Unicredit le Fondazioni bancarie stringono il cerchio al Nord DI ALBERTO STATERA Antico ricordo la Credieuronord, la banchetta truffaldina di Bossi fallita e salvata dai furbetti del quartierino di Gian Piero Fiorani, la Lega Nord punta ora molto più in su, verso la padanizzazione nell'Alta Banca. Ne sa qualcosa Alessandro Profumo, A.d. di Unicredit, che dal ruolo di "Mister Arrogance" o di "Alessandro il Grande" Plutarco ci perdoni è precipitato a quello di ostaggio non solo degli azionisti ostili al suo progetto di Bancone, ma anche delle orde padane. Tra i nuovi avversari del banchiere genovese che dichiarò di votare centrosinistra, spicca per aggressività Luca Zaia, prossimo governatore del Veneto e primo presidente regionale leghista della storia, che della sua regione farà il laboratorio della secessione, ciò che probabilmente accelererà l'implosione del Pdl berlusconiano, che sarà colà ridotto a secondo o addirittura terzo partito dopo Lega e Pd. Il ministro in carica dell'Agricoltura, che la Confagricoltura critica considerandolo poco più che un bluff mediatico, ha sparato a zero su Profumo, 27 reo di essersi schierato a favore della candidatura di Roma e non di Venezia per le Olimpiadi del 2020. Ma questa è una partitella di risulta. Quella vera vede la Lega alla conquista di spazi nelle grandi banche nazionali. Gli uomini di Bossi hanno scoperto che, controllando il territorio attraverso gli enti locali, si accede dalla porta principale all'Alta Banca e all'Alta Finanza, quella che favorì mezzo secolo di dominio democristiano su questo paese. E ha cominciato ad addentare con determinazione l'osso dei "poteri forti" attraverso le Fondazioni bancarie in Veneto, ma anche in Piemonte, dove però le chances di Roberto Cota di vincere le regionali sono meno forti. Cariverona, per dire, è primo socio di Unicredit con il 5% e decide a cascata fino a Mediobanca. Ben 22 consiglieri su una trentina sono nominati dagli enti territoriali, che sono quasi tutti in mani leghiste. Quattro ne nomina il sindaco di Verona Flavio Tosi, quello dello slogan "El leon che magna il teròn", uno il sindaco di Legnago Roberto Rettondini, un altro il presidente della provincia di Vicenza Attilio Schneck, uno Gianvittore Vaccari, sindaco di Feltre. Altri sono espressione della Camere di Commercio che, con Zaia governatore, non sfuggiranno alla perfetta tecnica lottizzatoria leghista. Cosicchè più della metà degli uomini al vertice della fondazione veronese risponderà al governatore leghista. La caccia padana è aperta anche contro il presidente di Cassamarca, l'antico democristiano Dino De Poli con simpatie di centrosinistra, assediato nella roccaforte verde di Treviso. Alessandro il Grande così non ha più di fronte soltanto gli azionisti riottosi e Geronzi, Letta, Berlusconi, ma anche Bossi, che aspira ormai a diventare il "primo azionista" di Piazza Cordusio. La partita finanziaria del Senatùr, che si è già insediato nella Popolare di Milano con la complicità di quel vecchio praticone che è il nuovo presidente Massimo Ponzellini, punta ora, con Zaia, primo governatore leghista della storia, alla secessione padana anche per via bancaria. [email protected] www.lastampa.it I pensionati italiani sono i più tartassati d'Europa Nel nostro Paese, il 30,4% del prelievo Irpef pesa sulle spalle dei pensionati Ci se li immagina come appartenenti a una categoria debole, da difendere e proteggere, e invece sono costretti a portare sulle spalle una parte considerevole dello strabordante carrozzone fiscale italiano. E va bene se, nel farlo, tengono la testa china, perché se guardassero a quel che succede in alcuni dei Paesi più importanti d'Europa, probabilmente, i pensionati italiani lascerebbero cadere tutto per terra. I più tartassati d'Europa Uno studio condotto dalla Sip-Cgil (il sindacato dei pensionati della Cgil) ha appurato quanto è gravosa la pressione fiscale cui sono sottoposti i pensionati italiani. Tra i vari dati, uno dei più impressionati è quello che riguarda il prelievo Irpef: ben il 30,4% dell'imposta sul reddito delle persone fisiche che l'erario incassa ogni anno è sostenuto dai pensionati. Ciò vale a dire che sui 145,9 miliardi di Irpef totali, addirittura 44,4 provengono dalle tasche dei pensionati: una situazione che non ha eguali nel Vecchio Continente. Pensione più corposa in Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna A conti fatti, i pensionati italiani godono di un assegno che - al netto delle tasse - si rivela il 15% più leggero rispetto alla media europea. Il trattamento fiscale 28 dei pensionati, nel nostro Paese, risulta più gravoso di quello di Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna e più benevolo esclusivamente di quello svedese. Nel 2009, il reddito medio del pensionato italiano si è rivelato pari a 13700 euro lordi all'anno. Dopo essere passata per le aliquote e le detrazioni previste, questa cifra si trasforma in 11631 euro netti. Probabilmente, i lavoratori a riposo italiani apprenderanno con un filo di invidia che, se fossero tedeschi, francesi, spagnoli, i 13700 euro lordi resterebbero 13700 euro anche al netto delle imposte, in virtù di un prelievo fiscale pari 0. In Gran Bretagna, invece, nel passaggio dall'importo lordo a quello netto non si volatilizza che l'1,3-1,6% dell'intera somma. Per alleviare l'amarezza, probabilmente, non basterà guardarsi indietro, dove si troverà la sola Svezia: nel Paese scandinavo, 13700 euro di pensione lordi si ridurrebbero a 10427 euro netti. www.lavoce.info IL TEMPO DELLE RELAZIONI PERICOLOSE TRA POLITICI E IMPRESE di Decio Coviello e Stefano Gagliarducci 19.03.2010 Gli appalti pubblici sono vulnerabili alla corruzione. Ma come si sviluppano quelle relazioni preferenziali tra politici e imprese che possono esserne l'anticamera? Nelle amministrazioni locali un fattore decisivo è il numero dei mandati ricoperti da un sindaco. Se viene rieletto per una seconda volta si verifica una sistematica riduzione nel numero di partecipanti alle aste, a cui corrisponde un maggior costo per la realizzazione dell'opera e un maggior aggravio per le finanze pubbliche. L'intreccio tra appalti pubblici e corruzione, descritto nelle cronache nazionali degli ultimi mesi, ha riacceso il dibattito sulla vulnerabilità di questi contratti nel nostro paese. È emerso uno scambio di favori monetari, e non, tra committenti (politici e amministratori) e imprese. Già in passato, diversi studi avevano messo in luce la diffusa commistione pubblico-privato nel settore degli appalti. (1) Poco, però, si è detto sul modo in cui si sviluppano le relazioni preferenziali fra politica e imprese che favoriscono gli scambi di favori. (2) SINDACI E APPALTI In una recente ricerca abbiamo raccolto dati e informazioni relativi alla carriera politica dei sindaci italiani eletti nel periodo 1985 al 2008 e gli appalti realizzati nei loro comuni tra il 2000 e il 2005. (3) L'aspetto innovativo che emerge dall'analisi è il tempo e il modo in cui si realizza tale rapporto. Il numero dei mandati ricoperti dai sindaci ha una relazione diretta sul funzionamento e i risultati delle aste pubbliche da loro gestite. Quando il sindaco viene rieletto per un secondo mandato, si verifica una sistematica riduzione nel numero di partecipanti alle aste, a cui corrisponde un maggior costo per la realizzazione dell'opera e un maggior aggravio per le finanze pubbliche. In tal modo, non solo si deteriora il livello della competizione, ma anche la sua stessa natura. Aumenta infatti la probabilità sia che i vincitori siano imprese locali sia che gli appalti siano vinti dalle stesse imprese. La figura 1 sintetizza questi risultati. 29 EVIDENZA EMPIRICA L'analisi ha preso spunto dalla riforma dei comuni del 1993 che ha consentito ai sindaci eletti prima dell'entrata in vigore della legge di allungare sistematicamente il numero dei mandati. La circostanza ha consentito di costruire un modello empirico che prende in considerazione la possibilità che un sindaco rieletto più volte sia più soggetto alle relazioni preferenziali (e viceversa). Le nostre stime evidenziano che nel comune in cui il sindaco sia stato al potere per un ulteriore mandato, il numero dei partecipanti alla gara si riduce del 23 per cento; mentre il ribasso di aggiudicazione è inferiore del 13 per cento. Negli stessi comuni in cui il sindaco rimane in carica per un ulteriore mandato si verifica un aumento del 3,2 per cento della probabilità che l'impresa vincitrice sia locale e un aumento del 25 per cento della probabilità che la stessa impresa vinca con maggiore frequenza gli appalti. Il ribasso di aggiudicazione della gara, espresso come deviazione dalla base d'asta, consente di calcolare l'aumento sistematico del costo di un lavoro pubblico. Secondo i nostri calcoli, un extra-mandato di un sindaco causa un aumento di 8mila euro nel costo di un appalto dal valore medio di 546mila. Se si considera che dai dati emerge che il numero degli appalti banditi per ogni mandato è in media di dodici, l'effetto economico dell’aumento può essere paragonabile, per quella comunità, alla realizzazione di un’ulteriore opera pubblica del valore di circa 100mila euro. (4) 30 IL DIBATTITO POLITICO Va precisato che questi numeri non sono per lo più una prova della scambio di favori tra sindaci e imprese locali. Tuttavia, la ricerca mette in luce l'intreccio e la debolezza degli appalti pubblici a causa delle possibili prolungate relazioni fra sindaci e imprese locali. I nostri risultati sono compatibili con lo studio a livello macroeconomico per altri paesi, in cui viene ben evidenziato che la corruzione di una nazione è correlata alla lunghezza della permanenza in carica dei politici. (5) Nel caso delle amministrazioni locali italiane, si sostiene spesso che il limite dei due mandati riduce la capacità di realizzare programmi e opere di medio-lungo periodo, che spesso maturano i loro benefici solo dopo diversi anni. Tuttavia, l'analisi sulla durata della carica dei sindaci, dettata da regole non manipolabili, pende in esame gli effetti positivi che derivano dalla riduzione della collusione tra politici e imprese locali; rende anche evidente il beneficio conseguito con il ricambio dei rappresentanti politici grazie alla rottura degli eventuali network che deteriorano la spesa pubblica e i vantaggi del prevalere della concorrenza anche in questo settore. (1) Si vedano Goldman, E., Rocholl, J., e J. So, 2009. Political Connections and the Allocation of Procurement Contracts , mimeo. E Hyytinen, A., Lundberg, S., e O. Toivanen, 2007. Politics and Procurement: Evidence from Cleaning Contracts, mimeo. (2) Gli appalti pubblici costituiscono una porzione considerevole del Pil di quasi tutte le economie industrializzate (14 per cento del Pil nei paesi Ocse, 12 per cento in Italia nel 2002 secondoAudet, D., 2002, “Government Procurement: A Synthesis Report” , Oecd Journal on Budgeting, 2, 149-194). E rappresentano lo strumento principale per l'approvvigionamento o la realizzazione di beni e servizi pubblici per le pubbliche amministrazioni. (3) Coviello, D. e S. Gagliarducci, 2010, “Building Political Collusion: Evidence from Procurement Auctions in Italy”, mimeo. (4) Nell'interpretare questi effetti è utile mettere in evidenza che i dati a disposizione non permettono di calcolare il costo totale finale del lavoro pubblico. Le schede di rilevazione dati collezionate dalla Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), gentilmente messi a nostra disposizione, sono riempite solo parzialmente dalle amministrazioni locali e incomplete sulle varianti in corso d'opera. Queste variazioni dal prezzo pattuito in fase post-gara generalmente aumentano il prezzo pagato dalla pubblica amministrazione. (5) Besley, T., and A. Prat, 2006. Handcuffs for the Grabbing Hand? The Role of the Media in Political Accountability. American Economic Review, 96, 720-736. www.opinione.it PATTO DI STABILITA' Valutare attentamente la proposta di Draghi di Giancarlo Colombo Il Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, in un’intervista a Handelsblatt, giornale economico tedesco, ha gettato un solido ponte fra il passato e il futuro prossimo europeo. Come presidente del Financial Stability Board, Draghi offre una via d’uscita molto onorevole (e diplomatica) alle azioni finora svolte dall’esecutivo dell’Ue, dalla Banca Centrale Europea, al Fondo monetario internazionale, definendo il Patto di stabilità sinora inteso come solo meccanismo di osservazione e in parte di correzione dei bilanci pubblici, come un passato da sostituire con 31 un’area di riforme strutturali che comprendano anche regole comuni europee di riforme liberali di mercato, della concorrenza, dei sistemi pensionistici. Una rivoluzione liberale europea vera e propria. In altre parole un vero Governo politico europeo e non più un governo di burocrazie gelose dei propri incarichi in continua dialettica fra di loro, intese a salvaguardare le proprie posizione e le proprie mansioni. Certamente il Governatore ha trovato molto consenso nelle persone che compongono il Financial Stability Board, composto da rappresentanti dei governi europei, da responsabili bancari ai più alti livelli. E la sua diplomazia legata alla solita franchezza, nell’intento di farsi comprendere è esplicita. Sia pure partendo dal caso della Grecia ed evitando le larvate idee della Cancelliera tedesca che ha parlato di espulsione per i Governi recidivi, il Governatore ha messo barra a dritta nell’indicare una via d’uscita che interessi il governo europeo dell’economia, cosa che finora è mancata del tutto o quasi. Ce la farà? Se si studia a fondo quanto ha dichiarato, si comprende come l’unica via d’uscita per evitare inutili polemiche sul passato prossimo della crisi europea è appunto quella del nuovo Patto di stabilità, cioè di un governo europeo dell’economia “vero” e non un surrogato di burocrazia. Essendo il Governatore Draghi un uomo prudente ma fermo, non avrebbe mai rilasciato queste dichiarazioni se non avesse un retroterra di consensi e di adesioni molto ampio. Ed è questo quello che conta. Quanto ai tempi con franchezza sempre diplomatica ma comprensibile, Draghi ha spiegato a tutti che prima si fa è meglio è e si dà ai mercati finanziari quelle indicazioni di cui hanno bisogno per un lavoro, per non agitarsi ad ogni stormir di fronde o di fronte a notizie e dati legati al passato di un liberismo sfrenato ed accaparratore. Vedremo nei prossimi giorni l’evolversi di questa nuova proposta operativa. Quello che possiamo dire da cittadini europei è che ce ne era bisogno. 32