1 SIAMO PASSATI Luoghi della memoria e testimonianze sulla Grande Guerra a Vazzola, Visnà e Tezze a cura di: Veruska Agnoloni Enrico Bellussi Vinicio Cesana Mirca Dall’Ava Andrea De Vido Raffaella Furlan Gianluca Zaia 2 3 Finito di stampare nel mese di marzo 2008 dalle Grafiche De Bastiani, Godega di Sant’Urbano (TV) © Dario De Bastiani Editore, Vittorio Veneto 2008 ISBN 978-88-8466-128-9 4 In quest’anno, nel quale ricorre il novantesimo anniversario della fine della Grande Guerra, l’Amministrazione Comunale ha voluto ricordare quegli anni portando a termine questo secondo progetto editoriale, dopo il libro sulla storia di Palazzo Tiepolo. La Grande Guerra è dietro l’angolo che abbiamo appena svoltato: basta girarsi indietro per vedere i volti in bianco e nero di uomini, donne, bambini che l’hanno vissuta e che magari sono i nostri genitori o i nostri nonni. Quella che doveva essere un’azione bellica veloce si rivelò ben presto una guerra lunga, cruentissima e rovinosa sul piano sociale, morale ed economico; entrarono nel conflitto italiani che erano ragazzi e ne uscirono uomini provati da vicende più grandi di loro. È storia che ci riguarda da vicino ed ecco perché abbiamo voluto ricordarla con un libro che potesse raccogliere le testimonianze, le foto, i racconti dei protagonisti e che si ponesse come la naturale prosecuzione della mostra storico-fotografica “Siamo Passati. Luoghi della memoria a Vazzola, Visnà e Tezze” realizzata nel 2006. Il grande lavoro svolto è merito di alcuni componenti la Commissione Attività Culturali ai quali sentiamo di rivolgere il nostro grato pensiero: Agnoloni Veruska, Bellussi Enrico, Dall’Ava Mirca e Furlan Raffaella. Con generosità si sono adoperati nella ricerca del materiale documentale e fotografico, hanno condotto interviste, hanno dato unitarietà a quanto raccolto fino a produrre il libro che ora avete tra le mani. Nel loro operare sono stati guidati e sostenuti dallo storico locale Vinicio Cesana e da Gianluca Zaia dell’Associazione Bianconero Fotografia che, con altrettanta gratuità e passione, si sono spesi in due anni di ricerche. Desideriamo 5 altresì ringraziare tutte le persone che, a diverso titolo, hanno usato la cortesia di favorire il reperimento dei documenti e hanno messo a disposizione di questa ricerca tempo ed energie: a tutti il nostro grazie riconoscente, un grazie che è quello dell’intera comunità di Vazzola. Vale la pena ricordare come i costi di stampa di questo libro siano stati coperti grazie all’aiuto di alcune istituzioni economiche del nostro territorio, segno di una realtà imprenditoriale e di un sistema creditizio attenti alla crescita culturale del territorio e capaci di condividere con lo stesso i frutti del proprio lavoro. Ora tocca a tutti noi, cittadini del Comune di Vazzola, apprezzare tale lavoro. Buona lettura. P R E S E N TA Z I O N E Marzo 2008 L’ Assessore alla Cultura dr. Andrea De Vido Il Sindaco avv. Maurizio Bonotto Nella tarda primavera di tre anni fa, la Commissione Cultura dell’Amministrazione Comunale di Vazzola, integrata da altre persone provenienti dalle più disparate esperienze personali e professionali, ma accomunate da un unico grande interesse per la ricerca storica, si ritrovarono a Palazzo Tiepolo, riuniti dall’Assessore Andrea De Vido. La proposta era di iniziare una ricerca in ambito locale finalizzata ad una mostra che coinvolgesse anche tutta la comunità vazzolese, invitata a collaborare offrendo la possibilità della duplicazione di documenti e fotografie d’epoca conservate privatamente. In quel primo incontro fu decisa un’azione preventiva di raccolta di tutte le notizie storiche reperibili in archivi e biblioteche della provincia di Treviso, con particolare riferimento a quelle di Vittorio Veneto per quanto riguardava la parte ecclesiastica. Nello stesso tempo iniziò una ricerca in ambito locale focalizzata soprattutto sull’archivio municipale di Palazzo Tiepolo. Tra le enormi scaffalature contenenti migliaia di faldoni ordinati secondo le “categorie” dell’archiviazione municipale, cercammo i registri più antichi con le deliberazioni di Giunta e del Consiglio Comunale risalenti agli inizi del 1900, negli anni immediatamente antecedenti la Grande Guerra. Il ritrovamento di un corposo fascicolo intitolato “Monumento ai Caduti” ci fece subito comprendere che l’argomento era interessante per la ricchezza di materiale conservato, seppur alla rinfusa. Dopo aver ordinato cronologicamente i documenti e suddivisi al loro interno per tipologia ed 6 7 argomento, si evidenziò ancor più l’attenzione per una vicenda che, oltre l’aspetto patriottico, aveva risvolti locali del tutto particolari ed interessantissimi. Tra i manifesti elencanti le liste degli offerenti, i registri delle sedute del comitato pro erigendo monumento ai Caduti, la lotteria di beneficenza, quello che ci colpì di più fu soprattutto la copiosa corrispondenza da Vazzola con lo scultore Bassignani di Fivizzano, allora residente nel Principato di Monaco, autore prima del bozzetto e poi dell’opera intitolata “Siamo passati”. Unanime fu la decisione di iniziare da questo materiale per sviluppare una ricerca che coinvolgesse tutto il periodo che va dall’invasione nemica del novembre 1917 alla fine della Grande Guerra, con la successiva ricostruzione di Vazzola, Visnà e Tezze, per arrivare all’inaugurazione del monumento ai Caduti nel luglio 1923. Con i documenti e le fotografie raccolte in Comune di Vazzola, presso l’archivio della Provincia, e grazie alla collaborazione di molti ricercatori e collezionisti privati, fu possibile allestire la “Mostra storico-fotografica dal 1917 al 1923” che si tenne a Palazzo Tiepolo dal 4 al 19 novembre 2006 dal titolo “Siamo passati - Luoghi della memoria a Vazzola, Visnà e Tezze” che risultò suddivisa in due sezioni: la prima parte illustrava la ricostruzione di Vazzola, Visnà e Tezze, la rinascita della vita civile ed amministrativa e terminava con i pannelli riguardanti la famiglia Candiani, incentrati soprattutto sul Sindaco Carlo e sul fratello architetto Luigi. La seconda parte era completamente dedicata alla realizzazione e alla inaugurazione del monumento ai Caduti di Vazzola. Il tutto esposto su circa cinquanta pannelli, dove con pazienza e perizia, tutto il materiale raccolto era stato ordinato secondo una sequenza logica. Nel pomeriggio della prima domenica successiva all’inaugurazione, la mostra fu visitata da un arzillo vecchietto di Vazzola, Desiderio Tomasin che, all’incaricata dell’apertura, dichiarò di ricordare gli avvenimenti illustrati per averli vissuti di persona, sciogliendo già a quel primo incontro alcuni dubbi su fatti e personaggi che, purtroppo, i documenti in nostro possesso non erano riusciti a chiarire. Nei mesi successivi, quando veniva sempre più concretizzandosi l’aspettativa di raccogliere in un volume il nostro lavoro di ricerca, alcuni vazzolesi ultranovantenni quali lo stesso Desiderio Tomasin, Guido Contini, Teresa Toffoli Vettorello, Battista Gava e la più giovane Ines Da Dalto, per quanto riguarda la storia della famiglia Nardi, splendidi esempi di memoria vivente, coi loro ricordi integrarono la parte documentale in un magnifico connubio tra vita vissuta, cronaca giornalistica del tempo e documenti scritti. Questo libro si arricchisce di una terza parte, collocata però all’inizio per ovvie ragioni cronologiche. Vazzola ha avuto la fortuna di veder narrate le vicende dell’invasione da alcuni protagonisti del tempo che, con perizia e precisione, hanno lasciato ai posteri delle testimonianze epiche e commoventi di sacerdoti, di soldati e di donne che hanno vissuto un’esperienza terribile, quasi inenarrabile perché le parole si dimostrano insufficienti a raccontare tanto patire e soffrire per la popolazione vessata in tutte le maniere. Si tratta di cinque testimonianze importantissime da diversi punti di vista: sono quelle di due sacerdoti, don Giovanni Dal Poz, parroco di Cimadolmo, don Amerigo Garbuio, parroco di San Michele di Piave, entrambi ospiti nei primi mesi dell’invasione in canonica a Vazzola, due ragazze, Maria Nardi di Vazzola ed Elisa Fagnol di Visnà ed infine un soldato inglese, Ernest C. Crosse, della 7° Divisione Britannica. Il nostro è stato un lavoro di sintesi tra cinque diverse testimonianze. Prima di presentare i protagonisti dobbiamo accennare ai questionari, molto brevi e sintetici, che i parroci di Vazzola, Visnà e Tezze compilarono nei primi mesi del 1919 sulle medesime undici domande che furono loro sottoposte dalla Curia cenedese, al fine di documentare presso l’archivio diocesano, una breve relazione sullo stato della chiesa, della canonica, del campanile, delle campane, dell’archivio parrocchiale, degli arredi e dei paramenti sacri. Vi sono inoltre note interessanti sulla popolazione e sulle violenze subite. Tuttavia, solo quello del parroco di Vazzola, per estensione e ricchezza di particolari, assume un indubbio valore storico, come avremo modo di vedere più avanti. La relazione sulla parrocchia di Tezze è redatta da un parroco che era fuggito al momento dell’invasione e quindi, nella sua brevità, denota la mancanza di conoscenza diretta dei fatti. Il parroco di Visnà invece morì di crepacuore, nel momento della liberazione, per il crollo del campanile e la distruzione della chiesa. La relazione fu stesa dal parroco di Cimadolmo che provvisoriamente era stato incaricato di risiedere a Visnà, in attesa di poter ritornare nella sua parrocchia. 8 9 LE TESTIMONIANZE MONS. DOMENICO ZANETTE Prima di presentare brevemente gli autori dei diari di guerra, è doveroso accennare alla figura principale che emergerà poi dalle varie testimonianze ed attorno alla quale ruota buona parte delle vicende. Si tratta di mons. Domenico Zanette, di 43 anni, allora parroco di Vazzola da 16, che in quei dodici mesi dell’invasione, divenne il punto di riferimento per l’assistenza spirituale e materiale di tutta la popolazione rimasta nelle immediate retrovie del fronte. Innanzitutto decise di rimanere al suo posto, mentre tanti altri sacerdoti della forania, alle prime avvisaglie del pericolo, avevano abbandonato chiesa, canonica e parrocchiani per mettersi in salvo oltre la linea del Piave. Nelle poche stanze della casa canonica di Vazzola, requisita per l’alloggio delle truppe nemiche, lasciate a disposizione di mons. Zanette, insieme al cappellano don Giovanni Rattin, l’arciprete ospitò i pochi sacerdoti della sinistra Piave che avevano deciso di rimanere: il parroco di Susegana e due sacerdoti della diocesi di Treviso, don Giovan- Mons. Domenico Zanette, arciprete di Vazzola 10 11 ni Dal Poz di Cimadolmo e don Amerigo Garbuio di San Michele di Piave. Nei primi giorni dell’invasione essi corsero a mettere in salvo quanto era possibile nelle parrocchie abbandonate dai loro sacerdoti, come a Tezze di Piave, a Rai e a San Polo di Piave, tra mille pericoli, restrizioni di movimento da parte dei militari, soprusi e violenze alla popolazione, alle quali poterono solo assistere inermi. Nell’immediato dopoguerra don Zanette non riuscì a completare l’opera di ricostruzione degli edifici sacri perché, forse spronato dai suoi superiori, concorse per il posto di arciprete della Cattedrale di Ceneda, dove entrerà nel gennaio 1923 con i titoli di Canonico onorario e Vicario Foraneo. Indubbiamente gli erano stati riconosciuti i meriti per la sua opera sacerdotale di soccorso alle popolazioni rivierasche durante l’invasione. Antifascista convinto, nel settembre 1926 dovette subire il pubblico affronto nella piazza di Vittorio Veneto dove, insieme ad altri oppositori, fu insultato e deriso. Nel 1940 divenne Vicario Generale e tre anni dopo, dal 17 gennaio 1943, data della morte del vescovo mons. Eugenio Beccegato, al 29 maggio 1944, data dell’entrata del nuovo vescovo mons. Giuseppe Zaffonato, resse la diocesi vittoriese come Vicario Capitolare. Concluse la sua lunga esistenza il 23 gennaio 1965 alla bella età di 91 anni. D O N G I O VA N N I D A L P O Z Nato a Camposampiero il 14 novembre 1885, venne ordinato sacerdote a Salzano nel 1909; fu cappellano a Loreggia, Paese, Fonte; Vicario Spirituale e poi parroco di Cimadolmo dal 1915. Don Giovanni Dal Poz dunque nel 1917 aveva 32 anni ed era di circa dieci anni più giovane di mons. Zanette; era parroco di Cimadolmo solo da due anni. Viveva insieme con le sorelle Teresa e Angelina che lo seguirono nel profugato, ospiti in canonica a Vazzola dal 10 novembre 1917 al 13 febbraio 1918, quando fu costretto a spostarsi a Bibano. Per prima cosa Don Giovanni Dal Poz, parroco di Cimadolmo riuscì a mettere in salvo l’argenteria 12 Frontespizio del diario di guerra di Don Giovanni Dal Poz 13 della chiesa, i registri e l’oro della Madonna; dal 20 novembre divenne cooperatore a Rai, supplendo all’assenza del parroco don Francesco Pizzin. Potrà rivedere le rovine della sua chiesa di Cimadolmo solo dopo la fine della guerra, quando riabbracciò i suoi famigliari a Camposampiero. Il 5 novembre 1918 tornò a Bibano ed il mese successivo venne nominato economo della parrocchia di Visnà, in sostituzione del parroco don Giovanni Battista Scrizzi, deceduto l’1 novembre 1918 a causa del dolore provato per la distruzione della chiesa e del campanile da parte degli austriaci in ritirata. Tornò definitivamente a Cimadolmo il 3 aprile 1919. Le sue vicende a cavallo di due diocesi ebbero vasta eco, tanto che, il 24 luglio 1919 in Vaticano a Roma, fu ricevuto in udienza dal Santo Padre Benedetto XV e poi anche dal Primo Ministro on. Luigi Luzzatti. Antifascista come mons. Zanette, subì a Cimadolmo un duro pestaggio per la coerenza ai suoi ideali; nel 1927 lasciò Cimadolmo per Massanzago, dove morì il 26 dicembre 1939 a soli 54 anni d’età. Fu invitato più volte dal vescovo di Treviso mons. Giacinto Longhin, sia personalmente che tramite mons. Costante Chimenton, a stendere e a sviluppare gli appunti personali che aveva scritto durante l’anno dell’invasione. Le sue memorie furono pubblicate nel 1937, ben vent’anni dopo i fatti narrati e 18 mesi prima della sua morte. Probabilmente annotò in un taccuino gli avvenimenti, perché la cronaca è breve, sintetica, ma precisa e soprattutto ordinata cronologicamente. “L’Invasione – Diario di un profugo” di don Giovanni Dal Poz, poiché steso con l’indicazione precisa della data, è importantissimo perché ci permette di concatenare quanto riportato da altri testimoni che, in una stesura più libera, qualche volta hanno omesso la datazione degli eventi. DON AMERIGO GARBUIO Nato a Caerano San Marco il 29 aprile 1882, venne ordinato sacerdote nel luglio 1907; fu prima cappellano a Selva e poi parroco di San Michele di Piave dal settembre 1913. L’intesa con don Dal Poz era forse dovuta al fatto che erano quasi coetanei, poco più che trentenni e trovarono in mons. Zanette un punto di riferimento ed un luogo di rifugio. Don Garbuio viveva con la madre e le due sorelle, Matilde e Rosa; nell’imminenza dell’invasione la madre e la sorella Matilde si misero in salvo a Selva del Montello, dove era già stato cappellano, mentre la sorella Rosa 14 Don Amerigo Garbuio parroco di San Michele di Piave Mons. Costante Chimenton delegato dal Vescovo mons. Giacinto Longhin per la ricostruzione delle chiese della diocesi di Treviso resterà sempre fedele al suo fianco. Il loro peregrinare nelle retrovie inizia a Vazzola il 13 novembre 1917 fino al 9 febbraio 1918, quando furono costretti a partire con 70 parrocchiani e 200 profughi verso il Friuli. Le tappe di questo esodo di giorno in giorno furono Vallonto di Fontanelle, Rivarotta, Annone Veneto, dove il 12 febbraio furono portati con dei carri bestiame a Codroipo. Il viaggio non era ancora finito perché le destinazioni finali per i profughi di Cimadolmo fu Sedegliano, per quelli di San Polo fu Gradisca ed infine per quelli di San Michele, con don Garbuio, fu Coderno di Sedegliano. Finita la guerra, il 10 novembre 1918, don Garbuio rivide per la prima volta San Michele di Piave; poi dal 27 novembre, sempre con la sorella Rosa, tornò nuovamente a Vazzola da mons. Zanette che gli offrì l’alloggio temporaneo fino alla fine di gennaio 1919. Ritornò definitivamente nella sua parrocchia di San Michele di Piave il 4 febbraio 1919 e mons. Zanette, in segno di affetto ed amicizia, gli donò un confessionale per la sua nuova chiesa da ricostruire. In seguito don Amerigo Garbuio diverrà Vicario Foraneo della Congregazione di Negrisia e parroco di Ormelle, dove morì il 5 marzo 1940, a soli 58 anni d’età. 15 Anche don Amerigo trascrisse su un taccuino i suoi ricordi dell’invasione, ma non li pubblicò personalmente; preferì consegnare la sua testimonianza a mons. Costante Chimenton, delegato dal vescovo mons. Giacinto Longhin per la ricostruzione delle chiese della diocesi di Treviso, distrutte dalla guerra. Mons. Chimenton, nato nel 1883, era quasi coetaneo di don Dal Poz e don Garbuio e aveva partecipato alla Grande Guerra arruolato col grado di tenente cappellano. Nel 1932 divenne Vicario generale del vescovo mons. Mantiero e morì nel 1961 a 78 anni d’età. Don Amerigo Garbuio, E’ l’autore della collana di pubin seguito arciprete di Ormelle blicazioni dal titolo “E ruinis pulchiores”, per la storia delle ricostruzioni delle chiese lungo il Piave, 28 pubblicazioni che vanno dal 1923 al 1934; è autore inoltre di oltre 50 pubblicazioni sulla storia della diocesi di Treviso. Nel 1929 pubblicò il numero 24 della sua serie sulle chiese, dal titolo “S. Michele di Piave e la sua nuova chiesa” di 380 pagine. Nel III capitolo lo storico narrò diffusamente le vicende che riguardano don Amerigo Garbuio e don Giovanni Dal Poz nel profugato vazzolese. Questi brani di mons. Chimenton, tratti dagli appunti di don Amerigo, sono stati inseriti cronologicamente nel testo di don Giovanni Dal Poz. MARIA NARDI Era la figlia del Sindaco di Vazzola avv. nob. Giovanni Nardi, ultimo discendente di una famiglia che aveva avuto importanti ed illustri personaggi sia pubblici sia ecclesiastici, autori di numerose pubblicazioni. Maria viveva con il padre anziano e vedovo da alcuni anni che si stava avviando ad una progressiva infermità ai piedi. Nata a Venezia il 25 novembre 1881, si trasferì a Sacile per circa un 16 Frontespizio del libro di mons. Costante Chimenton 17 decennio, dal 1885 al 1895, per risiedere infine a Vazzola. Compì gli studi tra Treviso e Torino e durante gli anni giovanili ebbe occasione di viaggiare con i famigliari, visitando numerose città italiane ed europee. Direttrice dell’Unione delle Figlie di Maria, all’epoca dell’invasione aveva 36 anni. Inoltre la famiglia Nardi era composta da due sorelle suore Marina ed Anna, religiose della Congregazione del Sacro Cuore, e dal fratello Nicolò, chiamato Lino, volontario allo scoppio della guerra. Aveva l’abitudine di annotare quasi giornalmente la cronaca spicciola di Maria Nardi famiglia in una forma quasi mistica, perché il suo calendario era spesso scandito dalle ricorrenze religiose. Una vita vazzolese dunque trascorsa tutta tra casa e chiesa. L’ultimo diario, quello dell’invasione, iniziò il 9 novembre e si concluse il 21 giugno 1918 quando, al termine della Santa Messa quotidiana, appena ricevuta l’Eucarestia e tornata al suo banco, morì in chiesa tra le braccia di mons. Zanette. L’11 ottobre 1918, nell’ospedale militare di Napoli, morì anche il fratello Nicolò col grado di tenente, già ferito ad un occhio nel 1916 sul Carso, a causa della febbre spagnola contratta durante un viaggio alla volta delle Indie. Purtroppo non conosciamo la collocazione attuale dei suoi diari; fu sempre mons. Zanette, che nel 1910 aveva già pubblicato “In memoriam” nel trigesimo della morte di Teresa Rossi nob. Nardi, madre di Maria, a dare alle stampe nel 1919 il libro “Pura e Forte” - in memoriam di Maria Nardi, dove inserì ampi stralci del diario. Questi brani tratti dal diario di Maria Nardi furono poi ripresi anche da don Rino Damo nella sua pubblicazione “Vazzola – 5° centenario della Consacrazione della Chiesa”, pubblicato nel 1990. Alcuni brani della testimonianza di Maria Nardi sono stati ora inseriti nel contesto cronologico di don Dal Poz. 18 Frontespizio del libro di Zanette 19 E L I S A B E T TA FA G N O L Nata il 5 novembre 1904 a Visnà, era la seconda dei sette figli di Gaetano e di Maria Maccari. I genitori erano entrambi istruiti, avendo frequentato le scuole medie a Oderzo. I Fagnol erano benestanti, piccoli commercianti di legname e possedevano dei campi con il mezzadro. Isetta era una bambina molto intelligente e lo notò subito la zia Isabella, maestra elementare, che chiese alla madre Maria di avere Isetta per due anni consecutivi in terza elementare, per esserle da supporto agli altri alunni, specialmente in matematica. A scuola però era brillante in tutte le materie, amava soprattutto leggere ed aveva un suo albero sul quale saliva tutte le mattine presto per imparare le poesie. Isetta aveva però un carattere molto forte, era volitiva, di temperamento quasi virile “…voleElisabetta Fagnol re è potere … e con l’aiuto di Dio si può”. Si rifiutò sempre fin da piccola di lavorare a ferri perché lo considerava troppo da femminucce. Prediligeva curare i bachi da seta col fratello piuttosto che fare la calza. Finì le elementari nel 1914 e superò l’esame di ammissione per frequentare l’Istituto Magistrale al Collegio San Giuseppe di Vittorio Veneto. Lo scoppio del conflitto mondiale bloccò il suo sogno: il padre fu richiamato alle armi ed Isetta dovette contribuire al sostentamento della famiglia, apprendendo il mestiere di sarta che esercitò in casa dei signori Bozzoli a Conegliano. Nell’anno dell’invasione Elisabetta Fagnol aveva soli 13 anni, ma visse un’esperienza soprattutto legata alla liberazione del suo paese che trascrisse in un quaderno con precisione e dovizia di particolari. E’ una testimonianza eccezionale sia per l’età della protagonista sia per la capacità di stendere pagine su pagine di racconto. Provvidenziale fu l’incontro tra Elisabetta Fagnol e lo scrittore opitergino Mario Bernardi, impegnato nella stesura di un libro dal titolo “Di qua 20 Frontespizio del quaderno di Elisa Fagnol 21 e di là dal Piave – Da Caporetto a Vittorio Veneto” Mursia editore, che, uscito nel 1989, continua ancor oggi ad essere ristampato e presentato per la ricchezza delle notizie e delle testimonianze raccolte. A pag 11 della introduzione così scrive “… ho immaginato invece di soffermarmi sulla riva sinistra del Piave e di stare insieme al milione di uomini e donne che rimasero e furono infelici e inermi protagonisti di una attesa durata poco meno di un anno. Dai loro diari, dai loro quaderni di scuola (come quello commovente di Elisa Fagnol di Visnà o di Cunegonda Bozzetto di Piavon), dalle loro narrazioni, dalle impressionanti testimonianze orali giunte fino a noi, ho cercato di mettere insieme un grande collage della loro vita e del loro patire; del loro pregare e soprattutto della loro muta, ma attiva, partecipazione ad una resistenza che ebbe momenti epici quasi sempre sconosciuti, perché i protagonisti di queste strazianti verità erano tagliati fuori dal mondo ufficiale della guerra e dell’informazione. Un mondo che stava di là dal Piave e che ebbe cento e cento momenti di vicissitudini e di eroismi”. Nel 1927 Elisabetta sposò Mansueto Zanardo e dopo 4 mesi si trasferirono a Cimetta dove il marito aveva un mulino assieme a suo padre Pietro. Dopo 5 anni Elisabetta e Mansueto presero in affitto un mulino a Visnà. Dal loro matrimonio nacquero 10 figli: Gaetano, Maria, Lidia (suor Alba), Eliana (suor Tarcisia), Tarcisio, Giovanni, Clara, Tullio, Flavio e Amedeo. Aveva una fede incondizionata; nelle situazioni più difficili, al limite della fame, dello sconforto, dell’impossibilità di agire in alcun modo, lei confidava nella Provvidenza e comunque cantava per ringraziare il Signore per quello che aveva e quello che le avrebbe dato. Nei suoi 93 anni di vita, Elisabetta fu sempre un punto di riferimento per la sua famiglia; seppe stare al passo con i tempi e fu coerente con le proprie idee che espresse sempre chiaramente. In questo libro sono trascritte integralmente due testimonianze di Elisabetta Fagnol: la prima orale, raccontata all’autore Mario Bernardi su alcuni episodi dell’invasione nemica, la seconda invece è il suo quaderno dal titolo “Piccoli ricordi dell’invasione tedesca” che inizia dalla sera del 28 ottobre 1918 con il racconto della liberazione di Visnà. ERNEST C. CROSSE Soldato della 7° Divisione Britannica è l’autore di una testimonianza sulla battaglia finale dell’ottobre 1918, che fu raccolta da Giovanni Cecchin nel volume “Piave Monticano Tagliamento”, Collezione Princeton. Purtroppo non abbiamo alcuna notizia biografica di questo militare inglese e non può esserci d’aiuto nemmeno il curatore Giovanni Cecchin perché è deceduto. Nelle circa settanta pagine è riportata una dettagliata relazione di guerra che coinvolge in modo particolare la Sinistra Piave e più specificatamente le operazioni nel Comune di Vazzola. La testimonianza inedita è ancor più importante perché di fonte straniera, sfuggita alla rigida storiografia ufficiale dell’epoca. Il brano inserito in questa pubblicazione è il capitolo dal titolo “Il passaggio del Monticano”. Foto austriaca del 29 Maggio 1918 della piazza di Vazzola durante l’invasione 22 23 LA CRONACA DELL’INVASIONE DON AMERIGO GARBUIO - Le prime notizie della disfatta di Caporetto giunsero il 28 ottobre 1917; erano informazioni catastrofiche, con quella tinta di terrorismo che annunziava una vera disfatta nazionale. La popolazione informata dei fatti iniziò a mettere in salvo quanto era possibile. Intanto cominciarono ad arrivare i primi profughi dal Friuli ed i paesi sulla sinistra del Piave furono invasi dai nostri soldati, reduci dal fronte il 31 ottobre. La sera dell’1 novembre, dopo le celebrazioni religiose nei cimiteri delle varie parrocchie, i sacerdoti furono convocati d’urgenza dal Sindaco di San Polo di Piave, comm. Angelo Schileo, insieme ai proprietari della zona. La seduta Colonna di soldati italiani in ritirata da Caporetto 24 25 fu brevissima: “Il popolo fu avvisato di tenersi pronto per passare il Piave; la prima tappa sarebbe stata fatta a Noale; il popolo sarebbe stato avvertito circa il momento della partenza”… L’invasione (di Visnà) cominciò il 9 novembre 1917 alle ore 4.30 del mattino; alle ore 10 di quella stessa mattina la prima pattuglia tedesca aveva occupato Tezze e a mezzogiorno il nemico arrivò al Piave. 9 novembre 1917 MARIA NARDI - Non avrei mai creduto di segnare nel mio libretto fatti così disastrosi: la nostra sconfitta sul Carso sorpassò ogni immaginazione. Vazzola fu scelta come posto di riorganizzazione delle truppe che ritornavano dal Carso, e militari ne vennero a centinaia e centinaia, tutti stanchi perché dicevano di aver fatto non so quanta strada a piedi, fuggendo così, senza saper nemmeno loro dove andare. Erano affamati e stracciati, insomma sembrava una seconda edizione della ritirata di Russia. La nostra casa ospitò sino a 9 ufficiali in una volta. In generale il morale degli ufficiali era alto; alcuni dicevano, che, ricevuto l’ordine di ritirarsi, erano scesi dal Carso piangendo. Nella truppa invece regnava una gran demoralizzazione. La canonica di San Polo di Piave, posta tra la chiesa e l’antico palazzo Gabrieli 26 Furono giorni tristi, ad ogni modo si pensava che almeno sul Tagliamento sarebbe stata organizzata una resistenza efficace. La sera del 3 novembre io ero già a letto, quando sento una forte suonata di campanello, vado alla finestra e odo la voce dell’Arciprete, che mi dice di aprire, perché ha una parola urgente da dire al papà. Già immaginavo quello che seppi poco dopo, cioè che i tedeschi avevano passato il Tagliamento, ma che fare? Si decise di rimanere a Vazzola e di aiutarci gli uni agli altri. 10 novembre DON GIOVANNI DAL POZ - La mattina celebro fra i timori nella chiesa rovinata (di Cimadolmo); poi vado con Beotto Domenico (Giovannin) a S. Polo (conservo ancora il passaporto per il ritorno a Cimadolmo) dal colonnello, in palazzo Schileo. La canonica era vuota perché Don Giuseppe Chiarelli, arciprete di quella parrocchia, era scappato, spaventato, verso il centro d’Italia. Dev’esser stato molto grande quello spavento, se egli scappò dimenticando che il 3 novembre 1917 i sacerdoti della zona si erano raccolti con lui, nella sua canonica, e avevano presa, d’accordo, questa decisione: “Il clero rimanga con il popolo, e soffra con lui”. Al Colonnello chiediamo se vi sia pericolo. Mi risponde affermativamente. Ne avviso i miei parrocchiani, e senz’altro parto con le sorelle per Vazzola, mentre le Palazzo dell’Agenzia Papadopoli, residenza di Angelo Schileo, agente generale e sindaco di San Polo di Piave 27 palle fischiano sopra la carrozza, e una bomba esplosiva scoppia a pochi metri di distanza. Il cavallo spaventato si slancia a corsa sfrenata, e ci salva. Guai a noi se si fossero rotti i finimenti! In carrozza con noi volli l’argenteria della chiesa, i registri canonici e l’oro della Madonna, (che le mie sorelle salvarono portando sempre con sé sotto le vesti). 13 novembre DON AMERIGO GARBUIO - Il paese si poteva dire interamente deserto: quella mattina don Garbuio constatò, per la prima volta, che era rimasto senza parrocchiani: doveva egli pure decidersi e rassegnarsi a fare un S. Martino in ritardo. — Partì da S. Michele alle ore 10 antimeridiane, per ignota 11 novembre. Domenica Angelo Schileo DON GIOVANNI DAL POZ Vado a Vazzola, celebro la S. Messa, ritorno a Cimadolmo per condurre a Vazzola la signora Piva in Rampin, che invece rimane con l’intenzione di custodire le sue suppellettili. Ritorno a Vazzola. Vi dormo la notte in canonica. 12 novembre DON GIOVANNI DAL POZ - Faccio per tornare a Cimadolmo, ma mi si vuol requisire il cavallo, che nascondo dietro la canonica di Vazzola di giorno, ed in cantina di notte. In questi giorni notizie laconiche, ma che nascondono uno stato d’animo incomprensibile. Mons. Giuseppe Chiarelli, arciprete di San Polo di Piave Don Francesco Pizzin, parroco di Rai MARIA NARDI - Oggi, l’invasione dei tedeschi è già avvenuta, ieri sera vi fu una piccola resistenza di nostri al Monticano; si sentivano colpi di cannoni e di mitragliatrici, ma verso le 10 i nemici avevano già valicato il fiume. Né si tarda a far conoscenza con gli invasori: forza è ceder loro fin dal primo giorno, cavallo, veicoli e non so quante altre cose, mentre i soldati invadono podere, giardino e per sfamarsi rubano galline, conigli e quanto vien loro sotto mano, perché non si fan riguardo di entrare nelle stanze a prender ciò che loro garba meglio. Un ufficiale alloggiato in casa nostra aveva detto: «Loro non sanno che cosa sia la guerra». Disgraziatamente lo abbiamo imparato. Reparto austriaco in piazza a Vazzola schierato di fronte alla chiesa 28 29 destinazione, ma con l’intenzione di ritornare in paese la sera stessa: un po’ di biancheria e una berretta a croce fu l’unico corredo che volle, quel giorno, portare con sé. — Si portò a Vazzola, dove pure si era rifugiato il parroco di Cimadolmo. Giunto a mezzogiorno in casa canonica, fu giustamente rimproverato della sua arditezza: la sua permanenza a S. Michele era ormai inutile. Don Garbuio restò confuso dinanzi alle osservazioni dei confratelli, ma si mostrò talmente calmo da confessare candidamente di non aver dormito mai sonni più tranquilli quanto in quelle notti, sul duro suolo della sua cantina, confortato dal pigolìo delle galline e di qualche tacchino. Don Garbuio aveva lasciato l’Eucarestia nella cappella dell’asilo. Quando intese che una nuova disposizione aveva imposto al popolo di non allontanarsi da Vazzola, sotto pena di fucilazione, si vide perduto; e quando i sacerdoti, raccolti in quella casa canonica unitamente al parroco di Susegana e all’arciprete e al cappellano di Vazzola, lo consigliarono a non portarsi in S. Michele quella sera, per non cadere nelle mani dei gendarmi di ronda, comprese l’errore in cui involontariamente era incorso: i Tedeschi lo consideravano ormai come un vero prigioniero e, come tutto il clero della zona, quale spia italiana, e perciò controllato in tutti i suoi movimenti… 14 novembre DON AMERIGO GARBUIO - II Comando di Tappa di Vazzola non concesse, la mattina del giorno 14, il permesso al sacerdote di portarsi in S. Michele; ma don Garbuio riuscì a mandare in paese una persona di fiducia, per informare la sorella Rosa e la sig.ra Campion di mettersi subito in salvo in Vazzola e portarvi il SS.mo Sacramento. — Il SS.mo fu portato dalla sig.ra Campion in una sporta ripiena di cenci: la Sacra Pisside fu avvolta in un panno bianco; l’operazione riuscì a capello: le due donne si allontanarono inosservate, quali due mendicanti, da quell’asilo che tanti ricordi pietosi concentrava in se stesso. Lungo il viaggio si associò a loro un’altra donna, la sig. ra Angela Buosi, mamma dell’avv. dott. Enrico Buosi: la nuova compagna di sventura fu informata del sacro deposito che avevano con sé quelle due finte mendicanti: le tre donne lungo la strada recitarono l’intero Rosario. Quando entrarono nella chiesa di Vazzola, trovarono il parroco don Garbuio, vestito degli indumenti sacerdotali, che le attendeva. Consegnarono, piangendo, la Sacra Pisside al sacerdote che pure piangeva per la commozione: nessuna parola si scambiarono il parroco e le parrocchiane di S. Michele: quel silenzio e quel pianto dissero tutta la gioia che faceva sussultare il cuore per veder salve da una sicura profanazione le Specie Sacramentali. Trincee italiane sul Piave Le rovine della chiesa di Cimadolmo 30 31 15 novembre DON AMERIGO GARBUIO - Una stranissima disposizione del Comando di Vazzola fu emanata il 15 novembre: durante la notte le porte delle case dovevano rimanere spalancate: in Italia era entrato ormai il fiore dei galantuomini e le case non avevano più bisogno di custodia! La disposizione portò subito le sue tristi conseguenze: si moltiplicarono i furti notturni, sotto gli occhi delle stesse autorità militari; in casa canonica di Vazzola, dove avevano preso alloggio i gendarmi germanici, fu rubato tutto il fieno dopo la mezzanotte del giorno 15 novembre: l’operazione si compì con la massima tranquillità, e i due gendarmi che riposavano nello stesso fienile, giurarono di non essersi accorti che il fieno veniva levato di sotto alle loro dure schiene! - Queste disposizioni, barbare e ridicole ad un tempo, eccitarono lo sdegno; ma non si potè protestare. Ciò che nauseò la popolazione raccolta in Vazzola furono i sacrilegi che soldati germanici, protestanti e mussulmani, compirono nelle nostre chiese della riva sinistra del Piave. I sacrilegi si perpetrarono là dove il sacerdote si era allontanato, dove la chiesa era rimasta abbandonata. Il parroco di Tezze, don Angelo Pedron, non aveva consumato il SS.mo prima di lasciare la sua parrocchia per passare il La chiesa di Tezze di Piave con il crollo parziale del campanile Piave: i Tedeschi scassinarono il Tabernacolo nella speranza di farvi largo bottino. Don Garbuio, informato della cosa dalla sig.ra Celeste Zandonadi, il 15 novembre si portò, unitamente all’arciprete di Vazzola Mons. Domenico Zanette, in quella chiesa. Dentro il Tabernacolo trovò la pisside contenente una metà dell’Ostia: l’altra metà e le particole consacrate per la Comunione dei fedeli erano scomparse. E’ evidente il sacrilegio: le porticine del Tabernacolo erano state asportate: il SS.mo fu raccolto e trasportato nella chiesa di Vazzola. 16 novembre. Domenica DON AMERIGO GARBUIO - In compagnia dell’arciprete di Vazzola, don Garbuio si portò a Rai di S. Polo, dove pure il SS.mo era stato abbandonato; là pure il sacrilegio fu perpetrato dai Tedeschi. I frantumi eucaristici furono raccolti e trasportati a Vazzola, unitamente ai paramenti sacri che, sotto l’incubo dello spavento, don Pissin (Pizzin) non aveva asportato dalla sua chiesa. - Nella chiesa di Vazzola si trasportarono pure i paramenti sacri rimasti abbandonati nella chiesa di Tezze. MARIA NARDI - Anche oggi una festa senza suono di campane, messe dette alla chetichella, che sembra d’esser ritornati ai tempi in cui i primi cristiani si radunavano nelle catacombe. Una delle cose più penose è l’assoluta mancanza di comunicazioni, non si sa Requisizione di campane 32 33 22 novembre MARIA NARDI - Credo ci siano probabilità che i tedeschi siano respinti, ma chissà a che cosa andremo incontro noi. Hanno piantato stamane una mitragliatrice nel nostro cortile; non ci voleva che questo per metter al colmo la costernazione della servitù. E’ veramente un momento brutto il presente e la situazione sembra farsi ogni giorno peggiore. 25 novembre Requisizioni e violenze in un quadro dell’epoca più nulla, non solo di quel che succede al di là del Piave, ma neanche dei paesi vicini invasi, né si riesce ad aver notizie esatte sugli avvenimenti del fronte. 20 novembre DON GIOVANNI DAL POZ - Comincio ad andare a Rai per i bisogni spirituali di quella popolazione, priva di parroco, che scappò al di là del Piave come il parroco di Tezze. A Rai! Che vita! Qualche notte la passo in mezzo ai soldati tedeschi, in un giaciglio, in una atmosfera da caserma, in un tanfo da taverna. Le popolazioni, quando mi vedono, sono in festa: sembra loro di vedere colui che toglie i dolori, le sofferenze. Le mie non possono essere che parole, ma quanto sono gradite, e come sollevano! Seppellisco i morti, dopo di aver loro amministrato i SS. Sacramenti, e, la festa, spiego il Vangelo, e confesso quelle persone che possono giungere fino alla chiesa. DON AMERIGO GARBUIO - I cinque sacerdoti, riuniti in casa canonica di Vazzola, in compagnia dell’avv. Dott. Nardi, si recarono presso il Comando germanico per implorare un po’ di disciplina nella truppa e per impedire che si commettessero tante ladronerie e sevizie contro la popolazione borghese. I sacerdoti furono accolti freddamente, in piedi, nell’anticamera del Comando: si rispose con una sola parola: “Si provvederà!”: ma il provvedimento assicurato non fu mai preso, e quella formula verbale rimase una promessa secca e fredda, vera lettera morta fino all’epoca dell’armistizio. MARIA NARDI - Oggi il mio 36.m° compleanno; non mi ricordo di aver cominciato un nuovo anno in condizioni così critiche. Pare che i Tedeschi 21 novembre DON GIOVANNI DAL POZ - Con l’Arciprete di Vazzola Don Domenico Zanette, vado a Campagnola di Mareno per presentare a quel comando un memoriale delle infamie commesse dai soldati germanici, i quali rubano tutto, minacciano tutti, attentano al pudore delle donne e delle ragazze (magnifiche ragazze, forti come le Agnesi!), ed hanno ucciso un uomo, perché non voleva cedere l’unica risorsa rimastagli: il maiale. Quest’uomo è traforato dalle pallottole del fucile nemico, in un lago di sangue, coi parenti impazziti d’intorno! Quale schianto per il cuore! 34 Al centro la canonica di Vazzola 35 abbiano passato il Piave in qualche punto, ma di notizie positive non se ne sanno. Si cerca saper un poco di quello che succede in Italia, ma non si riesce che ad avere qualche notizia confusa. renza della legalità, né dalla concessione dei ridicoli buoni di requisizione che rivelarono, in seguito, un furto compiuto in forma elegantissima. 8 dicembre 27 novembre MARIA NARDI - Ieri qui da noi vi fu una riunione delle persone componenti il comitato provvisorio per l’ordine del paese che, stante le requisizioni fatte, vede con paura l’avvicinarsi dell’inverno. 6 dicembre DON AMERIGO GARBUIO - Il Comando di Vazzola impose la requisizione di tutti i cavalli, dei muli e degli asini: i quadrupedi si dovevano condurre sulla pubblica piazza; motivazione del nuovo ordine draconiano, una semplice visita medica ai quadrupedi che si sospettavano colpiti dall’afta. Ma quando tutto il bestiame fu raccolto in piazza, il comandante ordinò la requisizione completa; tutti quegli animali dovevano la sera stessa essere spediti in Germania: a Vazzola non rimasero che pochi asini malconci e sfiancati che stentavano a reggersi in piedi. I proprietari ritornarono alle loro case mortificati, imprecando contro una violenza di nuovo genere, non coperta dall’appa- Volantino italiano lanciato dagli aerei nei territori occupati dal nemico 36 DON AMERIGO GARBUIO - Ma le vessazioni si erano appena iniziate: la requisizione nella zona di Vazzola, per opera delle truppe germaniche, non poteva diventare più radicale.- Il giorno 8 dicembre, della festa dell’Immacolata, un nuovo bando del Comando austriaco impose che nella piazza fossero condotti tutti i bovini; non si allegò più il pretesto di una visita medica, ma si fece comprendere che una nuova requisizione si doveva attuare su larga scala. Si disse che tutto quel bestiame doveva essere spedito d’urgenza in Germania per servire di alimento ai nostri prigionieri italiani che in tutto il tempo della prigionia non gustarono mai un po’ di carne! Mancò la franchezza di dire: “Abbiamo fame noi!”: il popolo intese questa necessità: non reclamò; non protestò; subì l’ultimo sacrificio con quella rassegnazione che fortifica le anime nel dolore. “In tutte le famiglie si lasciò soltanto una vacca, con l’onere tassativo, - nuova ironia! - di fornire tutte le mattine il latte, non già ai bambini, ma ai signori ufficiali germanici!”. Requisizione di vino nella cantina Bellussi a Tezze di Piave 37 MARIA NARDI - La festa della Madonna, quest’anno viene proprio come fiore in mezzo al deserto. Non sappiamo niente di preciso intorno alla guerra, deve essere successo qualche cosa di anormale, perché i germanici hanno ricevuto un ordine preciso di partire. Sembra si rechino tutti dalla parte di Cividale che qui invece verranno gli austriaci. Ieri sera viene dato l’ordine che stamane tutte le bestie, mucche, vitelli, ecc. fossero condotte in piazza per una requisizione generale. Questa povera gente è disperata... 9 dicembre DON AMERIGO GARBUIO - Fu l’ultima impresa che si compì, in questo primo periodo d’invasione, dalle truppe germaniche accantonate nella zona Vazzola – Tezze – San Michele di Piave. – Il giorno 9 dicembre la divisione germanica cambiò settore: ma la distruzione e la requisizione erano ormai complete: “Durante questo mese, i Germanici, gente superba, prepotente e senza cuore, hanno fatto soffrire il soffribile a questa povera popolazione; hanno asportato quanto si poteva asportare, senza alcun rispetto a persone o a cose; hanno distrutto tutto ciò che si poteva distruggere; niente hanno pagato né in contanti, né con l’apparenza dei buoni. Ripetevano in tono canzonatorio e in aria di trionfo: «Ita- lia? Caput! Tutto deve essere distrutto: vogliamo andare a Roma: vogliamo strangolare il Papa, e poi dormire sul suo letto!». - In grande maggioranza erano soldati luterani, istigati nelle loro imprese di brigantaggio dai loro stessi cappellani! Entravano nelle case, dove tutto doveva essere a loro disposizione: «..letti, stanze, cucina, granaio, cantina e stalla. Le bestie venivano sciolte e lasciate libere per le campagne: nelle stalle mettevano i loro cavalli; nei letti dormivano loro, e i proprietari dormivano per terra; il granone veniva dato in pasto ai cavalli, molti dei quali dovettero, in conseguenza, morire; il vino veniva lasciato Il cappellano militare Holler, Padre Domenicano Da sinistra: don Amerigo Garbuio, padre Holler e il cappellano di Vazzola don Giovanni Rattin seduti all’esterno della canonica 38 39 correre per le cantine e in quei laghi di nuovo genere furono trovati annegati diversi soldati germanici; alle galline si dava la caccia col fucile, e quando tutte furono uccise, si pretendeva la fornitura delle uova, anche in pieno inverno; i maiali venivano uccisi a colpi di baionetta, bruciacchiati un po’ alla meglio e divorati in poche ore, senza condimento: i barbari, calpestato il bel suolo d’Italia, rinnovarono, in questi paesi, le gesta dei loro vecchi padri». Nella sua relazione don Garbuio non può essere più efficace; si comprende dalle sue parole come il popolo istupidito non seppe mai reagire: era il terrore che imperava, il de-spotismo più assoluto, la barbarie più raffinata. «Quando quegli assassini se ne andarono, il popolo li accomiatò colle sue maledizioni; sospirò un po’ di tregua: ma questa tregua alle violenze era ancor lontana» : le scene di terrore dovevano riprendersi presto con un crescendo sempre più forte che aumentò le vittime fra i nostri poveri connazionali. Il settore abbandonato dai soldati germanici fu occupato da soldati ungheresi, magiari e sloveni: le condizioni morali ed economiche non migliorarono; unica differenza fu che il cappellano militare era il padre Holler, domenicano, ottimo sacerdote che fu di valido appoggio e di ottima difesa per i nostri sacerdoti, quantunque, con tutta la sua buona volontà, non sempre riuscisse ad ottenere buoni risultati per le truppe. Specialmente al loro primo arrivo, tutte le notti i soldati ungheresi si davano all’opera di libertinaggio: “Ogni mattina, fanciulle e madri giungevano in canonica spaventate e piangenti per raccontare le sevizie patite durante la notte e pregare che venisse posto un rimedio. Anche stando in canonica si sentivano, durante la notte le grida di queste donne, spaventate da questi animali viventi. L’arciprete di Vazzola si decise di raccogliere in una stanza della canonica le ragazze più esposte al pericolo. DON AMERIGO GARBUIO - La mattina del giorno 12 giunsero in Canonica due ragazze di Vazzola, spaventate e disperate perché, durante la notte, alla presenza della madre, e la madre alla presenza delle figlie, erano state con violenza percosse, ferite e deflorate da soldati ungheresi …”. 11 dicembre DON GIOVANNI DAL POZ - L’arciprete di Vazzola ed io andammo a Vittorio Veneto. Visitiamo il Vescovo in seminario, mangiamo un boccone da Mons. Bellè canc. Vesc., e la notte dall’11 al 12 dormiamo in casa dei parenti dell’arciprete di Vazzola a Cappella Maggiore. Notte dall’11 al 12: fatto orribile DON GIOVANNI DAL POZ - Molti soldati circuiscono la casa di una donna di Vazzola, la oltraggiano, e deflorano alla sua presenza le sue due figlie, che dormono nel suo medesimo letto con lei. 40 Disposizioni nemiche sulle requisizioni 41 Era il colmo dell’impudenza: da uno stato di vessazione e di ladronerie si era passati ad una condizione ancor più umiliante. - Don Garbuio, in assenza dell’arciprete di Vazzola, ma in compagnia del cappellano di quest’ultimo, si presentò al Comando, espose le nuove violenze all’ottimo padre Holler, e richiese dei provvedimenti. Sei Ungheresi furono arrestati; ma pochi giorni dopo, rimessi in libertà, quei soldati giravano indisturbati per le vie di Vazzola, con aria di indifferenza e di disprezzo. DON GIOVANNI DAL POZ - Questo fecero gli Austriaci, che, ai primi di dicembre, occuparono il posto lasciato libero dai Germanici, partiti per la grande offensiva contro la Francia, scatenatasi nella primavera successiva. 13 dicembre DON GIOVANNI DAL POZ - L’arresto. A Rai e a Tempio per una visita; poi ritorno a Vazzola. Alle ore 17 del 13 il segretario comunale di Vazzola viene in canonica, e con molta circospezione mi annuncia il mio arresto. Subito non comprendo, poi penso alla causa. Il generale Radgh il 6 dicembre, in Rai, aveva fatto firmare da un suo subalterno il mio passaporto per Vittorio Veneto; poi il medesimo generale partiva per Lutrano, e veniva sostituito da un altro comando, al quale io non feci vedere il passaporto, e il martedì successivo, 11 dicembre, andavo a Vittorio Veneto, poi a Cappella Maggiore, e quindi ritornavo a Vazzola, a Rai e a Tempio tranquillamente. Si credette, dal nuovo comando, ch’io fossi paroco di Rai, e che mi fossi allontanato dalla parocchia senza passaporto. Alle ore 17, dunque, del 13 fui condotto in casa Mozzetti, mi si scaldò una stanza; più tardi mi si permise che Don Giovanni Rattin, cappellano di Vazzola e Don Amerigo Garbuio, paroco di S. Michele, mi portassero un po’ di cena, mi facessero compagnia per un’oretta, e che il profugo di S. Michele di Piave, Francesco Berna, mi si portasse un materasso per dormire la notte… A mezzodì Don Amerigo mi portò un po’ di cibo per desinare e mi avvisò che alle tredici l’arciprete di Vazzola ed io saremmo andati a Rai, da quel comando. Di fatto carrozza e cavallo erano pronti all’ora stabilita: l’arciprete mi aspettava e fra due angeli custodi a cavallo andammo a Rai, dove quel colonnello, visto il mio passaporto firmato in piena regola, si accontentò di dirmi che avrei dovuto avvisarlo prima di allontanarmi dal paese. Risposi che, se avessi saputo ciò, l’avrei fatto; e fui rimesso in libertà. Ma intanto che notte! quanti timori! quanti esami di coscienza! quali meditazioni sulla morte! Fu spontanea la asserzione: maledetta sorte! Sotto gli italiani eravamo segnati a dito come austriacanti, sotto i Tedeschi lo siamo come spie italiane! DON AMERIGO GARBUIO - Continuarono, anche in questo periodo, le ruberie, da parte dei soldati, col tacito consenso, se non l’approvazione dell’autorità superiore. Per impedire l’ultima rovina della popolazione, le autorità ecclesiastiche e civili di Vazzola decisero d’inviare un memoriale al Comando Supremo dell’armata: specificarono le violenze commesse contro le proprietà private e si richiesero, d’urgenza dei provvedimenti. - Il memoriale non ebbe l’onore di una risposta! La popolazione rimase abbandonata nella sua angoscia: la fatale cappa di piombo continuò a gravare sopra i nostri connazionali. Si riferisce a questo periodo di tempo un episodio raccolto a Vazzola dal cav. Car- Palazzo Mozzetti 42 43 lo Magello; non è un episodio di violenze compiute in grande stile, ma un episodio sintomatico delle vessazioni continue a cui le nostre famiglie erano esposte da parte di elementi indisciplinati dell’esercito nemico. - Lo riproduciamo nella sua integrità: “ Siamo nei primi giorni, dopo l’occupazione; in un casolare di campagna. – “Dove tabacco?!! Avere vostra casa tabacco! E dare tabacco!” – così ripeteva eccitato un soldato tirolese ad una donna sorpresa in cucina con un bambino ammalato. – “Volere tabacco!”, insiste il soldato, agitando una di quelle grandi pipe tirolesi in majolica, che portano l’effige di Francesco Giuseppe e lo stemma imperiale. - La donna, sollecitata dalle imposizioni del soldato, ricordò che il marito aveva lasciato in un armadio della stanza coniugale, del tabacco, e si precipitò a prenderlo, anche… per liberarsi da quella visita poco gradita. Ritornata in cucina, con sua viva sorpresa non trovò più il soldato tirolese, né… la pentola al fuoco, dove stava rinchiuso un pezzo di carne. Si portò alla porta, e vide, in distanza il soldato che rivolgendole un sogghigno beffardo, agitava, quasi trofeo, la pentola rubata in quella povera casa. - Naturalmente, quel giorno, il bambino ammalato non gustò una goccia di brodo”. Verso la fine del mese di dicembre cessarono i ladrocini privati e si iniziò la serie di requisizioni ufficiali: se ai primi qualche volta era possibile porre un riparo, per le seconde tutte le cautele si resero inutili. - Lo spettro della fame cominciò a mostrarsi a quel popolo prigioniero, oppresso, già da due mesi. Macellazione di maiali per sfamare le truppe nemiche 44 Fatto più odioso, i gendarmi austro-ungarici, in queste ripetute perquisizioni, erano accompagnati da interpreti del paese: persone obbligate, costrette spesso ad un servizio così ignobile, e qualche volta gareggianti col nemico nell’angariare le povere famiglie! Ogni resistenza provocava le chiamate al Comando, le punizioni, le multe, le minacce di pene maggiori: fu il tormento più grave per i nostri invasi! Il nemico non fece mai mistero delle sue intenzioni: Il Comando di Tappa impose a Vazzola la pubblicazione, in chiesa di un manifesto che diceva semplicemente così: “I borghesi nulla aspettino dal nostro Governo, si rassegnino a patire la fame!”. – I fatti confermarono quella che sembrava appena una minaccia, e la trasformarono ben presto in una tristissima realtà”. La popolazione si interessò per nascondere quanto era indispensabile per la vita. Fortunato chi potè vivere in casa propria; disgraziato il profugo che, avendo perduto tutto, nulla poteva nascondere, “e dovette vivere con la tessera, o industriandosi con le appropriazioni indebite”. In questi ultimi giorni del 1917 furono uccisi “gli ultimi animali bovini e suini, lasciati agli interessati dalle requisizioni: quella carne si conservò gelosamente come preziosa riserva per i giorni che ormai si avvicinavano più tristi e più dolorosi. Fu un’industria legittima: dove un vile delatore, indegno del bel cielo d’Italia, non denunziò al nemico le riserve accumulate, la vita si continuò meschina, ma non disgraziata; dove il tradimento, suggerito da antipatie personali, ebbe il suo predominio, trionfò la miseria, e allargò il numero dei rapitori e dei ladri”. A queste industrie si decisero di dedicarsi, una volta sola, anche i parroci di S. Michele di Piave e di Cimadolmo. L’impresa compiuta ebbe tutti i caratteri della comicità. — I due sacerdoti acquistarono un maiale a caro prezzo; lo fecero uccidere in aperta campagna per non eccitare l’allarme dei gendarmi austriaci, e poi si affidò a don Garbuio l’incarico di trasportare la vittima in canonica di Vazzola e di disporre per il confezionamento dei salsicciotti. — E don Garbuio fece sistemare quel maiale ucciso sul fondo di uno di quei calessi rustici che nei nostri paesi di campagna sono usati per raccogliere le immondizie delle pubbliche strade; la vittima fu coperta di foglie e di paglia, e il calesse affidato a due ragazzi del paese. Il veicolo si mise in viaggio, lentamente; un ragazzo, con un badile in mano, raccoglieva gli sterpi e le immondizie e le gettava sopra il calesse; l’altro ragazzo, impassibile, tratto tratto si fermava per ostentare la sua stanchezza, e poi riprendeva il suo viaggio. Pochi metri discosto, seguiva il veicolo don Garbuio, con l’aspetto dell’uomo indifferente che osserva che cosa succede d’intorno e spia intanto tutti i viottoli per assicurarsi che nessuna belva esca da un nascondiglio improvvisato per avventarsi 45 sulla preda. L’impresa riuscì: i gendarmi lasciarono passare indisturbati quei monelli, compassionando forse la miseria italiana: poche ore dopo in canonica di Vazzola si lavorava a salsicciotti e si rideva saporitamente sulla dabbenaggine teutonica. — Senza dubbio, se l’impresa non fosse riuscita, don Garbuio sarebbe stato colpito da una multa grossissima e avrebbe scontato in prigione il suo ardimento. Contrasto DON GIOVANNI DAL POZ - In piazza di Vazzola suona la musica. Il nemico ha fatto un’avanzata sul Piave. E’ in giubilo. Silla Facchin, da Cimadolmo, porta a Vazzola una bomba a mano, inesplosa, e gioca con essa nella cucina della famiglia, che lo ospita presso la chiesa; la fa scoppiare ferendo sé, la madre, il padre e la padrona di casa. Quale contrasto con l’allegria della piazza! Dopo qualche giorno il padre guarisce; dopo qualche settimana guarisce la padrona di casa, e la madre del ragazzo, dopo qualche settimana, muore a Mareno di Piave, in quell’Asilo Infantile, convertito in ospedale; mentre il ragazzo si vede amputare ambedue le mani. In questo tempo alcuni soldati stanno a nord-ovest della canonica di Vazzola guardando in alto e, a un certo momento, battono le mani. Hanno assistito a un duello tra due aeroplani, e gioiscono per l’incendio di uno che sta per cadere: lo credono italiano. Mi fermo. L’aeroplano precipita presso di noi. Subito impartisco l’assoluzione sotto condizione al disgraziato aviatore, nella speranza che sia cattolico e ancor vivo. Ma i battimani cessano, e la gente ivi radunatesi viene allontanata quando i soldati si accorgono che l’aviatore è un tedesco, sformato, rotto lo stomaco, nel quale si vedono fegato, cuore, polmoni e il cibo dell’ultimo pasto. Mi ritiro piangendo in cuor mio l’animo cattivo di quei soldati… Silla Facchin, da Cimadolmo profugo a Vazzola, con le mani amputate 46 “ D I Q U A D I L A’ D E L P I AV E ” di Mario Bernardi, ed. Mursia, 1989, pag. 46 - 49 In t e r v i s t a a d El i s a Fa g n o l «All’epoca dell’invasione avevo tredici anni. Un’età giovane, ma sufficiente a tener fissi i ricordi nella memoria, di quei giorni in particolare, perché alla paura si aggiungevano la fame e la disperazione di mia madre che si trovava a dirigere da sola una famiglia numerosa come la nostra. Mio padre era al fronte e di lui non si avevano notizie da più di un mese, perciò non potevamo neanche sapere se era morto o vivo. Visnà è un piccolo paese di circa 1200 abitanti; chi poteva, ma furono pochissimi, se n’era andato oltre il Piave. Avevamo notizie da Oderzo e da Conegliano dove sembrava che la maggior parte degli abitanti avesse abbandonato la città, ma nel nostro piccolo borgo ci sentivamo abbastanza sicuri e mai avremmo immaginato che, proprio qui, si sarebbe consumato l’ultimo atto dell’estrema resistenza austriaca all’antivigilia dell’armistizio. Perciò ho scritto quella memoria su di un mio quaderno di scuola, perché volevo che si sapesse quanto grande fu il nostro patimento durato fino all’ultimo giorno del conflitto. Ma, andando per ordine, vediamo di rivivere insieme i primi momenti dell’invasione. Da noi arrivarono i germanici. Erano numerosissimi e molto organizzati. Mio padre esercitava la professione di falegname e di commerciante di legnami, ma avevamo anche una piccola proprietà a Rai, nei pressi di San Polo di Piave. Come ogni anno, le pannocchie erano accumulate nel granaio del nostro colono ed il vino era stato invece messo nella cantina di casa nostra in attesa di spartirlo col mezzadro. Arrivati i tedeschi, senza indugio decisero di installare le loro cucine proprio nel laboratoriomagazzino di mio padre, e noi sette fratelli con mia madre fummo relegati in due stanze insieme a mia nonna Elisabetta Fagnol e a mio nonno. Accatastati come le 47 bestie gli uni sugli altri, avevamo però la segreta speranza di poter almeno usufruire di qualche beneficio dalla cucina da campo tedesca. Qualcosa riuscivamo ad ottenere, ogni tanto, ma si trattava di briciole che mia madre riusciva a raggranellare per noi ed a trasformare in cibo che potesse sfamarci. La prima operazione della truppa d’invasione fu quella di sequestrare tutte le bestie nelle stalle dei contadini. In principio sembrava che permettessero l’uso di una Elisabetta Fagnol, prima a sinistra, e le sorelle Richetta, Rina, Lucia e Teresa 48 vacca per ciascun nucleo familiare ed allora ci fu possibile avere da una nostra zia qualche litro di latte e consumarlo con le poche scorte di farina da polenta che mia madre cucinava con grande parsimonia ogni sera, badando poi a dividere le porzioni con meticolosità. Ricordo gli occhi di mio fratello più piccolo che guardava questa polenta abbrustolire sulla graticola indicando con le sue manine alla mamma le fettine più grosse dicendole: mamma, questa e questa sono per me. E lei ad accarezzarlo e a dirgli di sì, mentre le si inumidivano gli occhi e ci guardava per capire se comprendevamo la sua disperazione. Come dicevo, erano appena arrivati, ma la loro organizzazione era tale che, ogni mattina all’alba, procedevano alla macellazione di maiali requisiti il giorno prima e trasformavano le carni in salsicce, badando di lasciare in disparte le parti migliori per la mensa degli ufficiali. Mia madre, altrettanto mattiniera, si avvicinava al caporale di cucina e qualche volta riusciva ad ottenere qualcosa. Soprattutto le scaglie di pelle e di ciccioli di grasso che in parte si mangiavano, in parte si trasformavano in grasso per fabbricare candele. Eravamo diventati tutti degli artisti in questo senso. Costruivamo gli stoppini attorcigliando il filo grosso in modo strettissimo e poi facevamo colare il sego liquefatto in uno stampo lasciandolo rassodare quanto necessario. Alla fine, purtroppo, si dovette ricorrere a questa scorta di candele per condire il radicchio e le altre poche erbe che riuscivamo a trovare nei campi. Ma loro, i tedeschi che rimasero a Visnà fino al febbraio del ’18, continuarono imperterriti i loro riti mattutini di preparazione delle salsicce, senza curarsi dei nostri sguardi e senza commuoversi. Cercammo di raggiungere il nostro patrimonio nel granaio del mezzadro a Rai ma ci fu negato il permesso perché si diceva che non era possibile avvicinarsi alla zona del fronte. Del resto il viaggio sarebbe stato inutile perché, come si seppe più tardi, anche lì erano arrivati i provvedimenti di sequestro fin dai primi giorni ed il nostro contadino era riuscito a salvare a malapena qualcosa per la sua famiglia. Poi lo avevano buttato definitivamente fuori di casa e trasferito in un paese del Friuli assieme agli altri del suo paese. Insomma eravamo soli e disperati. Anche il vino era sparito, e le galline e quindi le uova. Ci restava un po’ di latte che nostra zia ci passava ogni giorno e, in cambio, noi andavamo in cerca di fieno per la sua vacca che era tenuta ben nascosta e lontana dalle tentazioni dei nostri occupanti. La nostra bisnonna, che viveva in una casa vicina alla nostra, ci veniva a trovare e vedendo sempre la tavola vuota, si girava verso mia nonna e diceva: “Maria, perché no te va pi a botèga?”. Mia madre sorrideva e ci guardava con quei suoi grandi occhi. Le botteghe, come si sa, erano chiuse da un pezzo, e 49 l’ultima cosa che mi era successa di poter comprare era una scopa ed un pezzo di sapone. Ma erano passati già due mesi ed anche il radicchio di campo, che da noi cresce abbastanza rigoglioso d’inverno, era finito. I tedeschi no, loro avevano un grande magazzino viveri proprio nel centro del paese, e noi guar- I soldati austriaci mostrano soddisfatti gli animali requisiti Macellazione di bovini requisiti dal nemico 50 davamo scaricare grandi sacche di pane nero e tante scatolette di carne dentro a cesti di vimini, che venivano ammonticchiati gli uni sugli altri. Mia madre diceva: “Ma quel pan el se rovinarà!” e noi, che ormai ne avevamo dimenticato il sapore, soffrivamo con lei non meno che con i poveri soldati che anch’essi alle prese con privazioni sempre più dure stavano all’erta per vedere di far fuori qualcosa alla prima occasione. Infatti quest’ultima non mancò e fu una beffa crudele per tutti. Un giorno di febbraio arrivò una delegazione composta da un generale tedesco e da alcuni altri ufficiali germanici. Fecero aprire il magazzino e, subito, si udì un gran vociare di imprecazioni che sembravano bestemmie. Poco dopo gli ufficiali uscirono con il volto paonazzo seguiti da alcuni soldati che tenevano sulle spalle i grandi sacchi di pane completamente ricoperti di muffa. Mia madre, dalla finestra di cucina commentò: “L’avevo detto, il pane non si può conservare in un magazzino umido come quello. Guardate quanto ben di Dio hanno buttato via”. Fu scavata una grande buca ed il pane vi fu rovesciato dentro e sepolto senza indugio. Le scatolette di carne invece furono imbarcate su dei camion arrivati nel frattempo, ed al paese non restò che il sapore acre della muffa che aveva impregnato del suo odore i muri dello stanzone adibito a magazzino. La notte stessa però, si videro delle ombre di soldati annaspare nella terra fresca dove si era fatta la buca e tirarne fuori le pagnotte che vi erano sepolte. Le raschiavano con i coltelli e qualcosa restava. Osservandoli, veniva da pensare che era cominciata anche per loro la grande fame: l’avevamo già vista nei loro occhi ingordi, quando erano arrivati. Infatti non avevano esitato ad uccidere, com’era successo nei pressi di Motta di Livenza, per impossessarsi di un maiale e mangiarlo appena abbrustolito, riempiendosi la pancia fino a crepare. Quando le nostre scorte furono quasi esaurite, si seppe, miracolosamente, di un tale mugnaio di Lutrano che vendeva farina in cambio di oro. Si fece un consiglio di famiglia e si decise di mettere mano ai tre marenghi che mio padre aveva nascosto in un luogo sicuro prima di partire per il fronte. “Cominceremo con un marengo” disse mia madre, “e poi, se sarà necessario, andremo avanti anche con gli altri due. Sono sicura che, se vostro padre fosse qui, mi approverebbe”. Partirono, mia madre e mio fratello più grande, ed andarono a Lutrano a barattare questo marengo con trenta chili di granoturco. Ci andarono di notte seguendo sentieri di campagna sconosciuti e ritornarono a casa prima dell’alba portandosi sulle spalle quindici chili a testa di questo grano, sani e salvi. Avevamo tutti una grande contentezza per questo patrimonio che ci avrebbe consentito di avere polenta per una ventina di giorni, ma 51 c’era la preoccupazione del macinarlo senza destare sospetti e, soprattutto, del non farcelo sequestrare. Proprio in quei giorni però i tedeschi decisero di procedere all’ennesima perquisizione e, affamati com’erano, ci avrebbero sicuramente portato via tutto se lo avessero scoperto. Perciò mia madre, senza esitazione, trasferì il granoturco in tante federe e ci mise a letto in quattro facendoci passare per vittime dell’epidemia d’influenza che in quei giorni incominciava a dare fastidio e più avanti si sarebbe trasformata in una tragedia paragonabile ad un’altra guerra. Quando i soldati arrivarono a casa nostra, mia madre li avvertì che aveva quattro bambini ammalati e che se volevano avrebbero potuto vederli a rischio di prendersi il contagio. Così i soldati misero appena un occhio dalla porta socchiusa e, vedendoci pallidi e assopiti, ci lasciarono in pace e se ne andarono. La polenta comunque finì prestissimo ed io e mia sorella fummo costrette a deciderci di andare a lavorare nella costruzione di una piccola ferrovia che partiva dal deposito munizioni che avevano costruito a Visnà e proseguiva fino a Rai ed a San Polo di Piave. Ci davano una scatoletta di carne al giorno e qualche galletta. Noi eravamo un po’ ingorde e lavorando, si faceva molta fame. Ma pensavamo anche ai nostri fratelli più piccoli e portavamo a casa qualcosa anche per loro. Poi per fortuna arrivò la primavera, e tutti poterono saziarsi di erbe di campo e di fagiolini, patate e fagioli. I ragazzi si ingegna- vano con le trappole per gli uccelli ed andavano a pescare sul Monticano e noi, che avevamo passato l’inverno più triste della nostra vita, andavamo a cercar erba sui campi e mangiavamo frutti acerbi e fiori di acacia fritti con le candele di sego che ci erano rimaste. » 25 dicembre MARIA NARDI - Abbiamo avuto un Natale proprio da tempo d’invasione, senza suono di campane e senza la solita allegria che porta con sé tale solennità. Ieri sera si avrebbe creduto di passarlo meno male, anzi si vedeva con piacere che i «nostri padroni di casa», così adesso chiamiamo gli invasori, erano compresi della festa che si doveva celebrare il domani, ed a cena, in luogo delle solite baccanate, s’udiva un dolce suonar di violino. Ad un certo punto entrarono poi nella sala dei soldati camuffati da pastori, re Magi, e persino uno da Madonna, che portavano in processione una capannuccia e cantavano degli inni natalizi, con una certa aria che mostrava il loro sentimento religioso. La sala ornata con rami di pino e in un angolo aveva anche il tradizionale albero di Natale. Ahimé, pensai, forse lo avevano fatto tagliando uno dei pini del giardino! ma ormai si è abituati a perdere ogni giorno qualcosa! Stamane però, appena tornata dalla chiesa ebbi un annunzio che non mi aspettavo. Durante la notte erano state scassinate le porte della cantina dai militari che avevano portato via buona parte del vino rimasto: così tutta la giornata si passò tra andare a ricorrere al Comando e ricevere la visita di un gendarme che dovrà occuparsi per scoprire gli autori del furto... Gennaio Elisabetta Fagnol, prima a sinistra, al mare agli Alberoni (VE) 52 DON AMERIGO GARBUIO - Spuntò il 1918; spuntò in un’ombra di tristezza nuova. Il gennaio 1918 non apportò alcun miglioramento; la vita continuò con il suo sistema odioso, resa più grave dalle difficoltà del vettovagliamento. — Concentrato tutto il grano nei magazzini del Comando di Tappa col pretesto che si sarebbe attuato il razionamento regolare fra i borghesi, quel grano fu dispensato in gran parte ai soldati, dato in pasto ai cavalli, o spedito in Austria: a Vazzola si conservò quanto poteva bastare per una distribuzione giornaliera di gr. 120, per individuo, calcolando il vettovagliamento unicamente fino al 10 di giugno. Con quest’unica razione bisognava vivere. 53 Nel mese di gennaio don Garbuio potè visitare tutti i suoi parrocchiani concentrati in Vazzola e nei paesi circonvicini: la sua visita accrebbe le sue pene, ma riuscì di conforto a chi potè sentirsi rivolgere, in mezzo a tanti musi forestieri, una parola di compatimento. — Anche in questo mese di gennaio i Sanmichelesi, eludendo il controllo dei gendarmi, più volte si portarono alle loro case: in queste visite, sconsigliate sempre dal sacerdote, qualche nuova cosa veniva messa in salvo e nuove dirette informazioni si poterono avere sulle condizioni del paese. Ma queste visite, se portarono qualche vantaggio, causarono danni fatali: diverse persone rimasero ferite e tre incontrarono la morte, vittime della loro arditezza. — Fra le altre cose furono messi in salvo, nel gennaio 1918, oggetti appartenenti alla chiesa e che avevano assunto un uso del tutto nuovo. Perché gli Ungheresi, a S. Michele di Piave, si mostrarono geniali, di una genialità originale: in diverse trincee del Piave avevano sistemato, quale ornamento, le pianete rubate dalle chiese di S. Michele e di Cimadolmo; un piviale della chiesa di S. Michele servì di abbellimento per il ricovero di un ufficiale. Quel materiale, ridotto in condizione inservibile, fu strappato da quei ripostigli dai Sanmichelesi, e consegnato, in Vazzola, al sacerdote don Garbuio. — Nessuna meraviglia, del resto, di queste profanazioni: in altre località si fece qualche cosa di più. A Tezze di Vazzola, per esempio, un soldato fu veduto indossare una pianeta mentre accudiva, in cucina, alla confezione del cibo; altri Ungheresi fecero le mascherate per il paese, rivestiti di indumenti sacri; a Tezze pure furono scoperchiate le tombe dei sacerdoti, sistemate nell’interno della chiesa, come pure le tombe private del cimitero: si sperava trovare in quelle tombe nascosto qualche tesoro! Foto austriaca del 14 Febbraio 1918 dell’interno della chiesa di Tezze di Piave devastato dalle bombe Soldati nemici in un momento di festa, forse carnevalesco 54 Nel mese di gennaio il paese di S. Michele si poteva dire distrutto: dove non giunsero le granate italiane, giunse la rapina. Le case furono scoperchiate; le travi, le imposte, le finestre furono trasportate nelle trincee o abbruciate dai soldati per ripararsi dal freddo della stagione. Di tutto si cominciò a sentir penuria, perfino di candele, di olio e degli elementi più semplici per l’alimentazione: «Con il cerume raccolto nella chiesa di Vazzola si confezionarono le nuove candele per l’illuminazione». Don Garbuio si trasformò in fabbricatore di steariche, mentre in canonica di Vazzola si fabbricava, di giorno e di notte, clandestinamente, l’acquavite che poi si cedeva, di nascosto e a buon prezzo, ai soldati e ai borghesi. — Venne a mancare perfino il legname che era di prima necessità, e diverse salme furono sepolte senza cassa funeraria: la civiltà era retrocessa di almeno dieci secoli! 55 1 gennaio 1918 17 gennaio MARIA NARDI – L’inizio fu triste, i nostri inquilini chiusero il 1917 con una allegria rumorosa che non potevamo condividere e a mezzanotte suonarono i 12 tocchi con una campanella che papà ed io si sentì dal letto. Mentre salivo le scale m’incontrai con l’attendente ungherese, che di tutti quelli che sono in casa sembra il più cordiale con noi, il quale mi fermò facendomi gli auguri per il nuovo anno, ma mi disse: «Italia, niente pace». Purtroppo non vorrei che avesse ragione. MARIA NARDI - Si ode un rombo del cannone; si capisce che al Piave deve esserci stato un grande combattimento, e da quanto pare, favorevole agli italiani; così c’è speranza di vederli tra non molto nuovamente a Vazzola. Questi soldati, così si dice, devono tenersi, sia di giorno che di notte, sempre pronti alla partenza, cosa che non spiacerà loro troppo, perché non vedono l’ora sia terminata la guerra per far ritorno alle loro case. 3 febbraio 14 gennaio MARIA NARDI - Oggi giornata burrascosa. Vennero a requisirci 120 ettolitri di vino: caricarono tutta la mattina e torneranno per altri due giorni; mi faceva molta pena vedere il papà assistere a questa ingrata operazione ed ancora si diceva assieme: «Se poi ritornassero gli italiani e questi se ne andassero si lascerebbe loro portar via tutta la cantina!». MARIA NARDI - Abbiamo passato due giorni molto brutti, specialmente quello in cui fecero la requisizione della biancheria; il che rappresenta una bella perdita. Tutte le stanze furono visitate e convenne aprire ogni armadio e lasciar loro prendere quanto volevano, e come succede, s’aggiunsero alla requisizione i furti privati dei militari che sono i più pericolosi. Foto panoramica austriaca del 20 Marzo 1918 di Vazzola, probabilmente scattata dall’antica torre campanaria, nella quale all’estrema sinistra è visibile palazzo Nardi collocato al termine della via omonima 56 57 Io fui ancora abbastanza fortunata, perché avea ceduta la mia camera a papà che in questi giorni ha l’influenza e si trova a letto. Essi vedendo il mio papà a letto, ebbero un senso umanitario e si ritirarono, e così il mio corredo fu salvo! Non tutti in paese furono così fortunati, e tante povere donne sono rimaste senza la biancheria da cambiarsi, tanto che dopo questa requisizione, nel paese è entrato un senso di scoraggiamento e tutti temono che, se non si ritirano presto, ne abbiamo ancora a veder delle brutte. Ora raccolgono anche il granoturco per immagazzinarlo o distribuirlo più tardi a razione alla popolazione, ma sta a vedere se lo mangeremo noi! I soldati austriaci sono letteralmente morti di fame: chiedono una fetta di polenta con le lagrime agli occhi, tanto che i nostri contadini non sono capaci di negarla. Manca loro anche il fieno per i cavalli e li mantengono con le canne che ancora trovano per i campi. Intanto la distruzione continua. Già quasi tutti gli alberi del nostro brolo furono tagliati, le viti son tutte a terra, non parliamo delle piccole disgrazie, come quella dei fiori, che sono tutti stati gettati all’aperto, poiché della serra fecero una scuderia. granoturco prescritto dal comando nemico, e restano. Alle 9 Don Amerigo Garbuio parte per Coderno, paesetto sulla riva sinistra del Tagliamento; mentre il paroco di Cimadolmo resta a Vazzola per pochi giorni. NOTA – E’ necessario, prima di continuare questo diario, soffermarsi un poco per rendere grazie all’ospitalità al R.mo Arciprete di Vazzola, il quale si restrinse in canonica per dar posto a noi sacerdoti, che volle sempre con sé alla mensa. Mise quel luogo che rimaneva (la sala superiore e lo spazzacucina) a disposizione delle nostre sorelle, e ci animò sempre a confidare, e a sperare. Di lui, che passò poi a Vittorio, canonico e paroco della cattedrale, serberemo sempre grata, cara memoria, come di sacerdote illuminato, caritatevole e di costumi illibati. L’abbiamo avuto qualche volta nelle nostre canoniche e nelle nostre chiese ricostruite, per la S. predicazione di missioni: egli, rievocando con la sua presenza quei giorni, ci rinnovava i sentimenti di grato affetto, che s’era cattivato in quelle tristi circostanze. Quando le sorelle andavano trainando furtivamente al mulino un carretto con un po’ di granoturco, e i soldati rubavano l’unica risorsa di quei giorni: (avevamo comprato il granoturco a lire cinquecento il quintale); quando di 7- 8 febbraio DON GIOVANNI DAL POZ - Grandi ansie perché ci si dice che coloro i quali non avevano fatto il deposito di granoturco, conforme alle prescrizioni del comando nemico, devono partire. Mi ero fatto un dovere, a tempo opportuno, di convincere i miei parrocchiani di fare il richiesto deposito. Ed essi, con grande sacrificio, impegnando quanto avevano, persino il proprio oro, avevano consegnato al Comando il richiesto deposito di granoturco. 9 febbraio DON GIOVANNI DAL POZ - Alla mattina, per tempo, il capitano comandante del luogo di Vazzola ci chiama in piazza con i profughi là raccolti per la partenza e ci dice che o l’uno o l’altro (o il paroco di Cimadolmo o quello di S. Michele di Cimadolmo) deve partire. Celebriamo in fretta, e poi la sorte cade su Don Amerigo Garbuio perché vi è chi fa capire al Comandante che la maggioranza dei partenti appartiene alla sua parocchia, mentre il paroco di Cimadolmo tra i presenti non ne ha che pochissimi. Gli altri hanno fatto il richiesto deposito di 58 Profughi in partenza costretti ad abbandonare le proprie abitazioni 59 nascosto l’arciprete comperava carne di maiale o di mucca, e la distribuiva in granaio; quando i soldati venivano d’improvviso, magari di notte, a requisire, e portavano lo scompiglio e la disperazione, perché ci rubavano anche le uniche lenzuola, che avevamo sul letto, (e poi, magari, le spedivano nei loro paesi); quando notizie allarmanti si facevano correre sui profughi, era Lui, sempre Lui, il buon Arciprete di Vazzola, che veniva in nostro soccorso, e sollevava il nostro spirito depresso. Quella bella figura di sacerdote alto, magro, snello, aitante della persona, che non conobbe le paure dell’invasione e non fuggì; che affrontò i disagi e le umiliazioni di una barbara invasione per farsi tutto a tutti con sacrifici eroici, merita bene che sia ricordato e lodato da chi ne fu testimonio beneficato. La vita a Vazzola passò fra continue alternative di speranze, di delusioni, di paure, di requisizioni. Si potè fare anche un po’ di bene: confessare, predicare, proteggere i profughi, andar a trasportare, a mettere al sicuro il Santissimo e le suppellettili sacre dei paesi vicini. E s’era anche incominciata una specie di scuola apostolica, insieme con Don Giovanni Rattin, cappellano di Vazzola, per i poveri aspiranti rimasti con noi tra gli invasori. V’erano, fra gli altri… ai quali io mi ero impegnato d’insegnare italiano, latino, storia, geografia; e Don Giovanni Rattin greco e matematica. Ma l’uomo propone e Dio dispone. Don Giovanni Rattin fu ritirato tra i suoi nel Trentino; noi fummo sballottati altrove, e di scuola non si parlò più: per quei poveri aspiranti fu un anno di martirio sofferto con i propri cari nelle dolorose vicende della profuganza. 10 febbraio DON GIOVANNI DAL POZ - Il 10 febbraio il R. Paroco di Bibano mi scrive che ha “per tante ragioni, vero bisogno, anzi gravissima necessità” di un sacerdote; e soggiunge: “la invito la prego a venire”. E continua a scrivere che ha già ottenuto dal comando imperiale Austro-Ungarico il regolare permesso del trasferimento”, e nella speranza di salutarmi “personalmente” con i soliti convenevoli si firma: Don Giovanni Battista Cesa, parroco. La mia permanenza a Vazzola era divenuta difficile, perché mi s’era riconosciuto come un paroco delle rive del Piave, sospetto di non so quale possibile spionaggio. Il Sindaco di Vazzola, Sig. Nardi, e l’arciprete Don Domenico Zanette, mi proposero di chiedere al comando il permesso della mia permanenza a Vazzola per la predicazione della quaresima, e per cooperare, con l’arciprete, al ministero sacro. Ma pensa e ripensa ci siamo poi decisi, in pieno accordo, di lasciare che la Provvidenza mi guidasse per mezzo degli eventi e degli uomini. E mi decisi, con quanto dolore si può immaginare, di trasferirmi a Bibano. Il passaporto per me e per le sorelle, che conservo, porta la data del 12 febbraio 1918. Postazione italiana presso il Piave Viaggio dei profughi verso l’ignoto 60 61 DON AMERIGO GARBUIO - I primi giorni di febbraio si ripetè insistentemente la voce che tutti i profughi avrebbero dovuto allontanarsi dal settore di Vazzola. Preoccupato dalla notizia e constatato che “essa aveva il suo fondamento”, don Garbuio credette suo dovere informare i suoi parrocchiani e persuaderli ad una partenza clandestina, fino a Bibano, dove quel buon parroco aveva promesso alloggio, e dove poi egli stesso li avrebbe raggiunti. Non tutte le famiglie accettarono quel consiglio; la maggior parte preferì rimanere in sede, in attesa degli avvenimenti. Era un consiglio prudentissimo quello del sacerdote: la sua attuazione sarebbe riuscita facile per i borghesi, e assai più difficile per il sacerdote, controllato in tutti i suoi passi da un servizio speciale di vigilanza. Il 7 febbraio, don Garbuio e don Dal Poz furono chiamati presso il Comando di Tappa, e informati che la mattina del giorno 9 i profughi dovevano allontanarsi: uno dei due sacerdoti avrebbe dovuto accompagnarli. Non già per rifiutarsi ad una missione pietosissima, ma unicamente per esporre la realtà della situazione, i due sacerdoti osservarono che chiunque di loro fosse stato incaricato dell’accompagnamento, avrebbe dovuto abbandonare la maggioranza del suo popolo, disperso nei paesi circonvicini a Vazzola. Le giuste osservazioni non valsero. Motivazione della partenza: la mancanza di viveri a Vazzola; nei paesi più interni il vettovagliamento era fornito in misura abbondantissima e di- rettamente da Vienna! Nuova turlupinatura che nascondeva interessi personali! Molti profughi chiesero di essere lasciati in Vazzola, impegnandosi a vivere a proprie spese senza disturbare le autorità. Non si accettarono queste proposte e si vollero le prove: chi sapeva di poter vivere con mezzi propri per una lunga prigionia, poteva rimanere in Vazzola, purché avesse consegnato immediatamente, al Comando di Tappa, 52 Kg. di granoturco per ogni componente la famiglia. — II giuoco riuscì: diverse famiglie ottemperarono alla nuova disposizione, e furono, per il momento, rispettate; ma il giuoco aveva ottenuto un secondo effetto, doloroso anche per quei borghesi di Vazzola che desideravano la partenza dei profughi: l’autorità militare constatò che la popolazione conservava nascoste le sue riserve: il servizio di spionaggio si aumentò e le poche riserve caddero presto sotto la requisizione. Si ebbero delle eccezioni; ma queste non furono eseguite con quel senso di delicatezza che manifesta una cura speciale per i poveri o per gli ammalati: le eccezioni si fissarono in base alle relazioni più o meno lecite che i membri del Comando ungherese avevano con le famiglie stesse, dove qualche megera, snervata e ridicola, dal cervello di civetta, si prestava sorridente agli spasimi convulsi di chi tradiva i vincoli più puri della famiglia lontana! Furono due giorni nefasti il 7 e l’8 febbraio 1918. — II Comando si era accorto che alcune famiglie si erano improvvisamente allontanate per evitare le peripezie della nuova profuganza: la fuga si era effettuata di tutta notte, attraverso la campagna, sotto il pericolo delle granate o della cattura da parte dei gendarmi. Il fatto mise in allarme il Comando: gendarmi ed interpreti passarono di famiglia in famiglia ad annunziare che per il giorno seguente, 9 febbraio, alle ore 4 antimeridiane, era stata fissata la partenza di tutti i profughi. Non si accettarono scuse: chi non offrì il nuovo tributo imposto dovette allontanarsi. Nessun riguardo ai vecchi, agli ammalati, alle spose; uniche eccezioni, in quei momenti di confusionismo, poche famiglie che giunsero a tempo di far cadere una grossa mancia nelle mani degli interpreti, privi di coscienza. L’odiosità si rese subito nota in paese: un cumulo di improperi e di esecrazioni si riversò su qualche interprete italiano che tradiva, in un modo così infame, i suoi concittadini, ma nulla di più: il comandante si mostrò brutale con tutti quelli che si presentarono a lui per implorare pietà o giustizia: ancora una volta la camorra austriaca, associata alla camorra dei fedifraghi italiani, potè trionfare. Il giorno 8 e la notte che precedette la mattina del 9 febbraio passarono fra i preparativi: i profughi non poterono trasportare più di trenta Kg di materiale per persona, compreso, in questa cifra, il peso del corredo personale. Così tutto si dovette abbandonare nelle mani del nemico, e nelle mani... di qualche falso amico. La mattina del giorno 9, don Garbuio, celebrata per tempo la Messa, alle quattro antimeridiane si trovava nella piazza di Vazzola, trasformata in un vero campo 62 63 Pezzo di artiglieria italiana Come mai questo cambiamento di scena? E’ uno dei tanti misteri in cui fu gettato il parroco di S. Michele di Piave; mistero che noi non abbiamo potuto, né, siamo sicuri, potremo spiegare mai! Due gendarmi si portarono in canonica di Vazzola; presero le poche coperte e l’involto di biancheria di proprietà di don Garbuio, e così, senza il cappello, già perduto in S. Michele, con una semplice berretta a croce, in gran fretta, il sacerdote fu fatto salire, tutto solo, su di un carro militare, mentre Mons. Zanette e la sorella di don Garbuio piangevano disperatamente. La sig.ra Rosa Garbuio si fermò in casa canonica di Vazzola, perché il comandante l’aveva assicurata che il fratello sacerdote avrebbe potuto ritornare non appena i profughi fossero giunti a destinazione. Don Garbuio si allontanò da Vazzola con soli 70 parrocchiani e 200 profughi di altri paesi: la comitiva fu accompagnata da gendarmi a cavallo: «quasi fossimo veri delinquenti destinati all’ergastolo». — Quel giorno, attraversando varie posizioni, don Garbuio si incontrò con altri profughi di San Michele, che videro in quella lunga carovana la sorte che sarebbe stata riservata, quanto prima, anche a loro. Momento di pausa in trincea trincerato: in quella piazza potevano entrare i soli profughi a cui era stata imposta la partenza: gli sbocchi delle strade furono chiusi dai cordoni dei gendarmi armati. — « Una fila di carff austriaci è pronta per il trasporto. Eranvi là vecchi tremanti dal freddo, bambini piangenti, donne che imprecavano contro il Comando: a viva forza, quella notte erano stati sloggiati dalle case, senza concedere loro il tempo necessario per racimolare quanto si credeva più utile; da più di un’ora quei profughi stavano concentrati in piazza tormentati da un freddo che faceva rabbrividire, in pieno inverno, in attesa di salire in un vero convoglio funebre. Era uno spettacolo straziante: tutti piangevano, tutti imprecavano, nessuno si sentì l’animo di reagire». Il comandante decise che l’incarico dell’accompagnamento rilento dei profughi fosse affidato al parroco di Cimadolmo. Questi pregò, supplicò di non essere costretto ad abbandonare il suo popolo che in parte era concentrato a Vazzola; domandò di poter restare con i suoi parrocchiani nei paesi retrostanti; ogni scusa fu inutile: don Dal Poz doveva prepararsi alla partenza. —- Don Garbuio si tranquillizzò per un momento e si soffermò nella piazza per confortare i suoi parrocchiani, per assicurarli del suo interessamento; assicurò anzi che si sarebbe portato a Bibano per consolare la grande maggioranza del suo popolo che riteneva dover trovarsi in quella località. Quando era già mosso anche l’ultimo calesse, e don Garbuio aveva salutato, piangendo, gli ultimi partenti, commiserando con qualche amico quei disgraziati gettati in un modo così brutale nella via dell’esilio e della miseria, gli fu sopra il comandante ungherese che brutalmente gli gridò: « Deve partire lei! e non il suo collega di Cimadolmo! ». 64 11 febbraio MARIA NARDI - Stamane fu celebrata la messa in onore della Madonna di Lourdes e l’arciprete espresse l’idea di fare un voto alla Madonna: di costruire in paese una cappella, o meglio una imitazione della grotta di Lourdes, onde ottenere la pace presto. Il desiderio è tanto grande, che in poche ore l’arciprete ricevette più di ottocento lire di offerta». 13 febbraio DON AMERIGO GARBUIO - Arrivo a Bibano. 31 marzo MARIA NARDI - Pasqua. Però per papà e me è passata come un giorno usuale, chè in chiesa nessuno dei due potè andare e le campane non ci portarono alcun segno di Alleluia. Lessi delle vecchie lettere delle mie sorelle colle loro espressioni di fedi così consolanti, e questo fu il momento più consolante delle giornata. Feci regali d’ova a poche persone, chè quest’anno un ovo è un valore, ma pei bimbi, Caterina vi supplì con delle colombine. 65 1 aprile 16 giugno MARIA NARDI - Nessuno quest’anno ebbe voglia di fare uno dei soliti pesci. Era poi una giornata piovosa che metteva melanconia da sé sola. Quante volte lo zio avrà oggi pensato agli anni in cui veniva con noi a fare la seconda festa di Pasqua! Quando non dormo di notte cerco di immaginarmi come si troveranno i nostri di Oltre-Piave, ma di positivo non si sa nulla… MARIA NARDI - Ieri è scoppiata l’offensiva alle 2 di notte, ma già se ne era prevenuti e l’attendevamo tranquilli, perché si aveva fiducia che neanche stavolta il Piave sarebbe stato oltrepassato. Dopo le 2, si fu tutti svegliati dal tuonar dei cannoni, sentiti a distanza sufficiente per non prender paura, ma abbastanza vicini per far tremare tutti i vetri e dare un’idea di quanto sia terribile la guerra. L’indomani tanta gente era in strada di buon’ora e si spargevano ormai le novità sull’esito della battaglia. Chi assicurava che i tedeschi avevano oltrepassato il Piave, altri affermavano che erano stati fatti prigionieri dai nostri, insomma non si sapeva proprio a chi prestar fede. Alcuni dicevano, avviliti, che i tedeschi fossero ormai in cammino per Treviso. Papà invece era di opinione contraria, poiché le vedette italiane si scorgevano ancora vicine a noi e verso sera l’opinione generale fu, che ancorché i tedeschi avessero in qualche punto oltrepassato il Piave, fossero poi o stati fatti prigionieri o respinti dai nostri, tanto che si cenò abbastanza di buon umore, facendo l’augurio che la resistenza sul Piave fosse la riabilitazione della sconfitta di Caporetto. 21 giugno Così mons. Zanette racconta la fine di Maria Nardi: “La mattina volle andare in chiesa per far la Santa Comunione: Gesù l’aspettava per il supremo “Veni”. Pochi minuti dopo averlo ricevuto, ritornata al suo banco si sentì male. Se ne avvidero le persone vicine che, premurosamente accorse, la condussero in sacrestia. Inutili furono tutte le cure per rianimarla…”. Giugno DON AMERIGO GARBUIO Siamo a Vazzola, nei primi giorni del giugno 1918. — I primi giorni dell’in- Militari italiani con la mascotte in trincea 66 Pezzo di artiglieria nemico 67 vasione, gli ufficiali austriaci, avendo trovato abbondanza di viveri nei magazzini abbandonati dai nostri, affettavano un senso di disprezzo per la polenta, di cui si nutrivano le popolazioni rimaste invase. Quando furono consumate le riserve, e cominciò a scarseggiare il pane, la polenta fu presa in considerazione dai soldati e dagli ufficiali austriaci e germanici. Un colonnello, entrato un giorno in una casa di contadini nel momento in cui una piccola polenta veniva rovesciata sul tondo, fu attratto dalla gialla dea bergamasca. Estratto di tasca un po’ di zucchero, quel colonnello domandò altezzoso: «Voglio provare, se quella porcheria essere buona con zucchero!». — Ne mangiò una fetta bene inzuccherata; ne mangiò una seconda parimenti condita; ne mangiò una terza... senza zucchero, e poi se ne andò. — Un contadino, dopo un lungo sospiro, esclamò: “Mostro d’un tedesco! la ciamava porcheria... e co n’antra fetta el gavaria fato sparir tutta la polenta dal tagier!” D a “ L A B AT TA G L I A F I N A L E ” di Ernest C. Crosse, della 7a Divisione Britannica Tratto da “PIAVE MONTICANO TAGLIAMENTO” a cura di Giovanni Cecchin, Collezione Princeton, Cittadella, 1997, pag. 83 - 95 Durante la notte del 27/28 ottobre il ponte di Salettuol fu soggetto a un violentissimo bombardamento. La confusione causata da questo può solo esser capita da chi sa cosa sia il traffico in una strada principale a ridosso di una battaglia. Qui, oltre ad ambulanze, a convogli dei rifornimenti, a colonne delle munizioni, ecc., reperibili in tutte le strade dietro dove si combatte, c’erano molti carri con pontoni che occupavano gran parte della carreggiata. Quasi impossibile quindi il traffico nei due sensi. Da Treviso a Salettuol c’era una sola grande strada, ma come quasi dappertutto in Nord Italia essa era fiancheggiata da fossi. A complicare le cose intervenne il fatto che il XVIII Corpo d’Armata italiano schierato a Nervesa, non avendo raggiunto l’obiettivo di passare ivi il fiume, aveva ricevuto ordine di usare il ponte di Salettuol, per attaccare sulla sinistra delle truppe inglesi in direzione nord. Questa grossa unità italiana in movimento congestionò infinitamente di più il traffico. A un certo momento si progrediva al ritmo di un chilometro e mezzo ogni sei ore. Della nostra 7 a Divisione, per regolare il traffico, furono impiegati non meno di 100 uomini e l’ufficiale responsabile, magg. W. Wall, lavorò da matto, ma i suoi sforzi ebbero solo un successo parziale. Quando sopraggiunsero gli aeroplani austriaci, la strada verso il ponte era intasata dalla fanteria e le perdite causate dalle bombe furono terribili. Rimasero uccisi circa 50 italiani, e oltre 150 loro feriti passarono per la nostra Sezione avanzata di Sanità di Maserada. Il problema del traffico raggiunse il suo punto cruciale il mattino seguente, 28 ottobre, quando si ruppe il ponte. Ciò avvenne per due cause. La forza della corrente aveva gradualmente minato gli appoggi dei cavalletti facendoli sprofondare nell’acqua, e il rapido abbassamento della piena aveva fatto sì che la corrente colpisse i pontoni ad angolo acuto invece che a 90 gradi. Questo provocò la perdita di tre pontoni portati via dall’acqua, facendo così interrompere tutto il traffico. Riparare il ponte fu difficilissimo e per completarlo ci volle tutto il giorno. Un tentativo fatto dalla 528a Compagnia dei Royal Engineers di far navigare un pontone in posizione dall’isola Veneto non ebbe successo. Il pontone vorticò attorno a se stesso mille volte finché si capovolse. Due dell’equipaggio furono portati via dalla corrente e annegarono, gli altri furono salvati. A questo punto il nemico riprese a bombardare coi cannoni di lunga gettata. I tiri erano precisi, la prima granata cadde appena dieci metri oltre la testata del ponte. I Royal Engineers proseguirono 68 69 IL PASSAGGIO DEL MONTICANO comunque il lavoro come se niente fosse. Nel frattempo fu chiamata la 18a Compagnia italiana Pontieri e il ponte fu completato verso sera, costruito una trentina di metri più a sud, mentre se ne preparò un secondo usando quello già costruito per l’isola Veneto e congiungendo questa alla Grave di Papadopoli. In beata ignoranza di quanto stava succedendo alle loro spalle, ma che doveva farsi sentire nel mancato arrivo delle razioni, alle ore 12.30 le Brigate 20a e 91a si prepararono ad avanzare verso la strada Tezze - Rai, nota nella terminologia delle operazioni come la Linea Verde. Non si prevedevano difficoltà perché faceva già parte di uno schema d’operazioni del giorno prima e c’era stato tutto il tempo per organizzare l’attacco, e per di più le truppe erano su di giri per i successi già ottenuti. Sulla sinistra, dove i South Staffordshires e i Manchesters tenevano la linea, avvenne un fatto che causò grande eccitazione. Il ten. col. Oldham della 35a Brigata della Royal Field Artillery, non riuscendo a far passare le sue batterie attraverso il ponte, si era spinto in avanti in ricognizione. Imbattutosi in un cannone austriaco con munizioni, già preso d’assalto dalla fanteria, si offerse di metterlo subito in azione se gli fosse stato fornito chi l’avesse tirato in posizione. Dopo consultazioni con la 91a Brigata si decise di usare il pezzo per attaccare casa Grigoletto, una cascina isolata vicino a Borgo Zanetti, che si sapeva difesa da un certo numero di mitragliatrici. Questa casa era obiettivo assegnato al 22° Manchesters e perciò si chiese a un gruppo di suoi uomini di tirare il pezzo in posizione. L’attacco doveva Ponti di barche sul Piave per il passaggio delle truppe italiane all’attacco Truppe inglesi verso il fronte 70 71 Schieramento delle divisioni italiane e inglesi nel momento dell’avanzata in data 24 ottobre 1918 72 73 incominciare alle 12.30, ma per le 11.30 quelli del Manchesters non si erano ancora fatti vivi. Ne furono contentissimi gli Staffordshires, perché significava che potevano usare loro il cannone per attaccare Borgo Bellussi e si offrirono di mettere a disposizione gli uomini per trainare il pezzo in posizione. Ma appena in tempo arrivarono i Manchesters, che con molta difficoltà trascinarono il cannone in piazza di Tezze. Qui, per un pelo, l’intera avventura non ebbe prematura fine, perché piombò una granata austriaca che per poco non ammazzò tutti. No- nostante le difficoltà, il cannone fu comunque trascinato nella posizione voluta, a trecento metri dall’obiettivo, appena in tempo prima dell’attacco. Era un tiro diretto e tutti erano in attesa dello spettacolo. Ma pochi istanti prima di aprire il fuoco, gli Staffordshires, che dell’attacco avevano preso l’iniziativa, s’intromisero e catturarono l’obiettivo senza incontrare alcuna resistenza da parte della guarnigione. Fu una grande delusione per gli artiglieri... Anche la 91a Brigata raggiunse l’obiettivo assegnato senza incontrare eccessive Allestimento di un ponte di barche da parte degli inglesi Soldati inglesi si apprestano a gettare un nuovo ponte 74 Soldati inglesi impegnati nei lavori per ripristinare il passaggio del Piave da parte delle truppe alleate 75 Passaggio del Piave delle truppe italiane Foto aerea austriaca del 12 Marzo 1918 di Tezze di Piave nel tratto tra il centro e Borgo Malanotte difficoltà. Verso sera fu fatto avanzare dalla riserva il 2° Queens, che subentrò in prima linea. Sulla destra, la 20a Brigata, con il 2° Borders in prima linea, ebbe pure un compito facile. Dovettero spostarsi in avanti più degli altri, perché il giorno prima non erano avanzati come loro, ma la resistenza incontrata fu poca cosa. Venimmo a sapere che le truppe ungheresi, che la sera prima tenevano la strada Tezze - San Polo, erano state sostituite durante la notte da una Divisione austriaca Landsturm. Dalla nostra parte aveva attraversato il fiume la 104a Batteria dell’artiglieria divisionale ed era già entrata in azione a sostegno della 20a Brigata. Si ebbe un po’ di resistenza a Casa Vital e nelle altre vicine, ma i Borders ne ebbero subito ragione e per le ore 13.30 l’obiettivo divisionale era stato raggiunto in tutti i punti. A Rai furono liberati molti civili, che salutarono i liberatori con grande entusiasmo. Riporto un fatterello. Il gen. Green, cavalcando accompagnato da un interprete, fermò un civile e gli chiese dei suoi guai. Rispose che ne aveva patiti tanti, ma quello più brutto era la mancanza di tabacco da naso. Era la sua unica consolazione e non ne aveva da dodici mesi. Il generale, ch’era raffreddato, ne aveva in tasca e immediatamente gliene diede. « Oh, grazie, grazie, signore! Mille ringraziamenti» (in ital. nel testo, ndt) rispose l’italiano stupito. «Questi meravigliosi inglesi, di cosa non son capaci!» Col passar del giorno si decise di puntare in avanti al massimo, per sfruttare il 76 Foto austriaca del 3 Gennaio 1918 di Tezze di Piave, attuale via Duca D’Aosta 77 successo ottenuto e possibilmente per assicurarsi i ponti sul fiume Monticano prima che fossero fatti saltare. Furono quindi mandate avanti verso il fiume pattuglie per catturare i paesi di Vazzola e Visnà. Per via della rottura del ponte sul Piave non erano giunte le razioni e gli uomini erano affamati e stanchi, ma risposero con molta prontezza alle richieste loro imposte. Mettendo insieme informazioni raccolte dopo, sembra che gli austriaci, fallito il tentativo di tenere la linea del Piave, avessero deciso per una ritirata generale verso il Tagliamento; e per facilitare questo avevano dato ordine a una Divisione fresca di tenere le posizioni sul Monticano il più a lungo possibile per coprire la ritirata. Queste posizioni erano formidabili. Il fiume, sebbene allora non con acque profonde e largo appena una quindicina di metri, scorreva tra due argini artificiali molto alti, su entrambi dei quali erano state apprestate postazioni per armi da fuoco. Dietro il fiume c’erano numerose batterie di cannoni e davanti esistevano barriere di reticolati. Sulla destra, vicino a Visnà, c’erano i peggiori sbarramenti che avessimo mai incontrato in Italia. Sul nostro fronte divisionale solo due ponti attraversavano il fiume: uno dietro a Vazzola, di fronte alla 91a Brigata, l’altro verso Visnà, di fronte alla 20a Brigata. Erano stati tutti e due minati. A parte gli argini, tutto il terreno attorno era piatto, folto di vigneti e solcato da fiumiciattoli, molti dei quali veramente profondi e più grandi di quanto non apparissero dalle mappe. Trovammo in particolare difficile guadare il Favero e il Piavesella, che sebbene senza argini artificiali avevano più acqua del Monticano. Per impedirci di osservare queste posizioni, gli austriaci presero il coraggio a due mani e il 28 fecero saltare i campanili di Vazzola e di Visnà. Questa distruzione, che avrebbe provocato nei tedeschi autentica gioia, deve invece aver causato agli austriaci le pene dell’inferno. Se questo sia stato perché nell’esercito austriaco c’erano molti, come i Tirolesi, tra i più devoti cattolici di tutto il mondo, o perché temessero il potere politico del Papa, non lo sappiamo. È comunque certo che l’esercito austriaco mostrò di gran lunga più rispetto per gli edifici sacri dei tedeschi; e dopo venimmo anche a sapere che durante i dodici mesi di occupazione, la casa del prete era stata riconosciuta come una specie di santuario, esente quindi da requisizioni e saccheggi. Il vecchio sacerdote (in ital. nel testo, ndt) deve aver allora goduto di grande popolarità. Anche in altri paesi la casa del prete funzionò come deposito di qualsiasi cosa i civili volessero salvare dalle grinfie degli invasori. Non c’era comunque alternativa: decisi a tenere la linea del Monticano, non restò agli austriaci che distruggere i due migliori osservatori della zona, i campanili. Quando arrivammo noi, erano un cumulo di mattoni e calcinacci. Il primo inglese a entrare a Vazzola pare sia stato un solitario cavaliere che spuntò col suo destriere in piazza, rivoltella in mano, verso le ore 14 del 28 ottobre. La piazza era allora zeppa di fanti austriaci e carriaggi che si preparavano a ritirarsi. Il cavaliere, probabilmente un esploratore del Northamptonshire Yeomanry, cavalcò verso di loro, e senza tante storie l’intero gruppo si arrese. Lui, per niente Foto aerea del 18 Marzo 1918 di Tezze di Piave; in primo piano al centro i resti della chiesa e del campanile La ritirata dell’esercito nemico 78 79 sorpreso, incominciò a radunarli sbraitando e abbaiando ai loro calcagni come un buon cane pastore. A qualcuno degli austriaci venne fatto di constatare ch’egli era solo, uno contro trecento, per cui due «eroi» di quella marmaglia incominciarono a caricare i fucili. Non avendo alcuna possibilità contro questo imprevisto, l’inglese diede di sprone al cavallo, sfrecciò dietro la chiesa e sparì dall’orizzonte come una saetta. Così mi narrò uno di Vazzola presente al fatto. Una pattuglia del South Staffordshires entrò in paese nel tardo pomeriggio, imbattendosi, pare, nella coda della colonna di trasporto che stava ritirandosi. Presero sette cavalli e ritornarono cavalcando trionfanti verso le nostre linee. Far da pattuglia, quel pomeriggio, poteva essere divertente, e i volontari non mancarono, ma un gruppo verso sera fu bloccato alla periferia del paese e dovette ritirarsi. Ricevuto ordine di premere contro il Monticano, nella notte tra il 28 e 29 ottobre la 91a Brigata si preparò ad avanzare: il South Staffordshires a sinistra, il Queens a destra, il Manchesters di supporto. Non si incontrò resistenza. Parecchi austriaci, che ovviamente non avevano ricevuto ordine di ritirarsi o avevano deciso di arrendersi, furono catturati mentre dormivano. Verso l’una del 29, Vazzola fu definitivamente liberata e rastrellata da pattuglie del South Staffordshires. Erano tutti stanchi e coi piedi doloranti. Uno dei civili, che sapeva che le sofferenze erano ormai finite, offerse ai liberatori l’ultimo cibo che aveva. Gli austriaci avevano requisito gran parte del grano che era stato raccolto, e negli ultimi giorni avevano razziato al massimo. Un vecchio, con le lacrime agli occhi, spiegò dopo che il nemico, semplicemente per dispetto, gli aveva avvelenato il suo cane da caccia, un pointer, la cui pelle impagliata era ora appesa in cucina a seccare. «Tutto rubato» (in ital. nel testo, ndt) continuava a ripetere a chi gli chiedeva della sua proprietà. Mentre a Vazzola uomini della 91a Brigata si davano da fare per tirar giù dal letto civili italiani e soldati austriaci troppo pigri per ritirarsi, sulla destra, di fronte alla 20a Brigata, succedeva qualcosa di grave. Sembrava che gli austriaci avessero già fatto schierare sul Monticano la Divisione fresca per tenere la linea. Dopo un’avanzata senza incidenti sulla strada Rai - Vazzola avvenuta nel pomeriggio del 28, durante la notte del 28/29 una nostra pattuglia di due ufficiali e due plotoni furono mandati in avanti verso il Monticano. Raggiunsero il paese di Visnà, dove non incontrarono alcun nemico, e proseguirono verso il fiume. Il terreno appena fuori del paese è più aperto ed è solcato da parecchi corsi d’acqua molto larghi e profondi. Il più grande di questi tra Visnà e il Monticano è il Favero, facilmente scambiabile col Monticano stesso, non apparendo neppure sulle mappe. Sarebbe stato meglio se il gruppo si fosse fermato per la notte a Visnà e avesse solo mandato avanti verso il fiume una pattuglia in perlustrazione. Ma è facile esser saggi dopo i fatti. Comunque, dopo un affrettato rastrellamento del paese, il gruppo procedette oltre. Raggiunta casa Grison, un piccolo fabbricato a circa 200 metri dal Monticano, incontrarono il nemico. Fecero un coraggioso ma inutile tentativo d’irrompere sul ponte. Gli argini del Monticano erano presidiati in forze e, a eccezione della breccia per la strada, tutto il terreno attorno era una selva di reticolati. 80 81 Lasciando alcuni uomini a coprire il suo fianco sinistro, l’ufficiale in comando si mosse in perlustrazione verso destra. Fu spedita indietro una staffetta per riferire della situazione al Comando di battaglione, ma questa poco dopo tornò indietro con l’informazione che Visnà era fortemente in mano del nemico. Furono allora inviate tre ordinanze con lo stesso messaggio e fu loro consigliato di tenersi alla larga dal paese. Solo una riuscì a passare e le altre due furono uccise. Verso l’alba il nemico incominciò un movimento di accerchiamento di casa Grison. L’ufficiale inglese in comando decise di ritirarsi un po’ e prendere posizione dietro il fiume Favero. Ma qui si trovarono in condizioni ancor peggiori, soggetti in campo aperto a fuoco da tutte le direzioni. C’erano già stati parecchi morti e sembrò improbabile che qualcuno sarebbe rimasto vivo se avessero continuato a resistere. Sicuri che sarebbero stati liberati entro pochi giorni, l’ufficiale decise per la resa. Una decisione forse discutibile, ma va sottolineato che l’ufficiale in questione aveva dato molte altre volte prova di coraggio e che il suo battaglione in tutta la guerra non fu mai secondo a nessuno. Il destino di questi due plotoni rimase allora sconosciuto, e gli austriaci, alle tre del mattino, si ritirarono quasi tutti di là del Monticano. Alle 8.30 di quel 29 il resto della Brigata continuò ad avanzare. Sulla sinistra non s’incontrò alcuna opposizione sino alle rive del Monticano e anche Visnà fu occupata facilmente. Sulla destra, con le Compagnie «A» e «B» dei Borders schierate in prima linea, fu incontrata parecchia resistenza nell’attraversamento del Piavesella e vicino a Fontanellette. Molto difficile fu pure rimanere in contatto con gli italiani più a destra. Essendo la riva orientale del Monticano ancora in mano agli austriaci, fu deciso che l’avrebbe attaccata la Compagnia «D» dei Borders alle ore 18.30, dopo un bombardamento da parte dei nostri cannoni e di quelli italiani che avevano preso posizione a Visnà. Non appena queste batterie aprirono il fuoco, gli austriaci replicarono con violenza, bombardando Visnà coi loro cannoni dislocati a Fontanelle. I civili che avevano rifiutato di lasciare il paese ebbero anche loro parecchi morti. La chiesa al centro fu ridotta a un cumulo di macerie. L’unica parte rimasta in piedi fu la facciata a occidente su cui appariva la scritta Beata, Pacis Visio (Benedetta la visione della pace). È sorprendente che, dopo tutte le battaglie che la 20a Brigata aveva sostenuto, questa scritta apparisse nell’ultimo villaggio dell’ultima battaglia di tutta questa guerra. Poco prima che fosse decisa l’ora esatta dell’attacco, era giunto dal Comando di divisione il magg. Lawrence per dire che, se si prevedevano molti morti, bisognava rinunciare all’attacco. E ancora, siccome la 91a Brigata aveva sofferto molte perdite, essa sarebbe stata sostituita dalla 22a Brigata, e probabilmente nel giorno seguente la 20a Brigata avrebbe dovuto fare da supporto alla 22a.. L’attacco fu perciò cancellato e furono prese le misure necessarie per cedere il fronte della 20a Brigata agli italiani. Questo avvicendamento avvenne durante le prime ore del 30 ottobre, col passaggio in prima linea dei Reggimenti italiani 267 e 268 (brigata Caserta, della 31a Divisione), mentre la nostra 20a Brigata fu ritirata, pronta però a passare il fiume sul ponte di Vazzola - Cimetta il mattino seguente. Grazie alla balordaggine militare del nemico, il ponte tra Vazzola e Cimetta non era stato fatto saltare. Era stato minato ed era stata sistemata anche la miccia tra i due argini. Bastava solo un fiammifero per distruggerlo. Per nostra fortuna, il tizio che aveva messo la miccia era un pazzo e quello che doveva accenderla un vigliacco. Un minimo di previdenza avrebbe dovuto indurre Monumento in ricordo dei caduti inglesi a Salettuol 82 83 Foto aerea austriaca, del 18 Marzo 1918, del centro di Visnà a Maserada sul Piave il primo a tirare la miccia sino a dietro l’argine orientale, così da poterla accendere all’ultimo momento in piena sicurezza. A quanto pare, questa intuizione era al di sopra del suo comprendonio, col risultato che per accendere la miccia bisognava arrampicarsi per il primo argine e scendere nel greto del fiume. Ciò che presumibilmente avvenne è che quando questo avrebbe dovuto esser fatto, ci fu da destra e da sinistra una certa attività di «cecchinaggio», tanto che al tizio incaricato di dar fuoco alla miccia venne la tremarella e decise di non scendere dall’argine per non prendersi una fucilata. Carica esplosiva, detonatore e miccia erano perfettamente in ordine, come potè controllare lo stesso comandante dei Royal Engineers. La sopravvivenza di questo ponte fu per noi della massima importanza. Ci sarebbe voluto un sacco di tempo per ricostruirlo, e addio allora per parecchio ai nostri trasporti su ruota. Un grazie quindi sentito a questi «gentiluomini» austriaci da parte dell’Esercito britannico! Di questi «pazzi» non ne esistevano certo tra i tedeschi. Il mattino del 29, quando la 20a Brigata era impegnata nell’azione già descritta e con davanti il ponte interrotto sulla strada Visnà - Cimetta, la nostra cavalleria informò che l’altro ponte, quello sulla strada Vazzola - Cimetta, era intatto e che gli austriaci si erano ritirati dal Monticano. (Probabilmente si erano ritirati quelli che presidiavano il ponte e che furono poi sostituiti dalla Divisione fresca). Fu quindi dato ordine alla 91a Brigata di fare da avanguardia premendo verso Codogné, con il 2° Queens in testa guidato dal ten. col. H.D. Carlton, i Manchesters sul fianco destro e i South Staffordshires di supporto. Si erano uniti alla Brigata anche la nostra 104a Batteria divisionale e una Batteria italiana da montagna. Avanzando sulla strada Vazzola - Cimetta verso il fiume, la colonna si trovò in difficoltà. A quanto pare, durante la notte il nemico era ritornato sull’argine del fiume (con la Divisione fresca) intenzionato a coprire il grosso della ritirata. La strada, ch’era considerevolmente più alta del terreno circostante, fu soggetta a fuoco vivace di granate e investita da raffiche di mitragliatrici. L’artiglieria fu impossibilitata ad avanzare e la fanteria si buttò al riparo dentro i fossi laterali. I Manchesters sulla destra, dispiegati a circa trecento metri a est di Vazzola, si fecero gradualmente sotto in mezzo alle vigne verso il fiume. Qui il nemico oppose resistenza dall’argine orientale. Fu molto difficile prendere d’assalto la posizione perché bisognava arrampicarsi sul primo argine ad appena venti metri dal nemico e sotto il naso dei suoi fucili e mitragliatrici. L’unico terreno protetto era il greto stesso del fiume. Qui le due parti si affrontarono per un po’ solo separati dalla stretta corrente e dai due alti argini. A un certo punto gli austriaci decisero che ne avevano avuto abbastanza, e parte si ritirarono verso Cimetta, parte passarono di qua del fiume con le mani in alto. Così aiutati dai Manchesters, i Queens forzarono il passaggio attraverso il ponte e avanzarono verso Cimetta. Dapprima tutto procedette bene e raccogliemmo in giro per le case moltissimi prigionieri. Ma il nemico osservava tutti i nostri movimenti dal campanile di Cimetta, un magnifico posto di osservazione. Le truppe d’attacco dovettero farsi strada in mezzo alle vigne, che non permettevano alcuna vista, e dovemmo anche prendere parecchi fiumiciattoli che gli austriaci avevano usato come trincee. Per di più, il nostro fianco destro era completamente scoperto, essendo la 20a Brigata ancora bloccata sul Monticano. Vedendo che le truppe avanzavano disorganizzate, il nemico incominciò a uscire da Cimetta e ad attaccarci da quel fianco esposto. I Queens ebbero parecchie perdite e per un po’ l’avanzata fu bloccata. Era soprattutto la fatica che ci minava. Gli uomini non avevano decentemente dormito da una settimana e quel giorno eravamo ancora senza razioni. Si diede allora ordine ai South Staffordshires di rinforzare ed estendere la linea di attacco, e ad essi si unirono anche una cinquantina dei Manchesters già prima intrufolatisi tra di loro. Questo nuovo dispiegamento fu attuato con una certa difficoltà a causa di un nutrito fuoco cui tutta l’area fu esposta. Nel primo pomeriggio, comunque, si riprese l’attacco, coi Manchesters sulla riva del fiume che proteggevano il fianco destro. Ne risultò un vivace scontro. La Batteria italiana da montagna colpì il centro di Cimetta, e anche la nostra Batteria 105 si mise a sparare dai campi più a destra. Ad esse si unì pure la Compagnia «A» del nostro 7° Mitraglieri che crivellò il paese di pallottole. Sotto questa combinata protezione avanzò la fanteria. In quanto all’artiglieria austriaca, essa fu tutt’altro che inattiva. Un comandante di Compagnia dei Manchesters fu ucciso. Altri dieci segnalatori caddero vicino al Comando della 91a Brigata, per non dire di altri ancora caduti altrove. Anche il comandante della 105a Batteria fu ferito. Le truppe d’attacco balzarono allora in avanti con grande impeto. Sulla nostra sinistra stava intanto convergendo su Cimetta anche l’altra nostra Divisione, la 23 a . E infine ci fu la bella impresa del capit. F.A. Kendrick, del 1° South Staffordshires. Ferito alle braccia e rifiutando di essere sostituito, guidò i suoi uomini all’attacco e catturò una casa vicino alla chiesa ch’era il fulcro della resistenza. Il paese fu così conquistato e furono fatti molti prigionieri. Il nemico non contrattaccò ma si limitò a bombardare la posizione. Una serie di avamposti furono scavati poco oltre il paese, e i soldati, infreddoliti e stanchi, vi si acquattarono in attesa dell’alba. Questa cattura di Cimetta il pomeriggio del 29 ottobre fu l’ultimo combattimento in cui fu impegnata la nostra Divisione. Il nemico aveva sperato di tenere il Monticano per almeno due giorni, per proteggersi la ritirata, ma la cosa non gli riuscì, e da questo punto in avanti la sua ritirata divenne una rotta. Vincemmo la battaglia non senza aver molto lottato. 84 85 I Queens, che ebbero le perdite maggiori, contarono 21 morti. Per le perdite subite e per la fatica degli uomini, quella notte stessa fu giudicato conveniente dare il cambio alla 91a Brigata con la 22a. Con enorme soddisfazione di tutti arrivarono le razioni, compreso il rum. Sono del parere che nella 91a Brigata quella sera, di astemi, ce ne siano stati pochi. A sera già inoltrata, giunse a cavallo a Tezze il generale Shoubridge comandante la Divisione, che fece visita alla 22a Brigata nei campi lì vicino e che era in procinto di mettersi in moto per Cimetta. Gli uomini gli si affollarono entusiasti intorno e appresero da lui le ultime notizie sulla battaglia. «Dovete solo marciare come dannati e la guerra è vinta» concluse. Una previsione azzeccatissima. «Era la sera del 28 ottobre 1918. Dopo aver veduto per quattro giorni un continuo passaggio di truppe tedesche che si ritiravano dal fronte del Piave, comincia la notte farsi seria. La natura stessa pareva ci dicesse: preparatevi ad una terribile scossa. Saranno state le quattro pomeridiane, quando cominciammo ad avere paura. Le strade e la piazza erano quasi deserte, si vedeva soltanto qualche monello, che andava qua e là per prendere le tavole lasciate dai tedeschi e qualche gruppo di soldati, che con piccolo mistero preparavano dei tradimenti, qualche altro invece per darsi prigioniero. Per esempio, quattro soldati che erano da un pezzo fermi in piazza, hanno messo dell’esplosivo fra le macerie del campanile atterrato dalle bombe e dalla mina. Noi, senza essere veduti abbiamo osservato che fu molto bene per i soldati italiani. In quel che di misterioso era una malinconia insuperabile. Noi eravamo chiusi in una stanza a pianterreno perché aveva le mura più larghe delle altre; si usciva soltanto per prendere quel po’ di mangiare che si aveva in cucina, eravamo accovacciati tutti vicini, i fratellini piccoli piangevano di paura, la nonna dormiva di un sonno provvisorio, e noi più grandi si parlava con la mamma di un triste avvenire. Però in fondo a quella tristezza, un raggio di speranza ci consolava, pensando alla venuta dei nostri cari. Eravamo così silenziosi che si ascoltava qualche monotono rumore, quando sentimmo un passo non tanto lontano che non era di uomini; allora più attenti ascoltammo. Il fratello aprì il balcone, e la mamma sotto voce gli diceva: chiudi, perché possono vedere il lume e sparare dubitando qualche tradimento. Ma lui non poteva trattenersi, perché sperava che fosse qualche italiano, per avvertirli della bomba nascosta sotto le macerie, e dei tanti soldati tedeschi Evacuazione di Visnà ordinata dalle autorita’ militari austro-ungariche Concerto della banda austriaca in piazza a Visnà “ P I C C O L I R I C O R D I D E L L’ I N VA S I O N E T E D E S C A ” di Elisa Fagnol tratto da “DI QUA DI LA’ DEL PIAVE” di Mario Bernardi, ed. Mursia, 1989, pag.175–180 86 87 Avanzamento progressivo dell’esercito italiano dal 24 ottobre al 4 novembre 1918 88 89 nascosti in chiesa, salta fuori. Ma quasi subito entrò contento perché aveva scoperto che nella via Luminaria erano due cavalleggeri e parevano cioè nostri italiani. Di nuovo chiudemmo il balcone, ma con l’orecchio sempre teso li accompagnammo fin dove potemmo. Poi si fermarono e abbiamo sentito due colpi di fucile. Un brivido ci è corso per la pelle; il fratello voleva andare a vedere ma la mamma non lo permise. Sicché eravamo agitati, il nostro cuore batteva forte, forte, non so perché, forse di speranza, forse di paura. Intanto la notte scendeva e la malinconia aumentava. Tutta la notte passammo così. Parlando di cose serie e ascoltando al di fuori. E non si udiva altro che qualche colpo lontano lontano che pareva ci dicesse col suo misterioso pon-pon: preparatevi che presto verremo a liberarvi e a sfamarvi. Noi si ascoltava quel rumore quasi contenti, ma una inquietudine ci turbava, e si temeva il prossimo avvenire, perché prometteva veramente male. Sicché dopo una notte brutta brutta, giunse il mattino freddo, nebbioso, malinconico. Se ci fosse stato il sole col suo tepido raggio, ci avrebbe animati, incoraggiati, avrebbe cacciato un po’ di malinconia che dominava in noi. Ma anche quello mancava; insomma tutto dava segno di una grande tristezza. Saranno state le 8 antimeridiane del 29 ottobre 1918 quando cominciò a cadere qualche granata più vicino alla piazza. Allora più impauriti e ritirati nella solita stanza a pianterreno, si piangeva e si pregava il Signore che avesse pietà e che rimediasse a ciò che stava per accadere. Insomma non descrivo i terribili momenti, paura, malinconia, solitudine, sono tre parole che solo al pensiero rattristano. Immaginarsi a provarle! Sempre sopportando con pazienza e rassegnazione, verso le 9 sentimmo un rumore, corremmo, era un aeroplano basso basso sotto le nubi; e si distinguevano bene i tre bei colori: bianco, rosso, verde. Lo osservammo un momento estatici con lo sguardo fisso come per dirgli: venite italiani, venite presto, poi ci ritirammo un po’ contenti. La malinconia era passata, ma non la paura. Dopo mezz’ora di ansia sentimmo uno scalpitìo, corremmo di nuovo, erano tre inglesi. Si fermarono in piazza, noi ci avvicinammo, loro pure, e danno una stretta di mano. Ma la commozione era tanto nostra che loro: nostra nel vedere i liberatori, e di loro nel vedere tanta povera gente dimagriti, pallidi e affamati, non permetteva dar parole di ringraziamento e di gratitudine. Rincasammo dopo qualche minuto come stupiti e ci fermammo nella soglia Ponte sul Monticano a Visnà, minato dal nemico, ma riconquistato prima che quest’ultimo potesse farlo saltare in aria La popolazione civile veniva sfamata dalle truppe degli invasori 90 91 di casa aspettando le truppe. Difatti dopo poco arrivò una pattuglia di inglesi che si sparpagliarono per tutte le case per vedere se vi erano dei tedeschi. Alcuni di essi entrarono in casa nostra, e dopo di aver stretta la mano gentilmente, li conducemmo per tutte le stanze, tanto per persuaderli. Intanto che esultanti si stava in mezzo ai nostri liberatori, le granate cadevano sempre più fitte e anche qualcuna nel centro. Alle undici finalmente cominciò a passare qualche italiano, poi sempre più finché vedemmo avanzarsi la truppa, munita di mitraglie e cannoni. E dopo di aver posato i cannoni in posizione di sparo per sparare al di là del Monticano che erano i tedeschi che facevano un po’ di resistenza, i soldati si nascosero dentro le case. E anche in casa nostra saranno stati 20 soldati. Dopo un anno di pene, di sofferenze e di malinconia ecco il primo momento di felicità! Eravamo tanto contenti, in mezzo ai nostri soldati, si raccontava loro le nostre tristi avventure, che loro con cenno di compassione ascoltavano estatici i nostri avvenimenti, e di tratto in tratto esclamavano: povera gente, è ben ora che veniate liberati! In quel momento, nella casa vicino alla nostra è caduta una granata, che non fece né tanti danni né tanto rumore, ma quelli che erano dentro scapparono a casa nostra impauriti; che poi dimenticarono anche la paura trovandosi con i cari italiani. Però cadevano di continuo qualche granata, ma non proprio nel centro, ma dopo qualche istante, ecco che cominciò a caderne una in piazza, poi un’altra. Alla caduta di queste granate, mia mamma che per la prima volta dopo tanto tempo faceva la polenta buona, come diceva, mentre la mescolava interrogava un soldato che stava asciugandosi i calzetti che aveva bagnati passando il Piave poche ore prima, e le diceva: ci dica un po’ buon soldato, che ci sia ancora pericolo? Sento questi colpi tanto vicini che non posso mettermi in pace. E lui rispose: “Signora, io la consiglierei di scappare perché dicono che dovremo fare una piccola battaglia per passare il Monticano”. Mentre così parlavano, una granata cadde nel mezzo di casa nostra che fece un fragore indiavolato rompendo tutti i vetri e crollando le mura dell’ultimo piano e il tetto. Che momenti indescrivibili, come un lampo la casa restò vuota, e soldati e borghesi fuggirono non so dove. Solo so che mio fratello più grande prese il piccolo e se la diede a gambe, mia mamma prese la piccola che stava arrampicata su per il seggiolone dove sedeva la nonna e, prima scuote la vecchia e poi diede un allarme a tutti noi che eravamo ancora convalescenti della febbre spagnola; tutte insieme corremmo verso il cortile per scappare. La nonna pure spiccò proprio un salto e, di corsa dietro a noi venne fino in cortile. Mia mamma che era davanti alla fila, volse l’occhio, e vedendo che eravamo tutte, continuò la sua strada, attraversando i cortili vicini. Ad un tratto si tornò a voltare e non vide più la nonna. Povera vecchia, non so se dalla paura o da debolezza di mente non sapeva più quello che faceva. Tant’è vero che appena arrivata in cortile, cominciò a cercare la scopa, che poi tornò in cucina a spazzare tutti i calcinacci staccati dalle mura. Noi intanto ci siamo ritirati nella casa di Brugnera perché non si voleva scappare senza la nonna. Intanto le granate cadevano fitte fitte. La nostra angoscia era indescrivibile. Come fare? La nonna non veniva, le palle arrivavano con fragore spaventoso, i soldati ci dicevano di scappare via anche da loro. Come? E la nonna? “Vado a prenderla” dissi io. Cominciai la strada (ero zoppa); appena passato il cortile di Brugnera e cominciato quello di Bianchi, uno sdrapelin [shrapnell] cadde poco davanti, tant’è vero che se non mi ritiravo dietro il muro, rimanevo ferita, nello stesso tempo parecchi soldati che avevano capito di cosa si trattava, mi dissero se ero pazza. Feci per ritirarmi e subito comparve mia mamma e le 92 93 In alto a sinistra, Elisabetta Fagnol con i fratelli, le sorelle, mamma Maria e nonna Beta sorelle, anche loro volevano andare a prenderla, ma i soldati ci continuavano a dire: fuggite, salvate la gioventù. Allora tutti ad alta voce si chiamava: nonna, nonna; ma era invano, non sentiva perché il fragore delle granate si faceva sempre più grande, più terribile e spaventoso. Ma non si partiva, se un soldato non veniva a spingersi. Ci disse: “Andate che andrò io a prendere la vecchia; la gioventù, la gioventù preme”. Allora cominciammo il cammino verso i campi e venimmo seguiti da altra gente che veniva dalla piazza. Si domandava loro della nonna ma niente sapevano. Quando arrivati ad un certo punto si vedeva bene la nostra casa, ma al di là un gran fumo, che pareva che dentro ardesse. E anche dicevano che la nostra casa era incendiata. La nonna! Che momenti di strazio, di desolazione e di paura per i nostri poveri cuori. Le sorelline dicevano: “Mamma! La nostra casa è atterrata”, perché il fumo la nascondeva. E la nonna? La gente per consolarci ci diceva di non star a pensare, è scappata di certo quando ha veduto il pericolo. Non erano parole che ci consolavano, e si stava là là, non si osava nemmeno andare avanti. Ma poi i tedeschi stando al di là del Monticano allungarono il tiro dei cannoni, e siccome anche in quel campo si era in pericolo, bisognava andare ancora avanti. Oramai la forza ci mancava, ma la mamma si fece coraggio perché andava di vivere o morire essendo i proiettili tanto vicini, e disse: “Coraggio figlie mie, fuggiamo, il Signore ci aiuterà, e confidiamo in Lui che salverà anche la nonna”. Allora con la speranza sempre in cuore, sempre pregando abbiamo continuato il cammino. Ma io che dopo tre mesi di male al piede destro e otto giorni di febbre, per la prima volta avevo fatto un così lungo cammino, non ne potevo più, e a stento mi trascinavo dietro gli altri. Sicché ero un bel pezzo dietro a mia mamma. Con me era una donna ancora convalescente che portava in braccio due bambine ammalate. A un tratto sentimmo un fischio che veniva contro di noi. Era una granata che cadde tanto vicino a noi che ci fece cadere per terra. Ma grazie al cielo non si scoppiò. Immaginarsi il nostro spavento. Insomma, dopo aver passato siepi, fossi, e campi, ci trovammo in una famiglia di Brugnera a Rai, dove saranno state duecento persone scappate dal pericolo. Appena arrivate ci sedemmo sfinite per terra e si stava con la mente a pensare avvolte dal dolore, quando una donna che veniva da Visnà ci disse: “La casa sua è tutta per terra, non è rimasta che un mucchio di pietre, così pure la chiesa e altre case; la mia non ancora, (invece fu solo la sua casa atterrata in piazza), poi dicono che è morta la signora Augusta.” Quella donna era vile. Vedeva in che angoscia si stava e continuava a dirci quelle cose per aumentare il nostro dolore. Che momenti di strazio, si era proprio al colmo del soffrire. Il pensiero terribile della nonna, il dolore della sentita morte della zia, il pensiero dei parenti, perché anche la zia Marina aveva due figlie gravemente ammalate, e i due più piccoli erano fuggiti con noi; anche per questo si pensava, perché la loro mamma non sapeva dove fossero, e poi la fame, perché in tre giorni avevamo mangiato soltanto un po’ di latte ed un pezzetto di pannocchia arrostita. Paura, perché anche là nei dintorni arrivavano granate; freddo, perché eravamo vestiti un po’ alla meglio; sonno, che da tre notti non si dormiva. Se il cielo non avesse avuto pietà, cosa sarebbe stato di noi? Non si sentiva più niente, non si parlava più, ma nella mestizia di un profondo dolore si confidava nella misericordia di Dio, che ci aiutò a sopportare quegli strazi morali e fisici. Alla sera ci venne regalato un pezzetto di polenta senza sale: come era buona! Poi una buona donna di quella famiglia disse alla mamma se voleva andare in una camera, un po’ fuori del freddo, che accettò ringraziandola. La notte la passammo in quella stanza con un’altra famiglia che avevano anche loro la nonna in casa. Ci confortammo a vicenda con poche parole, e poi estatiche, sedute nel suolo, aspettammo il mattino. Nei primi albori la mamma incominciò la strada per andar a prendere la nonna. Appena oltrepassata la porta di casa, la vide con la scopa in mano, che subito la lasciò cadere e corse incontro alla mamma; si abbracciarono e piansero. Dopo qualche istante le domandò dove si fosse ritirata nella notte e disse che l’Amelia Biasi era andata a prenderla e aveva passato la notte con la sua famiglia. Dopo questo breve dialogo, prese un po’ di farina che era rimasta dal giorno avanti e, a braccetto, si portarono fino in campagna, perché avevano detto che verso le nove veniva il contrattacco. La lasciò in una famiglia e venne a prendere noi a Rai, che poi, tutte assieme, andammo dai nostri contadini, e là siamo rimaste fino alle quattro pomeridiane, e dopo una bella mangiata siamo ritornate alla nostra casa, che l’abbiamo trovata tutta rotta, solo una stanza era abbastanza benino, e le altre, o i vetri, o il suolo, o le mura, erano tutte decrepite. Quanta malinconia è rimasta in noi nel vedere il paese tutto devastato! Il campanile non era più; la chiesa quasi tutta a terra, il parroco in fin di vita, l’ansia di sapere dei nostri profughi, e tante altre cose lasciate dalla terribile prigionia tedesca, che sarà per noi commemorata per sempre. 94 95 Ma il Signore ha voluto che torna a rifiorire i primitivi giorni, ed ecco che il 4 novembre fu firmato l’armistizio della terribile e sanguinosa guerra europea, colla vittoria italiana. Lodare Gesù... Viva l’Italia (però tante famiglie sono state segnate). A Visnà: 12 dicembre 1918 DON GIOVANNI DAL POZ - Celebro la prima volta a Visnà nella saletta della canonica perché la chiesa e il campanile sono crollati. Poco dopo la chiesa viene trasportata nella cantina adattata a casa del Signore. Novembre 1918 16 gennaio 1919 DON GIOVANNI DAL POZ - Da Treviso, dopo la visita al Vescovo Longhin ritornai a Bibano. Quella popolazione volle farmi una cerca di granoturco. Fu abbondantissima.Volle così dirmi che mi ringraziava e mi voleva bene. Serbo per essa un grato ricordo. Cercai con tutti i mezzi e tra mille difficoltà di avvicinarmi alla mia parocchia (Cimadolmo). S.E. il Vescovo di Ceneda, che desiderava avermi tra i suoi paroci, con bolla in data del 5 novembre 1918 mi nominava Economun Dictae Ecclesiae Parochialis S. Martini de Vicinatu, (Visnà di Vazzola), e con tutte le facoltà del caso; e il Vic. For. di Vazzola insisteva perché vi andassi. Ecco in proposito la lettera di S.E. Mons. Eugenio Beccegato. Il Rev. Vicario Foraneo di Vazzola, Don Domenico Zanette, insiste perché io annuisca al desiderio espressomi da S.E. di andare a Visnà. …Domani, Lunedì 25 co. (novembre 1918) vado a Treviso a parlarne a S.E. Mons. Longhin. E da Visnà il 7-12-1918 don Domenico Pancotto mi scriveva: “L’avverto che oggi nelle ore pomeridiane io parto per Portobuffolè. Questi fabbriceri sono avvisati, ma per oggi si trovano nella impossibilità di avere il mezzo pel trasporto della sua mobilia. Potrebbe intanto venire per le sue funzioni di domani e cioè per la messa prima alle ore 7.30 (perché la messa seconda viene ogni festa celebrata da Don Paolo Cescon) e così avrà campo di parlare e concretare coi fabbriceri. Finalmente per il 12 dicembre 1918 tutto viene disposto perché nella nuova residenza provvisoria io possa celebrare la S. Messa. Confesso che lascai Bibano con grande dispiacere, perché fu testimonio per circa un anno di tanti dolori e di tanti affetti, di tante sofferenze e di tanta bontà, di tante privazioni e di tanta generosità, di tanto lavoro e di tanti preziosi, alti conforti. Una cosa sola non mi mancò mai fino alla liberazione: elemosine per la celebrazione di S. Messe, e in tale abbondanza da poterne consegnare all’Arciprete di Vazzola una cinquantina … DON GIOVANNI DAL POZ - A Visnà ebbi le graditissime visite di Mons. Bettamin e di Mons. Rostirola. Ecco come e perché. Il primo soccorso della diocesi di Treviso, per la generosità di S.E. Mons. Vescovo, portato con camions da Mons. Paroco del duomo, giunse il giorno di S. Tiziano 16 gennaio 1919; il secondo soccorso il 17 gennaio 1919 dal mio paese di Camposanpiero, accompagnato da quel buono e benemerito arciprete Don Luigi Rostirola; il terzo soccorso il 25 gennaio 1919 alle ore 10 di sera da Mons. Bettamin paroco del Duomo di Treviso. Che Dio li ricompensi. Vazzola liberata dagli invasori 96 97 Febbraio 1919 24 luglio DON GIOVANNI DAL POZ - Polenta -. Fino a oggi 19-2-19 ho potuto comperare e dispensare, a pagamento, più di 168 quintali di granoturco ai miei parocchiani al prezzo di £. 46 oppure 47 al quintale, mentre altrimenti l’avrebbero pagata a £. 56 e 60; e rimango creditore di altri 32 quintali, che mi furono recapitati il 1.o e il 2 marzo. In tutto 200 quintali di granoturco, senza contare l’olio, le patate, i fagioli, il petrolio e il latte concentrato. Ad majorem Dei gloriam. Devo riconoscenza al comm. Dalla Favera, che me lo fece comperare, e a Mons. Bettamin che me lo portò in paese. 2 marzo DON GIOVANNI DAL POZ - La vigilia di S. Giacomo del 1919 (24 luglio) dopo che il S. Padre Benedetto XV ricevette i cardinali per gli auguri del suo onomastico, ricevette me. Volle conoscere a lungo le condizioni del Piave martoriato, e mi diede affidamento di soccorrere le mie opere cattoliche, che stavo per far sorgere. Il 23 e 24 luglio fui ricevuto ripetutamente da S. E. Luzzatti, che il 24, alle ore 17, radunò nella biblioteca del parlamento S. E. Nava, Ministro delle terre liberate, con l’ammiraglio Chierchia e il suo Segretario, e fece una seduta per aiutare le mie opere, che avevo intenzione di far sorgere. Le vicende di don Giovanni Dal Poz sono tratte da “L’INVASIONE – Diario di un profugo”, Noale, 1937. DON GIOVANNI DAL POZ - Mons. Bettamin mi rimprovera dolcemente in cantina – Chiesa di Visnà, predicando; e in canonica, conversando, perché metto in pratica, per il mio popolo, l’esortazione di N.S.G.C.: pulsate, petite. In pari data mi scrive: “Mando ora il resto, più qualche cosa che ho ritirato da Massanzago.” Sarà un momento d’amore e di riconoscenza quello che i poveri invasi innalzeranno a Mons. A.G. Longhin, vero emulo del poverello d’Assisi; ai Mons. Bettamin e Rostirola; e ai paroci benefattori. 13 marzo DON GIOVANNI DAL POZ - Don Domenico Zanette, Arcip. Vic. For. di Vazzola, mi scrive che il Vescovo di Ceneda desidera che mi fermi nella sua diocesi; e il 17 ripete il medesimo desiderio di S.E. a mia sorella Teresa. A voce, lo stesso Mons., Vescovo di Ceneda ripete il desiderio sopra riportato alla mia sorella Teresa a San Polo di Piave. Le vicende di don Amerigo Garbuio sono tratte da “S. MICHELE DI PIAVE E LA SUA NUOVA CHIESA” di mons. Costante Chimenton, Treviso, 1929. Il Diario di Maria Nardi è tratto da: “PURA E FORTE – in memoriam di Maria Nardi”, 1919, di mons. Domenico Zanette. Il diario di Elisa Fagnol è stato tratto da “PICCOLI RICORDI DELL’INVASIONE TEDESCA” inserito nel libro “DI QUA DI LA’ DEL PIAVE” di Mario Bernardi, ed. Mursia, 1989. 3 aprile DON GIOVANNI DAL POZ - A mezzogiorno arrivo a Cimadolmo per rimanervi stabilmente. 98 99 LUOGHI DELLA MEMORIA V a z z o l a - Te z z e - V i s n à 100 101