I
ARTE SACRA
CINQUE CROCI SULL’ARCO D’AUGUSTO
Chi si mette di fronte all’Arco o Porta d’Augusto può notare ben cinque
croci. Tre sono in una parete del fornice sinistro (non si sa perché e da
chi vennero scolpite); una, molto più piccola tanto che è difficile trovarla, è sulla facciata a sinistra della Porta; la quinta, che è la più importante, fu scolpita, secondo una vecchia diceria tramandataci da Carlo
Andrea Negusanti, quando il vescovo Orso (dunque nel 600 d.C.) fece
scomparire e scalpellare la protome elefantina, cioè la figura animalesca,
la quale secondo lui era ricettacolo demoniaco che infastidiva la Città.
Come mai la protome riproduceva un elefante? Nella effigie della Porta
scolpita nella cinquecentesca facciata della attigua chiesa di S. Michele
c’è invece raffigurato un toro; è noto che alcuni vi hanno visto un leone
che, però, era un simbolo usato da Pompeo. Tale pluralità di interpretazione è dovuta anche allo stato non troppo buono dell’originale.
L’ipotesi dell’elefante è condivisa dal Rossini che nell’800 studiò la
Porta e incise l’elefante nella sua notissima tavola. C’è dell’altro. Il
“denaro” con cui Giulio Cesare commemorò la sua vittoria su Ariovisto
(58 a.C.) presenta di profilo un elefante che calpesta un drago simbolo
dei Germani. Lo storico Ferrabino scrive che l’elefante “è simbolo del
nome Caesar”. Tale sua certezza è forse riconducibile al bizantino
Giovanni Lido il quale ci informa che un avo di Cesare “avrebbe ucciso
proprio un elefante in una battaglia combattuta nei pressi di Palermo”.
In lingua punica l’elefante veniva chiamato “kaiser”. Dopo la moneta di
Giulio Cesare la protome fanese può ben essere una ulteriore prova del
legame fra il nome “elefante” e Cesare di cui Augusto si proclama figlio.
Dato che abbiamo parlato di sant’Orso, uno dei protettori della Città, è
bene accennare di nuovo a san Paterniano, primo protettore di Fano. Non
conosciamo l’esatta collocazione cronologica del vescovo Paterniano:
certo non fu il primo vescovo di Fano né il quarto, come abbiamo letto
recentemente. L’Amiani pone come primo vescovo un certo Tolomeo
che invece è stato vescovo di un’altra diocesi. Sulle origini cristiane della
Città c’è molto mistero, quindi c’è molto da studiare.
2007
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FU CATTEDRALE DI FANO?
DUBBI SU SAN PIER VESCOVILE
In Via Rinalducci c’è la piccola chiesa di San Pier Vescovile o
Episcopale, in dialetto San Piruschin. Una lapide, al suo esterno, informa che la chiesetta è romanica e che per circa sei secoli fu cattedrale
di Fano. Un’altra lapide, posta all’interno dopo il restauro voluto dal
vescovo Micci, aggiunge prudentemente che il titolo di cattedrale è
dovuto alla tradizione. Difatti non ci sono documenti che lo comprovano. Anche lo stile romanico è ben poco leggibile nelle scarse parti
antiche giunte fino a noi. C’è scritto, inoltre, leggenda sopra leggenda,
che vi sarebbe stato sepolto un capitano fanese, Bertolagi, morto nella
difesa di Aquileia nel 452.
Ma San Piruschin fu veramente cattedrale di Fano? C’è motivo di dubitarne fortemente, tanto più che la “tradizione” risulta attestata a partire dal sec. XVII e appare fondata solo sulla qualifica “vescovile” (o “in
episcopio”) aggiunta al titolo di San Pietro. Troppo poco, quasi nulla.
L’aggettivo “vescovile” potrebbe semplicemente significare che la
chiesa era diretto possesso del vescovo magari ottenuta nel sec. VI
quando, dopo la sconfitta dei Goti, i beni della chiesa ariana (che certamente aveva seguaci anche a Fano) furono trasferiti, come sappiamo,
ai vescovi delle città della Pentapoli, fra cui Fano, e alla chiesa
all’Arcivescovo di Ravenna.
Si può anche pensare che l’appellativo “vescovile” stia solo a precisare che la chiesetta di San Pietro si trovava nella contrada dell’episcopio; e l’appellativo “vescovile” serviva a distinguerla dalle altre chiese
ugualmente intitolate al principe degli apostoli: S.Pietro in Valle,
S.Pietro foris portam (fuori dell’Arco di Augusto), S.Pietro in Tectis
(non localizzata).
Il diminutivo “Piruschin” può alludere alla piccolezza della chiesa:
San Pieruscolino e San Piruschin, infine “San Piruschin”. Il nome
popolare potrebbe anche collegarsi al fatto che vicino alla chiesa c’era
la piccola porta della Mandria, da cui deriverebbe San Pierosculino,
San Pietro della porta piccola. Tutt’altra cosa che “vescovile”!. Posto
che la prima chiesa cattedrale sorgesse, come in altre sedi, fuori dalla
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città romana precisamente dove fu sepolto San Paterniano (ora via
dell’Abbazia) e considerando che nel sec. VIII già esisteva dove è l’attuale Duomo un edificio sacro dedicato alla Vergine (vi fu sepolto San
Fortunato), è più logico pensare che dalla periferia la sede della
Cattedrale sia stata direttamente trasportata dov’è attualmente.
1991
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IL TRITTICO DEI PROTETTORI
Per generosa ed intelligente iniziativa del Lions Club locale sono in
corso i restauri del trittico dei Santi Protettori di Fano. Sembra che si
sia giunti appena in tempo per evitare che le tre antiche nicchie collocate nella facciata del Palazzo del Podestà (ribattezzato “Palazzo della
Ragione” alla fine dell’Ottocento) si schiantassero in tutto o in parte
sul selciato di Piazza XX Settembre.
Al centro della nicchia c’è, con la statua più antica, quella di S.
Paterniano, trecentesca, in pietra. Ai lati le nicchie con le statue in
cotto che rappresentano S. Eusebio (a destra di Paterniano) e S.
Fortunato (a sinistra). Queste due statue furono collocate, come sembra, alla fine del Quattrocento. Insomma si tratta di un complesso artistico e devozionale di grande rilevanza. Ma il suo aspetto originario, e
soprattutto quello delle statue, era ben diverso da come apparirà dopo
il pur diligente lavoro di consolidamento e restauro.
Il complesso donava infatti un meraviglioso tocco di luminosità alla
vasta “muraglia” del palazzo del Podestà perché le tre statue erano dorate, ed emergevano dal fondale delle nicchie che era dipinto in azzurro
scuro. Sull’azzurro delle tre nicchie erano distribuite una trentina di piccole stelle di rame dorato; nel culmine del timpano di ogni nicchia c’era
una sfera pure di rame dorato sormontata da una piccola croce.
I tre Santi Protettori reggevano nella mano destra il pastorale, anch’esso dorato.
L’effetto doveva essere magnifico!
In più la doratura difendeva le statue dalle ingiurie del clima. Tutta la
facciata era più bella se non altro perché non era stata ancora sconciata nello spigolo destro dalle torri angolari che via via ci furono appiccicate: probabilmente la più brutta è quella attuale alla quale durante la
costruzione si tentò persino di dare nome di “torre del popolo”, con un
pizzico di demagogia.
Tornando al nostro trittico vorrei fare una domanda da “ignorante”:
“Terminati gli attuali lavori di restauro non si potrebbero nuovamente
indorare le tre statue e, sulla traccia di quello che c’è rimasto, non si
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potrebbero ristabilire colori e stelle nelle nicchie?”.
Ripeto: è una domanda da ignorante; ma visto che a suo tempo i “competentissimi” hanno costruito quel disastro di torre attuale con mattoni di tre colori diversi… perché non ascoltare, per una volta, un povero ignorante?
1992
San Paterniano (al centro) nel trittico dei Santi Protettori di Fano
nella facciata del Palazzo del Podestà (ora Palazzo della Ragione)
15
LA CHIESETTA DI SAN PATERNIANINO
DEVE ESSERE SALVATA
Nei mesi scorsi eravamo intervenuti da queste colonne per prospettare
la necessità di ridare dignità e decoro alla Cappella che il popolo fanese chiama col nome San Paternianino, ma che nacque col nome di San
Martino.
Infatti quella cappella fu collocata da circa quattro secoli per ricordare
che un tempo su quel terreno sorgeva l’abbazia benedettina di San
Martino abbandonata e poi demolita a metà del secolo XVI. In quella
abbazia avevano trovato ospitalità uomini illustri, laici ed ecclesiastici,
papi e imperatori.
Una lapide apposta una trentina d’anni fa in una colonna d’ingresso da
Mons. Vittorio Bartoccetti, illustre storico fanese, ricordava ai posteri
tutto questo.
Ma la lapide è ora scomparsa e demolita nel momento in cui si è deciso di dare esecuzione ai lavori di ampliamento della curva che dalla
Flaminia immette in via dell’Abbazia.
Non è stato un gran colpo di genio distruggere la lapide, anzi direi senz’altro che è stato un atto di gratuita violenza.
Di fronte al vuoto stradale che sostituisce una zona che doveva essere
difesa e ripristinata nella sua originalità non resta che “pretendere” che
venga rispettata e fatta rispettare la cappella di San Paternianino così
da non vederla scomparire dalla mattina alla sera come successe negli
anni ‘50 con la chiesetta della Croce posta a sinistra della Flaminia
vicino all’incrocio con via Squarcia.
Pensiamo che la Curia debba pensare al ripristino interno della cappella e il Comune debba provvedere a difendere la piccola costruzione
dai danni che potrebbero derivarle dal traffico: oltre a piantare intorno
altri cipressi.
Bene ha fatto il Consiglio Pastorale di San Cristoforo a prendere posizione in tal senso.
Infine una domanda: “È mai possibile che a Fano, che vanta di essere
città d’arte e di cultura, si debba intervenire “in soccorso” di testimo16
nianze tanto significative del nostro patrimonio che rischiano di essere cancellate da una qualsiasi volgarissima ruspa?”
1992
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LA GROTTA DI SAN PATERNIANO
Nel quadro delle annuali celebrazioni per la festa di San Paterniano i
padri Cappuccini hanno opportunamente previsto, per il pomeriggio di
domenica 13 luglio, un “pellegrinaggio” alla cosiddetta “Grotta di San
Paterniano”, in località Sant’Angelo nella parrocchia di Caminate.
Su questa grotta, nel 1920, ha scritto un libretto don Aurelio Branchini,
lasciando purtroppo mano libera alla immaginazione e alla retorica, e
spesso trascurando la prudenza come quando, senz’ombra di documentazione, afferma che a Fano la persecuzione contro i cristiani
cominciò “subito dopo la morte del Redentore”! La grotta viene da lui
presentata come una “catacomba”, addirittura come “la prima catacomba delle Marche aperta dai primi cristiani della Chiesa fanese a
Caminate ove San Paterniano e compagni vissero nascosti durante la
persecuzione di Diocleziano”.
Credo che l’idea della catacomba sia da scartare del tutto: in realtà
siamo di fronte ad un manufatto a forma di croce commissa (cioè a
“T”) largo poco più di due metri, alto tre, col braccio principale lungo
18 metri, l’altro 15; la struttura muraria è in pietra e ciottoli coperti da
intonaco, appartenente ad una villa rustica romana di cui si sono trovati, sul posto, numerosi frammenti fittili e tessere di pavimento a
mosaico. La grotta che aveva un’apertura anche nella volta superiore
(evidentemente per scaricare prodotti agricoli) era forse destinata a
custodire granaglie.
La leggenda ha voluto che lì San Paterniano e i suoi compagni, Avito,
Maurenzio, Martino, Vincenzo, Pellegrino, Urbano (che interessano
anche la Chiesa di Fossombrone), si rifugiassero per sfuggire alla persecuzione di Diocleziano e poi, dopo la pace di Costantino, per fare
vita in comune.
La persecuzione, la fuga dalla città, la presenza di una piccola comunità cristiana collimano con la storia generale di quei tempi; ma nulla
ci dice che il centro di quella nascosta vita cristiana sia stato il granaio
di Sant’Angelo. Pur tuttavia esso è diventato nel tempo, sulle ali della
pietà popolare, “icona”, immagine e ricordo delle tribolazioni della
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nascente Chiesa fanese, ed è cosa giusta e buona che venga come tale
ancora onorato e ricordato.
Quando nel sec. XVIII (più o meno duecentocinquant’anni fa) venne
casualmente riscoperto (dall’apertura superiore vi era caduto un cane
da caccia che richiamò l’attenzione dei suoi padroni) dentro furono
trovate due lapidi frammentarie (ora disperse), però lì copiate alla
menopeggio, un crocifisso di legno e un quadro con la Madonna e il
Bambino (finiti a San Costanzo).
Le lapidi erano in onore di San Paterniano. Evidentemente dopo che a
Fano, nel sec. XVI, fu conosciuta la vita (leggendaria) di San
Paterniano che indicava i luoghi selvatici al di là del Metauro come
rifugio del Santo, si pensò che quella grotta poteva essere stata, anzi
“era stata”, il rifugio di Paterniano e dei suoi compagni, e come tale fu
onorata e arredata. Non sappiamo perché poi sia stata dimenticata fino
alla fortunosa “riscoperta”.
Seguirono dal Settecento periodi di notorietà, di frequentazione e di
oblio. Ma nella mente del popolo quella è sempre rimasta “la grotta di
San Paterniano” e penso che, al di là delle verità “archeologiche” sia
bene che i luoghi della pietà popolare vengano riscoperti e onorati: essi
fanno parte del nostro patrimonio spirituale, della nostra memoria collettiva.
1997
19
VA IN ROVINA LA CHIESA DI SANTA MARIA A MARE
Sono due foto molto significative. Si tratta del rudere di S.Maria
dell’Arzilla come era dieci anni fa e come è ora. Quella chiesa ebbe
parecchi nomi, ma il più antico e, forse, il più esatto sembra che sia
“Santa Maria a Mare” o “Madonna a Mare”. Nessuno di noi l’ha vista
nella sua integrità.
Fu costruita al tempo del Vescovo Ariperto e fu benedetta (e forse consacrata) dal Papa Gregorio IV (827 – 844 ) di ritorno dalla Francia
dove invano aveva cercato di conciliare fra loro e con il padre i figli di
Lodovico il Pio.
La strada che aveva il nome della chiesa da cui partiva fu costruita nel
1334. Bisogna ricordare che l’attuale via Fabio Filzi, che fu impiccato
come traditore dagli Austriaci a Trento nel 1916, fino al 1919 era via
Madonna a Mare.
Si tratta, dunque, di una costruzione molto antica e bene ha fatto chi ha
richiamato l’attenzione del Comune, proprietario, per salvare e possibilmente valorizzare ciò che resta della chiesa medioevale in questione.
2007
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TORRE DI SANT’ELENA O DI SANTA CROCE ?
Fra i monumenti sottoposti a restauro figura, in via Nolfi, la “Torre di
Sant’Elena” di fianco al palazzo Martinozzi, da cui la separa una piccola e breve strada.
In via Nolfi, un tempo “strada maestra”, erano molte le torri gentilizie;
la nostra nel medioevo forse apparteneva a qualche famiglia che poi si
estinse.
Perché chiamarla “Torre di Sant’Elena”? Noi invece di certo sappiamo
che era conosciuta e usata come torre campanaria della annessa chiesa
di Santa Croce. Intorno a quella chiesa era il vecchio ospedale degli
infermi che da essa prese il nome passato, poi, all’ospedale attuale.
Tra le antiche chiese di Fano Sant’Elena non figura; figura invece
Santa Croce di cui, però, non conosciamo l’anno esatto in cui assunse
questo titolo. Prima, l’ospedale (che comprendeva anche la torre) era
tenuto, siamo all’inizio del ‘300, da una confraternita che per il fatto
di vestire una tunica di colore “scoroccio” o, forse, perché gli aderenti non portavano la correggia o cintura che dir si voglia, aveva lo strano nome di “scoriggiati”.
Tra le vecchie chiese di Fano e in tutte le piante topografiche del centro storico figura sempre Santa Croce che venne ricostruita ex-novo fra
il 1630-1633 e fu consacrata dal Vescovo di Fano, cardinale Sacchetti;
la lapide che ricordava l’evento (distrutta con la chiesa da un bombardamento alleato nell’aprile 1944, diretto contro la vicina ferrovia)
diceva chiaramente “...templum hoc in honorem Sanctae Crucis/
solemni ritu consecravit/ ecc”.
E’ preferibile, e più esatto, che la torre venga chiamata di “Santa
Croce” anche perché non si perda la memoria storica della chiesa e
dell’ospedale che lì ebbero sede plurisecolare.
L’attuale torre, che in realtà è solo un troncone di quella originale, fu scrive mons. Paolucci - “per metà demolita non si sa con quale criterio
dopo il terremoto del 1930”. Forse non fu demolita proprio per metà, ma
certo fu abbassata nella parte superiore, rimaneggiata almeno due volte
e quasi “modernizzata”: ora, dunque, si fa il restauro di un restauro...!
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Ma quel titolo di Sant’Elena come è venuto fuori? Molto probabilmente detto titolo pare ricollegarsi alla figura di Sant’Elena, madre
dell’imperatore Costantino, che ritrovò (leggenda o verità) la croce su
cui era morto Cristo. La santa, che regge la croce è dipinta, in modo da
ben colpire l’immaginazione popolare, anche nella pala d’altare dovuta al pennello di Giovanni Santi, padre di Raffaello.
A Sant’Elena di certo venne intitolata la farmacia dell’ospedale, e quel
nome tuttora vive in un’altra farmacia, ma non venne mai titolata la
torre: non c’è alcun documento che lo attesti. Stefano Amiani che
scrisse una guida di Fano nel 1853 non fa alcun cenno alla torre e al
suo nome. Però nella “Breve guida statistica, storica, artistica della
città di Fano” (1863) M. Fabi ed E. Francolini affermano, senza spiegazioni,che Santa Croce era detta Sant’Elena e Cesare Selvelli, noto
per i suoi studi su Fano, purtroppo non sempre esatti, chiama
Sant’Elena, senz’altro, la stessa chiesa di Santa Croce e, implicitamente, anche la torre campanaria. Dietro di lui altri hanno parlato e
parlano della Torre di Sant’Elena; ma l’uno ha attinto o copiato dall’altro purtroppo senza portare prove. Credo che sarebbe bene chiamare la torre, o quello che di essa rimane, Torre di Sant’Elena.
2001
22
SUFFRAGIO E TOMBE MALATESTIANE
Ultimamente abbiamo dato notizia del ben nutrito furto di quadri e
stampe consumato, a danno della Confraternita del Suffragio, dai soliti
ignoti (molto “soliti” e, pare, troppo “ignoti”).
Da quando la raffinata passione per l’antiquariato si è diffusa, ladri e
ricettatori di opere d’arte sacre e profane fanno affari d’oro e, naturalmente, chiese e conventi sono i luoghi maggiormente visitati per la
gioia degli amatori d’arte.
Alla Confraternita del Suffragio è andata bene: infatti sono stati ritrovati e riconsegnati stampe e quadri, meno uno, il S.Liborio attribuito al
Gennari (sec.XVII) che, manco a dirlo, era il pezzo migliore. Si vede
che ai ladri, definiti non professionisti (!), si è affiancato immediatamente un esperto furbo e svelto.
A Fano c’è da registrare un altro avvenimento nel campo artistico-storico: anzi per la precisione, un “mezzo avvenimento”. Parlo dello scoprimento delle tombe malatestiane. Erano coperte da un tendone di plastica! Si è trattato di un provvedimento maldestro perché il restauro
delle tombe malatestiane e la sistemazione di tutto il portico di S.
Francesco non sono ancora terminati. Il Cristo sulla tomba di Paola è
senza una gamba, le mensole che reggono le statuette di Santi sono
vuote (le statue sono al museo), la lastra con lo stemma sepolcrale dei
Malatesta è sistemata solo in parte, la tomba di Pandolfo presenta fessure e screpolature, il portone non è stato riverniciato e il pavimento
non è stato sostituito. Sarebbe stato normale presentare il tutto ad opera
completamente finita e collaudata. Le inadempienze che
l’Amministrazione ha contestato alla ditta appaltatrice del restauro, la
sua estromissione con relativo pendente ricorso, hanno finito per togliere ai fanesi la possibilità e la soddisfazione di ammirare il complesso
malatestiano nel suo meraviglioso splendore. Così, come sono riapparse, quelle tombe ispirano ora un senso di incompletezza, di disordine,
di abbandono. Esattamente il contrario di quello che si doveva ottenere.
1994
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RESTAURO DELLA QUATTROCENTESCA AULA CAPITOLARE
DI S. AGOSTINO
La collaborazione tra la Curia e la Fondazione “Cassa di Risparmio di
Fano” si sta rivelando preziosa per la valorizzazione dei beni artistici
recuperabili nell’antico convento degli Agostiniani.
È noto che il diretto intervento della Fondazione, la quale ha fatto proprio il “Progetto Vitruvio” studiato dall’Archeoclub di Fano, ha già
permesso di restituire ad un nuovo validissimo uso culturale e turistico i poderosi resti dell’edificio romano ubicato nel sottosuolo dell’ex
convento e ha poi consentito di fermare il grave processo di degrado,
ma in parte anche di recupero, del ciclo di affreschi dipinti nelle lunette del chiostro dell’ex-convento dal pesarese G. Cesare Begni nel
sec. XVII.
A tutto ciò si deve aggiungere l’autentica “riscoperta” dell’Aula
Capitolare del medesimo convento. Gli Agostiniani iniziarono a
costruirlo dopo che entrarono in città nel 1266, avendo ricevuto in
donazione, l’anno prima, la chiesa di S. Lucia fino a quel momento
officiata da un “rettore” appartenente al clero secolare fanese.
Precedentemente una comunità agostiniana aveva avuto sede, nella
seconda metà del XIII secolo, nella canonica o convento di S. Stefano
in Padule (oggi “La Paleotta”) dove, nella prima metà del Duecento, si
erano poi sistemati gli eremiti agostiniani di Brettino.
Nel secolo scorso il convento di S. Agostino divenne sede del
Seminario Vescovile: ora è stato in gran parte ristrutturato come sede
della USL.
Del vecchio convento rimane l’aula capitolare che si apre nel chiostro
e vi guarda anche con due magnifiche bifore databili alla metà del
Trecento. Si stava già pensando al restauro del soffitto quattrocentesco
quando, attraverso assaggi sulle pareti voluti dalla Sovrintendenza ai
Beni Artistici, si sono scoperti tratti di una fascia decorativa, a tempera, giudicati come risalenti alla prima metà del Quattrocento. La scoperta è interessante e preziosa perché consente, forse, di recuperare
una superstite notevole opera del tardo medioevo fanese. I tratti già
scoperti presentano motivi simili a quelli che si ritrovano nei ricami di
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stoffe del tardo Trecento (un intreccio di vegetali intervallato da uccelli posati, forse falchi) e consentono di avere un’idea della forte valenza decorativa dell’intera fascia.
Il valore culturale della scoperta (e speriamo che dalle pareti ne emergano altre) è di tutta evidenza; dobbiamo aggiungere che il restauro del
già ricordato soffitto cuspidato quattrocentesco servirà a ridare vita ad
un ambiente singolare e bello che la Curia e la Fondazione permetteranno di usare solo a fini culturali. È già stato assicurato l’utilizzo di
una saletta accanto a quella capitolare; ma è auspicabile la disponibilità di altri locali da adibirsi ad uso espositivo in relazione agli aspetti
archeologici, architettonici e artistici di tutto il complesso della chiesa
e del convento di S. Agostino.
Non dimentichiamoci, poi, che nello stesso chiostro si apre l’ingresso
che immette nella settecentesca Cappella dell’Angelo Custode, voluta
da Vincenzo Nolfi, e un tempo abbellita dal famoso Angelo Custode
del Guercino: una cappella che, nella distruzione bellica della chiesa
(aprile 1944), è rimasta miracolosamente integra.
Da questi pochi cenni si comprende che siamo di fronte alla possibile
rivitalizzazione di un “ambiente storico-monumentale” legato alla vita
religiosa e culturale della città: le vere radici di Fano vanno cercate
proprio in questa direzione.
1996
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SCOPERTI AFFRESCHI DEL ‘400 NELLA NUOVA SALA
A S. AGOSTINO
Circa un anno fa abbiamo avuto modo di accennare all’inizio dei
restauri della Sala Capitolare nell’ex convento di Sant’Agostino. Si
pensava di intervenire solo sul quattrocentesco soffitto di larice: ma gli
assaggi fatti sulle pareti hanno messo in luce tre diverse fasce decorative, databili al ‘400, poste alla sommità delle pareti e alcune figure
non del tutto leggibili nelle pareti stesse. Il restauro si è svolto sotto la
direzione della dott.ssa Valazzi della Sovrintendenza di Urbino ed è
stato eseguito con la solita maestria da Nino Pieri. La sala, come ha
spiegato l’ing. Ciaramicoli, è stata dotata di una moderna impiantistica ed è stata oggetto di un esteso lavoro di consolidamento.
Il dott. Valentino Valentini, presidente della Fondazione che ha finanziato i lavori, ha messo in evidenza come la scoperta degli affreschi
contribuisca a far conoscere il valore artistico di tutto il vecchio immobile, ed ha espresso viva soddisfazione per aver messo a disposizione
di circoli culturali e associazioni un locale che, seppur non grande, può
ospitare conferenze e incontri. Lo stesso concetto è stato espresso dal
Sindaco Carnaroli che ha ringraziato la Curia per la disponibilità
dimostrata e la Fondazione per la concretezza dell’intervento.
La serata si è chiusa con una approfondita illustrazione da parte del
dott. Claudio Giardini delle lunette restaurate nel chiostro di S.
Agostino (lavoro secentesco del pittore Begni) e con una minuta visita guidata dal dott. Luca Fabbri ai recuperi archeologici nel sottosuolo
di S. Agostino, area ove un tempo quasi certamente sorgeva il famoso
Santuario della Fortuna.
1998
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LA BASILICA DI SAN PATERNIANO
ASPETTA I SUOI QUADRI
Dopo i restauri, sponsor la Cassa di Risparmio di Fano, agli affreschi
del Ragazzini, nella cupola e nel catino dell’abside i Cappuccini di San
Paterniano hanno provveduto a dotare la basilica di un moderno
impianto antifurto e hanno proceduto a ritinteggiare tutto l’interno
della chiesa.
A completare l’arredamento mancano però alcuni quadri che ‘provvisoriamente’ collocati nel Civico Museo ancora non hanno trovato la
strada per... tornare a casa!
Si tratta, prima di tutto, della tavola con la “Vergine e le Sante
Caterina, Agnese, Lucia e Agata” dipinta nel secolo XVI, opera di
Bartolomeo Morganti, precedentemente attribuita al Persiutti o al
Beccafumi. Originariamente il quadro era nella prima cappella a sinistra di chi entra, poi fu collocato nella cappella della Madonna unitamente al “Transito di San Giuseppe” del Cavalier d’Arpino.
Consegnato alla Sovrintendenza alle Belle Arti per il restauro, magistralmente eseguito da Isidoro Bacchiocca, è stato poi collocato nella
Pinacoteca Civica per essere esposto in una mostra di dipinti restaurati. La mostra è finita, la tavola è stata più volte richiesta dai padri cappuccini, il sistema di allarme è stato impiantato, ma la bella tavola con
le quattro sante non è stata ancora riconsegnata.
Oltre a questa tavola si attende la riconsegna di quattro grandi tele
secentesche (forse del Manzi) che mancano dal 1955. Consegnate alle
Sovrintendenza per essere custodite allorché venne rifatto il pavimento della basilica, furono anch’esse consegnate non ai frati, ma alla
pinacoteca. Da allora sono rimaste nella soffitta; anzi, in un primo
tempo sembrava addirittura che fossero andate disperse.
Rappresentano episodi connessi al culto di San Paterniano e sono quindi intimamente connesse alla sua basilica. Rappresentano: 1) La consacrazione dell’antica chiesa fatta da Innocenzo IV; 2) Il dono di una
statua d’oro alla tomba del Santo, fatto dall’imperatore Giustino; 3)
L’offerta di doni a San Paterniano da parte dell’imperatrice Galla
Placidia; 4) La traslazione del corpo del Santo dell’Abbazia fuori le
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mura alla chiesa attuale. La risistemazione di queste opere là ‘dove
erano’ potrà completare la bellezza del complesso monumentale del
Chiostro e della basilica, sempre visitati dai turisti e sempre ammirati
per il modo esemplare con cui i Cappuccini li mantengono e li curano.
1993
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A UN ANNO DAL FURTO A S. PATERNIANO
RECUPERATI DUE DIPINTI
I giornali locali e TV Marche hanno ampiamente parlato del recupero
di due quadri del Seicento (uno anche con la bella cornice) operato dal
Nucleo speciale dei Carabinieri di Reggio Emilia ai quali va la riconoscenza e il plauso di tutti i fanesi.
Così la Sant’Orsola di scuola guercinesca e il San Francesco Saverio
del bolognese Benedetto Gennari a giorni torneranno nella Basilica di
S. Paterniano dove erano stati rubati nella notte fra il 4 e 5 marzo del
1991, insieme con altri quattro quadri e due inginocchiatoi.
A questa notizia, una volta tanto positiva, debbo aggiungere un discorso ripetuto più volte, ma non sempre ascoltato, purtroppo!
Quando siamo andati a “riconoscere” i quadri rubati per ottenerne dalla
Magistratura il dissequestro siamo stati facilitati nel modo più assoluto
dalla documentazione fotografica a colori, che abbiamo sottoposto ai
Carabinieri. In giro nelle stanze zeppe dei più vari oggetti d’arte recuperati c’erano con noi altre persone che non avevano la documentazione fotografica e che basavano il riconoscimento sulla loro testimonianza e sul verbale della denuncia presentata dopo aver subito il furto. Per
riottenere i propri beni dovranno seguire la strada delle prove testimoniali, allungando i tempi di riconsegna e complicando l’iter burocratico. Ma l’importanza della documentazione fotografica (prima ancora
che come prova di proprietà) va messa in evidenza come strumento di
ricerca dei beni saccheggiati, perché i Carabinieri del nucleo speciale,
con le foto, possono meglio orientarsi nella ricerca e nella individuazione dei pezzi rubati negli ambienti dove si fa commercio, autorizzato
o clandestino, di oggetti d’arte.
Altro è una descrizione, altro è una foto: non c’è bisogno di insistere.
In conclusione: per completare e avvalorare l’inventario dei beni artistici e culturali di parrocchie, conventi, enti religiosi è necessario e
urgente fotografare tutto (quadri, statue, mobili, suppellettili), ogni
cosa che può essere asportata (all’interno della Villa del Prelato anni
fa hanno rubato le bellissime porte settecentesche in noce!). Sia ben
chiaro che non è necessario eseguire “foto d’arte”, si può usare una
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normale macchina fotografica o anche una cinepresa.
Repetita iuvant? Speriamo di sì. E non sto a ripetere il valore dei beni
artistici e culturali ecclesiastici che certamente non sono stati prodotti
per alimentare l’ingordigia di ladri e ricettatori.
1992
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UN “DOMENICHINO” RESTAURATO
Nel Duomo di Fano la cappella di tutti i Santi, nota ai più come
Cappella Nolfi, si presenta finalmente restaurata dopo un decennio di
studi e interventi forzatamente intermittenti, operati dai Cantieri didattici dell’Istituto Centrale del Restauro sotto la guida del prof. Filippo
Trevisani.
A partire dal 1604, anno di concessione del relativo “giuspatronato”,
Cesare (sacerdote) e Guido Nolfi, funzionario pontificio, ottennero di
trasformare “in modo nobile” la cappella “grande” del Duomo, già non
del tutto esente dalla tabe dell’umidità.
La storia della cappella è cosa ormai nota: intervenne Andrea Lilli per
la pala d’altare (“Il Paradiso e l’Assunta”), intervennero Francesco
Caporale scultore, Girolamo Rainaldi architetto, Pietro Solari plastificatore e soprattutto intervenne Domenico Zampieri detto il
“Domenichino”, per affrescare pareti e volta (1617-18) con quindici
quadri sulla Vita della Vergine, più il lanternino, con “Dio Padre” e
quattro tondi con altrettante simbologie mariane.
Sono purtroppo note anche le vicende poco felici che deturparono la
cappella e i suoi capolavori dopo il disastroso incendio del 1749 che
distrusse il nuovo coro del Duomo e saturò di acre fumo tutto l’edificio. I restauratori della cappella presero in “cura” (e si capisce il perché) soprattutto gli affreschi del Domenichino che tra l’incendio, l’umidità, e spesso l’imperizia di chi li toccò avevano perduto qualcosa
del primitivo smalto, pardon, “della primitiva tempera”.
Finalmente dopo 250 anni ci viene restituito un Domenichino più vero
in una cappella decisamente monumentale; l’unica che si possa ammirare qui a Fano, e certamente tra le più insigni, del primo Seicento italiano. Cedendo alla tentazione della curiosità dirò che né Cesare morto
anzitempo, né Guido Nolfi (che non si mosse da Roma) poterono
ammirare il gioiello regalato alla loro Cattedrale, alla loro città.
Dicevamo del restauro: purtroppo le parti ortogonali di stucco o di pietra, che malauguratamente via via si staccarono, furono sostituite da
pezzi “fac-simile” disancorando il loro aspetto dal resto del contesto.
31
Con quest’ultimo restauro grande studio è stato applicato nel recupero
della materia originale degli affreschi per tornare all’opera del
Domenichino (una parte, però, è andata irrimediabilmente perduta); e
ciò è stato fatto “per via di togliere piuttosto che per via di aggiungere”.
Le aggiunte, infatti, le ricuciture, le verniciature avevano prodotto nel
tempo, dice il prof. Trevisani, un Domenichino caricaturalmente idealizzato.
Ora la Cappella Nolfi splende nella forma più vicina a quella che volle
il Domenichino, nella forma che i committenti sognarono per esprimere la propria Fede.
1999
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“L’ASSUNTA” DELLA CAPPELLA NOLFI
A tutti è noto che la Cattedrale di Fano ha il titolo dell’Assunta, come
quella di Pesaro e di Urbino. Aggiungiamo che Guido Nolfi, semplice
chierico molto lontano dal Sacerdozio, elemento di primo piano nella
Curia romana dove aveva comperato (era usanza del tempo, quasi un
investimento) un alto remunerativo ufficio, fece dipingere nel 1618 da
Domenico Zampieri (il Domenichino) la cappella già avuta in concessione (“giuspatronato”), insieme col fratello don Cesare, dal Capitolo
della Cattedrale e dal Vescovo.
Tra le altre pitture eseguite dal celebre Domenichino c’è, ormai ha 487
anni, nella volta un quadro mistilineo che rappresenta “Maria Assunta
in Cielo”, un quadro che Domenico Cunego (1727-84) molti anni dopo
incise magistralmente cosicché, mentre i colori originari dopo tante
traversie e restauri appaiono sbiaditi, ci è consentito vedere tutto l’impianto del quadro posto all’inizio della volta.
Non dobbiamo dimenticare che detta Cappella Nolfi è dedicata oltre
che alla Trinità e a tutti i Santi anche alla Vergine Madre di Dio le cui
salienti storie sono illustrate da ben 15 quadri di diversa misura e
diverso formato.
2005
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PERCHÉ NON È ANDATO A BOLOGNA
L’ANGELO CUSTODE DEL GUERCINO
L’Angelo Custode del Guercino, noto ad un vasto pubblico per la riproduzione a colori diffusa negli anni “trenta” dalla ditta Alinari, noto agli
amanti dell’arte anche per una poesia che gli dedicò nel 1848 il poeta
inglese Robert Browing dopo averlo ammirato nella sua sede originale, la cappella Nolfi-Galassi a S. Agostino (ora la tela è depositata al
Museo Civico), ha fatto parlare polemicamente di sé in occasione della
grande mostra di opere guercinesche a Bologna e a Cento.
A quella mostra, s’è detto, non doveva mancare l’Angelo Custode che
avrebbe fatto “correre” il nome di Fano favorendo la promozione turistica della città.
Un punto, questo, che non va sottovalutato, ma sul quale ho la sensazione (posso sbagliare) che molti si muovono spinti da una specie di una
mania superficiale e paesana.
Tornando alla mostra del Guercino dirò che anche senza l’Angelo
Custode il nome di Fano è “corso due volte” nelle sale bolognesi e nello
splendido catalogo: infatti, del Guercino, la Cassa di Risparmio di Fano
ha mandato Lo sposalizio della Vergine, splendido dopo il restauro, e da
Montpellier è stata mandata la tela col S. Giovanni alla Fonte rubata nel
1797 dal generale Napoleone Bonaparte nella chiesa di S. Pietro in
Valle e poi rimasta in Francia perché Antonio Canova, incaricato del
recupero delle opere d’arte dello Stato ecclesiastico la regalò al re Luigi
XVIII in riconoscimento dei meriti acquistati nel facilitargli il proprio
delicato lavoro.
I tempi eccezionali spiegano anche le cose assurde: prima il furto, poi
il regalo! Purtroppo ciò che regalò il plenipotenziario pontificio intorno al 1815 non può essere reclamato nel 1991.
L’Angelo Custode sarebbe stato concesso per la mostra se gli organizzatori avessero accolto la condizione posta dalla Curia che ne è proprietaria; dato che il dipinto perde scaglie di colore rischiando la sua
integrità, era stato chiesto di provvedere ad un restauro prima della
esposizione: un lavoro delicato che prima o poi dovrà essere fatto e che
richiede tempo e denaro. Sul momento non c’erano né l’uno né l’altro.
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Comunque bisognerà pensare al restauro ancor prima di costituire il
museo diocesano di cui l’Angelo sarà, senz’altro, custode e protettore
emblematico.
1991
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1797: TRAFUGATA DAI FRANCESI LA PALA D’ALTARE
DI S. PIETRO
La vecchia chiesa di S. Pietro in Valle risulta già esistente nel 789:
quindi prima che Carlo Magno venisse proclamato Imperatore del
Sacro Romano Impero! La vecchia chiesa, che era parrocchia, si ergeva dentro la cerchia delle mura romane ed era detta “in valle” perché
poco lontana dal torrione romano d’angolo (in fondo all’attuale via
Garibaldi) che s’innalzava sulla sottostante pianura di fronte al mare.
Quel complemento di luogo (in valle) probabilmente serviva anche a
distinguere questa chiesa da altra dedicata allo stesso santo in altre
parti della città.
All’inizio del sec. XVII un gruppetto di sacerdoti fanesi decise di seguire l’esempio del romano Filippo Neri e fece sì che gli venisse affidata
dal Vescovo la chiesa di S. Pietro, che cessò di essere parrocchia, per
crearvi un oratorio di stile filippino. Abbattuta la vecchia inadatta costruzione, il padre Girolamo Gabrielli diede mano alla nuova chiesa che fu
consacrata, ancora coi muri grezzi e senza cupola, nel 1617, e che fu
dedicata ai Santi Pietro e Paolo: raggiunse la bellezza che ancora ammiriamo dopo un secolo di lavori sostenuti dalla liberalità di molti patrizi
locali.
Sull’altar maggiore fu posta nel settembre 1626 la tela (cm 342 x 210)
dipinta dal grande Guido Reni rappresentante “Cristo che dà le chiavi a
S. Pietro”. Quella tela fu commissionata dal Gabrielli, ma fu pagata trecento scudi da Francesco Maria Marcolini.
Il 6 febbraio 1797 giunsero a Fano i francesi del generale Bonaparte.
Quale fu la fine del quadro del Reni? E’ facile immaginarla. Insieme
con la tela del Guercino, “S. Giovanni alla fonte”, che si trovava nella
stessa chiesa fu scelta per essere trasportata in Francia e partì da Fano
il 21 febbraio 1797; quindi dopo la “Pace di Tolentino” (19 febbraio).
In quella stessa occasione furono portate via da Fano come prede di
guerra 1051 libre di argenti razziati nelle chiese che già avevano perduto dieci campane per ottomila libre in città, e altre 22 campane in
Diocesi che mai si seppe che fine avessero fatto. L’altro quadro di
Guido Reni che era in un altare di S. Pietro, “L’Annunciazione”,
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(momentaneamente nella nostra pinacoteca) non fu portato via perché
sembra che i Gabrielli dimostrassero che era di loro proprietà.
I due quadri asportati, che ho veduto in due mostre a Bologna, erano veramente dei capolavori. La “consegna delle chiavi” fu rifatta su tela da
Carlo Magini: il Massarini dice che ad 84 anni il Magini riprodusse una
piccola copia del quadro già da lui fatta per il Capitolo della Cattedrale;
ma è probabile che abbia fatto il lavoro servendosi di un’altra copia esistente nell’appartamento nobile di palazzo Marcolini (ora Istituto
d’Arte). Invano il Vescovo, mons. Severoli, scrisse a Napoleone una lettera, di cui esiste copia in Archivio Vescovile e che inizia con le parole
“Invitto Conquistatore”, per pregarlo di restituire il dipinto del Reni e
insieme per chiedergli qualche migliaio di rubbie di grano per sostenere
a Fossombrone “fino al nuovo raccolto una turba di infelici”. Non sappiamo cosa rispose Napoleone che già era lontano da Fano. Ma oralmente i vecchi studiosi dell’Archivio Vescovile dicevano che Napoleone
aveva risposto; la lettera non l’ha vista nessuno.
Il Vescovo, poi Cardinale e Nunzio Apostolico a Vienna, era rimasto
affezionato a quel quadro e in una lettera da Vienna (1814) al canonico Parri scrive: “Il Luzi pittore mi ha mandato copia del S. Pietro di
Guido. Ella gli dica che quando ne lavori un’altra forse l’acquisterò”.
Il Cardinale Severoli stava per essere eletto Papa nel conclave del 1823
(e già qualche suo sostenitore faceva girare la strofetta: “Chi vuol che
il Papa ci racconsoli/ il voto porga a Severoli”), ma fu scelto il marchigiano Annibale Della Genga, Leone XII. Il Cardinale Severoli,
vescovo di Viterbo, disse qualche tempo dopo: “Non gli uomini, ma
Dio mi ha tolto una croce che non era per le mie spalle”.
2004
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SAN PIETRO IN VALLE: CHE RESTI CHIESA
Con quelle due recenti mostre di pittura ospitate nella chiesa di S.
Pietro in Valle si è riaffacciato in molti il problema della destinazione
di quella chiesa. C’è chi in sede di conversazione privata ha auspicato
che diventi un museo, c’è chi (sulla linea di una situazione più che
secolare, cioè dal 1861) ritiene che la bella chiesa barocca (strutturata
così com’è nel corso di un secolo, all’incirca dal 1617 al 1717) torni
ad essere riaperta al culto.
La chiesa è tuttora consacrata; è stata chiusa anni fa per urgenti lavori
di restauro e per procedere alla deumidificazione che ha causato danni
soprattutto alle dorature degli stucchi, al tinteggio e ad altro ancora.
Togliere a S. Pietro in Valle la sua destinazione naturale sarebbe un atto
di regressione culturale e storica che non appare giustificato; se ne può
studiare un uso che sia confacente alla sua importanza, alla sua bellezza, alla sua storia senza stravolgere e annullare ciò che essa rappresenta e che generazioni di fanesi hanno voluto che rappresentasse: S.
Pietro in Valle è un monumento e un prezioso contenitore di opere
d’arte, ma alla base della sua fondazione e del suo crescere in bellezza c’è un atto di fede, una testimonianza di religiosità: non bisogna
dimenticarlo.
1997
SAN PIETRO IN BRONZO E IN LEGNO… TARLATO
Un tempo era un onore e un dovere dei cittadini rendere belle le chiese o per i villici rendere belle le edicole, le “figurine” sparse nei viottoli della campagna. Un modo, direte, tutto esteriore; un modo che
però faceva sentire la Fede anche come Cultura: uno dei tanti modi!
Tempi lontani; c’è speranza che non siano morti.
Qualcuno certamente conoscerà la storia del busto di S. Pietro posto in
posizione eminente in una ben lavorata nicchia della chiesa di S. Pietro
in Valle a Fano. La più bella chiesa barocca delle Marche!
Il busto di S. Pietro merita due parole nonché un monito all’attuale
proprietario (il Comune).
Correva l’anno 1600 e a Roma, nel Tevere, venne pescata una testa
bronzea di buona fattura e in ottime condizioni; vi ravvisarono una
testa di S. Pietro. Nessuno seppe dire quando e come quella testa fosse
capitata nel fiume. La testa del Santo venne nelle mani di Guido Nolfi,
alto funzionario di Curia, che certamente l’acquistò da un antiquario.
Dopo averla fatta inserire in un busto ligneo, che la completava e
abbelliva, la regalò ai padri oratoriani di S. Pietro in Valle perché la
collocassero nella loro nuova chiesa fanese. Gli oratoriani trovarono
degno posto al busto nel 1619. Il complesso è eccezionalmente bello.
Ma, ecco il solito ma, i tarli non hanno avuto nessun rispetto del busto
ligneo che ha urgente bisogno di una disinfestazione per essere restituito allo splendore e al vigore originali.
La chiesa è del Comune. Qualcuno dovrà pur pensarci: le cose belle,
quelle che fanno “cultura” costano; ma sono soldi spesi bene.
1999
40
ANCORA SU S.MARIA DEL RIPOSO
Mi sia consentita un’aggiunta a Cristina Almerighi, Immagini dai
Piattelletti, pubblicato il 22 dicembre sul “Nuovo Amico”. L’articolo
segnalava l’omonimo recente libro sul pavimento della chiesa dei
Piattelletti curato da Claudio Giardini, direttore del Museo della
Ceramica di Pesaro. La serietà e l’importanza del lavoro di Giardini e
dei suoi validi collaboratori è già stata messa in evidenza; aggiungo
che quel libro è un’autentica “chicca” sia per gli appassionati d’arte
ceramica sia per chi si interessa ai beni culturali fanesi: soprattutto
quando accade che questi ultimi entrano nella sciagurata e non rara
categoria di quelli irrimediabilmente perduti per colpa della superficialità e incuria di chi dovrebbe difenderli e custodirli.
Ritorno sull’argomento perché a parecchi lettori è suonato del tutto
nuovo che la chiesetta della Madonna dei Piattelletti in realtà si chiamasse Santa Maria del Risposo: che cosa significa quel nome e perché
andò perduto? Dopo che nel 1480 i Gabrielli fecero restaurare la piccola chiesa (restaurare, e non costruire come si legge nelle guide di
Fano) dotandola del già ricordato splendido pavimento a piastrelle
policrome l’una diversa dall’altra, la gente, e specialmente la più semplice, rimase colpita dalla novità del pavimento formato da quegli
apparenti “piattelletti”: anzi, la novità fu tale che i “piatllét” diedero il
nome non solo alla chiesa e all’immagine della Madonna che vi era
custodita (io vi entrai poche volte da bambino dietro a mia nonna che
aveva una particolare devozione per quell’immagine), ma diventarono
il toponimo del quartiere nel quale la chiesa si trovava: uno dei quartieri che ebbero definizione in epoca malatestiana fuori dalla cinta
romana.
È chiaro che “la Madonna dei Piattelletti” nome semplicissimo e
soprattutto legato ad un immediato riferimento (il pavimento che tutti
potevano ammirare) era destinato a soppiantare quello dotto e non
troppo comprensibile di Santa Maria del Riposo. Tale titolo, insieme a
quelli “della Dormizione” e “del Transito”, si dava alle chiese dedicate alla morte e assunzione della Vergine. A tale proposito è il caso di
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ricordare l’intitolazione dei tre testi più antichi che narrano la fine terrena di Maria: l’etiopico Libro del Riposo, la Dormizione della
Vergine scritto in greco, infine il latino Transitus Mariae.
Nel secondo di questi testi c’è la descrizione della tomba dalla quale
Maria sarebbe stata assunta in cielo e che ancora oggi è venerata nella
sotterranea Basilica della Dormizione posta nei pressi del Getsemani.
Quindi a Fano le chiese che ricordano la morte e l’assunzione della
Madonna erano quattro: la Cattedrale, che ha il titolo dell’Assunta, S.
Maria del Riposo, S. Maria del ponte Metauro e S. Maria Nova. Dopo
la seconda guerra mondiale è stata dedicata alla Madonna la chiesa che
ha come titolo “La Gran Madre di Dio”.
1997
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SANTA MARIA DEL SUFFRAGIO RESTAURATA
Ciò che la Chiesa e i cattolici hanno costruito a Fano continua ad essere per la città fonte di scoperte e di recuperi di alto valore che coprono
il vuoto quasi assoluto di costruzioni artistiche del presente tramontante secolo; ma nel medesimo tempo ci fanno malinconicamente ricordare anche le distruzioni “in toto” causate dalla guerra (S. Agostino, Santa
Croce, S. Cristoforo in città, S. Francesco di Paola) e dalla mala amministrazione comunale (S. Ignazio, S. Francesco), le ruberie di tesori
d’arte operate dai francesi (Repubblica e Regno Italico), le trasformazioni e le alienazioni inconsulte operate sugli enti ecclesiastici.
E’ dunque motivo di grande soddisfazione la notizia del prossimo
restauro della chiesa del “Suffragio” o, per l’esattezza, di “S. Maria del
Suffragio”, aperta al culto fino a una quarantina d’anni fa. Partecipano
al finanziamento del restauro la locale “Fondazione” della Cassa di
Risparmio che, messi da parte gli interventi a pioggia, concentra statutariamente le sue energie in ben consistenti “progetti”, la Regione
Marche, la Sovrintendenza per i beni ambientali e architettonici e quella per i beni artistici e storici delle Marche; contribuisce all’impresa
anche un giornalista di Rastatt, il sig. Basinger, memore che nella chiesa del Suffragio è sepolto l’architetto fanese Domenico Egidio Rossi
(1659-1715) progettista di pregevoli monumentali edifici nella città di
Rastatt e membro della Confraternita del Suffragio.
A questo sodalizio attivissimo che è proprietario della chiesa, si deve,
tra l’altro, l’idea del recupero della chiesa stessa, che venne ristrutturata nel Sei-Settecentesco (precedentemente si chiamava - pare dal
Duecento - chiesa del Crocefisso) e arricchita di opere d’arte e di stucchi che ancora la rendono esemplare e suggestiva. Resta da dire che
dopo il restauro il Suffragio sarà usato come sala polivalente per convegni, concerti, mostre di interesse cittadino. Fra poco, dunque, non ci
sarà più la scusa che a Fano la cultura soffre per mancanza di strutture.
1996
43
MADONNA BRACCI
Nella vecchia, e ormai chiusa al culto, chiesa di San Cristoforo che
sorgeva in città, in uno “stradino”, esattamente in via de’ Petrucci nell’angolo con via Federici, e che fu quasi completamente distrutta da un
bombardamento del 1944 (quando già era stata costruita la nuova chiesa parrocchiale di San Cristoforo sulla Flaminia) era venerata una
immagine della Madonna sotto il titolo di Mater Purissima.
Credo che l’immagine che qui viene proposta, tratta da un’incisione di
metà Ottocento dovuta a F.Bracci, sia l’unico esemplare che ancora si
conserva nell’Archivio Storico Diocesano di Fano e che si possa parlare di un vero e proprio recupero, anche se casuale.
Il quadro originale a tutt’oggi risulta disperso.
1999
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IL SANTUARIO DI SANTA MARIA AL PONTE METAURO
Le cattedrali di Fano, Pesaro, Urbino sono dedicate a Santa Maria
Assunta a dimostrazione che il culto della Vergine era diffuso e popolare fin dai tempi antichissimi; con l’andar dei secoli molti santuari
mariani sorsero nel territorio della nostra attuale provincia.
Nel comune di Fano il santuario mariano più famoso certamente è
stato, ed è rimasto, quello di Santa Maria al Ponte Metauro, oggi generalmente indicato come “Santuario della Madonna del Ponte”. È posto
nelle vicinanze della sponda sinistra del Metauro, sulla via Adriatica,
verso Fano.
Mala sorte ebbe, invece, il santuario della Beata Vergine della
Colonna, inaugurato nel 1796 (un anno prima dell’arrivo dell’armata
napoleonica) fu abbattuto nel 1940 per far posto all’aeroporto; nel
1959 fu ricostruito in forma moderna in località Tre Ponti; ma la venerazione d’un tempo s’era ormai perduta.
Dicevamo che il santuario più antico è quello della “Madonna del
Ponte” che, tradizionalmente e solennemente, celebra ogni anno la propria festa il martedì di Pasqua, la “terza festa” come dicono i fanesi.
Bisogna relegare tra le leggende la sua fondazione dovuta nel quinto
secolo addirittura all’Augusta Pulcheria, o nel 1219 ad una sosta e ad
un miracolo di San Francesco. Sono più vicini alla realtà coloro che
fissano l'origine di quel luogo sacro fra il 1319 e il 1323 quando, ormai
fuori uso il ponte di pietra costruito nel 1230, fu fatto un nuovo ponte
di legno che scavalcava il fiume Metauro.
Si dice che vicino al nuovo ponte, dalla parte di Fano, il Beato Cecco
da Pesaro, terziario francescano e romito, fece porre una nicchia o celletta in cui era un affresco rappresentante la “Vergine che allatta il
Bambino”, popolarmente “La Madonna del latte”. La piccola nicchia
con l’affresco (che i fanesi chiamavano generalmente “la figura” o “la
figurina”) col tempo e con la venerazione dei pellegrini diretti o di
ritorno da Loreto, divenne chiesa e ricevette dai cittadini molte offerte
e beni tanto che poté funzionare vicino al santuario un ospizio e tanto
che coll’andar dei secoli fu possibile costituire un’Azienda del Ponte
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Metauro così ben dotata che il Comune per molti secoli vi attinse il
necessario per finanziare opere di bene.
Il santuario della Madonna del Ponte fu caro ai Malatesta ed è rimasto
famoso il pellegrinaggio che vi guidò da Rimini nel 1399 Carlo
Malatesta che poi, nel 1416, fece dono alla Vergine di una corona
d’argento dorato. Nel 1427 Pandolfo III, ammalato e pellegrino a
Loreto, vi sostò in preghiera. Saltando i secoli fra i personaggi illustri
che si fermarono a Santa Maria del Ponte ricordiamo San Carlo
Borromeo (1564) e Papa Pio IX nel 1857.
La venerata immagine della “Madonna del latte” dal 1597 al 1936
rimase nel grande altare-edicola innalzato dallo scalpellino veneziano
Stefano Bambagiani, da lì fu sapientemente strappata per essere posta
su tela in una cappella ottenuta ove un tempo era l’ingresso alla chiesa.
La nostra Madonna ha vissuto il suo momento più glorioso quando Sua
Santità Giovanni Paolo II, nella sua venuta a Fano, il 12 agosto 1984,
l’ha incoronata e proclamata Patrona dei pescatori.
2003
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LA CATTEDRA DEL VESCOVO
Finalmente per ottemperare alla Nota pastorale della Commissione
episcopale per la liturgia (presentata alla stampa due settimane fa da
Mons. Luca Brandolini) la Cattedrale di Fano, che è l’unica in Italia a
non avere una specifica Cattedra del Vescovo, riavrà tale Cattedra che
non è un arredo qualsiasi (o, peggio ancora, un simbolo del “potere”!)
ma è piuttosto un segno pastorale-liturgico che non può essere cancellato.
Ora (dopo i lavori che una ventina di anni fa servirono a trasformare il
presbiterio) dietro l’altare, con le spalle rivolte al coro, c’è una sede
che, però, non è riservata al Vescovo ma è usata da tutti i celebranti (o
come meglio si deve dire nello spirito della riforma liturgica) è usata
da tutti i presidenti dell’assemblea.
Ebbene, la “nota” di cui leggo i punti fondamentali in Avvenire dice
che “nelle chiese cattedrali la Sede del presidente dell’assemblea deve
essere distinta dalla Cattedra del Vescovo, ma né l’una né l’altra devono avere la forma di trono”. Prescrizione più che giusta.
Mi auguro che il nostro Vescovo insieme con la Commissione di Arte
sacra procuri di dare attuazione alla Nota pastorale della Commissione
Episcopale per la Liturgia che intende chiarire “come procedere perché
le Chiese Cattedrali, parrocchiali, monastiche, ecc.ecc. siano messe in
grado di corrispondere al complesso di esigenze che il Concilio, con la
riforma liturgica, ha espresso”.
1996
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LA “FIGURA REGIA”: UNA SCULTURA MEDIEVALE?
Nel dicembre 1980 nelle “Lettere sulla cultura “ (ed. Cassa di
Risparmio di Fano, 1981) il Vescovo Costanzo Micci auspicava che la
chiesa di S. Domenico diventasse Museo Diocesano. Egli idealmente
si rivolgeva a Jacopo del Cassero di cui diceva che monsignor
Giovanni Fallani, poi presidente della Commissione d’Arte Sacra del
Vaticano, aveva ritrovato le ossa “dietro l’altar maggiore di S.
Domenico nell’agosto 1964”.
Una notizia interessante ma da verificare dato che un vecchio testimone, Adriano Negusanti, dice nella sua Sylva che lui stesso il 26 novembre 1602 aveva visto disfare il sepolcro di Jacopo di cui ormai nessuno si curava. Né si seppe che fine avevano fatto le povere ossa del
famoso personaggio dantesco (Purg. V, v. 64-84).
Dopo venticinque anni l’idea di un Museo Diocesano non è stata
abbandonata, ma s’è pensato a un’altra sede: quella della ex chiesa di
S. Agostino dove dovrebbe essere restaurata “ab imis” la cappella
Nolfi-Galassi che si è salvata dalla rovina generale e dove potrebbe
ritrovare il suo posto originale e naturale il celebre Angelo Custode
dipinto dal Guercino.
Però bisogna stare coi piedi per terra dato che ci vogliono ingenti risorse sia per impiantare il museo sia per custodirlo e farlo funzionare.
Il Museo Diocesano sarebbe un grande acquisto sia dal punto di vista
pastorale sia da quello storico-culturale. Gli esempi di molte diocesi
italiane ci fanno gola, ma noi dobbiamo camminare con le nostre
gambe.
Ci sembra, dato che siamo in discorso, che nel futuro museo dovrebbe
trovare posto la “figura regia” (sbrigativamente chiamata da qualcuno
nell’Ottocento “la figuraccia”) che per molti secoli è stata murata nel
cortile del palazzo vescovile, esposta al vento e alla pioggia.
Recuperata nel 1974 è stata sistemata fino a pochi anni fa nel leggio
del seggio vescovile o del presidente dell’Assemblea che allora era tutt’uno. Detta “figura regia” non si sa chi realmente rappresenti e nemmeno è certo di che epoca sia.
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Il fatto che sia giunta a noi malconcia ha tenuto lontano gli studiosi che
potevano dirci qualcosa. Non sappiamo se era nella cattedrale andata a
fuoco nel 1124, né se faceva parte della chiesa o era in qualche
ambiente della curia tra le antichità di Fano.
Quelle trecce che incorniciano la testa fanno pensare ad una scultura
antica, forse potrebbe rappresentare l’imperatore Valentiniano vittorioso su Attila o, saltando i secoli, un sovrano del periodo ottoniano (dal
970 al 1020): prima di fare il museo bisogna studiare.
2004
49
COMPIE CENT’ANNI LA CHIESA DEI CAPPUCCINI
La temporanea e già conclusa chiusura della chiesa di S. Pio X (per
aprirvi due porte e per altri lavori) e il trasferimento delle sacre funzioni
nella cappella dell’ex Seminario Regionale (dedicata all’Immacolata) ha
dato modo a molti, anzi a moltissimi, di vedere per la prima volta questa chiesa e chiedersi da dove fosse venuta fuori: eppure, benché in parte
nascosta da un gran muro di cinta e benché prospettante su una stradicciola non battuta dal traffico, è lì da cento anni, giusti giusti.
Era conosciuta un tempo come “Chiesa dei Cappuccini” perché fu da loro
costruita dopo che il vecchio convento cittadino di Santa Cristina, che sorgeva dove adesso c’è la Scuola Media Gandiglio, venne confiscato con le
leggi liberali (!?) del 1866. Per alcuni anni i Cappuccini vissero sparpagliati a gruppetti di due o tre, poi nel 1872 si riunirono tutti in due casette
che regalò loro, in via Nolfi, l’arciprete delle Caminate. Finalmente otto
anni dopo furono aiutati ad acquistare un terreno lungo la Flaminia su cui
costruirono in due anni (1880-82) un nuovo convento, ma la chiesa venne
terminata parecchi anni dopo: la consacrò nel 1896 il Vescovo Camillo
Ruggeri. Non era recintata come adesso, e la facciata porticata si apriva su
uno slargo a cui si accedeva da via Fanella e dalla Flaminia.
I Cappuccini rimasero lì fino al 1923; difatti fin dal dicembre 1914
avevano venduto convento, chiesa e terreno alla Santa Sede che guardava a quel sito come a luogo ideale per costruirvi quello che fu poi il
Seminario regionale Pio XI. Nel ‘23 i Cappuccini si trasferirono a S.
Paterniano che allora, e fino a pochi anni fa, era anche parrocchia.
Quando nell’ottobre 1924 furono inaugurati i nuovi locali del seminario, la chiesa venne restaurata ed ebbe un nuovo altare, anch’esso dedicato all’Immacolata; in più all’interno, veramente cappuccinesco per
la semplicità, ebbe alcune decorazioni ad opera del pittore Francesco
D’Urso. Il presbiterio, la cui severa bellezza è stata scoperta dal pubblico solo nell’occasione di cui dicevo all’inizio, fu decorato nel 1932
dal pittore Emilio Lazzaro, che i fanesi più vecchi ricordano come ottimo insegnante nella Scuola d’Arte.
1996
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Arte sacra - Fondazione Cassa di Risparmio di Fano