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SIAMO PASSATI
Luoghi della memoria
e testimonianze sulla Grande Guerra
a Vazzola, Visnà e Tezze
a cura di:
Veruska Agnoloni
Enrico Bellussi
Vinicio Cesana
Mirca Dall’Ava
Andrea De Vido
Raffaella Furlan
Gianluca Zaia
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Finito di stampare nel mese di marzo 2008
dalle Grafiche De Bastiani, Godega di Sant’Urbano (TV)
© Dario De Bastiani Editore, Vittorio Veneto 2008
ISBN 978-88-8466-128-9
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In quest’anno, nel quale ricorre il novantesimo anniversario della fine
della Grande Guerra, l’Amministrazione Comunale ha voluto ricordare
quegli anni portando a termine questo secondo progetto editoriale, dopo
il libro sulla storia di Palazzo Tiepolo.
La Grande Guerra è dietro l’angolo che abbiamo appena svoltato: basta girarsi indietro per vedere i volti in bianco e nero di uomini, donne,
bambini che l’hanno vissuta e che magari sono i nostri genitori o i nostri
nonni. Quella che doveva essere un’azione bellica veloce si rivelò ben presto una guerra lunga, cruentissima e rovinosa sul piano sociale, morale ed
economico; entrarono nel conflitto italiani che erano ragazzi e ne uscirono
uomini provati da vicende più grandi di loro. È storia che ci riguarda da
vicino ed ecco perché abbiamo voluto ricordarla con un libro che potesse raccogliere le testimonianze, le foto, i racconti dei protagonisti e che
si ponesse come la naturale prosecuzione della mostra storico-fotografica
“Siamo Passati. Luoghi della memoria a Vazzola, Visnà e Tezze” realizzata
nel 2006.
Il grande lavoro svolto è merito di alcuni componenti la Commissione
Attività Culturali ai quali sentiamo di rivolgere il nostro grato pensiero: Agnoloni Veruska, Bellussi Enrico, Dall’Ava Mirca e Furlan Raffaella.
Con generosità si sono adoperati nella ricerca del materiale documentale
e fotografico, hanno condotto interviste, hanno dato unitarietà a quanto
raccolto fino a produrre il libro che ora avete tra le mani. Nel loro operare sono stati guidati e sostenuti dallo storico locale Vinicio Cesana e da
Gianluca Zaia dell’Associazione Bianconero Fotografia che, con altrettanta gratuità e passione, si sono spesi in due anni di ricerche. Desideriamo
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altresì ringraziare tutte le persone che, a diverso titolo, hanno usato la cortesia di favorire il reperimento dei documenti e hanno messo a disposizione di questa ricerca tempo ed energie: a tutti il nostro grazie riconoscente,
un grazie che è quello dell’intera comunità di Vazzola.
Vale la pena ricordare come i costi di stampa di questo libro siano stati
coperti grazie all’aiuto di alcune istituzioni economiche del nostro territorio, segno di una realtà imprenditoriale e di un sistema creditizio attenti
alla crescita culturale del territorio e capaci di condividere con lo stesso i
frutti del proprio lavoro.
Ora tocca a tutti noi, cittadini del Comune di Vazzola, apprezzare tale
lavoro. Buona lettura.
P R E S E N TA Z I O N E
Marzo 2008
L’ Assessore alla Cultura
dr. Andrea De Vido
Il Sindaco
avv. Maurizio Bonotto
Nella tarda primavera di tre anni fa, la Commissione Cultura dell’Amministrazione Comunale di Vazzola, integrata da altre persone provenienti
dalle più disparate esperienze personali e professionali, ma accomunate da
un unico grande interesse per la ricerca storica, si ritrovarono a Palazzo
Tiepolo, riuniti dall’Assessore Andrea De Vido. La proposta era di iniziare
una ricerca in ambito locale finalizzata ad una mostra che coinvolgesse
anche tutta la comunità vazzolese, invitata a collaborare offrendo la possibilità della duplicazione di documenti e fotografie d’epoca conservate
privatamente.
In quel primo incontro fu decisa un’azione preventiva di raccolta di
tutte le notizie storiche reperibili in archivi e biblioteche della provincia di
Treviso, con particolare riferimento a quelle di Vittorio Veneto per quanto
riguardava la parte ecclesiastica. Nello stesso tempo iniziò una ricerca in
ambito locale focalizzata soprattutto sull’archivio municipale di Palazzo
Tiepolo.
Tra le enormi scaffalature contenenti migliaia di faldoni ordinati secondo le “categorie” dell’archiviazione municipale, cercammo i registri più
antichi con le deliberazioni di Giunta e del Consiglio Comunale risalenti agli inizi del 1900, negli anni immediatamente antecedenti la Grande
Guerra.
Il ritrovamento di un corposo fascicolo intitolato “Monumento ai Caduti” ci fece subito comprendere che l’argomento era interessante per la
ricchezza di materiale conservato, seppur alla rinfusa. Dopo aver ordinato
cronologicamente i documenti e suddivisi al loro interno per tipologia ed
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argomento, si evidenziò ancor più l’attenzione per una vicenda che, oltre
l’aspetto patriottico, aveva risvolti locali del tutto particolari ed interessantissimi. Tra i manifesti elencanti le liste degli offerenti, i registri delle
sedute del comitato pro erigendo monumento ai Caduti, la lotteria di
beneficenza, quello che ci colpì di più fu soprattutto la copiosa corrispondenza da Vazzola con lo scultore Bassignani di Fivizzano, allora residente
nel Principato di Monaco, autore prima del bozzetto e poi dell’opera intitolata “Siamo passati”.
Unanime fu la decisione di iniziare da questo materiale per sviluppare
una ricerca che coinvolgesse tutto il periodo che va dall’invasione nemica
del novembre 1917 alla fine della Grande Guerra, con la successiva ricostruzione di Vazzola, Visnà e Tezze, per arrivare all’inaugurazione del
monumento ai Caduti nel luglio 1923.
Con i documenti e le fotografie raccolte in Comune di Vazzola, presso
l’archivio della Provincia, e grazie alla collaborazione di molti ricercatori e
collezionisti privati, fu possibile allestire la “Mostra storico-fotografica dal
1917 al 1923” che si tenne a Palazzo Tiepolo dal 4 al 19 novembre 2006
dal titolo “Siamo passati - Luoghi della memoria a Vazzola, Visnà e Tezze”
che risultò suddivisa in due sezioni: la prima parte illustrava la ricostruzione di Vazzola, Visnà e Tezze, la rinascita della vita civile ed amministrativa
e terminava con i pannelli riguardanti la famiglia Candiani, incentrati
soprattutto sul Sindaco Carlo e sul fratello architetto Luigi. La seconda
parte era completamente dedicata alla realizzazione e alla inaugurazione
del monumento ai Caduti di Vazzola. Il tutto esposto su circa cinquanta
pannelli, dove con pazienza e perizia, tutto il materiale raccolto era stato
ordinato secondo una sequenza logica.
Nel pomeriggio della prima domenica successiva all’inaugurazione, la
mostra fu visitata da un arzillo vecchietto di Vazzola, Desiderio Tomasin
che, all’incaricata dell’apertura, dichiarò di ricordare gli avvenimenti illustrati per averli vissuti di persona, sciogliendo già a quel primo incontro
alcuni dubbi su fatti e personaggi che, purtroppo, i documenti in nostro
possesso non erano riusciti a chiarire.
Nei mesi successivi, quando veniva sempre più concretizzandosi l’aspettativa di raccogliere in un volume il nostro lavoro di ricerca, alcuni vazzolesi ultranovantenni quali lo stesso Desiderio Tomasin, Guido Contini,
Teresa Toffoli Vettorello, Battista Gava e la più giovane Ines Da Dalto,
per quanto riguarda la storia della famiglia Nardi, splendidi esempi di
memoria vivente, coi loro ricordi integrarono la parte documentale in
un magnifico connubio tra vita vissuta, cronaca giornalistica del tempo e
documenti scritti.
Questo libro si arricchisce di una terza parte, collocata però all’inizio
per ovvie ragioni cronologiche. Vazzola ha avuto la fortuna di veder narrate le vicende dell’invasione da alcuni protagonisti del tempo che, con
perizia e precisione, hanno lasciato ai posteri delle testimonianze epiche e
commoventi di sacerdoti, di soldati e di donne che hanno vissuto un’esperienza terribile, quasi inenarrabile perché le parole si dimostrano insufficienti a raccontare tanto patire e soffrire per la popolazione vessata in tutte
le maniere.
Si tratta di cinque testimonianze importantissime da diversi punti di vista: sono quelle di due sacerdoti, don Giovanni Dal Poz, parroco di Cimadolmo, don Amerigo Garbuio, parroco di San Michele di Piave, entrambi
ospiti nei primi mesi dell’invasione in canonica a Vazzola, due ragazze,
Maria Nardi di Vazzola ed Elisa Fagnol di Visnà ed infine un soldato inglese, Ernest C. Crosse, della 7° Divisione Britannica.
Il nostro è stato un lavoro di sintesi tra cinque diverse testimonianze. Prima di presentare i protagonisti dobbiamo accennare ai questionari,
molto brevi e sintetici, che i parroci di Vazzola, Visnà e Tezze compilarono
nei primi mesi del 1919 sulle medesime undici domande che furono loro
sottoposte dalla Curia cenedese, al fine di documentare presso l’archivio
diocesano, una breve relazione sullo stato della chiesa, della canonica, del
campanile, delle campane, dell’archivio parrocchiale, degli arredi e dei paramenti sacri. Vi sono inoltre note interessanti sulla popolazione e sulle
violenze subite.
Tuttavia, solo quello del parroco di Vazzola, per estensione e ricchezza
di particolari, assume un indubbio valore storico, come avremo modo
di vedere più avanti. La relazione sulla parrocchia di Tezze è redatta da
un parroco che era fuggito al momento dell’invasione e quindi, nella sua
brevità, denota la mancanza di conoscenza diretta dei fatti. Il parroco di
Visnà invece morì di crepacuore, nel momento della liberazione, per il
crollo del campanile e la distruzione della chiesa. La relazione fu stesa dal
parroco di Cimadolmo che provvisoriamente era stato incaricato di risiedere a Visnà, in attesa di poter ritornare nella sua parrocchia.
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LE TESTIMONIANZE
MONS. DOMENICO ZANETTE
Prima di presentare brevemente gli autori dei diari di guerra, è doveroso
accennare alla figura principale che emergerà poi dalle varie testimonianze
ed attorno alla quale ruota buona parte delle vicende. Si tratta di mons.
Domenico Zanette, di 43 anni, allora parroco di Vazzola da 16, che in
quei dodici mesi dell’invasione, divenne il punto di riferimento per l’assistenza spirituale e materiale di tutta la popolazione rimasta nelle immediate retrovie del fronte.
Innanzitutto decise di rimanere al
suo posto, mentre tanti altri sacerdoti della forania, alle prime avvisaglie del pericolo, avevano abbandonato chiesa, canonica e parrocchiani per mettersi in salvo oltre la linea
del Piave. Nelle poche stanze della
casa canonica di Vazzola, requisita
per l’alloggio delle truppe nemiche,
lasciate a disposizione di mons. Zanette, insieme al cappellano don
Giovanni Rattin, l’arciprete ospitò
i pochi sacerdoti della sinistra Piave
che avevano deciso di rimanere: il
parroco di Susegana e due sacerdoti
della diocesi di Treviso, don Giovan- Mons. Domenico Zanette, arciprete di Vazzola
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ni Dal Poz di Cimadolmo e don Amerigo Garbuio di San Michele di Piave.
Nei primi giorni dell’invasione essi corsero a mettere in salvo quanto era
possibile nelle parrocchie abbandonate dai loro sacerdoti, come a Tezze di
Piave, a Rai e a San Polo di Piave, tra mille pericoli, restrizioni di movimento da parte dei militari, soprusi e violenze alla popolazione, alle quali
poterono solo assistere inermi.
Nell’immediato dopoguerra don Zanette non riuscì a completare l’opera di ricostruzione degli edifici sacri perché, forse spronato dai suoi superiori, concorse per il posto di arciprete della Cattedrale di Ceneda, dove
entrerà nel gennaio 1923 con i titoli di Canonico onorario e Vicario Foraneo. Indubbiamente gli erano stati riconosciuti i meriti per la sua opera
sacerdotale di soccorso alle popolazioni rivierasche durante l’invasione.
Antifascista convinto, nel settembre 1926 dovette subire il pubblico affronto nella piazza di Vittorio Veneto dove, insieme ad altri oppositori, fu
insultato e deriso. Nel 1940 divenne Vicario Generale e tre anni dopo, dal
17 gennaio 1943, data della morte del vescovo mons. Eugenio Beccegato,
al 29 maggio 1944, data dell’entrata del nuovo vescovo mons. Giuseppe
Zaffonato, resse la diocesi vittoriese come Vicario Capitolare. Concluse la
sua lunga esistenza il 23 gennaio 1965 alla bella età di 91 anni.
D O N G I O VA N N I D A L P O Z
Nato a Camposampiero il 14 novembre 1885, venne ordinato sacerdote
a Salzano nel 1909; fu cappellano a Loreggia, Paese, Fonte; Vicario Spirituale e poi parroco di Cimadolmo
dal 1915. Don Giovanni Dal Poz
dunque nel 1917 aveva 32 anni ed
era di circa dieci anni più giovane
di mons. Zanette; era parroco di
Cimadolmo solo da due anni.
Viveva insieme con le sorelle Teresa e Angelina che lo seguirono nel
profugato, ospiti in canonica a Vazzola dal 10 novembre 1917 al 13
febbraio 1918, quando fu costretto
a spostarsi a Bibano. Per prima cosa
Don Giovanni Dal Poz, parroco di Cimadolmo
riuscì a mettere in salvo l’argenteria
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Frontespizio del diario di guerra di Don Giovanni Dal Poz
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della chiesa, i registri e l’oro della Madonna; dal 20 novembre divenne
cooperatore a Rai, supplendo all’assenza del parroco don Francesco Pizzin.
Potrà rivedere le rovine della sua chiesa di Cimadolmo solo dopo la fine
della guerra, quando riabbracciò i suoi famigliari a Camposampiero. Il
5 novembre 1918 tornò a Bibano ed il mese successivo venne nominato
economo della parrocchia di Visnà, in sostituzione del parroco don Giovanni Battista Scrizzi, deceduto l’1 novembre 1918 a causa del dolore provato per la distruzione della chiesa e del campanile da parte degli austriaci
in ritirata. Tornò definitivamente a Cimadolmo il 3 aprile 1919.
Le sue vicende a cavallo di due diocesi ebbero vasta eco, tanto che, il 24
luglio 1919 in Vaticano a Roma, fu ricevuto in udienza dal Santo Padre
Benedetto XV e poi anche dal Primo Ministro on. Luigi Luzzatti.
Antifascista come mons. Zanette, subì a Cimadolmo un duro pestaggio
per la coerenza ai suoi ideali; nel 1927 lasciò Cimadolmo per Massanzago,
dove morì il 26 dicembre 1939 a soli 54 anni d’età.
Fu invitato più volte dal vescovo di Treviso mons. Giacinto Longhin,
sia personalmente che tramite mons. Costante Chimenton, a stendere e a
sviluppare gli appunti personali che aveva scritto durante l’anno dell’invasione. Le sue memorie furono pubblicate nel 1937, ben vent’anni dopo i
fatti narrati e 18 mesi prima della sua morte. Probabilmente annotò in un
taccuino gli avvenimenti, perché la cronaca è breve, sintetica, ma precisa e
soprattutto ordinata cronologicamente.
“L’Invasione – Diario di un profugo” di don Giovanni Dal Poz, poiché steso con l’indicazione precisa della data, è importantissimo perché ci
permette di concatenare quanto riportato da altri testimoni che, in una
stesura più libera, qualche volta hanno omesso la datazione degli eventi.
DON AMERIGO GARBUIO
Nato a Caerano San Marco il 29 aprile 1882, venne ordinato sacerdote
nel luglio 1907; fu prima cappellano a Selva e poi parroco di San Michele
di Piave dal settembre 1913. L’intesa con don Dal Poz era forse dovuta
al fatto che erano quasi coetanei, poco più che trentenni e trovarono in
mons. Zanette un punto di riferimento ed un luogo di rifugio.
Don Garbuio viveva con la madre e le due sorelle, Matilde e Rosa; nell’imminenza dell’invasione la madre e la sorella Matilde si misero in salvo
a Selva del Montello, dove era già stato cappellano, mentre la sorella Rosa
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Don Amerigo Garbuio
parroco di San Michele di Piave
Mons. Costante Chimenton
delegato dal Vescovo mons. Giacinto Longhin
per la ricostruzione delle chiese
della diocesi di Treviso
resterà sempre fedele al suo fianco. Il loro peregrinare nelle retrovie inizia
a Vazzola il 13 novembre 1917 fino al 9 febbraio 1918, quando furono
costretti a partire con 70 parrocchiani e 200 profughi verso il Friuli. Le
tappe di questo esodo di giorno in giorno furono Vallonto di Fontanelle,
Rivarotta, Annone Veneto, dove il 12 febbraio furono portati con dei carri
bestiame a Codroipo. Il viaggio non era ancora finito perché le destinazioni finali per i profughi di Cimadolmo fu Sedegliano, per quelli di San
Polo fu Gradisca ed infine per quelli di San Michele, con don Garbuio, fu
Coderno di Sedegliano.
Finita la guerra, il 10 novembre 1918, don Garbuio rivide per la prima
volta San Michele di Piave; poi dal 27 novembre, sempre con la sorella
Rosa, tornò nuovamente a Vazzola da mons. Zanette che gli offrì l’alloggio
temporaneo fino alla fine di gennaio 1919. Ritornò definitivamente nella
sua parrocchia di San Michele di Piave il 4 febbraio 1919 e mons. Zanette,
in segno di affetto ed amicizia, gli donò un confessionale per la sua nuova
chiesa da ricostruire.
In seguito don Amerigo Garbuio diverrà Vicario Foraneo della Congregazione di Negrisia e parroco di Ormelle, dove morì il 5 marzo 1940, a
soli 58 anni d’età.
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Anche don Amerigo trascrisse su
un taccuino i suoi ricordi dell’invasione, ma non li pubblicò personalmente; preferì consegnare la sua
testimonianza a mons. Costante
Chimenton, delegato dal vescovo
mons. Giacinto Longhin per la ricostruzione delle chiese della diocesi di Treviso, distrutte dalla guerra.
Mons. Chimenton, nato nel 1883,
era quasi coetaneo di don Dal Poz
e don Garbuio e aveva partecipato
alla Grande Guerra arruolato col
grado di tenente cappellano. Nel
1932 divenne Vicario generale del
vescovo mons. Mantiero e morì nel
1961 a 78 anni d’età.
Don Amerigo Garbuio,
E’ l’autore della collana di pubin seguito arciprete di Ormelle
blicazioni dal titolo “E ruinis pulchiores”, per la storia delle ricostruzioni delle chiese lungo il Piave, 28
pubblicazioni che vanno dal 1923 al 1934; è autore inoltre di oltre 50
pubblicazioni sulla storia della diocesi di Treviso. Nel 1929 pubblicò il
numero 24 della sua serie sulle chiese, dal titolo “S. Michele di Piave e la
sua nuova chiesa” di 380 pagine. Nel III capitolo lo storico narrò diffusamente le vicende che riguardano don Amerigo Garbuio e don Giovanni
Dal Poz nel profugato vazzolese.
Questi brani di mons. Chimenton, tratti dagli appunti di don Amerigo,
sono stati inseriti cronologicamente nel testo di don Giovanni Dal Poz.
MARIA NARDI
Era la figlia del Sindaco di Vazzola avv. nob. Giovanni Nardi, ultimo discendente di una famiglia che aveva avuto importanti ed illustri personaggi sia pubblici sia ecclesiastici, autori di numerose pubblicazioni. Maria
viveva con il padre anziano e vedovo da alcuni anni che si stava avviando
ad una progressiva infermità ai piedi.
Nata a Venezia il 25 novembre 1881, si trasferì a Sacile per circa un
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Frontespizio del libro di mons. Costante Chimenton
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decennio, dal 1885 al 1895, per risiedere infine a Vazzola. Compì gli
studi tra Treviso e Torino e durante
gli anni giovanili ebbe occasione di
viaggiare con i famigliari, visitando
numerose città italiane ed europee.
Direttrice dell’Unione delle Figlie
di Maria, all’epoca dell’invasione
aveva 36 anni. Inoltre la famiglia
Nardi era composta da due sorelle
suore Marina ed Anna, religiose della Congregazione del Sacro Cuore, e
dal fratello Nicolò, chiamato Lino,
volontario allo scoppio della guerra.
Aveva l’abitudine di annotare quasi
giornalmente la cronaca spicciola di
Maria Nardi
famiglia in una forma quasi mistica, perché il suo calendario era spesso
scandito dalle ricorrenze religiose. Una vita vazzolese dunque trascorsa
tutta tra casa e chiesa.
L’ultimo diario, quello dell’invasione, iniziò il 9 novembre e si concluse
il 21 giugno 1918 quando, al termine della Santa Messa quotidiana, appena ricevuta l’Eucarestia e tornata al suo banco, morì in chiesa tra le braccia
di mons. Zanette.
L’11 ottobre 1918, nell’ospedale militare di Napoli, morì anche il fratello Nicolò col grado di tenente, già ferito ad un occhio nel 1916 sul
Carso, a causa della febbre spagnola contratta durante un viaggio alla volta
delle Indie.
Purtroppo non conosciamo la collocazione attuale dei suoi diari; fu
sempre mons. Zanette, che nel 1910 aveva già pubblicato “In memoriam”
nel trigesimo della morte di Teresa Rossi nob. Nardi, madre di Maria, a
dare alle stampe nel 1919 il libro “Pura e Forte” - in memoriam di Maria
Nardi, dove inserì ampi stralci del diario.
Questi brani tratti dal diario di Maria Nardi furono poi ripresi anche
da don Rino Damo nella sua pubblicazione “Vazzola – 5° centenario della
Consacrazione della Chiesa”, pubblicato nel 1990.
Alcuni brani della testimonianza di Maria Nardi sono stati ora inseriti
nel contesto cronologico di don Dal Poz.
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Frontespizio del libro di Zanette
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E L I S A B E T TA FA G N O L
Nata il 5 novembre 1904 a Visnà, era la seconda dei sette figli di Gaetano e di Maria Maccari. I genitori erano entrambi istruiti, avendo frequentato le scuole medie a Oderzo. I Fagnol erano benestanti, piccoli commercianti di legname e possedevano dei
campi con il mezzadro. Isetta era
una bambina molto intelligente e lo
notò subito la zia Isabella, maestra
elementare, che chiese alla madre
Maria di avere Isetta per due anni
consecutivi in terza elementare, per
esserle da supporto agli altri alunni, specialmente in matematica. A
scuola però era brillante in tutte le
materie, amava soprattutto leggere
ed aveva un suo albero sul quale saliva tutte le mattine presto per imparare le poesie. Isetta aveva però un
carattere molto forte, era volitiva, di
temperamento quasi virile “…voleElisabetta Fagnol
re è potere … e con l’aiuto di Dio si
può”. Si rifiutò sempre fin da piccola di lavorare a ferri perché lo considerava troppo da femminucce. Prediligeva curare i bachi da seta col fratello
piuttosto che fare la calza.
Finì le elementari nel 1914 e superò l’esame di ammissione per frequentare l’Istituto Magistrale al Collegio San Giuseppe di Vittorio Veneto. Lo
scoppio del conflitto mondiale bloccò il suo sogno: il padre fu richiamato alle armi ed Isetta dovette contribuire al sostentamento della famiglia,
apprendendo il mestiere di sarta che esercitò in casa dei signori Bozzoli a
Conegliano.
Nell’anno dell’invasione Elisabetta Fagnol aveva soli 13 anni, ma visse
un’esperienza soprattutto legata alla liberazione del suo paese che trascrisse
in un quaderno con precisione e dovizia di particolari. E’ una testimonianza eccezionale sia per l’età della protagonista sia per la capacità di
stendere pagine su pagine di racconto.
Provvidenziale fu l’incontro tra Elisabetta Fagnol e lo scrittore opitergino Mario Bernardi, impegnato nella stesura di un libro dal titolo “Di qua
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Frontespizio del quaderno di Elisa Fagnol
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e di là dal Piave – Da Caporetto a Vittorio Veneto” Mursia editore, che,
uscito nel 1989, continua ancor oggi ad essere ristampato e presentato
per la ricchezza delle notizie e delle testimonianze raccolte. A pag 11 della
introduzione così scrive “… ho immaginato invece di soffermarmi sulla riva
sinistra del Piave e di stare insieme al milione di uomini e donne che rimasero
e furono infelici e inermi protagonisti di una attesa durata poco meno di un
anno. Dai loro diari, dai loro quaderni di scuola (come quello commovente
di Elisa Fagnol di Visnà o di Cunegonda Bozzetto di Piavon), dalle loro narrazioni, dalle impressionanti testimonianze orali giunte fino a noi, ho cercato
di mettere insieme un grande collage della loro vita e del loro patire; del loro
pregare e soprattutto della loro muta, ma attiva, partecipazione ad una resistenza che ebbe momenti epici quasi sempre sconosciuti, perché i protagonisti
di queste strazianti verità erano tagliati fuori dal mondo ufficiale della guerra
e dell’informazione. Un mondo che stava di là dal Piave e che ebbe cento e
cento momenti di vicissitudini e di eroismi”.
Nel 1927 Elisabetta sposò Mansueto Zanardo e dopo 4 mesi si trasferirono a Cimetta dove il marito aveva un mulino assieme a suo padre
Pietro.
Dopo 5 anni Elisabetta e Mansueto presero in affitto un mulino a Visnà. Dal loro matrimonio nacquero 10 figli: Gaetano, Maria, Lidia (suor
Alba), Eliana (suor Tarcisia), Tarcisio, Giovanni, Clara, Tullio, Flavio e
Amedeo.
Aveva una fede incondizionata; nelle situazioni più difficili, al limite
della fame, dello sconforto, dell’impossibilità di agire in alcun modo, lei
confidava nella Provvidenza e comunque cantava per ringraziare il Signore
per quello che aveva e quello che le avrebbe dato.
Nei suoi 93 anni di vita, Elisabetta fu sempre un punto di riferimento
per la sua famiglia; seppe stare al passo con i tempi e fu coerente con le
proprie idee che espresse sempre chiaramente.
In questo libro sono trascritte integralmente due testimonianze di Elisabetta Fagnol: la prima orale, raccontata all’autore Mario Bernardi su
alcuni episodi dell’invasione nemica, la seconda invece è il suo quaderno
dal titolo “Piccoli ricordi dell’invasione tedesca” che inizia dalla sera del 28
ottobre 1918 con il racconto della liberazione di Visnà.
ERNEST C. CROSSE
Soldato della 7° Divisione Britannica è l’autore di una testimonianza
sulla battaglia finale dell’ottobre 1918, che fu raccolta da Giovanni Cecchin nel volume “Piave Monticano Tagliamento”, Collezione Princeton.
Purtroppo non abbiamo alcuna notizia biografica di questo militare
inglese e non può esserci d’aiuto nemmeno il curatore Giovanni Cecchin
perché è deceduto.
Nelle circa settanta pagine è riportata una dettagliata relazione di guerra
che coinvolge in modo particolare la Sinistra Piave e più specificatamente
le operazioni nel Comune di Vazzola. La testimonianza inedita è ancor
più importante perché di fonte straniera, sfuggita alla rigida storiografia
ufficiale dell’epoca.
Il brano inserito in questa pubblicazione è il capitolo dal titolo “Il passaggio del Monticano”.
Foto austriaca del 29 Maggio 1918 della piazza di Vazzola durante l’invasione
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LA CRONACA DELL’INVASIONE
DON AMERIGO GARBUIO - Le prime notizie della disfatta di Caporetto giunsero il 28 ottobre 1917; erano informazioni catastrofiche, con quella
tinta di terrorismo che annunziava una vera disfatta nazionale. La popolazione informata dei fatti iniziò a mettere in salvo quanto era possibile. Intanto cominciarono ad arrivare i primi profughi dal Friuli ed i paesi sulla sinistra
del Piave furono invasi dai nostri soldati, reduci dal fronte il 31 ottobre.
La sera dell’1 novembre, dopo le celebrazioni religiose nei cimiteri delle varie parrocchie, i sacerdoti furono convocati d’urgenza dal Sindaco di San Polo
di Piave, comm. Angelo Schileo, insieme ai proprietari della zona. La seduta
Colonna di soldati italiani in ritirata da Caporetto
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fu brevissima: “Il popolo fu avvisato di tenersi pronto per passare il Piave; la
prima tappa sarebbe stata fatta a Noale; il popolo sarebbe stato avvertito circa
il momento della partenza”…
L’invasione (di Visnà) cominciò il 9 novembre 1917 alle ore 4.30 del mattino; alle ore 10 di quella stessa mattina la prima pattuglia tedesca aveva
occupato Tezze e a mezzogiorno il nemico arrivò al Piave.
9 novembre 1917
MARIA NARDI - Non avrei mai creduto di segnare nel mio libretto fatti
così disastrosi: la nostra sconfitta sul Carso sorpassò ogni immaginazione.
Vazzola fu scelta come posto di riorganizzazione delle truppe che ritornavano dal Carso, e militari ne vennero a centinaia e centinaia, tutti stanchi
perché dicevano di aver fatto non so quanta strada a piedi, fuggendo così,
senza saper nemmeno loro dove andare. Erano affamati e stracciati, insomma
sembrava una seconda edizione della ritirata di Russia.
La nostra casa ospitò sino a 9 ufficiali in una volta. In generale il morale
degli ufficiali era alto; alcuni dicevano, che, ricevuto l’ordine di ritirarsi, erano scesi dal Carso piangendo. Nella truppa invece regnava una gran demoralizzazione.
La canonica di San Polo di Piave, posta tra la chiesa e l’antico palazzo Gabrieli
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Furono giorni tristi, ad ogni modo si pensava che almeno sul Tagliamento
sarebbe stata organizzata una resistenza efficace.
La sera del 3 novembre io ero già a letto, quando sento una forte suonata
di campanello, vado alla finestra e odo la voce dell’Arciprete, che mi dice di
aprire, perché ha una parola urgente da dire al papà.
Già immaginavo quello che seppi poco dopo, cioè che i tedeschi avevano
passato il Tagliamento, ma che fare? Si decise di rimanere a Vazzola e di aiutarci gli uni agli altri.
10 novembre
DON GIOVANNI DAL POZ - La mattina celebro fra i timori nella chiesa
rovinata (di Cimadolmo); poi vado con Beotto Domenico (Giovannin) a S. Polo
(conservo ancora il passaporto per il ritorno a Cimadolmo) dal colonnello, in palazzo Schileo. La canonica era vuota perché Don Giuseppe Chiarelli, arciprete di
quella parrocchia, era scappato, spaventato, verso il centro d’Italia. Dev’esser stato
molto grande quello spavento, se egli scappò dimenticando che il 3 novembre 1917
i sacerdoti della zona si erano raccolti con lui, nella sua canonica, e avevano presa,
d’accordo, questa decisione: “Il clero rimanga con il popolo, e soffra con lui”.
Al Colonnello chiediamo se vi sia pericolo. Mi risponde affermativamente. Ne
avviso i miei parrocchiani, e senz’altro parto con le sorelle per Vazzola, mentre le
Palazzo dell’Agenzia Papadopoli, residenza di Angelo Schileo, agente generale e sindaco di San Polo di
Piave
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palle fischiano sopra la carrozza, e una
bomba esplosiva scoppia a pochi metri di
distanza. Il cavallo spaventato si slancia
a corsa sfrenata, e ci salva. Guai a noi
se si fossero rotti i finimenti! In carrozza
con noi volli l’argenteria della chiesa, i
registri canonici e l’oro della Madonna,
(che le mie sorelle salvarono portando
sempre con sé sotto le vesti).
13 novembre
DON AMERIGO GARBUIO - Il paese si poteva dire interamente deserto:
quella mattina don Garbuio constatò, per la prima volta, che era rimasto
senza parrocchiani: doveva egli pure decidersi e rassegnarsi a fare un S. Martino in ritardo. — Partì da S. Michele alle ore 10 antimeridiane, per ignota
11 novembre. Domenica
Angelo Schileo
DON GIOVANNI DAL POZ Vado a Vazzola, celebro la S. Messa, ritorno a Cimadolmo per condurre a Vazzola la signora Piva in Rampin, che invece rimane con l’intenzione di custodire
le sue suppellettili. Ritorno a Vazzola. Vi
dormo la notte in canonica.
12 novembre
DON GIOVANNI DAL POZ - Faccio per tornare a Cimadolmo, ma mi si
vuol requisire il cavallo, che nascondo dietro la canonica di Vazzola di giorno, ed in
cantina di notte. In questi giorni notizie laconiche, ma che nascondono uno stato
d’animo incomprensibile.
Mons. Giuseppe Chiarelli,
arciprete di San Polo di Piave
Don Francesco Pizzin, parroco di Rai
MARIA NARDI - Oggi, l’invasione dei tedeschi è già avvenuta, ieri sera vi fu
una piccola resistenza di nostri al Monticano; si sentivano colpi di cannoni e di
mitragliatrici, ma verso le 10 i nemici avevano già valicato il fiume.
Né si tarda a far conoscenza con gli invasori: forza è ceder loro fin dal
primo giorno, cavallo, veicoli e non so quante altre cose, mentre i soldati invadono podere, giardino e per sfamarsi rubano galline, conigli e quanto vien
loro sotto mano, perché non si fan riguardo di entrare nelle stanze a prender
ciò che loro garba meglio.
Un ufficiale alloggiato in casa nostra aveva detto: «Loro non sanno che cosa
sia la guerra». Disgraziatamente lo abbiamo imparato.
Reparto austriaco in piazza a Vazzola schierato di fronte alla chiesa
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destinazione, ma con l’intenzione di ritornare in paese la sera stessa: un po’
di biancheria e una berretta a croce fu l’unico corredo che volle, quel giorno,
portare con sé. — Si portò a Vazzola, dove pure si era rifugiato il parroco di
Cimadolmo. Giunto a mezzogiorno in casa canonica, fu giustamente rimproverato della sua arditezza: la sua permanenza a S. Michele era ormai inutile.
Don Garbuio restò confuso dinanzi alle osservazioni dei confratelli, ma si
mostrò talmente calmo da confessare candidamente di non aver dormito mai
sonni più tranquilli quanto in quelle notti, sul duro suolo della sua cantina,
confortato dal pigolìo delle galline e di qualche tacchino.
Don Garbuio aveva lasciato l’Eucarestia nella cappella dell’asilo. Quando
intese che una nuova disposizione aveva imposto al popolo di non allontanarsi
da Vazzola, sotto pena di fucilazione, si vide perduto; e quando i sacerdoti,
raccolti in quella casa canonica unitamente al parroco di Susegana e all’arciprete e al cappellano di Vazzola, lo consigliarono a non portarsi in S. Michele
quella sera, per non cadere nelle mani dei gendarmi di ronda, comprese l’errore in cui involontariamente era incorso: i Tedeschi lo consideravano ormai
come un vero prigioniero e, come tutto il clero della zona, quale spia italiana,
e perciò controllato in tutti i suoi movimenti…
14 novembre
DON AMERIGO GARBUIO - II Comando di Tappa di Vazzola non concesse, la mattina del giorno 14, il permesso al sacerdote di portarsi in S. Michele; ma don Garbuio riuscì a mandare in paese una persona di fiducia, per
informare la sorella Rosa e la sig.ra Campion di mettersi subito in salvo in
Vazzola e portarvi il SS.mo Sacramento. — Il SS.mo fu portato dalla sig.ra
Campion in una sporta ripiena di cenci: la Sacra Pisside fu avvolta in un
panno bianco; l’operazione riuscì a capello: le due donne si allontanarono
inosservate, quali due mendicanti, da quell’asilo che tanti ricordi pietosi concentrava in se stesso. Lungo il viaggio si associò a loro un’altra donna, la sig.
ra Angela Buosi, mamma dell’avv. dott. Enrico Buosi: la nuova compagna di
sventura fu informata del sacro deposito che avevano con sé quelle due finte
mendicanti: le tre donne lungo la strada recitarono l’intero Rosario. Quando
entrarono nella chiesa di Vazzola, trovarono il parroco don Garbuio, vestito
degli indumenti sacerdotali, che le attendeva. Consegnarono, piangendo, la
Sacra Pisside al sacerdote che pure piangeva per la commozione: nessuna parola si scambiarono il parroco e le parrocchiane di S. Michele: quel silenzio e
quel pianto dissero tutta la gioia che faceva sussultare il cuore per veder salve
da una sicura profanazione le Specie Sacramentali.
Trincee italiane sul Piave
Le rovine della chiesa di Cimadolmo
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15 novembre
DON AMERIGO GARBUIO - Una stranissima disposizione del Comando di
Vazzola fu emanata il 15 novembre: durante la notte le porte delle case dovevano
rimanere spalancate: in Italia era entrato ormai il fiore dei galantuomini e le case
non avevano più bisogno di custodia! La disposizione portò subito le sue tristi conseguenze: si moltiplicarono i furti notturni, sotto gli occhi delle stesse autorità militari;
in casa canonica di Vazzola, dove avevano preso alloggio i gendarmi germanici, fu
rubato tutto il fieno dopo la mezzanotte del giorno 15 novembre: l’operazione si
compì con la massima tranquillità, e i due gendarmi che riposavano nello stesso
fienile, giurarono di non essersi accorti che il fieno veniva levato di sotto alle loro
dure schiene! - Queste disposizioni, barbare e ridicole ad un tempo, eccitarono lo
sdegno; ma non si potè protestare.
Ciò che nauseò la popolazione raccolta in Vazzola furono i sacrilegi che soldati
germanici, protestanti e mussulmani, compirono nelle nostre chiese della riva sinistra del Piave. I sacrilegi si perpetrarono là dove il sacerdote si era allontanato,
dove la chiesa era rimasta abbandonata. Il parroco di Tezze, don Angelo Pedron,
non aveva consumato il SS.mo prima di lasciare la sua parrocchia per passare il
La chiesa di Tezze di Piave con il crollo parziale del campanile
Piave: i Tedeschi scassinarono il Tabernacolo nella speranza di farvi largo bottino.
Don Garbuio, informato della cosa dalla sig.ra Celeste Zandonadi, il 15 novembre
si portò, unitamente all’arciprete di Vazzola Mons. Domenico Zanette, in quella
chiesa. Dentro il Tabernacolo trovò la pisside contenente una metà dell’Ostia: l’altra metà e le particole consacrate per la Comunione dei fedeli erano scomparse. E’
evidente il sacrilegio: le porticine del Tabernacolo erano state asportate: il SS.mo fu
raccolto e trasportato nella chiesa di Vazzola.
16 novembre. Domenica
DON AMERIGO GARBUIO - In compagnia dell’arciprete di Vazzola, don
Garbuio si portò a Rai di S. Polo, dove pure il SS.mo era stato abbandonato; là pure
il sacrilegio fu perpetrato dai Tedeschi. I frantumi eucaristici furono raccolti e trasportati a Vazzola, unitamente ai paramenti sacri che, sotto l’incubo dello spavento,
don Pissin (Pizzin) non aveva asportato dalla sua chiesa. - Nella chiesa di Vazzola
si trasportarono pure i paramenti sacri rimasti abbandonati nella chiesa di Tezze.
MARIA NARDI - Anche oggi una festa senza suono di campane, messe dette alla chetichella, che sembra d’esser ritornati ai tempi in cui i primi cristiani
si radunavano nelle catacombe.
Una delle cose più penose è l’assoluta mancanza di comunicazioni, non si sa
Requisizione di campane
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22 novembre
MARIA NARDI - Credo ci siano probabilità che i tedeschi siano respinti,
ma chissà a che cosa andremo incontro noi. Hanno piantato stamane una
mitragliatrice nel nostro cortile; non ci voleva che questo per metter al colmo
la costernazione della servitù. E’ veramente un momento brutto il presente e
la situazione sembra farsi ogni giorno peggiore.
25 novembre
Requisizioni e violenze in un quadro dell’epoca
più nulla, non solo di quel che succede al di là del Piave, ma neanche dei paesi
vicini invasi, né si riesce ad aver notizie esatte sugli avvenimenti del fronte.
20 novembre
DON GIOVANNI DAL POZ - Comincio ad andare a Rai per i bisogni
spirituali di quella popolazione, priva di parroco, che scappò al di là del Piave come
il parroco di Tezze.
A Rai! Che vita! Qualche notte la passo in mezzo ai soldati tedeschi, in un giaciglio, in una atmosfera da caserma, in un tanfo da taverna. Le popolazioni, quando
mi vedono, sono in festa: sembra loro di vedere colui che toglie i dolori, le sofferenze.
Le mie non possono essere che parole, ma quanto sono gradite, e come sollevano!
Seppellisco i morti, dopo di aver loro amministrato i SS. Sacramenti, e, la festa,
spiego il Vangelo, e confesso quelle persone che possono giungere fino alla chiesa.
DON AMERIGO GARBUIO - I cinque sacerdoti, riuniti in casa canonica
di Vazzola, in compagnia dell’avv. Dott. Nardi, si recarono presso il Comando
germanico per implorare un po’ di disciplina nella truppa e per impedire che si
commettessero tante ladronerie e sevizie contro la popolazione borghese. I sacerdoti furono accolti freddamente, in piedi, nell’anticamera del Comando: si
rispose con una sola parola: “Si provvederà!”: ma il provvedimento assicurato
non fu mai preso, e quella formula verbale rimase una promessa secca e fredda,
vera lettera morta fino all’epoca dell’armistizio.
MARIA NARDI - Oggi il mio 36.m° compleanno; non mi ricordo di aver
cominciato un nuovo anno in condizioni così critiche. Pare che i Tedeschi
21 novembre
DON GIOVANNI DAL POZ - Con l’Arciprete di Vazzola Don Domenico
Zanette, vado a Campagnola di Mareno per presentare a quel comando un memoriale delle infamie commesse dai soldati germanici, i quali rubano tutto, minacciano tutti, attentano al pudore delle donne e delle ragazze (magnifiche ragazze, forti
come le Agnesi!), ed hanno ucciso un uomo, perché non voleva cedere l’unica risorsa
rimastagli: il maiale. Quest’uomo è traforato dalle pallottole del fucile nemico, in un
lago di sangue, coi parenti impazziti d’intorno! Quale schianto per il cuore!
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Al centro la canonica di Vazzola
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abbiano passato il Piave in qualche punto, ma di notizie positive non se ne
sanno. Si cerca saper un poco di quello che succede in Italia, ma non si riesce
che ad avere qualche notizia confusa.
renza della legalità, né dalla concessione dei ridicoli buoni di requisizione che
rivelarono, in seguito, un furto compiuto in forma elegantissima.
8 dicembre
27 novembre
MARIA NARDI - Ieri qui da noi vi fu una riunione delle persone componenti il comitato provvisorio per l’ordine del paese che, stante le requisizioni
fatte, vede con paura l’avvicinarsi dell’inverno.
6 dicembre
DON AMERIGO GARBUIO - Il Comando di Vazzola impose la requisizione di tutti i cavalli, dei muli e degli asini: i quadrupedi si dovevano condurre sulla pubblica piazza; motivazione del nuovo ordine draconiano, una
semplice visita medica ai quadrupedi che si sospettavano colpiti dall’afta. Ma
quando tutto il bestiame fu raccolto in piazza, il comandante ordinò la requisizione completa; tutti quegli animali dovevano la sera stessa essere spediti
in Germania: a Vazzola non rimasero che pochi asini malconci e sfiancati che
stentavano a reggersi in piedi. I proprietari ritornarono alle loro case mortificati, imprecando contro una violenza di nuovo genere, non coperta dall’appa-
Volantino italiano lanciato dagli aerei nei territori occupati dal nemico
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DON AMERIGO GARBUIO - Ma le vessazioni si erano appena iniziate:
la requisizione nella zona di Vazzola, per opera delle truppe germaniche, non
poteva diventare più radicale.- Il giorno 8 dicembre, della festa dell’Immacolata, un nuovo bando del Comando austriaco impose che nella piazza fossero
condotti tutti i bovini; non si allegò più il pretesto di una visita medica, ma si
fece comprendere che una nuova requisizione si doveva attuare su larga scala.
Si disse che tutto quel bestiame doveva essere spedito d’urgenza in Germania
per servire di alimento ai nostri prigionieri italiani che in tutto il tempo della
prigionia non gustarono mai un po’ di carne! Mancò la franchezza di dire:
“Abbiamo fame noi!”: il popolo intese questa necessità: non reclamò; non protestò; subì l’ultimo sacrificio con quella rassegnazione che fortifica le anime nel
dolore. “In tutte le famiglie si lasciò soltanto una vacca, con l’onere tassativo,
- nuova ironia! - di fornire tutte le mattine il latte, non già ai bambini, ma
ai signori ufficiali germanici!”.
Requisizione di vino nella cantina Bellussi a Tezze di Piave
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MARIA NARDI - La festa della Madonna, quest’anno viene proprio come
fiore in mezzo al deserto. Non sappiamo niente di preciso intorno alla guerra, deve essere successo qualche cosa di anormale, perché i germanici hanno
ricevuto un ordine preciso di partire. Sembra si rechino tutti dalla parte di
Cividale che qui invece verranno gli austriaci.
Ieri sera viene dato l’ordine che stamane tutte le bestie, mucche, vitelli, ecc.
fossero condotte in piazza per una requisizione generale. Questa povera gente
è disperata...
9 dicembre
DON AMERIGO GARBUIO - Fu l’ultima impresa che si compì, in questo
primo periodo d’invasione, dalle truppe germaniche accantonate nella zona Vazzola – Tezze – San Michele di Piave. – Il giorno 9 dicembre la divisione germanica
cambiò settore: ma la distruzione e la requisizione erano ormai complete: “Durante
questo mese, i Germanici, gente superba, prepotente e senza cuore, hanno fatto
soffrire il soffribile a questa povera popolazione; hanno asportato quanto si
poteva asportare, senza alcun rispetto a persone o a cose; hanno distrutto tutto
ciò che si poteva distruggere; niente hanno pagato né in contanti, né con l’apparenza dei buoni. Ripetevano in tono canzonatorio e in aria di trionfo: «Ita-
lia? Caput! Tutto deve essere distrutto:
vogliamo andare a Roma: vogliamo
strangolare il Papa, e poi dormire sul
suo letto!». - In grande maggioranza
erano soldati luterani, istigati nelle loro imprese di brigantaggio dai
loro stessi cappellani! Entravano nelle
case, dove tutto doveva essere a loro
disposizione: «..letti, stanze, cucina,
granaio, cantina e stalla. Le bestie
venivano sciolte e lasciate libere per
le campagne: nelle stalle mettevano i
loro cavalli; nei letti dormivano loro,
e i proprietari dormivano per terra; il
granone veniva dato in pasto ai cavalli, molti dei quali dovettero, in conseguenza, morire; il vino veniva lasciato
Il cappellano militare Holler, Padre Domenicano
Da sinistra: don Amerigo Garbuio, padre Holler e il cappellano di Vazzola don Giovanni Rattin
seduti all’esterno della canonica
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correre per le cantine e in quei laghi di nuovo genere furono trovati annegati
diversi soldati germanici; alle galline si dava la caccia col fucile, e quando tutte furono uccise, si pretendeva la fornitura delle uova, anche in pieno inverno;
i maiali venivano uccisi a colpi di baionetta, bruciacchiati un po’ alla meglio
e divorati in poche ore, senza condimento: i barbari, calpestato il bel suolo
d’Italia, rinnovarono, in questi paesi, le gesta dei loro vecchi padri».
Nella sua relazione don Garbuio non può essere più efficace; si comprende
dalle sue parole come il popolo istupidito non seppe mai reagire: era il terrore
che imperava, il de-spotismo più assoluto, la barbarie più raffinata. «Quando
quegli assassini se ne andarono, il popolo li accomiatò colle sue maledizioni;
sospirò un po’ di tregua: ma questa tregua alle violenze era ancor lontana» : le
scene di terrore dovevano riprendersi presto con un crescendo sempre più forte
che aumentò le vittime fra i nostri poveri connazionali.
Il settore abbandonato dai soldati germanici fu occupato da soldati ungheresi,
magiari e sloveni: le condizioni morali ed economiche non migliorarono; unica
differenza fu che il cappellano militare era il padre Holler, domenicano, ottimo
sacerdote che fu di valido appoggio e di ottima difesa per i nostri sacerdoti, quantunque, con tutta la sua buona volontà, non sempre riuscisse ad ottenere buoni risultati
per le truppe. Specialmente al loro primo arrivo, tutte le notti i soldati ungheresi si
davano all’opera di libertinaggio: “Ogni mattina, fanciulle e madri giungevano in
canonica spaventate e piangenti per raccontare le sevizie patite durante la notte e
pregare che venisse posto un rimedio. Anche stando in canonica si sentivano, durante la notte le grida di queste donne, spaventate da questi animali viventi. L’arciprete
di Vazzola si decise di raccogliere in una stanza della canonica le ragazze più esposte
al pericolo.
DON AMERIGO GARBUIO - La mattina del giorno 12 giunsero in Canonica due ragazze di Vazzola, spaventate e disperate perché, durante la notte, alla
presenza della madre, e la madre alla presenza delle figlie, erano state con violenza
percosse, ferite e deflorate da soldati ungheresi …”.
11 dicembre
DON GIOVANNI DAL POZ - L’arciprete di Vazzola ed io andammo a
Vittorio Veneto. Visitiamo il Vescovo in seminario, mangiamo un boccone da Mons.
Bellè canc. Vesc., e la notte dall’11 al 12 dormiamo in casa dei parenti dell’arciprete
di Vazzola a Cappella Maggiore.
Notte dall’11 al 12: fatto orribile
DON GIOVANNI DAL POZ - Molti soldati circuiscono la casa di una donna di Vazzola, la oltraggiano, e deflorano alla sua presenza le sue due figlie, che
dormono nel suo medesimo letto con lei.
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Disposizioni nemiche sulle requisizioni
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Era il colmo dell’impudenza: da uno stato di vessazione e di ladronerie si era
passati ad una condizione ancor più umiliante. - Don Garbuio, in assenza dell’arciprete di Vazzola, ma in compagnia del cappellano di quest’ultimo, si presentò
al Comando, espose le nuove violenze all’ottimo padre Holler, e richiese dei provvedimenti. Sei Ungheresi furono arrestati; ma pochi giorni dopo, rimessi in libertà,
quei soldati giravano indisturbati per le vie di Vazzola, con aria di indifferenza e
di disprezzo.
DON GIOVANNI DAL POZ - Questo fecero gli Austriaci, che, ai primi di
dicembre, occuparono il posto lasciato libero dai Germanici, partiti per la grande
offensiva contro la Francia, scatenatasi nella primavera successiva.
13 dicembre
DON GIOVANNI DAL POZ - L’arresto. A Rai e a Tempio per una visita;
poi ritorno a Vazzola. Alle ore 17 del 13 il segretario comunale di Vazzola viene in
canonica, e con molta circospezione mi annuncia il mio arresto. Subito non comprendo, poi penso alla causa.
Il generale Radgh il 6 dicembre, in Rai, aveva fatto firmare da un suo subalterno
il mio passaporto per Vittorio Veneto; poi il medesimo generale partiva per Lutrano,
e veniva sostituito da un altro comando, al quale io non feci vedere il passaporto, e
il martedì successivo, 11 dicembre, andavo a Vittorio Veneto, poi a Cappella Maggiore, e quindi ritornavo a Vazzola, a Rai e a Tempio tranquillamente.
Si credette, dal nuovo comando, ch’io fossi paroco di Rai, e che mi fossi allontanato dalla parocchia senza passaporto. Alle ore 17, dunque, del 13 fui condotto in
casa Mozzetti, mi si scaldò una stanza; più tardi mi si permise che Don Giovanni
Rattin, cappellano di Vazzola e Don Amerigo Garbuio, paroco di S. Michele, mi
portassero un po’ di cena, mi facessero compagnia per un’oretta, e che il profugo di
S. Michele di Piave, Francesco Berna, mi si portasse un materasso per dormire la
notte…
A mezzodì Don Amerigo mi portò un po’ di cibo per desinare e mi avvisò che
alle tredici l’arciprete di Vazzola ed io saremmo andati a Rai, da quel comando.
Di fatto carrozza e cavallo erano pronti all’ora stabilita: l’arciprete mi aspettava e
fra due angeli custodi a cavallo andammo a Rai, dove quel colonnello, visto il mio
passaporto firmato in piena regola, si accontentò di dirmi che avrei dovuto avvisarlo
prima di allontanarmi dal paese. Risposi che, se avessi saputo ciò, l’avrei fatto; e fui
rimesso in libertà.
Ma intanto che notte! quanti timori! quanti esami di coscienza! quali meditazioni sulla morte! Fu spontanea la asserzione: maledetta sorte! Sotto gli italiani eravamo segnati a dito come austriacanti, sotto i Tedeschi lo siamo come spie italiane!
DON AMERIGO GARBUIO - Continuarono, anche in questo periodo, le
ruberie, da parte dei soldati, col tacito consenso, se non l’approvazione dell’autorità
superiore. Per impedire l’ultima rovina della popolazione, le autorità ecclesiastiche
e civili di Vazzola decisero d’inviare un memoriale al Comando Supremo dell’armata: specificarono le violenze commesse contro le proprietà private e si richiesero,
d’urgenza dei provvedimenti. - Il memoriale non ebbe l’onore di una risposta! La
popolazione rimase abbandonata nella sua angoscia: la fatale cappa di piombo
continuò a gravare sopra i nostri connazionali.
Si riferisce a questo periodo di tempo un episodio raccolto a Vazzola dal cav. Car-
Palazzo Mozzetti
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lo Magello; non è un episodio di violenze compiute in grande stile, ma un episodio
sintomatico delle vessazioni continue a cui le nostre famiglie erano esposte da parte
di elementi indisciplinati dell’esercito nemico. - Lo riproduciamo nella sua integrità: “ Siamo nei primi giorni, dopo l’occupazione; in un casolare di campagna.
– “Dove tabacco?!! Avere vostra casa tabacco! E dare tabacco!” – così ripeteva eccitato
un soldato tirolese ad una donna sorpresa in cucina con un bambino ammalato.
– “Volere tabacco!”, insiste il soldato, agitando una di quelle grandi pipe tirolesi in
majolica, che portano l’effige di Francesco Giuseppe e lo stemma imperiale. - La
donna, sollecitata dalle imposizioni del soldato, ricordò che il marito aveva lasciato in un armadio della stanza coniugale, del tabacco, e si precipitò a prenderlo,
anche… per liberarsi da quella visita poco gradita. Ritornata in cucina, con sua
viva sorpresa non trovò più il soldato tirolese, né… la pentola al fuoco, dove stava
rinchiuso un pezzo di carne. Si portò alla porta, e vide, in distanza il soldato che
rivolgendole un sogghigno beffardo, agitava, quasi trofeo, la pentola rubata in quella povera casa. - Naturalmente, quel giorno, il bambino ammalato non gustò una
goccia di brodo”.
Verso la fine del mese di dicembre cessarono i ladrocini privati e si iniziò la serie
di requisizioni ufficiali: se ai primi qualche volta era possibile porre un riparo, per le
seconde tutte le cautele si resero inutili. - Lo spettro della fame cominciò a mostrarsi
a quel popolo prigioniero, oppresso, già da due mesi.
Macellazione di maiali per sfamare le truppe nemiche
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Fatto più odioso, i gendarmi austro-ungarici, in queste ripetute perquisizioni,
erano accompagnati da interpreti del paese: persone obbligate, costrette spesso ad un
servizio così ignobile, e qualche volta gareggianti col nemico nell’angariare le povere
famiglie!
Ogni resistenza provocava le chiamate al Comando, le punizioni, le multe, le
minacce di pene maggiori: fu il tormento più grave per i nostri invasi! Il nemico
non fece mai mistero delle sue intenzioni: Il Comando di Tappa impose a Vazzola
la pubblicazione, in chiesa di un manifesto che diceva semplicemente così: “I borghesi nulla aspettino dal nostro Governo, si rassegnino a patire la fame!”. – I fatti
confermarono quella che sembrava appena una minaccia, e la trasformarono ben
presto in una tristissima realtà”.
La popolazione si interessò per nascondere quanto era indispensabile per la vita.
Fortunato chi potè vivere in casa propria; disgraziato il profugo che, avendo perduto
tutto, nulla poteva nascondere, “e dovette vivere con la tessera, o industriandosi con
le appropriazioni indebite”.
In questi ultimi giorni del 1917 furono uccisi “gli ultimi animali bovini e suini,
lasciati agli interessati dalle requisizioni: quella carne si conservò gelosamente come
preziosa riserva per i giorni che ormai si avvicinavano più tristi e più dolorosi. Fu
un’industria legittima: dove un vile delatore, indegno del bel cielo d’Italia, non
denunziò al nemico le riserve accumulate, la vita si continuò meschina, ma non
disgraziata; dove il tradimento, suggerito da antipatie personali, ebbe il suo predominio, trionfò la miseria, e allargò il numero dei rapitori e dei ladri”.
A queste industrie si decisero di dedicarsi, una volta sola, anche i parroci di
S. Michele di Piave e di Cimadolmo. L’impresa compiuta ebbe tutti i caratteri
della comicità. — I due sacerdoti acquistarono un maiale a caro prezzo; lo
fecero uccidere in aperta campagna per non eccitare l’allarme dei gendarmi
austriaci, e poi si affidò a don Garbuio l’incarico di trasportare la vittima in
canonica di Vazzola e di disporre per il confezionamento dei salsicciotti. — E
don Garbuio fece sistemare quel maiale ucciso sul fondo di uno di quei calessi
rustici che nei nostri paesi di campagna sono usati per raccogliere le immondizie delle pubbliche strade; la vittima fu coperta di foglie e di paglia, e il calesse
affidato a due ragazzi del paese. Il veicolo si mise in viaggio, lentamente; un
ragazzo, con un badile in mano, raccoglieva gli sterpi e le immondizie e le
gettava sopra il calesse; l’altro ragazzo, impassibile, tratto tratto si fermava
per ostentare la sua stanchezza, e poi riprendeva il suo viaggio. Pochi metri
discosto, seguiva il veicolo don Garbuio, con l’aspetto dell’uomo indifferente
che osserva che cosa succede d’intorno e spia intanto tutti i viottoli per assicurarsi che nessuna belva esca da un nascondiglio improvvisato per avventarsi
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sulla preda. L’impresa riuscì: i gendarmi lasciarono passare indisturbati quei
monelli, compassionando forse la miseria italiana: poche ore dopo in canonica
di Vazzola si lavorava a salsicciotti e si rideva saporitamente sulla dabbenaggine teutonica. — Senza dubbio, se l’impresa non fosse riuscita, don Garbuio
sarebbe stato colpito da una multa grossissima e avrebbe scontato in prigione
il suo ardimento.
Contrasto
DON GIOVANNI DAL POZ - In piazza di Vazzola suona la musica. Il
nemico ha fatto un’avanzata sul Piave. E’ in giubilo. Silla Facchin, da Cimadolmo,
porta a Vazzola una bomba a mano, inesplosa, e gioca con essa nella cucina della
famiglia, che lo ospita presso la chiesa; la fa scoppiare ferendo sé, la madre, il padre e
la padrona di casa. Quale contrasto con l’allegria della piazza! Dopo qualche giorno
il padre guarisce; dopo qualche settimana guarisce la padrona di casa, e la madre del
ragazzo, dopo qualche settimana, muore a Mareno di Piave, in quell’Asilo Infantile, convertito in ospedale; mentre il ragazzo si vede amputare ambedue le mani.
In questo tempo alcuni soldati stanno a nord-ovest della canonica di Vazzola
guardando in alto e, a un certo momento, battono le mani. Hanno assistito a un
duello tra due aeroplani, e gioiscono per
l’incendio di uno che sta per cadere: lo
credono italiano. Mi fermo. L’aeroplano
precipita presso di noi. Subito impartisco
l’assoluzione sotto condizione al disgraziato aviatore, nella speranza che sia
cattolico e ancor vivo. Ma i battimani
cessano, e la gente ivi radunatesi viene
allontanata quando i soldati si accorgono che l’aviatore è un tedesco, sformato,
rotto lo stomaco, nel quale si vedono fegato, cuore, polmoni e il cibo dell’ultimo
pasto. Mi ritiro piangendo in cuor mio
l’animo cattivo di quei soldati…
Silla Facchin, da Cimadolmo profugo a Vazzola,
con le mani amputate
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“ D I Q U A D I L A’ D E L P I AV E ”
di Mario Bernardi, ed. Mursia, 1989, pag. 46 - 49
In t e r v i s t a a d El i s a Fa g n o l
«All’epoca dell’invasione avevo tredici anni. Un’età giovane, ma sufficiente
a tener fissi i ricordi nella memoria, di quei giorni in particolare, perché alla
paura si aggiungevano la fame e la disperazione di mia madre che si trovava
a dirigere da sola una famiglia numerosa come la nostra. Mio padre era al
fronte e di lui non si avevano notizie da più di un mese, perciò non potevamo
neanche sapere se era morto o vivo.
Visnà è un piccolo paese di circa 1200 abitanti; chi poteva, ma furono
pochissimi, se n’era andato oltre il Piave. Avevamo notizie da Oderzo e da
Conegliano dove sembrava che la maggior parte degli abitanti avesse abbandonato la città, ma nel nostro piccolo borgo ci sentivamo abbastanza sicuri
e mai avremmo immaginato che, proprio qui, si sarebbe consumato l’ultimo
atto dell’estrema resistenza austriaca all’antivigilia dell’armistizio. Perciò ho
scritto quella memoria su di un mio quaderno di scuola, perché volevo che
si sapesse quanto grande fu il nostro patimento durato fino all’ultimo giorno
del conflitto. Ma, andando per ordine, vediamo di rivivere insieme i primi
momenti dell’invasione.
Da noi arrivarono i germanici.
Erano numerosissimi e molto organizzati. Mio padre esercitava la professione di falegname e di commerciante
di legnami, ma avevamo anche una
piccola proprietà a Rai, nei pressi di
San Polo di Piave. Come ogni anno,
le pannocchie erano accumulate nel
granaio del nostro colono ed il vino
era stato invece messo nella cantina
di casa nostra in attesa di spartirlo
col mezzadro. Arrivati i tedeschi,
senza indugio decisero di installare
le loro cucine proprio nel laboratoriomagazzino di mio padre, e noi sette
fratelli con mia madre fummo relegati in due stanze insieme a mia nonna
Elisabetta Fagnol
e a mio nonno. Accatastati come le
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bestie gli uni sugli altri, avevamo però la segreta speranza di poter almeno usufruire di qualche beneficio dalla cucina da campo tedesca. Qualcosa riuscivamo ad ottenere, ogni tanto, ma si trattava di briciole che mia madre riusciva
a raggranellare per noi ed a trasformare in cibo che potesse sfamarci. La prima
operazione della truppa d’invasione fu quella di sequestrare tutte le bestie
nelle stalle dei contadini. In principio sembrava che permettessero l’uso di una
Elisabetta Fagnol, prima a sinistra, e le sorelle Richetta, Rina, Lucia e Teresa
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vacca per ciascun nucleo familiare ed allora ci fu possibile avere da una nostra
zia qualche litro di latte e consumarlo con le poche scorte di farina da polenta
che mia madre cucinava con grande parsimonia ogni sera, badando poi a dividere le porzioni con meticolosità. Ricordo gli occhi di mio fratello più piccolo
che guardava questa polenta abbrustolire sulla graticola indicando con le sue
manine alla mamma le fettine più grosse dicendole: mamma, questa e questa
sono per me. E lei ad accarezzarlo e a dirgli di sì, mentre le si inumidivano gli
occhi e ci guardava per capire se comprendevamo la sua disperazione.
Come dicevo, erano appena arrivati, ma la loro organizzazione era tale
che, ogni mattina all’alba, procedevano alla macellazione di maiali requisiti
il giorno prima e trasformavano le carni in salsicce, badando di lasciare in
disparte le parti migliori per la mensa degli ufficiali.
Mia madre, altrettanto mattiniera, si avvicinava al caporale di cucina e
qualche volta riusciva ad ottenere qualcosa. Soprattutto le scaglie di pelle e
di ciccioli di grasso che in parte si mangiavano, in parte si trasformavano in
grasso per fabbricare candele. Eravamo diventati tutti degli artisti in questo
senso. Costruivamo gli stoppini attorcigliando il filo grosso in modo strettissimo e poi facevamo colare il sego liquefatto in uno stampo lasciandolo rassodare
quanto necessario. Alla fine, purtroppo, si dovette ricorrere a questa scorta di
candele per condire il radicchio e le altre poche erbe che riuscivamo a trovare
nei campi. Ma loro, i tedeschi che rimasero a Visnà fino al febbraio del ’18,
continuarono imperterriti i loro riti mattutini di preparazione delle salsicce,
senza curarsi dei nostri sguardi e senza commuoversi.
Cercammo di raggiungere il nostro patrimonio nel granaio del mezzadro
a Rai ma ci fu negato il permesso perché si diceva che non era possibile avvicinarsi alla zona del fronte. Del resto il viaggio sarebbe stato inutile perché,
come si seppe più tardi, anche lì erano arrivati i provvedimenti di sequestro
fin dai primi giorni ed il nostro contadino era riuscito a salvare a malapena
qualcosa per la sua famiglia. Poi lo avevano buttato definitivamente fuori di
casa e trasferito in un paese del Friuli assieme agli altri del suo paese. Insomma
eravamo soli e disperati. Anche il vino era sparito, e le galline e quindi le uova.
Ci restava un po’ di latte che nostra zia ci passava ogni giorno e, in cambio,
noi andavamo in cerca di fieno per la sua vacca che era tenuta ben nascosta e
lontana dalle tentazioni dei nostri occupanti.
La nostra bisnonna, che viveva in una casa vicina alla nostra, ci veniva a
trovare e vedendo sempre la tavola vuota, si girava verso mia nonna e diceva:
“Maria, perché no te va pi a botèga?”. Mia madre sorrideva e ci guardava con
quei suoi grandi occhi. Le botteghe, come si sa, erano chiuse da un pezzo, e
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l’ultima cosa che mi era successa di poter comprare era una scopa ed un pezzo
di sapone. Ma erano passati già due mesi ed anche il radicchio di campo, che
da noi cresce abbastanza rigoglioso d’inverno, era finito. I tedeschi no, loro
avevano un grande magazzino viveri proprio nel centro del paese, e noi guar-
I soldati austriaci mostrano soddisfatti gli animali requisiti
Macellazione di bovini requisiti dal nemico
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davamo scaricare grandi sacche di pane nero e tante scatolette di carne dentro
a cesti di vimini, che venivano ammonticchiati gli uni sugli altri.
Mia madre diceva: “Ma quel pan el se rovinarà!” e noi, che ormai ne
avevamo dimenticato il sapore, soffrivamo con lei non meno che con i poveri
soldati che anch’essi alle prese con privazioni sempre più dure stavano all’erta
per vedere di far fuori qualcosa alla prima occasione. Infatti quest’ultima non
mancò e fu una beffa crudele per tutti.
Un giorno di febbraio arrivò una delegazione composta da un generale
tedesco e da alcuni altri ufficiali germanici. Fecero aprire il magazzino e, subito, si udì un gran vociare di imprecazioni che sembravano bestemmie. Poco
dopo gli ufficiali uscirono con il volto paonazzo seguiti da alcuni soldati che
tenevano sulle spalle i grandi sacchi di pane completamente ricoperti di muffa.
Mia madre, dalla finestra di cucina commentò: “L’avevo detto, il pane non si
può conservare in un magazzino umido come quello. Guardate quanto ben di
Dio hanno buttato via”.
Fu scavata una grande buca ed il pane vi fu rovesciato dentro e sepolto
senza indugio. Le scatolette di carne invece furono imbarcate su dei camion
arrivati nel frattempo, ed al paese non restò che il sapore acre della muffa che
aveva impregnato del suo odore i muri dello stanzone adibito a magazzino. La
notte stessa però, si videro delle ombre di soldati annaspare nella terra fresca
dove si era fatta la buca e tirarne fuori le pagnotte che vi erano sepolte. Le
raschiavano con i coltelli e qualcosa restava. Osservandoli, veniva da pensare
che era cominciata anche per loro la grande fame: l’avevamo già vista nei loro
occhi ingordi, quando erano arrivati. Infatti non avevano esitato ad uccidere,
com’era successo nei pressi di Motta di Livenza, per impossessarsi di un maiale
e mangiarlo appena abbrustolito, riempiendosi la pancia fino a crepare.
Quando le nostre scorte furono quasi esaurite, si seppe, miracolosamente, di un tale mugnaio di Lutrano che vendeva farina in cambio di oro. Si
fece un consiglio di famiglia e si decise di mettere mano ai tre marenghi che
mio padre aveva nascosto in un luogo sicuro prima di partire per il fronte.
“Cominceremo con un marengo” disse mia madre, “e poi, se sarà necessario,
andremo avanti anche con gli altri due. Sono sicura che, se vostro padre fosse
qui, mi approverebbe”. Partirono, mia madre e mio fratello più grande, ed andarono a Lutrano a barattare questo marengo con trenta chili di granoturco.
Ci andarono di notte seguendo sentieri di campagna sconosciuti e ritornarono
a casa prima dell’alba portandosi sulle spalle quindici chili a testa di questo
grano, sani e salvi. Avevamo tutti una grande contentezza per questo patrimonio che ci avrebbe consentito di avere polenta per una ventina di giorni, ma
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c’era la preoccupazione del macinarlo senza destare sospetti e, soprattutto, del
non farcelo sequestrare.
Proprio in quei giorni però i tedeschi decisero di procedere all’ennesima perquisizione e, affamati com’erano, ci avrebbero sicuramente portato via tutto
se lo avessero scoperto. Perciò mia madre, senza esitazione, trasferì il granoturco in tante federe e ci mise a letto in quattro facendoci passare per vittime
dell’epidemia d’influenza che in quei giorni incominciava a dare fastidio e
più avanti si sarebbe trasformata in una tragedia paragonabile ad un’altra
guerra.
Quando i soldati arrivarono a casa nostra, mia madre li avvertì che aveva quattro bambini ammalati e che se volevano avrebbero potuto vederli a
rischio di prendersi il contagio. Così i soldati misero appena un occhio dalla
porta socchiusa e, vedendoci pallidi e assopiti, ci lasciarono in pace e se ne
andarono.
La polenta comunque finì prestissimo ed io e mia sorella fummo costrette
a deciderci di andare a lavorare nella costruzione di una piccola ferrovia che
partiva dal deposito munizioni che avevano costruito a Visnà e proseguiva
fino a Rai ed a San Polo di Piave. Ci davano una scatoletta di carne al giorno
e qualche galletta. Noi eravamo un po’ ingorde e lavorando, si faceva molta
fame. Ma pensavamo anche ai nostri fratelli più piccoli e portavamo a casa
qualcosa anche per loro. Poi per fortuna arrivò la primavera, e tutti poterono
saziarsi di erbe di campo e di fagiolini, patate e fagioli. I ragazzi si ingegna-
vano con le trappole per gli uccelli ed andavano a pescare sul Monticano e
noi, che avevamo passato l’inverno più triste della nostra vita, andavamo a
cercar erba sui campi e mangiavamo frutti acerbi e fiori di acacia fritti con le
candele di sego che ci erano rimaste. »
25 dicembre
MARIA NARDI - Abbiamo avuto un Natale proprio da tempo d’invasione, senza suono di campane e senza la solita allegria che porta con sé tale
solennità.
Ieri sera si avrebbe creduto di passarlo meno male, anzi si vedeva con piacere che i «nostri padroni di casa», così adesso chiamiamo gli invasori, erano
compresi della festa che si doveva celebrare il domani, ed a cena, in luogo delle
solite baccanate, s’udiva un dolce suonar di violino. Ad un certo punto entrarono poi nella sala dei soldati camuffati da pastori, re Magi, e persino uno da
Madonna, che portavano in processione una capannuccia e cantavano degli
inni natalizi, con una certa aria che mostrava il loro sentimento religioso.
La sala ornata con rami di pino e in un angolo aveva anche il tradizionale
albero di Natale.
Ahimé, pensai, forse lo avevano fatto tagliando uno dei pini del giardino!
ma ormai si è abituati a perdere ogni giorno qualcosa!
Stamane però, appena tornata dalla chiesa ebbi un annunzio che non mi
aspettavo. Durante la notte erano state scassinate le porte della cantina dai
militari che avevano portato via buona parte del vino rimasto: così tutta la
giornata si passò tra andare a ricorrere al Comando e ricevere la visita di un
gendarme che dovrà occuparsi per scoprire gli autori del furto...
Gennaio
Elisabetta Fagnol, prima a sinistra, al mare agli Alberoni (VE)
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DON AMERIGO GARBUIO - Spuntò il 1918; spuntò in un’ombra di
tristezza nuova. Il gennaio 1918 non apportò alcun miglioramento; la vita
continuò con il suo sistema odioso, resa più grave dalle difficoltà del vettovagliamento. — Concentrato tutto il grano nei magazzini del Comando di Tappa col pretesto che si sarebbe attuato il razionamento regolare fra i borghesi,
quel grano fu dispensato in gran parte ai soldati, dato in pasto ai cavalli, o
spedito in Austria: a Vazzola si conservò quanto poteva bastare per una distribuzione giornaliera di gr. 120, per individuo, calcolando il vettovagliamento
unicamente fino al 10 di giugno. Con quest’unica razione bisognava vivere.
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Nel mese di gennaio don Garbuio potè visitare tutti i suoi parrocchiani
concentrati in Vazzola e nei paesi circonvicini: la sua visita accrebbe le sue
pene, ma riuscì di conforto a chi potè sentirsi rivolgere, in mezzo a tanti musi
forestieri, una parola di compatimento. — Anche in questo mese di gennaio
i Sanmichelesi, eludendo il controllo dei gendarmi, più volte si portarono alle
loro case: in queste visite, sconsigliate sempre dal sacerdote, qualche nuova
cosa veniva messa in salvo e nuove dirette informazioni si poterono avere sulle
condizioni del paese. Ma queste visite, se portarono qualche vantaggio, causarono danni fatali: diverse persone rimasero ferite e tre incontrarono la morte,
vittime della loro arditezza. —
Fra le altre cose furono messi in salvo, nel gennaio 1918, oggetti appartenenti alla chiesa e che avevano assunto un uso del tutto nuovo. Perché gli
Ungheresi, a S. Michele di Piave, si mostrarono geniali, di una genialità originale: in diverse trincee del Piave avevano sistemato, quale ornamento, le
pianete rubate dalle chiese di S. Michele e di Cimadolmo; un piviale della
chiesa di S. Michele servì di abbellimento per il ricovero di un ufficiale. Quel
materiale, ridotto in condizione inservibile, fu strappato da quei ripostigli dai
Sanmichelesi, e consegnato, in Vazzola, al sacerdote don Garbuio.
— Nessuna meraviglia, del resto, di queste profanazioni: in altre località si
fece qualche cosa di più. A Tezze di Vazzola, per esempio, un soldato fu veduto
indossare una pianeta mentre accudiva, in cucina, alla confezione del cibo;
altri Ungheresi fecero le mascherate per il paese, rivestiti di indumenti sacri;
a Tezze pure furono scoperchiate le tombe dei sacerdoti, sistemate nell’interno
della chiesa, come pure le tombe private del cimitero: si sperava trovare in
quelle tombe nascosto qualche tesoro!
Foto austriaca del 14 Febbraio 1918 dell’interno della chiesa di Tezze di Piave devastato dalle bombe
Soldati nemici in un momento di festa, forse carnevalesco
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Nel mese di gennaio il paese di S. Michele si poteva dire distrutto: dove non
giunsero le granate italiane, giunse la rapina. Le case furono scoperchiate; le
travi, le imposte, le finestre furono trasportate nelle trincee o abbruciate dai
soldati per ripararsi dal freddo della stagione. Di tutto si cominciò a sentir
penuria, perfino di candele, di olio e degli elementi più semplici per l’alimentazione: «Con il cerume raccolto nella chiesa di Vazzola si confezionarono le
nuove candele per l’illuminazione». Don Garbuio si trasformò in fabbricatore
di steariche, mentre in canonica di Vazzola si fabbricava, di giorno e di notte,
clandestinamente, l’acquavite che poi si cedeva, di nascosto e a buon prezzo, ai
soldati e ai borghesi. — Venne a mancare perfino il legname che era di prima
necessità, e diverse salme furono sepolte senza cassa funeraria: la civiltà era
retrocessa di almeno dieci secoli!
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1 gennaio 1918
17 gennaio
MARIA NARDI – L’inizio fu triste, i nostri inquilini chiusero il 1917 con
una allegria rumorosa che non potevamo condividere e a mezzanotte suonarono i 12 tocchi con una campanella che papà ed io si sentì dal letto.
Mentre salivo le scale m’incontrai con l’attendente ungherese, che di tutti quelli che sono in casa sembra il più cordiale con noi, il quale mi fermò
facendomi gli auguri per il nuovo anno, ma mi disse: «Italia, niente pace».
Purtroppo non vorrei che avesse ragione.
MARIA NARDI - Si ode un rombo del cannone; si capisce che al Piave
deve esserci stato un grande combattimento, e da quanto pare, favorevole agli
italiani; così c’è speranza di vederli tra non molto nuovamente a Vazzola.
Questi soldati, così si dice, devono tenersi, sia di giorno che di notte, sempre
pronti alla partenza, cosa che non spiacerà loro troppo, perché non vedono
l’ora sia terminata la guerra per far ritorno alle loro case.
3 febbraio
14 gennaio
MARIA NARDI - Oggi giornata burrascosa. Vennero a requisirci 120 ettolitri di vino: caricarono tutta la mattina e torneranno per altri due giorni;
mi faceva molta pena vedere il papà assistere a questa ingrata operazione ed
ancora si diceva assieme: «Se poi ritornassero gli italiani e questi se ne andassero si lascerebbe loro portar via tutta la cantina!».
MARIA NARDI - Abbiamo passato due giorni molto brutti, specialmente
quello in cui fecero la requisizione della biancheria; il che rappresenta una
bella perdita. Tutte le stanze furono visitate e convenne aprire ogni armadio e
lasciar loro prendere quanto volevano, e come succede, s’aggiunsero alla requisizione i furti privati dei militari che sono i più pericolosi.
Foto panoramica austriaca del 20 Marzo 1918 di Vazzola, probabilmente scattata dall’antica torre campanaria, nella quale all’estrema sinistra è visibile palazzo Nardi collocato al termine della via omonima
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Io fui ancora abbastanza fortunata, perché avea ceduta la mia camera a
papà che in questi giorni ha l’influenza e si trova a letto. Essi vedendo il mio
papà a letto, ebbero un senso umanitario e si ritirarono, e così il mio corredo
fu salvo!
Non tutti in paese furono così fortunati, e tante povere donne sono rimaste
senza la biancheria da cambiarsi, tanto che dopo questa requisizione, nel paese è entrato un senso di scoraggiamento e tutti temono che, se non si ritirano
presto, ne abbiamo ancora a veder delle brutte.
Ora raccolgono anche il granoturco per immagazzinarlo o distribuirlo
più tardi a razione alla popolazione, ma sta a vedere se lo mangeremo noi!
I soldati austriaci sono letteralmente morti di fame: chiedono una fetta di
polenta con le lagrime agli occhi, tanto che i nostri contadini non sono capaci
di negarla. Manca loro anche il fieno per i cavalli e li mantengono con le canne che ancora trovano per i campi.
Intanto la distruzione continua. Già quasi tutti gli alberi del nostro brolo
furono tagliati, le viti son tutte a terra, non parliamo delle piccole disgrazie,
come quella dei fiori, che sono tutti stati gettati all’aperto, poiché della serra
fecero una scuderia.
granoturco prescritto dal comando nemico, e restano. Alle 9 Don Amerigo Garbuio
parte per Coderno, paesetto sulla riva sinistra del Tagliamento; mentre il paroco di
Cimadolmo resta a Vazzola per pochi giorni.
NOTA – E’ necessario, prima di continuare questo diario, soffermarsi un
poco per rendere grazie all’ospitalità al R.mo Arciprete di Vazzola, il quale si
restrinse in canonica per dar posto a noi sacerdoti, che volle sempre con sé alla
mensa.
Mise quel luogo che rimaneva (la sala superiore e lo spazzacucina) a disposizione delle nostre sorelle, e ci animò sempre a confidare, e a sperare. Di lui,
che passò poi a Vittorio, canonico e paroco della cattedrale, serberemo sempre
grata, cara memoria, come di sacerdote illuminato, caritatevole e di costumi
illibati. L’abbiamo avuto qualche volta nelle nostre canoniche e nelle nostre
chiese ricostruite, per la S. predicazione di missioni: egli, rievocando con la
sua presenza quei giorni, ci rinnovava i sentimenti di grato affetto, che s’era
cattivato in quelle tristi circostanze.
Quando le sorelle andavano trainando furtivamente al mulino un carretto
con un po’ di granoturco, e i soldati rubavano l’unica risorsa di quei giorni:
(avevamo comprato il granoturco a lire cinquecento il quintale); quando di
7- 8 febbraio
DON GIOVANNI DAL POZ - Grandi ansie perché ci si dice che coloro i
quali non avevano fatto il deposito di granoturco, conforme alle prescrizioni del
comando nemico, devono partire.
Mi ero fatto un dovere, a tempo opportuno, di convincere i miei parrocchiani di
fare il richiesto deposito. Ed essi, con grande sacrificio, impegnando quanto avevano, persino il proprio oro, avevano consegnato al Comando il richiesto deposito di
granoturco.
9 febbraio
DON GIOVANNI DAL POZ - Alla mattina, per tempo, il capitano comandante del luogo di Vazzola ci chiama in piazza con i profughi là raccolti per
la partenza e ci dice che o l’uno o l’altro (o il paroco di Cimadolmo o quello di S.
Michele di Cimadolmo) deve partire. Celebriamo in fretta, e poi la sorte cade su
Don Amerigo Garbuio perché vi è chi fa capire al Comandante che la maggioranza
dei partenti appartiene alla sua parocchia, mentre il paroco di Cimadolmo tra
i presenti non ne ha che pochissimi. Gli altri hanno fatto il richiesto deposito di
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Profughi in partenza costretti ad abbandonare le proprie abitazioni
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nascosto l’arciprete comperava carne di maiale o di mucca, e la distribuiva in
granaio; quando i soldati venivano d’improvviso, magari di notte, a requisire, e portavano lo scompiglio e la disperazione, perché ci rubavano anche le
uniche lenzuola, che avevamo sul letto, (e poi, magari, le spedivano nei loro
paesi); quando notizie allarmanti si facevano correre sui profughi, era Lui,
sempre Lui, il buon Arciprete di Vazzola, che veniva in nostro soccorso, e sollevava il nostro spirito depresso. Quella bella figura di sacerdote alto, magro,
snello, aitante della persona, che non conobbe le paure dell’invasione e non
fuggì; che affrontò i disagi e le umiliazioni di una barbara invasione per farsi
tutto a tutti con sacrifici eroici, merita bene che sia ricordato e lodato da chi
ne fu testimonio beneficato.
La vita a Vazzola passò fra continue alternative di speranze, di delusioni, di paure, di requisizioni. Si potè fare anche un po’ di bene: confessare, predicare, proteggere
i profughi, andar a trasportare, a mettere al sicuro il Santissimo e le suppellettili
sacre dei paesi vicini.
E s’era anche incominciata una specie di scuola apostolica, insieme con Don Giovanni Rattin, cappellano di Vazzola, per i poveri aspiranti rimasti con noi tra gli
invasori. V’erano, fra gli altri… ai quali io mi ero impegnato d’insegnare italiano,
latino, storia, geografia; e Don Giovanni Rattin greco e matematica. Ma l’uomo
propone e Dio dispone.
Don Giovanni Rattin fu ritirato tra i suoi nel Trentino; noi fummo sballottati
altrove, e di scuola non si parlò più: per quei poveri aspiranti fu un anno di martirio
sofferto con i propri cari nelle dolorose vicende della profuganza.
10 febbraio
DON GIOVANNI DAL POZ - Il 10 febbraio il R. Paroco di Bibano mi scrive che ha “per tante ragioni, vero bisogno, anzi gravissima necessità” di un sacerdote;
e soggiunge: “la invito la prego a venire”. E continua a scrivere che ha già ottenuto
dal comando imperiale Austro-Ungarico il regolare permesso del trasferimento”, e
nella speranza di salutarmi “personalmente” con i soliti convenevoli si firma: Don
Giovanni Battista Cesa, parroco.
La mia permanenza a Vazzola era divenuta difficile, perché mi s’era riconosciuto
come un paroco delle rive del Piave, sospetto di non so quale possibile spionaggio. Il
Sindaco di Vazzola, Sig. Nardi, e l’arciprete Don Domenico Zanette, mi proposero
di chiedere al comando il permesso della mia permanenza a Vazzola per la predicazione della quaresima, e per cooperare, con l’arciprete, al ministero sacro. Ma pensa
e ripensa ci siamo poi decisi, in pieno accordo, di lasciare che la Provvidenza mi
guidasse per mezzo degli eventi e degli uomini. E mi decisi, con quanto dolore si può
immaginare, di trasferirmi a Bibano.
Il passaporto per me e per le sorelle, che conservo, porta la data del 12 febbraio
1918.
Postazione italiana presso il Piave
Viaggio dei profughi verso l’ignoto
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DON AMERIGO GARBUIO - I primi giorni di febbraio si ripetè insistentemente la voce che tutti i profughi avrebbero dovuto allontanarsi dal settore di
Vazzola. Preoccupato dalla notizia e constatato che “essa aveva il suo fondamento”,
don Garbuio credette suo dovere informare i suoi parrocchiani e persuaderli ad una
partenza clandestina, fino a Bibano, dove quel buon parroco aveva promesso alloggio, e dove poi egli stesso li avrebbe raggiunti. Non tutte le famiglie accettarono quel
consiglio; la maggior parte preferì rimanere in sede, in attesa degli avvenimenti. Era
un consiglio prudentissimo quello del sacerdote: la sua attuazione sarebbe riuscita
facile per i borghesi, e assai più difficile per il sacerdote, controllato in tutti i suoi
passi da un servizio speciale di vigilanza.
Il 7 febbraio, don Garbuio e don Dal Poz furono chiamati presso il Comando di Tappa, e informati che la mattina del giorno 9 i profughi dovevano allontanarsi: uno dei due sacerdoti avrebbe dovuto accompagnarli. Non già per
rifiutarsi ad una missione pietosissima, ma unicamente per esporre la realtà della situazione, i due sacerdoti osservarono che chiunque di loro fosse stato incaricato dell’accompagnamento, avrebbe dovuto abbandonare la maggioranza del
suo popolo, disperso nei paesi circonvicini a Vazzola. Le giuste osservazioni non
valsero. Motivazione della partenza: la mancanza di viveri a Vazzola; nei paesi più interni il vettovagliamento era fornito in misura abbondantissima e di-
rettamente da Vienna! Nuova turlupinatura che nascondeva interessi personali!
Molti profughi chiesero di essere lasciati in Vazzola, impegnandosi a vivere a proprie spese senza disturbare le autorità. Non si accettarono queste proposte e si vollero
le prove: chi sapeva di poter vivere con mezzi propri per una lunga prigionia, poteva
rimanere in Vazzola, purché avesse consegnato immediatamente, al Comando di
Tappa, 52 Kg. di granoturco per ogni componente la famiglia. — II giuoco riuscì:
diverse famiglie ottemperarono alla nuova disposizione, e furono, per il momento,
rispettate; ma il giuoco aveva ottenuto un secondo effetto, doloroso anche per quei
borghesi di Vazzola che desideravano la partenza dei profughi: l’autorità militare
constatò che la popolazione conservava nascoste le sue riserve: il servizio di spionaggio si aumentò e le poche riserve caddero presto sotto la requisizione.
Si ebbero delle eccezioni; ma queste non furono eseguite con quel senso di delicatezza che manifesta una cura speciale per i poveri o per gli ammalati: le eccezioni
si fissarono in base alle relazioni più o meno lecite che i membri del Comando ungherese avevano con le famiglie stesse, dove qualche megera, snervata e ridicola, dal
cervello di civetta, si prestava sorridente agli spasimi convulsi di chi tradiva i vincoli
più puri della famiglia lontana!
Furono due giorni nefasti il 7 e l’8 febbraio 1918. — II Comando si era accorto
che alcune famiglie si erano improvvisamente allontanate per evitare le peripezie
della nuova profuganza: la fuga si era effettuata di tutta notte, attraverso la campagna, sotto il pericolo delle granate o della cattura da parte dei gendarmi. Il fatto mise
in allarme il Comando: gendarmi ed interpreti passarono di famiglia in famiglia
ad annunziare che per il giorno seguente, 9 febbraio, alle ore 4 antimeridiane, era
stata fissata la partenza di tutti i profughi. Non si accettarono scuse: chi non offrì il
nuovo tributo imposto dovette allontanarsi. Nessun riguardo ai vecchi, agli ammalati, alle spose; uniche eccezioni, in quei momenti di confusionismo, poche famiglie
che giunsero a tempo di far cadere una grossa mancia nelle mani degli interpreti,
privi di coscienza. L’odiosità si rese subito nota in paese: un cumulo di improperi e
di esecrazioni si riversò su qualche interprete italiano che tradiva, in un modo così
infame, i suoi concittadini, ma nulla di più: il comandante si mostrò brutale con
tutti quelli che si presentarono a lui per implorare pietà o giustizia: ancora una volta
la camorra austriaca, associata alla camorra dei fedifraghi italiani, potè trionfare.
Il giorno 8 e la notte che precedette la mattina del 9 febbraio passarono fra i
preparativi: i profughi non poterono trasportare più di trenta Kg di materiale per
persona, compreso, in questa cifra, il peso del corredo personale. Così tutto si dovette abbandonare nelle mani del nemico, e nelle mani... di qualche falso amico.
La mattina del giorno 9, don Garbuio, celebrata per tempo la Messa, alle quattro antimeridiane si trovava nella piazza di Vazzola, trasformata in un vero campo
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Pezzo di artiglieria italiana
Come mai questo cambiamento di scena? E’ uno dei tanti misteri in cui fu gettato il parroco di S. Michele di Piave; mistero che noi non abbiamo potuto, né, siamo
sicuri, potremo spiegare mai!
Due gendarmi si portarono in canonica di Vazzola; presero le poche coperte e
l’involto di biancheria di proprietà di don Garbuio, e così, senza il cappello, già
perduto in S. Michele, con una semplice berretta a croce, in gran fretta, il sacerdote
fu fatto salire, tutto solo, su di un carro militare, mentre Mons. Zanette e la sorella
di don Garbuio piangevano disperatamente.
La sig.ra Rosa Garbuio si fermò in casa canonica di Vazzola, perché il comandante l’aveva assicurata che il fratello sacerdote avrebbe potuto ritornare non appena i profughi fossero giunti a destinazione.
Don Garbuio si allontanò da Vazzola con soli 70 parrocchiani e 200 profughi di altri paesi: la comitiva fu accompagnata da gendarmi a cavallo: «quasi
fossimo veri delinquenti destinati all’ergastolo». — Quel giorno, attraversando varie posizioni, don Garbuio si incontrò con altri profughi di San Michele,
che videro in quella lunga carovana la sorte che sarebbe stata riservata, quanto prima, anche a loro.
Momento di pausa in trincea
trincerato: in quella piazza potevano entrare i soli profughi a cui era stata imposta
la partenza: gli sbocchi delle strade furono chiusi dai cordoni dei gendarmi armati.
— « Una fila di carff austriaci è pronta per il trasporto. Eranvi là vecchi tremanti
dal freddo, bambini piangenti, donne che imprecavano contro il Comando: a viva
forza, quella notte erano stati sloggiati dalle case, senza concedere loro il tempo necessario per racimolare quanto si credeva più utile; da più di un’ora quei profughi
stavano concentrati in piazza tormentati da un freddo che faceva rabbrividire, in
pieno inverno, in attesa di salire in un vero convoglio funebre. Era uno spettacolo
straziante: tutti piangevano, tutti imprecavano, nessuno si sentì l’animo di reagire».
Il comandante decise che l’incarico dell’accompagnamento rilento dei profughi
fosse affidato al parroco di Cimadolmo. Questi pregò, supplicò di non essere costretto
ad abbandonare il suo popolo che in parte era concentrato a Vazzola; domandò
di poter restare con i suoi parrocchiani nei paesi retrostanti; ogni scusa fu inutile:
don Dal Poz doveva prepararsi alla partenza. —- Don Garbuio si tranquillizzò
per un momento e si soffermò nella piazza per confortare i suoi parrocchiani, per
assicurarli del suo interessamento; assicurò anzi che si sarebbe portato a Bibano
per consolare la grande maggioranza del suo popolo che riteneva dover trovarsi in
quella località. Quando era già mosso anche l’ultimo calesse, e don Garbuio aveva
salutato, piangendo, gli ultimi partenti, commiserando con qualche amico quei
disgraziati gettati in un modo così brutale nella via dell’esilio e della miseria, gli fu
sopra il comandante ungherese che brutalmente gli gridò: « Deve partire lei! e non
il suo collega di Cimadolmo! ».
64
11 febbraio
MARIA NARDI - Stamane fu celebrata la messa in onore della Madonna
di Lourdes e l’arciprete espresse l’idea di fare un voto alla Madonna: di costruire in paese una cappella, o meglio una imitazione della grotta di Lourdes,
onde ottenere la pace presto. Il desiderio è tanto grande, che in poche ore l’arciprete ricevette più di ottocento lire di offerta».
13 febbraio
DON AMERIGO GARBUIO - Arrivo a Bibano.
31 marzo
MARIA NARDI - Pasqua. Però per papà e me è passata come un giorno
usuale, chè in chiesa nessuno dei due potè andare e le campane non ci portarono alcun segno di Alleluia. Lessi delle vecchie lettere delle mie sorelle colle loro
espressioni di fedi così consolanti, e questo fu il momento più consolante delle
giornata. Feci regali d’ova a poche persone, chè quest’anno un ovo è un valore,
ma pei bimbi, Caterina vi supplì con delle colombine.
65
1 aprile
16 giugno
MARIA NARDI - Nessuno quest’anno ebbe voglia di fare uno dei soliti pesci. Era poi una giornata piovosa che metteva melanconia da sé sola. Quante
volte lo zio avrà oggi pensato agli anni in cui veniva con noi a fare la seconda
festa di Pasqua!
Quando non dormo di notte cerco di immaginarmi come si troveranno i
nostri di Oltre-Piave, ma di positivo non si sa nulla…
MARIA NARDI - Ieri è scoppiata l’offensiva alle 2 di notte, ma già se ne
era prevenuti e l’attendevamo tranquilli, perché si aveva fiducia che neanche
stavolta il Piave sarebbe stato oltrepassato.
Dopo le 2, si fu tutti svegliati dal tuonar dei cannoni, sentiti a distanza
sufficiente per non prender paura, ma abbastanza vicini per far tremare tutti
i vetri e dare un’idea di quanto sia terribile la guerra.
L’indomani tanta gente era in strada di buon’ora e si spargevano ormai le
novità sull’esito della battaglia.
Chi assicurava che i tedeschi avevano oltrepassato il Piave, altri affermavano che erano stati fatti prigionieri dai nostri, insomma non si sapeva proprio
a chi prestar fede. Alcuni dicevano, avviliti, che i tedeschi fossero ormai in
cammino per Treviso. Papà invece era di opinione contraria, poiché le vedette
italiane si scorgevano ancora vicine a noi e verso sera l’opinione generale fu,
che ancorché i tedeschi avessero in qualche punto oltrepassato il Piave, fossero
poi o stati fatti prigionieri o respinti dai nostri, tanto che si cenò abbastanza
di buon umore, facendo l’augurio che la resistenza sul Piave fosse la riabilitazione della sconfitta di Caporetto.
21 giugno
Così mons. Zanette racconta la fine di
Maria Nardi: “La mattina volle andare
in chiesa per far la Santa Comunione:
Gesù l’aspettava per il supremo “Veni”.
Pochi minuti dopo averlo ricevuto,
ritornata al suo banco si sentì male. Se
ne avvidero le persone vicine che, premurosamente accorse, la condussero in
sacrestia. Inutili furono tutte le cure per
rianimarla…”.
Giugno
DON AMERIGO GARBUIO Siamo a Vazzola, nei primi giorni del
giugno 1918. — I primi giorni dell’in-
Militari italiani con la mascotte in trincea
66
Pezzo di artiglieria nemico
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vasione, gli ufficiali austriaci, avendo trovato abbondanza di viveri nei magazzini
abbandonati dai nostri, affettavano un senso di disprezzo per la polenta, di cui si
nutrivano le popolazioni rimaste invase. Quando furono consumate le riserve, e
cominciò a scarseggiare il pane, la polenta fu presa in considerazione dai soldati e
dagli ufficiali austriaci e germanici. Un colonnello, entrato un giorno in una casa
di contadini nel momento in cui una piccola polenta veniva rovesciata sul tondo,
fu attratto dalla gialla dea bergamasca. Estratto di tasca un po’ di zucchero, quel
colonnello domandò altezzoso: «Voglio provare, se quella porcheria essere buona con
zucchero!». — Ne mangiò una fetta bene inzuccherata; ne mangiò una seconda
parimenti condita; ne mangiò una terza... senza zucchero, e poi se ne andò.
— Un contadino, dopo un lungo sospiro, esclamò: “Mostro d’un tedesco! la ciamava porcheria... e co n’antra fetta el gavaria fato sparir tutta la polenta dal tagier!”
D a “ L A B AT TA G L I A F I N A L E ”
di Ernest C. Crosse, della 7a Divisione Britannica
Tratto da “PIAVE MONTICANO TAGLIAMENTO”
a cura di Giovanni Cecchin, Collezione Princeton, Cittadella, 1997, pag. 83 - 95
Durante la notte del 27/28 ottobre il ponte di Salettuol fu soggetto a un violentissimo bombardamento. La confusione causata da questo può solo esser capita
da chi sa cosa sia il traffico in una strada principale a ridosso di una battaglia.
Qui, oltre ad ambulanze, a convogli dei rifornimenti, a colonne delle munizioni,
ecc., reperibili in tutte le strade dietro dove si combatte, c’erano molti carri con
pontoni che occupavano gran parte della carreggiata. Quasi impossibile quindi il
traffico nei due sensi. Da Treviso a Salettuol c’era una sola grande strada, ma come
quasi dappertutto in Nord Italia essa era fiancheggiata da fossi.
A complicare le cose intervenne il fatto che il XVIII Corpo d’Armata italiano
schierato a Nervesa, non avendo raggiunto l’obiettivo di passare ivi il fiume, aveva
ricevuto ordine di usare il ponte di Salettuol, per attaccare sulla sinistra delle truppe
inglesi in direzione nord. Questa grossa unità italiana in movimento congestionò
infinitamente di più il traffico. A un certo momento si progrediva al ritmo di un
chilometro e mezzo ogni sei ore.
Della nostra 7 a Divisione, per regolare il traffico, furono impiegati non meno di 100
uomini e l’ufficiale responsabile, magg. W. Wall, lavorò da matto, ma i suoi sforzi
ebbero solo un successo parziale. Quando sopraggiunsero gli aeroplani austriaci,
la strada verso il ponte era intasata dalla fanteria e le perdite causate dalle bombe
furono terribili. Rimasero uccisi circa 50 italiani, e oltre 150 loro feriti passarono per
la nostra Sezione avanzata di Sanità di Maserada.
Il problema del traffico raggiunse il suo punto cruciale il mattino seguente, 28
ottobre, quando si ruppe il ponte. Ciò avvenne per due cause. La forza della
corrente aveva gradualmente minato gli appoggi dei cavalletti facendoli sprofondare
nell’acqua, e il rapido abbassamento della piena aveva fatto sì che la corrente colpisse i pontoni ad angolo acuto invece che a 90 gradi. Questo provocò la perdita di tre
pontoni portati via dall’acqua, facendo così interrompere tutto il traffico.
Riparare il ponte fu difficilissimo e per completarlo ci volle tutto il giorno. Un
tentativo fatto dalla 528a Compagnia dei Royal Engineers di far navigare un
pontone in posizione dall’isola Veneto non ebbe successo. Il pontone vorticò attorno
a se stesso mille volte finché si capovolse. Due dell’equipaggio furono portati via
dalla corrente e annegarono, gli altri furono salvati. A questo punto il nemico riprese
a bombardare coi cannoni di lunga gettata. I tiri erano precisi, la prima granata
cadde appena dieci metri oltre la testata del ponte. I Royal Engineers proseguirono
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69
IL PASSAGGIO DEL MONTICANO
comunque il lavoro come se niente fosse. Nel frattempo fu chiamata la 18a
Compagnia italiana Pontieri e il ponte fu completato verso sera, costruito una
trentina di metri più a sud, mentre se ne preparò un secondo usando quello già
costruito per l’isola Veneto e congiungendo questa alla Grave di Papadopoli.
In beata ignoranza di quanto stava succedendo alle loro spalle, ma che doveva
farsi sentire nel mancato arrivo delle razioni, alle ore 12.30 le Brigate 20a e 91a si
prepararono ad avanzare verso la strada Tezze - Rai, nota nella terminologia delle
operazioni come la Linea Verde. Non si prevedevano difficoltà perché faceva già
parte di uno schema d’operazioni del giorno prima e c’era stato tutto il tempo
per organizzare l’attacco, e per di più le truppe erano su di giri per i successi già
ottenuti.
Sulla sinistra, dove i South Staffordshires e i Manchesters tenevano la linea, avvenne un fatto che causò grande eccitazione. Il ten. col. Oldham della 35a Brigata
della Royal Field Artillery, non riuscendo a far passare le sue batterie attraverso
il ponte, si era spinto in avanti in ricognizione. Imbattutosi in un cannone
austriaco con munizioni, già preso d’assalto dalla fanteria, si offerse di metterlo
subito in azione se gli fosse stato fornito chi l’avesse tirato in posizione. Dopo consultazioni con la 91a Brigata si decise di usare il pezzo per attaccare casa Grigoletto,
una cascina isolata vicino a Borgo Zanetti, che si sapeva difesa da un certo numero
di mitragliatrici. Questa casa era obiettivo assegnato al 22° Manchesters e perciò si
chiese a un gruppo di suoi uomini di tirare il pezzo in posizione. L’attacco doveva
Ponti di barche sul Piave per il passaggio delle truppe italiane all’attacco
Truppe inglesi verso il fronte
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Schieramento delle divisioni italiane e inglesi nel momento dell’avanzata in data 24 ottobre 1918
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incominciare alle 12.30, ma per le 11.30 quelli del Manchesters non si erano
ancora fatti vivi. Ne furono contentissimi gli Staffordshires, perché significava che
potevano usare loro il cannone per attaccare Borgo Bellussi e si offrirono di mettere a
disposizione gli uomini per trainare il pezzo in posizione. Ma appena in tempo
arrivarono i Manchesters, che con molta difficoltà trascinarono il cannone in
piazza di Tezze. Qui, per un pelo, l’intera avventura non ebbe prematura fine,
perché piombò una granata austriaca che per poco non ammazzò tutti. No-
nostante le difficoltà, il cannone fu comunque trascinato nella posizione voluta,
a trecento metri dall’obiettivo, appena in tempo prima dell’attacco. Era un tiro
diretto e tutti erano in attesa dello spettacolo. Ma pochi istanti prima di aprire il
fuoco, gli Staffordshires, che dell’attacco avevano preso l’iniziativa, s’intromisero e
catturarono l’obiettivo senza incontrare alcuna resistenza da parte della guarnigione. Fu una grande delusione per gli artiglieri...
Anche la 91a Brigata raggiunse l’obiettivo assegnato senza incontrare eccessive
Allestimento di un ponte di barche da parte degli inglesi
Soldati inglesi si apprestano a gettare un nuovo ponte
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Soldati inglesi impegnati nei lavori per ripristinare il passaggio del Piave da parte delle truppe alleate
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Passaggio del Piave delle truppe italiane
Foto aerea austriaca del 12 Marzo 1918 di Tezze di Piave nel tratto tra il centro e Borgo Malanotte
difficoltà. Verso sera fu fatto avanzare dalla riserva il 2° Queens, che subentrò in
prima linea.
Sulla destra, la 20a Brigata, con il 2° Borders in prima linea, ebbe pure un compito facile. Dovettero spostarsi in avanti più degli altri, perché il giorno prima
non erano avanzati come loro, ma la resistenza incontrata fu poca cosa. Venimmo
a sapere che le truppe ungheresi, che la sera prima tenevano la strada Tezze - San
Polo, erano state sostituite durante la notte da una Divisione austriaca Landsturm.
Dalla nostra parte aveva attraversato il fiume la 104a Batteria dell’artiglieria
divisionale ed era già entrata in azione a sostegno della 20a Brigata. Si ebbe un po’ di
resistenza a Casa Vital e nelle altre vicine, ma i Borders ne ebbero subito ragione e per
le ore 13.30 l’obiettivo divisionale era stato raggiunto in tutti i punti.
A Rai furono liberati molti civili, che salutarono i liberatori con grande entusiasmo. Riporto un fatterello. Il gen. Green, cavalcando accompagnato da un interprete,
fermò un civile e gli chiese dei suoi guai. Rispose che ne aveva patiti tanti, ma
quello più brutto era la mancanza di tabacco da naso. Era la sua unica consolazione
e non ne aveva da dodici mesi. Il generale, ch’era raffreddato, ne aveva in tasca e
immediatamente gliene diede.
« Oh, grazie, grazie, signore! Mille ringraziamenti» (in ital. nel testo, ndt) rispose
l’italiano stupito. «Questi meravigliosi inglesi, di cosa non son capaci!»
Col passar del giorno si decise di puntare in avanti al massimo, per sfruttare il
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Foto austriaca del 3 Gennaio 1918 di Tezze di Piave, attuale via Duca D’Aosta
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successo ottenuto e possibilmente per assicurarsi i ponti sul fiume Monticano prima
che fossero fatti saltare. Furono quindi mandate avanti verso il fiume pattuglie per
catturare i paesi di Vazzola e Visnà. Per via della rottura del ponte sul Piave non
erano giunte le razioni e gli uomini erano affamati e stanchi, ma risposero con
molta prontezza alle richieste loro imposte.
Mettendo insieme informazioni raccolte dopo, sembra che gli austriaci, fallito il tentativo di tenere la linea del Piave, avessero deciso per una ritirata generale
verso il Tagliamento; e per facilitare questo avevano dato ordine a una Divisione fresca di tenere le posizioni sul Monticano il più a lungo possibile per coprire
la ritirata. Queste posizioni erano formidabili. Il fiume, sebbene allora non con
acque profonde e largo appena una quindicina di metri, scorreva tra due argini
artificiali molto alti, su entrambi dei quali erano state apprestate postazioni per
armi da fuoco. Dietro il fiume c’erano numerose batterie di cannoni e davanti
esistevano barriere di reticolati. Sulla destra, vicino a Visnà, c’erano i peggiori
sbarramenti che avessimo mai incontrato in Italia. Sul nostro fronte divisionale
solo due ponti attraversavano il fiume: uno dietro a Vazzola, di fronte alla 91a Brigata, l’altro verso Visnà, di fronte alla 20a Brigata. Erano stati tutti e due minati.
A parte gli argini, tutto il terreno attorno era piatto, folto di vigneti e solcato
da fiumiciattoli, molti dei quali veramente profondi e più grandi di quanto non
apparissero dalle mappe. Trovammo in particolare difficile guadare il Favero e il
Piavesella, che sebbene senza argini artificiali avevano più acqua del Monticano.
Per impedirci di osservare queste posizioni, gli austriaci presero il coraggio a due
mani e il 28 fecero saltare i campanili di Vazzola e di Visnà. Questa distruzione,
che avrebbe provocato nei tedeschi autentica gioia, deve invece aver causato agli
austriaci le pene dell’inferno. Se questo sia stato perché nell’esercito austriaco c’erano
molti, come i Tirolesi, tra i più devoti cattolici di tutto il mondo, o perché temessero il potere politico del Papa, non lo sappiamo. È comunque certo che l’esercito
austriaco mostrò di gran lunga più rispetto per gli edifici sacri dei tedeschi; e dopo
venimmo anche a sapere che durante i dodici mesi di occupazione, la casa del prete
era stata riconosciuta come una specie di santuario, esente quindi da requisizioni
e saccheggi. Il vecchio sacerdote (in ital. nel testo, ndt) deve aver allora goduto di
grande popolarità. Anche in altri paesi la casa del prete funzionò come deposito
di qualsiasi cosa i civili volessero salvare dalle grinfie degli invasori. Non c’era comunque alternativa: decisi a tenere la linea del Monticano, non restò agli austriaci
che distruggere i due migliori osservatori della zona, i campanili. Quando arrivammo noi, erano un cumulo di mattoni e calcinacci.
Il primo inglese a entrare a Vazzola pare sia stato un solitario cavaliere che
spuntò col suo destriere in piazza, rivoltella in mano, verso le ore 14 del 28 ottobre. La piazza era allora zeppa di fanti austriaci e carriaggi che si preparavano a
ritirarsi. Il cavaliere, probabilmente un esploratore del Northamptonshire Yeomanry, cavalcò verso di loro, e senza tante storie l’intero gruppo si arrese. Lui, per niente
Foto aerea del 18 Marzo 1918 di Tezze di Piave; in primo piano al centro i resti della chiesa e del
campanile
La ritirata dell’esercito nemico
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sorpreso, incominciò a radunarli sbraitando e abbaiando ai loro calcagni come un
buon cane pastore. A qualcuno degli austriaci venne fatto di constatare ch’egli era
solo, uno contro trecento, per cui due «eroi» di quella marmaglia incominciarono
a caricare i fucili. Non avendo alcuna possibilità contro questo imprevisto, l’inglese
diede di sprone al cavallo, sfrecciò dietro la chiesa e sparì dall’orizzonte come una
saetta. Così mi narrò uno di Vazzola presente al fatto.
Una pattuglia del South Staffordshires entrò in paese nel tardo pomeriggio,
imbattendosi, pare, nella coda della colonna di trasporto che stava ritirandosi.
Presero sette cavalli e ritornarono cavalcando trionfanti verso le nostre linee. Far da
pattuglia, quel pomeriggio, poteva essere divertente, e i volontari non mancarono, ma un gruppo verso sera fu bloccato alla periferia del paese e dovette ritirarsi.
Ricevuto ordine di premere contro il Monticano, nella notte tra il 28 e 29
ottobre la 91a Brigata si preparò ad avanzare: il South Staffordshires a sinistra, il
Queens a destra, il Manchesters di supporto. Non si incontrò resistenza. Parecchi
austriaci, che ovviamente non avevano ricevuto ordine di ritirarsi o avevano deciso
di arrendersi, furono catturati mentre dormivano.
Verso l’una del 29, Vazzola fu definitivamente liberata e rastrellata da pattuglie
del South Staffordshires. Erano tutti stanchi e coi piedi doloranti. Uno dei civili,
che sapeva che le sofferenze erano ormai finite, offerse ai liberatori l’ultimo cibo che
aveva. Gli austriaci avevano requisito gran parte del grano che era stato raccolto, e
negli ultimi giorni avevano razziato al massimo. Un vecchio, con le lacrime agli
occhi, spiegò dopo che il nemico, semplicemente per dispetto, gli aveva avvelenato
il suo cane da caccia, un pointer, la cui pelle impagliata era ora appesa in cucina a
seccare. «Tutto rubato» (in ital. nel testo, ndt) continuava a ripetere a chi gli chiedeva della sua proprietà.
Mentre a Vazzola uomini della 91a Brigata si davano da fare per tirar giù dal
letto civili italiani e soldati austriaci troppo pigri per ritirarsi, sulla destra, di fronte
alla 20a Brigata, succedeva qualcosa di grave. Sembrava che gli austriaci avessero già
fatto schierare sul Monticano la Divisione fresca per tenere la linea. Dopo un’avanzata senza incidenti sulla strada Rai - Vazzola avvenuta nel pomeriggio del 28,
durante la notte del 28/29 una nostra pattuglia di due ufficiali e due plotoni furono
mandati in avanti verso il Monticano. Raggiunsero il paese di Visnà, dove non incontrarono alcun nemico, e proseguirono verso il fiume. Il terreno appena fuori del
paese è più aperto ed è solcato da parecchi corsi d’acqua molto larghi e profondi.
Il più grande di questi tra Visnà e il Monticano è il Favero, facilmente scambiabile
col Monticano stesso, non apparendo neppure sulle mappe. Sarebbe stato meglio se
il gruppo si fosse fermato per la notte a Visnà e avesse solo mandato avanti verso
il fiume una pattuglia in perlustrazione. Ma è facile esser saggi dopo i fatti.
Comunque, dopo un affrettato rastrellamento del paese, il gruppo procedette
oltre. Raggiunta casa Grison, un piccolo fabbricato a circa 200 metri dal Monticano, incontrarono il nemico. Fecero un coraggioso ma inutile tentativo d’irrompere sul ponte. Gli argini del Monticano erano presidiati in forze e, a eccezione
della breccia per la strada, tutto il terreno attorno era una selva di reticolati.
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Lasciando alcuni uomini a coprire il suo fianco sinistro, l’ufficiale in comando
si mosse in perlustrazione verso destra. Fu spedita indietro una staffetta per riferire
della situazione al Comando di battaglione, ma questa poco dopo tornò indietro
con l’informazione che Visnà era fortemente in mano del nemico. Furono allora inviate tre ordinanze con lo stesso messaggio e fu loro consigliato di tenersi alla larga
dal paese. Solo una riuscì a passare e le altre due furono uccise.
Verso l’alba il nemico incominciò un movimento di accerchiamento di casa Grison. L’ufficiale inglese in comando decise di ritirarsi un po’ e prendere posizione
dietro il fiume Favero. Ma qui si trovarono in condizioni ancor peggiori, soggetti in campo aperto a fuoco da tutte le direzioni. C’erano già stati parecchi
morti e sembrò improbabile che qualcuno sarebbe rimasto vivo se avessero
continuato a resistere. Sicuri che sarebbero stati liberati entro pochi giorni,
l’ufficiale decise per la resa. Una decisione forse discutibile, ma va sottolineato
che l’ufficiale in questione aveva dato molte altre volte prova di coraggio e che
il suo battaglione in tutta la guerra non fu mai secondo a nessuno.
Il destino di questi due plotoni rimase allora sconosciuto, e gli austriaci, alle
tre del mattino, si ritirarono quasi tutti di là del Monticano. Alle 8.30 di quel
29 il resto della Brigata continuò ad avanzare. Sulla sinistra non s’incontrò
alcuna opposizione sino alle rive del Monticano e anche Visnà fu occupata
facilmente. Sulla destra, con le Compagnie «A» e «B» dei Borders schierate in
prima linea, fu incontrata parecchia resistenza nell’attraversamento del Piavesella e vicino a Fontanellette. Molto difficile fu pure rimanere in contatto
con gli italiani più a destra.
Essendo la riva orientale del Monticano ancora in mano agli austriaci, fu
deciso che l’avrebbe attaccata la Compagnia «D» dei Borders alle ore 18.30,
dopo un bombardamento da parte dei nostri cannoni e di quelli italiani che
avevano preso posizione a Visnà. Non appena queste batterie aprirono il fuoco,
gli austriaci replicarono con violenza, bombardando Visnà coi loro cannoni
dislocati a Fontanelle. I civili che avevano rifiutato di lasciare il paese ebbero
anche loro parecchi morti. La chiesa al centro fu ridotta a un cumulo di macerie. L’unica parte rimasta in piedi fu la facciata a occidente su cui appariva
la scritta Beata, Pacis Visio (Benedetta la visione della pace). È sorprendente
che, dopo tutte le battaglie che la 20a Brigata aveva sostenuto, questa scritta
apparisse nell’ultimo villaggio dell’ultima battaglia di tutta questa guerra.
Poco prima che fosse decisa l’ora esatta dell’attacco, era giunto dal Comando
di divisione il magg. Lawrence per dire che, se si prevedevano molti morti, bisognava rinunciare all’attacco. E ancora, siccome la 91a Brigata aveva sofferto
molte perdite, essa sarebbe stata sostituita dalla 22a Brigata, e probabilmente
nel giorno seguente la 20a Brigata avrebbe dovuto fare da supporto alla 22a..
L’attacco fu perciò cancellato e furono prese le misure necessarie per cedere il fronte della 20a Brigata agli italiani. Questo avvicendamento avvenne durante le
prime ore del 30 ottobre, col passaggio
in prima linea dei Reggimenti italiani
267 e 268 (brigata Caserta, della 31a
Divisione), mentre la nostra 20a Brigata fu ritirata, pronta però a passare
il fiume sul ponte di Vazzola - Cimetta
il mattino seguente.
Grazie alla balordaggine militare
del nemico, il ponte tra Vazzola e Cimetta non era stato fatto saltare. Era
stato minato ed era stata sistemata anche
la miccia tra i due argini. Bastava solo
un fiammifero per distruggerlo. Per nostra fortuna, il tizio che aveva messo la
miccia era un pazzo e quello che doveva
accenderla un vigliacco. Un minimo
di previdenza avrebbe dovuto indurre Monumento in ricordo dei caduti inglesi a Salettuol
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Foto aerea austriaca, del 18 Marzo 1918, del centro di Visnà
a Maserada sul Piave
il primo a tirare la miccia sino a dietro l’argine orientale, così da poterla accendere
all’ultimo momento in piena sicurezza. A quanto pare, questa intuizione era al
di sopra del suo comprendonio, col risultato che per accendere la miccia bisognava
arrampicarsi per il primo argine e scendere nel greto del fiume. Ciò che presumibilmente avvenne è che quando questo avrebbe dovuto esser fatto, ci fu da destra e da
sinistra una certa attività di «cecchinaggio», tanto che al tizio incaricato di dar fuoco
alla miccia venne la tremarella e decise di non scendere dall’argine per non prendersi
una fucilata. Carica esplosiva, detonatore e miccia erano perfettamente in ordine,
come potè controllare lo stesso comandante dei Royal Engineers. La sopravvivenza
di questo ponte fu per noi della massima importanza. Ci sarebbe voluto un sacco di
tempo per ricostruirlo, e addio allora per parecchio ai nostri trasporti su ruota.
Un grazie quindi sentito a questi «gentiluomini» austriaci da parte dell’Esercito
britannico! Di questi «pazzi» non ne esistevano certo tra i tedeschi.
Il mattino del 29, quando la 20a Brigata era impegnata nell’azione già descritta
e con davanti il ponte interrotto sulla strada Visnà - Cimetta, la nostra cavalleria
informò che l’altro ponte, quello sulla strada Vazzola - Cimetta, era intatto e che
gli austriaci si erano ritirati dal Monticano. (Probabilmente si erano ritirati quelli che presidiavano il ponte e che furono poi sostituiti dalla Divisione fresca).
Fu quindi dato ordine alla 91a Brigata di fare da avanguardia premendo verso Codogné, con il 2° Queens in testa guidato dal ten. col. H.D. Carlton, i
Manchesters sul fianco destro e i South Staffordshires di supporto. Si erano uniti
alla Brigata anche la nostra 104a Batteria divisionale e una Batteria italiana da
montagna.
Avanzando sulla strada Vazzola - Cimetta verso il fiume, la colonna si trovò in
difficoltà. A quanto pare, durante la notte il nemico era ritornato sull’argine del
fiume (con la Divisione fresca) intenzionato a coprire il grosso della ritirata.
La strada, ch’era considerevolmente più alta del terreno circostante, fu soggetta a
fuoco vivace di granate e investita da raffiche di mitragliatrici. L’artiglieria fu
impossibilitata ad avanzare e la fanteria si buttò al riparo dentro i fossi laterali.
I Manchesters sulla destra, dispiegati a circa trecento metri a est di Vazzola, si
fecero gradualmente sotto in mezzo alle vigne verso il fiume. Qui il nemico oppose
resistenza dall’argine orientale. Fu molto difficile prendere d’assalto la posizione
perché bisognava arrampicarsi sul primo argine ad appena venti metri dal nemico
e sotto il naso dei suoi fucili e mitragliatrici. L’unico terreno protetto era il greto stesso
del fiume. Qui le due parti si affrontarono per un po’ solo separati dalla stretta corrente e dai due alti argini. A un certo punto gli austriaci decisero che ne avevano
avuto abbastanza, e parte si ritirarono verso Cimetta, parte passarono di qua del
fiume con le mani in alto.
Così aiutati dai Manchesters, i Queens forzarono il passaggio attraverso il ponte e avanzarono verso Cimetta. Dapprima tutto procedette bene e raccogliemmo in
giro per le case moltissimi prigionieri. Ma il nemico osservava tutti i nostri movimenti
dal campanile di Cimetta, un magnifico posto di osservazione. Le truppe d’attacco
dovettero farsi strada in mezzo alle vigne, che non permettevano alcuna vista, e dovemmo anche prendere parecchi fiumiciattoli che gli austriaci avevano usato come
trincee. Per di più, il nostro fianco destro era completamente scoperto, essendo la
20a Brigata ancora bloccata sul Monticano. Vedendo che le truppe avanzavano
disorganizzate, il nemico incominciò a uscire da Cimetta e ad attaccarci da quel
fianco esposto. I Queens ebbero parecchie perdite e per un po’ l’avanzata fu bloccata. Era soprattutto la fatica che ci minava. Gli uomini non avevano decentemente
dormito da una settimana e quel giorno eravamo ancora senza razioni.
Si diede allora ordine ai South Staffordshires di rinforzare ed estendere la linea di attacco, e ad essi si unirono anche una cinquantina dei Manchesters già
prima intrufolatisi tra di loro. Questo nuovo dispiegamento fu attuato con una
certa difficoltà a causa di un nutrito fuoco cui tutta l’area fu esposta. Nel primo
pomeriggio, comunque, si riprese l’attacco, coi Manchesters sulla riva del fiume che
proteggevano il fianco destro. Ne risultò un vivace scontro. La Batteria italiana
da montagna colpì il centro di Cimetta, e anche la nostra Batteria 105 si mise a
sparare dai campi più a destra. Ad esse si unì pure la Compagnia «A» del nostro
7° Mitraglieri che crivellò il paese di pallottole. Sotto questa combinata protezione
avanzò la fanteria. In quanto all’artiglieria austriaca, essa fu tutt’altro che inattiva. Un comandante di Compagnia dei Manchesters fu ucciso. Altri dieci segnalatori caddero vicino al Comando della 91a Brigata, per non dire di altri ancora
caduti altrove. Anche il comandante della 105a Batteria fu ferito.
Le truppe d’attacco balzarono allora in avanti con grande impeto. Sulla nostra
sinistra stava intanto convergendo su Cimetta anche l’altra nostra Divisione, la 23
a
. E infine ci fu la bella impresa del capit. F.A. Kendrick, del 1° South Staffordshires. Ferito alle braccia e rifiutando di essere sostituito, guidò i suoi uomini all’attacco e catturò una casa vicino alla chiesa ch’era il fulcro della resistenza. Il paese fu
così conquistato e furono fatti molti prigionieri. Il nemico non contrattaccò ma si
limitò a bombardare la posizione. Una serie di avamposti furono scavati poco oltre
il paese, e i soldati, infreddoliti e stanchi, vi si acquattarono in attesa dell’alba.
Questa cattura di Cimetta il pomeriggio del 29 ottobre fu l’ultimo combattimento in cui fu impegnata la nostra Divisione. Il nemico aveva sperato di tenere
il Monticano per almeno due giorni, per proteggersi la ritirata, ma la cosa non gli
riuscì, e da questo punto in avanti la sua ritirata divenne una rotta. Vincemmo la
battaglia non senza aver molto lottato.
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I Queens, che ebbero le perdite maggiori, contarono 21 morti. Per le perdite subite
e per la fatica degli uomini, quella notte stessa fu giudicato conveniente dare il
cambio alla 91a Brigata con la 22a. Con enorme soddisfazione di tutti arrivarono
le razioni, compreso il rum. Sono del parere che nella 91a Brigata quella sera,
di astemi, ce ne siano stati pochi. A sera già inoltrata, giunse a cavallo a Tezze
il generale Shoubridge comandante la Divisione, che fece visita alla 22a Brigata nei
campi lì vicino e che era in procinto di mettersi in moto per Cimetta. Gli uomini gli si affollarono entusiasti intorno e appresero da lui le ultime notizie sulla
battaglia. «Dovete solo marciare come dannati e la guerra è vinta» concluse. Una
previsione azzeccatissima.
«Era la sera del 28 ottobre 1918. Dopo aver veduto per quattro giorni un
continuo passaggio di truppe tedesche che si ritiravano dal fronte del Piave,
comincia la notte farsi seria. La natura stessa pareva ci dicesse: preparatevi
ad una terribile scossa. Saranno state le quattro pomeridiane, quando cominciammo ad avere paura. Le strade e la piazza erano quasi deserte, si vedeva
soltanto qualche monello, che andava qua e là per prendere le tavole lasciate
dai tedeschi e qualche gruppo di soldati, che con piccolo mistero preparavano
dei tradimenti, qualche altro invece per darsi prigioniero. Per esempio, quattro
soldati che erano da un pezzo fermi in piazza, hanno messo dell’esplosivo fra
le macerie del campanile atterrato dalle bombe e dalla mina. Noi, senza essere
veduti abbiamo osservato che fu molto bene per i soldati italiani.
In quel che di misterioso era una malinconia insuperabile.
Noi eravamo chiusi in una stanza a pianterreno perché aveva le mura più
larghe delle altre; si usciva soltanto per prendere quel po’ di mangiare che si
aveva in cucina, eravamo accovacciati tutti vicini, i fratellini piccoli piangevano di paura, la nonna dormiva di un sonno provvisorio, e noi più grandi si
parlava con la mamma di un triste avvenire. Però in fondo a quella tristezza,
un raggio di speranza ci consolava, pensando alla venuta dei nostri cari.
Eravamo così silenziosi che si ascoltava qualche monotono rumore, quando
sentimmo un passo non tanto lontano che non era di uomini; allora più attenti ascoltammo. Il fratello aprì il balcone, e la mamma sotto voce gli diceva:
chiudi, perché possono vedere il lume e sparare dubitando qualche tradimento.
Ma lui non poteva trattenersi, perché sperava che fosse qualche italiano, per
avvertirli della bomba nascosta sotto le macerie, e dei tanti soldati tedeschi
Evacuazione di Visnà ordinata dalle autorita’ militari austro-ungariche
Concerto della banda austriaca in piazza a Visnà
“ P I C C O L I R I C O R D I D E L L’ I N VA S I O N E T E D E S C A ”
di Elisa Fagnol
tratto da “DI QUA DI LA’ DEL PIAVE”
di Mario Bernardi, ed. Mursia, 1989, pag.175–180
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Avanzamento progressivo dell’esercito italiano dal 24 ottobre al 4 novembre 1918
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nascosti in chiesa, salta fuori. Ma quasi subito entrò contento perché aveva
scoperto che nella via Luminaria erano due cavalleggeri e parevano cioè nostri
italiani. Di nuovo chiudemmo il balcone, ma con l’orecchio sempre teso li
accompagnammo fin dove potemmo.
Poi si fermarono e abbiamo sentito due colpi di fucile. Un brivido ci è corso
per la pelle; il fratello voleva andare a vedere ma la mamma non lo permise.
Sicché eravamo agitati, il nostro cuore batteva forte, forte, non so perché, forse
di speranza, forse di paura. Intanto la notte scendeva e la malinconia aumentava. Tutta la notte passammo così. Parlando di cose serie e ascoltando al di
fuori. E non si udiva altro che qualche colpo lontano lontano che pareva ci
dicesse col suo misterioso pon-pon: preparatevi che presto verremo a liberarvi
e a sfamarvi.
Noi si ascoltava quel rumore quasi contenti, ma una inquietudine ci turbava, e si temeva il prossimo avvenire, perché prometteva veramente male.
Sicché dopo una notte brutta brutta, giunse il mattino freddo, nebbioso,
malinconico. Se ci fosse stato il sole col suo tepido raggio, ci avrebbe animati,
incoraggiati, avrebbe cacciato un po’ di malinconia che dominava in noi. Ma
anche quello mancava; insomma tutto dava segno di una grande tristezza.
Saranno state le 8 antimeridiane del 29 ottobre 1918 quando cominciò a
cadere qualche granata più vicino alla piazza. Allora più impauriti e ritirati
nella solita stanza a pianterreno, si piangeva e si pregava il Signore che avesse
pietà e che rimediasse a ciò che stava per accadere. Insomma non descrivo i
terribili momenti, paura, malinconia, solitudine, sono tre parole che solo al
pensiero rattristano. Immaginarsi a provarle!
Sempre sopportando con pazienza e rassegnazione, verso le 9 sentimmo un
rumore, corremmo, era un aeroplano basso basso sotto le nubi; e si distinguevano bene i tre bei colori: bianco, rosso, verde.
Lo osservammo un momento estatici con lo sguardo fisso come per dirgli:
venite italiani, venite presto, poi ci ritirammo un po’ contenti. La malinconia
era passata, ma non la paura. Dopo mezz’ora di ansia sentimmo uno scalpitìo,
corremmo di nuovo, erano tre inglesi. Si fermarono in piazza, noi ci avvicinammo, loro pure, e danno una stretta di mano. Ma la commozione era tanto
nostra che loro: nostra nel vedere i liberatori, e di loro nel vedere tanta povera
gente dimagriti, pallidi e affamati, non permetteva dar parole di ringraziamento e di gratitudine.
Rincasammo dopo qualche minuto come stupiti e ci fermammo nella soglia
Ponte sul Monticano a Visnà, minato dal nemico, ma riconquistato prima che quest’ultimo potesse farlo
saltare in aria
La popolazione civile veniva sfamata dalle truppe degli invasori
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di casa aspettando le truppe. Difatti dopo poco arrivò una pattuglia di inglesi
che si sparpagliarono per tutte le case per vedere se vi erano dei tedeschi.
Alcuni di essi entrarono in casa nostra, e dopo di aver stretta la mano gentilmente, li conducemmo per tutte le stanze, tanto per persuaderli.
Intanto che esultanti si stava in mezzo ai nostri liberatori, le granate cadevano sempre più fitte e anche qualcuna nel centro.
Alle undici finalmente cominciò a passare qualche italiano, poi sempre più
finché vedemmo avanzarsi la truppa, munita di mitraglie e cannoni.
E dopo di aver posato i cannoni in posizione di sparo per sparare al di là
del Monticano che erano i tedeschi che facevano un po’ di resistenza, i soldati
si nascosero dentro le case. E anche in casa nostra saranno stati 20 soldati.
Dopo un anno di pene, di sofferenze e di malinconia ecco il primo momento
di felicità!
Eravamo tanto contenti, in mezzo ai nostri soldati, si raccontava loro le
nostre tristi avventure, che loro con cenno di compassione ascoltavano estatici
i nostri avvenimenti, e di tratto in tratto esclamavano: povera gente, è ben ora
che veniate liberati!
In quel momento, nella casa vicino alla nostra è caduta una granata, che
non fece né tanti danni né tanto rumore, ma quelli che erano dentro scapparono a casa nostra impauriti; che poi dimenticarono anche la paura trovandosi con i cari italiani. Però cadevano di continuo qualche granata, ma non
proprio nel centro, ma dopo qualche istante, ecco che cominciò a caderne una
in piazza, poi un’altra. Alla caduta di queste granate, mia mamma che per la
prima volta dopo tanto tempo faceva la polenta buona, come diceva, mentre
la mescolava interrogava un soldato che stava asciugandosi i calzetti che aveva
bagnati passando il Piave poche ore prima, e le diceva: ci dica un po’ buon
soldato, che ci sia ancora pericolo? Sento questi colpi tanto vicini che non posso
mettermi in pace. E lui rispose: “Signora, io la consiglierei di scappare perché dicono che dovremo fare una piccola battaglia per passare il Monticano”.
Mentre così parlavano, una granata cadde nel mezzo di casa nostra che fece
un fragore indiavolato rompendo tutti i vetri e crollando le mura dell’ultimo
piano e il tetto.
Che momenti indescrivibili, come un lampo la casa restò vuota, e soldati e
borghesi fuggirono non so dove. Solo so che mio fratello più grande prese il piccolo e se la diede a gambe, mia mamma prese la piccola che stava arrampicata
su per il seggiolone dove sedeva la nonna e, prima scuote la vecchia e poi diede
un allarme a tutti noi che eravamo ancora convalescenti della febbre spagnola;
tutte insieme corremmo verso il cortile per scappare.
La nonna pure spiccò proprio un salto e, di corsa dietro a noi venne fino
in cortile. Mia mamma che era davanti alla fila, volse l’occhio, e vedendo che
eravamo tutte, continuò la sua strada, attraversando i cortili vicini. Ad un
tratto si tornò a voltare e non vide più la nonna. Povera vecchia, non so se dalla paura o da debolezza di mente non sapeva più quello che faceva. Tant’è vero
che appena arrivata in cortile, cominciò a cercare la scopa, che poi tornò in
cucina a spazzare tutti i calcinacci staccati dalle mura. Noi intanto ci siamo
ritirati nella casa di Brugnera perché non si voleva scappare senza la nonna.
Intanto le granate cadevano fitte fitte. La nostra angoscia era indescrivibile.
Come fare? La nonna non veniva, le palle arrivavano con fragore spaventoso,
i soldati ci dicevano di scappare via anche da loro. Come? E la nonna? “Vado
a prenderla” dissi io. Cominciai la strada (ero zoppa); appena passato il cortile
di Brugnera e cominciato quello di Bianchi, uno sdrapelin [shrapnell] cadde
poco davanti, tant’è vero che se non mi ritiravo dietro il muro, rimanevo ferita, nello stesso tempo parecchi soldati che avevano capito di cosa si trattava,
mi dissero se ero pazza. Feci per ritirarmi e subito comparve mia mamma e le
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In alto a sinistra, Elisabetta Fagnol con i fratelli, le sorelle, mamma Maria e nonna Beta
sorelle, anche loro volevano andare a prenderla, ma i soldati ci continuavano
a dire: fuggite, salvate la gioventù. Allora tutti ad alta voce si chiamava: nonna, nonna; ma era invano, non sentiva perché il fragore delle granate si faceva
sempre più grande, più terribile e spaventoso.
Ma non si partiva, se un soldato non veniva a spingersi. Ci disse: “Andate
che andrò io a prendere la vecchia; la gioventù, la gioventù preme”.
Allora cominciammo il cammino verso i campi e venimmo seguiti da altra
gente che veniva dalla piazza. Si domandava loro della nonna ma niente
sapevano.
Quando arrivati ad un certo punto si vedeva bene la nostra casa, ma al di
là un gran fumo, che pareva che dentro ardesse. E anche dicevano che la nostra
casa era incendiata. La nonna! Che momenti di strazio, di desolazione e di
paura per i nostri poveri cuori.
Le sorelline dicevano: “Mamma! La nostra casa è atterrata”, perché il fumo
la nascondeva. E la nonna? La gente per consolarci ci diceva di non star a
pensare, è scappata di certo quando ha veduto il pericolo. Non erano parole
che ci consolavano, e si stava là là, non si osava nemmeno andare avanti. Ma
poi i tedeschi stando al di là del Monticano allungarono il tiro dei cannoni,
e siccome anche in quel campo si era in pericolo, bisognava andare ancora
avanti. Oramai la forza ci mancava, ma la mamma si fece coraggio perché
andava di vivere o morire essendo i proiettili tanto vicini, e disse: “Coraggio figlie mie, fuggiamo, il Signore ci aiuterà, e confidiamo in Lui che salverà anche
la nonna”. Allora con la speranza sempre in cuore, sempre pregando abbiamo
continuato il cammino. Ma io che dopo tre mesi di male al piede destro e otto
giorni di febbre, per la prima volta avevo fatto un così lungo cammino, non
ne potevo più, e a stento mi trascinavo dietro gli altri.
Sicché ero un bel pezzo dietro a mia mamma. Con me era una donna ancora convalescente che portava in braccio due bambine ammalate. A un tratto
sentimmo un fischio che veniva contro di noi. Era una granata che cadde tanto vicino a noi che ci fece cadere per terra. Ma grazie al cielo non si scoppiò.
Immaginarsi il nostro spavento.
Insomma, dopo aver passato siepi, fossi, e campi, ci trovammo in una famiglia di Brugnera a Rai, dove saranno state duecento persone scappate dal
pericolo.
Appena arrivate ci sedemmo sfinite per terra e si stava con la mente a pensare avvolte dal dolore, quando una donna che veniva da Visnà ci disse: “La
casa sua è tutta per terra, non è rimasta che un mucchio di pietre, così pure la
chiesa e altre case; la mia non ancora, (invece fu solo la sua casa atterrata in
piazza), poi dicono che è morta la signora Augusta.” Quella donna era vile.
Vedeva in che angoscia si stava e continuava a dirci quelle cose per aumentare
il nostro dolore. Che momenti di strazio, si era proprio al colmo del soffrire.
Il pensiero terribile della nonna, il dolore della sentita morte della zia, il
pensiero dei parenti, perché anche la zia Marina aveva due figlie gravemente
ammalate, e i due più piccoli erano fuggiti con noi; anche per questo si pensava, perché la loro mamma non sapeva dove fossero, e poi la fame, perché in
tre giorni avevamo mangiato soltanto un po’ di latte ed un pezzetto di pannocchia arrostita. Paura, perché anche là nei dintorni arrivavano granate;
freddo, perché eravamo vestiti un po’ alla meglio; sonno, che da tre notti non
si dormiva.
Se il cielo non avesse avuto pietà, cosa sarebbe stato di noi? Non si sentiva
più niente, non si parlava più, ma nella mestizia di un profondo dolore si
confidava nella misericordia di Dio, che ci aiutò a sopportare quegli strazi
morali e fisici.
Alla sera ci venne regalato un pezzetto di polenta senza sale: come era buona! Poi una buona donna di quella famiglia disse alla mamma se voleva andare in una camera, un po’ fuori del freddo, che accettò ringraziandola.
La notte la passammo in quella stanza con un’altra famiglia che avevano
anche loro la nonna in casa. Ci confortammo a vicenda con poche parole, e
poi estatiche, sedute nel suolo, aspettammo il mattino.
Nei primi albori la mamma incominciò la strada per andar a prendere la
nonna. Appena oltrepassata la porta di casa, la vide con la scopa in mano, che
subito la lasciò cadere e corse incontro alla mamma; si abbracciarono e piansero. Dopo qualche istante le domandò dove si fosse ritirata nella notte e disse
che l’Amelia Biasi era andata a prenderla e aveva passato la notte con la sua
famiglia. Dopo questo breve dialogo, prese un po’ di farina che era rimasta dal
giorno avanti e, a braccetto, si portarono fino in campagna, perché avevano
detto che verso le nove veniva il contrattacco. La lasciò in una famiglia e venne
a prendere noi a Rai, che poi, tutte assieme, andammo dai nostri contadini,
e là siamo rimaste fino alle quattro pomeridiane, e dopo una bella mangiata
siamo ritornate alla nostra casa, che l’abbiamo trovata tutta rotta, solo una
stanza era abbastanza benino, e le altre, o i vetri, o il suolo, o le mura, erano
tutte decrepite.
Quanta malinconia è rimasta in noi nel vedere il paese tutto devastato!
Il campanile non era più; la chiesa quasi tutta a terra, il parroco in fin di
vita, l’ansia di sapere dei nostri profughi, e tante altre cose lasciate dalla terribile prigionia tedesca, che sarà per noi commemorata per sempre.
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Ma il Signore ha voluto che torna a rifiorire i primitivi giorni, ed ecco che il
4 novembre fu firmato l’armistizio della terribile e sanguinosa guerra europea,
colla vittoria italiana.
Lodare Gesù... Viva l’Italia (però tante famiglie sono state segnate).
A Visnà: 12 dicembre 1918
DON GIOVANNI DAL POZ - Celebro la prima volta a Visnà nella saletta della canonica perché la chiesa e il campanile sono crollati. Poco dopo la
chiesa viene trasportata nella cantina adattata a casa del Signore.
Novembre 1918
16 gennaio 1919
DON GIOVANNI DAL POZ - Da Treviso, dopo la visita al Vescovo Longhin ritornai a Bibano. Quella popolazione volle farmi una cerca di granoturco. Fu abbondantissima.Volle così dirmi che mi ringraziava e mi voleva bene.
Serbo per essa un grato ricordo. Cercai con tutti i mezzi e tra mille difficoltà
di avvicinarmi alla mia parocchia (Cimadolmo).
S.E. il Vescovo di Ceneda, che desiderava avermi tra i suoi paroci, con bolla
in data del 5 novembre 1918 mi nominava Economun Dictae Ecclesiae Parochialis S. Martini de Vicinatu, (Visnà di Vazzola), e con tutte le facoltà del
caso; e il Vic. For. di Vazzola insisteva perché vi andassi.
Ecco in proposito la lettera di S.E. Mons. Eugenio Beccegato.
Il Rev. Vicario Foraneo di Vazzola, Don Domenico Zanette, insiste perché
io annuisca al desiderio espressomi da S.E. di andare a Visnà.
…Domani, Lunedì 25 co. (novembre 1918) vado a Treviso a parlarne a
S.E. Mons. Longhin.
E da Visnà il 7-12-1918 don Domenico Pancotto mi scriveva: “L’avverto
che oggi nelle ore pomeridiane io parto per Portobuffolè. Questi fabbriceri
sono avvisati, ma per oggi si trovano nella impossibilità di avere il mezzo
pel trasporto della sua mobilia. Potrebbe intanto venire per le sue funzioni
di domani e cioè per la messa prima alle ore 7.30 (perché la messa seconda
viene ogni festa celebrata da Don Paolo Cescon) e così avrà campo di parlare
e concretare coi fabbriceri.
Finalmente per il 12 dicembre 1918 tutto viene disposto perché nella nuova
residenza provvisoria io possa celebrare la S. Messa. Confesso che lascai Bibano
con grande dispiacere, perché fu testimonio per circa un anno di tanti dolori
e di tanti affetti, di tante sofferenze e di tanta bontà, di tante privazioni e di
tanta generosità, di tanto lavoro e di tanti preziosi, alti conforti.
Una cosa sola non mi mancò mai fino alla liberazione: elemosine per la
celebrazione di S. Messe, e in tale abbondanza da poterne consegnare all’Arciprete di Vazzola una cinquantina …
DON GIOVANNI DAL POZ - A Visnà ebbi le graditissime visite di
Mons. Bettamin e di Mons. Rostirola. Ecco come e perché. Il primo soccorso
della diocesi di Treviso, per la generosità di S.E. Mons. Vescovo, portato con camions da Mons. Paroco del duomo, giunse il giorno di S. Tiziano 16 gennaio
1919; il secondo soccorso il 17 gennaio 1919 dal mio paese di Camposanpiero, accompagnato da quel buono e benemerito arciprete Don Luigi Rostirola;
il terzo soccorso il 25 gennaio 1919 alle ore 10 di sera da Mons. Bettamin
paroco del Duomo di Treviso. Che Dio li ricompensi.
Vazzola liberata dagli invasori
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Febbraio 1919
24 luglio
DON GIOVANNI DAL POZ - Polenta -. Fino a oggi 19-2-19 ho potuto
comperare e dispensare, a pagamento, più di 168 quintali di granoturco ai
miei parocchiani al prezzo di £. 46 oppure 47 al quintale, mentre altrimenti
l’avrebbero pagata a £. 56 e 60; e rimango creditore di altri 32 quintali, che
mi furono recapitati il 1.o e il 2 marzo. In tutto 200 quintali di granoturco,
senza contare l’olio, le patate, i fagioli, il petrolio e il latte concentrato.
Ad majorem Dei gloriam.
Devo riconoscenza al comm. Dalla Favera, che me lo fece comperare, e a
Mons. Bettamin che me lo portò in paese.
2 marzo
DON GIOVANNI DAL POZ - La vigilia di S. Giacomo del 1919 (24
luglio) dopo che il S. Padre Benedetto XV ricevette i cardinali per gli auguri
del suo onomastico, ricevette me. Volle conoscere a lungo le condizioni del
Piave martoriato, e mi diede affidamento di soccorrere le mie opere cattoliche,
che stavo per far sorgere.
Il 23 e 24 luglio fui ricevuto ripetutamente da S. E. Luzzatti, che il 24,
alle ore 17, radunò nella biblioteca del parlamento S. E. Nava, Ministro delle
terre liberate, con l’ammiraglio Chierchia e il suo Segretario, e fece una seduta
per aiutare le mie opere, che avevo intenzione di far sorgere.
Le vicende di don Giovanni Dal Poz sono tratte da “L’INVASIONE
– Diario di un profugo”, Noale, 1937.
DON GIOVANNI DAL POZ - Mons. Bettamin mi rimprovera dolcemente
in cantina – Chiesa di Visnà, predicando; e in canonica, conversando, perché
metto in pratica, per il mio popolo, l’esortazione di N.S.G.C.: pulsate, petite.
In pari data mi scrive: “Mando ora il resto, più qualche cosa che ho ritirato
da Massanzago.” Sarà un momento d’amore e di riconoscenza quello che i
poveri invasi innalzeranno a Mons. A.G. Longhin, vero emulo del poverello
d’Assisi; ai Mons. Bettamin e Rostirola; e ai paroci benefattori.
13 marzo
DON GIOVANNI DAL POZ - Don Domenico Zanette, Arcip. Vic. For.
di Vazzola, mi scrive che il Vescovo di Ceneda desidera che mi fermi nella sua
diocesi; e il 17 ripete il medesimo desiderio di S.E. a mia sorella Teresa.
A voce, lo stesso Mons., Vescovo di Ceneda ripete il desiderio sopra riportato
alla mia sorella Teresa a San Polo di Piave.
Le vicende di don Amerigo Garbuio sono tratte da “S. MICHELE DI
PIAVE E LA SUA NUOVA CHIESA” di mons. Costante Chimenton,
Treviso, 1929.
Il Diario di Maria Nardi è tratto da: “PURA E FORTE – in memoriam
di Maria Nardi”, 1919, di mons. Domenico Zanette.
Il diario di Elisa Fagnol è stato tratto da “PICCOLI RICORDI DELL’INVASIONE TEDESCA” inserito nel libro “DI QUA DI LA’ DEL
PIAVE” di Mario Bernardi, ed. Mursia, 1989.
3 aprile
DON GIOVANNI DAL POZ - A mezzogiorno arrivo a Cimadolmo per
rimanervi stabilmente.
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LUOGHI DELLA MEMORIA
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