…e la stagione si apriva davvero… La primavera del 1945 di Benito Sasso Valstagna - 2011 A Emanuele La mia narrazione non ha pretese storiche. È semplicemente espressione del desiderio di riappropriarmi, attraverso la via della consapevolezza, di frammentarie tracce di passato. Vorrei fare una chiacchierata, quasi come quella del nonno che racconta al nipotino la “sua” storia, quella di quando era bambino, in famiglia, a Valstagna. Di quell’angolo della Valle del Brenta mi piacerebbe ritrovare, nutrito di curiosità e speranza, il piccolo tassello di un quadro molto più ampio, un piccolo tratto di un percorso molto più lungo. Bastava un debole fischio perché Vincenzino si affacciasse alla finestra di casa sua, al ponte dei socialisti. L’avevano chiamato così perché costruito dopo la Grande Guerra dalla locale Cooperativa Operaia. Vincenzino scendeva subito e insieme chiamavamo Gastone. Dopo aver raggiunto Giampaolo, Dino e Giampietro il gruppo si allargava via via, per fare due passi dopo cena, non appena la stagione si apriva. E si apriva davvero “la Primavera del 1945”, una stagione piena di novità e caute speranze. Il ponte dei socialisti con la casa di Vincenzino 4 Avvertivamo, anche se in modo confuso - non eravamo che ragazzi dai 9 agli 11 anni - che si stava profilando un periodo di risveglio collettivo, di cui si respirava già un’aria di libertà e di convinta fiducia nel futuro. Eravamo a maggio. Si andava, insieme agli adulti, a recitare il rosario intorno all’altare della Madonna. Ma noi, appena possibile, dopo la preghiera prendevamo il largo. Andavamo sino al ponte di Rialto per poi tornare in piazza. I luoghi preferiti restavano, però, il sagrato e la gradinata della chiesa, dove potevamo sederci e scambiare quattro chiacchiere in tutta tranquillità. Non potevamo permetterci di sicuro di andare al bar. Chi di noi disponeva di denaro? Ci accontentavamo veramente di poco; si parlava del più e del meno: di sport, di ragazze o di notizie riguardanti la guerra appena terminata. Il più informato era Giampietro. Mica tutti avevano una zia Giustina proprietaria di un panificio! Di solito attendeva il momento dei saluti e del rientro per lanciare, mani in tasca e andatura dinoccolata, la frase fatale: “Avete letto il giornale di stamattina?...” E allora tutti ad ascoltare con curiosità la rassegna stampa serale. Anche Gastone, la cui famiglia gestiva un’attività commerciale, lo seguiva, ma con la strana aria sorniona di chi le cose le sa già. Ci si scambiava qualche notizia sull’imminente elezione del primo sindaco: si faceva il nome di Innocente Conte. Talvolta la domenica pomeriggio, potevamo permetterci anche qualche escursione in bicicletta. Erano uscite coraggiose, a volte spericolate. Spesso si partiva senza avvertire i familiari, immersi come eravamo nella libera e spensierata curiosità dei nostri anni giovanili. 5 Un bel giorno pensammo di raggiungere Bassano del Grappa. Da Carpanè, attraversato il passaggio a livello accanto al cimitero di S. Nazario, entrammo nella vecchia strada Imperiale, non ancora asfaltata. La polvere sollevata dalle nostre vigorose pedalate e di qualche rara auto ci imbiancò ben presto come mummie. Su e poi giù verso Solagna per imboccare finalmente “el stradon”, il lungo rettilineo di Pove. In lontananza si poteva intravvedere la città di Bassano: la Porta delle Grazie, il Viale dei Martiri del ’44, una serie di nobili palazzi allineati fino alle mura di S. Maria in Colle. Era questa una vera icona del paesaggio, ora non più visibile per la presenza invadente di tanti capannoni industriali. Altra meta che richiedeva coraggio era la birreria di Pedavena, raggiungibile arrampicando lungo i ripidi tornanti delle “scale” di Primolano. La guerra era terminata da poco e lungo la strada principale, nei pressi di Cismon, si dovevano effettuare piccole deviazioni per superare alcune barriere appuntite in cemento armato. Le avevano costruite i tedeschi per bloccare o rallentare l’arrivo degli anglo - americani. Frequenti le scene di distruzione. Molte persone, lungo il tragitto attraverso paesi e contrade, erano occupate a sistemare le loro abitazioni, dopo i danni della guerra. Altri, in piccoli cortili, se ne stavano seduti su panche di legno di semplice fattura. Ci si guardava, ci si salutava senza fermarsi. Noi ragazzi raramente venivamo informati sugli accadimenti importanti del paese. Intuivamo tuttavia la presenza di contrasti tra gli abitanti. 6 Verso la metà del giugno ‘45, in una giornata calda e soleggiata, notammo, pur non comprendendone il motivo, un certo via vai di uomini nei paraggi della sala dell’asilo. Si stava svolgendo una riunione che riguardava solo gli adulti. I quadri locali del Comitato di Liberazione Nazionale, in accordo con la propria Direzione Provinciale, si incontravano per scegliere il nome di un nuovo sindaco. Nel pomeriggio anche noi venimmo a sapere che il sindaco nominato da appena un mese e mezzo era stato sostituito da Domenico Gheno. Il nuovo eletto, per le sue convinzioni politiche, durante il periodo fascista aveva subito il confino prima a Ventotene, poi alle Tremiti. In paese era considerato un personaggio anticonformista. In tempi brevi anche Gheno venne sostituito da Giuseppe Scremin da Oliero. Questi cambiamenti repentini permettevano anche a noi di capire che esistevano in paese contrasti non di poco conto. Un paese che lentamente riprendeva una vita normale, ma che doveva, confrontarsi con una pesante eredità. 7 Si riparte con coraggio... Alla fine della guerra 1940 - 1945 a Valstagna si potevano contare circa tremila abitanti e una serie di vecchi e nuovi problemi da affrontare. Ci si ingegnava in tutti i modi. Riprendevano lentamente la loro attività il calzaturificio Vedove, dove mio fratello Aldo operava nel settore fresatura; qualche piccola impresa edile, il borsettificio Benetti, un paio di avviate falegnamerie di proprietà di Cecilio Ferrazzi in contrada Capovilla e di Gaetano Ferrazzi confinante con il calzaturificio. Nella vicina Carpanè erano attivi il magazzino per il conferimento e la lavorazione del tabacco, una cava di pietrisco, la segheria Ridolfi. In segheria mi veniva consentito di entrare senza problemi, dato che mio cognato, Antonio Negrello, periodicamente mi voleva come compagno “di guida” del suo Fiat 626 nei suoi frequenti viaggi al Passo del Broccon. Ditte specializzate nel taglio ed esbosco fornivano enormi tronchi di legno resinoso, da trasportare poi a valle lungo gli stretti tornanti della strada di Grigno. A fianco della segheria, lungo il corso del Brenta, proprio a confine con il ponte, continuava la sua attività un antico maglio. Risuonano ancora nelle mie orecchie i nitidi colpi per modellare il ferro. Qui vi lavoravano i fratelli Zannoni, detti “Biasia”. Tra i paesani, parecchi ripresero a coltivare il tabacco o a tagliare e trascinare a valle la legna. A molti adulti venne assicurata una precaria, seppur utile, occupazione in cantieri di lavoro d’iniziativa pubblica. I lavori di ricostruzione post-bellica, (inizialmente sotto la guida di 8 Dionisio Mocellin e Giobatta Celi e, in un secondo momento, di Spartaco Zilio di Bassano) interessarono in particolare la strada che da via Sette Comuni conduce a Foza. Nei cantieri, denominati Fanfani, perché promossi dall’allora ministro del lavoro, l’attività si protrasse a lungo. Venne, perciò, affiancato un servizio di cucina, allestita in contrada Tovo. Vi lavoravano come cuochi Luigi Pontarollo, detto “Gigio Pau”, e Antonio Pontarollo da Costa. Addetto all’attività esplosiva nei cantieri era un certo Aldo Zuliani, figlio del Ten. Col. degli alpini Luigi, che, raggiunta l’età pensionabile, era rientrato in paese da Trento con la famiglia. Un pomeriggio di aprile degli anni cinquanta, quando il sole incomincia ad illuminare la piazza dal monte Cimo, Aldo fu protagonista di un tragico fatto. Assiduo frequentatore del caffè Nazionale e accanito fumatore, compì la grave imprudenza di mettere le mani in tasca con il mozzicone ancora acceso (era allora diffusa l’abitudine di fumare una sigaretta a spezzoni per risparmiare). In tasca conservava dei detonatori. Il contatto col mozzicone provocò una violenta esplosione che lo dilaniò, uccidendolo quasi all’estante. La violenza dello scoppio fu tale che fece tremare tutte le case vicine e distrusse completamente il bar. Grave fu il danno per Rita ed Orfeo Ferrazzi, gestori del locale, genitori di Pierpaolo, futura medaglia d’oro di canoa slalom alle olimpiadi di Barcellona del 1992. Un tratto del Ponte di Rialto che collega Valstagna a Carpanè, era stato distrutto durante le fasi finali del conflitto. Venne, perciò, ricostruito con urgenza, per consentire il collegamento con la strada statale e la ferrovia della Valsugana. Ripresero anche i lavori di costruzione della centrale delle Manifatture Marzotto di Valdagno in contrada Marini, lavori che poi si conclusero verso il 1949. Per azionare le turbine l’acqua del Brenta venne canalizzata in galleria da località 9 Pianello di Enego. In concomitanza con l’attivazione della nuova centrale di Cavilla a Cismon del Grappa, ancora in destra Brenta venne realizzata dall’impresa Erminio Giolai di Bassano una nuova galleria per raccogliere gran parte dell’acqua del Brenta e del Cismon canalizzandola da Collicello a S. Gaetano. In quest’ultima località vennero completati nel 1951 i lavori di una nuova centrale per conto della Società Impianti Idroelettrici di Vicenza (Acciaierie Beltrame). Queste impegnative opere richiesero, con turnazioni, un notevole numero di minatori e carpentieri specializzati, dando così un significativo sbocco al grave problema occupazionale. Si prestò inoltre molta attenzione alla sistemazione delle malghe comunali, in modo che potesse avere inizio la regolare monticazione del bestiame. Ai giovani si cercava di offrire una improvvisata formazione professionale. Nei locali del vecchio solarium (non più adibito alla ricreazione e a prove ginnico-atletiche) fu allestito un laboratorio di falegnameria. I giovani più interessati all’apprendimento del disegno tecnico ed artistico frequentavano invece alla domenica mattina una speciale “Scuola Libera di Disegno”. Il Prof. Francesco Ferrazzi (diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Venezia) ne fu fondatore e direttore. Ospitava gli allievi in alcuni locali di sua proprietà in via Torre, ove ora si trova il ristorante “Ai Calieroni”. Al prof. Ferrazzi, primo fotografo del paese, va anche il merito di aver lasciato, attraverso migliaia di lastre fotografiche, un eccezionale patrimonio di storia e di costume della prima metà del ‘900. Anche se realizzata con strumenti limitati, l’istruzione tecnica raggiunse ottimi livelli e attirò iscritti da tutti i paesi della valle. 10 ...tanti i problemi.. La laboriosità della gente, la ricostruzione, l’impegno per la formazione dei giovani non bastavano tuttavia a consentire una ripresa adeguata. La drammatica eredità della guerra lasciava laceranti ferite ancora aperte. Molti non erano tornati dal fronte e per tanti nuclei familiari era svanita la speranza di riabbracciare i propri cari, morti nel corso del conflitto. Ben 60 furono i caduti, di cui 24 sul fronte Russo e una dozzina in quello Greco - Albanese. Di alcuni dispersi non si ebbero più notizie, nonostante le ricerche. La disoccupazione rimaneva assai elevata. Per molti fu necessario intraprendere la via dell’emigrazione all’estero, come già era avvenuto nella nostra terra in passato, in periodi diversi. La povertà era diffusa, come pure il mercato nero. In Municipio fu istituito l’elenco delle persone bisognose (erano circa duecento), anche per garantire un sostegno medico - sanitario. L’acquisto dei generi alimentari, per tanti nuclei familiari, avveniva mediante il “libretto della spesa”, su cui venivano registrati, di volta in volta, gli importi relativi agli acquisti. Il pagamento avveniva parte in acconto, parte a saldo a fine stagione, cioè alla consegna del tabacco in manifattura o all’arrivo delle rimesse degli emigranti. Erano anni di problemi e di sfide, ma tra le difficoltà della ripresa iniziava, nella primavera del ’45, una pagina nuova per il Paese. Per la prima volta la popolazione poteva godere di diritti mai conosciuti. Ci si avviava, sia pur lentamen- 11 te, alla realizzazione di uno stato moderno, con votazioni a suffragio universale. Per la prima volta anche le donne avrebbero goduto del diritto di voto! Diritti conquistati. Forse chi è giovane e proiettato verso il futuro faticherà a comprendere; sicuramente chi è adulto riuscirà meglio a rivivere l’atmosfera di questo mio semplice narrare. Istantanee di vita. Erano freddi e lunghi quegli inverni. Eravamo poco vestiti, e il legno o il “carro armato” riciclato da vecchi copertoni non impedivano ai piedi di essere sempre gelati. Per riscaldarsi bisognava stare in cucina, vicini alla stufa a legna o al “fogolaro”, che non serviva solo a cuocere lentamente la polenta, ma riusciva ad illuminare tutta la stanza, diffondendo un magico tepore. Allo spegnersi del fuoco si raccoglievano le braci nella “fogara”, un contenitore in lamiera a forma di elmetto rovesciato (spesso era un vero elmetto, e il più pregiato era quello tedesco). Collocato in una leggera struttura di legno ovale (detta monega) veniva infilato tra le lenzuola per scaldare il letto. Sotto le coperte si stava bene, ma al mattino il ghiaccio creava sui vetri delle finestre incredibili arabeschi. In casa ci si scaldava anche perché si era in tanti. In quegli anni, come già era accaduto negli anni trenta, si era verificato un significativo incremento demografico. In paese i nati raggiunsero una media annua di 100 unità; i matrimoni furono una sessantina. 12 ... fare famiglia... C’era tanta voglia di fare famiglia. Le nuove coppie si adattavano a situazioni abitative modeste. Il loro sogno era di trovare un lavoro, di essere protagonisti di una fase nuova del proprio Paese e di avere dei figli ai quali assicurare serenità e una pace duratura. A nozze si andava spesso e volentieri. Il pranzo raramente si consumava al ristorante; prevalentemente si trovava una soluzione in famiglia. Gli invitati si presentavano a casa degli sposi al mattino per tempo: gli adulti consumavano uno spuntino, per i bambini e le donne c’erano i biscotti da intingere nel caldo cioccolato. Poi si formava un lungo corteo con tutti gli invitati e ci si avviava verso la chiesa. In testa la sposa con a fianco il papà o il fratello maggiore, mentre le campane suonavano a festa. La sera precedente il matrimonio i giovani, nei paesi e nelle contrade della Valle, si attivavano per dare un forte segnale, quale annuncio dell’imminente matrimonio. Un segnale radicato nella comunità, di antica tradizione, ma alquanto pericoloso. Alcuni giovani, di solito amici dello sposo, si portavano a buio inoltrato lungo il fiume Brenta negli spazi, già individuati durante il giorno, dove l’acqua formava delle pozzanghere. Si procedeva poi in silenzio ad allestire un piccolo cantiere. Si prendeva un barattolo grande di lamiera, usato per la conserva di pomodoro, e si produceva un piccolo foro con un chiodo al centro del lato ancora chiuso. Si depositava una buona dose di carburo nella pozzanghera. All’interno del vaso veniva inserita della paglia (serviva per assorbire progressivamente il gas che la carburazione avrebbe prodotto a contatto con l’acqua). Il contenitore 13 che era stato posto in verticale, veniva ben premuto a terra da un giovanotto già esperto. Per favorire la combustione bloccava con un dito il foro e, al momento giusto, con accortezza e destrezza, girava in orizzontale il vaso. Un collaboratore avvicinava una torcia accesa al foro predisposto. Ne seguiva uno scoppio violento e assordante. Era un “lavoro” pericoloso, che molti giovani della valle facevano con scrupolo e una certa dimestichezza. Più forti e prolungati erano gli scoppi, maggiore era l’augurio ai novelli sposi da parte degli amici. E anche coloro che non avevano letto le pubblicazioni erano costretti a chiedere chi fossero i fidanzati. Il senso della famiglia, e di una famiglia allargata, non si esauriva nei festosi momenti della cerimonia. Anche a distanza di tempo, pur se costretti a cercare lontano opportunità di lavoro e di vita, forte era il bisogno di rivedersi, di ritrovarsi. Ricordo che da Torino, dove erano emigrati, vennero a farci visita alcuni nostri cugini - Antonio e Leandro Fabris con rispettive consorti. Pranzarono con noi una domenica in un clima sereno, ma non proprio festoso. Alla sera la mamma ci confidò che erano tornati per restituire il denaro che il papà aveva prestato allo zio “Nei” (padre di Leandro e Antonio), che nel gestire una pasticceria in paese si era trovato in difficoltà. Peccato che il denaro restituito corrispondesse a quello prestato e che, con la svalutazione, non avesse quasi più valore. Al tempo del prestito con quell’importo si sarebbero potuti comperare un paio di campi vicentini. Non ne facemmo un dramma. Ma una forte amarezza rimase. Il colmo della faccenda, che conobbi in tempi successivi, fu che il papà firmò come garante anche una cambiale bancaria per i debiti contratti dallo zio. Al verificarsi del mancato paga- 14 mento del debito, il negoziante rivendicò il saldo dell’effetto sottoscritto dal papà, il quale puntualmente ogni mese consegnò buona parte dell’importo della pensione che riscuoteva dallo Stato quale invalido della prima guerra mondiale. ...fare festa.. La povertà diffusa non soffocava la voglia di vivere, di giocare, di cantare. La preparazione per le grandi festività era coinvolgente e viva era l’attesa. Nella settimana antecedente il 17 di gennaio, festa di S. Antonio Abate, si saliva sulla torre campanaria: le campane erano suonate manualmente a concerto, per annunciare la festa del santo patrono del paese. Molto partecipati anche i riti della settimana santa, per annunciare la Pasqua del Signore. La messa della Resurrezione si celebrava di norma al mattino del sabato e al momento del Gloria le campane venivano slegate e fatte suonare a concerto. Tutti allora accorrevamo verso il fiume per bagnarsi la mano e fare il segno della croce. La sera del venerdì santo con la processione lungo le vie del paese tutta la comunità in preghiera si incontrava. Era un momento molto suggestivo. Lumini accesi tremolavano su tutte le finestre. Qualcuno esponeva delle tele con dipinte immagini sacre, corrispondenti alle dimensioni delle finestre. La luce dall’interno contribuiva a dare alle facciate una dimensione artistica e creava un’atmosfera particolare: una scena in grande dei nostri presepi. Grandi falò di rovi lungo il fiume e sulle alture circostanti, accesi al passaggio della processione, davano solennità al corteo e ai momenti di preghiera. 15 A distrarre da questo silenzioso raccoglimento erano i giovani, che non rinunciavano a partecipare ai momenti salienti della cerimonia con il rumoroso accompagnamento prodotto da “raccole” o “sbatteree” (rudimentali strumenti in legno): in quei giorni di silenzio il gracidìo del loro suono sostituiva con poca grazia quello delle campane. Il gruppo di amici, con un ramo di ciliegio in fiore, al ritorno dalla scampagnata di Pasquetta. Si riconoscono da sx in alto: Benito, Gianpietro, Dino, Gastone, Luigi, Antonio; accovacciati Gino e Giampaolo. A Natale non mancava mai il presepe in ogni famiglia, mentre non ho memoria della Messa di mezzanotte in quel periodo. Al termine del pranzo c’era sempre il panettone “Motta”, un lusso, e la letterina dei buoni propositi. 16 Alla sera all’asilo ci attendeva la recita dei bambini preparata per tempo dalle suore. I canti erano accompagnati con rara passione dall’ armonium di “Isa Titee” (figlia del grande maestro di musica G.B.Ferrazzi). Il ricordo di quei bei momenti è conservato da molti con nostalgica gelosia. Fino a pochi anni orsono mio fratello Mariano, verso la fine del pranzo natalizio, era solito alzarsi in piedi. Accostando una posata al bicchiere di cristallo, lo faceva tintinnare: tutti allora capivano che si doveva fare silenzio e prestare la dovuta attenzione. Faceva poi un gesto rassicurante, come attendesse l’apertura del sipario. Ci teneva - e a noi piaceva molto - ad intrattenerci ogni anno, riproponendoci con tono serio e professionale la poesia che, con tanta emozione, aveva recitato nella sala dell’asilo strapiena, negli anni trenta: “ La mamma mi ha dato una pera perché la dessi a te stasera. Ma lungo la via una vocina in coro udìa. La pera mangiala sciocchino darai una bacio a Dio bambino... Ah, che stolto! Al diavoletto ho dato ascolto. Ma ti prometto bambin diletto che la prossima volta sarò sordo con il diavoletto ”. Applausi! Raccontava Mariano che, fermo in mezzo al palco, pur accecato dalla luce dei riflettori, seguiva il lancio delle caramelle, che, una volta richiuso il sipario, si precipitava a rac- 17 cogliere. Agli applausi dell’epoca aggiungemmo, per tanti anni e con grande affetto, anche i nostri. La stessa sala parrocchiale ospitò per molti anni altri importanti appuntamenti, come la recita per festeggiare l’ordinazione sacerdotale di qualche paesano. E le poesie augurali dei bambini dell’asilo non mancavano mai. Indimenticabili le interpretazioni di un grande comico locale detto “Canocia”. Nome assegnatogli per via del suo grande naso. Del ricordo non restano dialoghi articolati. A lui bastavano poche battute, accompagnate da una mimica estremamente espressiva, resa ancor più efficace dalla maestosa figura. Era uno spasso. Generazioni intere risero per le sue rappresentazioni. Bastava poco per ridere felici. Chi visse quegli anni ricorda anche il “Carosello Aclista”: una manifestazione a carattere provinciale durante la quale gruppi in rappresentanza dei vari centri si confrontavano per accedere alle fasi successive. Gli spettacoli e i relativi allestimenti erano di tutto rispetto, ma sempre conservavano la dimensione della spontaneità.. Le prove dei canti, dei balletti e degli spettacoli di varietà si svolgevano con puntualità e rigore. Protagonisti e comparse partecipavano con passione ed entusiasmo collettivo. Il gruppo di Valstagna riuscì a superare tutti i confronti e fu ammesso alla finale che si tenne al “Rivoli” di Valdagno. Grande fu il successo anche dello spettacolo conclusivo, merito, in particolare, dei balletti coordinati da Miriam Travan, oltre che delle “serenate malaguensi” delle sorelle Marisa e Marilena Vettori. Ad accompagnare le varie esecuzioni erano due amici dalmati: con la chitarra Eraldo Della Via (che curò pure, in modo fantastico, la sceneggiatura) 18 e Claudio Martinovich (detto Fulmine) con il violino. Era da tutti soprannominato Fulmine perchè lo si vedeva sempre attivo e di fretta, come una saetta temporalesca. Continuò ad esserlo anche in seguito quando, trasferitosi a Bassano, svolse la sua attività di sostegno e di volontariato con i giovani del patronato. Quando morì, con grandissima sorpresa lasciò a favore delle opere sociali e ricreative ben 50 milioni. In segno di riconoscenza la direzione del Centro Giovanile Bassanese intestò a suo nome una confortevole sala per conferenze e proiezioni (sua grande passione). Veramente bravo! Non furono pochi in paese che nell’apprendere dell’atto benefico rimasero alquanto stupiti. Tutti lo ricordavano per l’attività e l’intraprendenza, ma anche per la sua parsimonia: lo si riteneva un nullatenente. Oltre ai riti di preparazione al Natale e alla Pasqua, non meno attese e affascinanti erano le festività di Capodanno (con gli auguri che facevamo di buon ora ai parenti, ricambiati con la “mancia“) e dell’Epifania: attendevamo tutti l’arrivo della befana con i suoi “popetti” di dolce, la calza e qualche regaluccio, che spesso spariva in giornata per essere poi riciclato l’anno successivo. La festività di Pentecoste coincideva con la grande sagra paesana. Vi partecipava tanta gente, da tutte le contrade e dai paesi vicini. Nel pomeriggio, in chiesa, durante le funzioni veniva allestita una recita, definita “la disputa”. Consisteva in un dibattito, opportunamente preparato in contradditorio, tra quattro giovani angioli su un tema religioso, che variava di anno in anno: un’occasione originale, e molto seguita, per focalizzare l’attualità del messaggio evangelico. 19 Al termine, ad attendere i più piccoli c’era un grande parco divertimenti. Accanto a giostre con luci e musiche, non mancavano mai il tiro a segno con la carabina e il gioco della pallina, che un intraprendente personaggio faceva scorrere, coprendola con una specie di campanella, con fantasiosa velocità. Sembrava facile seguire il percorso, ma sbagliavamo sistematicamente la puntata. Sempre presenti anche le bancarelle coi giocattoli, i palloncini e i dolci, per noi rari e prelibati. Alla sera, infine, il momento forse più atteso, con il popolare gioco della tombola. Giovannin , l’impiegato comunale, disponeva già nel primo pomeriggio i tavolini lungo le vie principali del paese per la vendita delle cartelle. Il compenso riservato ai promotori della vendita consisteva in un paio di biglietti per la giostra dell’autoscontro. In un’atmosfera incantata, avvincente e festosa, Orfeo, con un grande megafono, annunciava ad alta voce i numeri estratti. Era compito di Giovanni “stradin” prendere una tabella con il numero estratto dal cassone, alzarlo con solennità e farlo vedere a tutti, piano piano, con molto scrupolo, girandosi prima a nord, poi verso il centro della piazza e infine a valle: una procedura davvero seria, tanto che le operazioni erano soggette al rigido controllo da parte di un funzionario dell’Intendenza di Finanza, che giungeva apposta da Vicenza. All’apparire della tabella: “PAGABILE”, ci pensava l’ancora esistente e affermato complesso bandistico del paese “G.B. FERRAZZI” a sottolineare, con squilli di tromba e rulli di tamburi, i momenti della vincita dei premi. Poi si rincasava o si andava all’osteria. A quel tempo le osterie erano molte ed erano veramente luoghi di aggregazione e... di perdizione. 20 Tre si trovavano ad Oliero: Le Due Sorgenti della Emma Negrello (famoso ed antico locale, dove verso la metà dell’800, ospite del nobile Alberto Parolini, soggiornò la scrittrice francese George Sand in visita alle già note “Grotte di Oliero” e dove con nostalgia si ricorda che l’ultimo prete della parrocchia giocava abitualmente a briscola con gli avventori); quindi, nella strettoia, “La Madonneta” dei Gianese e, infine, quella del Talian (così chiamato per distinguerlo dal fratello che nel 1866 aveva preferito rimanere nell’impero Austriaco in Valsugana), ad Oliero di Sopra. Per chi arrivava in paese, ad accoglierlo tre locali molto vicini tra loro: il Caffè Rialto della siora Maria, il Caffè Roma di “Tony Mostacci” e la locanda delle sorelle Valente, dette “Gobbette”, sotto la quale c’era la sala “Cristallo” usata alternativamente come cinematografo o sala da ballo, frequentatissima nel periodo carnevalesco. Quest’ultimo locale, che dava sul Brenta, è stato abbattuto negli anni sessanta, quando avvenne la provincializzazione della strada. Di seguito si incontrava la trattoria “Al Monumento” della Bianca Lazzarotto (Bega) e ancora il Caffè “da Toscano”, con vicino la locanda “al Mondo“ della Nanina Grossa. Arrivati in piazza si poteva scegliere tra la trattoria di “Gigio del Sol”, l’osteria di Toni Valente e il Caffe Nazionale. Anche via Roma iniziava con un’osteria, quella dei “Sibo”, a cui seguiva l’osteria di “Ginetto Masi”, ora rinomata gelateria del figlio Renzo. Andando avanti trovavi l’osteria “Angin de Spizo” di Gaetano Ferrazzi con di fronte la trattoria della Giovanna Gianese “Giovanea”. A completare questo lungo elenco le osterie di Pierina Fabris (Bei) a Capovilla e della Marietta alla “Villetta”. Naturalmente anche ciascuna contrada a nord aveva il 21 suo pubblico esercizio: Roncobello di Pietro Pontarollo, S. Gaetano di Gigio dei Modesti, Sasso Stefani della Maria Girardi, Giara Modon dei Pontarollo, Costa di Guido Cera e a Collicello della famiglia Marini. Igino Costa, detto “Ginetto Masi”, ritratto in un momento di riposo con la moglie Maria. Sullo sfondo la pompa dell’acquedotto. Ginetto non mancava mai alle sagre - anche sull’Altipiano - con il suo carretto da gelataio. 22 A quel tempo, entrando nei locali pubblici abilitati alla somministrazione di bevande alcoliche, si poteva subito notare in bella evidenza la tabella dei “GIOCHI PROIBITI”. Il più popolare, e forse per questo dei più controllati, era il gioco della “mora”. A sfidarsi erano due coppie, che, ad alta voce, dovevano indovinare e chiamare il numero complessivo delle dita delle due mani mentre velocemente e con furbizia le calavano sul tavolo. Un arbitro, detto “stelletta”, aveva il compito di tener conto del punteggio e della regolarità della gara. Tanta era la foga, la velocità e la caparbietà dei giocatori, che sul tavolo molto opportunamente veniva stesa una soffice coperta per non rischiare di ferirsi. Talvolta però il gioco si reggeva su una vera e propria canagliata: le dita sul tavolo erano esposte con tale velocità che ne scaturivano spesso incomprensioni, contrasti e offese. Anche per questo all’esterno del locale c’era sempre un complice che controllava che non si avvicinassero le forze dell’ordine. Se tutto filava liscio tutti insieme gli avventori cominciavano a cantare ad alta voce: erano canzoni di guerra o di montagna, ma non mancava mai quella dei minatori. Ad ogni partita chi perdeva doveva pagare un litro di vino per i sei partecipanti alla sfida e per tutta la compagnia. Gioca e bevi, bevi e canta. Lentamente i cori si affievolivano e anche gli irriducibili prendevano la strada di casa. Alla fine era facile immaginare quanto fosse problematico alla domenica sera raggiungere casa, senza guadagnarsi la predica della moglie. È bene ricordare, soprattutto per i giovani, che solo alla domenica si usciva di casa. Nei giorni feriali si usciva per motivi di lavoro e per affari, ma alla sera potevano farlo solo i benestanti. Questi frequentavano abitualmente il caffè Rialto, dove si poteva giocare a carte (con in palio soldi) o a biliardo. 23 Ed intanto fuori si udivano spesso melodiose serenate: era un gruppo ristretto ed affiatato (Lucio Mialich, Enzo Vodopia, Mariano e Aldo Sasso, Luciano Zannoni e Antonio Allegri), che si ritrovava spesso, sempre accompagnato da Eraldo con la sua chitarra. Il ricordo di Eraldo riporta alla memoria tante altre figure singolari che animavano la vita del paese. Non era cosa rara nel tardo pomeriggio della domenica notare, ad esempio, un signore che stazionava nella zona del monumento, Quest’uomo, vestito bene e abitualmente con il cappello in mano, era solito cantare o recitare ad alta voce per ore. Non si poteva non seguirlo. Un po’ alticcio, ma dalla voce stupenda! L’amico Giampietro riteneva che recitasse pezzi di D’Annunzio. Gastone scherzando insisteva che si trattasse di pezzi d’opera. Un pomeriggio si fermò anche un distinto signore, credo un profugo di Zara, il quale si inserì nei nostri discorsi dicendo che si trattava del canto XXXIII del Paradiso della Divina Commedia. Aggiunse che l’interpretazione era molto buona. Chiese chi mai fosse il cantante. Se era un professore. Dino, che aveva un paio di anni più di noi, gli rispose: “El canta anca ben, ma l’è un contadin”. “Non importa niente” replicò il signore mentre si allontanava “Una gran bella voce e il canto recitato perfettamente”. Quella voce apparteneva a Piero Pontarollo, detto Pau. 24 Tra botteghe, artigiani e bancarelle Il Paese nel dopoguerra poteva vantare un antico negozio di orologeria. Titolare ne era Angelo Conte, un signore anziano e preciso, che teneva laboratorio lungo la riviera Garibaldi. Per riparare l’orologio di Bartolomeo Ferracina della Torre Civica in piazza S. Marco bisognava ricorrere a Girolamo Baù (detto Momi tacon), meccanico specializzato del calzaturificio Medoacus. Merita ricordare che d’inverno, quando di primo mattino s’udiva il battito delle ore dal suono inconsueto, quasi ovattato, era il segno che stava nevicando: e ne avevi conferma all’alba, quando con la prima luce scorgevi il paese trasformato in bianco presepe per la gioia dei bambini. Il gruppo di amici Zan, Vincenzino, Giampietro, Benito, Dino, Gino, Bepi e Mario dinnanzi all’opera scultorea e allegorica realizzata con la neve in piazza S.Marco 25 Non mancavano in paese adeguati presidi medici, farmaceutici, ostetrici e veterinari. Anche i servizi per la persona non mancavano. Ben tre i parrucchieri. Antonio Bau’ (detto “tacon”, fratello di Momi) con negozio al monumento; Toni Perli (detto Paghini), che esercitava nei pressi della cartolibreria Ferrazzi, storico cassiere della locale squadra di calcio e indimenticabile tifoso interista. Infine al monumento e, in seguito, nel vicolo in via Garibaldi (casa dei Signori), si trovava il salone di Toni Travan con il figlio Luciano. Tre barbieri con personalità diverse, ma tutti di nome Antonio e dal taglio abbastanza tradizionale. “Tacon” premuroso, ma di poche parole. Travan plateale e burlesco. Paghini, allievo di Travan, dialogante e dall’occhio attento. Lo si andava a trovare anche per far “quattro ciacole”. Con lui ci si confidava. Fece persino il Giudice Conciliatore. Tre erano anche i panifici con il forno a legna. Il pane era già pronto e fragrante nelle primissime ore del mattino. Al monumento incontravi quello di Domenico Signori. Vicino alla Banca Cattolica quello di Giustina Zuliani e in piazza il forno di Vittorio Baù (detto Piste). Quest’ultimo si faceva aiutare da mio fratello Beppi per la consegna del pane ai vari negozi delle contrade e per distribuirlo, su prenotazione, a famiglie fisse: per alcuni mesi fui anch’io un suo valente collaboratore e devo ammettere che “il portare il pane quotidiano” è stata una preziosa esperienza umana. I negozi di alimentari non erano pochi e tanti prodotti (patate, formaggi, burro e uova) provenivano direttamente da Foza e dall’Altopiano, specie il venerdì, giorno del mercato. Con i carri, trainati da cavalli, alimenti e legname scendevano a valle; gli stessi carri ritornavano poi in montagna cari- 26 chi di altri generi alimentari e in particolare di farina bianca e gialla. Immaginando di partire da Oliero di Sotto, il primo negozio che si incontrava era quello di Luigi Scremin, seguito, ad Oliero di Sopra, dalla bottega di Aldo Conte (detto Singio). Nei pressi del ponte Rialto vi era il negozio della Luigia Pavan (detta Topa), più avanti quello dei Zannoni (detti Masaneta), in piazza quello di Innocente Conte. In via Roma trovavi quello di Antonio Ferrazzi (detto Sibo) con la rivendita di sali e tabacchi; seguivano il negozio della Giovanna Gianese (Giovanea) e, infine, quello di Gaetano Costa (detto Masi). Arrivando a San Gaetano incontravi il negozio della famiglia Cavalli (detti Micel) e più su, a Sasso Stefani, quello della Maria Lazzarotto. A Costa esercitava Piero Cavalli, detto “Marietona”, che provvedeva alla vendita sino alle contrade Valgoda, Stoner, ecc. di Enego. L’ultimo era quello di Tito Mattana, in contrada Collicello. Non mancavano due forniti negozi per la frutta e la verdura (di Costa e Pellin); due latterie di Basilio Gheno e della Laura Pontarollo e la fiaschetteria di Orfeo Pontarollo. Esisteva nel centro del paese persino un riparatore di ombrelli dal nome indimenticabile: “Nei Bubù”. Due erano le macellerie. Una in piazza gestita da Antonio Valente, marito dell’insegnante Sonia Medici, e una seconda condotta da Isidoro Grossa in via Roma nella casa di Faggion. Isidoro si spostò in seguito sull’altro lato, dove si trova ora la macelleria, in un edificio di buona fattura, che conserva ancora oggi elementi di marmo rosso, eleganti barriere di ferro battuto e pavimenti di tipo veneziano. La via Roma in passato era denominata via Rosta, per il fatto che l’acqua del Brenta in parte veniva canalizzata per 27 far azionare filatoi e segherie. Qui abitavano dei Negrelli, una grande famiglia con diverse diramazioni. Di alcuni troviamo traccia nella chiesetta centrale del cimitero del paese, costruita e utilizzata come tomba di famiglia fino al ‘900. In tempi precedenti un altro ramo di questa famiglia - che abitava in via Giaron - si era trasferito nel Primiero: Angelo Michele Negrelli divenne importante imprenditore curando la fluitazione del legname lungo il Cismon e il Brenta, mentre la moglie gestiva una locanda. Il sesto figlio di Angelo Michele, Luigi, si affermò come un valentissimo ingegnere, esercitando l’ attività con successo in Austria, Svizzera e Italia. Non assistette alla realizzazione del Canale di Suez, ma ne progettò l’opera.(1) La casa in cui erano vissuti i futuri “ Negrelli” mi richiama anche il ricordo di una mia personale esperienza, di fresco diciottenne. A lato della macelleria del Grossa si trovavano dei locali, dove un certo Cav. Giuseppe Pra teneva un recapito fisso per la riscossione dei tributi. (1) Dagli archivi di Valstagna i Negrelli risulterebbero iscritti con un tipico cognome locale: Negrello. Più volte si è riscontrato che in coincidenza con emigrazioni di gruppo veniva adottato il cognome al plurale (come è avvenuto per i Lazzarotto divenuti in Brasile, nello stato di Santa Catarina , Lazzarotti). Nel 1760 il padre di Angelo Michele, Nicolò, nato a Valstagna nel 1739, dal paese si trasferì prima a Primolano e quindi, in seguito al matrimonio contratto con Anna Ceccato, in Primiero, dove come pare mutò il cognome originario di Negrello in “Negrelli”. Si veda: “Memorie di Angelo Michele Negrelli”, Quaderni Archivio Trentino n. 13/2006. Luigi Negrelli “Un anno di vita”, Supplemento Archivio Trentino 1/1999”. Biblioteca di Primiero. 28 Si trattava di un esattore privato che proprio in quel primo dopoguerra gestiva le tesorerie e le esattorie dei comuni di Campolongo sul Brenta, San Nazario, Valstagna, Cismon del Grappa ed Enego. Non ricordo perfettamente come avvenne l’inizio del rapporto; sta di fatto che per quasi due anni collaborai con il Pra, svolgendo le funzioni di autista - impiegato. Pagavamo gli stipendi al personale comunale, compreso quello sanitario, e riscuotevamo i tributi dello stato e dei comuni, che emettevano dei ruoli esecutivi vistati dall’Intendenza di Finanza. Ad ogni scadenza rateale ci spostavamo nei vari comuni, dove ci erano stati assegnati appositi locali. Comunicavamo per tempo il nostro arrivo; talvolta per antica tradizione veniva suonata una campana o dato avviso in chiesa. Effettuavamo gli incassi del prediale (tributo sulle rendite dei terreni), della tassa di famiglia e delle imposte sui fabbricati, sulle industrie commerci arti e professioni, sulla locazione dei fondi rustici (le malghe), la vendita dei lotti di legname dei comuni, i danni di guerra, quale rimborso dei prestiti effettuati dallo Stato per la ricostruzione dopo la prima guerra mondiale, nonché i canoni dell’acquedotto e sui livelli (masetti). Il titolare beneficiava di una percentuale sulle riscossioni (aggio) e dell’indennità di mora sui ritardati pagamenti, in quanto alle scadenze fissate dai ruoli era tenuto a versare gli importi (anche quelli non riscossi) nelle casse degli enti. Si trattò di una esperienza molto interessante. Faticosa, perché la maggioranza dei contribuenti si presentava negli ultimi giorni e bisognava rilasciare una ricevuta nominativa con scritto ogni singolo tributo, l’anno di riferimento e l’importo relativo. I contribuenti erano buoni e pazientavano, ma parlavano a voce alta. Emergeva a volte qualche pro- 29 testa, per l’imposta di famiglia, che veniva applicata dalle locali amministrazioni comunali. Era facile sapere, attraverso le pubblicazione dei ruoli, quanto pagavano i paesani e i vicini di casa. Il confronto era subito fatto. Ad Enego arrivavano dalle contrade il martedì, giorno di mercato. Una anziana signora di Stoner (mi pare la chiamassero “Poja”) era solita venire all’ultimo momento coi soldi bene accartocciati. Era un sacrificio pagare, ma anche un segreto! A parte un gruppo ristretto, la maggioranza dei contribuenti era povera gente, cosciente di compiere il proprio dovere civico. Lo sportello rappresentava un balcone sulla società di quel tempo: permetteva di coglierne gli umori e le difficoltà. Imbarazzante talvolta era il mio ruolo, quale abilitato “Ufficiale Esattoriale” per le procedure coattive. Il sabato, poi, era una giornata tutta particolare. Accompagnavo il titolare nel suo paese d’origine: Monteforte d’Alpone, in provincia di Verona. Appena arrivati, mentre io completavo i controlli delle matrici contabili, il Cav. Pra partiva verso la piazza, dove al caffè Commercio incontrava gli operatori agricoli. Si intratteneva con i contadini e con gli imprenditori locali, tra i quali i Bolla, già affermati produttori di buon vino. Al rientro mi raccontava che per aumentare la gradazione facevano arrivare uva dal meridione, per mescolarla con la locale garganega; un’uva gustosa, dal colore dorato. Un centinaio di campi a vigneto di proprietà del Pra nella zona denominata “Sopega” meritava l’attenzione almeno del sabato mattina. Ma riprendiamo il nostro percorso tra le botteghe della valle. Non esistevano grandi magazzini, ma in paese, oltre alle bancarelle del mercato settimanale, dove spiccava quella 30 di Passuello (diventato poi Magazzini Nico) potevi trovare un’ampia merceria con reparto per le riviste e pubblicazioni dei Lazzarotto detti “Pastoreo” in riviera Garibaldi. Dove ora si trova il Roby Market c’era un tempo una rifornita cartolibreria ed edicola, con all’interno l’antica tipografia dei Ferrazzi detti “Titee”, distrutta dall’alluvione del novembre del 1966. Altri due negozi ben forniti di tessuti, camiceria e biancheria in genere si trovavano nella piazza proprio l’uno di fronte all’altro: quello di Francesco Brino, al lato dell’ufficio postale, e quello della Luigia Calmonte, a fianco del caffè Nazionale. A confezionare i vestiti per le donne ci pensavano le diverse sarte e le rinomate sartorie di Antonio Ferrazzi detto “Anto” in via Rialto, Amadio Negrello in vicolo Bravi e, per gli uomini, Alfredo Torelli in un altro vicolo in via Roma. Non tutti si servivano di questi capaci artigiani. La maggioranza si arrangiava nell’ambito familiare. Con l’aiuto di una macchina da cucire (Necchi nel caso della mia famiglia) le mamme e le ragazze del paese, con la guida di qualche mano esperta, riuscivano a confezionare discreti capi di abbigliamento. Talvolta capitava che una manica poteva riuscire leggermente più corta dell’altra e anche i pantaloni potevano risultare troppo larghi o troppo stretti, ma erano cose di poco conto. Chi voleva rinnovare un capo di abbigliamento un po’ vecchiotto ricorreva alla Fernanda, a Costa, che si era specializzata nel rinnovare o cambiare il colore. Quanto alle “barbierìe”, mica tutti le frequentavano! Tutte le famiglie numerose erano dotate di una macchinetta manuale con la quale veniva praticato il taglio a “scodella”: metodo e strumento per assicurare alla capigliatura una certa 31 omogeneità. Gli strappi ai capelli comunque erano scontati e il rischio cessava solo quando ci toglievano il telo, avvolto stretto attorno al collo. In paese c’era anche un rinomato calzaturificio, il “Vedove”, ma i prezzi non erano alla portata di tutti. Capitava che qualche paio di scarpe non riuscisse perfettamente e allora veniva “ceduto” all’operaio responsabile a prezzo scontato. Benvenuto Costa detto “Moena”, della contrada Costa, produceva artigianalmente calzature tipo scarponcino ed effettuava accurate riparazioni. Altrettanto abili erano Angin Ferrazzi detto “Morga” e Marco Gabardo, detto “Pataton” o “Capitano”. Questi erano i più conosciuti, ma con uno stabilimento che occupava oltre cento persone nel settore calzaturiero non era difficile arrangiarci a domicilio con buoni risultati. Per la riparazione delle biciclette, allora il mezzo di comunicazione più diffuso, ci si poteva rivolgere alle officine di Franco in via Roma o ai fratelli Tito e Cleto Brugiolo a Carpanè. Particolarmente importante per l’economia del territorio era il laboratorio di lattoniere di Giuseppe Ceccon, leggermente a nord della banca Cattolica. Il locale non era molto grande, ma disponeva di tutto il necessario. Per ovvi motivi non era imbiancato; era talmente caliginoso che di più non si poteva immaginare. Rappresentava il punto d’incontro dei boscaioli e dei contadini in generale. Per affilare le mannaie di grande e piccola dimensione, i coltellacci per l’esbosco, le falci per la fienagione era il massimo che si potesse desiderare. Naturalmente costruiva e collocava le grondaie (non a caso era chiamato “el bandetta”). Nel suo laboratorio era bello fermarsi, anche per ammirare la forgia a carbone, sempre in attività, con cui rendeva tenero il ferro da battere. Si sostava volentieri, anche perchè il locale era sufficiente- 32 mente tiepido. Giuseppe era un uomo alto e buono. Batteva il ferro sull’incudine con una pesante mazza, ottenendo ottimi, direi artistici risultati. Aveva alle spalle una famiglia numerosa e pia. Diede due figli alla Congregazione Missionaria dei Padri Bianchi: Ugo e Mariano. Per quanti sceglievano l’attrezzo nuovo per i lavori agro forestali o di casa, il negozio di ferramenta di Silvano Grossa detto “Broca” era abbondantemente fornito, come lo è attualmente quello di Flavio Lovato, che ha preso il suo posto. Lavori pubblici A guerra conclusa, pur tra molte difficoltà, si era dato avvio alla ricostruzione e alla modernizzazione del paese. Uno dei primi interventi promossi dall’Amministrazione comunale fu la costruzione della strada da Collicello a Piovega. Poiché la sorgente del vecchio acquedotto in Val Frenzela non poteva assicurare sufficiente acqua, si avviarono anche i lavori a cura della Cooperativa Edile locale - per la creazione di una cisterna soprastante il Ponte Subiolo; era alimentata dalla risorgiva vicino al fiume denominata “Fontana Moretti”. Cominciarono poi i lavori di costruzione del nuovo edificio delle scuole elementari a nord del campo sportivo, commessa assegnata all’impresa edile dei Fratelli Lorandi di Villaverla. A lavori ultimati, nel seminterrato del fabbricato trovò sede una scuola professionale statale, quale sezione staccata dell’Istituto Tecnico Arnaldo Fusinato di Schio. Al servizio di segreteria provvedeva il personale comunale. 33 Il nuovo fabbricato scolastico con il vecchio campo da calcio Maturarono anche i tempi per la progettazione di una passerella che unisse le contrade di Costa con quella di S. Marino. La passerella di Costa, costruita in sostituzione della vecchia barca, venne distrutta dall’alluvione del 1966 34 Si cresceva, incontrandoci attorno alla chiesa... Eravamo poveri, ma intenso e condiviso il desiderio di cancellare il tempo della fame. Lavoravamo con la speranza di migliorare la condizione individuale e di avviare insieme un riscatto sociale, collettivo. La parrocchia rappresentava in quel momento la sola forma di aggregazione. Attraverso le sue articolazioni, sempre più impegnate in forme di patronato, forniva occasioni di formazione civile e sociale. In tempi stretti sorsero varie organizzazioni sindacali e le Acli, che in seguito diedero vita ad uno spaccio. Un prete speciale... Giunto in parrocchia a Valstagna nel 1944, l’arciprete Don Oliviero Licini, si rese subito attivo come pastore d’anime nell’ultimo periodo della Resistenza. Seguì e incoraggiò la nuova fase di ripresa e crescita, sensibilizzando giovani e adulti verso i nuovi impegni che la società richiedeva. Interpretò bene e coraggiosamente il suo ruolo di pastore, capace e intraprendente. Attraverso di lui tante persone maturarono il bisogno di capire e di studiare i tempi nuovi, per poi assumere la propria, concreta responsabilità. Avevamo appena conquistato la libertà, ma le tensioni erano presenti e palpabili. Si vociferava che molte armi si trovassero ancora nascoste in gallerie, ma anche in “sicure soffitte”. Le passioni sociali e politiche si facevano sentire. Verso la fine del 1946 giunse con sorpresa la notizia della partenza dell’arciprete tanto amato, da qualcuno temuto, ma comunque da tutti rispettato. La motivazione che circolava in paese era che avesse bisogno di recuperare un po’ di salute. Ma la verità era anche 35 che l’aver affrontato un periodo così difficile e tumultuoso avesse lasciato il segno. L’arciprete don Oliviero Licini con i ragazzi della prima comunione In sua sostituzione giunse don Lino Bonan, già parroco di Taggì di Sotto, vicino a Padova. Dopo pochi mesi il vescovo dispose anche il trasferimento del cappellano don Ubaldo Zanettin. Un prete che nei giorni della Resistenza aveva seguito con tanto impegno i giovani affiancando con estremo coraggio l’arciprete nell’ultimo periodo bellico sino alla Liberazione E anche dopo... Al suo posto arrivò il nuovo cappellano: don Mario Zambelli. Un prete dal temperamento scattante, deciso, ma, si direbbe, adatto a quei tempi. 36 L’arciprete don Bonan in un primo momento lo accolse con la sorella in canonica; in seguito gli fornì alcune stanze al piano terra di casa Sartori, vicino alla scuola materna. Una trasferta strana, ma che garantì al nuovo cappellano quell’indipendenza di cui sentiva il bisogno. Circondato da tanta gioventù disponibile ai suoi programmi pastorali, riuscì ad attivare un efficace centro operativo ed organizzativo in occasione delle imminenti elezioni politiche. Anche a distanza di anni mi sembra che la decisione assunta, da alcune istituzioni ecclesiali, di sostenere apertamente i laici cattolici impegnati in politica sia stata una scelta saggia. Assegnando al cappellano “attivista” un’abitazione così defilata, fu possibile evitare l’ingerenza dei Comitati Civici di Gedda e, nello stesso tempo, smorzare sul nascere alcune evidenti incompatibilità ambientali. Anche nelle frazioni la presenza della chiesa si faceva sentire. Ad Oliero operava don Sante Franceschini, che durante la guerra aveva dato ospitalità all’eroe Avv. Italo Cavalli. A Costa don Guido Pescarolo, che aiutava i suoi parrocchiani accompagnandoli quotidianamente in ambulatorio medico, all’ospedale o negli uffici per il disbrigo di pratiche amministrative. Per racimolare un po’ di denaro esercitò persino il contrabbando di sigarette. Un giorno venne fermato dalla guardia di finanza e denunciato. Ma per i paesani non fu uno scandalo. Era frequente d’estate incontrare in paese anche alcuni prelati, che vi tornavano a trovare i parenti e a godere delle fresche arie della valle per un periodo di riposo. In particolare ricordo mons. Antonio Zannoni, grande ed indimenticabile educatore in quel di Thiene e direttore poi del prestigioso collegio Barbarigo di Padova. Nella piazza centrale si poteva incontrare, con il dovuto rispetto, pure l’Arcivescovo 37 di Benevento, mons. Agostino Mancinelli, metropolita della chiesa campana, sempre curato ed elegante. Trovava ospitalità dai Sartori, famiglia d’origine della madre. Nella stessa piazza, diretto all’arcipretale, passava spesso, sobrio e sorridente, il Vescovo di Carpi mons. Vigilio Federico Dalla Zuanna, che alloggiava dal nipote Vigilio nel vicolo del panificio. Egli, predicatore apostolico di due papi, ministro generale dei frati minori cappuccini, medaglia d’oro al merito civile del Presidente della Repubblica, fu convinto sostenitore della sofferta esperienza della città della fratellanza di Nomadelfia di don Zeno Saltini, difendendone le ragioni con la santa sede e il governo. (Vedi pubblicazione del prof. Remo Rinaldi – sett.1992 Ordine F.M.C.) Curata era la formazione e per i giovani dell’Azione Cattolica si organizzarono molti incontri di aggiornamento. La frequentazione agli esercizi spirituali era costante. Si partecipava anche a incontri a carattere diocesano a Padova o in quel di Torreglia. Noi giovani alla domenica mattina frequentavamo corsi speciali di aggiornamento promossi a Bassano del Grappa dalle ACLI. Il Prof. Pietro Roversi era il presidente dell’associazione. Aveva partecipato attivamente alla Resistenza, divenendo più tardi sindaco della città di Bassano. Assistente era il responsabile della FUCI locale, Mons. Antonio Dalla Riva. Altri incontri vennero poi organizzati a Vicenza e a Tonezza. L’ideatore di questi percorsi fu Mariano Rumor, già impegnato in politica con ruoli importanti. Il responsabile provinciale era Gino Schenale. 38 ...alle urne!... Nella primavera del 1946 si svolsero in tutto il Paese le prime elezioni amministrative che a Valstagna si tennero domenica 24 marzo. Era veramente un momento storico, importante per un ritorno autentico alla democrazia rappresentativa. Erano in lizza tre liste di candidati e vinse nettamente quella della Democrazia Cristiana. Venne eletto quale primo sindaco GioMaria Ferrazzi. Poi seguirono Ruggero Lazzarotto, Giosuè Signori, Vittorio Bombieri ed altri. Il successivo 2 giugno venne effettuato il Referendum, indetto per scegliere la forma istituzionale dello Stato e per l’elezione dell’ Assemblea Costituente. Furono consultazioni particolarmente significative per la nuova stagione della storia del nostro Paese. Il Referendum sancì la nascita della Repubblica e venne eletta la nuova Assemblea Costituente con piena legittimazione popolare. Per boschi e masiere... Quel poco di bosco che era sopravissuto al periodo bellico permise a molte famiglie la ripresa del taglio del legname nell’ambito dei propri “masi”. Collocati a mezza costa erano difficili da raggiungere per la forte pendenza e la mancanza di strade.(2) Per completare un buon carico di legna si sconfinava quasi abitualmente nei boschi del demanio civico, cercando, per quanto possibile, di evitare incontri con la guardia forestale, particolarmente vigile e presente in zona. (2) Spesso, quando non era possibile tracciare nuovi percorsi, venivano installati “fili a sbalzo” (Rudimentali teleferiche) 39 Per il trasporto del legname dall’Altopiano si continuava ad utlizzare la Calà del Sasso. Il percorso terminava a Fontanella, in val Frenzela: qui sostava abitualmente quasi un centinaio di carretti. Servivano per trasportare il materiale in paese, dove il legno era ceduto ai commercianti, ai privati e ai panificatori. Stava invece ormai tramontando il tempo della produzione del carbone con il classico “Pojato”. Per trainare il carretto (vuoto) dal centro abitato lungo la strada di fondovalle, piena di ciottoli e ghiaia, la fatica, per i bambini che vi si dedicavano, era tanta. Particolarmente ripidi i tratti di via Sette Comuni e “l’Arto della Serra”, luogo poco distante dalle gallerie che i recuperanti adoperavano per far brillare i residuati bellici. Altra risorsa che dava da vivere a vari nuclei familiari erano le malghe per l’alpeggio del bestiame. Venivano assegnate con asta pubblica a coloro che, entro il termine dello spegnimento per consumazione di una candelina accesa all’inizio della seduta, avevano offerto il prezzo più conveniente. La malga Lobba da tempo era gestita dalla famiglia Costa (Ten). Quella di Col dei Remi di Sotto dai Lazzarotto dei Giaconi. Col dei Remi di Sopra era condotta dalle famiglie Costa (Cencio Prete) e Pontarollo (Menini). A Valchiama trovavi Vincenzo Pontarollo (detto Crico). A Col della Berretta c’erano i Negrello di Oliero di Sopra (Valentini); alle Pozzette, Passuello di Conco (detto il Mani). A Melago e Col Novanta i Pesavento di Asiago. A Silvagno c’erano dei padovani di Abano. Nella malga privata di Col d’Astiago i Cavalli di San Gaetano - Sasso Stefani detti i “Modesti”. La mezza costa era ancora abitata e i sentieri di collegamento erano molto stretti ma ben tenuti (li chiamavamo 40 “trodoj”). L’erba magra e lo strame venivano tagliati per le necessità della stalla. Abitualmente si saliva alla montagna percorrendo diversi itinerari. Coloro che abitavano ad Oliero di Sotto e di Sopra utilizzavano le mulattiere soprastanti le Grotte di Oliero per raggiungere le Pozzette e il Col della Berretta. Quelli che abitavano da contrada Londa sino al ponte Subiolo percorrevano la Val Frenzela per portarsi sull’Altopiano, con diramazioni per la Val di Gallio e della Val Vecchia. Gli abitanti da S. Gaetano fino a Collicello gravitavano verso il Sasso Rosso, la Valgadena, la Val Capra e la Valgoda. In forma associata venivano utilizzati anche i “roversi” (livelli del comune di Enego). Di fatto per le rispettive vicinanze si verificava una pacifica suddivisione territoriale, come pure consolidata era la consuetudine di collaborare alla ricostruzione dei muri a secco (masiére). Già dalla metà dei Seicento i canalotti si dedicavano alla coltivazione del tabacco, ma in forma mal tollerata dalle autorità della Serenissima Repubblica. Si dovette attendere il 24 novembre del 1763(3) per la sottoscrizione degli accordi di coltivazione e vendita del tabacco nostrano tra lo Stato Veneto e le contrade annesse dei Sette Comuni: Valstagna, Oliero, Campolongo e Valrovina. Soltanto nel 1817 l’Imperatore d’Austria Francesco 1° accordò il privilegio della coltivazione del tabacco anche ai comuni situati in sinistra Brenta. La coltivazione di questa pianta comunque era molto fa- (3) Archivio Stato di Venezia, Registro Senato Terra Tabacco MDCCLXIII, 24 novembre, in Pregadi (F.Signori: da documento originale del suo archivio privato) 41 ticosa e gravata dalla regìa della Repubblica Veneta e dei governi successivi che controllavano con i finanzieri e propri operatori che i piccoli campicelli fossero tabellati: doveva essere indicato il numero progressivo, il numero delle piante messe a dimora e le foglie delle piante medesime. Un lavoro da schiavi! In autunno i comuni esponevano un avviso perché i coltivatori potessero eleggersi un proprio rappresentante (perito), esperto e adatto per la stima della qualità del prodotto conferito. Era una primitiva forma sindacale, ma i benefici non corrispondevano mai a quanto richiesto. Comandava lo Stato sovrano. I lavori di movimentazione del campo con l’interramento del letame, avvenivano per tempo. Quando poi molti uomini andavano a fare la stagione all’estero, al resto del lavoro provvedevano in prevalenza le donne, che trascorrevano molte ore nei campi, talvolta con il bambino più piccolo fasciato e allacciato al petto. Per avere un’idea della diffusione intensiva della coltivazione del tabacco basti ricordare che alla fine dell’800 venivano coltivate oltre 15 milioni di piantine. La superficie si estese verso i boschi, ricavando terrazzamenti che, se li volessimo immaginare linearmente, supererebbero i duecentotrenta chilometri. La coltivazione del tabacco, sempre più faticosa e poco remunerativa, continuò a diminuire sino al secondo dopoguerra, quando fu decisa la liberalizzazione. 42 Casa di mezzacosta dei “Tomasoni” in contrada S. Gaetano, circondata dai tipici terrazzamenti Il museo etnografico “Medio Canal di Brenta” di Valstagna illustra con dovizia di dati la storia del tabacco e relativi fenomeni, compreso il contrabbando.(4) Una straordinaria riforma. Una riforma, che ha dello straordinario, venne approvata negli anni cinquanta, mediante l’istituzione della cassa mu- (4) “Uomini e paesaggi del Canal di Brenta” a cura di Daniela Perco, Mauro Varotto, Franco Signori, Antonio Bonato, Katia Occhi e Giuseppe Benetti - Comune di Valstagna - Edizioni Cierre - Verona 2004. 43 tua comunale a favore dei coltivatori diretti, che fino ad allora ne erano sprovvisti. Il nuovo servizio di mutualità ebbe inizio senza tassare i poveri contadini, ma assicurando loro, senza fondo speciale, l’assistenza mutualistica. Ne trassero beneficio anche i nostri comuni, perché le spese per i ricoveri ospedalieri per i non mutuati, venivano addebitate all’amministrazione comunale di competenza, salvo rivalsa! Qualche anno dopo si diede avvio alla previdenza. In questo caso pagando un modesto importo per l’iscrizione al Servizio Contributi Unificati in Agricoltura. E così si deve dar atto che senza tanto clamore era fatta giustizia nei confronti di una categoria di lavoratori spesso sfruttata e anche dimenticata. Il legame con il mondo rurale. La mia famiglia fin dai tempi antecedenti la seconda guerra coltivava in affitto un piccolo appezzamento in contrada Lebbo. Vi ricavavano una buona produzione di tegoline e fagioli. Verso gli anni cinquanta si decise di comperarlo, sia per continuarne la preziosa coltivazione, ma anche perchè a quel posto, circondato di una modesta area boscata, eravamo ormai tutti legati. Con il fratello Aldo e mamma fu avviata una radicale sistemazione. Effettuammo pure una piantumazione di abete rosso nella parte alta al confine del “Cason di Pierone”. Aldo cominciò a ricavare un piccolo rifugio per gli attrezzi, che poteva servire anche come ricovero in caso di cattivo tempo. Ben presto mi resi conto di non poter dare l’aiuto necessario: si decise, così, di spartire la proprietà. 44 Ma la passione per la terra non cessò. Olivo Signori mi propose di comperare un campo e una particella di bosco nella zona del Tovo. Il luogo aveva anche una bella denominazione: “Pian dei Sessia”. Il nostro soprannome. Affare fatto. La mamma incominciò a coltivare gli ortaggi. Io misi a dimora piante da frutto. Fissai sul terreno dei pali di cemento per tendere i tralci del vigneto, piantato in precedenza. La striscia di terreno inferiore era in buono stato e fertile, ma quella superiore, più estesa, era dura. Più che il badile adoperavo il piccone. A Foza si stavano sviluppando grandi allevamenti di polli e vedevo spesso transitare dei camioncini di letame. Pensai subito di ordinarne un carico, che depositai in uno spazio limitato a fianco della strada. Incominciai a caricarmi qualche secchio con l’aiuto del bigòlo. Ma la fatica era enorme e solo al sabato potevo dedicare qualche ora a questa attività. Un bel giorno vennero a cercarmi dei cantonieri della provincia. Mi diffidarono e mi imposero di eliminare il letame che con la buona stagione stava impestando la zona. Se non avessi trovato la comprensione e l’aiuto concreto di Egidio Ferrazzi e la collaborazione di Bruno Moro non so come me la sarei cavata. Nonostante questi inconvenienti al “Pian dei Sessia” mi ero proprio affezionato. Da lassù potevo osservare la torre civica con l’antico orologio, il passaggio e la sosta dei treni diretti a Trento o a Venezia, la strada statale con il suo traffico sempre più intenso. In particolare nelle serate estive. Potevo seguire la costruzione del nuovo magazzino tabacchi: nasceva pro- 45 prio nel momento in cui stava per cessare la coltivazione. Dall’alto riuscivo a scorgere in modo distinto personaggi caratteristici del paese. Nicola che aspettava i clienti davanti alla stazione, munito della sua caratteristica pipa. Con il basco in testa un emigrante, ritornato in paese dalla Francia, trascorreva il suo tempo passando da un’osteria all’altra. Era sempre allegro, non disturbava nessuno. Non aveva un soprannome accattivante: lo si chiamava “Morte”. Intravvedevo dall’alto anche la Rosina, povera donna, un tipo inquieto dalle battute taglienti. E poi Sebastiano Lazzarotto, detto “Nano Stramassaro”. Rappresentava un caso a sé: girava spesso in bicicletta e nella buona stagione quei quattro buontemponi che frequentavano la piazza si divertivano a nascondergliela o ne bucavano una gomma, facendolo disperare. Appena sotto la mia proprietà, sopra il ponte dei “Vaegoni” vedevo spesso la “Nea Bocia”. Camminava, ma sembrava che non appoggiasse i piedi per terra, tanto era sottile, silenziosa, assorta. Portava una gonna che le copriva i piedi. Quando incontrava un giovane, si fermava sempre, quasi a volerlo interrogare. Era capace di dirgli in quattro e quattrotto il giorno, il mese e l’anno in cui era nato. Un fenomeno umano impressionante! Una vera anagrafe “ambulante”. Costretti ancora ad emigrare... Negli anni immediatamente successivi all’ultima guerra, allo scopo di facilitare l’occupazione, i patronati organizzavano, con il sostegno e la collaborazione degli enti locali, numerosi corsi di formazione professionale (falegnami, mu- 46 ratori, carpentieri) o di aggiornamento culturale. Erano rivolti, in particolare, a facilitare l’inserimento nel nuovo paese per quanti intendevano emigrare. Altri incontri teorici e pratici per muratori e carpentieri riguardavano in modo specifico giovani, pronti a raggiungere i diversi paesi europei, Svizzera e Francia in particolare. Emblematica immagine di un gruppo di minatori valstagnesi in Francia sulla cima del monte Galibier. Da sinistra alcuni sono riconoscibili: Marco Gabardo, Giovanni Pontarollo, Pietro Ferrazzi, Domenico Sasso detto “Meni Sessia” e Antonio Zannoni. Questi giovani, provenienti dai vari paesi della vallata e dei paesi di montagna, rientravano in famiglia nel tardo autunno, per la sospensione dei cantieri o perché tenevano un contratto stagionale. Era tradizione per quelli delle contrade di S. Gaetano, Sasso Stefani, Costa, ecc. incontrarsi nella giornata successiva al S. Natale per partecipare alla 47 messa e radunarsi all’asilo per una bicchierata e cantare... Era un modo spontaneo per condividere la gioia del ritorno a casa , nel proprio paese. Ma era soprattutto un segno di appartenenza e comune identità, dopo le tante incomprensioni incontrate all’estero. In una di queste circostanze nacque l’originale idea di fissare un appuntamento annuale e si avviò la costruzione di un piccolo capitello da dedicare a Santo Stefano nella contrada di Sasso Stefani. Un capitello che alla fine divenne un vero e proprio oratorio, dove ogni anno nella festa di santo Stefano l’intera comunità si riunisce per una messa in ricordo di tutti gli emigranti. Foto dell’inaugurazione della chiesetta. In piedi si riconoscono da sinistra: Lazzaro, Giannino, Camillo, Elvio, l’on. Onorio Cengarle, Antonio Sasso, il sindaco Baldassare Fontana, l’arciprete don Lino Bonan e Gigetto. In basso: Giuseppe, Aldo, Alessandro, Pietro, Marino, Pierino, Antonio, Nereo e “Stea Rossa”. 48 L’emigrazione, purtroppo, per i paesi della Valle è stata una costante. Al compimento del diciottesimo anno di età “i costritti” erano chiamati alla visita di leva. Era un appuntamento importante. E quindi gli incontri, le cene e le feste erano frequenti, anche con tutte le coetanee. Ci sentivamo già uomini. Il servizio militare creava però non pochi problemi per coloro che si recavano all’estero per motivi di lavoro. Il più delle volte, la partenza era il frutto di una scelta individuale, in qualche caso era l’intero nucleo familiare a deciderlo. Accadeva proprio come alla fine dell’ottocento, seppur in condizioni migliori, perché c’era talvolta un parente o un conoscente che da lontano incoraggiava a compiere “il passo” o si prestava per far ottenere un regolare contratto. Molti andarono a Bolzano e a Torino, dove trovarono facilmente lavoro. Gli emigranti si dividevano in due categorie: gli stagionali, che di norma rientravano a casa durante la stagione invernale - prevalentemente indirizzati nei paesi europei - e gli altri, che, pur con l’intenzione di far ritorno, si erano diretti verso il Canada, l’Argentina e l’Australia, e qui si erano fermati. Tra le tante esperienze di distacco ricordo l’incontro, in piazza centrale, con il mio coetaneo Giovanni Pontarollo, detto Zan. Teneva una bisaccia su di una spalla e sull’altra la sua amata chitarra, che sicuramente gli avrebbe fatto compagnia, specie nei momenti più tristi. Non aveva altro ed era in partenza per il Canada. Sorprendente sino ad un certo punto questa partenza. Un saluto cordiale, ma segnato da profonda tristezza. Lasciava qui, soli, i genitori. In anni successivi fece ritor- 49 no in paese più volte. In occasione di uno di questi rientri, accompagnato da moglie e figlie, convinse l’amico pittore e chitarrista Eraldo Della Via a realizzare un suo sogno: raffigurare sulla facciata della casa di Col Mezzorigo, in posizione stupenda sul paese e sul fiume, la “sua “ partenza per il continente Americano. Zan abita ora nell’Ontario, ma ritorna ancora al suo paese d’origine. Ci siamo sentiti che non è molto. Una storia che si è ripetuta per tanti altri miei coetanei. Anche Dino Costa dalla Valgadena se ne è andato in Canada. Marino Pontarollo in Argentina. Per la Svizzera partirono, Benito Costa, Aldo Marini, Paolo Negrello, Giuseppe Moro. I più per la Francia: Lucio Dalla Zuanna, Vittore Costa, Imperio Costa, Domenico Mattana, Giovanni Costa, Giovanni Imbro Lazzarotto. Sono quelli che meglio ricordo perchè della mia stessa età. Purtroppo era un fatto di normale necessità. 50 Attuale facciata della casa di Zan Pontarollo, a Col Mezzorigo con l’affresco che illustra la sua partenza per il Canadà. Negli anni cinquanta fu istituito anche un corso di lingua inglese per quanti, locali e profughi dalmati, intendevano emigrare in Canada o in Australia. Durante uno di questi corsi si verificò un episodio che narrerò più avanti. Le serate, programmate con serietà ed impegno, prevedevano un approccio preciso, funzionale, allo scopo di evitare ai partenti emarginazioni o speculazioni all’arrivo nel nuovo paese. Le lezioni si svolgevano nell’aula principale delle vecchie scuole. Il docente, un sacerdote: Prof. Antonio Segafredo, 51 originario di Gallio. Raggiungeva il paese da Bassano, in treno e talvolta con la propria vespa. Aveva una dizione perfetta. Per molti anni aveva insegnato in Inghilterra, all’Università di Oxford. Oltre ai paesani si iscrisse anche un nutrito gruppo di profughi dalmati, sfollati dalla città di Zara nel 1943. Tra gli iscritti anche un certo Osvaldo Pontarollo, detto Aldo, con sua moglie Rosy, originaria di Bressanone, che espatriarono poco dopo per la città di Toronto in Canada. La partenza era sempre una grande sofferenza sia per chi se ne andava, sia per i genitori anziani e gli altri familiari che restavano. Al mattino presto, quand’era ancora buio, quasi come i contrabbandieri di tabacco, venivano accompagnati fino a Bassano del Grappa, dove abitualmente la Compagnia di Navigazione Tosin, con sede in Via Vittorelli, organizzava un pullman diretto al porto di Genova. Molti in paese ben ricordano il ritorno, dopo una diecina d’anni, di Osvaldo Pontarollo della “Villetta” alla guida di una nuova fiammante spider rossa (fatta sbarcare nel porto di Genova). Era talmente lunga che al ponte Rialto dovette, anche per l’emozione, effettuare più manovre per immettersi in riviera Garibaldi, la via principale del paese. Era la dimostrazione che il Pontarollo aveva ottenuto i risultati attesi. Aveva “fatto fortuna” e intendeva, con comprensibile orgoglio, farlo sapere ai suoi paesani. Piccole cose, ma significative per quanti vivevano nelle ristrettezze in Valle. Osvaldo fece poi ritorno in Canada dove aveva la sua famiglia. Negli anni novanta perse la moglie e di lui si ebbero notizie solo nel 1997. 52 Ed ecco l’episodio che avevo annunciato. Osvaldo nel periodo finale della guerra si era innamorato di Aurora Pagan, detta Lola, una bella ragazza profuga dalmata. Era giunta in paese con la famiglia e con qualche centinaio di zaratini disperati, in fuga dai bombardamenti sulla città dalmata, alla ricerca di zone più sicure e amiche. Il loro fu un amore contrastato dalla famiglia di lei, che non riteneva “dignitoso” un matrimonio della figlia con Osvaldo, giovane, bello, ma solo... operaio. La determinazione dei Pagan fu tale da indurli a trasferirsi, con la figlia Aurora, in altri luoghi e, successivamente, ad emigrare definitivamente in Australia, a Sydney. Anche Osvaldo espatriò nel Nord America a Toronto. Passarano gli anni e, attraverso i canali d’informazione tradizionali (parenti e conoscenti) il Pontarollo venne a sapere che pure la sua Lola era rimasta vedova. Si attivò allora per poterla rivedere e la contattò per via epistolare. Un bel giorno affrontò un lungo volo aereo: Toronto - Melbourne. Ma emozione e agitazione furono troppo forti. Proprio nel momento tanto atteso, quando, apertosi lo sportello dell’aereo, stava mettendo i piedi sui primi gradini della scaletta s’accasciò a terra, colpito da infarto. Solo l’immediato intervento e il rapido trasferimento in Ospedale, evitarono il peggio. Rimase ricoverato un paio di mesi, ma alla fine uscì ristabilito. Comprensibile la preoccupazione della signora Aurora Pagan Raicevich, detta Lola, che lo raggiunse immediatamente e lo assistette pazientemente finchè si riprese. Sydney era ad un migliaio di chilometri di distanza dall’ospedale. Lola trovò ospitalità da una connazionale, anzi da una “paesana”: Elisabetta Negrello ved. Moro originaria 53 dalla contrada Mori, a un tiro di schioppo dalla “Villetta”, la casa natale di Osvaldo. Quando si fu ben ristabilito raggiunsero insieme Toronto, dove vissero serenamente per molti anni. Nel primo anniversario del loro matrimonio tornarono in paese, proprio d’estate, quando gli emigranti rientrano numerosi. Familiari e paesani condivisero la gioia di un sogno realizzato: quello del loro primo amore, sbocciato durante la guerra, lei sedicenne e lui ventenne, e riscoperto in modo rocambolesco dopo ben cinquant’anni. L’emigrazione si inserisce a pieno titolo nella storia del Paese, che celebra quest’anno i centocinquant’anni della sua unità. Basti pensare che il Veneto, dalla fine dell’800 alla metà del novecento, vi ha contribuito con ben tremilioni e duecentomila emigranti. Voglia di novità e di democrazia... In modo quasi inconsapevole si stavano costruendo le basi per un lungo periodo di pace e di sviluppo e si creavano spazi per valorizzare l’entusiasmo dei molti giovani presenti in paese. L’interesse sociale e civile e la voglia di democrazia erano forti, pur nella diversità ideologica. In valle la presenza della sinistra era significativa. Alla domenica in paese veniva recapitato puntualmente il giornale l’Unità, mentre l’Avanti arrivava per posta. Per noi più giovani c’era “Il Vittorioso”, che riscuoteva tutto il nostro interesse e stimolava la fantasia. Appena letti i racconti settimanali già pensavamo all’edizione successiva. Jacovitti dominava la scena, ma avvin- 54 centi erano i servizi sul calcio e il ciclismo. Storiche le puntate sulla storia dell’alpinismo. In un baleno ci trovammo ad affrontare la più importante consultazione politica del Paese: Domenica 18 aprile 1948 si effettuarono le prime votazioni per l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Intensa fu la campagna elettorale, coi comizi del Professor Di Gallo e la presenza in piazza di Rumor, Tosato ed altri. Ricordo che i manifesti coprivano gran parte delle facciate delle case. Persino i locali che ospitavano i seggi elettorali erano interamente tappezzati dalla propaganda elettorale dei vari partiti contrapposti. Di notte talvolta la propaganda già affissa veniva coperta con altra di ispirazione opposta. I gravi problemi che la politica viveva a livello centrale erano captati e interpretati anche in periferia con vivacità e a volte con durezza. La preoccupazione era diffusa. Il confronto - scontro si risolse con il successo della Democrazia Cristiana e dei partiti laici minori e fu un bene per il Paese, perché fu veramente l’inizio di un lungo periodo di pace, sviluppo e progresso. Nei miei ricordi quelle elezioni di aprile coincidono con il passaggio del Giro d’Italia a Carpanè. Il gruppo dei corridori sfrecciò scortato dai motociclisti della stradale e preceduto da una lunga carovana di vetture con cartelli e manifesti pubblicitari. Dopo il passaggio stavo ritornando verso il ponte quando notai un grande cartello, simile a quello che avevo visto poco prima esposto nel curvone del passaggio a livello. A 55 grandi lettere vi era scritto:“Gino vinci il Tour”. Chiesi ad Orfeo cosa volesse significare ed egli, sorpreso per la domanda, mi rispose sorridendo: “El Tour el xe el prossimo giro de Francia”. Era il Tour che Bartali, nel successivo mese di luglio, avrebbe vinto per davvero! Costruì il suo successo imponendosi nella importante tappa alpina di Briançon, proprio in coincidenza con l’attentato a Togliatti; l’entusiasmo, che la sua impresa suscitò, contribuì a rasserenare nel Paese il clima di scontro che faceva temere l’inizio di una vera e propria guerra civile. Il ciclismo, già passione diffusa, si trasformò in mito. Volevamo tutti poter ammirare da vicino i grandi campioni. Cogliemmo l’occasione del Giro del Veneto. In compagnia di alcuni cugini, prendemmo la bicicletta e ci arrampicammo lungo i tornanti che conducono all’Altopiano. Raggiunta località Cesuna di Roana, ci appostammo in un luogo strategico, a lato di un tratto particolarmente ripido della strada che allora non era ancora asfaltata. Fummo premiati: in testa al gruppo potemmo ammirare Coppi, Bartali e Magni (in maglia rosa): Ritornammo a casa più che soddisfatti. 56 Gino Bartali in piazza S.Marco circondato da un gruppo di sportivi locali. Riconoscibili Gianni Sasso, Lorenzo Scotton, Piero Costa, Gigetto Moro, Benito Sasso, Egidio Ferrazzi. Come molti miei amici, oltre al ciclismo praticavo anche altri sport, quali il calcio e l’atletica leggera. Quando la prima squadra dell’Unione Sportiva S.Marco giocava in casa mi rendevo utile andando ad affiggere i manifesti nelle varie località della Valle. Raggiunto Contarini 57 attraversavo il Brenta su una vecchia barca, da molti utilizzata in quegli anni per raggiungere la sponda opposta di S. Nazario. La vecchia imbarcazione che serviva per il trasporto dei passeggeri da Contarini a S.Nazario. L’operazione non era di poco conto: la prua dell’imbarcazione doveva sempre affrontare la corrente in posizione rialzata e quindi i viaggiatori dovevano sempre assicurare, con prudenti spostamenti, un giusto equilibrio. Io, poi, dovevo fare particolare attenzione per non rovesciare il prezioso 58 secchio con la colla!. Sceso a S. Nazario e superata Carpanè, raggiungevo la contrada di S. Marino: qui l’operazione si ripeteva e, con un’altra barca, arrivavo a Costa, per poi rientrare a casa. Era lo stesso percorso che qualche tempo dopo avrei effettuato per affiggere gli avvisi dei film in programma nella sala parrocchiale. La sala era dotata di una vecchia macchina di proiezione, tanto vecchia da causare spesso rotture alle pellicole. La conoscevo bene, perché ero io l’operatore cinematografico, sempre immerso nel “profumo” dell’acetone. Era il periodo di “Marcellino Pane e Vino”, “Quo Vadis”, “Pane Amore e Fantasia”, “Torna a casa Lassie”, la “Città dei Ragazzi”, “Ben Hur”, “Exodus”... Ritornando allo sport... Il calcio era per tutti lo sport “principe”. Quando si disputava una partita capitava di sovente che il pallone, superando una recinzione non sufficientemente alta, scivolasse in Brenta. Scattava immediatamente l’azione di recupero. Di solito si riusciva a catturarlo, servendoci di un lungo bastone dotato di una rete a forma di canestro, sotto l’osteria “Alla Villetta”, dove il fiume creava un’ ansa. Talvolta il pallone prendeva il largo e allora giù a rincorrerlo (si disponeva di un solo pallone di riserva) verso Oliero ed oltre, senza badare ai rischi che si correvano. Iniziai pure io a giocare a calcio, partecipando ai vari tornei e, un giorno, venni pure ceduto alla Virtus di Bassano assieme all’amico Gino Perli. Firmammo il cartellino con il 59 direttore responsabile del nuovo Club Antonio Marchiorello. In verità non ero un gran giocatore; me la cavavo perché correvo tanto. Passai presto al mezzofondo con il gruppo atletico Cral Gasparotto di Bassano e qui ottenni discreti risultati. Gli allenamenti avvenivano al Mercante, sotto la direzione del Prof. Mario Rigoni. Nell’ambiente bassanese migliorai le mie prestazioni e ottenni tempi incoggianti. A quel tempo allenarsi a correre lungo le strade era una cosa davvero insolita e per molti inconcepibile. Con Anacleto Ferrazzi partivamo presto di mattina, tanto presto che le uniche persone che incontravamo erano i panificatori. L’impegno fu compensato: riuscii ad affermarmi in diverse occasioni nella gara annuale di mezzofondo sia a Valstagna che a Campese, a Foza e ai campionati bassanesi. Fui così ammesso a partecipare ai campionati regionali di club. Per la prima volta potevo entrare all’Arcella di Padova: ottima pista per l’atletica, clima molto buono, molta gente, tanti gli atleti. Come tutti i partecipanti feci un lungo riscaldamento, forse eccessivo, e mi presentai in pista per la partenza dei millecinquecentometri. Avvio con ritmo buono, sostenibile. Applausi dalla tribuna. Rigoni, a bordo pista, e i fratelli Cappellari mi incitavano a gran voce e allora decisi l’attacco: superare il gruppo di testa. E lo feci, ma da pivello, affrontando tutta la curva all’esterno. Nel rettilineo successivo mi raggiunsero e i più forti volarono al traguardo. Mi piazzai discretamente, ma feci una fatica enorme. Bisogna saper dosare bene le proprie risorse. Mi servì di lezione! Ricordo con emozione un’altra singolare vicenda sportiva, a cui fui presente, anche se non da protagonista, nella primavera del 1953. 60 In quell’anno lavoravo a Rossano Veneto e i miei colleghi mi proposero di assistere al passaggio della Mille Miglia. Dormimmo in qualche modo in un casolare di un certo Mario Lazzarotto, nei pressi della contrada S. Lorenzo, appena fuori Rossano. Alle due di notte, distesi sul cassone di un camioncino e coperti con un telo, partimmo, diretti verso Vicenza: a fianco avevo i colleghi di lavoro Marcon, i fratelli Gastaldello ed altri. Mi trovai a Vicenza, città dai grandi palazzi illuminati, mai vista in precedenza. Ci appostammo lungo Corso Palladio nelle vicinanze della chiesa di san Gaetano. Era una posizione davvero strategica, perché potevamo da lontano vedere i bolidi che, venendo da Brescia, attraversavano Porta Castello per poi scendere verso piazza Matteotti. Avrebbero quindi girato a sinistra verso il Ponte degli Angeli, per imboccare ad alta velocità Corso Padova. Della gara ricordo tutto. Purtroppo, con le vetture che correvano forte e con davanti le balle di paglia di protezione, faticavamo a riconoscere i piloti. Era già un grande risultato poter leggere il numero del concorrente ben stampato sulla portiera delle vetture. Non facevi a tempo a veder apparire da lontano la macchina da corsa coi fari che abbagliavano, che già te la ritrovavi di spalle, ad affrontare con brusche frenate la curva all’altezza del Teatro Olimpico. Guarda a destra, guarda a sinistra, sporgendoci leggermente oltre le precarie protezioni, ancorate sui marciapiedi o alle colonne dei palazzi, non era il massimo dello spettacolo. Decidemmo allora di prenderci a turno sulle spalle, per poter, almeno per un po’, ammirare a 360° quello spettacolo straordinario. Le macchine sembravano dei razzi, distanziati l’uno 61 dall’altro. Riconobbi con chiarezza il pilota Taruffi per una sbandata e per i capelli bianchi che sporgevano del casco. Eravamo frastornati per la confusione, il rumore dei motori e le luci dei fari. Cercammo un’altra postazione, ma la musica non cambiò. Tutto era così irreale, liberi di partecipare gioiosamente a una festa di popolo, ma anche di elite. Fu solo perchè qualcuno riuscì a leggere il numero sulla vettura, che capimmo che era transitato l’Aga Kan, il marito della famosa attrice Rita Hayworth. Mi venne in seguito da pensare che quello sparuto gruppo di ragazzi, pieni di curiosità e stupore, mezzi addormentati, ma coscienti di aver assistito a un evento che entusiasmava l’Italia tutta, poteva ben trasformarsi in una di quelle sceneggiature tanto care a Federico Fellini che, con intelligente e nostalgica ironia, avrebbe di lì a poco riproposto scene autentiche di vita popolare. Il momento magico, però, non era finito qui. Aspettavamo con ansia particolare il passaggio del grande Giannino Marzotto, che già aveva vinto una precedente edizione della competizione: quelli della Valle lo sentivano quasi come un paesano, dopo che il padre, Conte Gaetano, aveva frequentato con assiduità i lavori di costruzione della centrale idroelettrica della “Manifattura Marzotto” a Collicello. Chi sopra le balle di paglia, chi arrampicato sui pali della pubblica illuminazione o in piedi sui paracarri attorno a palazzo Chiericati, tutti potemmo vedere e riferire ai posteri di aver visto sfrecciare il conte Giannino Marzotto con a fianco Marco Crosara sulla sua Ferrari 340.MM n. 547. Fu proprio quest’ultimo a piazzarsi primo assoluto in 10h 37’19”, stabilendo con questo tempo anche il record della corsa. Eccezionale! 62 Occhi nuovi, per vedere insieme le cose... Straordinario fu quel periodo anche per l’avvento di un nuovo “strumento”, che permetteva a tutti di vedere e partecipare ad eventi lontani: la TV. Pochi di noi ne compresero allora l’importanza come mezzo di comunicazione e ne anticiparono il ruolo culturale e sociale. Il primo contatto lo ebbi in compagnia di Antonio, mio fratello maggiore, che mi portava spesso con sé nei suoi viaggi di lavoro. Percorrevamo città e paesi dell’Emilia, della Lombardia, del Friuli e un giorno mi accompagnò a visitare la fiera del ciclo e motociclo a Milano. Lungo il viaggio ci fermammo a Brescia: correva l’anno 1954. All’interno di un grande bar mi fece notare, in alto, a lato del bancone per le somministrazioni, uno schermo di modeste dimensioni. Guardai e vidi un volto, in bianco e nero, che comunicava delle notizie. Ma non capìì di cosa si trattasse. E allora sottovoce mi disse: “È la televisione. Stanno trasmettendo i primi comunicati in diretta video e audio”. Meraviglioso! Ero fermo alla cara e misteriosa radio, dalla quale avevo appreso della lunga agonia di Evita Peron. Avevo ascoltato gli appassionati discorsi di Alcide De Gasperi per l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico e le avvincenti radiocronache di Nicolò Carosio dai campi di calcio. Ancor oggi apprezzo i servizi radiofonici, forse per il fatto che distraggono meno l’ascolto. Ma la televisione è un’altra cosa. In Valle, però, data la conformazione orografica del ter- 63 ritorio, ci sentivamo penalizzati per la difficile ricezione dei programmi televisivi, e lo siamo ancor oggi. La ditta Kofler di Bassano era specializzata nel localizzare i ripetitori. Toni Puppi, proprietario di un locale pubblico a Carpanè, riuscì a trovare un accordo e così anche in valle del Brenta si poterono vedere le prime immagini televisive. Indimenticabili le serate di “Lascia e Raddoppia” con Mike Buongiorno con a fianco la elegante Edy Campagnoli e i numerosi concorrenti. Tra tutti memorabile un certo Marianini, composto e preciso, uomo non qualunque al posto giusto. Una trasmissione che ha fatto cultura e che ci ha permesso anche di conoscere un “misterioso” strumento musicale: il controfagotto. Il locale dove ci ritrovavamo a seguire i programmi serali aveva un’ampia scala interna sulla quale, una volta esauriti i posti in “platea”, ci sedavamo come fossimo in tribuna. Momenti belli, d’incontro, di socializzazione. I segnali televisivi continuavano, però, a giungere non sempre visibili. Per questo in occasione della partita di calcio della finale del campionato del mondo fummo costretti a trasferirci a San Nazario, assiepati nel bar a fianco della chiesa parrocchiale. Ne valse la pena. A confrontarsi erano l’Ungheria di Puskas e la Germania Occidentale. Vinsero l’incontro i tedeschi per quattro reti a tre. Fu una partita emozionante e anche “storica”, perché eravamo in piena “guerra fredda”. Poi ricordo che iniziarono le tribune politiche, ma non si possono dimenticare le lezioni di “Non è mai troppo tardi” che puntualmente e familiarmente il maestro Alberto Manzi impartiva ogni giorno: insegnamento elementare, irradiato in tutto il territorio nazionale, che tornò estremamente utile soprattutto alle persone anziane, che spesso si ritrovavano insieme per condividere ciò di cui non avevano potuto go- 64 dere negli anni della loro gioventù. Un’esperienza che rappresentò la base formativa per larghi strati di generazioni. Senza dimenticare i nonni... Dopo i primi anni della ripresa e della ricostruzione si pensò di affrontare seriamente un problema molto avvertito in valle: dar vita ad una casa di riposo, dove ospitare le persone anziane del paese. Gli spazi vennero individuati in via Val Frenzela, utilizzando in parte i locali già destinati alle scuole comunali. Approvata dall’Amministrazione comunale, guidata dal Sindaco Bombieri, la gestione dell’iniziativa venne affidata all’Ente Comunale di Assistenza, che a quel tempo era presieduto da Gino Lazzarotto. Un promotore molto attivo e convinto fu anche l’arciprete don Lino Bonan. A quelle fasi iniziali partecipammo in tanti con viva spontaneità. Ricordo che con un camioncino si andò a prendere il mobilio di alcune coppie di coniugi abitanti nelle contrade Tovo e Sasso Stefani. Una forma condivisa nell’utilizzare i nuovi locali, con gli ospiti che si portavano da casa il proprio mobilio. E serviva anche a rendere meno doloroso l’impatto del cambiamento. Gli ospiti all’inizio furono una ventina. Oltre a personale laico, poterono fin dai primi tempi fare affidamento sulla premurosa e preziosa assistenza delle suore della Divina Volontà. E il ricordo va a suor Valentina, a suor Alessandrina, a suor Giuditta e a tante altre, che con tanta umanità e costanza hanno accompagnato gli ultimi anni dei nostri nonni. 65 Uno sguardo dall’alto... Qualche settimana fa, superando rovi e sterpaglie, sono tornato al “Pian dei Sessia”. Erano trascorsi pochi giorni da un viaggio compiuto in Marocco, promosso da Aziz Wahbi, (un intraprendente immigrato abitante in paese) per conoscere la Valle di Ourika, luoghi lontani, ma uniti alla Valle del Brenta da una comune geografia: montagne, fiume, sistema terrazzato. Da lassù, dal “mio” sito, ho potuto osservare tranquillamente la mia Valle, il mio Paese, ripercorrere luoghi e ripensare ai volti del tempo andato. Guardando il Cornon o il S. Francesco, come non rammentare i servizi, come inviato speciale del “ Corriere della Sera”, di Luigi Barzini, che descriveva con rigore gli ultimi vittoriosi assalti degli Alpini nella prima guerra mondiale? E come poter dimenticare le confidenze di mia madre? Lei dai “Giaconi”, altro luogo strategico di osservazione, aveva seguito per mesi, prima di partire per il profugato, l’arrivo di una enorme quantità di combattenti appartenenti alla “Brigata Sassari”. La scena era impressionante. Accompagnata dal suono della fanfara una fila interminabile s’incamminava su, lungo la Val Frenzela, per raggiungere le retrovie dell’Ortigara, coordinate ai Ronchi di Gallio da Emilio Lussu. I Colli Alti mi richiamavano il ricordo del tragico eccidio dei partigiani a Carpanè, nel settembre del 1944. Quanti drammi e tragedie ha visto e vissuto questa Valle, e la sua gente. 66 Ho abbassato lo sguardo e il rivedere il mio fiume che continua a scorrere veloce, che s’increspa a contatto con i sassi e sul quale si rispecchiano i colori di un tiepido mattino che precede l’inverno, mi ha trasmesso una serenità profonda. Poi il pensiero è andato ai problemi che il fiume può arrecare alla comunità, ricordi di un passato non molto lontano. Nel bene e nel male “la Brenta” (così si chiamava il fiume una volta), in un paesaggio per molti versi mutato, mi si offriva come presenza sicura: scorre e si rinnova, ma non ti lascia mai solo. Sembra guidarti e ti fa compagnia. Una vibrazione musicale che si affianca alla faticosa esperienza umana, segnata da fatiche, da guerre, da abbandoni e partenze, ma che a tutti suggerisce fiducia e speranza... Valstagna - Natale 2011 67