…e la stagione si apriva davvero…
La primavera del 1945
di
Benito Sasso
Valstagna - 2011
A Emanuele
La mia narrazione non ha pretese storiche. È semplicemente espressione del desiderio di riappropriarmi, attraverso la via della consapevolezza, di frammentarie tracce di
passato. Vorrei fare una chiacchierata, quasi come quella
del nonno che racconta al nipotino la “sua” storia, quella di
quando era bambino, in famiglia, a Valstagna.
Di quell’angolo della Valle del Brenta mi piacerebbe ritrovare, nutrito di curiosità e speranza, il piccolo tassello di
un quadro molto più ampio, un piccolo tratto di un percorso
molto più lungo.
Bastava un debole fischio perché Vincenzino si affacciasse alla finestra di casa sua, al ponte dei socialisti.
L’avevano chiamato così perché costruito dopo la Grande Guerra dalla locale Cooperativa Operaia. Vincenzino
scendeva subito e insieme chiamavamo Gastone. Dopo
aver raggiunto Giampaolo, Dino e Giampietro il gruppo si
allargava via via, per fare due passi dopo cena, non appena la stagione si apriva. E si apriva davvero “la Primavera
del 1945”, una stagione piena di novità e caute speranze.
Il ponte dei socialisti con la casa di Vincenzino
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Avvertivamo, anche se in modo confuso - non eravamo
che ragazzi dai 9 agli 11 anni - che si stava profilando un
periodo di risveglio collettivo, di cui si respirava già un’aria
di libertà e di convinta fiducia nel futuro.
Eravamo a maggio. Si andava, insieme agli adulti, a recitare il rosario intorno all’altare della Madonna. Ma noi, appena
possibile, dopo la preghiera prendevamo il largo. Andavamo
sino al ponte di Rialto per poi tornare in piazza. I luoghi preferiti restavano, però, il sagrato e la gradinata della chiesa,
dove potevamo sederci e scambiare quattro chiacchiere in
tutta tranquillità. Non potevamo permetterci di sicuro di andare al bar. Chi di noi disponeva di denaro? Ci accontentavamo
veramente di poco; si parlava del più e del meno: di sport, di
ragazze o di notizie riguardanti la guerra appena terminata.
Il più informato era Giampietro. Mica tutti avevano una
zia Giustina proprietaria di un panificio! Di solito attendeva il
momento dei saluti e del rientro per lanciare, mani in tasca
e andatura dinoccolata, la frase fatale: “Avete letto il giornale di stamattina?...” E allora tutti ad ascoltare con curiosità
la rassegna stampa serale.
Anche Gastone, la cui famiglia gestiva un’attività commerciale, lo seguiva, ma con la strana aria sorniona di chi
le cose le sa già.
Ci si scambiava qualche notizia sull’imminente elezione
del primo sindaco: si faceva il nome di Innocente Conte.
Talvolta la domenica pomeriggio, potevamo permetterci
anche qualche escursione in bicicletta. Erano uscite coraggiose, a volte spericolate. Spesso si partiva senza avvertire
i familiari, immersi come eravamo nella libera e spensierata
curiosità dei nostri anni giovanili.
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Un bel giorno pensammo di raggiungere Bassano del
Grappa.
Da Carpanè, attraversato il passaggio a livello accanto
al cimitero di S. Nazario, entrammo nella vecchia strada
Imperiale, non ancora asfaltata. La polvere sollevata dalle
nostre vigorose pedalate e di qualche rara auto ci imbiancò
ben presto come mummie.
Su e poi giù verso Solagna per imboccare finalmente “el
stradon”, il lungo rettilineo di Pove.
In lontananza si poteva intravvedere la città di Bassano:
la Porta delle Grazie, il Viale dei Martiri del ’44, una serie di
nobili palazzi allineati fino alle mura di S. Maria in Colle. Era
questa una vera icona del paesaggio, ora non più visibile
per la presenza invadente di tanti capannoni industriali.
Altra meta che richiedeva coraggio era la birreria di Pedavena, raggiungibile arrampicando lungo i ripidi tornanti
delle “scale” di Primolano.
La guerra era terminata da poco e lungo la strada principale, nei pressi di Cismon, si dovevano effettuare piccole deviazioni per superare alcune barriere appuntite in cemento armato. Le avevano costruite i tedeschi per bloccare
o rallentare l’arrivo degli anglo - americani.
Frequenti le scene di distruzione. Molte persone, lungo
il tragitto attraverso paesi e contrade, erano occupate a sistemare le loro abitazioni, dopo i danni della guerra. Altri,
in piccoli cortili, se ne stavano seduti su panche di legno di
semplice fattura. Ci si guardava, ci si salutava senza fermarsi.
Noi ragazzi raramente venivamo informati sugli accadimenti importanti del paese. Intuivamo tuttavia la presenza
di contrasti tra gli abitanti.
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Verso la metà del giugno ‘45, in una giornata calda e soleggiata, notammo, pur non comprendendone il motivo, un
certo via vai di uomini nei paraggi della sala dell’asilo. Si
stava svolgendo una riunione che riguardava solo gli adulti.
I quadri locali del Comitato di Liberazione Nazionale, in
accordo con la propria Direzione Provinciale, si incontravano per scegliere il nome di un nuovo sindaco.
Nel pomeriggio anche noi venimmo a sapere che il sindaco nominato da appena un mese e mezzo era stato sostituito da Domenico Gheno.
Il nuovo eletto, per le sue convinzioni politiche, durante il
periodo fascista aveva subito il confino prima a Ventotene,
poi alle Tremiti. In paese era considerato un personaggio
anticonformista. In tempi brevi anche Gheno venne sostituito da Giuseppe Scremin da Oliero.
Questi cambiamenti repentini permettevano anche a noi di
capire che esistevano in paese contrasti non di poco conto.
Un paese che lentamente riprendeva una vita normale,
ma che doveva, confrontarsi con una pesante eredità.
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Si riparte con coraggio...
Alla fine della guerra 1940 - 1945 a Valstagna si potevano contare circa tremila abitanti e una serie di vecchi e
nuovi problemi da affrontare. Ci si ingegnava in tutti i modi.
Riprendevano lentamente la loro attività il calzaturificio Vedove, dove mio fratello Aldo operava nel settore fresatura; qualche piccola impresa edile, il borsettificio Benetti, un
paio di avviate falegnamerie di proprietà di Cecilio Ferrazzi
in contrada Capovilla e di Gaetano Ferrazzi confinante con
il calzaturificio. Nella vicina Carpanè erano attivi il magazzino per il conferimento e la lavorazione del tabacco, una
cava di pietrisco, la segheria Ridolfi.
In segheria mi veniva consentito di entrare senza problemi, dato che mio cognato, Antonio Negrello, periodicamente mi voleva come compagno “di guida” del suo Fiat 626 nei
suoi frequenti viaggi al Passo del Broccon. Ditte specializzate nel taglio ed esbosco fornivano enormi tronchi di legno
resinoso, da trasportare poi a valle lungo gli stretti tornanti
della strada di Grigno.
A fianco della segheria, lungo il corso del Brenta, proprio
a confine con il ponte, continuava la sua attività un antico
maglio. Risuonano ancora nelle mie orecchie i nitidi colpi
per modellare il ferro. Qui vi lavoravano i fratelli Zannoni,
detti “Biasia”.
Tra i paesani, parecchi ripresero a coltivare il tabacco o a
tagliare e trascinare a valle la legna.
A molti adulti venne assicurata una precaria, seppur utile,
occupazione in cantieri di lavoro d’iniziativa pubblica. I lavori di ricostruzione post-bellica, (inizialmente sotto la guida di
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Dionisio Mocellin e Giobatta Celi e, in un secondo momento, di Spartaco Zilio di Bassano) interessarono in particolare la strada che da via Sette Comuni conduce a Foza.
Nei cantieri, denominati Fanfani, perché promossi dall’allora ministro del lavoro, l’attività si protrasse a lungo. Venne,
perciò, affiancato un servizio di cucina, allestita in contrada
Tovo. Vi lavoravano come cuochi Luigi Pontarollo, detto “Gigio Pau”, e Antonio Pontarollo da Costa. Addetto all’attività
esplosiva nei cantieri era un certo Aldo Zuliani, figlio del Ten.
Col. degli alpini Luigi, che, raggiunta l’età pensionabile, era
rientrato in paese da Trento con la famiglia.
Un pomeriggio di aprile degli anni cinquanta, quando il
sole incomincia ad illuminare la piazza dal monte Cimo, Aldo
fu protagonista di un tragico fatto. Assiduo frequentatore del
caffè Nazionale e accanito fumatore, compì la grave imprudenza di mettere le mani in tasca con il mozzicone ancora
acceso (era allora diffusa l’abitudine di fumare una sigaretta
a spezzoni per risparmiare). In tasca conservava dei detonatori. Il contatto col mozzicone provocò una violenta esplosione che lo dilaniò, uccidendolo quasi all’estante. La violenza
dello scoppio fu tale che fece tremare tutte le case vicine e
distrusse completamente il bar. Grave fu il danno per Rita ed
Orfeo Ferrazzi, gestori del locale, genitori di Pierpaolo, futura
medaglia d’oro di canoa slalom alle olimpiadi di Barcellona
del 1992.
Un tratto del Ponte di Rialto che collega Valstagna a Carpanè, era stato distrutto durante le fasi finali del conflitto.
Venne, perciò, ricostruito con urgenza, per consentire il collegamento con la strada statale e la ferrovia della Valsugana.
Ripresero anche i lavori di costruzione della centrale delle
Manifatture Marzotto di Valdagno in contrada Marini, lavori
che poi si conclusero verso il 1949. Per azionare le turbine
l’acqua del Brenta venne canalizzata in galleria da località
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Pianello di Enego. In concomitanza con l’attivazione della
nuova centrale di Cavilla a Cismon del Grappa, ancora in
destra Brenta venne realizzata dall’impresa Erminio Giolai di
Bassano una nuova galleria per raccogliere gran parte dell’acqua del Brenta e del Cismon canalizzandola da Collicello a S.
Gaetano. In quest’ultima località vennero completati nel 1951
i lavori di una nuova centrale per conto della Società Impianti
Idroelettrici di Vicenza (Acciaierie Beltrame). Queste impegnative opere richiesero, con turnazioni, un notevole numero
di minatori e carpentieri specializzati, dando così un significativo sbocco al grave problema occupazionale.
Si prestò inoltre molta attenzione alla sistemazione delle
malghe comunali, in modo che potesse avere inizio la regolare monticazione del bestiame.
Ai giovani si cercava di offrire una improvvisata formazione professionale. Nei locali del vecchio solarium (non
più adibito alla ricreazione e a prove ginnico-atletiche) fu
allestito un laboratorio di falegnameria.
I giovani più interessati all’apprendimento del disegno
tecnico ed artistico frequentavano invece alla domenica
mattina una speciale “Scuola Libera di Disegno”.
Il Prof. Francesco Ferrazzi (diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Venezia) ne fu fondatore e direttore. Ospitava
gli allievi in alcuni locali di sua proprietà in via Torre, ove ora
si trova il ristorante “Ai Calieroni”.
Al prof. Ferrazzi, primo fotografo del paese, va anche il
merito di aver lasciato, attraverso migliaia di lastre fotografiche, un eccezionale patrimonio di storia e di costume della
prima metà del ‘900.
Anche se realizzata con strumenti limitati, l’istruzione tecnica raggiunse ottimi livelli e attirò iscritti da tutti i paesi della valle.
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...tanti i problemi..
La laboriosità della gente, la ricostruzione, l’impegno per
la formazione dei giovani non bastavano tuttavia a consentire una ripresa adeguata.
La drammatica eredità della guerra lasciava laceranti ferite ancora aperte. Molti non erano tornati dal fronte e per
tanti nuclei familiari era svanita la speranza di riabbracciare
i propri cari, morti nel corso del conflitto. Ben 60 furono i
caduti, di cui 24 sul fronte Russo e una dozzina in quello
Greco - Albanese. Di alcuni dispersi non si ebbero più notizie, nonostante le ricerche.
La disoccupazione rimaneva assai elevata.
Per molti fu necessario intraprendere la via dell’emigrazione all’estero, come già era avvenuto nella nostra terra in
passato, in periodi diversi.
La povertà era diffusa, come pure il mercato nero. In Municipio fu istituito l’elenco delle persone bisognose (erano
circa duecento), anche per garantire un sostegno medico
- sanitario.
L’acquisto dei generi alimentari, per tanti nuclei familiari,
avveniva mediante il “libretto della spesa”, su cui venivano
registrati, di volta in volta, gli importi relativi agli acquisti.
Il pagamento avveniva parte in acconto, parte a saldo a
fine stagione, cioè alla consegna del tabacco in manifattura
o all’arrivo delle rimesse degli emigranti.
Erano anni di problemi e di sfide, ma tra le difficoltà della
ripresa iniziava, nella primavera del ’45, una pagina nuova
per il Paese. Per la prima volta la popolazione poteva godere di diritti mai conosciuti. Ci si avviava, sia pur lentamen-
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te, alla realizzazione di uno stato moderno, con votazioni a
suffragio universale.
Per la prima volta anche le donne avrebbero goduto del
diritto di voto! Diritti conquistati. Forse chi è giovane e proiettato verso il futuro faticherà a comprendere; sicuramente
chi è adulto riuscirà meglio a rivivere l’atmosfera di questo
mio semplice narrare.
Istantanee di vita.
Erano freddi e lunghi quegli inverni. Eravamo poco vestiti, e il legno o il “carro armato” riciclato da vecchi copertoni
non impedivano ai piedi di essere sempre gelati.
Per riscaldarsi bisognava stare in cucina, vicini alla stufa
a legna o al “fogolaro”, che non serviva solo a cuocere lentamente la polenta, ma riusciva ad illuminare tutta la stanza, diffondendo un magico tepore. Allo spegnersi del fuoco
si raccoglievano le braci nella “fogara”, un contenitore in
lamiera a forma di elmetto rovesciato (spesso era un vero
elmetto, e il più pregiato era quello tedesco). Collocato in
una leggera struttura di legno ovale (detta monega) veniva
infilato tra le lenzuola per scaldare il letto. Sotto le coperte
si stava bene, ma al mattino il ghiaccio creava sui vetri delle
finestre incredibili arabeschi. In casa ci si scaldava anche
perché si era in tanti.
In quegli anni, come già era accaduto negli anni trenta, si
era verificato un significativo incremento demografico.
In paese i nati raggiunsero una media annua di 100 unità;
i matrimoni furono una sessantina.
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... fare famiglia...
C’era tanta voglia di fare famiglia.
Le nuove coppie si adattavano a situazioni abitative modeste. Il loro sogno era di trovare un lavoro, di essere protagonisti di una fase nuova del proprio Paese e di avere dei
figli ai quali assicurare serenità e una pace duratura.
A nozze si andava spesso e volentieri. Il pranzo raramente si consumava al ristorante; prevalentemente si trovava
una soluzione in famiglia. Gli invitati si presentavano a casa
degli sposi al mattino per tempo: gli adulti consumavano
uno spuntino, per i bambini e le donne c’erano i biscotti
da intingere nel caldo cioccolato. Poi si formava un lungo
corteo con tutti gli invitati e ci si avviava verso la chiesa. In
testa la sposa con a fianco il papà o il fratello maggiore,
mentre le campane suonavano a festa.
La sera precedente il matrimonio i giovani, nei paesi e
nelle contrade della Valle, si attivavano per dare un forte
segnale, quale annuncio dell’imminente matrimonio. Un
segnale radicato nella comunità, di antica tradizione, ma
alquanto pericoloso.
Alcuni giovani, di solito amici dello sposo, si portavano
a buio inoltrato lungo il fiume Brenta negli spazi, già individuati durante il giorno, dove l’acqua formava delle pozzanghere. Si procedeva poi in silenzio ad allestire un piccolo
cantiere. Si prendeva un barattolo grande di lamiera, usato
per la conserva di pomodoro, e si produceva un piccolo foro
con un chiodo al centro del lato ancora chiuso.
Si depositava una buona dose di carburo nella pozzanghera. All’interno del vaso veniva inserita della paglia (serviva per assorbire progressivamente il gas che la carburazione avrebbe prodotto a contatto con l’acqua). Il contenitore
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che era stato posto in verticale, veniva ben premuto a terra
da un giovanotto già esperto. Per favorire la combustione
bloccava con un dito il foro e, al momento giusto, con accortezza e destrezza, girava in orizzontale il vaso. Un collaboratore avvicinava una torcia accesa al foro predisposto. Ne
seguiva uno scoppio violento e assordante. Era un “lavoro”
pericoloso, che molti giovani della valle facevano con scrupolo e una certa dimestichezza. Più forti e prolungati erano
gli scoppi, maggiore era l’augurio ai novelli sposi da parte
degli amici. E anche coloro che non avevano letto le pubblicazioni erano costretti a chiedere chi fossero i fidanzati.
Il senso della famiglia, e di una famiglia allargata, non si
esauriva nei festosi momenti della cerimonia.
Anche a distanza di tempo, pur se costretti a cercare
lontano opportunità di lavoro e di vita, forte era il bisogno di
rivedersi, di ritrovarsi.
Ricordo che da Torino, dove erano emigrati, vennero a
farci visita alcuni nostri cugini - Antonio e Leandro Fabris con rispettive consorti. Pranzarono con noi una domenica
in un clima sereno, ma non proprio festoso.
Alla sera la mamma ci confidò che erano tornati per restituire il denaro che il papà aveva prestato allo zio “Nei”
(padre di Leandro e Antonio), che nel gestire una pasticceria in paese si era trovato in difficoltà. Peccato che il denaro restituito corrispondesse a quello prestato e che, con la
svalutazione, non avesse quasi più valore.
Al tempo del prestito con quell’importo si sarebbero potuti comperare un paio di campi vicentini. Non ne facemmo
un dramma. Ma una forte amarezza rimase.
Il colmo della faccenda, che conobbi in tempi successivi, fu
che il papà firmò come garante anche una cambiale bancaria
per i debiti contratti dallo zio. Al verificarsi del mancato paga-
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mento del debito, il negoziante rivendicò il saldo dell’effetto
sottoscritto dal papà, il quale puntualmente ogni mese consegnò buona parte dell’importo della pensione che riscuoteva
dallo Stato quale invalido della prima guerra mondiale.
...fare festa..
La povertà diffusa non soffocava la voglia di vivere, di
giocare, di cantare. La preparazione per le grandi festività
era coinvolgente e viva era l’attesa.
Nella settimana antecedente il 17 di gennaio, festa di S.
Antonio Abate, si saliva sulla torre campanaria: le campane
erano suonate manualmente a concerto, per annunciare la
festa del santo patrono del paese.
Molto partecipati anche i riti della settimana santa, per
annunciare la Pasqua del Signore. La messa della Resurrezione si celebrava di norma al mattino del sabato e al
momento del Gloria le campane venivano slegate e fatte
suonare a concerto. Tutti allora accorrevamo verso il fiume
per bagnarsi la mano e fare il segno della croce.
La sera del venerdì santo con la processione lungo le vie
del paese tutta la comunità in preghiera si incontrava. Era
un momento molto suggestivo. Lumini accesi tremolavano
su tutte le finestre. Qualcuno esponeva delle tele con dipinte immagini sacre, corrispondenti alle dimensioni delle
finestre. La luce dall’interno contribuiva a dare alle facciate
una dimensione artistica e creava un’atmosfera particolare:
una scena in grande dei nostri presepi.
Grandi falò di rovi lungo il fiume e sulle alture circostanti,
accesi al passaggio della processione, davano solennità al
corteo e ai momenti di preghiera.
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A distrarre da questo silenzioso raccoglimento erano
i giovani, che non rinunciavano a partecipare ai momenti
salienti della cerimonia con il rumoroso accompagnamento
prodotto da “raccole” o “sbatteree” (rudimentali strumenti
in legno): in quei giorni di silenzio il gracidìo del loro suono
sostituiva con poca grazia quello delle campane.
Il gruppo di amici, con un ramo di ciliegio in fiore, al ritorno dalla scampagnata di Pasquetta. Si riconoscono da sx in alto: Benito, Gianpietro,
Dino, Gastone, Luigi, Antonio; accovacciati Gino e Giampaolo.
A Natale non mancava mai il presepe in ogni famiglia,
mentre non ho memoria della Messa di mezzanotte in quel
periodo.
Al termine del pranzo c’era sempre il panettone “Motta”,
un lusso, e la letterina dei buoni propositi.
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Alla sera all’asilo ci attendeva la recita dei bambini preparata per tempo dalle suore. I canti erano accompagnati con
rara passione dall’ armonium di “Isa Titee” (figlia del grande
maestro di musica G.B.Ferrazzi).
Il ricordo di quei bei momenti è conservato da molti con
nostalgica gelosia.
Fino a pochi anni orsono mio fratello Mariano, verso la
fine del pranzo natalizio, era solito alzarsi in piedi. Accostando una posata al bicchiere di cristallo, lo faceva tintinnare: tutti allora capivano che si doveva fare silenzio e
prestare la dovuta attenzione. Faceva poi un gesto rassicurante, come attendesse l’apertura del sipario. Ci teneva - e
a noi piaceva molto - ad intrattenerci ogni anno, riproponendoci con tono serio e professionale la poesia che, con tanta emozione, aveva recitato nella sala dell’asilo strapiena,
negli anni trenta:
“ La mamma mi ha dato una pera
perché la dessi a te stasera.
Ma lungo la via
una vocina in coro udìa.
La pera mangiala sciocchino
darai una bacio a Dio bambino...
Ah, che stolto!
Al diavoletto ho dato ascolto.
Ma ti prometto bambin diletto
che la prossima volta sarò sordo con il diavoletto ”.
Applausi!
Raccontava Mariano che, fermo in mezzo al palco, pur
accecato dalla luce dei riflettori, seguiva il lancio delle caramelle, che, una volta richiuso il sipario, si precipitava a rac-
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cogliere. Agli applausi dell’epoca aggiungemmo, per tanti
anni e con grande affetto, anche i nostri.
La stessa sala parrocchiale ospitò per molti anni altri importanti appuntamenti, come la recita per festeggiare l’ordinazione sacerdotale di qualche paesano. E le poesie augurali dei bambini dell’asilo non mancavano mai.
Indimenticabili le interpretazioni di un grande comico locale detto “Canocia”. Nome assegnatogli per via del suo
grande naso. Del ricordo non restano dialoghi articolati. A
lui bastavano poche battute, accompagnate da una mimica estremamente espressiva, resa ancor più efficace dalla
maestosa figura. Era uno spasso. Generazioni intere risero
per le sue rappresentazioni.
Bastava poco per ridere felici.
Chi visse quegli anni ricorda anche il “Carosello Aclista”:
una manifestazione a carattere provinciale durante la quale
gruppi in rappresentanza dei vari centri si confrontavano
per accedere alle fasi successive.
Gli spettacoli e i relativi allestimenti erano di tutto rispetto,
ma sempre conservavano la dimensione della spontaneità..
Le prove dei canti, dei balletti e degli spettacoli di varietà
si svolgevano con puntualità e rigore. Protagonisti e comparse partecipavano con passione ed entusiasmo collettivo. Il gruppo di Valstagna riuscì a superare tutti i confronti e
fu ammesso alla finale che si tenne al “Rivoli” di Valdagno.
Grande fu il successo anche dello spettacolo conclusivo, merito, in particolare, dei balletti coordinati da Miriam
Travan, oltre che delle “serenate malaguensi” delle sorelle
Marisa e Marilena Vettori. Ad accompagnare le varie esecuzioni erano due amici dalmati: con la chitarra Eraldo Della Via (che curò pure, in modo fantastico, la sceneggiatura)
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e Claudio Martinovich (detto Fulmine) con il violino. Era da
tutti soprannominato Fulmine perchè lo si vedeva sempre
attivo e di fretta, come una saetta temporalesca. Continuò
ad esserlo anche in seguito quando, trasferitosi a Bassano, svolse la sua attività di sostegno e di volontariato con i
giovani del patronato. Quando morì, con grandissima sorpresa lasciò a favore delle opere sociali e ricreative ben 50
milioni. In segno di riconoscenza la direzione del Centro
Giovanile Bassanese intestò a suo nome una confortevole
sala per conferenze e proiezioni (sua grande passione).
Veramente bravo! Non furono pochi in paese che nell’apprendere dell’atto benefico rimasero alquanto stupiti. Tutti
lo ricordavano per l’attività e l’intraprendenza, ma anche
per la sua parsimonia: lo si riteneva un nullatenente.
Oltre ai riti di preparazione al Natale e alla Pasqua, non
meno attese e affascinanti erano le festività di Capodanno (con gli auguri che facevamo di buon ora ai parenti, ricambiati con la “mancia“) e dell’Epifania: attendevamo tutti
l’arrivo della befana con i suoi “popetti” di dolce, la calza e
qualche regaluccio, che spesso spariva in giornata per essere poi riciclato l’anno successivo.
La festività di Pentecoste coincideva con la grande sagra
paesana.
Vi partecipava tanta gente, da tutte le contrade e dai paesi vicini.
Nel pomeriggio, in chiesa, durante le funzioni veniva allestita una recita, definita “la disputa”.
Consisteva in un dibattito, opportunamente preparato in
contradditorio, tra quattro giovani angioli su un tema religioso, che variava di anno in anno: un’occasione originale,
e molto seguita, per focalizzare l’attualità del messaggio
evangelico.
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Al termine, ad attendere i più piccoli c’era un grande parco divertimenti. Accanto a giostre con luci e musiche, non
mancavano mai il tiro a segno con la carabina e il gioco
della pallina, che un intraprendente personaggio faceva
scorrere, coprendola con una specie di campanella, con
fantasiosa velocità. Sembrava facile seguire il percorso, ma
sbagliavamo sistematicamente la puntata. Sempre presenti
anche le bancarelle coi giocattoli, i palloncini e i dolci, per
noi rari e prelibati.
Alla sera, infine, il momento forse più atteso, con il popolare gioco della tombola. Giovannin , l’impiegato comunale,
disponeva già nel primo pomeriggio i tavolini lungo le vie
principali del paese per la vendita delle cartelle. Il compenso riservato ai promotori della vendita consisteva in un paio
di biglietti per la giostra dell’autoscontro.
In un’atmosfera incantata, avvincente e festosa, Orfeo,
con un grande megafono, annunciava ad alta voce i numeri
estratti. Era compito di Giovanni “stradin” prendere una tabella con il numero estratto dal cassone, alzarlo con solennità e farlo vedere a tutti, piano piano, con molto scrupolo,
girandosi prima a nord, poi verso il centro della piazza e
infine a valle: una procedura davvero seria, tanto che le
operazioni erano soggette al rigido controllo da parte di un
funzionario dell’Intendenza di Finanza, che giungeva apposta da Vicenza.
All’apparire della tabella: “PAGABILE”, ci pensava l’ancora esistente e affermato complesso bandistico del paese
“G.B. FERRAZZI” a sottolineare, con squilli di tromba e rulli
di tamburi, i momenti della vincita dei premi.
Poi si rincasava o si andava all’osteria.
A quel tempo le osterie erano molte ed erano veramente
luoghi di aggregazione e... di perdizione.
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Tre si trovavano ad Oliero: Le Due Sorgenti della Emma
Negrello (famoso ed antico locale, dove verso la metà
dell’800, ospite del nobile Alberto Parolini, soggiornò la
scrittrice francese George Sand in visita alle già note “Grotte di Oliero” e dove con nostalgia si ricorda che l’ultimo prete della parrocchia giocava abitualmente a briscola con gli
avventori); quindi, nella strettoia, “La Madonneta” dei Gianese e, infine, quella del Talian (così chiamato per distinguerlo dal fratello che nel 1866 aveva preferito rimanere
nell’impero Austriaco in Valsugana), ad Oliero di Sopra.
Per chi arrivava in paese, ad accoglierlo tre locali molto
vicini tra loro: il Caffè Rialto della siora Maria, il Caffè Roma
di “Tony Mostacci” e la locanda delle sorelle Valente, dette “Gobbette”, sotto la quale c’era la sala “Cristallo” usata
alternativamente come cinematografo o sala da ballo, frequentatissima nel periodo carnevalesco. Quest’ultimo locale, che dava sul Brenta, è stato abbattuto negli anni sessanta, quando avvenne la provincializzazione della strada.
Di seguito si incontrava la trattoria “Al Monumento” della
Bianca Lazzarotto (Bega) e ancora il Caffè “da Toscano”,
con vicino la locanda “al Mondo“ della Nanina Grossa. Arrivati in piazza si poteva scegliere tra la trattoria di “Gigio del
Sol”, l’osteria di Toni Valente e il Caffe Nazionale.
Anche via Roma iniziava con un’osteria, quella dei “Sibo”,
a cui seguiva l’osteria di “Ginetto Masi”, ora rinomata gelateria del figlio Renzo.
Andando avanti trovavi l’osteria “Angin de Spizo” di Gaetano Ferrazzi con di fronte la trattoria della Giovanna
Gianese “Giovanea”. A completare questo lungo elenco le
osterie di Pierina Fabris (Bei) a Capovilla e della Marietta
alla “Villetta”.
Naturalmente anche ciascuna contrada a nord aveva il
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suo pubblico esercizio: Roncobello di Pietro Pontarollo, S.
Gaetano di Gigio dei Modesti, Sasso Stefani della Maria
Girardi, Giara Modon dei Pontarollo, Costa di Guido Cera e
a Collicello della famiglia Marini.
Igino Costa, detto “Ginetto Masi”, ritratto in un momento di riposo con
la moglie Maria. Sullo sfondo la pompa dell’acquedotto. Ginetto non
mancava mai alle sagre - anche sull’Altipiano - con il suo carretto da
gelataio.
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A quel tempo, entrando nei locali pubblici abilitati alla
somministrazione di bevande alcoliche, si poteva subito
notare in bella evidenza la tabella dei “GIOCHI PROIBITI”.
Il più popolare, e forse per questo dei più controllati, era il
gioco della “mora”. A sfidarsi erano due coppie, che, ad alta
voce, dovevano indovinare e chiamare il numero complessivo delle dita delle due mani mentre velocemente e con
furbizia le calavano sul tavolo.
Un arbitro, detto “stelletta”, aveva il compito di tener conto del punteggio e della regolarità della gara. Tanta era la
foga, la velocità e la caparbietà dei giocatori, che sul tavolo
molto opportunamente veniva stesa una soffice coperta per
non rischiare di ferirsi. Talvolta però il gioco si reggeva su
una vera e propria canagliata: le dita sul tavolo erano esposte con tale velocità che ne scaturivano spesso incomprensioni, contrasti e offese. Anche per questo all’esterno del
locale c’era sempre un complice che controllava che non si
avvicinassero le forze dell’ordine. Se tutto filava liscio tutti
insieme gli avventori cominciavano a cantare ad alta voce:
erano canzoni di guerra o di montagna, ma non mancava
mai quella dei minatori. Ad ogni partita chi perdeva doveva
pagare un litro di vino per i sei partecipanti alla sfida e per
tutta la compagnia. Gioca e bevi, bevi e canta. Lentamente
i cori si affievolivano e anche gli irriducibili prendevano la
strada di casa. Alla fine era facile immaginare quanto fosse
problematico alla domenica sera raggiungere casa, senza
guadagnarsi la predica della moglie.
È bene ricordare, soprattutto per i giovani, che solo alla
domenica si usciva di casa. Nei giorni feriali si usciva per
motivi di lavoro e per affari, ma alla sera potevano farlo solo i
benestanti. Questi frequentavano abitualmente il caffè Rialto,
dove si poteva giocare a carte (con in palio soldi) o a biliardo.
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Ed intanto fuori si udivano spesso melodiose serenate:
era un gruppo ristretto ed affiatato (Lucio Mialich, Enzo Vodopia, Mariano e Aldo Sasso, Luciano Zannoni e Antonio
Allegri), che si ritrovava spesso, sempre accompagnato da
Eraldo con la sua chitarra.
Il ricordo di Eraldo riporta alla memoria tante altre figure
singolari che animavano la vita del paese.
Non era cosa rara nel tardo pomeriggio della domenica
notare, ad esempio, un signore che stazionava nella zona
del monumento, Quest’uomo, vestito bene e abitualmente
con il cappello in mano, era solito cantare o recitare ad alta
voce per ore. Non si poteva non seguirlo. Un po’ alticcio,
ma dalla voce stupenda!
L’amico Giampietro riteneva che recitasse pezzi di D’Annunzio. Gastone scherzando insisteva che si trattasse di
pezzi d’opera.
Un pomeriggio si fermò anche un distinto signore, credo un profugo di Zara, il quale si inserì nei nostri discorsi
dicendo che si trattava del canto XXXIII del Paradiso della
Divina Commedia. Aggiunse che l’interpretazione era molto
buona. Chiese chi mai fosse il cantante. Se era un professore. Dino, che aveva un paio di anni più di noi, gli rispose:
“El canta anca ben, ma l’è un contadin”.
“Non importa niente” replicò il signore mentre si allontanava “Una gran bella voce e il canto recitato perfettamente”. Quella voce apparteneva a Piero Pontarollo, detto Pau.
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Tra botteghe, artigiani e bancarelle
Il Paese nel dopoguerra poteva vantare un antico negozio
di orologeria. Titolare ne era Angelo Conte, un signore anziano e preciso, che teneva laboratorio lungo la riviera Garibaldi.
Per riparare l’orologio di Bartolomeo Ferracina della Torre
Civica in piazza S. Marco bisognava ricorrere a Girolamo
Baù (detto Momi tacon), meccanico specializzato del calzaturificio Medoacus. Merita ricordare che d’inverno, quando
di primo mattino s’udiva il battito delle ore dal suono inconsueto, quasi ovattato, era il segno che stava nevicando: e ne
avevi conferma all’alba, quando con la prima luce scorgevi il
paese trasformato in bianco presepe per la gioia dei bambini.
Il gruppo di amici Zan, Vincenzino, Giampietro, Benito, Dino, Gino, Bepi
e Mario dinnanzi all’opera scultorea e allegorica realizzata con la neve
in piazza S.Marco
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Non mancavano in paese adeguati presidi medici, farmaceutici, ostetrici e veterinari. Anche i servizi per la persona
non mancavano. Ben tre i parrucchieri.
Antonio Bau’ (detto “tacon”, fratello di Momi) con negozio
al monumento; Toni Perli (detto Paghini), che esercitava nei
pressi della cartolibreria Ferrazzi, storico cassiere della locale squadra di calcio e indimenticabile tifoso interista.
Infine al monumento e, in seguito, nel vicolo in via Garibaldi (casa dei Signori), si trovava il salone di Toni Travan
con il figlio Luciano.
Tre barbieri con personalità diverse, ma tutti di nome Antonio e dal taglio abbastanza tradizionale. “Tacon” premuroso, ma di poche parole. Travan plateale e burlesco. Paghini, allievo di Travan, dialogante e dall’occhio attento. Lo si
andava a trovare anche per far “quattro ciacole”. Con lui ci
si confidava. Fece persino il Giudice Conciliatore.
Tre erano anche i panifici con il forno a legna. Il pane era
già pronto e fragrante nelle primissime ore del mattino. Al
monumento incontravi quello di Domenico Signori. Vicino
alla Banca Cattolica quello di Giustina Zuliani e in piazza
il forno di Vittorio Baù (detto Piste). Quest’ultimo si faceva
aiutare da mio fratello Beppi per la consegna del pane ai
vari negozi delle contrade e per distribuirlo, su prenotazione, a famiglie fisse: per alcuni mesi fui anch’io un suo valente collaboratore e devo ammettere che “il portare il pane
quotidiano” è stata una preziosa esperienza umana.
I negozi di alimentari non erano pochi e tanti prodotti (patate, formaggi, burro e uova) provenivano direttamente da
Foza e dall’Altopiano, specie il venerdì, giorno del mercato.
Con i carri, trainati da cavalli, alimenti e legname scendevano a valle; gli stessi carri ritornavano poi in montagna cari-
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chi di altri generi alimentari e in particolare di farina bianca
e gialla.
Immaginando di partire da Oliero di Sotto, il primo negozio che si incontrava era quello di Luigi Scremin, seguito, ad
Oliero di Sopra, dalla bottega di Aldo Conte (detto Singio).
Nei pressi del ponte Rialto vi era il negozio della Luigia
Pavan (detta Topa), più avanti quello dei Zannoni (detti Masaneta), in piazza quello di Innocente Conte. In via Roma
trovavi quello di Antonio Ferrazzi (detto Sibo) con la rivendita di sali e tabacchi; seguivano il negozio della Giovanna Gianese (Giovanea) e, infine, quello di Gaetano Costa
(detto Masi). Arrivando a San Gaetano incontravi il negozio
della famiglia Cavalli (detti Micel) e più su, a Sasso Stefani,
quello della Maria Lazzarotto.
A Costa esercitava Piero Cavalli, detto “Marietona”, che
provvedeva alla vendita sino alle contrade Valgoda, Stoner,
ecc. di Enego. L’ultimo era quello di Tito Mattana, in contrada Collicello.
Non mancavano due forniti negozi per la frutta e la verdura (di Costa e Pellin); due latterie di Basilio Gheno e della
Laura Pontarollo e la fiaschetteria di Orfeo Pontarollo.
Esisteva nel centro del paese persino un riparatore di
ombrelli dal nome indimenticabile: “Nei Bubù”.
Due erano le macellerie. Una in piazza gestita da Antonio
Valente, marito dell’insegnante Sonia Medici, e una seconda condotta da Isidoro Grossa in via Roma nella casa di
Faggion. Isidoro si spostò in seguito sull’altro lato, dove si
trova ora la macelleria, in un edificio di buona fattura, che
conserva ancora oggi elementi di marmo rosso, eleganti
barriere di ferro battuto e pavimenti di tipo veneziano.
La via Roma in passato era denominata via Rosta, per il
fatto che l’acqua del Brenta in parte veniva canalizzata per
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far azionare filatoi e segherie.
Qui abitavano dei Negrelli, una grande famiglia con diverse diramazioni. Di alcuni troviamo traccia nella chiesetta
centrale del cimitero del paese, costruita e utilizzata come
tomba di famiglia fino al ‘900.
In tempi precedenti un altro ramo di questa famiglia - che
abitava in via Giaron - si era trasferito nel Primiero: Angelo
Michele Negrelli divenne importante imprenditore curando
la fluitazione del legname lungo il Cismon e il Brenta, mentre la moglie gestiva una locanda. Il sesto figlio di Angelo
Michele, Luigi, si affermò come un valentissimo ingegnere,
esercitando l’ attività con successo in Austria, Svizzera e
Italia. Non assistette alla realizzazione del Canale di Suez,
ma ne progettò l’opera.(1)
La casa in cui erano vissuti i futuri “ Negrelli” mi richiama
anche il ricordo di una mia personale esperienza, di fresco
diciottenne.
A lato della macelleria del Grossa si trovavano dei locali,
dove un certo Cav. Giuseppe Pra teneva un recapito fisso
per la riscossione dei tributi.
(1) Dagli archivi di Valstagna i Negrelli risulterebbero iscritti con un
tipico cognome locale: Negrello. Più volte si è riscontrato che in coincidenza con emigrazioni di gruppo veniva adottato il cognome al plurale
(come è avvenuto per i Lazzarotto divenuti in Brasile, nello stato di
Santa Catarina , Lazzarotti).
Nel 1760 il padre di Angelo Michele, Nicolò, nato a Valstagna nel
1739, dal paese si trasferì prima a Primolano e quindi, in seguito al
matrimonio contratto con Anna Ceccato, in Primiero, dove come pare
mutò il cognome originario di Negrello in “Negrelli”.
Si veda: “Memorie di Angelo Michele Negrelli”, Quaderni Archivio
Trentino n. 13/2006. Luigi Negrelli “Un anno di vita”, Supplemento Archivio Trentino 1/1999”. Biblioteca di Primiero.
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Si trattava di un esattore privato che proprio in quel primo
dopoguerra gestiva le tesorerie e le esattorie dei comuni di
Campolongo sul Brenta, San Nazario, Valstagna, Cismon
del Grappa ed Enego. Non ricordo perfettamente come avvenne l’inizio del rapporto; sta di fatto che per quasi due
anni collaborai con il Pra, svolgendo le funzioni di autista
- impiegato.
Pagavamo gli stipendi al personale comunale, compreso
quello sanitario, e riscuotevamo i tributi dello stato e dei
comuni, che emettevano dei ruoli esecutivi vistati dall’Intendenza di Finanza. Ad ogni scadenza rateale ci spostavamo
nei vari comuni, dove ci erano stati assegnati appositi locali. Comunicavamo per tempo il nostro arrivo; talvolta per antica tradizione veniva suonata una campana o dato avviso
in chiesa. Effettuavamo gli incassi del prediale (tributo sulle
rendite dei terreni), della tassa di famiglia e delle imposte
sui fabbricati, sulle industrie commerci arti e professioni,
sulla locazione dei fondi rustici (le malghe), la vendita dei
lotti di legname dei comuni, i danni di guerra, quale rimborso dei prestiti effettuati dallo Stato per la ricostruzione dopo
la prima guerra mondiale, nonché i canoni dell’acquedotto
e sui livelli (masetti). Il titolare beneficiava di una percentuale sulle riscossioni (aggio) e dell’indennità di mora sui
ritardati pagamenti, in quanto alle scadenze fissate dai ruoli
era tenuto a versare gli importi (anche quelli non riscossi)
nelle casse degli enti.
Si trattò di una esperienza molto interessante. Faticosa,
perché la maggioranza dei contribuenti si presentava negli
ultimi giorni e bisognava rilasciare una ricevuta nominativa
con scritto ogni singolo tributo, l’anno di riferimento e l’importo relativo. I contribuenti erano buoni e pazientavano,
ma parlavano a voce alta. Emergeva a volte qualche pro-
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testa, per l’imposta di famiglia, che veniva applicata dalle
locali amministrazioni comunali. Era facile sapere, attraverso le pubblicazione dei ruoli, quanto pagavano i paesani e i
vicini di casa. Il confronto era subito fatto.
Ad Enego arrivavano dalle contrade il martedì, giorno di
mercato. Una anziana signora di Stoner (mi pare la chiamassero “Poja”) era solita venire all’ultimo momento coi soldi bene accartocciati. Era un sacrificio pagare, ma anche un
segreto! A parte un gruppo ristretto, la maggioranza dei contribuenti era povera gente, cosciente di compiere il proprio
dovere civico. Lo sportello rappresentava un balcone sulla
società di quel tempo: permetteva di coglierne gli umori e le
difficoltà. Imbarazzante talvolta era il mio ruolo, quale abilitato “Ufficiale Esattoriale” per le procedure coattive.
Il sabato, poi, era una giornata tutta particolare. Accompagnavo il titolare nel suo paese d’origine: Monteforte d’Alpone, in provincia di Verona. Appena arrivati, mentre io
completavo i controlli delle matrici contabili, il Cav. Pra partiva verso la piazza, dove al caffè Commercio incontrava gli
operatori agricoli. Si intratteneva con i contadini e con gli
imprenditori locali, tra i quali i Bolla, già affermati produttori
di buon vino. Al rientro mi raccontava che per aumentare la
gradazione facevano arrivare uva dal meridione, per mescolarla con la locale garganega; un’uva gustosa, dal colore dorato. Un centinaio di campi a vigneto di proprietà del
Pra nella zona denominata “Sopega” meritava l’attenzione
almeno del sabato mattina.
Ma riprendiamo il nostro percorso tra le botteghe della
valle.
Non esistevano grandi magazzini, ma in paese, oltre alle
bancarelle del mercato settimanale, dove spiccava quella
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di Passuello (diventato poi Magazzini Nico) potevi trovare
un’ampia merceria con reparto per le riviste e pubblicazioni dei Lazzarotto detti “Pastoreo” in riviera Garibaldi. Dove
ora si trova il Roby Market c’era un tempo una rifornita cartolibreria ed edicola, con all’interno l’antica tipografia dei
Ferrazzi detti “Titee”, distrutta dall’alluvione del novembre
del 1966. Altri due negozi ben forniti di tessuti, camiceria e
biancheria in genere si trovavano nella piazza proprio l’uno
di fronte all’altro: quello di Francesco Brino, al lato dell’ufficio postale, e quello della Luigia Calmonte, a fianco del
caffè Nazionale.
A confezionare i vestiti per le donne ci pensavano le diverse sarte e le rinomate sartorie di Antonio Ferrazzi detto
“Anto” in via Rialto, Amadio Negrello in vicolo Bravi e, per
gli uomini, Alfredo Torelli in un altro vicolo in via Roma.
Non tutti si servivano di questi capaci artigiani. La maggioranza si arrangiava nell’ambito familiare. Con l’aiuto di
una macchina da cucire (Necchi nel caso della mia famiglia) le mamme e le ragazze del paese, con la guida di
qualche mano esperta, riuscivano a confezionare discreti
capi di abbigliamento. Talvolta capitava che una manica
poteva riuscire leggermente più corta dell’altra e anche i
pantaloni potevano risultare troppo larghi o troppo stretti,
ma erano cose di poco conto.
Chi voleva rinnovare un capo di abbigliamento un po’
vecchiotto ricorreva alla Fernanda, a Costa, che si era specializzata nel rinnovare o cambiare il colore.
Quanto alle “barbierìe”, mica tutti le frequentavano! Tutte
le famiglie numerose erano dotate di una macchinetta manuale con la quale veniva praticato il taglio a “scodella”: metodo e strumento per assicurare alla capigliatura una certa
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omogeneità. Gli strappi ai capelli comunque erano scontati
e il rischio cessava solo quando ci toglievano il telo, avvolto
stretto attorno al collo.
In paese c’era anche un rinomato calzaturificio, il “Vedove”, ma i prezzi non erano alla portata di tutti. Capitava che
qualche paio di scarpe non riuscisse perfettamente e allora
veniva “ceduto” all’operaio responsabile a prezzo scontato.
Benvenuto Costa detto “Moena”, della contrada Costa, produceva artigianalmente calzature tipo scarponcino ed effettuava accurate riparazioni. Altrettanto abili erano Angin Ferrazzi
detto “Morga” e Marco Gabardo, detto “Pataton” o “Capitano”.
Questi erano i più conosciuti, ma con uno stabilimento
che occupava oltre cento persone nel settore calzaturiero
non era difficile arrangiarci a domicilio con buoni risultati.
Per la riparazione delle biciclette, allora il mezzo di comunicazione più diffuso, ci si poteva rivolgere alle officine
di Franco in via Roma o ai fratelli Tito e Cleto Brugiolo a
Carpanè.
Particolarmente importante per l’economia del territorio
era il laboratorio di lattoniere di Giuseppe Ceccon, leggermente a nord della banca Cattolica. Il locale non era molto
grande, ma disponeva di tutto il necessario. Per ovvi motivi
non era imbiancato; era talmente caliginoso che di più non
si poteva immaginare.
Rappresentava il punto d’incontro dei boscaioli e dei contadini in generale. Per affilare le mannaie di grande e piccola dimensione, i coltellacci per l’esbosco, le falci per la
fienagione era il massimo che si potesse desiderare.
Naturalmente costruiva e collocava le grondaie (non a
caso era chiamato “el bandetta”). Nel suo laboratorio era
bello fermarsi, anche per ammirare la forgia a carbone,
sempre in attività, con cui rendeva tenero il ferro da battere.
Si sostava volentieri, anche perchè il locale era sufficiente-
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mente tiepido. Giuseppe era un uomo alto e buono. Batteva il ferro sull’incudine con una pesante mazza, ottenendo
ottimi, direi artistici risultati. Aveva alle spalle una famiglia
numerosa e pia. Diede due figli alla Congregazione Missionaria dei Padri Bianchi: Ugo e Mariano.
Per quanti sceglievano l’attrezzo nuovo per i lavori agro forestali o di casa, il negozio di ferramenta di Silvano Grossa detto “Broca” era abbondantemente fornito, come lo è attualmente quello di Flavio Lovato, che ha preso il suo posto.
Lavori pubblici
A guerra conclusa, pur tra molte difficoltà, si era dato avvio alla ricostruzione e alla modernizzazione del paese.
Uno dei primi interventi promossi dall’Amministrazione comunale fu la costruzione della strada da Collicello a Piovega.
Poiché la sorgente del vecchio acquedotto in Val Frenzela non poteva assicurare sufficiente acqua, si avviarono
anche i lavori a cura della Cooperativa Edile locale - per la
creazione di una cisterna soprastante il Ponte Subiolo; era
alimentata dalla risorgiva vicino al fiume denominata “Fontana Moretti”.
Cominciarono poi i lavori di costruzione del nuovo edificio
delle scuole elementari a nord del campo sportivo, commessa assegnata all’impresa edile dei Fratelli Lorandi di
Villaverla.
A lavori ultimati, nel seminterrato del fabbricato trovò sede
una scuola professionale statale, quale sezione staccata
dell’Istituto Tecnico Arnaldo Fusinato di Schio. Al servizio di
segreteria provvedeva il personale comunale.
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Il nuovo fabbricato scolastico con il vecchio campo da calcio
Maturarono anche i tempi per la progettazione di una passerella che unisse le contrade di Costa con quella di S. Marino.
La passerella di Costa, costruita in sostituzione della vecchia barca,
venne distrutta dall’alluvione del 1966
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Si cresceva, incontrandoci attorno alla chiesa...
Eravamo poveri, ma intenso e condiviso il desiderio di
cancellare il tempo della fame. Lavoravamo con la speranza di migliorare la condizione individuale e di avviare insieme un riscatto sociale, collettivo. La parrocchia rappresentava in quel momento la sola forma di aggregazione. Attraverso le sue articolazioni, sempre più impegnate in forme di
patronato, forniva occasioni di formazione civile e sociale.
In tempi stretti sorsero varie organizzazioni sindacali e le
Acli, che in seguito diedero vita ad uno spaccio.
Un prete speciale...
Giunto in parrocchia a Valstagna nel 1944, l’arciprete
Don Oliviero Licini, si rese subito attivo come pastore d’anime nell’ultimo periodo della Resistenza. Seguì e incoraggiò
la nuova fase di ripresa e crescita, sensibilizzando giovani
e adulti verso i nuovi impegni che la società richiedeva.
Interpretò bene e coraggiosamente il suo ruolo di pastore, capace e intraprendente. Attraverso di lui tante persone
maturarono il bisogno di capire e di studiare i tempi nuovi,
per poi assumere la propria, concreta responsabilità.
Avevamo appena conquistato la libertà, ma le tensioni
erano presenti e palpabili. Si vociferava che molte armi si
trovassero ancora nascoste in gallerie, ma anche in “sicure
soffitte”. Le passioni sociali e politiche si facevano sentire.
Verso la fine del 1946 giunse con sorpresa la notizia della
partenza dell’arciprete tanto amato, da qualcuno temuto,
ma comunque da tutti rispettato.
La motivazione che circolava in paese era che avesse bisogno di recuperare un po’ di salute. Ma la verità era anche
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che l’aver affrontato un periodo così difficile e tumultuoso
avesse lasciato il segno.
L’arciprete don Oliviero Licini con i ragazzi della prima comunione
In sua sostituzione giunse don Lino Bonan, già parroco di
Taggì di Sotto, vicino a Padova.
Dopo pochi mesi il vescovo dispose anche il trasferimento del cappellano don Ubaldo Zanettin. Un prete che nei
giorni della Resistenza aveva seguito con tanto impegno i
giovani affiancando con estremo coraggio l’arciprete nell’ultimo periodo bellico sino alla Liberazione E anche dopo...
Al suo posto arrivò il nuovo cappellano: don Mario Zambelli.
Un prete dal temperamento scattante, deciso, ma, si direbbe, adatto a quei tempi.
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L’arciprete don Bonan in un primo momento lo accolse
con la sorella in canonica; in seguito gli fornì alcune stanze
al piano terra di casa Sartori, vicino alla scuola materna.
Una trasferta strana, ma che garantì al nuovo cappellano
quell’indipendenza di cui sentiva il bisogno.
Circondato da tanta gioventù disponibile ai suoi programmi pastorali, riuscì ad attivare un efficace centro operativo ed
organizzativo in occasione delle imminenti elezioni politiche.
Anche a distanza di anni mi sembra che la decisione assunta, da alcune istituzioni ecclesiali, di sostenere apertamente i
laici cattolici impegnati in politica sia stata una scelta saggia.
Assegnando al cappellano “attivista” un’abitazione così
defilata, fu possibile evitare l’ingerenza dei Comitati Civici
di Gedda e, nello stesso tempo, smorzare sul nascere alcune evidenti incompatibilità ambientali.
Anche nelle frazioni la presenza della chiesa si faceva sentire. Ad Oliero operava don Sante Franceschini, che durante
la guerra aveva dato ospitalità all’eroe Avv. Italo Cavalli.
A Costa don Guido Pescarolo, che aiutava i suoi parrocchiani accompagnandoli quotidianamente in ambulatorio
medico, all’ospedale o negli uffici per il disbrigo di pratiche
amministrative. Per racimolare un po’ di denaro esercitò
persino il contrabbando di sigarette. Un giorno venne fermato dalla guardia di finanza e denunciato. Ma per i paesani non fu uno scandalo.
Era frequente d’estate incontrare in paese anche alcuni
prelati, che vi tornavano a trovare i parenti e a godere delle
fresche arie della valle per un periodo di riposo. In particolare ricordo mons. Antonio Zannoni, grande ed indimenticabile educatore in quel di Thiene e direttore poi del prestigioso collegio Barbarigo di Padova. Nella piazza centrale si
poteva incontrare, con il dovuto rispetto, pure l’Arcivescovo
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di Benevento, mons. Agostino Mancinelli, metropolita della
chiesa campana, sempre curato ed elegante. Trovava ospitalità dai Sartori, famiglia d’origine della madre.
Nella stessa piazza, diretto all’arcipretale, passava spesso, sobrio e sorridente, il Vescovo di Carpi mons. Vigilio
Federico Dalla Zuanna, che alloggiava dal nipote Vigilio nel
vicolo del panificio. Egli, predicatore apostolico di due papi,
ministro generale dei frati minori cappuccini, medaglia d’oro
al merito civile del Presidente della Repubblica, fu convinto
sostenitore della sofferta esperienza della città della fratellanza di Nomadelfia di don Zeno Saltini, difendendone le
ragioni con la santa sede e il governo. (Vedi pubblicazione
del prof. Remo Rinaldi – sett.1992 Ordine F.M.C.)
Curata era la formazione e per i giovani dell’Azione Cattolica si organizzarono molti incontri di aggiornamento. La
frequentazione agli esercizi spirituali era costante. Si partecipava anche a incontri a carattere diocesano a Padova o
in quel di Torreglia.
Noi giovani alla domenica mattina frequentavamo corsi speciali di aggiornamento promossi a Bassano del Grappa dalle
ACLI. Il Prof. Pietro Roversi era il presidente dell’associazione.
Aveva partecipato attivamente alla Resistenza, divenendo più
tardi sindaco della città di Bassano. Assistente era il responsabile della FUCI locale, Mons. Antonio Dalla Riva. Altri incontri
vennero poi organizzati a Vicenza e a Tonezza. L’ideatore di
questi percorsi fu Mariano Rumor, già impegnato in politica con
ruoli importanti. Il responsabile provinciale era Gino Schenale.
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...alle urne!...
Nella primavera del 1946 si svolsero in tutto il Paese le prime elezioni amministrative che a Valstagna si tennero domenica 24 marzo. Era veramente un momento storico, importante per un ritorno autentico alla democrazia rappresentativa.
Erano in lizza tre liste di candidati e vinse nettamente
quella della Democrazia Cristiana. Venne eletto quale primo sindaco GioMaria Ferrazzi. Poi seguirono Ruggero Lazzarotto, Giosuè Signori, Vittorio Bombieri ed altri.
Il successivo 2 giugno venne effettuato il Referendum,
indetto per scegliere la forma istituzionale dello Stato e per
l’elezione dell’ Assemblea Costituente. Furono consultazioni particolarmente significative per la nuova stagione della
storia del nostro Paese. Il Referendum sancì la nascita della Repubblica e venne eletta la nuova Assemblea Costituente con piena legittimazione popolare.
Per boschi e masiere...
Quel poco di bosco che era sopravissuto al periodo bellico permise a molte famiglie la ripresa del taglio del legname
nell’ambito dei propri “masi”. Collocati a mezza costa erano
difficili da raggiungere per la forte pendenza e la mancanza
di strade.(2) Per completare un buon carico di legna si sconfinava quasi abitualmente nei boschi del demanio civico,
cercando, per quanto possibile, di evitare incontri con la
guardia forestale, particolarmente vigile e presente in zona.
(2) Spesso, quando non era possibile tracciare nuovi percorsi, venivano installati “fili a sbalzo” (Rudimentali teleferiche)
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Per il trasporto del legname dall’Altopiano si continuava ad utlizzare la Calà del Sasso. Il percorso terminava a Fontanella, in val
Frenzela: qui sostava abitualmente quasi un centinaio di carretti.
Servivano per trasportare il materiale in paese, dove il
legno era ceduto ai commercianti, ai privati e ai panificatori.
Stava invece ormai tramontando il tempo della produzione del carbone con il classico “Pojato”.
Per trainare il carretto (vuoto) dal centro abitato lungo la
strada di fondovalle, piena di ciottoli e ghiaia, la fatica, per
i bambini che vi si dedicavano, era tanta. Particolarmente
ripidi i tratti di via Sette Comuni e “l’Arto della Serra”, luogo
poco distante dalle gallerie che i recuperanti adoperavano
per far brillare i residuati bellici.
Altra risorsa che dava da vivere a vari nuclei familiari erano
le malghe per l’alpeggio del bestiame. Venivano assegnate
con asta pubblica a coloro che, entro il termine dello spegnimento per consumazione di una candelina accesa all’inizio
della seduta, avevano offerto il prezzo più conveniente.
La malga Lobba da tempo era gestita dalla famiglia Costa (Ten). Quella di Col dei Remi di Sotto dai Lazzarotto dei
Giaconi. Col dei Remi di Sopra era condotta dalle famiglie
Costa (Cencio Prete) e Pontarollo (Menini).
A Valchiama trovavi Vincenzo Pontarollo (detto Crico). A
Col della Berretta c’erano i Negrello di Oliero di Sopra (Valentini); alle Pozzette, Passuello di Conco (detto il Mani). A Melago e Col Novanta i Pesavento di Asiago. A Silvagno c’erano
dei padovani di Abano. Nella malga privata di Col d’Astiago i
Cavalli di San Gaetano - Sasso Stefani detti i “Modesti”.
La mezza costa era ancora abitata e i sentieri di collegamento erano molto stretti ma ben tenuti (li chiamavamo
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“trodoj”). L’erba magra e lo strame venivano tagliati per le
necessità della stalla.
Abitualmente si saliva alla montagna percorrendo diversi
itinerari. Coloro che abitavano ad Oliero di Sotto e di Sopra
utilizzavano le mulattiere soprastanti le Grotte di Oliero per
raggiungere le Pozzette e il Col della Berretta. Quelli che
abitavano da contrada Londa sino al ponte Subiolo percorrevano la Val Frenzela per portarsi sull’Altopiano, con diramazioni per la Val di Gallio e della Val Vecchia. Gli abitanti
da S. Gaetano fino a Collicello gravitavano verso il Sasso
Rosso, la Valgadena, la Val Capra e la Valgoda. In forma
associata venivano utilizzati anche i “roversi” (livelli del comune di Enego).
Di fatto per le rispettive vicinanze si verificava una pacifica suddivisione territoriale, come pure consolidata era
la consuetudine di collaborare alla ricostruzione dei muri a
secco (masiére).
Già dalla metà dei Seicento i canalotti si dedicavano alla
coltivazione del tabacco, ma in forma mal tollerata dalle autorità della Serenissima Repubblica. Si dovette attendere il
24 novembre del 1763(3) per la sottoscrizione degli accordi
di coltivazione e vendita del tabacco nostrano tra lo Stato
Veneto e le contrade annesse dei Sette Comuni: Valstagna,
Oliero, Campolongo e Valrovina.
Soltanto nel 1817 l’Imperatore d’Austria Francesco 1° accordò il privilegio della coltivazione del tabacco anche ai
comuni situati in sinistra Brenta.
La coltivazione di questa pianta comunque era molto fa-
(3) Archivio Stato di Venezia, Registro Senato Terra Tabacco MDCCLXIII, 24 novembre, in Pregadi (F.Signori: da documento originale del
suo archivio privato)
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ticosa e gravata dalla regìa della Repubblica Veneta e dei
governi successivi che controllavano con i finanzieri e propri operatori che i piccoli campicelli fossero tabellati: doveva essere indicato il numero progressivo, il numero delle
piante messe a dimora e le foglie delle piante medesime.
Un lavoro da schiavi! In autunno i comuni esponevano un
avviso perché i coltivatori potessero eleggersi un proprio
rappresentante (perito), esperto e adatto per la stima della
qualità del prodotto conferito.
Era una primitiva forma sindacale, ma i benefici non corrispondevano mai a quanto richiesto. Comandava lo Stato
sovrano.
I lavori di movimentazione del campo con l’interramento
del letame, avvenivano per tempo. Quando poi molti uomini
andavano a fare la stagione all’estero, al resto del lavoro
provvedevano in prevalenza le donne, che trascorrevano
molte ore nei campi, talvolta con il bambino più piccolo fasciato e allacciato al petto.
Per avere un’idea della diffusione intensiva della coltivazione del tabacco basti ricordare che alla fine dell’800
venivano coltivate oltre 15 milioni di piantine. La superficie
si estese verso i boschi, ricavando terrazzamenti che, se li
volessimo immaginare linearmente, supererebbero i duecentotrenta chilometri.
La coltivazione del tabacco, sempre più faticosa e poco
remunerativa, continuò a diminuire sino al secondo dopoguerra, quando fu decisa la liberalizzazione.
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Casa di mezzacosta dei “Tomasoni” in contrada S. Gaetano, circondata
dai tipici terrazzamenti
Il museo etnografico “Medio Canal di Brenta” di Valstagna illustra con dovizia di dati la storia del tabacco e relativi
fenomeni, compreso il contrabbando.(4)
Una straordinaria riforma.
Una riforma, che ha dello straordinario, venne approvata
negli anni cinquanta, mediante l’istituzione della cassa mu-
(4) “Uomini e paesaggi del Canal di Brenta” a cura di Daniela Perco,
Mauro Varotto, Franco Signori, Antonio Bonato, Katia Occhi e Giuseppe Benetti - Comune di Valstagna - Edizioni Cierre - Verona 2004.
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tua comunale a favore dei coltivatori diretti, che fino ad allora ne erano sprovvisti. Il nuovo servizio di mutualità ebbe
inizio senza tassare i poveri contadini, ma assicurando loro,
senza fondo speciale, l’assistenza mutualistica.
Ne trassero beneficio anche i nostri comuni, perché le
spese per i ricoveri ospedalieri per i non mutuati, venivano
addebitate all’amministrazione comunale di competenza,
salvo rivalsa!
Qualche anno dopo si diede avvio alla previdenza. In
questo caso pagando un modesto importo per l’iscrizione
al Servizio Contributi Unificati in Agricoltura. E così si deve
dar atto che senza tanto clamore era fatta giustizia nei confronti di una categoria di lavoratori spesso sfruttata e anche
dimenticata.
Il legame con il mondo rurale.
La mia famiglia fin dai tempi antecedenti la seconda guerra coltivava in affitto un piccolo appezzamento in contrada
Lebbo. Vi ricavavano una buona produzione di tegoline e
fagioli. Verso gli anni cinquanta si decise di comperarlo, sia
per continuarne la preziosa coltivazione, ma anche perchè a
quel posto, circondato di una modesta area boscata, eravamo ormai tutti legati. Con il fratello Aldo e mamma fu avviata
una radicale sistemazione. Effettuammo pure una piantumazione di abete rosso nella parte alta al confine del “Cason
di Pierone”. Aldo cominciò a ricavare un piccolo rifugio per
gli attrezzi, che poteva servire anche come ricovero in caso
di cattivo tempo. Ben presto mi resi conto di non poter dare
l’aiuto necessario: si decise, così, di spartire la proprietà.
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Ma la passione per la terra non cessò.
Olivo Signori mi propose di comperare un campo e una
particella di bosco nella zona del Tovo. Il luogo aveva anche una bella denominazione: “Pian dei Sessia”. Il nostro
soprannome. Affare fatto. La mamma incominciò a coltivare gli ortaggi. Io misi a dimora piante da frutto. Fissai sul
terreno dei pali di cemento per tendere i tralci del vigneto,
piantato in precedenza. La striscia di terreno inferiore era
in buono stato e fertile, ma quella superiore, più estesa, era
dura. Più che il badile adoperavo il piccone.
A Foza si stavano sviluppando grandi allevamenti di polli
e vedevo spesso transitare dei camioncini di letame. Pensai subito di ordinarne un carico, che depositai in uno spazio limitato a fianco della strada. Incominciai a caricarmi
qualche secchio con l’aiuto del bigòlo. Ma la fatica era enorme e solo al sabato potevo dedicare qualche ora a questa
attività.
Un bel giorno vennero a cercarmi dei cantonieri della provincia. Mi diffidarono e mi imposero di eliminare il letame
che con la buona stagione stava impestando la zona. Se
non avessi trovato la comprensione e l’aiuto concreto di
Egidio Ferrazzi e la collaborazione di Bruno Moro non so
come me la sarei cavata.
Nonostante questi inconvenienti al “Pian dei Sessia” mi
ero proprio affezionato.
Da lassù potevo osservare la torre civica con l’antico orologio, il passaggio e la sosta dei treni diretti a Trento o a
Venezia, la strada statale con il suo traffico sempre più intenso. In particolare nelle serate estive. Potevo seguire la
costruzione del nuovo magazzino tabacchi: nasceva pro-
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prio nel momento in cui stava per cessare la coltivazione.
Dall’alto riuscivo a scorgere in modo distinto personaggi
caratteristici del paese. Nicola che aspettava i clienti davanti alla stazione, munito della sua caratteristica pipa.
Con il basco in testa un emigrante, ritornato in paese dalla Francia, trascorreva il suo tempo passando da un’osteria
all’altra. Era sempre allegro, non disturbava nessuno. Non
aveva un soprannome accattivante: lo si chiamava “Morte”.
Intravvedevo dall’alto anche la Rosina, povera donna, un
tipo inquieto dalle battute taglienti. E poi Sebastiano Lazzarotto, detto “Nano Stramassaro”. Rappresentava un caso a
sé: girava spesso in bicicletta e nella buona stagione quei
quattro buontemponi che frequentavano la piazza si divertivano a nascondergliela o ne bucavano una gomma, facendolo disperare.
Appena sotto la mia proprietà, sopra il ponte dei “Vaegoni”
vedevo spesso la “Nea Bocia”. Camminava, ma sembrava
che non appoggiasse i piedi per terra, tanto era sottile, silenziosa, assorta. Portava una gonna che le copriva i piedi.
Quando incontrava un giovane, si fermava sempre, quasi
a volerlo interrogare. Era capace di dirgli in quattro e quattrotto il giorno, il mese e l’anno in cui era nato. Un fenomeno umano impressionante! Una vera anagrafe “ambulante”.
Costretti ancora ad emigrare...
Negli anni immediatamente successivi all’ultima guerra,
allo scopo di facilitare l’occupazione, i patronati organizzavano, con il sostegno e la collaborazione degli enti locali,
numerosi corsi di formazione professionale (falegnami, mu-
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ratori, carpentieri) o di aggiornamento culturale.
Erano rivolti, in particolare, a facilitare l’inserimento nel
nuovo paese per quanti intendevano emigrare.
Altri incontri teorici e pratici per muratori e carpentieri riguardavano in modo specifico giovani, pronti a raggiungere
i diversi paesi europei, Svizzera e Francia in particolare.
Emblematica immagine di un gruppo di minatori valstagnesi in Francia sulla cima del monte Galibier. Da sinistra alcuni sono riconoscibili:
Marco Gabardo, Giovanni Pontarollo, Pietro Ferrazzi, Domenico Sasso
detto “Meni Sessia” e Antonio Zannoni.
Questi giovani, provenienti dai vari paesi della vallata e
dei paesi di montagna, rientravano in famiglia nel tardo autunno, per la sospensione dei cantieri o perché tenevano
un contratto stagionale. Era tradizione per quelli delle contrade di S. Gaetano, Sasso Stefani, Costa, ecc. incontrarsi
nella giornata successiva al S. Natale per partecipare alla
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messa e radunarsi all’asilo per una bicchierata e cantare...
Era un modo spontaneo per condividere la gioia del ritorno
a casa , nel proprio paese. Ma era soprattutto un segno di
appartenenza e comune identità, dopo le tante incomprensioni incontrate all’estero.
In una di queste circostanze nacque l’originale idea di
fissare un appuntamento annuale e si avviò la costruzione
di un piccolo capitello da dedicare a Santo Stefano nella
contrada di Sasso Stefani. Un capitello che alla fine divenne un vero e proprio oratorio, dove ogni anno nella festa di
santo Stefano l’intera comunità si riunisce per una messa in
ricordo di tutti gli emigranti.
Foto dell’inaugurazione della chiesetta. In piedi si riconoscono da sinistra:
Lazzaro, Giannino, Camillo, Elvio, l’on. Onorio Cengarle, Antonio Sasso, il sindaco
Baldassare Fontana, l’arciprete don Lino Bonan e Gigetto. In basso: Giuseppe,
Aldo, Alessandro, Pietro, Marino, Pierino, Antonio, Nereo e “Stea Rossa”.
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L’emigrazione, purtroppo, per i paesi della Valle è stata
una costante.
Al compimento del diciottesimo anno di età “i costritti”
erano chiamati alla visita di leva. Era un appuntamento
importante. E quindi gli incontri, le cene e le feste erano
frequenti, anche con tutte le coetanee. Ci sentivamo già
uomini. Il servizio militare creava però non pochi problemi
per coloro che si recavano all’estero per motivi di lavoro.
Il più delle volte, la partenza era il frutto di una scelta individuale, in qualche caso era l’intero nucleo familiare a deciderlo. Accadeva proprio come alla fine dell’ottocento, seppur in condizioni migliori, perché c’era talvolta un parente o
un conoscente che da lontano incoraggiava a compiere “il
passo” o si prestava per far ottenere un regolare contratto.
Molti andarono a Bolzano e a Torino, dove trovarono facilmente lavoro.
Gli emigranti si dividevano in due categorie: gli stagionali,
che di norma rientravano a casa durante la stagione invernale - prevalentemente indirizzati nei paesi europei - e gli
altri, che, pur con l’intenzione di far ritorno, si erano diretti
verso il Canada, l’Argentina e l’Australia, e qui si erano fermati.
Tra le tante esperienze di distacco ricordo l’incontro, in
piazza centrale, con il mio coetaneo Giovanni Pontarollo,
detto Zan. Teneva una bisaccia su di una spalla e sull’altra la sua amata chitarra, che sicuramente gli avrebbe fatto
compagnia, specie nei momenti più tristi. Non aveva altro
ed era in partenza per il Canada. Sorprendente sino ad un
certo punto questa partenza. Un saluto cordiale, ma segnato da profonda tristezza.
Lasciava qui, soli, i genitori. In anni successivi fece ritor-
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no in paese più volte. In occasione di uno di questi rientri,
accompagnato da moglie e figlie, convinse l’amico pittore
e chitarrista Eraldo Della Via a realizzare un suo sogno:
raffigurare sulla facciata della casa di Col Mezzorigo, in posizione stupenda sul paese e sul fiume, la “sua “ partenza
per il continente Americano. Zan abita ora nell’Ontario, ma
ritorna ancora al suo paese d’origine. Ci siamo sentiti che
non è molto.
Una storia che si è ripetuta per tanti altri miei coetanei.
Anche Dino Costa dalla Valgadena se ne è andato in Canada. Marino Pontarollo in Argentina. Per la Svizzera partirono, Benito Costa, Aldo Marini, Paolo Negrello, Giuseppe
Moro.
I più per la Francia: Lucio Dalla Zuanna, Vittore Costa,
Imperio Costa, Domenico Mattana, Giovanni Costa, Giovanni Imbro Lazzarotto. Sono quelli che meglio ricordo perchè della mia stessa età. Purtroppo era un fatto di normale
necessità.
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Attuale facciata della casa di Zan Pontarollo, a Col Mezzorigo con l’affresco che illustra la sua partenza per il Canadà.
Negli anni cinquanta fu istituito anche un corso di lingua
inglese per quanti, locali e profughi dalmati, intendevano
emigrare in Canada o in Australia.
Durante uno di questi corsi si verificò un episodio che
narrerò più avanti.
Le serate, programmate con serietà ed impegno, prevedevano un approccio preciso, funzionale, allo scopo di evitare ai partenti emarginazioni o speculazioni all’arrivo nel
nuovo paese.
Le lezioni si svolgevano nell’aula principale delle vecchie
scuole. Il docente, un sacerdote: Prof. Antonio Segafredo,
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originario di Gallio.
Raggiungeva il paese da Bassano, in treno e talvolta con
la propria vespa. Aveva una dizione perfetta. Per molti anni
aveva insegnato in Inghilterra, all’Università di Oxford.
Oltre ai paesani si iscrisse anche un nutrito gruppo di profughi dalmati, sfollati dalla città di Zara nel 1943.
Tra gli iscritti anche un certo Osvaldo Pontarollo, detto
Aldo, con sua moglie Rosy, originaria di Bressanone, che
espatriarono poco dopo per la città di Toronto in Canada.
La partenza era sempre una grande sofferenza sia per
chi se ne andava, sia per i genitori anziani e gli altri familiari
che restavano. Al mattino presto, quand’era ancora buio,
quasi come i contrabbandieri di tabacco, venivano accompagnati fino a Bassano del Grappa, dove abitualmente la
Compagnia di Navigazione Tosin, con sede in Via Vittorelli,
organizzava un pullman diretto al porto di Genova.
Molti in paese ben ricordano il ritorno, dopo una diecina
d’anni, di Osvaldo Pontarollo della “Villetta” alla guida di
una nuova fiammante spider rossa (fatta sbarcare nel porto
di Genova).
Era talmente lunga che al ponte Rialto dovette, anche per
l’emozione, effettuare più manovre per immettersi in riviera
Garibaldi, la via principale del paese.
Era la dimostrazione che il Pontarollo aveva ottenuto i
risultati attesi. Aveva “fatto fortuna” e intendeva, con comprensibile orgoglio, farlo sapere ai suoi paesani.
Piccole cose, ma significative per quanti vivevano nelle
ristrettezze in Valle.
Osvaldo fece poi ritorno in Canada dove aveva la sua famiglia. Negli anni novanta perse la moglie e di lui si ebbero
notizie solo nel 1997.
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Ed ecco l’episodio che avevo annunciato. Osvaldo nel
periodo finale della guerra si era innamorato di Aurora Pagan, detta Lola, una bella ragazza profuga dalmata. Era
giunta in paese con la famiglia e con qualche centinaio di
zaratini disperati, in fuga dai bombardamenti sulla città dalmata, alla ricerca di zone più sicure e amiche.
Il loro fu un amore contrastato dalla famiglia di lei, che non
riteneva “dignitoso” un matrimonio della figlia con Osvaldo,
giovane, bello, ma solo... operaio.
La determinazione dei Pagan fu tale da indurli a trasferirsi, con la figlia Aurora, in altri luoghi e, successivamente,
ad emigrare definitivamente in Australia, a Sydney. Anche
Osvaldo espatriò nel Nord America a Toronto.
Passarano gli anni e, attraverso i canali d’informazione
tradizionali (parenti e conoscenti) il Pontarollo venne a sapere che pure la sua Lola era rimasta vedova. Si attivò allora per poterla rivedere e la contattò per via epistolare. Un
bel giorno affrontò un lungo volo aereo: Toronto - Melbourne.
Ma emozione e agitazione furono troppo forti. Proprio nel
momento tanto atteso, quando, apertosi lo sportello dell’aereo, stava mettendo i piedi sui primi gradini della scaletta
s’accasciò a terra, colpito da infarto. Solo l’immediato intervento e il rapido trasferimento in Ospedale, evitarono il
peggio.
Rimase ricoverato un paio di mesi, ma alla fine uscì ristabilito. Comprensibile la preoccupazione della signora Aurora Pagan Raicevich, detta Lola, che lo raggiunse immediatamente e lo assistette pazientemente finchè si riprese.
Sydney era ad un migliaio di chilometri di distanza dall’ospedale. Lola trovò ospitalità da una connazionale, anzi da
una “paesana”: Elisabetta Negrello ved. Moro originaria
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dalla contrada Mori, a un tiro di schioppo dalla “Villetta”, la
casa natale di Osvaldo.
Quando si fu ben ristabilito raggiunsero insieme Toronto,
dove vissero serenamente per molti anni.
Nel primo anniversario del loro matrimonio tornarono in
paese, proprio d’estate, quando gli emigranti rientrano numerosi. Familiari e paesani condivisero la gioia di un sogno
realizzato: quello del loro primo amore, sbocciato durante
la guerra, lei sedicenne e lui ventenne, e riscoperto in modo
rocambolesco dopo ben cinquant’anni.
L’emigrazione si inserisce a pieno titolo nella storia del
Paese, che celebra quest’anno i centocinquant’anni della
sua unità. Basti pensare che il Veneto, dalla fine dell’800
alla metà del novecento, vi ha contribuito con ben tremilioni
e duecentomila emigranti.
Voglia di novità e di democrazia...
In modo quasi inconsapevole si stavano costruendo le
basi per un lungo periodo di pace e di sviluppo e si creavano spazi per valorizzare l’entusiasmo dei molti giovani
presenti in paese.
L’interesse sociale e civile e la voglia di democrazia erano forti, pur nella diversità ideologica.
In valle la presenza della sinistra era significativa. Alla domenica in paese veniva recapitato puntualmente il giornale
l’Unità, mentre l’Avanti arrivava per posta.
Per noi più giovani c’era “Il Vittorioso”, che riscuoteva tutto il nostro interesse e stimolava la fantasia.
Appena letti i racconti settimanali già pensavamo all’edizione successiva. Jacovitti dominava la scena, ma avvin-
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centi erano i servizi sul calcio e il ciclismo. Storiche le puntate sulla storia dell’alpinismo.
In un baleno ci trovammo ad affrontare la più importante
consultazione politica del Paese: Domenica 18 aprile 1948
si effettuarono le prime votazioni per l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Intensa fu la
campagna elettorale, coi comizi del Professor Di Gallo e la
presenza in piazza di Rumor, Tosato ed altri.
Ricordo che i manifesti coprivano gran parte delle facciate
delle case. Persino i locali che ospitavano i seggi elettorali
erano interamente tappezzati dalla propaganda elettorale
dei vari partiti contrapposti. Di notte talvolta la propaganda
già affissa veniva coperta con altra di ispirazione opposta. I
gravi problemi che la politica viveva a livello centrale erano
captati e interpretati anche in periferia con vivacità e a volte
con durezza.
La preoccupazione era diffusa.
Il confronto - scontro si risolse con il successo della Democrazia Cristiana e dei partiti laici minori e fu un bene per
il Paese, perché fu veramente l’inizio di un lungo periodo di
pace, sviluppo e progresso.
Nei miei ricordi quelle elezioni di aprile coincidono con il
passaggio del Giro d’Italia a Carpanè.
Il gruppo dei corridori sfrecciò scortato dai motociclisti
della stradale e preceduto da una lunga carovana di vetture
con cartelli e manifesti pubblicitari.
Dopo il passaggio stavo ritornando verso il ponte quando
notai un grande cartello, simile a quello che avevo visto
poco prima esposto nel curvone del passaggio a livello. A
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grandi lettere vi era scritto:“Gino vinci il Tour”.
Chiesi ad Orfeo cosa volesse significare ed egli, sorpreso per la domanda, mi rispose sorridendo: “El Tour el xe el
prossimo giro de Francia”.
Era il Tour che Bartali, nel successivo mese di luglio,
avrebbe vinto per davvero!
Costruì il suo successo imponendosi nella importante
tappa alpina di Briançon, proprio in coincidenza con l’attentato a Togliatti; l’entusiasmo, che la sua impresa suscitò,
contribuì a rasserenare nel Paese il clima di scontro che
faceva temere l’inizio di una vera e propria guerra civile.
Il ciclismo, già passione diffusa, si trasformò in mito.
Volevamo tutti poter ammirare da vicino i grandi campioni. Cogliemmo l’occasione del Giro del Veneto. In compagnia di alcuni cugini, prendemmo la bicicletta e ci arrampicammo lungo i tornanti che conducono all’Altopiano.
Raggiunta località Cesuna di Roana, ci appostammo in
un luogo strategico, a lato di un tratto particolarmente ripido
della strada che allora non era ancora asfaltata. Fummo
premiati: in testa al gruppo potemmo ammirare Coppi, Bartali e Magni (in maglia rosa): Ritornammo a casa più che
soddisfatti.
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Gino Bartali in piazza S.Marco circondato da un gruppo di sportivi locali. Riconoscibili Gianni Sasso, Lorenzo Scotton, Piero Costa, Gigetto
Moro, Benito Sasso, Egidio Ferrazzi.
Come molti miei amici, oltre al ciclismo praticavo anche
altri sport, quali il calcio e l’atletica leggera.
Quando la prima squadra dell’Unione Sportiva S.Marco
giocava in casa mi rendevo utile andando ad affiggere i manifesti nelle varie località della Valle. Raggiunto Contarini
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attraversavo il Brenta su una vecchia barca, da molti utilizzata in quegli anni per raggiungere la sponda opposta di S.
Nazario.
La vecchia imbarcazione che serviva per il trasporto dei passeggeri da
Contarini a S.Nazario.
L’operazione non era di poco conto: la prua dell’imbarcazione doveva sempre affrontare la corrente in posizione
rialzata e quindi i viaggiatori dovevano sempre assicurare,
con prudenti spostamenti, un giusto equilibrio. Io, poi, dovevo fare particolare attenzione per non rovesciare il prezioso
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secchio con la colla!. Sceso a S. Nazario e superata Carpanè, raggiungevo la contrada di S. Marino: qui l’operazione si ripeteva e, con un’altra barca, arrivavo a Costa, per
poi rientrare a casa.
Era lo stesso percorso che qualche tempo dopo avrei effettuato per affiggere gli avvisi dei film in programma nella
sala parrocchiale.
La sala era dotata di una vecchia macchina di proiezione,
tanto vecchia da causare spesso rotture alle pellicole.
La conoscevo bene, perché ero io l’operatore cinematografico, sempre immerso nel “profumo” dell’acetone.
Era il periodo di “Marcellino Pane e Vino”, “Quo Vadis”,
“Pane Amore e Fantasia”, “Torna a casa Lassie”, la “Città
dei Ragazzi”, “Ben Hur”, “Exodus”...
Ritornando allo sport...
Il calcio era per tutti lo sport “principe”. Quando si disputava una partita capitava di sovente che il pallone, superando una recinzione non sufficientemente alta, scivolasse
in Brenta. Scattava immediatamente l’azione di recupero.
Di solito si riusciva a catturarlo, servendoci di un lungo bastone dotato di una rete a forma di canestro, sotto l’osteria
“Alla Villetta”, dove il fiume creava un’ ansa. Talvolta il pallone prendeva il largo e allora giù a rincorrerlo (si disponeva
di un solo pallone di riserva) verso Oliero ed oltre, senza
badare ai rischi che si correvano.
Iniziai pure io a giocare a calcio, partecipando ai vari tornei e, un giorno, venni pure ceduto alla Virtus di Bassano
assieme all’amico Gino Perli. Firmammo il cartellino con il
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direttore responsabile del nuovo Club Antonio Marchiorello.
In verità non ero un gran giocatore; me la cavavo perché
correvo tanto. Passai presto al mezzofondo con il gruppo atletico Cral Gasparotto di Bassano e qui ottenni discreti risultati.
Gli allenamenti avvenivano al Mercante, sotto la direzione del Prof. Mario Rigoni. Nell’ambiente bassanese migliorai le mie prestazioni e ottenni tempi incoggianti.
A quel tempo allenarsi a correre lungo le strade era una
cosa davvero insolita e per molti inconcepibile. Con Anacleto Ferrazzi partivamo presto di mattina, tanto presto che le
uniche persone che incontravamo erano i panificatori.
L’impegno fu compensato: riuscii ad affermarmi in diverse occasioni nella gara annuale di mezzofondo sia a Valstagna che a Campese, a Foza e ai campionati bassanesi.
Fui così ammesso a partecipare ai campionati regionali di
club. Per la prima volta potevo entrare all’Arcella di Padova:
ottima pista per l’atletica, clima molto buono, molta gente,
tanti gli atleti.
Come tutti i partecipanti feci un lungo riscaldamento, forse eccessivo, e mi presentai in pista per la partenza dei
millecinquecentometri. Avvio con ritmo buono, sostenibile.
Applausi dalla tribuna. Rigoni, a bordo pista, e i fratelli Cappellari mi incitavano a gran voce e allora decisi l’attacco:
superare il gruppo di testa. E lo feci, ma da pivello, affrontando tutta la curva all’esterno. Nel rettilineo successivo mi
raggiunsero e i più forti volarono al traguardo.
Mi piazzai discretamente, ma feci una fatica enorme.
Bisogna saper dosare bene le proprie risorse.
Mi servì di lezione!
Ricordo con emozione un’altra singolare vicenda sportiva, a cui fui presente, anche se non da protagonista, nella
primavera del 1953.
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In quell’anno lavoravo a Rossano Veneto e i miei colleghi
mi proposero di assistere al passaggio della Mille Miglia.
Dormimmo in qualche modo in un casolare di un certo Mario Lazzarotto, nei pressi della contrada S. Lorenzo, appena fuori Rossano.
Alle due di notte, distesi sul cassone di un camioncino e
coperti con un telo, partimmo, diretti verso Vicenza: a fianco avevo i colleghi di lavoro Marcon, i fratelli Gastaldello ed
altri.
Mi trovai a Vicenza, città dai grandi palazzi illuminati, mai
vista in precedenza.
Ci appostammo lungo Corso Palladio nelle vicinanze
della chiesa di san Gaetano. Era una posizione davvero
strategica, perché potevamo da lontano vedere i bolidi che,
venendo da Brescia, attraversavano Porta Castello per poi
scendere verso piazza Matteotti. Avrebbero quindi girato a
sinistra verso il Ponte degli Angeli, per imboccare ad alta
velocità Corso Padova.
Della gara ricordo tutto. Purtroppo, con le vetture che correvano forte e con davanti le balle di paglia di protezione,
faticavamo a riconoscere i piloti.
Era già un grande risultato poter leggere il numero del
concorrente ben stampato sulla portiera delle vetture.
Non facevi a tempo a veder apparire da lontano la macchina da corsa coi fari che abbagliavano, che già te la ritrovavi di spalle, ad affrontare con brusche frenate la curva
all’altezza del Teatro Olimpico. Guarda a destra, guarda a
sinistra, sporgendoci leggermente oltre le precarie protezioni, ancorate sui marciapiedi o alle colonne dei palazzi,
non era il massimo dello spettacolo. Decidemmo allora di
prenderci a turno sulle spalle, per poter, almeno per un po’,
ammirare a 360° quello spettacolo straordinario.
Le macchine sembravano dei razzi, distanziati l’uno
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dall’altro. Riconobbi con chiarezza il pilota Taruffi per una
sbandata e per i capelli bianchi che sporgevano del casco.
Eravamo frastornati per la confusione, il rumore dei motori
e le luci dei fari. Cercammo un’altra postazione, ma la musica non cambiò. Tutto era così irreale, liberi di partecipare
gioiosamente a una festa di popolo, ma anche di elite.
Fu solo perchè qualcuno riuscì a leggere il numero sulla
vettura, che capimmo che era transitato l’Aga Kan, il marito
della famosa attrice Rita Hayworth.
Mi venne in seguito da pensare che quello sparuto gruppo di ragazzi, pieni di curiosità e stupore, mezzi addormentati, ma coscienti di aver assistito a un evento che entusiasmava l’Italia tutta, poteva ben trasformarsi in una di quelle
sceneggiature tanto care a Federico Fellini che, con intelligente e nostalgica ironia, avrebbe di lì a poco riproposto
scene autentiche di vita popolare.
Il momento magico, però, non era finito qui.
Aspettavamo con ansia particolare il passaggio del grande
Giannino Marzotto, che già aveva vinto una precedente edizione della competizione: quelli della Valle lo sentivano quasi
come un paesano, dopo che il padre, Conte Gaetano, aveva
frequentato con assiduità i lavori di costruzione della centrale idroelettrica della “Manifattura Marzotto” a Collicello.
Chi sopra le balle di paglia, chi arrampicato sui pali della
pubblica illuminazione o in piedi sui paracarri attorno a palazzo Chiericati, tutti potemmo vedere e riferire ai posteri di aver
visto sfrecciare il conte Giannino Marzotto con a fianco Marco
Crosara sulla sua Ferrari 340.MM n. 547. Fu proprio quest’ultimo a piazzarsi primo assoluto in 10h 37’19”, stabilendo con
questo tempo anche il record della corsa. Eccezionale!
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Occhi nuovi, per vedere insieme le cose...
Straordinario fu quel periodo anche per l’avvento di un
nuovo “strumento”, che permetteva a tutti di vedere e partecipare ad eventi lontani: la TV.
Pochi di noi ne compresero allora l’importanza come
mezzo di comunicazione e ne anticiparono il ruolo culturale
e sociale.
Il primo contatto lo ebbi in compagnia di Antonio, mio fratello maggiore, che mi portava spesso con sé nei suoi viaggi di lavoro.
Percorrevamo città e paesi dell’Emilia, della Lombardia, del Friuli e un giorno mi accompagnò a visitare la
fiera del ciclo e motociclo a Milano. Lungo il viaggio ci
fermammo a Brescia: correva l’anno 1954. All’interno di
un grande bar mi fece notare, in alto, a lato del bancone per le somministrazioni, uno schermo di modeste dimensioni. Guardai e vidi un volto, in bianco e nero, che
comunicava delle notizie. Ma non capìì di cosa si trattasse. E allora sottovoce mi disse: “È la televisione. Stanno
trasmettendo i primi comunicati in diretta video e audio”.
Meraviglioso!
Ero fermo alla cara e misteriosa radio, dalla quale avevo
appreso della lunga agonia di Evita Peron. Avevo ascoltato
gli appassionati discorsi di Alcide De Gasperi per l’adesione
dell’Italia al Patto Atlantico e le avvincenti radiocronache di Nicolò Carosio dai campi di calcio. Ancor oggi apprezzo i servizi
radiofonici, forse per il fatto che distraggono meno l’ascolto.
Ma la televisione è un’altra cosa.
In Valle, però, data la conformazione orografica del ter-
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ritorio, ci sentivamo penalizzati per la difficile ricezione dei
programmi televisivi, e lo siamo ancor oggi.
La ditta Kofler di Bassano era specializzata nel localizzare i ripetitori. Toni Puppi, proprietario di un locale pubblico a
Carpanè, riuscì a trovare un accordo e così anche in valle
del Brenta si poterono vedere le prime immagini televisive.
Indimenticabili le serate di “Lascia e Raddoppia” con Mike
Buongiorno con a fianco la elegante Edy Campagnoli e i numerosi concorrenti. Tra tutti memorabile un certo Marianini,
composto e preciso, uomo non qualunque al posto giusto.
Una trasmissione che ha fatto cultura e che ci ha permesso anche di conoscere un “misterioso” strumento musicale:
il controfagotto.
Il locale dove ci ritrovavamo a seguire i programmi serali
aveva un’ampia scala interna sulla quale, una volta esauriti
i posti in “platea”, ci sedavamo come fossimo in tribuna.
Momenti belli, d’incontro, di socializzazione.
I segnali televisivi continuavano, però, a giungere non
sempre visibili. Per questo in occasione della partita di calcio della finale del campionato del mondo fummo costretti
a trasferirci a San Nazario, assiepati nel bar a fianco della
chiesa parrocchiale. Ne valse la pena. A confrontarsi erano l’Ungheria di Puskas e la Germania Occidentale. Vinsero l’incontro i tedeschi per quattro reti a tre. Fu una partita
emozionante e anche “storica”, perché eravamo in piena
“guerra fredda”.
Poi ricordo che iniziarono le tribune politiche, ma non si
possono dimenticare le lezioni di “Non è mai troppo tardi”
che puntualmente e familiarmente il maestro Alberto Manzi
impartiva ogni giorno: insegnamento elementare, irradiato
in tutto il territorio nazionale, che tornò estremamente utile
soprattutto alle persone anziane, che spesso si ritrovavano
insieme per condividere ciò di cui non avevano potuto go-
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dere negli anni della loro gioventù.
Un’esperienza che rappresentò la base formativa per larghi strati di generazioni.
Senza dimenticare i nonni...
Dopo i primi anni della ripresa e della ricostruzione si
pensò di affrontare seriamente un problema molto avvertito
in valle: dar vita ad una casa di riposo, dove ospitare le persone anziane del paese.
Gli spazi vennero individuati in via Val Frenzela, utilizzando in parte i locali già destinati alle scuole comunali.
Approvata dall’Amministrazione comunale, guidata dal
Sindaco Bombieri, la gestione dell’iniziativa venne affidata all’Ente Comunale di Assistenza, che a quel tempo era
presieduto da Gino Lazzarotto. Un promotore molto attivo e
convinto fu anche l’arciprete don Lino Bonan.
A quelle fasi iniziali partecipammo in tanti con viva spontaneità. Ricordo che con un camioncino si andò a prendere
il mobilio di alcune coppie di coniugi abitanti nelle contrade
Tovo e Sasso Stefani. Una forma condivisa nell’utilizzare i
nuovi locali, con gli ospiti che si portavano da casa il proprio
mobilio. E serviva anche a rendere meno doloroso l’impatto
del cambiamento. Gli ospiti all’inizio furono una ventina. Oltre a personale laico, poterono fin dai primi tempi fare affidamento sulla premurosa e preziosa assistenza delle suore
della Divina Volontà. E il ricordo va a suor Valentina, a suor
Alessandrina, a suor Giuditta e a tante altre, che con tanta
umanità e costanza hanno accompagnato gli ultimi anni dei
nostri nonni.
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Uno sguardo dall’alto...
Qualche settimana fa, superando rovi e sterpaglie, sono
tornato al “Pian dei Sessia”.
Erano trascorsi pochi giorni da un viaggio compiuto in
Marocco, promosso da Aziz Wahbi, (un intraprendente immigrato abitante in paese) per conoscere la Valle di Ourika,
luoghi lontani, ma uniti alla Valle del Brenta da una comune
geografia: montagne, fiume, sistema terrazzato.
Da lassù, dal “mio” sito, ho potuto osservare tranquillamente la mia Valle, il mio Paese, ripercorrere luoghi e ripensare ai volti del tempo andato.
Guardando il Cornon o il S. Francesco, come non rammentare i servizi, come inviato speciale del “ Corriere della
Sera”, di Luigi Barzini, che descriveva con rigore gli ultimi
vittoriosi assalti degli Alpini nella prima guerra mondiale?
E come poter dimenticare le confidenze di mia madre?
Lei dai “Giaconi”, altro luogo strategico di osservazione,
aveva seguito per mesi, prima di partire per il profugato,
l’arrivo di una enorme quantità di combattenti appartenenti
alla “Brigata Sassari”.
La scena era impressionante. Accompagnata dal suono
della fanfara una fila interminabile s’incamminava su, lungo
la Val Frenzela, per raggiungere le retrovie dell’Ortigara,
coordinate ai Ronchi di Gallio da Emilio Lussu.
I Colli Alti mi richiamavano il ricordo del tragico eccidio
dei partigiani a Carpanè, nel settembre del 1944.
Quanti drammi e tragedie ha visto e vissuto questa Valle,
e la sua gente.
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Ho abbassato lo sguardo e il rivedere il mio fiume che
continua a scorrere veloce, che s’increspa a contatto con i
sassi e sul quale si rispecchiano i colori di un tiepido mattino che precede l’inverno, mi ha trasmesso una serenità
profonda.
Poi il pensiero è andato ai problemi che il fiume può arrecare alla comunità, ricordi di un passato non molto lontano.
Nel bene e nel male “la Brenta” (così si chiamava il fiume
una volta), in un paesaggio per molti versi mutato, mi si
offriva come presenza sicura: scorre e si rinnova, ma non
ti lascia mai solo. Sembra guidarti e ti fa compagnia. Una
vibrazione musicale che si affianca alla faticosa esperienza
umana, segnata da fatiche, da guerre, da abbandoni e partenze, ma che a tutti suggerisce fiducia e speranza...
Valstagna - Natale 2011
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La primavera del 1945 - VALSTAGNA, la perla della Valbrenta