Q 21 uesta settimana il menù è DA NON SALTARE Il dubbio degli ebrei “ Noi sappiamo che il nostro comandante Chavez è salito fino a quelle altezze, che ormai è faccia a faccia con Cristo. Una qualche influenza ha avuto perché si scegliesse un Papa sudamericano, una nuova mano si è mossa e Cristo gli ha detto: “È arrivata l’ora dell’America del Sud” Campanini a pagina 2 ICON L’opera in verde Nicolas Maduro, presidente ad interim del Venezuela 14 marzo 2013 Rosi a pagina 5 ICON La coerenza di Ligabue Vanni a pagina 6 LUCE CATTURATA Que viva Mexico! RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4 Giani in ottava rima SUlle orme di LIncoln Gailli a pagina 9 C DA NON SALTARE U O .com di Saverio Campanini [email protected] S averio Campanini, docente della École Pratique des Hautes Études di Parigi, ha tenuto la conferenza che di seguito pubblichiamo su Il dubbio nell’Ebraismo, nell’ambito del ciclo di incontri organizzati dall’Istituto Stensen di Firenze “Dubito ergo sum. L’esperienza e l’intelligenza del dubbio”, il giorno 16 febbraio 2013. La questione del dubbio nell’Ebraismo è certo troppo ampia per poter essere affrontata seriamente qui, se non con una buona dose di incoscienza, con qualche perplessità, insomma con qualche dubbio. Non farò quindi altro che affrontare il tema in termini soggettivi, da studioso dell’ebraismo curioso di tutte le sue sfaccettature. E’ buona cosa cercare di partire dal linguaggio, dalla filologia: in ebraico, tanto moderno quanto medievale, dubbio si dice safeq. Il termine però non è attestato nella Bibbia. Esiste per la verità la radice safaq, che significa “battere le mani”, un gesto di sconcerto, di lutto. Teniamo a mente che le mani quando si battono sono due: ci torneremo sopra. Esiste una variante grafica di un hapax legomenon, cioè di un termine che appare una volta sola nella Bibbia, in particolare nel libro di Giobbe, ma in quel caso significa “abbondanza”, “ricchezza”, un altro termine che ci può essere utile. Oltre alle due mani che battono, c’è questo elemento di sovrabbondanza, di eccesso che abita qualunque possibile idea di dubbio se cerchiamo di vederlo in ambito ebraico. Da quella che si potrebbe chiamare la più presente eredità ebraica, vivente il suo testatore, Baruk Hashem, penetra maggiormente il linguaggio comune la parola amen che sembra essere proprio l’opposto del dubbio perché essa indica la certezza, la verità salda, stabile, immutabile. Se dobbiamo dire però dubbio in ebraico, non ricorreremo tanto al termine moderno safeq (che però viene più spesso utilizzata nella locuzione en safeq, non c’è dubbio, quindi per negarlo), ad esempio nella letteratura rabbinica, ci soccorrerà un termine come qashiya, che viene dalla radice qashe, che significa duro, difficile, e indica dunque difficoltà, elemento inspiegabile nella dottrina. Ad esempio, nella Torah, quando due dottrine paiono contraddirsi il linguaggio rabbinico e quindi l’interpretazione di questa contraddizione che si cerca di sanare, il termine è qashiya, diffi- Il Dubbio del popolo eletto René Magritte, Ceci n’est pas une pipe, 1926 o 2 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 coltà, problema. O anche, sempre rimanendo all’interno della letteratura rabbinica, un altro termine che può esprimere alcune delle dimensioni presenti nel dubbio, è machloqet, che deriva da chalaq che significa spezzare, spartire, dividere : machloqet significa dunque divisione, contrasto, conflitto, punto insanabile di contraddizione ad esempio fra due scuole rabbiniche; dunque, il dissidio più che il dubbio. Non posso esimermi dal precisare che la parola dubbio in italiano deriva dalla parola due. Molto più evidentemente in tedesco Zweifel, che deriva dal numerale zwei e collegata alla parola Zweig, ramo, appunto biforcazione, che impone una scelta e, di nuovo, due, bis. L’esitazione tra due corni che per definizione devono essere incompatibili. E come, allora, collegare l’idea di dualità che c’è dentro la dimensione del dubbio con l’Ebraismo che, soggettivamente e oggettivamente, si fa forte nella sua radice di una e una sola idea, l’idea monoteista? E, dunque, l’idea che l’unità sia l’intima e più profonda radice della Verità; che ci sia una Verità, che ci sia un Dio, e che il nostro Dio, Elohenu, sia Uno, come recita l’Ebreo pio ripetutamente durante il giorno e soprattutto nel momento dell’andare a dormire: lo Shema’, la preghiera fondamentale dell’Ebraismo, recita e si conclude sulla parola Uno. Dunque non c’è spazio per il dubbio. Il Due non può che assumere allora la casella del Male, della negatività, del dissidio, della difficoltà e, dunque, dell’essere fuori dall’Ebraismo. E in effetti, se consideriamo il Talmud, la grande raccolta di discussioni giuridiche che si è cristallizzata verso il VI secolo dopo Cristo, quindi in epoca alto medievale o tardo antica (anche se queste categorie non hanno molto significato in ambito orientale dove sorge il Talmud), il dualismo è identificato con la dottrina mazdeista, dunque persiana, che vede due principi il bene il male, l’Ahura Mazdā e l’Ahriman: il dualismo è considerata una pericolosa eresia, che deve essere sradicata con ogni mezzo. In effetti questo pericolo è stato corso fino alle estreme conseguenze da grandi Rabbini, di cui il Talmud ci parla. Un pericolo che non riguarda gli uomini semplici che possono essere tratti in inganno dal fascino della dottrina dualistica, bensì i grandi Rabbini, come uno dei più grandi di tutti, Elisha ben Abuyah, che il Talmud chiama eufemisticamente Acher, l’Altro (di nuovo il due, noi e l’altro). Elisha ben Abuyah ha violato la legge andando a cavallo di Sabato e inoltre ha dichiarato che ci sono in cielo due Autorità: questo è il peccato più grave di tutti, dire che ci sono due Poteri, due Dei. Alcuni, per esempio Peter Schäfer nel suo libro su Gesù, associano una dichiarazione del genere ad un possibile Cristianesimo camuffato, per cui non c’è solo Dio ma c’è anche Cristo, allora sono due. C U O .com Ma effettivamente si direbbe piuttosto che l’Altro stia parlando del dualismo mazdeista. A tal punto che, racconta il Talmud, l’angelo Metatron, l’unico che ha il diritto di stare seduto al cospetto di Dio perché è lo scriba e dunque per la sua funzione non può stare in piedi ma ha il diritto di sedersi, viene frustato con il fuoco da parte degli altri angeli perché quando Elisha ben Abuyah ha contemplato la Corte divina, lo ha visto seduto davanti a Dio anche lui seduto, ne ha dedotto che allora esistessero effettivamente due Poteri. Metatron viene frustato benché non abbia colpa, ma perché ha indotto in errore il rabbino, l’ha indotto a pensare che ci sono due Autorità: avrebbe dovuto invece alzarsi per non ingannarlo. Sembra di poter affermare che c’è una radicale incompatibilità fra dubbio ed Ebraismo. E qui restiamo sorpresi perché siamo abituati quasi ad identificare il dubbio con l’Ebraismo. Dal punto di vista non ebraico, il dubbio è una delle accuse contro gli ebrei, in quanto fattore corrosivo della società poiché introduce il dubbio. In effetti, se pensiamo che il monoteismo è incompatibile con il dubbio, allora colui che dubita dovrebbe porsi fuori dall’Ebraismo. In realtà le cose non sono così semplici. Introduco almeno due possibili articolazioni del dubbio (come vedete parlando del dubbio si finisce per forza di cose ad avere a che fare con realtà duali): c’è il dubbio che concerne la fede che, secondo Martin Buber, per l’Ebraismo è diversa dalla pistis o interiorità credente del Cristianesimo, è invece emunah, la stessa radice di amen che significa fedeltà. Quindi il dubbio sarebbe semmai un problema, un’esitazione nella pratica dell’Ebraismo. Ma c’è certamente anche il dubbio che riguarda la possibilità stessa della conoscenza, in altre parole lo scetticismo, speso attribuito all’Ebraismo. In realtà si tratta di un’accusa molto recente. Riferisco una barzelletta famosa in ambito ebraico: quella del padre di famiglia ebreo che è fiero di mandare il proprio figlio in una delle più prestigiose e costose scuole di New York, una scuola cattolica. Il bambino torna da scuola e dice “ma cosa è la Trinità?” e lui risponde “Macché Trinità: esiste solo un Dio, e noi non ci crediamo”. Questo però è un modo di vedere gli ebrei che non corrisponde all’evidenza documentaria dell’Ebraismo antico o medievale. Che gli ebrei dal punto di vista Cristiano siano miscredenti, non ci sono dubbi. Ma che l’altro che non crede in ciò in cui credo io, non ne fa ancora un miscredente; è un miscredente in ciò in cui credo io e tuttavia l’ebreo continua a credere in ciò che per lui è vero. E non ci dicono molto sull’Ebraismo, quelli chiamati da una certa apologetica cristiana i Maestri del Dubbio, spesso elencati in una filiera che DA NON SALTARE Prima parte della conferenza di Saverio Campanini all’Istituto Stensen di Firenze nell'ambito del ciclo di incontri “Dubito ergo sum” Henrietta Rae, Dubbi, 1886 o 3 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 parte da Spinoza e passa per Marx, Freud, Einstein: ecco di questi 4 di ebrei veri ce n’è semmai uno, cioè Einstein e con qualche dubbio. Spinoza infatti era battezzato, un cristiano marrano; Marx era stato battezzato da fanciullo, era evangelico; Freud si dichiara sì ebreo, ma “senza Dio”. L’identificazione di dubbio ed Ebraismo è non soltanto un fenomeno esterno cioè di chi guarda l’Ebraismo dal di fuori, ma è un fenomeno che interessa l’ebraismo a partire dall’emancipazione e quindi dalla fine del Settecento. Perché l’emancipazione mette in gioco l’identità degli ebrei. Ora tornando un momento al Medioevo la questione del dubbio, se di fede o di conoscenza cioè se sia possibile la conoscenza, si articola in una maniera sorprendente per la sua modernità, perché ad esempio il libro di Maimonide, “la Guida dei perplessi”, la guida di coloro che dubitano, non è una esortazione a non dubitare della verità del giudaismo, piuttosto la rappresentazione all’esterno di un’altra forma di dogmatismo, quella della ragione. Maimonide ci presenta il suo perplesso ideale come colui che ha accettato la ragione come guida di verità. La ragione secondo la dottrina aristotelica ci dice che Dio non può avere un corpo, e allora perché la Bibbia ci dice che Dio agisce, auspica, spera, si pente, desidera, che Dio più semplicemente parla? Per parlare occorre avere un corpo. Quindi la messa in dubbio del giudaismo a partire dal dogma della ragione. Anche qui abbiamo un contrasto: crediamo nella ragione o nella Bibbia? Maimonide cerca di conciliare, di dimostrare che non ci sono due verità. Sorprende la modernità di Maimonide perché anche noi siamo spesso confrontati con una ragione che si fa dottrina inviolabile. E tuttavia che cosa c’è di ebraico nel dubbio che la ragione induce nella fede? Niente, questo dubbio poteva venire anche ad un cristiano: se la ragione ci dice di non uccidere, perché non dovremmo farlo perché ce lo dice Dio? In effetti la filosofia per sua natura è universalista; aspira a verità universale. Viceversa l’ebraismo propugna e pratica una miscela di vocazione universalistica (il Dio unico, di tutti) combinato con un radicamento particolaristico. Chi c’era davanti al Sinai? Non tutti. Seicentomila persone, ma quelli, solo quelli possono testimoniare la rivelazione per averla vista. Questo popolo, questo figlio (nel caso della scelta fra Giacobbe ed Esaù), questa terra (non altra, la Palestina). Fine prima parte - continua C RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com LE SORELLE MARX Giani in ottava rima LO ZIO DI TROTSKY Mentre si fa la calza, al canto del fuoco, una delle nostre sorelle ci canta sempre di poesia vi mandiamo un estratto delle sue ottave in endecasillabili liberi sul pluriamministratore Giani: L’Immarcescibile Eugenio Posti e poltrone meglio degli amori con cortesia e senz’audacia io canto del tempo politicante degli ardori che alla nostra città nocquero tanto, anni gl’eran di giovanil furori ognun di lor menava grande vanto il sopravvissuto a quei giorni sano dei cancellier restato è gran decano. In mille parti si disfa il Gian-presente per non perder cene o gare di pallone mai si dirà di lui che è stato assente, va dappertutto e suona il suo trombone. Anziano del Comune e mai perdente d’ogni partito è stato gran campione sorride sempre e a tutti da la mano a modo suo è un piccolo sovrano. nata per quarant’anni dalla DC. Tuttavia a voler dare credito a quelle affermazioni o anche solo a osservare il bisogno di doversi accreditare tramite un esperienza resistenziale (perdipiù indirettamente vissuta), di tutti questi militanti un problema politico serio a pensarci bene, almeno per quelli del PD, sorge. Dato che, come notato prima, la maggior parte dei partigiani erano di sinistra se oggi il PD elegge o promuove quasi solo nipotini di gente di sinistra l’incontro coi moderati, per il quale quel partito è nato, dove è andato a finire? Mai non perde una mostra di pittura gran premiator d’ogni sportiva gara politico median con pelle dura ad ogni discorso fategli la tara, parla di tutto con la voce pura ma ad ascoltarlo però poco s’impara. Non molla mai il Consiglio Comunale e in quello Regional non ci sta male. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti www.culturacommestibile.com [email protected] [email protected] www.facebook.com/ cultura.commestibile “ “ Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti 4 I CUGINI ENGELS Il nonno partigiano Fateci caso, se siete frequentatori di qualche movimento politico o sociale di sinistra non passerà riunione o intervista in cui qualche giovane (o pretendente tale) per presentarsi e sdoganarsi, non affermerà di avere avuto un nonno partigiano in famiglia. Esemplari in questo senso le interviste e gli status sui socialnetwork di molti neodeputati PD e SEL all’avvio di questa legislatura: tutti felici per l’incarico, tutti a ringraziare amici e parenti (pochissimi gli elettori, vista anche la legge elettorale) e con un pensiero speciale per il nonno partigiano quasi sempre defunto che quindi, li guarda da lassù. Ora, a sommare tutti questi nonni combattenti per la Libertà, vien da chiedersi come sia potuto mai avvenire il fascismo in Italia e come, visto che le brigate partigiane più numerose erano quelle socialiste e comuniste, l’Italia sia stata gover- o n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 “Io sono come Fëdor Dostoevskij”. L’incipit di Carta Canta di Antonio De Petris, appare il più idiota che si possa immaginare: l’istinto sarebbe buttar via il volume, ma recensire “oblige” e andiamo avanti. Il povero De Petris ci vuole con esso solo far sapere che, come Dostoevskij quando scrisse “Il giocatore” , anch’egli è stato costretto a pubblicare questo libro per pagare debiti. Storia vera di un disgraziato che fra gratta e vinci e slot machine non passa al Casinò ma direttamente al casino, come recita il sottotitolo. La tristissima vicenda non è ambientata nella termale Roulettenburg come il racconto dostoevskiano, ma in una squallida sala giochi di periferia, sudicia e piena di pensionati avvinazzati, ragazzotti perdigiorno che fregano i soldi alla mamma e tossici di tutte le età. E pensare che lo scrittore era entrato per indagare il fenomeno, per documentarsi, ah dimenticavo! De Petris è un giornalista e doveva scrivere, per un quotidiano di provincia, un articolo sulla ludodipendenza. Identificatosi troppo nel suo compito diventa in un batter d’occhio un giocatore invasato al pari dei disperati che lo circondano e sperpera colà un patrimonio. Chiude la sua opera dicendo: “Ho scritto questo racconto per racimolare qualche soldo, altrimenti mi suiciderò”. Ci siamo sentiti in dovere non solo di fare la recensione, ma anche di unirci alla catena di solidarietà in atto per salvarlo. Chi ci legge può inviare una libera offerta ad Aldo Frangioni e Paolo della Bella, Casella postale 333 di Firenze, poi penseremo noi ad inoltrare il ricavato al malcapitato scrittore: ci potete scommetere. Sulle orme di Lincoln Daniel Day-Lewis ha, giustamente, vinto il premio Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione del grande presidente Repubblicano nel film Lincoln di Steven Spielberg. Oltre alla statuetta di Hollywood, l’attore ha portato a casa il Golden Globe, il Premio BAFTA, lo Screen Actors Guild Awards, il Critics’ Choice Movie Award, il Washington DC Area Film Critics Association, il San Diego Film Critics Society, il Boston Society of Film Critics, il New York Film Critics Online e praticamente ogni altro premio cinematografico dalla Est alla West Coast. Ora, noi vorremmo sollevare il nostro grido di protesta per questa palese ingiustizia. E ci spieghiamo. Se avete visto il film avrete notato che tutta la vicenda ci concentra intorno alle manovre, non tutte per la verità cristalline, che il buon Abramo si è inventato per conquistare il voto dei membri del Congresso USA, soprattutto gli “schiavisti” (all’epoca) democratici), nel gennaio 1865 a favore del XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Non è ben chiaro se siano corsi soldi, ma certamente favori, minacce, promesse di seggi per convincere i recalcitranti senatori democratici a votare quell’aulico e coraggioso emendamento che inizia così: “La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti...”. Una nobile e storica iniziativa che nasce, però, nel sangue della guerra civile e nel lavacro della corruzione. Per questa storia non proprio edificante sotto il profilo dell’etica pubblica, raccontata in modo realistico da Spielberg, il nostro Daniel si è preso uno scatafascio di premi. Ecco il motivo della nostra protesta: perché mai, allora, il nostro Sergio De Gregorio, anche lui senatore (ma del Popolo della Libertà) che ha ammesso di aver ricevuto due milioni di euro in nero per far cadere il governo Prodi, non è stato neppur proposto per la nomination al Napoli Film Festival o al Festival del Cinema amatoriale di Posillipo sua terra d’origine? Non ci sembra giusto. Si dirà che c’è una differenza culturale fra le due opere d’ingegno (il XIII emendamento e la caduta del Governo Prodi). Forse, ma non certamente diverge la statura culturale dei due protagonisti, Lincoln e De Gregorio. Infatti, quest’ultimo è autore di libri fondamentali per la cultura mondiale. Citiamo soltanto due di queste opere per indicare l’eclettismo e l’enciclopedismo del Nostro: Tortora: morire d’ingiustizia (Napoli, Ed. De Dominicis, 1988) e Diete dimagranti, diete ingrassanti (Imola, Ed. Sarva, 1993). C ICON U O .com o 5 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 di Angela Rosi [email protected] L’ Oeuvre au vert di Giovanni De Gara alla Galleria La Corte è il paradiso, in lingua persiana giardino perché queste tele richiamano il verde e le decorazioni dell’Islam. Le opere di De Gara sono aiuole composte a formare giardini che ricordano anche il Giappone, i ricami sul kimono, i dipinti sui paraventi, le stampe, la leggerezza della carta di riso, gli ombrellini parasole. Giovanni lavora col verde, unione di blu e giallo, dipinge la speranza, la natura, l'autoaffermazione, ma anche la rabbia, l'invidia, la mancanza. I precedenti campi da calcio da lui pitturati sono stati nascosti da fiori ed erba annunciatori di primavera e rinascita, una dichiarazione di serenità con l’approdo a un bel giardino, dove tutto diventa facile persino bello, dove la vita scorre e noi ci lasciamo trasportare, dove tutto è fluido e segue un suo percorso, dove la vita stessa è danza. La Primavera di Botticelli, trionfo della natura e della bellezza, affiora. La natura è in galleria, respiriamo il profumo e la freschezza primaverile, sentiamo la voglia di rinascere e ricominciare, verdi, in erba, giovani anche se non lo siamo più. Il verde è respiro e noi lo inspiriamo a pieni polmoni, l'aria verde entra e ci allarga ci rende capienti e disponibili a essere diversi, più leggeri, più spontanei com’è la natura. Il nostro verde risvegliato si allarga e invade territori che poco prima erano “contaminati” rendendoli di nuovo vergini, restituendoli alla natura e alla vita, il verde li purifica per una nuova nascita. Come fosse un ciclo delle messi, c’è stata l’aratura, la semina e ora nascono i primi teneri germogli, De Gara ci porta dentro la ciclicità delle stagioni, dentro la sua primavera e di conseguenza nella nostra. Nella sua pittura la complessità della vita, del mondo, l'oriente e l'occidente, egli ci insemina facendoci riflettere sugli Ufo che ci mandano messaggi con i cerchi di grano ai quali noi rispondiamo con i nostri cerchi dei campi da calcio perché la terra vista dallo spazio è dominata da campi da calcio. Che cosa diciamo con i nostri cerchi agli Ufo? Essi cosa capiscono? Che dialogo ci può essere fra cerchi di diversa natura? In alcuni suoi quadri l'occidente si estingue e le geishe appaiono come bellissimi fiori di papavero in mezzo a bidoni BP per cercare quello che oramai non c'è più, gioco di parole tra il papa nero che segnerà la fine del mondo e BP società britannica del petrolio ma anche Black Pope. De Gara ci invita a cercare e trovare il nostro paradiso/giardino interiore e viverlo indipendentemente da ciò che accade nella realtà perché ciò ci porta a fluire con la vita, a divenire di volta in volta, ci porta verso la pace interiore che spesso cerchiamo all’esterno anche attraverso il consumismo. L’Oeuvre au vert di Giovanni De Gara ci porta un appagamento profondo senza il continuo bisogno di riempire un vuoto, ci porta verso la pienezza della nostra vita e all’abbandono delle sovrastrutture per la nostra vera natura. L’opera in verde Il paradiso di Giovanni De Gara alla Galleria La Corte a Firenze C ICON U O .com 6 sone si fa più consistente. Risale al 1961 la mostra della svolta alla Galleria La Barcaccia di Roma dove ottiene vendite e grandi consensi da parte di specialisti ed esperti. […] La sua cosciente follia, la sua istintività primitiva, il suo lasciarsi trasportare da eccessi emotivi lo hanno reso di Maurizio Vanni* L igabue nasce nel 1889 a Zurigo da Elisabetta Costa, operaia emigrata in Svizzera e da padre ignoto. Dopo due anni Bonfiglio Laccabue, sposando la Costa, legittima il figlio dandogli il proprio cognome. Dopo poco tempo, il piccolo Antonio sarà dato in affidamento a una coppia di coniugi svizzero-tedeschi che desideravano tanto avere un bambino. Di carattere complicato ed esagitato, fin da piccolo Ligabue deve convivere con una corporatura affetta da rachitismo, due grandi orecchie a sventola e un gozzo talmente pronunciato che gli creerà, nel corso della vita, non pochi problemi fisiologici e psicologici. A scuola, pur eccellendo nel disegno, fatica ad assecondare la disciplina degli insegnanti, non tiene un comportamento adeguato, non sopporta gli scherzi e le prese di giro dei compagni e odia sentir tossire. Allo studio, preferisce girovagare per le campagne, da solo o in compagnia di cani randagi o altri animali. […] Nel 1919 l’arrivo a Gualtieri ha un impatto drammatico e triste. Non conosce la lingua, non riesce ad adattarsi alla nuova realtà, vive tra vecchi malati ed alienati mentali: cerca invano di ritornare in Svizzera. Una situazione che lo porterà ad isolarsi sempre di più, ad allontanarsi dalla “civiltà”, ad acuire alcune fobie e manie. Continua a reagire in modo esagitato ai colpi di tosse e alla voce alta delle persone. Atteggiamenti che lo rendono bersaglio fin troppo facile di grandi e piccini. Le sue crisi depressive si fanno più frequenti e i boschi del Po diventano i luoghi dove rifugiarsi, dove esaltare un randagismo più vicino agli animali che agli uomini, in quello stato di libertà nel quale può sopportare meglio il suo essere genio incompreso che percepisce la propria diversità e che si rifugia, per lenire il disagio, nei ricordi e nella fantasia. […] È proprio nelle macchie del Po che gli intenti artistici di Ligabue iniziano a prendere consistenza. Ciò che si manifestava in modo sporadico in giovane età inizia a rivelarsi attraverso un realismo diretto, relativamente semplice, in parte deformato e fantastico in alcuni aspetti, ma efficace nel trasmettere emozioni. Campi di grano, canneti, radure, pioppeti e gruppi di cascine erano alternati al mondo animale che conosceva di prima mano, che incontrava nelle sue campagne, attraverso musei di scienze naturali visitati in Svizzera, oppure belve feroci viste al circo o nel film su Tarzan: cavalli da tiro, cani da caccia, gatti, buoi, rettili, volpi, animali da cortile, ma anche rapaci, zebre, cinghiali, iene, scimmie, leoni, leopardi e tigri. Ne scaturiscono dipinti sempre legati a impulsi interiori prepotenti di un artista che spesso vede se stesso alla stregua di un animale. […] Dalla seconda metà degli anni cinquanta iniziano ad arrivare grandi soddisfazioni da parte della critica e del pubblico più selezionato. Le committenze aumentano e la stima delle per- o n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 Ligabue coerente e fedele a se stesso unico nel panorama delle arti visive del secolo scorso. Un artista coerente, fedele solo a se stesso, capace di interagire, senza doverle controllare, con il flusso continuo, irregolare e talvolta estremo delle emozioni che sentiva dentro di sé. La sua lucida alterazione mentale lo porta a violare ogni schema, ad andare oltre ogni consuetudine, ad assecondare in modo attivo le sue nevrosi. *Testo tratto da Maurizio Vanni, “Antonio Ligabue. Istinto, genialità e follia”, Silvana Editoriale, 2013 al Lucca Center of Contemporary Art, fino al 9 giugno 2013 SU DI TONO Il Sudamerica a Cerreto di Francesca Merz [email protected] Musica popolare sudamericana per una serata di festa dedicata all’arrivo della primavera. Venerdì 22 marzo, a partire dalle 20.30, nel maestoso e magnifico scenario della Villa Medicea di Cerreto Guidi, immersa tra le più belle colline Toscane, a pochi passi da Vinci, va in scena La “Festa di primavera. Maschere e musica per festeggiare la fine dell’inverno e l’arrivo della bella stagione”. Il programma della serata sarà dedicato alla musica popolare sudamericana (samba, cha cha, jongo, tango, vals, milonga), con musiche tratte dal ricco e suggestivo repertorio musicale di Piazzolla, Montes, Pujol e altri autori, tutto rigorosamente dal vivo grazie a due straordinari artisti come Simona Miniati al flauto e Antonello Scarpa alla chitarra. A completare la serata, nella quale ad ogni ospite sarà richiesto di portare un accessorio o un vestito in tema primaverile, la Villa offrirà un ricco aperitivo agli ospiti. Il tutto nella suggestiva cornice di una delle Ville Medicee più suggestive e sconosciute. Gioiello artistico edificato nel 1556 da Cosimo I dei Medici come residenza di caccia e presidio territoriale, la Villa è resa nota dal peculiare ingresso, a opera del Buontalenti, caratterizzato da due rampe d’accesso “a scalera” in mattoni. Oltre ad essere tra le poche Ville Medicee aperte stabilmente come museo, ospita all’interno i ritratti della famiglia Medici e mobili di varia epoca e prove- nienza. Inoltre, al primo piano, è allestito dal 2002 il Museo Storico della Caccia e del Territorio, che ospita una raccolta di armi, principalmente da caccia e da tiro dei secoli XVII-XIX. L’evento fa parte del ricco calendario della prima stagione annuale di eventi presso la suggestiva Villa Medicea di Cerreto Guidi, situata in provincia di Firenze (via dei Ponti Medicei, 7). L’intento dell’iniziativa, che coinvolge varie realtà culturali del territorio, è promuovere e far conoscere sempre più la villa, attraverso un programma legato sia alle tradizioni cerretesi, sia ad un modo moderno di vivere il luogo, con eventi in grado di coinvolgere pubblici trasversali, trasformandolo in un luogo di condivisione e approfondimento per tutti. Per info e prenotazioni amicidellavillacerretoguidi@gmail. com tel 0571/55707 C U O ICON .com a cura di Olivia Toscani e Mauro Lovi L 88 unedì prossimo alle ore 18.30 la Galleria Otto, di via Maggio presenta la sua ultima mostra “OttoconottO”; infatti dal 1 aprile, dopo due anni di attività la galleria si trasferisce e si trasforma. Con gli “8”, realizzati dagli artisti della “scuderia” di Olivia Toscani Rucellai, (opere tutte di cm.20x20) si chiude un ciclo durato due anni, per aprirne un altro; trasferendo la sede centrale nel Palazzo Rucellai, via della Vigna Nuova, 18 al quarto piano. Le proposte espositive, i nuovi oggetti e nuovi incontri saranno ospitati in un appartamento nel Palazzo Lotteringhi della Stufa, Piazza San Lorenzo, 5. L’attività potrà essere monitorata in una piccola vetrina di via de’ Palchetti, sempre in Palazzo Rucellai, Via de’ Palchetti, 2. Nei due anni di vita la galleria ha realizzato 22 mostre, ospitato 73 artisti, architetti, designer, fotografi e anche scrittori di tutto il mondo. Questa attività ha permesso di raccogliere una preziosa collezione di oggetti di vari autori ai quali sarà data la giusta promozione. Durante questo periodo la Galleria Otto ha presentato opere prodotte con le tecniche espressive antichissime e futuribili, il mosaico, il ferro battuto, la falegnameria, la tappezzeria, la fusione a cera persa, ceramica, maiolica, terracotta, vetro, ebanisteria, lavorazione del marmo, alluminio, lampade, fotografia, installazioni, pittura ad olio, acrilico, collage, disegni ecc. Si sono così realizzati molti oggetti come letti, sedie, tavoli, lampade, materassi, copriletto, caminetti portabili, vasi, quadri, centrotavola, specchiere, tavolinetti, pendole, cuscini, sottopiatti, tovaglie, sculture, modellini, fruttiere, comodini, librerie e anche un libro per il comodino, ecc. Nella Galleria Otto si sono confrontanti numerosi critici, storici dell’arte e del design tra cui Cloe Piccoli, Isa Tutino, Philippe Daverio, Vanni Pasca, Gianni Pettena, Alessandro Mendini, Beppe Finessi, Maurizio Vanni, Ugo La Pietra, Pasquale Persico, Maurizio Corrado. Artisti presenti alla mostra “OttoconOtto”: Adam Marelli, Aldo Frangioni, Antonio LoPresti, Benvenuto Saba, Caterina Sbrana, Diego Aringhieri, Elisabetta Nencini, Elisabetta Scarpini, Emiliana Martinelli, Fausto Bertasa, Federica & Stefano RossoRamina, Federico Caruso, Franco Scuderi, Gabriele Mallegni, Giuliano Toma, Gum design, Jisoo Jung-Kopperud, JP Delaney, Liu YungJen, Livio Tessandori, Lorenzo Perrone, Marco Pace, Marina Calamai, Matteo Appignani, Matthew Licht, Mauro Bonocore, Mauro Lovi, Michele Martinelli, Monica Fossi, Naomi Traina, Neal Barab, Nicola Perilli, Paolo Mazzanti, Paolo Mazzanti, Pietro Finelli, Roberta Cipriani, Sabine Korth, Simone Caldognetto, Stefano Breschi, Studio Barberini-Gunnell, Tarshito, Vincenzo Gialorenzi, Vincenzo Missanelli, Mimmo Di Cesare. o Marco Pace – Monolit8 – olio su tela 20x20 con Elisabetta Nencini, 8 in espansione 20x20 Ultima mostra della Galleria Otto prima del suo trasferimento ICON di Sara Chiarello [email protected] Da giovedì presso la Tribuna Dantesca della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (piazza dei Cavalleggeri, 1) si aperta la mostra dedicata all’artista torinese Valeria Ciotti: nata a Torino nel 1931, frequenta il Liceo artistico e successivamente il corso di Scultura di Umberto Baglioni all’Accademia Albertina di Belle Arti che termina nel 1952. Abbandona la scultura per dedicarsi al disegno d’antiquariato. Nel 1965 riprende l’attività frequentando il corso di Enrico Paulucci, senza aver interrotto la pittura a olio, l’acquarello e l’incisione, quest’ultima sotto la guida dell’amico Mario Calandri. Organizza numerose mostre personali e partecipa a collettive in ambito nazionale e internazionale. Muore a Torino nel 1995. La mostra, curata da Francesca Merz e di Angelo Ciotti, propone 40 opere. Valeria Ciotti ha realizzato grandi nudi femminili di prorompente sensualità. Dice la curatrice, Francesca Merz: “L’opera di Valeria Ciotti mostra una genialità emotiva espressa con un candore psicologico che denota straordinaria padronanza tecnica, di tutte le tecniche espressive possibili. Non c’è niente di macchinoso, artefatto, costruito. Esperienza e conoscenza artistica formatasi sulla scultura, la Ciotti è stata in grado di raccontare il suo universo interiore senza la ricerca o la volontà di stupire, ed è proprio quando non si vuole stupire che si stupisce, che le corde del cuore e dell’istinto si muovono e vengono toccate con forza. Come negli accostamenti di colori forti, intensi, quasi dissonanti negli oli, la levigata pacatezza coloristica negli acquerelli, o il tormentato ma equilibrato profilo nelle sculture. Un universo variegato di forme e colori quello creato dalla 7 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 La Nazionale si mette a nudo Alla Biblioteca una retrospettiva di Valeria Ciotti straordinaria personalità di quest’artista, che si dedica a lungo anche alla pittura informale; un’indagine sottile, quasi dimessa, lontana dai riflettori, un riservato aprirsi al mondo. I rossi, i verdi, i gialli e gli azzurri interagiscono con i chiari abbaglianti di ampio respiro e con i neri incisivi che lacerano e feriscono il supporto pittorico. Vedrete un mondo fatto di soffici chiaroscuri così come di colori forti, accecanti, primari, tonalità soffuse, macchie, intrecci”.La mostra rimane aperta fino al 6 aprile a ingresso libero. C U O .com di Francesco Gurrieri I segreti del dolore e gli accenti della speranza: questa è la materia della poesia a cui i versi di Sandro ci riconducono, lasciandoci con discrezione, sulla soglia del complesso edificio dell’interrogazione esistenziale. Egli, architetto, sa bene come si possa progettare un’architettura che risponda a tutti i requisiti del suo statuto (firmitas, utilitas, venustas), ma sa anche che, alla fine, è chi lo abita che lo conforma a se stesso interpretandolo. Qualcosa di simile accade per i versi, la cui autografa carica emotiva non sempre corrisponde a quella del percettore. Ciò è particolarmente vero per questi paesaggi lirici tracciati dall’autore, perché fra “I verbali dell’anima” e questi versi sono passati cinque anni: anni estremamente importanti per la biografia di Sandro, che ha sottoposto ad un severo scrutinio etico e culturale l’intera sua vita. Cinque anni impiegati a studiare l’ebraico, ad approfondire il greco, a “comparare” i testi della Torah, dei Profeti, degli scritti della Bibbia Ebraica a fronte della cultura niceno-costantinopolitana della fede cattolica, cioè del credo romano. Un impegno, all’evidenza, non solo intellettuale ma anche di “fede”, considerata l’educazione religiosa giovanile che percorremmo insieme e che anch’io ben conosco. Questo richiamo non è secondario ed anzi è chiave di lettura di alcune delle liriche presenti (Lucerne, Halakhòt, Alétheia, per esempio); mentre altre si sciolgono secondo il libero scorrere dei sentimenti universali. E’ così per Fiori, Amare, Specchi, Canzoni, ove torna, intensa e prepotente, la vena del poeta che conoscevamo; ove sono le registrazioni dei sentimenti, gli appunti del dolore e della gioia. Ove, soprattutto, ritorna l’autenticità dei sentimenti che si fa garante della liricità del verso: Un fiore del campo, se fiore si può chiamare , dalla vita breve. Appassisce in un giorno e anche quel giorno presto finisce nel rosso del tramonto mentre la vita passa, e tutto pare solo memoria. Nel febbraio del 1945, con le macerie ancora calde, Enrico Falqui pubblicava il suo primo Quaderno Internazionale di “Poesia”, rivolgendosi così al lettore: “Fondare oggi una rivista internazionale di poesia nuova ed antica, può apparire impresa azzardata, perfino assurda. Noi crediamo invece che sia impresa fra le più indispensabili: ché proprio in epoche di angoscia e disordine come questa, occorre attingere alle essenziali verità del sentimento e dell’intelligenza, là dove l’arte si manifesta e si afferma nei suoi valori più durevoli”. Oggi, per comune opinione, stiamo rivivendo una stagione di angoscia e disordine: una stagione non facile. La condizione del presente, che si è voluta definire “liquida”, sembra più inutilmente complessa di altre; più artefatta, carica d’ira e di indifferenza, naturalmente contraddittoria, deideologizzata, caratterizzata dal permanere di quel “pensiero debole” che ci marca da decenni. Siamo ODORE DI LIBRI o 8 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 Un fiore dalla vita breve Le poesie di Alessandro Dini: professione architetto tornati a toccare una nuova crisi ontologica. E allora perché non provare a riaffidare alla poesia – soprattutto a quella lontana dalle competizioni letterarie come questa di Sandro – la capacità di attraversamento della dimensione tragica dell’essere al mondo? Non sarà tutto, ma è pur qualcosa. SPIRITI DI MATERIA La gente di San Frediano vista da Piero Gronchi di Franco Manescalchi [email protected] L’amico Alessandro Bencistà, grande studioso di tradizioni popolari, pubblicò nel 1999 l’antologia “Fiorentinacci, I’ novecento in vernacolo fiorentino” , dove, fra gli autori inclusi, propose testi di Piero Gronchi, di cui trovò un libretto di poesie in vernacolo proprio in San Frediano, in mezzo a una catasta di libri usati; con la dedica autografa dell’autore: “Alla mia Città, che simpaticamente mi ha tenuto a battesimo”. Piero Gronchi fu personaggio versatile, così ce lo descrive Bencistà: “per molti anni gestore del bar Bonciani in via dei Panzani, poi incominciò a lavorare nel mondo dei libri (era un ratealista) prima con la Mondadori, poi con la Rizzoli e la Treccani. Nel 1966 insieme ad Eugenio Cassin diresse la libreria Bookmarket in via Masaccio. Incominciò a pubblicare le sue poesie sul nuovo quotidiano fiorentino “La Città”, prima di riunirle in un volume dalla veste tipografica modesta, sicuramente autoprodotto: cento brevi liriche quasi interamente dedicate a tipi e ambienti di una Firenze ormai sul punto di scomparire ma che nel quartiere d’Oltrarno resiste orgo- gliosamente, ancorata alle sue tradizioni, alla sua lingua, alle sue abitudini di vita; un popolo non sempre raffinato ed elegante ma vivo e autentico che i turisti ancora vengono a scoprire e a fotografare come si fa col Biancone in Piazza Signoria. È la Firenze che fu di Rosai e di Pratolini e che oggi stenta a sopravvivere in quest’ultimo lembo di medioevo che furono i “Camaldoli di S. Frediano”.” In questa poesia Gronchi sembra infatti “dipingere”, al modo di Rosai, un mondo che gli era caro perché, nella vita quotidiana, familiare. GENTE DI SAN FREDIANO È pieno d’artigiani straordinari d’ antiche cose gran restauratori, valgano molto più de milionari di Tornabuoni Strit passeggiatori. C’è l’operai che vanno la mattina Vers’ i’ llavoro con la tuta ‘n dosso, tornan la sera, fan la partitina a briscola bussand’ a più non posso. I bottegai ti servono con carma, tranquilli senz’ avere punta fretta, è ‘nutile spiccialli, lor con flemma ti devon anche dir la barzelletta. Ci sono le comari che lì ‘n Borgo si mettan ‘ a parlare raggruppate, è naturale faccin ‘ un ingorgo a rischio di finir anc’arrotate. L’è verament’un popolo alla mano E non per nulla e vive ‘n San Frediano. Da “Gente, bozzetti-scenette di San Frediano e miscellanea in fiorentino”, Firenze, 1982 C LUCE CATTURATA U O .com o 9 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 di Giacomo Gailli [email protected] L’ umanità – e per umanità intendo proprio gli esseri umani – in queste fotografie di Andrea. Biancalani è così: di passaggio... Filippo Polenchi Con queste parole viene presentata la mostra Tierra! del fotografo Andrea Biancalani(www.biancalanifoto.it), che verrà inaugurata oggi alle 17.30, alla Biblioteca Comunale Lazzerini di Prato. Perché il Messico? Negli anni ’80 in Messico accompagnavo i turisti italiani e conobbi le opere di Juan Rulfo. Adesso a distanza di anni è nato il desiderio di ripercorrere i luoghi dei suoi racconti e delle sue fotografie e vede cosa era cambiato, sia a livello paesaggistico che umano. Ora è tutto diverso. Quei paesi stanno vivendo un progresso rapidissimo e votato in gran parte al consumismo. Eppure ci sono meccaniche umane che non sono cambiate. Ad esempio: in Messico non c’è integrazione tra cultura precolombiana e cattolica, ma piuttosto sovrapposizione. “Un’umanità di passaggio”, dice la presentazione... E’ anche un omaggio a Rulfo. Nei suoi scatti le persone non guardano mai l’obiettivo, sono immersi nel momento. La fotografia per me contiene sempre qualcosa che non si vede, una suggestione che emerge e che può essere espressa con le parole. Nella mostra infatti le didascalie saranno citazioni di Rulfo stesso. Sarà anche proiettato un video, realizzato da me, in omaggio alla poetica visiva di Juan Rulfo e intitolato Tierra de Luz. Questo tuo interesse nel creare incontri tra forme di arte e comunicazione differenti da cosa deriva? In passato un’altra tua mostra, Hic Sunt Leones si completava dei testi di un autore... Filippo Polenchi, sì. Io credo, ma questo vale come percezione personale, riferita al mio lavoro, che la parola completi la fotografia. Proprio per dare voce a quel qualcosa che non c’è ma che suggestiona l’immagine, la parola scritta diventa uno strumento prezioso. Filippo fece un lavoro splendido con Hic Sunt Leones, e infatti vorremmo collaborare ancora per un progetto futuro. Quanto è stato difficile realizzare la mostra? La cultura qui vive un momento complesso. Da noi manca la cultura dell’immagine. Spesso anche chi lavora nel ramo della cultura non sa esattamente cosa sta trattando e di conseguenza non sa valutare se un progetto abbia potenzialità o meno. Come finisce? Che si va solo sul sicuro e si lascia poco margine alle voci meno conosciute. Lo dico anche e soprattutto per chi ha molti meno anni di me. Nel tuo caso? Questo è un lavoro che risale al 2008. A suo tempo preparai un progetto complesso e articolato. Solo ora però, riproponendo il lavoro in una veste più semplice, ho incontrato la disponibilità dell’Assessorato alla Cultura del Co- Que viva Mexico! mune di Prato e della Biblioteca Lazzerini che ospita la mostra. Anche “Estra” ha finanziato una parte del progetto. Tornando ai progetti futuri? Stiamo lavorando, con Filippo Polenchi, a un lavoro fatto nei Balcani. Il tema è l’indeterminatezza dell’essere, la capacità che “ciò si vede” e “ciò che è” hanno di interferire tra loro e rendere possibili più letture di uno stesso soggetto. Come mai proprio i Balcani? Perché sono la sublimazione di questo concetto. Un luogo che non è più quel che era prima e che non sa ancora cosa diventerà. Esattamente come quella parte di umanità che vorrei mostrare, con foto e parole. “teatro di azione” che fa perno su un forte coinvolgimento del pubblico. In anni più recenti la compagnia ha sviluppato grande interesse per scenografie in cui si mescolano strutture metalliche e di cemento a immagini interattive e virtuali rese possibili dalle nuove tecnologie. Frequenti le collaborazioni con il teatro d’opera e con il Maggio in particolare: impossibile scordare il magnifico e visionario allestimento della tetralogia wagneriana tra il maggio del 2007 e il giugno del 2009. Sul podio, allora come oggi, il Maestro Zubin Mehta, che in prima persona ha fortemente voluto questa nuova collaborazione. Di grande impatto e originalissima la rappresentazione: l’orchestra è schermata da un enorme telo bianco circolare con immagini proiettate; il soprano Angel Blue, il controtenore Ni- cola Marchesini e il baritono Juha Uusitalo sul proscenio si elevano sul pubblico grazie a macchinari metallici, si immergono in una vasca d’acqua che si tinge di rosso o si muovono con estrema libertà in platea, assieme agli attori; i giochi di luci, il trucco e i costumi coloratissimi fanno il resto. Da segnalare la buona acustica, frutto di un complesso lavoro dell’architetto Carlo Carbone, che ha permesso di escludere l’amplificazione per i cantanti, senza perdere alcunché in forza e intensità, e di ampliare inoltre la capienza dello spazio destinato al pubblico. Al tempo in cui i teatri riescono a malapena a riempire le proprie sale trovarsi in mezzo a 6mila persone, tra vecchi e giovani (molti, moltissimi giovani), fa uno strano effetto. Gli stessi dipendenti del Teatro del Maggio raccontano di essersi resi conto della portata dell’evento soltanto nel corso delle prevendite, che ha portato al sold out in pochissimi giorni. Non di un sogno si tratta, ma di una bellissima e concreta realtà. Una realtà ripetibile e da ripetere, per permettere alle generazioni giovani e meno giovani di saldarsi attorno al miracolo della musica, per permettere al Maggio di superare la crisi che sta attraversando. Auguriamoci cento di queste rappresentazioni. Ne abbiamo davvero bisogno. SU DI TONO Fura di Maggio di Dario Collini Mi faccio largo tra la folla e prendo posto in un Mandela Forum gremito di persone. Il palco campeggia sul fondo della struttura, come per un concerto rock. Il programma della serata tuttavia non prevede alcun cantante all’ultimo grido, bensì l’allestimento dei Carmina Burana di Carl Orff (1895-1982), cantata scenica in un atto su testo di medievali “canzoni profane per cantori e cori da eseguire con il sussidio di strumenti e di immagini magiche”. Sul palco l’Orchestra e il Coro del Maggio assieme al Coro delle voci bianche della Scuola di Musica di Fiesole. La magia delle “immagini”, perfettamente riuscita, è invece affidata alla compagnia teatrale catalana La Fura dels Baus, per la regia di Carlos Padrissa. Rivelatasi nel 1983 con Acciones, performances ispirate alle tecniche acrobatiche del circo, la Fura propone da sempre un C LUCE CATTURATA U O .com o 10 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 I confini della città di Sandro Bini www.deaphoto.it Un racconto per immagini dalla periferia fiorentina (2001-2013) Sandro Bini - I Confini della Città - Cantiere Tramvia - Viale Talenti - Firenze 2008 MENÙ di Barbara, cuoca di Pane e Vino [email protected] Questa volta non sarà una mia ricetta ad incuriosirvi ma un gioco letterario, altrettanto godurioso quanto beffardo che passando dalle dosi e descrizione di una minestra di porri e patate, alza il sipario su un possibile “soggetto del cucinare” dove la cucina rispecchia perfettamente il luogo dove dal sacrificio alla gola, tutto si ritrova. Marguerite Duras riesce a scrivere una ricetta spostando la sua ragione neanche tanto intrinseca: la decisione di mangiare. Mangiare-Digiunare. Ancora prima di scegliere, ci regala uno spazio dove si muore, si uccide magari il marito, magari per l’orrore degli intingoli grassi. Se il destino della fame è quello di non esser mai soddisfatta è ancor più vero che la decisione di mangiare non sia ovvia. O il cibo non c’è o c’è ma è regolato da “imposizioni” sociali e personali. E allora avanti signori, alzate il sipario su questa versione dove ho aggiunto dosi e omesso qualche ripetizione: “tutti credono di saperla fare, sembra così semplice ma molto spesso viene trascurata. Deve cuocere non più di Porri e patate a là Duras 15 minuti e bisogna dosare bene gli ingredienti. 2 porri medi con un kg di patate sbucciate, aggiungendoli solo quando le patate bollono (in 1 litro d’acqua), rimarrà una minestra più verde e più saporita. Nelle trattorie non è mai buona, troppo cotta, troppo diluita, è triste, noiosa e finisce nel fondo comune delle minestre di verdura. Bisogna invece farla con cura evitando così di perdere la sua identità. Una volta cotta si serve con burro o panna fresca e crostini prima di scodellarla. Si chiamerà allora con un altro nome, se ne inventerà uno: i bambini la mangeranno più volentieri se non le verrà appioppato il nome di minestra di porri e patate. Ci vuol tempo per ritrovare il sapore di quella minestra, imposta ai bimbi sotto vari pretesti...Sarà stata sicuramente inventata in una contrada occidentale, da una donna ancora giovane della borghesia locale che, quella sera, aveva orrore degli intingoli grassi-e forse di qualcosa d’altro – ma ne era cosciente? Il corpo trangugia la minestra con letizia. Nessuna ambiguità possibile: non è la minestra di verze al lardo, la minestra per nutrirsi e scaldarsi, no, è la minestra magra che rinfresca; il corpo la trangugia a grandi sorsate, viene pulito, purificato (verdura primigenia), i muscoli se ne imbevono. Nelle case, il suo odore si sparge molto rapidamente, fortissimo, volgare come il cibo dei poveri, il lavoro delle donne, il riposo delle bestie, il vomito dei neonati. Si può anche avere voglia di far niente e poi invece farla, quella minestra; tra queste due scelte corre un margine strettissimo, sempre lo stesso, il suicidio.” (Parigi.1976) C EX CAVO U O .com Il dubbio di Monte Giovi Avamposto militare o luogo di culto etrusco Momenti di scavo: il recupero di reperti ceramici. Foto di Luca Cappuccini fase di abbandono del sito, che lascia supporre un evento distruttivo: evidenti tracce d’incendio sono visibili sulle pietre del muro e, a confermare l’ipotesi, numerosi sono i frammenti di legno carbonizzato rinvenuti, probabili resti di una palificazione con funzione di sostegno o comunque ausiliaria alla muratura. Il recupero di vari frammenti di bucchero, databili a un periodo compreso tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C., testimonia l’esistenza di una più antica fase di frequentazione del sito. La scelta di occupare la vetta di Monte Giovi, sia essa da riferire a un avamposto militare - data la presenza di mura difensive - oppure a un luogo di culto - dati i ritrovamenti di statuette votive -, sembra comunque da attribuire alle caratteristiche orografiche del luogo, che ne facevano un punto strategico di osservazione e controllo del territorio. Per informazioni più approfondite si rimanda all’articolo Il sito di Monte Giovi nell’ager Faesulanus (L. Cappuccini) in Aristonothos. Scritti per il Mediterraneo antico, 5 (2012). PUÒ ACCADERE Firenze - Marzo 2013 Studi di Firenze sotto la direzione del dott. Luca Cappuccini, docente di Etruscologia e Archeologia Italica presso lo stesso Ateneo. Le ricerche hanno permesso di individuare i resti di una fortificazione etrusca di età ellenistica e tracce di una frequentazione riferibile a una fase più antica. Sulla cima del monte (quota 992.60 metri s.l.m.) si apre un pianoro di forma pressoché rettangolare, esteso per circa 1300 mq, il cui perimetro è caratterizzato da un profilo anomalo rispetto all’andamento naturale del terreno: i margini sono rilevati di circa un metro rispetto all’interno e digradano con un declivio piuttosto pronunciato verso l’esterno. Le indagini, concentratesi su questa “anomalia”, hanno portato alla luce nella zona sud-orientale, sotto un poderoso strato di crollo, i resti di una cinta muraria difensiva dello spessore superiore ai due metri. Questo muro è costruito con la tecnica “a sacco”, consistente in due paramenti di contenimento, realizzati con bozze d’arenaria locale appena squadrate, che racchiudono un getto di pietre di dimensioni minori frammiste a terra. Frammenti ceramici rinvenuti all’interno del sacco permettono di fissare al IV secolo a.C. la cronologia della struttura. In prossimità del paramento interno è stata scoperta una sequenza stratigrafica, riferibile alla 11 Futuri L a vetta del Monte Giovi, che si erge sul confine dei territori comunali di Borgo San Lorenzo e Pontassieve e, in misura minore, di Vicchio, Dicomano e Rufina, è stata oggetto - nel triennio 2010-2012 - di regolari campagne di scavo condotte dall’Università degli [email protected] [email protected] di Susanna Stigler di Alberto Favilli o n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 C KINO&VIDEO U O .com di Ilaria Sabbatini [email protected] I l 14 febbraio 2013 più di un miliardo di persone in tutto il mondo hanno data vita a un flashmob per dire basta alla violenza contro le donne. E a me torna in mente un pomeriggio di fine anni ’80 quando, molto giovane, ma già interessata al cinema andai a vedere il mio primo film sullo stupro. Rispetto a quel periodo, che ora sembra lontano come una pellicola graffiata, molte consapevolezze sono andate perdute. Idee No, solo Una riflessione cinefila sulla violenza di genere KINO&VIDEO di Tommaso Alvisi [email protected] Lo so, molti di voi diranno “ no il dibattito no!” come nell’opera prima di un famoso regista italiano. Sto parlando di Nanni Moretti che era al “Verdi” di Firenze insieme al compositore Nicola Piovani e all’Orchestra Regionale della Toscana. Si è trattato di uno spettacolo unico dove si sono fuse musica, immagini e monologhi che hanno regalato la notorietà al regista. Lo spettacolo è iniziato con “Io sono autartico” (1976),sua opera prima, passando per Ecce Bombo, Sogni D’Oro e Bianca. Tutti i film sono contraddistinti dalla collaborazione di Moretti con il musicista Franco Piersanti. Nel 1985 con “La messa è finita”, entra in scena il compositore Nicola Piovani (premio Oscar per le musiche de “La vita è bella” di Benigni). Fino al 2001 (con “La stanza del figlio”) è durata la simbiosi fra il regista e il musicista passando per opere come Palombella Rossa, Caro diario e Aprile. Moretti si è soffermato molto su questa fase della sua carriera perché in questo periodo inizia la crisi ideologica della sinistra italiana (la palombella è il gesto tecnico del “pallonetto”) e la scissione permanente del Partito Comunista con la svolta della “Bolognina” del 1991. Il profeta Moretti al Verdi Si parla della memoria perduta attraverso un riaffiorare di ricordi confusi ed una realtà che non riesce a comprendere (il PD ne sa qualcosa…). La conclusione della serata è stata affidata a due opere recenti e piuttosto famose di Moretti: “Il caimvano” e “Habemus Papam” che segnano il ritorno con Piersanti. La prima riporta alla luce la figura di Berlusconi attraverso i vizi degli italiani e il consumismo sfrenato definito come “berlusconismo.” Nella sua ultima opera,terribilmente attuale viste le dimissioni del Papa, Moretti ha preferito glissare l’argomento raccontando quanto fosse difficile per un’artista raccontare la crisi di una guida spirituale così importante. In ogni caso è il tema dell’impegno politico, del comunismo a fare da leone in questa serata: non a caso chiude con il finale de “Il caimano” in cui afferma che la sinistra non vince “perché è triste” e non ha dà speranza ai suoi elettori. Ecco che allora riecheggia il “noi siamo una forza come le altre: siamo uguali, anche se siamo diversi” di “Palombella Rossa” dove Moretti ricorda a tutti di essere un artista difficile,estremamente critico,a volte contorto, ma completo. Ricordatevi che parla sinceramente a noi come un amico: non a caso il cuore è a sinistra… E i numerosi e fragorosi applausi finali confermano la mia tesi… o 12 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 No conquistate con fatica oggi tornano ad essere rimesse in discussione come se si dovesse partire sempre da capo. E forse è veramente così, forse ogni generazione ha bisogno di sviluppare autonomamente il proprio sistema di valori. Ma in nessuna occasione è tanto vero come nel caso della violenza contro le donne. Era il 1988 e nella sala semideserta io acquisivo una nuova consapevolezza dai dialoghi del film Sotto accusa, di Jonathan Kaplan, che oggi sembrano antiquariato cinefilo. Eppure quelle situazioni tornano oggi con la forza di una rivelazione rinnovata poiché contengono un frammento della consapevolezza che ormai abbiamo perso. Per la verità non lo ritengo un grandissimo film dal punto di vista formale ma nonostante questo è una delle riflessioni che ha maggiormente influenzato la mia idea sui rapporti di genere. La storia è ispirata ad un fatto autentico, avvenuto nel Massachusetts nel 1983, di cui fu vittima Cheryl Araujo che nel film diventa Sarah Tobias, interpretata dal premio Oscar Jodie Foster. Cheryl aveva 21 anni quando fu stuprata da quattro uomini su un tavolo da biliardo mentre gli altri avventori guardavano e incitavano la violenza. Ma al di là di questa circostanza odiosa ricordo che fu la fase processuale, descritta nel film, a suscitare la mia attenzione perché illustrava la dinamica di colpevolizzazione della vittima, quella stessa colpevolizzazione che oggi vediamo sempre più spesso insinuarsi nel dibattito pubblico e politico. Il processo di colpevolizzazione avviene quando la vittima di un crimine è ritenuta parzialmente responsabile per l’aggressione da lei stessa subita. È un processo che si attiva indipendentemente dal fatto che la vittima abbia alcuna responsabilità reale per il crimine. Tale comportamento si sviluppa soprattutto in un contesto razzista, sessista o classista ma, come afferma uno studio del Bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, esiste in forma semiufficiale in molti paesi del mondo occidentale. La protagonista della storia veniva presentata come una donna contradditoria e sessualmente provocatoria nei confronti degli uomini che la avrebbero poi aggredita. Ciò che cominciai a capire in quel cinema fu che una donna in qualsiasi momento, anche a rapporto iniziato, ha il diritto inalienabile di dire di no. Capii che una donna seminuda, anche se viene sanzionata per offesa al pubblico pudore, mantiene il diritto di non essere aggredita sessualmente. Capii che uno stupro rimane uno stupro anche se la vittima è ubriaca e drogata. Capii che una scollatura generosa o una gonna succinta sono un invito ad apprezzare il corpo di una donna ma non una concessione a farne ciò che si desidera. C Le storie di Pam U O .com NUVOLETTE o 13 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 www.martinistudio.eu C ODORE DI LIBRI U O .com 10 anni di restauri alla di Giovanna Lazzi [email protected] L a Biblioteca Riccardiana deve la sua assoluta particolarità al rapporto imprescindibile tra lo splendido patrimonio che conserva e il suo splendido contenitore, il Palazzo Medici Riccardi. I Riccardi, se non potevano vantare antiche origini nobiliari potevano tuttavia contare già nel XVI secolo su un ottimo reddito a cui si univano interessi culturali vivaci, sostanziati da una raffinata competenza. In virtù di queste felici congiunture si venne costituendo una delle più interessanti e preziose collezioni fiorentine, che, pur con alterne vicende, è giunta intatta fino ai nostri giorni Il momento di maggior prestigio fu raggiunto nel 1659 con l’acquisto, per 40.000 scudi, del Palazzo Medici, oggetto subito di lavori di restauro e di trasformazione, sotto la guida degli architetti Ferdinando Tacca, Pier Maria Baldi, Giovan Battista Foggini, che si avvicendarono dalla morte di Gabriello, nel 1675, all’arrivo di Francesco, che fece dipingere da Luca Giordano la volta della biblioteca e il soffitto del salone tra il 1682 e il 1685. I due magnifici locali erano stati pensati insieme come un tutto unico, in modo che il gusto artistico si coniugasse, attraverso il complesso programma illustrativo, con il sapere e la conoscenza intellettuale. Quando già il dissesto economico conduceva ad un inevitabile declino, il desiderio di riunire le librerie personali di tutti i membri della famiglia spinse, infine, Gabriello Riccardi ad ulteriori acquisti di fabbricati che consentirono nel 1786 la costruzione dell’ultima sala della biblioteca. Nel corso dei delicati recenti restauri conservativi, che hanno interessato le scaffalature, sono emersi dettagli che la polvere e il tempo avevano offuscato. Nell’attuale Sala di studio, tornata a splendere nella sua rigorosa bellezza grazie alla riacquistata vivacità dell’oro, la tinta rosa carico dei fondi recuperata insperatamente, conferisce una nota di elegante contrasto cromatico. Ancor più sorprendente il restauro dell’attuale Sala di Direzione che ha consentito, dopo la pulitura, di poter ammirare in tutta l’eleganza del nitore classico le librerie tornate del color marmo bianco di Carrara con tutte le sue venature, in luminoso contrasto con l’oro e i delicati toni pastello chiarissimi della volta. Un momento nodale, anche per il suo collegamento con il restauro attuale, fu la riapertura al pubblico nel 1942. Proprio in piena guerra la Riccardiana, già chiusa da molti anni, venne riaperta con una solenne cerimoni alla presenza del ministro Bottai, dopo una serie di interventi di veloce ripulitura, atti, comunque, a conferire un aspetto lindo e rinnovato agli ambienti. La vernice a spirito con olio stesa su tutte le zone lignee ha provocato nel tempo una patina giallastra, che ha alterato la o 14 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 Nella mostra si è voluto costruire un percorso atto a testimoniare il prezioso patrimonio custodito dalla Biblioteca. Oltre a oggetti importanti provenienti da collezioni private, sono presenti anche il disegno preparatorio dell’affresco di Ercole al bivio e il bozzetto di quello della Caduta dei Giganti, conservati presso la Biblioteca degli Intronati di Siena e la Pinacoteca senese, entrambi inediti. Il destino e le fortune della famiglia Riccardi e della città intera si leggono in filigrana nel muto ma efficace linguaggio dei libri, che spaziano in campi diversi dagli autografi eccellenti agli splendidi codici miniati, rarità bibliografiche manoscritte e a stampa, codici orientali fino alle curiose tavolette polinesiani. Lungi dall’esser un pezzo da museo la biblioteca è utilizzata ora come lo era nella volontà dei Marchesi e il non aver perduto la sua funzione è il grande motivo di interesse. Riccardiana leggibilità e la conservazione della delicata tinteggiatura originaria ed è stata rimossa consentendo di recuperare appieno la raffinatezza dell’ambiente. Nell’affresco con Ercole al bivio sono stati rilevati danni evidenti dovuti all’umidità, che aveva provocato distacchi delle dorature e diffuse sgorature sulle superfici pittoriche, dovute ai canali di scarico, forati o ostruiti, del Laboratorio appartenente all’Ufficio Igiene e Profilassi della Provincia, poi rimosso in altra parte dell’edificio. ICON Lucy Jochamowitz espone alla 2.18 Gallery a cura di Aldo Frangioni [email protected] La 2.18 Gallery ospita nuovamente un’artista donna la quale ha trasformato la bacheca in una galleria d’arte. Jochamowitz, non curante dello spazio esiguo a sua disposizione ha presentato sei opere di formato e tecniche diverse. Tre dipinti a olio su tela e tre sagome su carta colorata. Lucy ci racconta “é la prima volta che mi capita di esporre in strada, così mi è parso naturale essere per prima il passante della strada.Camminare, vagabondare e perdersi e ritrovarsi. Dove siamo diretti? La vita come viaggio, non come ricerca di un luogo geografico, non come nostalgia di un posto, una attraversata alla scoperta... sempre alla ricerca di se stessi. Alla do- manda che pone Novalis ai camminanti, nell’ Enrico di Ofterdingen: dove siete diretti? La risposta è sempre verso casa. Ancora una volta Lucy Jochamowitz nota per le sue opere dalle gonne ampie di dimensioni e materiali vari e per la sua continua ricerca artistica che sviluppa il tema della migrazione e dell’esodo come processo di evoluzione umana ha saputo ispirare stupire tutti coloro che per caso o per scelta passano davanti alla piccola vetrina. 2.18 Gallery nasce da un’idea di Tommaso Mei e Andrea Belacchi. Lo spazio, di 114x64 cm, è una bacheca in precedenza utilizzata per annunci immobiliari e pubblicitari. L’idea nasce dall’esigenza di rispondere alla domanda: quanto spazio serve per contenere un’idea? Occupare uno spazio per sua natura commerciale e farlo diventare una galleria d’arte contemporanea, una possibilità per interpretare il concetto di trasformazione. Una metamorfosi non solo dello luogo, che acquista un altro valore, ma anche dello stesso termine "galleria". Infatti, questa sarà la linea curatoriale, dove ogni artista sarà tenuto a realizzare formule ed idee differenti per questo minuscolo spazio, affacciato sul corso di una città di provincia, in cui l’opera, proprio per la singolarità del luogo sarà fruibile ventiquattro ore su ventiquattro. C ODORE DI LIBRI U O .com di Marco Pacioni [email protected] N on tanto la vita come opera d’arte, che in fondo è soltanto la parodica continuazione di un itinerario etico e cioè di una vita che si sforza di entrare in una forma, in una perfezione. Per il personaggio del racconto fantastico del 1902 di Alfred Jarry, Il supermaschio (trad. it. e postfazione di Giorgio Agamben, prefazione di Sebastiano Vassalli, pp. 146, euro 16) è invece in gioco un’arte – dunque una forma – che vuole mimetizzarsi nella vita e, più specificamente, nella vitalità senza la Supermaschio del padre della patafisica o 15 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 quali quelli di Jarry hanno molto in comune: di quella che si potrebbe definire, con un’espressione presa dalla sperimentazione del gruppo francese dell’OuLiPo, letteratura potenziale. Cioè quella che si dà una forma per dilatarne gli estremi e renderli intercambiabili; dove il riso diventa una cosa seria e il tragico ha la sua catarsi in una risata. Nella sua irrisolvibile ambiguità il personaggio di Jarry è da un lato l’estremo del superuomo di Nietzsche e dall’altro l’estremo del personaggio fumettistico di Superman, come sottolinea Agamben nella postfazione. Facendo il paragone all’indietro, il Supermaschio può essere però anche visto come una sorta di Prometeo senza più dèi ai quali opporsi e che ora combatte con quella stessa energia, tecnica, vigore con i quali la modernità ha avuto ragione dei numi. Il Supermaschio, in altre parole, combatte contro se stesso e fino alla morte.v LA PAROLA Aspettando il neo-medio-evo di David Parrini [email protected] Voi che popolate questi luoghi sappiate che la fine si avvicina a grandi falcate... l’odiato secolo dei lumi troverà fine atroce quale l’arte, proprio perché perfetta, ap-tornerà l’Oscurità. pare morta. In questa storia, la vitalità èLe vostre anime fluttueranno nel evocata dalla potenza sessuale che nessunnero inchiostro e nell’incertezza di atto riesce definitivamente a concludere;non sapere mentre la morte è esorcizzata dallo scuo-Il succo della lussuria dei vostri catimento del riso. Quelli di Jarry sono giàpezzoli sarà l’olio che alimenterà la personaggi, attori in cerca di situazioni epira delle vostre anime di persone in cui incarnarsi. (In tal sensola Paura figlia legittima dell’Oscuil riflesso autobiografico dei personaggirità, signora incontrastata del di Jarry va cercato in senso inverso acreato, vi strapperà la coscienza e la quello consueto dell’autobiografia e cioèdignità dai personaggi allo scrittore, dalla possi-diventerete delle glabre e pallide bilità alla realtà). Tutti i travestimenti dilarve in attesa del Tempo sotto un Jarry e soprattutto del suo personaggioplumbeo cielo sulfureo più presente e famoso della sua opera edimenticandovi il mondo com’era cioè Ubu, tutte le performance sulla pagina e quelle fatte in società sono modi PPUNTAMENTO nei quali il protagonista vuole aprire la sua forma ad una vitalità o energia che si sciolgono nella vita stessa. Ed è per questo che quelli di Jarry sono personaggi iperreali. Essi cioè non prendono atto della realtà, ma fanno prendere realtà ai loro atti. Nella prepotente entrata dell’arte Dal 16 marzo al 25 nella vita che propongono, l’esistenza di- mgggio La Galleria venta un palcoscenico potenziale e con- Poggiali e Forconi tinuo. Jarry, Ubu, Faustroll, e Marcueil (Via della Scala, sono già personaggi costruiti che ormai 35/A Firenze) prenon possono tornare indietro dalla loro senta Deficit / The forma che possono solo potenziare e dis- Lack, a cura di Gaia sipare. Essi sono sempre interpreti di ciò Serena Simionati una che accoglie anche l’opposto e che dun- mostra che mette in que forza i propri confini. È in tal senso dialogo, in un proche Jarry è un precursore del surrealismo, getto appositamente l’iniziatore della patafisica, il profanatore concepito, le opere di della fisica e della metafisica. Harun Farocky, Ma di là della più scontata parentela con David Michalek e il quelli del surrealismo, Bouvard e Pécu- giovanissimo Krzychet di Flaubert, Pinocchio, gli aiutanti stoz Klusik, che del Castello di Kafka, Bartleby di Mel- espongono per la ville, sono alcuni dei personaggi con i prima volta in Italia. prima della catarsi. Piangerete lacrime di sangue a causa di nuovi e selvaggi dei che ri- prenderanno forma dalla natura e rimpiangerete amaramente il Dio che avevate prima i vostri bit, uno a uno, diverranno punte arrugginite montate su collane che ghermiranno i vostri colli vi dimenticherete della Storia e dello scorrere del tempo vivendo la vostra non vita in bianco e nero come un eterno attimo senza fine e senza futuro. La vostra bellezza si conterà sulle vostre costole il soffio gelido della morte vi passerà vicino a monito delle vostre città trasformate in vuoti, silenziosi e ventosi colombari segno di una nuova umanità che indicherà con dita scarne e rassegnate la propria matrigna sorte che ormai avrete imparato a chiamare per nome: Oscurità. L’A Poggiali e Forconi in Deficit C ODORE DI LIBRI U O .com di Roberto Giacinti [email protected] G iunto alla quarta edizione, segno dell’interesse per l’iniziativa tra il ludico ed il serio, la consegna del premio “Quarta di copertina - Autori senza vergogna”, è avvenuta il 21 febbraio al Teatro Cantiere Florida nel corso di una serata affollata e goliardica. La premiazione moderata dall’urologo Nicola Mondaini, ideatore e presidente del premio, e stata allegramente copresentata da Antonio Cilotti e Franco Legni, quest’ultimo da alcuni giorni in libreria con “Io Nichi Moretti” (Curiosando Editore) che si preannuncia come romanzo cult del 2013. La quarta di copertina è la carta d’identità di un libro, la prima cosa che si legge per capire il libro prima di comprarlo, spesso purtroppo è anche uno specchietto per le allodole: ecco perché il Premio affronta irriverentemente le presentazioni del libro. Il professor Giuseppe Benelli, già presidente del celebre Premio Bancarella, ha sottolineato come “non sarà forse il premio letterario più importante, ma è senza dubbio il più divertente”. Tre le giurie: quella “illetterata”, formata da professionisti che scherzosamente hanno dichiarato di non aver acquistato nè letto un libro nell’ultimo anno) presieduta dal radiologo Paolo Lucibello; una “tecnica”, presieduta dal professor Massimo Ruffilli; una di “giornalisti”, presidente Andrea Vignolini (Lady Radio). Gli autori, dopo una breve presentazione, si sono affrontati sul palco del Teatro Cantiere Florida di Firenze, a colpi di reciproche contumelie, cercando di convincere le giurie sfottendo il libro avversario e mirando all’applauso più forte quale segno del gradimento del pubblico. L’ambito riconoscimento è andato a Paolo Cammilli, esordiente giovane romanziere, già semifinalista al Campiello, con il romanzo d’esordio Maledetta Primavera (Portoseguro Editore). Una vicenda ispirata ad un fatto reale, un thriller sottile che sullo sfondo di un’Italia che vuole apparire, credendo che ciò che conta è solo essere giovani e belli, disegna un’indimenticabile storia d’amore vissuta tra ferocia e dolcezza. Ad assegnare il riconoscimento la Onlus fiorentina Save The City - Firenze nel cuore, presieduta dall’avvocato Alessandro Tarducci che ha dichiarato che l’incasso della serata sarà devoluto al Comitato “Artisti Oltrarno” con lo scopo di riqualificare Piazza Santo Spirito con adeguate opere d’arte. Hanno partecipato con simpatia e gioco altri sette finalisti. Nella categoria ricette-culinarie è stato premiato “Mangia Bene che Ti Passa” (Sassoscritto Editore) di Valentina Guttadauro, nutrizionista fiorentina che simpaticamente si è battuta con il curatore del volume fuori commercio “I dolci della Compagnia di Babbo Na- o 16 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 Quarta copertina il premio letterario più divertente CIAO PAOLO... tale”, edito solo per finalità benefiche. Per la Poesia vincitore l’avvocato Giuseppina Abbate con “Ad ogni lacrima una gemma” (edizioni Carta e Penna). ...grazie per quanto hai fatto con la Galleria L’Indiano Paolo Marini alla Mostra di Leopoldo Pasciscopi alla Palazzina Mangani a Fiesole (2003)– (foto Paolo della Bella) ODORE DI LIBRI Il potere è “creato” dai sudditi a cura di Aldo Frangioni [email protected] Il libro di Francescomaria Tedesco Eccedenza sovrana, pubblicato dall’editore Mimesis, è un percorso teorico nella sovranità moderna, con l'orecchio teso a quei segnali critici che nella storia hanno segnalato la debolezza del potere, la sua fragilità, il suo bisogno di riconoscimento da parte dei sudditi prima e dei cittadini poi. Questi segnali sono come dei lampi sinistri che hanno rischiarato, anche solo per un attimo, le vicende del potere sovrano, hanno raccontato di che lacrime grondi, e di che sangue, lo scettro, come ricorda Ugo Foscolo nei Sepolcri meditando a proposito di Machiavelli. Ed è proprio il Segretario fiorentino, a cinquecento anni dal Principe, uno dei protagonisti del libro. Poiché egli, attraverso l’interpretazione che ne diedero prima gli ugonotti francesi e poi gli inglesi anche per il tramite del teatro elisabettiano, venne considerato come l’arcidiavolo della politica, intesa come Male, come truffa, come inganno: la rappresentazione plastica di ciò che la politica non avrebbe dovuto essere. Da dove veniva quest’immagine? Anche dalla fama degli italiani che Caterina de’ Medici si era portata a corte, e che nella pubblicistica politica dell’epoca si diceva fossero responsabili di più morti di quanti ne avessero fatti il veleno dei serpenti, la crudeltà delle tigri, leopardi, coccodrilli, linci, orsi e altri voraci animali in tutti i tempi dalla creazione. Ma quei lampi sinistri (come l’Étienne de la Boétie autore del Contr’Un) hanno messo in luce tutto questo, e hanno anche indicato una strada: il potere è tale perché trova l’obbedienza dei propri subalterni, persino delle proprie vittime, fino a quelle condannate a morte. Il potere esiste solo nella misura in cui viene ‘creato’ dai sudditi. Tedesco chiama, prendendo a prestito una terminologia teologica e fondendola con la politica, questo meccanismo ‘teurgia politica’, perché proprio come per la dottrina cabbalistica, ma anche gnostica e neoplatonica, della teurgia (insufflare attraverso pratiche la divinità in un essere inanimato), lo Stato esiste solo nella misura in cui i cittadini gli tributano gloria, lo glorificano. Se Dio è pieno di gloria, perché glorificarlo? Se lo Stato è il potere sovrano superiorem non recognoscens, perché esso necessita di consenso perfino da parte delle vittime che mette a morte con la pena capitale? Queste alcune delle questioni trattate, per le quali l’autore si serve icasticamente di un personaggio di Shakespeare, l'ubriacone e assassino Barnardine di Misura per misura, il quale – messo a morte – si rifiuta di morire, e non morirà, consentendo a Barnardine di farsi sovrano a sua volta. Questo libro di Tedesco tiene insieme teoria del diritto, filosofia, politica, letteratura, in un vorticoso turbinio di suggestioni cui è sottesa un filo comune: l’idea che l’individuo possa e debba farsi ‘sovrano’, scegliendo la via dell’autonomia, anche quando essa significhi mettere in questione il potere dello Stato. C ANGOLO PROUSTIANO U O .com o di Francesco Rosetti [email protected] A mante della pittura che punteggia continuamente con le sue citazioni la Recherche, Proust derivò buona parte della sua sensibilità estetica nei confronti del mondo dell’arte dallo studioso britannico John Ruskin, almeno in un primo momento della sua produzione. Ruskin, di tutti i critici dell’800 è quello che più insiste su una vera e propria svolta etica della critica d’arte. È ovvio che la prima sensibilità del critico inglese derivi dall’opera di Turner e quindi dalla temperie romantica, ma reinterpretata in una maniera affatto nuova e personale. Il sentimento romantico di una nostalgia dell’infinito, nel socialista utopico Ruskin si declina in un sentimento etico della verità che deve permeare di sé l’opera dell’artista. Una verità si badi bene che per il cristiano Ruskin è spirituale e non semplicemente oggettuale. Dunque la grande arte che il critico riconosce dall’architettura gotica alla pittura di Turner ai “primitivi” italiani si coniuga nel rapporto tra la mimesi e l’imitazione e la spiritualizzazione. Riletta in termini proustiani l’intuizione di Ruskin contrappone due movimenti opposti nella costruzione dell’opera d’arte. Da un lato la pittura cristallizza il reale nell’imitazione manuale artigianale, dall’altro la mimesis non è che il primo passo di un’operazione ben più creativa, metafisica. Il vero dominio dell’arte non sta nel visibile, ma nell’invisibile, non nell’oggetto, ma in quello che dell’oggetto sfugge alla comprensione razionale dell’occhio. Lo sguardo etico e spiritualista di Ruskin, si trasforma nello sguardo tout court spirituale di Proust, in un’accezione che però non può più dirsi religiosa. Se di venerazione può parlarsi nel corpus proustiano lo si può fare solo in nome di una religione dell’arte. È proprio l’aspetto soggettivo della ricerca artistica che schiude al pittore la scoperta di una verità filosofia ed estetica che superi i limiti dell’oggetto. Non è un caso che quasi tutti gli artisti citati da Proust nell’infinito corpo della Recherche siano o grandi decoratori, come Ghirlandaio e Carpaccio, oppure geni di una pittura pura, come Vermeer, Turner, Chardin e Wattaeu, esplicitino la loro sensibilità più nel gesto pittorico che nella qualità riproduttiva. È vero che Proust, col passare del tempo, si allontana da Ruskin, ma almeno un elemento rimane consustanziale a entrambi. Una pittura del soggetto spirituale non può prescindere dall’oggetto che però si carica di valenze intrinsecamente misteriose, di risonanze che lo collocano al di là della sua esistenza spazio-temporale. La scrittura, in questo senso, utilizza la pittura come chiave per schiudere una porta sulla rivelazione che l’oggetto mantiene in sé celata. Anche l’artificio di usare i nomi degli artisti spesso come declinazioni metaforiche o descrittive di un oggetto significa per Proust aprire la via all’interpretazione spirituale e soggettiva dell’oggetto stesso. Il dominio dell’arte sta nell’invisibile Proust e Ruskin 17 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 C U O .com L’ULTIMA IMMAGINE o 18 n 21 PAG. sabato 16 marzo 2013 Santa Clara University, Graduation Day 1972 [email protected] Dall’archivio di Maurizio Berlincioni Stesso giorno, stesso evento, stesso Graduation Day! Dalla foto d’insieme della settimana scorsa a un dettaglio non meno importante! Alla fine della cerimonia, quando quasi tutti i neolaureati, gli amici e le rispettive famiglie si sono spostati verso i tavoli del rinfresco, con la coda dell’occhio noto una coppia nera, madre e figlio, che stanno posando per la foto ricordo che il padre sta scattando. Sono un po’ in ritardo per i drink ma registrare il momento è importante. Il padre scatta con metodo, si capisce che dev’essere un bravo fotoamatore. La camera è una Nikon F ultimo modello come la mia e lui la maneggia con maestria. Il figlio guarda in macchina con aria serena e rassicurante. La madre nota la mia presenza e, dietro ai suoi occhiali scuri guarda me, un bianco che sta immortalando il momento di gloria di suo figlio, certificazione di un salto di qualità che gli permetterà, almeno si spera, di accedere a un mondo migliore e meno discriminatorio.