Dino Campana ______ Canti Orfici 1913 - 1914 ____ Varie e frammenti __ Epistolario con Sibilla Aleramo La notte 1. Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. 2. Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche: la campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo. 3. Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città. 4. Fu scosso da una porta che si spalancò. Dei vecchi, delle forme oblique ossute e mute, si accalcavano spingendosi coi gomiti perforanti, terribili nella gran luce. Davanti alla faccia barbuta di un frate che sporgeva dal vano di una porta sostavano in un inchino trepidante servile, strisciavano via mormorando, rialzandosi poco a poco, trascinando uno ad uno le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati, tutti simili ad ombra. Una donna dal passo dondolante e dal riso incosciente si univa e chiudeva il corteo. 5. Strisciavano le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati: egli seguiva, autòma. Diresse alla donna una parola che cadde nel silenzio del meriggio: un vecchio si voltò a guardarlo con uno sguardo assurdo lucente e vuoto. E la donna sorrideva sempre di un sorriso molle nell’aridità meridiana, ebete e sola nella luce catastrofica. 6. Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per strade male odoranti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai confini della campagna una porta incisa di colpi, guardatada una giovine femmina in veste rosa, pallida e grassa, la attrasse: entrai. Una antica e opulenta matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che rinascevano colla speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale, profonda e melodrammatica mi rispose insieme ad un grazioso sorriso aggrinzito. Distinsi nell’ombra l’ancella che dormiva colla bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il bel corpo agile e ambrato. Sedetti piano. 7. La lunga teoria dei suoi amori sfilava monotona ai miei orecchi. Antichi ritratti di famiglia erano sparsi sul tavolo untuoso. L’agile forma di donna dalla pelle ambrata stesa sul letto ascoltava curiosamente, poggiata sui gomiti come una Sfinge: fuori gli orti verdissimi tra i muri rosseggianti: noi soli tre vivi nel silenzio meridiano. 8. Era intanto calato il tramonto ed avvolgeva del suo oro il luogo commosso dai ricordi e pareva consacrarlo. La voce della Ruffiana si era fatta man mano più dolce, e la sua testa di sacerdotessa orientale compiaceva a pose languenti. La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la sera scendeva messaggio d’oro dei brividi freschi della notte. gettati da la città al sobborgo ne le sere dell’estate torrida: volte di tre quarti, udendo dal sobborgo il clangore che si accentua annunciando le lingue di fuoco delle lampade inquiete a trivellare l’atmosfera carica di luci orgiastiche: ora addolcite: nel già morto cielo dolci e rosate, alleggerite di un velo: così come Santa Marta, spezzati a terra gli strumenti, cessato già sui sempre verdi paesaggi il canto che il cuore di Santa Cecilia accorda col cielo latino, dolce e rosata presso il crepuscolo antico ne la linea eroica de la grande figura femminile romana sosta. Ricordi di zingare, ricordi d’amori lontani, ricordi di suoni e di luci: stanchezze 9. Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella. Il suo corpo d’amore, stanchezze improvvise sul letto di una taverna lontana, altra ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a tratti la rivelazione culla avventurosa di incertezza e di rimpianto: così quello che ancora dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono una fantastica vicenda. Men- era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama tre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza scheletrico del mondo. il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo ave12. Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce deliziosa e va ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i nostri piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle multicolori che e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine avevano lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell’aria, e il antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive camminare accanto ci aveva illanguiditi esaltandoci di una nostra troppo dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive diversa bellezza, lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il si ricrea la pena eterna dell’amore. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai barbaglio della collana dal collo ignudo, camminava ora a tratti inespercapelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo ste- ta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia rile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa, ed io seguii il suo mistero. La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini. pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia notturna dei suoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e 10. Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le anti- dalla festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E che immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi ancora col guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei paloro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiu- norami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose se aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito, appa- legnose. Una odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva rendo le immagini avventurose delle cortigiane nella luce degli specchi attorno gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che felpava i pasimpallidite nella loro attitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era si e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. “È così arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul pa- Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden.” Noi guardavamo intorno: norama scheletrico del mondo. doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno! Immobile presso a me io la sentivo divenire 11. Nell’odore pirico di sera di fiera, nell’aria gli ultimi clangori, vedevo lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia le antichissime fanciulle della prima illusione profilarsi a mezzo i ponti notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’ama- rezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo. somigliavano allora a medaglie siracusane e il taglio dei loro occhi era tanto perfetto che amavano sembrare immobili a contrastare armoniosamente coi lunghi riccioli bruni. Era facile incontrarle la sera per le vie cupe (la luna illuminava allora le strade) e Faust alzava gli occhi ai comignoli delle case che nella luce della luna sembravano punti interrogativi 13. Ero sotto l’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce san- e restava pensieroso allo strisciare dei loro passi che si attenuavano. guigna ne la nebbia di una notte di dicembre. A un tratto una porta si Dalla vecchia taverna a volte che raccoglieva gli scolari gli piaceva udire era aperta in uno sfarzo di luce. In fondo avanti posava nello sfarzo di tra i calmi conversari dell’inver- no bolognese, frigido e nebuloso come un’ottomana rossa il gomito reggendo la testa, poggiava il gomito reg- il suo, e lo schioccare dei ciocchi e i guizzi della fiamma sull’ocra delle gendo la testa una matrona, gli occhi bruni vivaci, le mammelle enormi: volte i passi frettolosi sotto gli archi prossimi. Amava allora raccogliersi accanto una fanciulla inginocchiata, ambrata e fine, i capelli recisi sulla in un canto mentre la giovine ostessa, rosso il guarnello e le belle gote fronte, con grazia giovanile, le gambe lisce e ignude dalla vestaglia sma- sotto la pettinatura fumosa passava e ripassava davanti a lui. Faust era gliante: e sopra di lei, sulla matrona pensierosa negli occhi giovani una giovane e bello. In un giorno come quello, dalla saletta tappezzata, tra tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle i ritornelli degli organi automatici e una decorazione floreale, dalla saimmagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei letta udivo la folla scorrere e i rumori cupi dell’inverno. Oh! ricordo!: ero pensierosa negli occhi giovani. Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartigrazia simbolica e avventurosa di quella scena. Già era tardi, fummo soli ne levigate e flessuose, consacrate dalla mia ansia del supremo amore, e tra noi nacque una intimità libera e la matrona dagli occhi giovani pog- dall’ansia della mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero giata per sfondo la mobile tenda di trina parlò. La sua vita era un lungo per la mia fede, la mia vita era tutta “un’ansia del segreto delle stelle, peccato: la lussuria. La lussuria ma tutta piena ancora per lei di curiosità tutta un chinarsi sull’abisso”. Ero bello di tormento, inquieto pallido asseirraggiungibili. “La femmina lo picchiettava tanto di baci da destra: da tato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto destra perché? Poi il piccione maschio restava sopra, immobile?, dieci delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme minuti, perché?” Le domande restavano ancora senza risposta, allora di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo il passato. Fin che come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, la conversazione si era illanguidita, la voce era taciuta intorno, il mistero e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infidella voluttà aveva rivestito colei che lo rievocava. Sconvolto, le lagrime nito del sogno. Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille agli occhi io in faccia alla tenda bianca di trina seguivo seguivo ancora ticchiettìi le mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra i tronchi, delle fantasie bianche. La voce era taciuta intorno. La ruffiana era spari- per sentieri di chiarìe salivo: salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato ta. La voce era taciuta. Certo l’avevo sentita passare con uno sfioramen- mistero. Laghi, lassù tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del to silenzioso struggente. sogno, le chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi. Il torrente mi raccontava oscuramente la storia. Io fisso tra le lance imAvanti alla tenda gualcita di trina la fanciulla posava ancora sulle gi- mobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia nocchia ambrate, piegate piegate con grazia di cinedo. e pure triste forse fissavo le nubi che sembravano attardarsi curiose un istante su quel paesaggio profondo e spiarlo e svanire dietro le lance 14. Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi immobili degli abeti. E povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera d’amore. 15. Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al ricordo). Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio. Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, una chioma profusa, un corpo rantolante procubo nella notte mistica dell’antico animale umano. Dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della tenda. 16. E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orge si crearono avanti al mio spirito. Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte. Credetti di udire fremere le chitarre là nella capanna d’assi e di zingo sui terreni vaghi della citta, mentre una candela schiariva il terreno nudo. In faccia a me una matrona selvaggia mi fissava senza batter ciglio. La luce era scarsa sul terreno nudo nel fremere delle chitarre. A lato sul tesoro fiorente di una fanciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata come un ragno mentre pareva. sussurrare all’orecchio parole che non udivo, dolci come il vento senza parole della Pampa che sommerge. La matrona selvaggia mi aveva preso: il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: ora la luce era più scarsa sul terreno nudo nell’alito metallizzato delle chitarre. A un tratto la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua grazia selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvagge nell’ombra.II - Il viaggio e il ritorno 1. Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludii erano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta della notte era calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitària troneggia- va ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore. 2. Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme dai velarii della luce io cinsi, un alito tardato: e nel crepuscolo la mia pristina lampada instella il mio cuor vago di ricordi ancora. Volti, volti cui risero gli occhi a fior del sogno, voi giovani aurighe per le vie leggere del sogno che inghirlandai di fervore: o fragili rime, o ghirlande d’amori notturni... Dal giardino una canzone si rompe in catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: arido rosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo. III - Fine 1. Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze 3. O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il di trine. La portiera nello sfarzo smesso di un giustacuore verde, le rutuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, ghe del volto più dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guarda nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino indefinito. Governa una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mam- donna matura addolcita da una vita d’amore con un sorriso con un vago melle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era bagliore che è negli occhi il ricordo delle lacrime della voluttà. Passano nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie mulcariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono ticolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi. sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore La portiera guarda la porta d’argento. Fuori è la notte chiomata di muti di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, canti, pallido amor degli erranti. tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole! Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina. La chimera Non so se tra rocce il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso Di lontananze ignote Fosti, la china eburnea Fronte fulgente o giovine Suora de la Gioconda: O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori O Regina o Regina adolescente: Ma per il tuo ignoto poema Di voluttà e di dolore Musica fanciulla esangue, Segnato di linea di sangue Nel cerchio delle labbra sinuose, Regina de la melodia: Ma per il vergine capo Reclino, io poeta notturno Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno. Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore, Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfii rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. Giardino autunnale (Firenze) Al giardino spettrale al lauro muto De le verdi ghirlande A la terra autunnale Un ultimo saluto! A l’aride pendici Aspre arrossate nell’estremo sole Confusa di rumori Rauchi grida la lontana vita: Grida al morente sole Che insanguina le aiole. S’intende una fanfara Che straziante sale: il fiume spare Ne le arene dorate: nel silenzio Stanno le bianche statue a capo i ponti Volte: e le cose già non sono più. E dal fondo silenzio come un coro Tenero e grandioso Sorge ed anela in alto al mio balcone: E in aroma d’alloro, In aroma d’alloro acre languente, Tra le statue immortali nel tramonto Ella m’appar, presente. La speranza (sul torrente notturno) Per l’amor dei poeti Principessa dei sogni segreti Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti Principessa i tuoi canti: O tu chiomata di muti canti Pallido amor degli erranti Soffoca gli inestinti pianti Da’ tregua agli amori segreti: Chi le taciturne porte Guarda che la Notte Ha aperte sull’infinito? Chinan l’ore: col sogno vanito China la pallida Sorte . . . . ..................... Per l’amor dei poeti, porte Aperte de la morte Su l’infinito! Per l’amor dei poeti Principessa il mio sogno vanito Nei gorghi de la Sorte! L’invetriata La sera fumosa d’estate Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra E mi lascia nel cuore un suggello ardente. Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? - c’è Nella stanza un odor di putredine: c’è Nella stanza una piaga rossa languente. Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto: E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è Nel cuore della sera c’è, Sempre una piaga rossa languente. Il canto della tenebra La luce del crepuscolo si attenua: Inquieti spiriti sia dolce la tenebra Al cuore che non ama più! Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, Sorgenti, sorgenti che sanno Sorgenti che sanno che spiriti stanno Che spiriti stanno a ascoltare... Ascolta: la luce del crepuscolo attenua Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra: Ascolta: ti ha vinto la Sorte: Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte: Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte Più Più Più Intendi chi ancora ti culla: Intendi la dolce fanciulla Che dice all’orecchio: Più Più Ed ecco si leva e scompare Il vento: ecco torna dal mare Ed ecco sentiamo ansimare Il cuore che ci amò di più! Guardiamo: di già il paesaggio Degli alberi e l’acque è notturno Il fiume va via taciturno... Pùm! mamma quell’omo lassù! La sera di fiera Il cuore stasera mi disse: non sai? La rosabruna incantevole Dorata da una chioma bionda: E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia imperiale Incantava la rosea Freschezza dei mattini: E tu seguivi nell’aria La fresca incarnazione di un mattutino sogno: E soleva vagare quando il sogno E il profumo velavano le stelle (Che tu amavi guardar dietro i cancelli Le stelle le pallide notturne): Che soleva passare silenziosa E bianca come un volo di colombe Certo è morta: non sai? Era la notte Di fiera della perfida Babele Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma In lubrici fischi grotteschi E tintinnare d’angeliche campanelle E gridi e voci di prostitute E pantomime d’Ofelia Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche ....................................... Una canzonetta volgaruccia era morta E mi aveva lasciato il cuore nel dolore E me ne andavo errando senz’amore Lasciando il cuore mio di porta in porta: Con Lei che non è nata eppure è morta E mi ha lasciato il cuore senz’amore: Eppure il cuore porta nel dolore: Lasciando il cuore mio di porta in porta. La petite promenade du poète Me ne vado per le strade Strette oscure e misteriose: Vedo dietro le vetrate Affacciarsi Gemme e Rose. Dalle scale misteriose C’è chi scende brancolando: Dietro i vetri rilucenti Stan le ciane commentando. ........................ La stradina è solitaria: Non c’è un cane qualche stella Nella notte sopra i tetti: E la notte mi par bella. E cammino poveretto Nella notte fantasiosa, Pur mi sento nella bocca La saliva disgustosa. Via dal tanfo Via dal tanfo e per le strade E cammina e via cammina, Già le case son più rade. Trovo l’erba, mi ci stendo A conciarmi come un cane: Da lontano un ubriaco Canta amore alle persiane. I - La Verna (Diario) 15 Settembre (per la strada di Campigno) Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le rocce e il fiume. . . . . . . . .. Castagno, 17 Settembre La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare. La pioggia à reso cupo il grigio delle montagne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute. Il canto fu breve: una pausa, un commento improvvi- so e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo. Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di macchie, che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto. Sulla Falterona (Giogo) La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!) Campigna, foresta della Falterona (Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lorena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico alla solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro dimore. La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli abeti.) Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi fruscìi del silenzio. Dalla cresta acuta nel cielo, sopra il mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità selvagge dello sprone l’attendessero le- varsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve. Stia, 20 Settembre Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno del cavaliere continua: Comme deux ennemis rompus Que leur haine ne soutient plus Et qui laissent tomber leurs armes! 21 Settembre (presso la Verna) Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa. Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. “In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole.” Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale. Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui. Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita. 22 Settembre (La Verna) “Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice. 20 Agosto 189...” Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco: (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplici figure d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato! Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo: . . . . . . . . . stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve stria di sole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue profilate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate... da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta versarsi dall’invetriata prossima nella penembra della cappella. Acquistano allora quei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno cavalleresco! Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode né il frusciare della massa oscura né il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore. II - Ritorno SALGO (nello spazio, fuori del tempo) L’acqua il vento La sanità delle prime cose Il lavoro umano sull’elemento Liquido - la natura che conduce Strati di rocce su strati - il vento Che scherza nella valle - ed ombra del vento La nuvola - il lontano ammonimento Del fiume nella valle E la rovina del contrafforte - la frana La vittoria dell’elemento - il vento Che scherza nella valle. Su la lunghissima valle che sale in scale La casetta di sasso sul faticoso verde: La bianca immagine dell’elemento. La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche. L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole. Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani abeti, l’avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la lunga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su se stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco. Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell’antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l’elemento grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos. ......... Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate! Catrina, bizzarra figlia della montagna barbarica, della conca rocciosa dei venti, come è dolce il tuo pianto: come è dolce quando tu assistevi alla scena di dolore della madre, della madre che aveva morto l’ultimo figlio. Una delle pie donne a lei dintorno, inginocchiata cercava di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, ma lei gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Figura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu allora guardavi: tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi con la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia: e già dimentica dell’amor del poeta. Monte Filetto, 25 Settembre Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. E un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre tra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piace dai balconi guardare la campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido sulla tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume riprende la sua cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto d’oro nello squittire dei falchi. Presso Campigno (26 Settembre) Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi che essa è qui veramente la regina del paesaggio. ......... Valdervé è una costa interamente alpina che scende a tratti a dirupi e getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del leone. L’acqua volge con tonfi chiari e profondi lasciando l’alto scenario pastorale di grandi alberi e colline. ......... Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità della terra. Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fìgliuol prodigo all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il mio ricordo, l’acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l’oro crepuscolare, dolce come il canto dell’onnipresente tenebra è il canto dell’acqua sotto le rocce: così come è dolce l’elemento nello splendore nero degli occhi delle vergini spagnole: e come le corde delle chitarre di Spagna... Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra tua faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore profondo, cuore danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla sacra oscenità di Sileno? Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra... ......... scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra... Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere. Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia Marradi (Antica volta. Specchio velato) cola un filo d’acqua in un incavo. Il vento allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triancornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro. golo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per ......... la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, don- con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei na adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bi- tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto zantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma di archi! delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida Presso Marradi (ottobre) là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra della mia stanza che sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani affronta i venti: e la... e il figlio, povero uccellino dai tratti dolci e dall’animiracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o ma indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta, e il vento del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dora- che batte alla finestra dall’orizzonte annuvolato, i monti lontani ed alti, ta, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di il rombo monotono del vento. Lontano è caduta la neve... La padrona nobiltà umana antica Romagna. zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale. Fine del pellegrinaggio. ......... L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è Immagini del viaggio e della montagna ... poi che nella sorda lotta notturna La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino: Come ombre d’eroi veleggiavano: De l’alba non ombre nei puri silenzii De l’alba Nei puri pensieri Non ombre De l’alba non ombre: Piangendo: giurando noi fede all’azzurro Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti. E dalle altezze agli infiniti albori Vigili, calan trepidi pei monti, Tremuli e vaghi nelle vive fonti, Gli echi dei nostri due sommessi cuori... Hanno varcato in lunga teoria: Nell’aria non so qual bacchico canto. Salgono: e dietro a loro il monte introna: ...... E si distingue il loro verde canto. ............ ............ Pare la donna che siede pallida giovine ancora Sopra dell’erta ultima presso la casa antica: Avanti a lei incerte si snodano le valli Verso le solitudini alte de gli orizzonti: La gentile canuta il cuculo sente a cantare. E il semplice cuore provato negli anni A le melodie della terra Ascolta quieto: le note Giungon, continue ambigue come in un velo di seta. Da selve oscure il torrente Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce Lambe ed involge aereo cilestrino... E il cuculo cola più lento due note velate Nel silenzio azzurrino Andar, de l’acque ai gorghi, per la china Valle, nel sordo mormorar sfiorato: Seguire un’ala stanca per la china Valle che batte e volge: desolato Andar per valli, in fin che in azzurrina Serenità, dall’aspre rocce dato Un Borgo in grigio e vario torreggiare All’alterno pensier pare e dispare, Sovra l’arido sogno, serenato! O se come il torrente che rovina E si riposa nell’azzurro eguale, Se tale a le tue mura la proclina Anima al nulla nel suo andar fatale, Se alle tue mura in pace cristallina Tender potessi, in una pace uguale, E il ricordo specchiar di una divina Serenità perduta o tu immortale Anima! o Tu! ............ L’aria ride: la tromba a valle i monti Squilla: la massa degli scorridori ............ La messe, intesa al misterioso coro Del vento, in vie di lunghe onde tranquille Muta e gloriosa per le mie pupille Discioglie il grembo delle luci d’oro. O Speranza! O Speranza! a mille a mille Splendono nell’estate i frutti! un coro Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro Che vive per miriadi di faville!... Ecco la notte: ed ecco vigilarmi E luci e luci: ed io lontano e solo: Quieta è la messe, verso l’infinito (Quieto è lo spirto) vanno muti carmi A la notte: a la notte: intendo: Solo Ombra che torna, ch’era dipartito... Viaggio a Montevideo Io vidi dal ponte della nave I colli di Spagna Svanire, nel verde Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando Come una melodia: D’ignota scena fanciulla sola Come una melodia Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... Illanguidiva la sera celeste sul mare: Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale Varcaron lentamente in un azzurreggiare:... Lontani tinti dei varii colori Dai più lontani silenzi! Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave Già cieca varcando battendo la tenebra Coi nostri naufraghi cuori Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare. Ma un giorno Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna Da gli occhi torbidi e angelici Dai seni gravidi di vertigine. Quando In una baia profonda di un’isola equatoriale In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno Noi vedemmo sorgere nella luce incantata Una bianca città addormentata Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti Nel soffio torbido dell’equatore: finché Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto, Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore Noi lasciammo la città equatoriale Verso l’inquieto mare notturno. Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente: Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina Una fanciulla della razza nuova, Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di [un giorno che apparve La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina: E vidi come cavalle Vertiginose che si scioglievano le dune Verso la prateria senza fine Deserta senza le case umane E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, Del continente nuovo la capitale marina. Limpido fresco ed elettrico era il lume Della sera e là le alte case parevan deserte Laggiù sul mar del pirata De la città abbandonata Tra il mare giallo e le dune ...................... Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici Faccia, zig zag anatomico che oscura La passione torva di una vecchia luna Che guarda sospesa al soffitto In una taverna café chantant D’America: la rossa velocità Di luci funambola che tanga Spagnola cinerina Isterica in tango di luci si disfà: Che guarda nel café chantant D’America: Sul piano martellato tre Fiammelle rosse si sono accese da sé. Batte botte Firenze (Uffizii) Entro dei ponti tuoi multicolori L’Arno presago quietamente arena E in riflessi tranquilli frange appena Archi severi tra sfiorir di fiori. ............................. Azzurro l’arco dell’intercolonno Trema rigato tra i palazzi eccelsi: Candide righe nell’azzurro: persi Voli: su bianca gioventù in colonne. Ne la nave Che si scuote, Con le navi che percuote Di un’aurora Sulla prora Splende un occhio Incandescente: (Il mio passo Solitario Beve l’ombra Per il Quai) Ne la luce Uniforme Da le navi A la città Solo il passo Che a la notte Solitario Si percuote Per la notte Dalle navi Solitario Ripercuote: Così vasta Così ambigua Per la notte Così pura! L’acqua (il mare Che n’esala?) A le rotte Ne la notte Batte: cieco Per le rotte Dentro l’occhio Disumano De la notte Di un destino Ne la notte Più lontano Per le rotte De la notte Il mio passo Batte botte. VARIE E FRAMMENTI Firenze Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Le mattine di primavera sull’Arno. La grazia degli adolescenti (che non è grazia al mondo che vinca tua grazia d’Aprile), vivo vergine continuo alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere Botticelliana: I pollini del desiderio gravi da tutte le forme scultoree della bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle colline che vagano, insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata dalle bianche forme della bellezza: mentre pure nostra è la divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche! BARCHE AMORRATE .............. Le vele le vele le vele Che schioccano e frustano al vento Che gonfia di vane sequele Le vele le vele le vele! 5 Che tesson e tesson: lamento Volubil che l’onda che ammorza Ne l’onda volubile smorza... Ne l’ultimo schianto crudele... Le vele le vele le vele 10 FRAMMENTO (Firenze) ................ Ed i piedini andavano armoniosi Portando i cappelloni battaglieri Che armavano di un’ala gli occhi fieri Del lor languore solo nel bel giorno: 5 ................ Scampanava la Pasqua per la via..... ................ ................ PAMPA Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bassa voce, quasi a non turbare il profondo silenzio della Pampa. – Le tende si allungavano a pochi passi da dove noi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti furtivamente le strane costellazioni che doravano l’ignoto della prateria notturna. – Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene: – che noi assaporavamo con voluttà misteriosa – come nella coppa del silenzio purissimo e stellato. Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda bevanda. Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura. Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare. Drammi meravigliosi, i più meravigliosi dell’anima umana palpitavano e si rispondevano a traverso le costellazioni. Una stella fluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosa la fine di un corso di storia. Sgravata la bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: – per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni. . .. commozione del silenzio intenso era prodigiosa. Che cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano le nuvole e le stelle, fuggivano: mentre che dalla Pampa nera scossa che sfuggiva a ratti nella selvaggia nera corsa del vento ora più forte ora più fievole ora come un lontano fragore ferreo: a tratti alla malinconia più profonda dell’errante un richiamo:... dalle criniere dell’erbe scosse come alla malinconia più profonda dell’eterno errante per la Pampa riscossa come un richiamo che fuggiva lugubre. Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero: che la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente irresistibile. ................. Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo mistero! Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribù indiane? Od era la morte? Od era la vita? E mai, mi parve che mai quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi: nel mentre che il rumore lugubre delle ferramenta ne commentava incomprensibilmente il destino. Poi la stanchezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei: e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi. La luna illuminava ora tutta la Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo. Solo a tratti nuvole scherzanti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti per la prateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gran silenzio. Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontano profumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra la prateria. Il teschio che si levava lentamente era l’insegna formidabile di un esercito che lanciava torme di cavalieri colle lancie in resta, acutissime lucenti: gli indiani morti e vivi si lanciavano alla riconquista del loro dominio di libertà in lancio fulmineo. La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinitaLe erbe piegavano in gemito leggero al vento del loro passaggio. La mente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona. Ora assopito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense. E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito. Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio. IL RUSSO (Da una poesia dell’epoca) Tombé dans l’enfer Grouillant d’ëtres humains O Russe tu m’apparus Soudain, céléstial Parmi de la clameur 5 Du grouillement brutal d’une lâche humanité Se pourrissante d’elle même. Se vis ta barbe blonde Fulgurante au coin 10 Ton âme je vis aussi Par le gouffre ré jetée Ton âme dans l’étreinte L’étreinte désespérée Des Chimères fulgurantes 15 Dans le miasme humain. Voilà que tu ecc. ecc. In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti della società. Io dopo due mesi di cella ansioso di rivedere degli esseri umani ero rigettato come da onde ostili. Camminavano velocemente come pazzi, ciascuno assorto in ció che formava l’unico senso della sua vita: la sua colpa. Dei frati grigi dal volto sereno, troppo sereno, assisi: vigilavano. In un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi segni di una lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente. *** «Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide.» Parlava: quando, mentre mi fissava cogli occhi spaventati e vuoti, io cercando in fondo degli occhi grigioopachi uno sguardo, uno sguardo mi parve di distinguere, che li riempiva: non di terrore: quasi infantile, inconscio, come di meraviglia. *** Il Russo era condannato. Da diciannove mesi rinchiuso, affamato, spiato implacabilmente, doveva confessare, aveva confessato. E il supplizio del fango! Colla loro placida gioia i frati, col loro ghigno muto i delinquenti gli avevano detto quando con una parola, con un gesto, con un pianto irrefrenabile nella notte aveva volta a volta scoperto un po’ del suo segreto! Ora io lo vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo come di torrente sassoso del continuo strisciare dei passi. *** Erano i primi giorni che la primavera si svegliava in Fiandra. Dalla camerata a volte (la camerata dei veri pazzi dove ora mi avevano messo), oltre i vetri spessi, oltre le sbarre di ferro, io guardavo il cornicione profilarsi al tramonto. Un pulviscolo d’oro riempiva il prato, e poi lontana la linea muta della città rotta di torri gotiche. E così ogni sera coricandomi nella mia prigionia salutavo la primavera. E una di quelle sere seppi: il Russo era stato ucciso. Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi sanguigni del tramonto credei mi portassero il suo saluto. Chiusi le palpebre, restai lungamente senza pensiero: quella sera non chiesi altro. Vidi che intorno si era fatto scuro. Nella camerata non c’era che il tanfo e il respiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere. Col capo affondato sul guanciale seguivo in aria delle farfalline che scherzavano attorno alla lampada elettrica nella luce scialba e gelida. Una dolcezza acuta, una dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi. Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta scriveva. La penna scorreva strideva spasmodica. Perché era uscito per salvare altri uomini? Un suo ritratto di delinquente, un insensato, severo nei suoi abiti eleganti, la testa portata alta con dignità animale: un altro, un sorriso, l’immagine di un sorriso ritratta a memoria, la testa della fanciulla d’Este. Poi teste di contadini russi teste barbute tutte, teste, teste, ancora teste. .. ................. La penna scorreva strideva spasmodica: perchè era uscito per salvare altri uomini? Curvo, sull’orlo della stufa la testa barbuta, il russo scriveva, scriveva scriveva. . . . . . . *** alla piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentre il mare tra le tanaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso l’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte. Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io già ero portato lontano nel turbinare delle acque. Il molo, gli uomini erano scomparsi fusi come in una nebbia. Cresceva l’odore mostruoso del mare. La lanterna spenta s’alzava. Il gorgoglio dell’acqua tutto annegava irremissibilmente. Il battito forte nei fianchi del bastimento confondeva il battito del mio cuore e ne svegliava un vago dolore intorno come se stesse per aprirsi un bubbone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua. L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarra che la scuotono! C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, siamo della leggera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che importava in Non essendovi in Belgio l’estradizione legale per i delinquenti politici fondo! Ballasse il bastimento, ballasse fino a BuenosAires: questo dava avevano compito l’ufficio i Frati della Carità Cristiana. allegria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffo e sornione! Non so se fosse la bestialità irritante del mare, il disgusto che quel grosso bestione col suo riso mi dava..., basta: i giorni passavano. Tra i PASSEGGIATA IN TRAM IN AMERICA E RITORNO sacchi di patate avevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tramonto che illuminavano la costa deserta! costeggiavano da un giorno. Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, Bellezza semplice di tristezza maschia. Oppure a volte quando l’acqua tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole saliva ai finestrini io seguivo il tramonto equatoriale sul mare. Volavano bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enor- uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza gioia. Poi sdraiato in comi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corro col preludio perta restavo a guardare gli alberi dondolare nella notte tiepida in mezzo che tremola si assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo al rumore dell’acqua.......... Riodo il preludio scordato delle rozze corde sotto l’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di carbone misto al nauseante odor d’infinito. Fumano i vapori agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di carcasse delle lente file umane, formiche dell’enorme ossario. Nel mentre tra le tanaglie del molo rabbrividisce un fiume che fugge, tacito pieno di singhiozzi taciuti fugge veloce verso l’eternità del mare, che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte. L’INCONTRO DI REGOLO Ci incontrammo nella circonvallazione a mare. La strada era deserta nel calore pomeridiano. Guardava con occhio abbarbagliato il mare. Quella faccia, l’occhiostrabico! Si volse: ci riconoscemmo immediatamente. Ci abbracciammo. Come va? Come va? A braccetto lui voleva condurmi in campagna: poi io lo decisi invece a calare sulla riva del mare. Stesi sui ciottoli della spiaggia seguitavamo le nostre confidenze calmi. Era tornato d’America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordavamo l’incontro di quattro anni fa laggiù in America: e il primo, per la strada di Pavia, lui scalcagnato, col collettone alle orecchie! Ancora il diavolo ci aveva riuniti: per quale perchè? Cuori leggeri noi non pensammo a chiedercelo. Parlammo, parlammo, finchè sentimmo chiaramente il rumore delle onde che si frangevano sui ciottoli della spiaggia. Alzammo la faccia alla luce cruda del sole. La superficie del mare era tutta abbagliante. Bisognava mangiare. Andiamo! *** Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e senza esitazione. Andiamo. L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente. Ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione. Il paese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti tra i miasmi della lavatura grassa. Andiamo! *** Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore, scialacquatore, con in cuore il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre, quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito ed era restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte destra, l’occhio strabico fisso sul fenomeno, toccando con mano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venuto da me e voleva partire. *** Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo irritava. La paralisi lo aveva esacerbato. Lo osservavo. Aveva ancora la faccia a destra atona e contratta e sulla guancia destra il solco di una lacrima ma di una lagrima sola, involontaria, caduta dall’occhio restato fisso: voleva partire. *** Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per sè sereno. *** Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione e ci lasciammo stringendoci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo, senza accorgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile. SCIROCCO (Bologna) Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprìi la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo (non c’era là il mare?) si ammucchiavano nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato. Tutto attorno la città mostrava le sue travature colossali nei palchi aperti dei suoi torrioni, umida ancora della pioggia recente che aveva imbrunito il suo mattone: dava l’immagine di un grande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granai dopo la partenza avventurosa nel mattino: mentre che nello Scirocco sembravano ancora giungere in soffi caldi e lontani di laggiù i riflessi d’oro delle bandiere e delle navi che varcavano la curva dell’orizzonte. Si sentiva l’attesa. In un brusìo di voci tranquille le voci argentine dei fanciulli dominavano liberamente nell’aria. La città riposava del suo faticoso fervore. Era una vigilia di festa: la Vigilia di Natale. Sentivo che tutto posava: ricordi speranze anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo laggiù: e l’orizzonte mi sembrava volerli cullare coi riflessi frangiati delle sue nuvole mobili all’infinito. Ero libero, ero solo. Nella giocondità dello Scirocco mi beavo dei suoi soffii tenui. Vedevo la nebulosità invernale che fuggiva davanti a lui: le nuvole che si riflettevano laggiù sul lastrico chiazzato in riflessi argentei su la fugace chiarità perlacea dei visi femminili trionfanti negli occhi dolci e cupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodioso, smorzato nella cadenza lieve ed uguale: poi guardavo le torri rosse dalle travi nere, dalle balaustrate aperte che vegliavano deserte sull’infinito. Era la Vigilia di Natale. Ero uscito: Un grande portico rosso dalle lucerne moresche: dei libri che avevo letti nella mia adolescenza erano esposti a una vetrina tra le stampe. In fondo la luminosità marmorea di un grande palazzo moderno, i fusti d’acciaio curvi di globi bianchi ai quattro lati. La piazzetta di S. Giovanni era deserta: la porta della prigione senza le belle fanciulle del popolo che altre volte vi avevo viste. fumoso la melodia dei suoi passi. Qualche cosa di nuovo, di infantile, di profondo era nell’aria commossa. Il mattone rosso ringiovanito dalla pioggia sembrava esalare dei fantasmi torbidi, condensati in ombre di dolore virgineo, che passavano nel suo torbido sogno: (contigui uguali gli archi perdendosi gradatamente nella campagna tra le colline fuori della porta): poi una grande linea che apparve passò: una grandiosa, virginea testa reclina d’ancella mossa di un passo giovine non domo alla cadenza, offrendo il contorno della mascella rosea e forte e a tratti la luce obliqua dell’occhio nero al disopra dell’omero servile, del braccio, onusti di giovinezza: muta. *** (Le serve ingenue affaccendate colle sporte colme di vettovaglie vagavano pettinate artifiziosamente la loro fresca grazia fuori della porta. Tutta verde la campagna intorno. Le grandi masse luminose degli alberi gravavano sui piccoli colli, la loro linea nel cielo aggiungeva un carattere di fantasia: la luce, un organetto che tentava la La stampa del testo originale, a questo punto, è mal riuscita creando una lacuna che Campana colma inserendo la nota che è possibile vedere nell’ultima pagina del volume. Il testo qui avrebbe dovuto riportare: «una grandiosa, virginea testa reclina d’ancella mossa».• modesta poesia del popolo sotto una ciminiera altissima sui terreni vaghi, tra le donne variopinte sulle porte: le contrade cupe della città tutte vive di tentacoli rossi: verande di torri dalle travature enormi sotto il cielo curvo: gli ultimi soffii di riflessi caldi e lontani nella grande chiarità abbagliante e uguale quando per l’arco della porta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogiorno: solo coi passeri intorno che si commossero in breve volteggio attorno al lago Leonardesco.) CREPUSCOLO MEDITERRANEO Attraverso a una piazza dorata da piccoli sepolcreti, nella scia bianca Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltadel suo pennacchio una figura giovine, gli occhi grigi, la bocca dalle linee no, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più rosee tenui, passò nella vastità luminosa del cielo. Sbiancava nel cielo ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi pò dirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e palazzi marini e dove il mito si cova? Mentre dalle volte un altro mito si cova che illumina solitaria limpida cubica la lampada colossale a spigoli verdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di antenne, ecco che sul tuo porto fumoso di molli cordami dorati, per le tue vie mi appaiono in grave incesso giovani forme, di già presaghe al cuore di una bellezza immortale appaiono rilevando al passo un lato della persona gloriosa, del puro viso ove l’occhio rideva nel tenero agile ovale. Suonavano le chitarre all’incesso della dea. Profumi varii gravavano l’aria, l’accordo delle chitarre si addolciva da un vico ambiguo nell’armonioso clamore della via che ripida calava al mare. Le insegne rosse delle botteghe promettevano vini d’oriente dal profondo splendore opalino mentre a me trepidante la vita passava avanti nelle immortali forme serene. E l’amaro, l’acuto, balbettìo del mare subito spento all’angolo di una via: spento, apparso e subito spento! Il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figure sbiadite sui muri degli alti palazzi, le grandi figure che anelano a lui come a un più antico ricordo di gloria e di gioia. Un bizzarro palazzo settecentesco sporge all’angolo di una via, signorile e fatuo, fatuo della sua antica nobiltà mediterranea. Ai piccoli balconi i sostegni di marmo si attorcono in se stessi con bizzarria. La grande finestra verde chiude nel segreto delle imposte la capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata, e la via barocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di gesso di una chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono la loro pompa convenzionale mentre che sulla via le perfide fanciulle brune mediterranee, brunite d’ombra e di luce, si bisbigliano all’orecchio al riparo delle ali teatrali e pare fuggano cacciate verso qualche inferno in quell’esplosione di gioia barocca: mentre tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali sbattute degli angioli che riempie la via. PIAZZA SARZANO A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L’aria pura è appena segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate. Intorno nell’aria del crepuscolo si intendono delle risa, serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosa tra l’edera che cela una campana: mentre, accanto, una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua ed acqua senza fretta, nella vetta con il busto di un savio imperatore: acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore romano. Un vertice colorito dall’altra parte della piazza mette quadretta, da quattro cuspidi una torre quadrata mette quadretta svariate di smalto, un riso acuto nel cielo, oltre il tortueggiare, sopra dei vicoli il velo rosso del roso mattone: ed a quel riso odo risponde l’oblio. L’oblio così caro alla statua del pagano imperatore sopra la cupoletta dove l’acqua zampilla senza fretta sotto lo sguardo cieco del savio imperatore romano. *** Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri a traverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevoli della luce riempiono il paesaggio di un’immobilità di gioia inesauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano a illudere il crepuscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove vicoli verdi di muffa calano in tranelli d’ombra: in mezzo alla piazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. E’ la notte mediterranea. *** Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolare s’alza accesa sul corroso mattone sù a capo dei vicoli gonfi cupi tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata di smalto mentre nel fondo bianca e torbida a lato dei lampioni verdi la lussuria siede imperiale. Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza. La via si torce e sprofonda. Come nubi sui colli le case veleggiano ancora tra lo svariare del verde e si scorge in fondo il trofeo della V. M. tutto bianco che vibra d’ali nell’aria. GENOVA Poi che la nube si fermò nei cieli Lontano sulla tacita infinita Marina chiusa nei lontani veli, E ritornava l’anima partita Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente illustrato del giardino il verde Sogno nell’apparenza sovrumana De le corrusche sue statue superbe: E udìi canto udìi voce di poeti Ne le fonti e le sfingi sui frontoni Benigne un primo oblìo parvero ai proni Umani ancor largire: dai segreti Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare Bianco nell’aria: innumeri dal mare Parvero i bianchi sogni dei mattini Lontano dileguando incatenare Come un ignoto turbine di suono. Tra le vele di spuma udivo il suono. Pieno era il sole di Maggio. *** Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande: Come le cateratte del Niagara Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare: Genova canta il tuo canto! *** Entro una grotta di porcellana Sorbendo caffè Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce Tra le venditrici uguali a statue, porgenti Frutti di mare con rauche grida cadenti Su la bilancia immota: Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale Su per l’erta tumultuante Verso la porta disserrata Contro l’azzurro serale, Fantastica di trofei Mitici tra torri nude al sereno, A te aggrappata d’intorno La febbre de la vita Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto Instornellato de le prostitute E dal fondo il vento del mar senza posa. *** Per i vichi marini nell’ambigua Sera cacciava il vento tra i fanali Preludii dal groviglio delle navi: I palazzi marini avevan bianchi Arabeschi nell’ombra illanguidita Ed andavamo io e la sera ambigua: Ed io gli occhi alzavo su ai mille E mille e mille occhi benevoli Delle Chimere nei cieli:. . . . . . Quando, Melodiosamente D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia Come dalla vicenda infaticabile De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale Dentro il vico marino in alto sale,. . . . . . Dentro il vico chè rosse in alto sale Marino l’ali rosse dei fanali Rabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . . Che nel vico marino, in alto sale Che bianca e lieve e querula salì! «Come nell’ali rosse dei fanali Bianca e rossa nell’ombra del fanale Che bianca e lieve e tremula salì: .....» Ora di già nel rosso del fanale Era già l’ombra faticosamente Bianca. . . . . . . . Bianca quando nel rosso del fanale Bianca lontana faticosamente L’eco attonita rise un irreale Riso: e che l’eco faticosamente E bianca e lieve e attonita salì. . . . . Di già tutto d’intorno Lucea la sera ambigua: Battevano i fanali Il palpito nell’ombra. Rumori lontano franavano Dentro silenzii solenni Chiedendo: se dal mare Il riso non saliva. . . Chiedendo se l’udiva Infaticabilmente La sera: a la vicenda Di nuvole là in alto Dentro del cielo stellare. *** Al porto il battello si posa Nel crepuscolo che brilla Negli alberi quieti di frutti di luce, Nel paesaggio mitico Di navi nel seno dell’infinito Ne la sera Calida di felicità, lucente In un grande in un grande velario Di diamanti disteso sul crepuscolo, In mille e mille diamanti in un grande velario vivente Il battello si scarica Ininterrottamente cigolante, Instancabilmente introna E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo Corrono i fanciulli e gridano Con gridi di felicità. Già a frotte s’avventurano I viaggiatori alla città tonante Che stende le sue piazze e le sue vie: La grande luce mediterranea S’è fusa in pietra di cenere: Pei vichi antichi e profondi Fragore di vita, gioia intensa e fugace: Velario d’oro di felicità È il cielo ove il sole ricchissimo Lasciò le sue spoglie preziose E la Città comprende E s’accende E la fiamma titilla ed assorbe I resti magnificenti del sole, E intesse un sudario d’oblio Divino per gli uomini stanchi. Perdute nel crepuscolo tonante Ombre di viaggiatori Vanno per la Superba Terribili e grotteschi come i ciechi. *** Vasto, dentro un odor tenue vanito Di catrame, vegliato da le lune Elettriche, sul mare appena vivo Il vasto porto si addorme. S’alza la nube delle ciminiere Mentre il porto in un dolce scricchiolìo Dei cordami s’addorme: e che la forza Dorme, dorme che culla la tristezza Inconscia de le cose che saranno E il vasto porto oscilla dentro un ritmo Affaticato e si sente La nube che si forma dal vomito silente. *** O Siciliana proterva opulente matrona A le finestre ventose del vico marinaro Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri Classica mediterranea femina dei porti: Pei grigi rosei della città di ardesia Sonavano i clamori vespertini E poi più quieti i rumori dentro la notte serena: Vedevo alle finestre lucenti come le stelle Passare le ombre de le famiglie marine: e canti Udivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea: Ch’era la notte fonda. Mentre tu siciliana, dai cavi Vetri in un torto giuoco L’ombra cava e la luce vacillante O siciliana, ai capezzoli L’ombra rinchiusa tu eri La Piovra de le notti mediterranee. Cigolava cigolava cigolava di catene La grù sul porto nel cavo de la notte serena: E dentro il cavo de la notte serena E nelle braccia di ferro Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu La finestra avevi spenta: Nuda mistica in alto cava Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena. They were all torn and cover’d with the boy’s blood Ringrazio i signori sottoscrittori, gli amici che mi hanno incoraggiato ed anche, last not least, il coscienzioso coraggioso e paziente stampatore sig. Bruno Ravagli Dino Campana Note biografiche Dino Campana era figlio di Giovanni, insegnante di scuola elementare, uomo per bene ma di carattere debole e nevrotico, e di Fanny Luti, donna compulsiva e severa, affetta da mania deambulatoria, attaccata in modo morboso al figlio Manlio, fratello minore di Dino, natole nel 1887. Trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno a Marradi ma, a circa quindici anni di età, gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi che non gli impediranno comunque di frequentare i vari cicli di scuola. Egli compie le elementari a Marradi, la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza, poi gli studi liceali in parte presso il Liceo Torricelli [1] della stessa città, in parte a Carmagnola in Piemonte presso il regio liceo Baldessano, dove consegue il diploma; ma quando rientra a Marradi, le crisi nervose si acutizzano come pure i frequenti sbalzi di umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia (soprattutto con la madre) e il paese. Nel 1904 frequenta la scuola per ufficiali di complemento a Ravenna, poi, non superando l’esame per sergente, si iscrive presso l’Università di Bologna, alla Facoltà di chimica pura, per passare - l’anno seguente - alla Facoltà di chimica farmaceutica a Firenze, ma non riesce a portare a termine la sua carriera universitaria e ha difficoltà a trovare un ordine interiore e una sua vera identificazione. Il suo unico punto di riferimento è la poesia e alla poesia dedicherà e sacrificherà - tra esaltazione e disperata follia - i suoi giorni. La “fuga” Egli espresse la sua “diversità” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi ad una vita errabonda. La prima reazione della famiglia e del paese, e poi dell’autorità pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana come segni lampanti della sua pazzia. Ad ogni sua “fuga”, che si realizzava con viaggi in paesi stranieri dove faceva i mestieri più disparati per sostenersi, seguiva, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi e per le incertezze dei familiari), il ricovero in manicomio. Tra il maggio e il luglio del 1906, Campana compie una prima fuga in Svizzera e in Francia che si conclude con l’arresto a Bardonecchia e il ricovero ad Imola. Dino durante i periodi di soggiorno a Marradi, specie nella stagione invernale, per ovviare alla monotonia delle serate marradesi era solito recarsi a “Gerbarola”, una località poco distante da Marradi, dove con gli abitanti del luogo passava qualche ora mangiando le caldarroste, localmente appellate con il nome di “bruciati” (le castagne sono infatti il frutto tipico di Marradi). Questo tipo di svago sembrava avere effetti positivi riguardo i suoi disturbi psichici. Nel 1907, i genitori di Campana non sanno più che fare di fronte alla follia del figlio e lo mandano in America Latina presso una famiglia di compaesani emigrati (forse dei parenti). Non si tratta di una “fuga” del poeta, che non avrebbe potuto ottenere da solo un passaporto per il Nuovo Mondo in quanto era già ritenuto ufficialmente “pazzo”. È la sua famiglia a procurargli il passaporto e ad organizzargli il viaggio, e Dino parte per la paura di dover tornare in manicomio. I coniugi Campana sostengono di averlo mandato in America con la speranza che questo viaggio lo potesse guarire, ma sembra che il passaporto fosse valido solo per l’andata, per cui si trattò probabilmente (anche) di un tentativo di sbarazzarsi di lui, poiché la convivenza con Campana era ormai divenuta insopportabile per tutti. Il viaggio in America rappresenta un punto particolarmente oscuro della biografia di Campana: se alcuni arrivano a chiamarlo “il poeta dei due mondi”, c’è anche chi, invece, come per esempio Ungaretti, sostiene che in America, Campana non ci andò neppure. Numerose sono anche le opinioni sulla datazione del viaggio e sulle modalità ed il tragitto del ritorno. L’ipotesi più accreditata è che sia partito nell’autunno 1907 da Genova ed abbia vagabondato per l’Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricompare a Marradi, dove viene arrestato. Dopo un breve internamento al San Salvi di Firenze, parte per un viaggio in Belgio, ma viene di nuovo arrestato a Bruxelles e viene poi internato nella “maison de santé” di Tournai all’inizio del 1910. Chiede aiuto alla sua famiglia e viene rimandato a Marradi. Canti Orfici Tra il 1912 e il 1913 Campana compone i versi che diventeranno poi (dopo alterne vicende e diverse riscritture) la sua opera più significativa: i “Canti Orfici”, una raccolta che contiene un poema in due parti (La notte), sette poesie intitolate I notturni, una prosa diaristica su di un viaggio alla Verna e altre dieci fra poesie e prose liriche. Segue una sezione di Varie che comprendono due frammenti, sette prose liriche e (in sette parti) il poemetto Genova. (In quest’ulltima sezione fu inserita dopo la morte di Campana una lirica di Luisa Giaconi, poetessa che l’aveva molto colpito. Questo fu dovuto ad un errore di attribuzione dell’editore, cui Campana l’aveva entusiasticamente inviata, senza menzionare con chiarezza il nome dell’autrice. Dopo alcuni anni, la poesia è stata correttamente attribuita e tolta dai Canti orfici) Nel 1913 si reca a Firenze presentandosi nella redazione della rivista “Lacerba” a Giovanni Papini e ad Ardengo Soffici,suo lontano parente, cui consegna il suo manoscritto dal titolo “Il più lungo giorno”. Non viene preso in considerazione e il manoscritto va perduto (sarà ritrovato solamente, dopo sessant’anni, nel 1971, dopo la morte di Soffici, tra le sue carte nella casa di Poggio a Caiano, probabilmente nello stesso posto in cui era stato abbandonato e dimenticato). Dopo qualche mese di attesa Campana scende da Marradi a Firenze per riprendersi il suo manoscritto. Papini non lo possiede più e lo manda da Soffici che nega di aver mai avuto il libretto. Il giovane, la cui mente è già labile, si arrabbia e si dispera, vuole indietro il suo manoscritto , scrive, implora insistentemente senza altro risultato che il disprezzo e l’indifferenza di tutto l’ambiente culturale che gravita intorno alle Giubbe Rosse, minaccia di venire con il coltello per farsi giustizia dell’ “infame” Soffici e i suoi soci che definisce “sciacalli”. Nell’inverno del 1914, convinto di non poter più recuperare il manoscritto, Campana decide di riscrivere tutto affidandosi alla memoria, e in pochi giorni, lavorando anche di notte e a costo di un enorme sforzo riesce a riscrivere i suoi testi, sia pure con con modifiche e aggiunte. Nella primavera del 1914, Campana riesce finalmente a pubblicare a proprie spese, la raccolta, con il titolo, appunto, di “Canti Orfici”. Il 1915 lo trascorre viaggiando senza una meta fissa: Torino, Domodossola, ancora Firenze. Nel 1916 ricerca inutilmente un impiego. Scrive a Emilio Cecchi (che sarà, insieme a Giovanni Boine[- che comprese subito l’importanza di Campana recensendo i Canti Orfici nel 1914 su “Plalusi e Botte” - e a Giuseppe De Robertis, uno dei suoi pochi estimatori) ed inizia con lo scrittore una breve corrispondenza. A Livorno si scontra con il giornalista Athos Gastone Banti, che scrive su di lui un articolo denigratorio sul giornale “Il Telegrafo”: si arriva quasi al duello. Nello stesso anno conosce Sibilla Aleramo, l’autrice del romanzo Una donna ed inizia con lei una intensa e tumultuosa relazione, che si interromperà all’inizio del 1917 dopo un breve incontro nel Natale 1916 a Marradi. Abbiamo testimonianza della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla, da un tragico carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore - Lettere 19161918. Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo datata 10 giugno 1916, nel quale l’autrice esprime la sua ammirazione per i “Canti Orfici”, dichiarando di esserne stata incantata e abbagliata insieme. Sibilla era allora in vacanza nella Villa La Topaia a Borgo San Lorenzo, mentre Campana era in una stazione climatica presso Firenzuola per rimettersi in salute dopo essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro del corpo. Nel 1918 viene internato presso l’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Scandicci (Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani lo va a trovare per intervistarlo. Nel 1938 la casa editrice Vallecchi pubblicherà “Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore”. Dino Campana muore, sembra per una forma di setticemia dovuta ad una malattia mai ben chiarita, il primo marzo del 1932, la salma è sepolta nel cimitero di San Colombano nel territorio di Scandicci. Il 3 marzo 1942, su interessamento di Piero Bargellini la salma è tumulata nella cappella sottostante il campanile della chiesa di Badia a Settimo. Durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, i tedeschi, in ritirata, fanno saltare con una carica esplosiva il campanile distruggendo nel contempo anche la cappella. Solo nel 1946 le ossa del poeta raggiungono la loro ultima dimora, all’interno della Chiesa di Badia a Settimo. Nel 1916 conobbe Dino Campana cui fu legata da una passione vorticosa, testimoniata dalle Lettere pubblicate la prima volta nel 1958. La sua seconda opera è del 1919 e si titola “Il passaggio” è una prosa lirica incandescente, percorsa da una tensione verbale estrema e da una sensualità accesa. Più temperate sono le pagine di “Andando stando” del 1920, di “Gioie d’occasione” e di “Orsa minore” del 1938. La tematica femminista è ripresa nei romanzi “Amo, dunque sono” del 1927 e “// frustino” del 1932. Quando nel 1949 aderì al partito comunista nacquero le liriche de “Il mondo è adolescenti”; ma la poesia vera toccante e d’alto lirismo immaginifico culmina nella raccolta “Selva d’amore” del 1947, anche se spesso si riduce, a testimonianza di vita. Più interessanti sono i diari “Diario di una donna” che va dal 1945 al 1960, pubblicato postumo nel 1978, e “Un amore insolito” seguito un anno più tardi, documentano i rapporti della scrittrice con i protagonisti della vita culturale del tempo: Giovanni Papini. V. Cardarelli. U. Boccioni, F. Matacotta, S. Quasimodo ecc... Lettere di Sibilla Aleramo con Dino Campana Sibilla Aleramo il cui vero nome è Rina Faccio, era nata ad Alessandria nel 1876 e morta a Roma nel 1960. Una scrittrice che si formò nel clima dell’ibsenismo e del dannunzianesimo, esordì nel 1906 con il romanzo “Una donna”, una sofferta testimonianza della donna nel suo ruolo di subalterna nella famiglia e nella società, ma vibrante di un chiaro appello femminista contro la prevaricazione maschile. Si dedicò, insieme al poeta Giovanni Cena, ad una generosa opera d’apostolato sociale nell’agro romano. Dino Campana era nato a Marradi, Firenze nel 1885 - e morto a Castel Pulci, Firenze nel 1932. Dino CampanaFin dall’adolescenza era segnato dai sintomi di una nevrosi che l’avrebbe condotto alla pazzia. Nel 1903 si iscrisse alla facoltà di chimica pura all’università di Bologna e, dopo un primo internamento nel manicomio di Imola, si recò a Parigi, dove entrò in contatto con le avanguardie artistico-letterarie. Spinto da un irrequieto nomadismo e da una concezione anarchica e avventurosa dell’esistenza nel 1908 si reca nell’America del Sud in cerca di lavoro per vivere, dove intraprende i mestieri più strani e, intanto, percorre a piedi le città sudamericane che trasfigurerà poi nella luce della memoria e attraverso le poesie. Tornato in Italia nel 1909, dopo un nuovo ricovero nel manicomio di Firenze, riprende gli studi di chimica, dedicandosi nel frattempo alla lettura dei poeti crepuscolari e futuristi e inoltre di E. A. Poe e di F. Nietzsche. Nel 1913 conosce Giovanni Papini e Ardengo Soffici, cui dà in lettura il manoscritto delle sue poesie; l’amico però lo smarrisce e per tale motivo è pubblicato postumo con il titolo II più lungo giorno, nel 1973 e Campa- na riscrive a memoria le sue liriche e le pubblica a proprie spese con il titolo di Canti orfici nel 1914. Del 1916 è la sua tempestosa relazione amorosa con Sibilla Aleramo, per la quale nel 1918 è internato definitivamente nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove trascorre gli ultimi anni tra brevi momenti di lucidità e vani progetti di lavoro, fino alla morte avvenuta per setticemia. tenera e indifesa adesione alla quotidianità, di eccezionale bontà e gentilezza. ____________________ I Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo Molti suoi scritti sono stati pubblicati postumi: Inediti, nel 1942; taccuino, nel 1949; Canti orfici e altri scritti, nel 1952; Lettere, nel 1958; Taccuinetto faentino, nel 1960; Opere e contributi, nel 1974; Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, nel 1978. Questa lettera di Campana è per risposta alla prima, che Sibilla aveva scritto a Campana, dopo aver letto “Canti orfici”, che è andata perduta. La raccolta di liriche le aveva consigliate a Sibilla, Emilio Cecchi, inviandole anche la recensione che aveva fatto su La Tribuna del 21 maggio 1916. L’itinerario poetico di Dino Campana, parte da un fondo ottocentesco e Cecchi per questo fu coinvolto da vicino nelle vicende Aleramo-Camparaggiunge due esiti diversi: quello simbolistico-decadente, di tono visio- na. Per quanto riguarda l’opera di Campana Cecchi si battè con forze e nario, e quello “visivo”, portato a una sontuosa decorazione e alle fram- determinazione perché questa si affermasse, pubblicando su vari giormentarie impressioni immaginifiche del suo stato. nali e riviste specializzate recensioni e commenti. Il termine di “orfici”, dato da Campana ai suoi “Canti”, allude a una con- [Barco] Rifredo di Mugello [22 luglio 1916] cezione simbolistica della poesia, assimilata alla voce degli antichi poetiprofeti, depositari dei segreti del mondo. Egregia Sibilla Sono canti che illuminano e illustrano sfondi di città trasognanti, che richiamano velatamente affinità con la pittura di Giorgio De Chirico. Vorrei scrivervi ma non posso. Sono orribilmente annoiato. Conoscete Walt Whitman? Non capisco come facciate a vivere a Firenze e a conoscere certa gente. Non parlo di Cecchi che stimo e di Baldini. (Uno dei pochi amici di Dino sul quale mai si riversarono le sue ire) (n.d.r.).Studierò un tipo di voi. Bisognerebbe che avessi il vostro ritratto. La cornice della lirica di Campana, la cui musica sconvolta procede tra frasi monche e riprese di motivi in iterazioni ossessive, al limite dell’ineffabile. Ma all’interno dei “Canti orfici”, e soprattutto al di fuori di essi, negli scritti postumi, c’è un filone violentemente espressionistico, caratterizza- Guardatevi da S. Francesco. Una pecorella e voi? Vi preferisco cosi. to dalla figura del poeta e da una carica di aggressività che raggiunge le Mi avete riconosciuto per italiano: credo, egregia Sibilla, che non avrò sue punte estreme nell’intreccio di sensualità e di sadismo. eredi. Anderò col mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra non esisterò più ammesso che esista ancora. Vi prego, se potete di trovarmi Da alcuni critici è considerato il caposcuola della poesia moderna, qua- qualche acquirente per il mio libro. Lo invierò immediatamente. Vi bacio si un “visionario” alla Rimbaud, e da altri un poeta melodico e visivo, la mano musicale e cromatico. Campana sfugge a definizioni troppo rigide e nasconde, dietro la maschera cinica e grottesca di “poeta maledetto”, una Dino Campana II Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana La Topaia Borgo San Lorenzo lunedì [24 luglio 1916] se partite. Addio. Vorrei in questi quindici giorni mandar innanzi un libro, incominciato da tanto tempo e a cui lavoro soltanto “di dentro”... A Firenze traduco dal francese articoli di politica! Vedete che questa mia lettera non somiglia alla prima. Cosi i ritratti non mi somigliano mai. Scrivetemi. Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso sia- Sibilla Aleramo mo più vicini, forse. Non so dove si trovi Rifredo, non ho domandato, e tutto il Mugello m’è nuovo. Qui sono in una casa di campagna, grande, Rimandatemi poi gli articoli, vi prego, perché non ne ho altre copie. deserta. Gli ospiti me l’han lasciata durante questa loro assenza, per due settimane. III Lettera Caro Campana, sono vicina a S. Francesco perché, nata signora, mi son spogliata via via di molte cose, “felice d’esser povera ignuda” - vi parafraso. Ma non temete per il mio spirito. E ho amato Walt Whitman, come pochi altri. È già tanto tempo. Vi mando qualche mio vecchio articolo: giornalismo, non altro. Ma in uno parlo appunto, come potevo farlo allora, con ingenua gravita, di Walt. E in un altro, più recente, di Assisi. E in un altro ancora, della Provenza e di Parigi. Poi un brano d’autobiografìa, ricordi d’infanzia Metto anche una pagina ch’è un poco più che giornalismo, e che sarei contenta se voi leggeste con adesione: è di questo inverno. Volevate il mio ritratto, e invece vi mando delle parole, stampate! Mah. Le fotografìe non mi somigliano. Ci vedremo, una volta. Dite che vorreste studiarmi come tipo. Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato qualche mio piccolo accento - e tutto il resto vi confonderà. Però siete annoiato, dubitate quasi d’esistere, mi mettete nella tremenda alternativa di veder finire Campana con la guerra o di dover desiderare che la guerra si perpetui... Non vi diverto? Sono un po’ assonnata. Ho scritto a varie persone che mandino a chiedervi il vostro libro, spero che qualcuna almeno m’ascolti. Mandatene due copie a me, ne regalerò una (con l’altra che già possiedo) e una la terrò, se ci mettete il vostro nome e il mio. Ho dato a tutti l’indirizzo di Rifredo - avvenite alla posta, Sibilla Aleramo a Dino Campana Chiudo il tuo libro, snodo le mie treccie, o cuor selvaggio, musico cuore... con la tua vita intera sei nei tuoi canti come un addio a me. Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo, liberi singhiozzando, senza mai vederci, ne mai saperci, con notturni occhi. Or nei tuoi canti la tua vita intera è come un addio a me. Cuor selvaggio, musico cuore, chiudo il tuo libro, le mie treccie snodo... Sibilla Aleramo Mugello, 25-7-1916’. V Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana Topaia, 28 luglio [1916] Borgo San Lorenzo Ed è per diffidenza postale che m’avete scritto in francese? Non vi venga in mente qualche altro giorno di farlo in inglese o tedesco, che non capisco, né in spagnolo. Quella vostra Pampa, che cielo alto! Se ci si incontra a Marradi, mi darete il vostro libro e i miei articoli. Sono contenta che vi sian piaciute quelle righe di ricordo sulla mia infanzia. Vogliatemi bene. Sibilla Aleramo La solitudine ed io siamo buone compagne, perfino quando, come oggi, c’è un cielo pesante, e nella fattoria accanto bufonchia la “macchina”. Ho sentito molto il vostro spirito qui attorno, in questi giorni. Ho guardato sulla vecchia carta dov’è Firenzuola. Più su di Marradi. Vivere un poco sotto la tenda - perché no? Sebbene sarebbe rischioso. Devo guardarmi dal freddo e dall’umidità, dopo un attacco d’artrite che m’ha colta a tradi- mento, due o tre anni fa. Non sono più giovane, lo sapevate? Però ancora buona camminatrice - cotesta occhiata agli Apennini la darei volentieri, con voi. Quando vi dico che mi riguardo, non intendo mica conservarmi per la vecchiaia... Ma la malattia mi fa orrore, la mia santità non arriva fino ad accettar l’infermità... VII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 31 luglio - 1 ° agosto 1916] Mio caro Cloche, incomincio a farmi un’idea della topografìa dei nostri rispettivi eremi. Dal canto vostro avete da sapere che io mi trovo più vicino a Panicaglia che a Borgo. Alla stazione di Panicaglia si va in 15 minuti attraverso i campi, mentre a quella di Borgo ci vuole un’ora buona. Vi direi di venire voi senz’altro, ma vedo che preferite che venga io costà, e va bene, poiché sperate che il posto m’invogli a tornare. Prenderò dunque l’automobile Insomma, se venissi a trovarvi costassù come mi dovrei equipaggiare? a S. Piero giovedì mattina alle sette e scenderò a Rifredo, a meno che il conduttore non mi dica che Barco vien prima, nel qual caso voi m’aspetVogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi? Se non v’annoia trop- terete a Barco, sta bene? Non occorre rispondiate, se va bene. E io spepo, se non siete troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o ro che nulla m’impedisca di venire ‘. Forse resterò anche la sera - siagiovedì, col primo treno (8.55), e voi dirmi dove m’aspettereste. Credo mo poeti notturni, le stelle ci propizieranno l’avvenire -. Se foste venuto che ci si riconoscerebbe facilmente. qui, la prima impressione che v’avrei fatta sarebbe stata forse migliore, senza cappello e tutti gli altri imbarazzi del viaggio... Ridete? Ma voi mi Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli prospettate la vostra testa rossa e la vostra aria da gentil garzoni... che bisogna ignorare. Uomo diffidente! Se fossi una predicatrice, vi direi di imitarmi, che non ho mai fatto a nessuno, ne in terra ne in cielo, l’ono- Mio caro Campana. Ho un tono scherzoso, ma voi sentite quanto in re di chiamarlo mio “nemico”. realtà sia profonda la mia tenerezza. Vi ringrazio d’avermi scritto quelle parole sul dolore patito a Marradi. Vi saprò dir poco, a voce, sono una silenziosa, ma vedrete che il travagliato nodo della mia anima lascia tuttavia al mio volto e al mio silenzio un poco di chiarità. Vostra Sibilla E non ho baciato le tue ginocchia. I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il ciclo. Ormai sono legati indissolubilmente, la passione li spinge l’uno verso Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata cosi lontano. l’altra senza pensare: l’innamoramento non ha più freni e, infatti, invece Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu del 6 agosto si incontreranno il 3, quando, finalmente appagano il desi- non hai bisogno di me! derio che li strugge. (N.d.R.) È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere inVIII Lettera sieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore Dino Campana a Sibilla Aleramo del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore! Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è cosi forte. Non posso scriverti. Verrò il II Barco 5 agosto 1916 19. dovunque. Il 14 resterò qui; a Firenze andrò poi per un giorno. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, Con cuore fraterno a Sibilla Aleramo. Dino Campana son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? IX Lettera Scrivimi. Sibilla Aleramo a Dino Campana [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] domenica-lunedi [6-7 agosto 1916] Perché non ho baciato le tue ginocchia? X Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Casetta di Tiara, Firenzuola 7 agosto 1916] Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a Leggo il Rubayat di Ornar Kaimar. Questo libro è eccellente e ben trapiedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca. dotto. Benché vi abbia appena stretto la mano bella dubitosa vi vedo qua Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quel- in fondo ai pensieri e in fondo al paesaggio. Pura bellezza oro dell’ocla che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha caso qualche cosa che conta nella solitudine dice Ornar Kaimar e dice parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio dispe- bene, nella febbre del crepuscolo tra i grandi boschi. rato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querele, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima Tu che tacevi o XI Lettera soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. Sibilla Aleramo a Dino Campana [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] lunedì sera [7 agosto 1916] [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 7-8 agosto 1916] Notte - Possa tu riposare, mentre io ardo cosi nel pensiero di te e non Tremo aspettando che tu mi scriva. M’hai amato, quei giorni. T’ho avuto trovo più il sonno, e sono felice. M’hai promesso di farti rivedere ancor tutto nel primo sguardo, cosi interamente. Perché tremo? E l’ultima sera più bello, mia bella belva bionda. Come passerai questi giorni e queste m’hai detto: “Tanto dubitavi di te?...”. notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa. Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezOh, ma è la verità. Dino. Io, che non vorrei, che mai avrei voluto cam- za anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi biarmi con un’altra creatura, io che so il mio valore, so anche tutta la mia come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta miseria, so che se tu domani mi scrivessi che è stato un sogno, che ti fede, Dino. Mi sento ancora cosi forte, per questo scambio del nostro sei svegliato, che non mi ami, troverei nel mio orrore da chinare il capo... sangue. Perché amarmi, tu? Anche oggi, che povere frasi sciocche devo averti scritto. Come quando t’ero accanto, che non sapevo che piangere o XIII Lettera baciarti. E ho fatto piangere tanti dacché vivo. Che importa se per ogni lagrima che ho fatto scendere ne ho versate io stessa cento. C’è tanta Sibilla Aleramo a Dino Campana ombra intorno a me. Puoi averlo sentito, puoi, dopo che son partita, averlo sentito, tu che sei fatto per il sole... Dino, Dino! [La Topaia, Borgo S, Lorenzo] mattino, martedì [8 agosto 1916] M’hai detto: “tu non dici: sempre, mai, come le altre”. Ma stasera mi sembra che mai io mi sia sentita davanti all’amore una cosi piccola cosa oscura. Dopo tutto quanto ho vissuto e voluto, dopo aver benedetto ogni sforzo e ogni martirio credendo ogni volta di crescere e d’adunar luce in me, come mi trovo davanti a te! E se tu sapessi il disprezzo che ho per queste stesse parole con le quali cerco come d’inginocchiarmi. Tacere, non dovrei che tacere, aspettando. Bisogno di distruzione, dicevi... Come m’hai parlato del “nostro” lavoro, quell’ultimo mattino! Della cosa bella creata sotto il cielo dal fatto solo del nostro amore. - Senti i miei silenzi? - T’ho veduto staccato da tutti, libero come nessuno, e più umano ancora di me, oh Dino, ch’ero cosi sola a portar tutta la mia umanità. Ma più forte di me, anche. Più alto. So quel che dico. Che ti potrò dare? T’adoro. E sento tutta la mia impotenza. Baciarti.i. Baciarti... Aspettando la posta, ecco cosa t’ho fatto...: XII Lettera (Questa poesia era stata scritta in ricordo del loro primo incontro, quello del 3 agosto 1916, fu inserita nella raccolta del 1920, Momenti, col titolo Fauno, appare ora a pagina 22 nel libro Sibilla Aleramo a cura di B. Conti e introduzione di C.Rendine, nella edizione curata per la Newton Sibilla Aleramo a Dino Campana Fauno1 Lontane dal mondo, querce, rade nel sole d’agosto, acque fra sassi, lontane dal tempo, e tu dorato ridi, tu alla bianca mia spalla tu alla verginea sua musica gioia dagli occhi ridi. Compton Editori, Roma 1980) [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 8 agosto 1916] pomeriggio (l’ultimo verso era venuto prima dei due penultimi: forse era meglio? Ma M’han portato in ritardo la tua cartolina, Omar Kaimar. Prendo tutte le non ha importanza. È per noi). E non m’hai scritto... cose troppo sul serio? Ti mando lo stesso tutto quel che t’avevo scritto, ti divertirà un momento Insieme alla tua, poche parole da Firenze, lagrime Ho il terrore che tu non ti senta bene... Quei giorni son stati troppo belli. ma degne. Ne ho fatto un uomo. Ti supplico, Dino, tranquillizzami, mi basta una parola, te l’ho detto. E ora devo aspettare fino a domattina, la posta non viene che una volta... Perché “dubitosa”? Di me, no. Di quel che sentivo, no. E neanche di quel che dovevo fare, vedi, ch’è già fatto, limpidamente. Ma d’esser per te Sono ancora sola, credo che gli ospiti torneranno domani. Stanotte ho una cosa di vita, una cosa di bellezza... riposato un poco, alzandomi avevo il viso roseo, ma ora son di nuovo inquieta. Vuoi ch’io ritorni subito?... Se vuoi, vengo, Dino. Ma tu m’avevi Ripensavo a un punto del tuo libro, a una frase che mi ti aveva avvipromesso di star bene, di aspettarmi con i tuoi occhi chiari, di riposarti cinata forse più d’ogni altra la prima volta che ti lessi: e ho cercato nel pensando alla tua piccola. Mi ami sempre? Dolcezza, passione, smarri- volume, è proprio dove tu mettesti per me la foglia d’edera: “.. .Dolce mi mento, sentimi. Tua è sembrato il mio destino fuggitivo... cosi conosco una musica dolce nel mio ricordo... so che si chiama la partenza o il ritorno...”. Ho fede, sai, tanta. Staremo insieme tanto - Guardiamo lontano. Amore. Baciami. Andando e stando. Preoccupazioni della Petite bourgeoise. Hai scritto a Vicchio? E al tuo paese per i vestiti e per il libri? Sei andato a veder di nuovo alla Casetta? E la russa, ti lascia in pace? Ho chiesto a Torino Una donna!. Spero tu lo possa avere per il 14. Scrivimi subito, ti prego, poi per il 14 mi scriverai ancora, vero? qui. XV Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 9 agosto 1916] Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò... Sei tu Certi Gonzales da Milano non ti han chiesto i Canti? Non impensierirti, ti che mi squassi cosi? Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho darò tregua con le mie epistole... Ma ora dimmi che stai bene e che mi negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai vuoi bene. Soffro, ho bisogno di ritrovarti. fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce. Dove sei, che mi sento cosi strappata a me stessa? Mi chiami, o m’hai dimenticata? Oh ti voglio ti voglio, non ti lascerò ad altri, non sarò d’altri, per la mia vita ti voglio e per la mia morte, Dino, dopo XIV Lettera questo non si può esser più nulla, oh, sapere che anche tu lo senti, che rantoli anche tu cosi... Sibilla Aleramo a Dino Campana Mi aspetti, dimmi, mi aspetti, vero? Saremo soli sulla terra. Bruceremo. Hai visto che siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per Se vuoi, puoi scrivermi a Firenze - se ti occorre qualcosa di là. noi. Più a fondo, più a fondo, ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tiemmi, io non ti lascio, bruceremo. XVII Dimmi che mi manca cosi il respiro perché mi chiami, perché mi vuoi... Sibilla Aleramo a Dino Campana [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] mercoledì sera [9 agosto 1916] Riapro la lettera - perché non l’ho spedita non lo so; perché t’avevo promesso un po’ di requie, perché m’hai detto che non ami l’epistolografìa... Ma lasciami cosi, ancora un poco. Stasera e l’ultima di questa solitudiSibilla Aleramo a Dino Campana ne alla Topaia. (Quei benedetti Luchaire, avessi saputo che tardavano tanto a tornare! Sarei forse ancora al Barco... Ma non bisogna voler loro [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 9 agosto 1916] male: senza questa villeggiatura in casa loro, chissà quando ci saremmo trovati, io e te). Non sei venuto qui, ma come ci hai vissuto! Dalla prima Domani sera, giovedì, vado a Firenze, m’han scritto i Luchaire che sa- sera del mio arrivo, avevo avuto a Firenze poche ore prima la tua prima ran qui soltanto domenica, e Fr.[anchi] mi supplica d’andar un giorno a risposta, e avevo sentito che c’era qualcosa di mutato sotto il cielo. Da vederlo. Tornerò qui domenica mattina con i Luch. portando tutto quello quella notte, che non potei prender sonno, pensandoti. Oh, Dino, tutdi cui mi devo provvedere a Firenze per la montagna. Cosi dopo tre o to questo che ti racconto, tutto questo che m’accade, sarebbe troppo quattro giorni con gli ospiti qui, ti raggiungerò direttamente, ed è molto sciocco, se non fosse grande. Vedi, la calligrafìa di stasera è diversa da meglio. Mi scriverai dove. Ti manderò un orario ferroviario per il caso si quella d’oggi. C’è un lume a petrolio che mi par d’esser diventata miope. vada a Vicchio. Ma se ti pare che alla Casetta sia possibile, vengo. Poi I miei occhi. Ti son piaciuti. Tutta ti son piaciuta? Tremavi. M’hai detto c’è sempre tempo di cambiare. Ma ritrovarci. cose tanto care. E ora perché non mi scrivi, Dino? Oh, non è un lamento. .. È questo terrore assurdo... L’avevo anche prima di vederti, quando ti A Firenze soffrirò, patirò tutta la passione di quel figliolo. Ha sentito tutto, scrissi la seconda e terza lettera, e pensavo ch’eran brutte, che potevan non spera più. Ma avrà forza, mi appartiene, vivrà. Tu non stare in pena, aver offuscata un’immagine di me già creata nella tua mente... Sei mai sarebbe un’offesa, a questo tormento divino che provo, il dirti altro, vero stato amato, Dino? Nulla, non so nulla di te, se non che hai sofferto e Dino? Son tua, non posso che esser tua, lo sai. Pensami. Non m’hai che sei rimasto il più forte. Oggi ti ho gridata la mia febbre, stasera vorrei scritto ancora, non so nulla, son tutta soltanto col ricordo, e brucio. darti invece soltanto dolcezza, averne tanta da te. Puoi, lo so. Che siam tanto stanchi tuttedue, talvolta. Fraternità, anche m’hai offerta. L’inquieForse domani avrò una tua lettera... Ti riscriverò da Firenze. Per il 14 tudine che si placa, la febbre che cede, oasi, oasi serene, mie, tue. Mi mattina, una tua parola qui alla villa, Dino; e nel pomeriggio ti sentirò aspetti? hai fede? Tanti han avuto quella vile e stolida paura di soffrire come se mi baciassi tutta. Tra i grandi boschi... mi aspetti? Ti farò grida- e di farmi soffrire... Perciò ho voluto che tu sapessi tante cose amare, re di gioia quando ci riprenderemo. Poi piangeremo di felicità, tanto... Mi invece di portarti soltanto gioia e luce. Dopo, se ora mi aspetti, non ne ami? Lo sapevi che t’avrei amato? parleremo mai più. Dino. Ti chiamerò tanto col tuo nome, ti chiamerò tanto, amore. C’è qualche tempo dinanzi, strade e cose da fare. Questo XVI tuo silenzio! Mi vuoi provare tu, ora? Resisto, vedi. Domani a Firenze quel fanciullo piangerà tanto, piange già tanto dacché ha saputo - gli ho scritto soltanto che avevo avuto una visione di forza e di grandezza, fuori del tempo, e che ti avevo promesso di tornare - e gli ho chiesto d’esser forte. Piangerò con lui. Non accadrà altro, non ti dirò nulla, come m’hai chiesto. Pensami con la tua bontà più profonda, Dino, e sentimi col tuo amore, senti che continua quel miracolo di quell’ora nel sole lontano, ritroveremo le polle d’acqua... XVIII Lettera XX Lettera wpe17.jpg (2540 byte) Dino Campana a Sibilla Aleramo [Rifredo 11 agosto 16 ore 10,50] Ti aspetto - Dino Oggi ho avuto la tentazione di telegrafarti che venivo al Barco... Ma poi, “I due si erano visti il 13 di agosto, infatti, Dino aveva scritto: …le mie ti se tu non ci fossi? E devo anche rifornirmi di danaro, a Firenze. Cosi, mi hanno inseguito: chissà se ti raggiungeranno. Una cartolina a Firenzuoson forzata al lavoro di traduzione, non so quant’ore, bougianen... (mi la, una lettera a Rifredo. Ieri ti pensavo nella pace del Mugello, sospesa hai parlato in piemontese, mentre salivo su l’automobile, chissà perché, e combattuta ma sola, nella luce del tuo giorno. Invece m’è giunta la io non capivo più nulla...) - Come sono sfinita. Perdonami. Amami, sai? nuova tua di ieri da Faenza. Forse i due passarono un paio di giorni Cuore. insieme…” Sibilla Aleramo a Dino Campana [Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] giovedì mattina [10 agosto 1916] Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenzuola, 17 agosto 1916] Non importa che tu legga tutto questo, gridi, sospiri, per non sentire il Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Come amo la popeso al cuore e al cervello. Leggi soltanto, Dino, che vengo, vengo a te vertà delle cose quassù che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza! con tutta me. Scrivimi, ti supplico, una parola a Firenze, con espresso ch’io l’abbia di certo sabato: dimmi se domenica e lunedì sarai al Barco, perché nel caso (improbabile) che i Luchaire proroghino ancora, verrei a farti una visitina. Ti scriverò da Firenze. ore 10 - Niente posta neanche stamane, devo partire senza saper più nulla di tè... Come starai? Ti supplico, mandami una parola per espresso a Firenze. Ma ti sento, so che m’aspetti, vengo. XIX Lettera XXI Lettera Dino Campana e Sibilla Aleramo a E. Cecchi [Casetta di Tiara (Toscana) Firenzuola [22 agosto 1916] Egregio Signor Cecchi spero avrà ricevuto la mia cartolina in risposta per affari editoriali. Grazie del suo saluto da Poggibonsi. È qui Sibilla che saluta Lei e la Signna. Devmo Tra i falchi, Sibilla Dino Campana XXII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Casetta di Tiara, agosto 1916?] Tiemmi con te Rina “Per la prima volta Sibilla firma la cartolina illustrata col suo vero nome di battesimo: Rina, (ndr)” XXIII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Firenze, 15-17 settembre 1916] Dino, Dino, Dino Come fare, senza dirti che t’adoro, a mandarti qualche piccola parola che brilli e t’accarezzi più delle stelle? Le stelle intorno alla Casetta. Il sole della Bastia che m’ha fatto brune le mani. Dino, Dino. Ricordati, quando chiederai a tua Madre quel tuo ritratto che mi piacerà, di dirle ch’è per una donna felice. Tengo in petto, tutta per noi soltanto, la nostra gioia, la nostra malinconia, la nostra forza. La vita è per noi, Dino, lo sento senza un attimo mai di sosta o di dubbio. Che senso di discesa l’altra sera tornando in città! Ma ripartirò fra poco, sai! E mi porterai sul mare. (Avevano già progettato una vacanza a Marina di Pisa) Con tanta fede, se vedessi come tremo, qui, piccola cosa silenziosa, tua... Dimmi che nel letto grande dormi un sonno buono. (Per giovedì ti manderò notizie e quel che ancor non m’è giunto ma non può tardare. Delle traduzioni che ti lasciai, io ho dovuto fare, con altre, quella doganale: la napoleonica è per l’altro numero. Chissà oggi come ti sarai seccato, mi perdoni?). Amato. Vedimi. Son la creatura più ricca, più forte, più bella se ti guardo e se mi baci con amore. XXIV Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Casetta di Tiara. Firenzuola] 19 settembre 1916 Come sapete ho la testa vuota. Piena del vento iemale che empie questa valle d’inferno. L’inverno mi diverte. Sento che qualcosa resta dopo tutto, come quel laghetto laggiù nella sua trasparenza che nulla riesce ad offuscare. Mi diverto a vederlo rabbrividire. Mi contento di poco come vedete. La felicità è fatta delle cose più leggere: quando, s’intende, la felicità è in noi: in me? e in voi? - Spedito con espresso articolo a voi, ricevuto lettera ringrazio. Trovato coltellino. Speditemi lavoro.. XXV Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [settembre 1916?] Mandatemi delle traduzioni XXVI Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Firenze] mercoledì [20 settembre 1916] Dino, ho baciato tanto quelle bozze e quella traduzione, con la tua epigrafe e il tuo poscritto, ieri. Piangevo e ridevo insieme. Ti amo. Questa lontananza è assurda. Telegrafami. Quando parti dalla Casetta; e poi da Marradi l’ora dell’arrivo qui, che sarò alla stazione. Domenica, lunedì? Ti aspetto, sono tutta tua, sola con te in tutto il mondo e nello spazio. Ti amo, Dino, mio Dino, nome d’argento, ti aspetto, sentimi. vedo nessuno, ti dirò. Telegrafami. Se arrivi di mattina, ripartiremo in giornata. In tutti i modi sarò alla stazione. Dino, mi senti? XXVIII Dino Campana a Sibilla Aleramo [Palazzuolo dt Romagna, 22 settembre 1916] Carissima Sibilla, Sabato, domani, all’ultimo treno che arriva a Firenze alle 8 3/4 o le nove, io verrò mia cara. Non posso dirti nulla. Son qua a Palazzolo, (ne vedesti Se non parti ancora sabato, scrivimi. Piove anche costi? Resisti? - An- la direzione dalla Bastia). Mi sono messo in viaggio questa mattina con dremo a Motrone. Per l’indirizzo, alla posta e a casa, di che lo manderai un tempo magnifico e per tutta la mattina ho pensato a te come per racsubito. Vieni... Ho scritto in Sicilia... coglierti intorno gli ultimi splendori della bella stagione nei prati umidi, un Avrò venerdì mattina una tua? L’erica e la stella sono qui davanti. Ti verde intenso di velluto. Non ti dirò le sciocchezze che servivano di prebacio tanto. testo al mio amore, sono di quelle che non mi vuoi perdonare. Cantavo. Figurati che avevo per ritornello io ti scopersi e ti chiamai Sibilla. Volevo XXVII Lettera anzi telegrafartelo senz’altro questo ritornello come una protesta brutale della sanità vitale del nostro amore, unica ambigua e chiara risposta alle Sibilla Aleramo a Dino Campana tue possibili ansie. Mi accorgo di sragionare. Mi avvicino al mio fatale paese. Addio amore ritroverò forza tra le braccio della mia Sibilla.. [Firenze, 22 settembre 1916] venerdì sera Rina Quel laghetto tranquillo, che ti diverti a veder rabbrividire; quel “voi” e quel “mandatemi lavoro” della cartolina che ho avuto ieri vorrebbero quasi farmi intendere che hai intenzione di restare alla Casetta ancora... Ma dall’altra parte della cartolina c’erano “nos étoiles”, benedette. Che cosa avrai deciso dopo la mia raccomandata? Se queste righe che ora ti scrivo nell’incertezza fossero superflue! O tu le ricevessi partendo da Firenzuola! Quando saprò? Mio Dino. Mi ami? Merito la felicità di cui mi parli? Non so altro se non che t’aspetto, che lontano staremo tanto al sole, che riposeremo, vicini, zitti... Non lavorerò neppur io, devo prima rinascere, l’ho sentito tanto in questi giorni. Ne avrò la forza, se tu mi ami, Dino, amore. Vieni, è vero che vieni? Vieni con gioia, contento, non ti tolgo a te? Amato, non so come faccio a vivere in quest’attesa... Non XXIX Dino Campana a Sibilla Aleramo [Palazzuolo dt Romagna, 23 settembre 1916] Tuo. XXX Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Pisa, 3 ottobre 1916] S. Al.. Vi prego di accettare i miei saluti. Pisa è bella, a quanto mi sembra. Ma l’ombra angusta mi stringe di questi portici. XXXII Lettera Vi sono molte donne ne belle ne brutte. Aimè, io non so più guardarle. Possibile? Dino Campana a Sibilla Aleramo Cloche Caffè, ora eterna - Pisa. XXXI Lettera Sibilla Aleramo a E. Cecchi Villa Alba, Marina di Pisa (tram: fermata ai fortino) 3 ott. [1916] Caro Cecchi, riceverete una cartolina di D.[ino] C.[ampana], o mia a nome suo. Fate tutto il possibile per venire a trovarci, fra breve. C. è malato profondamente, neurastenia con mania continua di fuga, di annientamento. È atroce quel che la vita può su un uomo... Chiedete, vi prego, a vostro cognato costi o a quello di Arezzo, che cosa si potrebbe fargli prendere, calmante sopra tutto per la notte, ma che non nuoccia al cuore. (Me lo direte a voce). L’organismo è sempre robustissimo. I primi giorni qui, per lo sbalzo dalla montagna, sono stati terribili. Ora ritorna un po’ di calma e un po’ di speranza: Bisogna che senta altri cuori oltre al mio, che lo voglion vivo. So che avete per lui, oltre all’ammirazione, una vera simpatia. Aiutiamoci, Cecchi. Venite, intanto, e poi si vedrà. Sarà contento di vedervi, di discorrere qualche ora con voi. Con altri no, Non dite nulla a nessuno, vi prego, né a Cardarel.[li] né altri, vero? (Sul rapporto d’amore fra la Aleramo e Cardarelli vi consiglio di leggere “Lettere d’amore a Sibilla Aleramo di Vincenzo Cardarelli” a cura di G. A. Cibotto e B. Blasi, Roma edizione Newton Compton 1974) Non rispondete a questa lettera, come se non l’avessi scritta. Arrivederci, ci conto. Dite il mio affetto ad Amalia e Leonetta. Vostra amica [Marina di Pisa, 11 ottobre 1916 ore 16,15] Urgente tua presenza vieni Campana. XXXIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Marina di Pisa, 12 ottobre 1916 ore 17] Coraggio sempre tuo Campana. XXXIV Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Marina di Pisa, 13 ottobre 1916 ore 10,50] Padrona sequestra biancheria aspettarti o sloggiare decidi. tuo Campana XXXV Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Firenze, 13 ottobre 1916 ore 13,40] Ancora spossata spero alzarmi domattina pomeriggio esser da te. Aleramo XXXVI Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Firenze, 13 ottobre 1916 ore 15,20] Ricevo tuo placa la Britanna ripeto arriverò domani pomeriggio tua Aleramo XXXVII Lettera ver lettere. Che cosa gli porto? Le mie mani nude, i miei occhi. Gli ho detto: mi troverai sempre... Sibilla XXXIX Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [prima meta di ottobre 1916] Rina adorata, perdonami, perdonami o abbandonami così è troppo cara cara, non so ti scrivo ti aspetto e so che non verrai, questa sera parto anderò a Firenze [Marina di Pisa, 13 ottobre 1916] perché hai voluto staccarmi da te dimmelo, sarò felice ugualmente, mi aiuterai a staccarmi da tutto, a liberarmi, sei buona ti ho amato ti adoro Egregia Sibilla, Siete ammalata: me ne dispiace! quanto a me ho perso l’abitudine di non puoi abbandonarmi cosi - Ecco dunque. Rina Rina Sibilla Aleramo lamentarmi. La padrona voleva che vi scrivessi non so che cosa. Ho ri- Rina che amo Sibilla mia sì ridi cara, ridi cosi io sarò felice e potrò mofiutato. Poi le ho fatto dire: perché mi ricorda sempre la signora? So che rire. Rina quanto sei cara. Forse verrai e vorrai ancora vedermi ecco vorreste avere la forza di seguire (?) il vostro destino e di... papini (tanto quanto ti posso dire ancora. Se questa sera non sei venuta adorata sola gioia mia quanto ti amo non so più ho bisogno di te, verrò a Pontedera mi odiate?) e tu mi dirai poi mia cara. Fabbricare, fabbricare, fabbricare Preferisco il rumore del mare Rinetta rinetta aspetta il tuo amore che soffre addio. Che dice fabbricare fare e disfare fare e disfare è tutto un lavorare No non vengo devi guarire ed esser bella. Vado a Firenze e tu mi scriveEcco quello che so fare. Scrivete. Addio. rai fermo posta. Addio dunque. Dino Campana a Sibilla Aleramo XXXVIII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana Stazione di Pisa, 14 ott., sabato [1916] Se Dino fosse venuto ad incontrarmi? Ed ora girasse per la città inferocito di non avermi veduta uscire? Gli scrivo. Per domattina, o per stasera, nella casa nostra. Gli piace rice- XL Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Casciana, 25 ottobre 1916] Sibilla fatevi coraggio. Ho una parola d’onore e ve la do per dirvi che vi stimo e penserò bene di voi. Dino Campana XLI Lettera lassù, ma subito perché la posta arriva solo il lunedì, un Eschilo, se lo trovate nell’edizione di Oxford (non può sopportare le traduzioni [fr]ancesi). È il solo libro che desidera avere. Sibilla Aleramo a E. Cecchi Sono ripresa dall’affanno, che gli accadrà?! [Bagni di Casciana, Pisa 25 ottobre 1916] XLII Lettera Non so cosa vi scrissi l’altro giorno in qualche minuto che avevo libero. Stasera ho davanti a me il tempo. C.[ampana] è partito. Volevo partir io, dopo una serie di giorni e notti in cui ho ascoltato le cose più atroci, subìto le cose più atroci. Allora ha avuto come un risveglio, e s’è determinato di colpo a tornar lassù in Mugello, “lontano dal mondo, ch’è brutto troppo, fuori della vita, di nuovo”. M’ha promesso che ci ritroveremo, più tardi... Cecchi, vi ho scritto che m’ama? Voi avrete sorriso. Eppure, e amore, è dolore, una cosa orrida e meravigliosa. Vedere nel suo cuore, ho meritato questo dono spaventoso. Che accadrà ora? Non possiamo rinunciare, vedete. Gli ho detto iersera, un momento che il parossismo delle sue ingiurie mi v’ha indotto, gli ho detto che v’avevo veduto, a Firenze, e le vostre esortazioni. È rimasto colpito. Forse anche per questo è partito. Poter guarirlo! Voi dite che con questo desiderio lo diminuisco. Ma se sapeste il grado della sua sofferenza! La mia [s]’era fatta insostenibile: la sua lo è sempre stata. Prima di partire ha scritto una cartolina a Boine: gliene aveva mandata una l’altro ieri dove mi dava della troia... Oggi ha scritto: “perdonate, era falsa, era la mia solitudine che ha voluto riprendermi, parto, forse qualche parola potrò ancora dirvi di quelle che amate: le avrò pagate molto care”. Torna su alla Casetta (Firenzuola): una tana da lupi, in questi mesi... Io non so che farò. Stasera sono a letto con febbre. Vuole che termini qui i bagni, e poi venga a Firenze, dove, ha detto, verrà a trovarmi... Perdonate che vi scrivo come se piangessi. Voi non avete nulla da rispondermi, lo so, da aggiungere a quanto mi diceste, o da mutare. Ma amateci, Cecchi, dal punto in cui non potete più parlare. Forse vinceremo. Addio. Vi riscriverò. Se Leonetta è arrivata, abbracciatela per me. Sibilla Giovedì — Mi sono levata. Forse lavorerò. Volete farmi un dono, mandargli Sibilla Aleramo a Dino Campana [Casciana. 26 ott. [1916], giovedì, 5 di sera.] Ero abituata al silenzio: ma questo che s’è fatto dacché sei partito e cosi grande! Stamane, (dopo dodici ore di sonno al veronal) ti ho telegrafato sperando nella risposta — che non è ancor venuta. M’han detto che ieri dovesti prender una carrozza e che forse perdesti il treno delle quattro. Dove e come avrai dormito? E tutte le immaginazioni per seguirti oggi son state vane. Firenzuola? Alla Casetta, ora che sta per tramontare questo sole pallido? Avrà tirato un vento furioso anche su la tua strada? Io mi son levata alle undici, e alle tre son andata al bagno, poi tornata subito qui. M’han fatta sloggiare dalla saletta da pranzo, m’han messo un tavolino qui tra la finestra e il tuo letto. Cosi c’è un mutamento anche per me, e la mia stanza somiglia di più alla tua... Dino, Dino! Dove sei? Voglio esser forte come mi hai chiesto, non voglio piangere, ma ho il cuore cosi gonfio! Quell’ultima ora, ieri, hai sentito come eravamo consacrati. Dino, vinceremo. Amor mio. Coraggio. Non so dire neanche per me altre parole oggi. Son ancora cosi stanca, attonita. E tu, e tu? Quando saprò? Ho tanta paura che tu stia male. La Casetta ora dev’essere una tana. Dimmi, ti supplico. Dino, ma ho tanta fede, com’è che ho tanta fede, come il primo giorno? Che cosa vuole da noi il nostro amore? M’hai detto che mi tieni, vero? Felicità. Ti bacio. Scrivimi. Se lavorerò, te lo dirò. È arrivato il meta, lo spedirò domani con la biancheria. Fatti dare delle uova, quattro al giorno, e manda a prender la medicina a Firenzuola. È vero che vuoi che ci ritroviamo belli? tua Rinetta (è la prima volta che mi firmo cosi) XLIII Lettera [Marradi, 27-30 ottobre 1916?] Sibilla Aleramo a Dino Campana Mia cara amica [27 ottobre 1916; venerdì, mezzogiorno] sono troppo stanco e troppo ammalato per cercar di comprendere. Prendo il partito dei più deboli, il mio solito partito: parto. Non ho ricevuto nulla, e soffro, Dino. Perdonami, sono forte ma soffro. Ho Regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può essere sorta in te dal telegrafato al postino di costà, perdonami1. E anche stanotte dovrò restar nelnostro amore. Non posso dirti altro dopo questo. Mia cara sono realmente aml’angoscia perché la risposta non verrà certo prima di domani. Dino. malato non ho potuto sopportare l’attesa e le tue lettere Ricevo ora il telegramTi amo, soffro, sentimi. Se saprò che sei costi, forte, sarò brava anch’io, te ma Parto domattina per la Casetta. Là c’è il silenzio. lo giuro sul nostro amore, Dino, saprò aspettare, ho tanta fede, tutto è bello, si, Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa saprebbe baciare il tuo tutto è stato necessario, la vita sarà per noi, amor mio, ma ch’io sappia dove sei corpo di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa. e che non stai male, Dino, Dino... Baciami, rienmi. Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla — e senti la mia infinita desoNon ti scriverò, ti lascerò tranquillo, proverò a lavorare, ma liberami da que- lazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia. st’angoscia... Ti adoro. Ricorda quando soffrirai colui che ti ama infinitamente e porta per se solo il tuo colore. L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora. La tua amica, la tua bambina, il tuo amore. tua Sibilla XLIV Lettera XLVI Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo Dino Campana a Sibilla Aleramo UN SALUTO DA Marradi (Firenze) [27 ottobre 1916] [Marrani. 29 ottobre 1916, ore 10] Dino Campana Parto Signa albergo danesi malato. Aspetto le traduzioni, resterò in questi paesi. Spero che starai tranquilla. XLVII Lettera XLV Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana Dino Campana a Sibilla Aleramo [Bagni di Casciana] domenica, ore 3, [29 ottobre 1916] Dino, bisogna esser forti, stringersi, non lasciarsi. Io sto male, io la tua amica. tua Rinetta E tu, amore mio, anche tu soffri, lo sento. Ci amiamo, perché non vogliamo vivere? Dino. Le ultime notti sentivo quando m’abbracciavi, e mi dicevi, che c’è Per caso questa facesse a tempo stasera, passa dalla Castiglioni a domandare ancora tanto vigore in me. E in te c’è tanto sole. Stretti, siamo una cosa miraco- dove dormirò. Dino, amore. O alla pens.[Ìone] Cianferoni. losa. Dobbiamo vincere. Un male di quindici anni, tu hai detto... Si, e anche per me. Sono quindici anni che son partita da mio figlio. (Quando Sibilla, nel 1902, XLIX lettera aveva lasciato il marito, Ulderico Pierangeli, questi non le permise di ottenere l’affidamento del figlio Walter, nato nel 1895 e morto nel 1973, che la madre Dino Campana a Sibilla Aleramo rivide solo nel 1933) Io son la tua amica. Lavorerò. Rientriamo insieme nella vita. Che ci vedano, belli, non soltanto nella nostra poesia, che ci amino per la [31 ottobre 1916] nostra gioia, per la nostra vittoria. In questi giorni (e pur sto tanto male, sai, ho tanto freddo, ti cerco ti cerco) ho scritto a varia gente: verrà qualche aiuto, non Firenze. Il mio indirizzo è via Pietro Carnesecchi 12. (presso Danti). temo più, potremo aspettar, senza affanno, la fine della guerra, e poi andremo in Francia. Ma non stiamo staccati, ora. Dino, amore santo. Non posso viverti lonHo sofferto molto più di ora: se tu puoi ti prego di restare mandandomi giortana. E t’ho carezzato cosi poco. Stavi tanto male, avevi paura che non t’amassi, nalmente una cartolina. Pensa a fare completamente la cura. che non sentissi che cos’eri per me, che ti credessi irreale, anche tu... Amor mio solo. Non avremo più paura, ora. Abbiamo pagato. Stringiamoci. Dino, abbiaTuo Campana. mo degli anni pieni dinanzi. Finché sarò bella e forte. Poi sparirò. Che tu abbia avuto tutta un’anima da adorare, da far felice in sua morte. È la nostra sorte. Hai L lettera detto che mi tieni, se voglio... Dove sei? Lo senti che non si può più lasciarci?. XLVIII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana Bagni, ore 12 l/2. [30 ottobre 1916]) Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze, 1° novembre 191 6, ore 7,05] Supplico venire stasera Campana Carnesecchi, 12, Firenze. Dopo essersi ritrovati, Sibilla e Campana si stabilirono a Villa Linda a SettiDino, amore mio, parto fra due ore, avevo già deciso prima di ricever la tua, gnano, nei pressi di Firenze, presso Astrid Ahnfelt. Il 2 novembre, dopo violenti che agonia questi giorni, come si soffre, amore! Arriverò a Firenze alle sei, ma litigi, Campana riparerà a Casetta di Tiara, dopo aver rotto con Sibilla. dove trovarti? E questa l’avrai soltanto domattina, se l’avrai, se sarai ancora costi... Ho paura, ti adoro, troppo anch’io, Dino... Non so dove andrò. Alle 9 (Lo vedremo con certezza leggendo la laconica lettera n° 58) 1/2 domattina passerò davanti alla Posta e agli Uffizi poi andrò alla latteria di S. Maria Novella, starò fino alle 10, poi tornerò ad aspettarti dalla Castiglioni, LI Lettera Lung. Acciajoli 2A, ultimo piano. Va bene? E decideremo. Amore, ti stringo nel mio cuore, resta... Dino Campana a Ahnfelt (Astrin Ahnfelt, scrittrice svedese, aveva conosciuto l’Aleramo quando conviveva con Giovanni Cena. Di quest’ultimo tradusse il romanzo “Gli ammonitori”, apparso nel 1907. Molte sono le lettere nell’archivio Aleramo che testimoniano l’amicizia fra le sue donne. Giornalista e traduttrice, entusiasta conoscitrice dell’Italia, si adoperò per la diffusione della cultura italiana nel suo paese, organizzando anche conferenze e letture su Carducci, Leopardi, Pascoli e Fogazzaro. Interessata al teatro parlò di Pirandello nel 1933 su Dagens Nyheter, al quale collaborava. Al tempo della relazione fra l’Aleramo e Campana, si era stabilita definitivamente a Settignano) (Note a cura di Bruna Conti) [Casetta di Tiara, Firenzuola 23 novembre 1916] Genti, ma Signorina Astrid voluto scusarmi. Penso che io non potrò esserle utile in nessun modo, e che Lei neppure sa quanto volentieri vorrei renderle qualche piccolo servizio. Mi parlava dei suoi lavori che mi son tanto piaciuti, per tradurli o simile; dispongo di me come crede. Sono con tutta la mia devozione e la mia riconoscenza di Lei dev.mo Dino Campana P.S. La prego di rimandare l’asciugamano alle cave di Maiano. P.S. Penso ora che perché mi venga rilasciato il passaporto saranno necessario delle formalità. Vorrebbe informarsi di che si debba fare per avere questo passaporto? Perdoni. Non ho nessuno a cui ricorrere. La speranza che Lei mi ha data, quella di liberarmi da questa catena di dolori e di miserie, di darmi il modo di andarmene lontano, mi fa vivere ora. Voglio Le scrissi una cartolina chiedendole le scarpe e un pacchetto di Hornigham guarire, credere ancora, perché Lei ha creduto che meritassi un po’ di vita e di tè. Spero l’avrà ricevuta. libertà. Non ho cosi nulla da dirle di me, se non che penso a Lei con viva riconoscenza. Se ama i dettagli le dirò che qua non si hanno altre notizie che quelle Che cosa fa Silvano? Speriamo che diventi un buon svedese come Larsonn che porta il vento che soffia notte e giorno. Si ha la grande consolazione poi di e direi Strindberg se non fosse stato tanto infelice. Lavora signorina? Lei beata sentire che la natura nelle sue bufere è infinitamente più dolce della vita, ed è per cui la vita non e una contraddizione orribile. Dev.mo questo forse che ci aiuta a credere che, come diceva Verlaine, “quelque chose de Dino. pur demeure sur la montagne, quelque chose du coeur enfantin et subtile. Car, qu’es ce que vraiment nous accompagno, et quand la mort viendra que reste-til?” Insomma per ora fa un tempo infernale. LII Lettera Venendo ad altro. La prego, gentil.ma signorina, a volermi respingere la mia corrispondenza a Casetta di Tiara (Firenzuola toscana). Non so poi se potrei incaricarla di dire a quella donna (ovviamente si riferisce a Sibilla) che io sarei disposto a farle buone parte delle sue traduzioni dietro un modesto compenso. In caso che accettasse, la pregherei signorina a volermi spedire quelle traduzioni. Veramente ho l’idea di approfittare troppo della sua bontà, e nello stesso tempo non vorrei recarle alcun disturbo,dopo quelli che le ho recati e di cui Lei ha Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenzuola, 26 novembre 1916, ore 10,15] Parto oggi.. LIII Lettera Sibilla Aleramo a L. Cecchi Pieraccini [Settignano, Firenze] Notte 2-5 dicembre [1916] Non mi scrivere. Ti amo. Prendi il tuo ritratto da bambina e mandala là. Lavora e sii felice. Lasciami il tuo dolore. Addio Perché non hai avuto fede, Leonetta? Eri una delle tre o quattro persone al Farò tutto il tuo lavoro. Per ora posso vivere. Nella boccetta non c’è più promondo di cui non dubitavo. Quando Campana m’ha detto che cosa tu gli avevi scritto mentr’era lassù, ho provato un dolore che tu non puoi capire, Leonetta. fumo addio. Dunque non mi hai mai veduta. LV Lettera Aver fede, era difficile, ma io ero cosi sicura che tu lo potessi! Non ti ho quasi mai parlato; credevo non fosse necessario. E l’occasione era venuta per te d’un Dino Campana a Sibilla Aleramo atto fervido — se tu avessi veduto nei miei occhi che cos’era il mio amore per Campana. Non hai veduto. A queir infelic[e] una volta di più è stato detto che [Settignano, 7 dicembre 1916] il suo atroce delirio di negazione è giustificato: è stato detto questa volta da te, colpendo la cosa pura e terribile ch’era il mio amore per lui. Perché, perché, Hai preparato il tuo viaggio senza neppure dirmi che volevi andare a SorrenLeonetta? Ma non ti chiedo risposta. Parto. Mi sento sola come mai. Non so che to. Mi hai però detto che sono libero. La russa e a Firenze mi ha scritto e io sono cosa accadrà, ma so che non importa a nessuno — se non forse a Michele ch’è andato da lei. Addio mia cara. anch’egli solo — Addio. Non ti serbo rancore, ho tanto patito in una sola notte allo svanire della certezza che avevo della tua amorosa intelligenza, che ora LVI Lettera an[che] questa sofferenza è assolta. E ci sono altre cose per cui posso sempre volerti bene, se vivo. Tutto questo che scrivo a te vale forse un poco anche per Sibilla Aleramo Emilio. Ma con lui il rapporto è diverso. Non badate, se potete, alle parole. Sto molto male. Se rivedrete Campana, se potrete in parte riparare, sarà per lui; non [Sorrento] 8 dicembre 1916] per me che non spero più e che non credo di tornare. LIV Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Settignano, 4-5 dicembre 1916] 1 Rose calpestava nel suo delirio e il corpo bianco che amava. Ad ogni lividura più mi prostravo, oh singhiozzo, invano, oh creatura! Rose calpestava, s’abbatteva il pugno, e folle lo sputo su la fronte che adorava. Feroce il suo male più di tutto il mio martirio. Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male! Cara Amica, ti scrivo piangendo ti supplico per l’amore che hai per me di tornare da C.[ena]. Dai questo senso al tuo pensiero in questo momento e sarai (Mario Luzi, quando scrisse kla prefazione all’edizione del 1958 del cartegpura. Io non esisto mio amore. Questa primavera anderò in guerra. Ti ho incontrato e che la mia vita sia bastata per un po’ di luce per te mia Rina. Inutili le mie gio, Aleramo Campana, che definì “… una di quelle fiammate dove scorie e sostanze preziose si confondono in un’unica incandescenza…” indicò questa parole come la mia vita, lo so. Non voglio che tu mi ricordi. poesia di Sibilla come la più vera e viva che la scrittrice avesse mai scritto). LVII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Settignano, 9 dicembre 1916, ore 18] Notizia falsa torna subito. Ahnfeit Campanal LVIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze], 12 dicembre 1916] L’avete più veduto? M’aspetta ancora? M’ha scritto biglietti cinici. Mi sono aggrappata alla prova di restar lontana, non son mai stata cosi male, ora non ne posso più, torno, ma che cosa troverò? Ti supplico, se lo vedi, se sai dov’è, digli che lo amo, nient’altro, nient’altro, digli che è finita per me se lo perdo, e anche per lui... LX Lettera Sibilla Aleramo a L. Cecchi Pieraccini [Villa Linda [Settignano, 21 dicembre 1916] Leonetta, non so se oggi vedrai Campana. Dopo averlo ritrovato, e con lui Signora Aleramo, qualcuna delle nostre ore più belle, stanotte s’è di nuovo abbandonato al suo delirio d’odio e questa volta credo non ci ritroveremo più... C’eravamo perdonati, Lei ha troppa ragione nella sua lettera. Io non merito di essere amato da lei. lui la mia “fuga”, io una sua immediata avventura di triste ripicco. Tutto vano. Ci separiamo. Sono a letto, ma in questa casa non posso più restare. Se lo rivedrai, cerca Dino . (perché la sua anima, se è possibile, un giorno sia meno torbida ricordandomi), di dirgli che finalmente avevi compreso un poco più la natura del mio amore per lui. Non avevo mai impegnata cosi totalmente la mia esistenza: era adorazione, sommissione, negazione mia totale... Ora non saprò mai più amare. LIX Lettera Sibilla Aleramo a L. Cecchi Pieraccini [Sorrento] 17 dicembre [1916] Leonetta, soffro tanto. E se penso all’accanimento, allo scherno con cui il destino ha voluto che anche tu contribuissi a questa mia disfatta, tu che pur mi vuoi bene, lo so... Bisognava vincere. Era il miracolo, e lo meritavamo, io e lui. Abbiamo perduto, è finita. Vivere, lavorare per il nostro io superiore, egoistico — tu dici! Evvia! Lo sappiamo cos’è. Si fan anche i capolavori, si! Ma, Leonetta, donne e uomini si nasce per altro, non lo sai?... Sibilla Digli che sono [amica] [sua] ... quando vorrà mi troverà. LX Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [24 dicembre 1916?] Un letto profondo, la notte di Natale, nel tuo paese dove non sono mai sta- ta — dove soltanto da bimbo hai riso di gioia. Stanotte. T’aspetto per partire — son sola nel mondo, oh letto profondo anche questo, se tu non venissi. Tu che tanta gioia devi avere — e ami il mio dolore, dolore d’aver già tanto guardato l’acqua fluire. Ma il tuo fiume, lo vedrò? Questo strazio, d’amarti, di volerti felice, e di non poter tramutarmi in una cosa di freschezza, rosa per la tua fronte, amore, amore. Non poter che consumarmi, sempre più. Non ho più voce per parlarti. Soltanto le mani sono ancora dolci. Stanotte, ti daranno il sonno? Nel tuo paese. E poi addormentarmi — e svegliarmi il mattino di Natale, bimba. C’è un bimbo, un fratellino vicino a Rina — oh Dino, Dino, che cosa si scioglie nel cuore di Rina? Silenzio, tienmi le mani. Nessuno m’ha detto mai, da bimba, una favola bella. Guardavo le stelle, come te. Stanotte non ci saranno. Ci saremo noi, favole, stelle, cose lontane, irraggiungibili. Nessuno mai più ci coglierà, anche se crederà vederci, sentirci. Stelle. Tienmi le mani, prendine tutta la dolcezza, toglimi tutto, sono tanto felice di morire, ma tu ma tu... Tremo, mi guardo intorno, non vieni ancora, l’acqua scorreva… insidie fasciste, qualche altro per poter continuare a scrivere con la certezza di non chiedere l’elemosina, cioè avere di certo il pranzo giornaliero. Alla fine della loro corrispondenza, (che, poi, è la storia della loro vita) vorrei leggere insieme a voi una decina di poesia di Dino, ritenuto dai più eccelsi critici della letteratura italiana il rinnovatore della poesia moderna. Nel darvi l’arrivederci alla prossima settimana, vi abbraccio con tutto l’amore che posso. LXII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Livorno, 3 gennaio 1917] Tuo Dalla prossima settimana siamo già al 1917. Sono passati non ancora sei mesi e già il fuoco che li aveva alimentati va spegnendosi. Sono stati mesi LXIII Lettera d’amore furioso alternato a litigate furibonde sia per la gelosia di Dino, sia per la stanchezza fisica di Sibilla. Sembra che Dino fosse insaziabile e Sibilla sentiSibilla Aleramo a Dino Campana va ormai, passato l’attacco furibondo dell’innamoramento, la stanchezza fisica più che quella del sentimento: amava ancora perdutamente Dino, ma avrebbe [Firenze?] 4 del 1917 voluto che non fosse sempre turbolento e solo sesso. Sentiva ardentemente il desiderio di “coccole”, ma per l’uomo veniva prima il sesso perché per lui queDicevi ch’eri tu che mi amavi, Dino? Sono io, sono io che amo te. Che disto era l’amore. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che in ospedale si masturbasse pendo dalla tua vita. Non chiedo altro. Ti adoro. Vivo perché m’hai detto che una quindicina di volte al giorno, povera Sibilla quanta forza ha dovuto avere il mio amore, di cui non hai bisogno, ti è però caro. Adorato. Hai promesso di per resistere agli assalti sempre più intensi e irresistibili del Poeta. scrivermi come stai, aspetto, aspetto, guardo verso il mare dalla mia torre. Infatti abbiamo letto più avanti che mischiavano baci e terra (cioè sabbia) LXIV Lettera perché amavano fare l’amore dove si trovavano e spesso lo facevano sulla sabbia o in cabina in riva al mare, ché d’autunno sono sempre vuote. Dino Campana a Sibilla Aleramo Dalla prossima settimana, cominceremo a scivolare verso la fine di un grande [Livorno, 4 gennaio 1917.] amore e lo vedremo ammalarsi e morire lentamente, senza poter fare niente per alimentarlo. Sibilla sarà irremovibile e Dino, ormai sempre più solo si avvia, Rina mia anzi decide di farsi ricoverare in manicomio; qualcuno ha detto per sfuggire alle come descriverti lo sguardo idiota di questa gente dopo esser stati baciati Come delle torri d’acciaio dal tuo! Rina io potrei rinunciare a te, ma per sempre. Cosi bella come un réve Nel cuore bruno della sera II mio spirito ricrea potrei dimenticarti solo per andare molto lontano e non tornare più. Davanti alle Per un bacio taciturno 4 cose troppo grandi sento l’inutilità della vita. Il mare ieri era discretamente bello. Sono andato di notte al mare. Avevo visto i monti pisani velati da cui sorge Ah miseria di questi ritorni. Puoi amarmi? ancora? ancora? ancora? Non ti la luna di D’annunzio senza foco di cui leggemmo e due aeroplani che volavano scriverò. Le mie lettere sono fatte per essere bruciate. sul treno. Mia vergine perché leggemmo d’Annunzio prima di partire? Nessuno come lui sa invecchiare una donna o un paesaggio. Mio amore come vuoi che ti LXV Lettera ami? Pallida, con una vita senza foco3 come col suo diritto il macchinista stinge il paesaggio e viola il ciclo che non conquista? Sciocchezze? Ma sai quanto ne F. Campana a Sibilla Aleramo ho sofferto! [Lastra a Signa, 4/1/1917] Ecco quello che ci divide. Non ho visto e non vedrò nessuno. Non troppe cose dimmi. Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la Genti.ma Signora, tua grazia. Quando sempre mai forse parole giravano nel soffitto del mio cervello. La città è una serie di cassoni balordi. Appiccicato alla spallina del passeggio La sua lettera affettuosa, le sue premure per Dino mi spingono a scriverle. guardo il mare senza parole come io sono senza pensiero. Non so consigliarla a suo riguardo. Noi a nulla siamo riesciti, solo vediamo che ha bisogno di mettere ad effetto quando dice di partire; ci siamo indotti a pasMio amore mio amore La Gorgona è un dosso lontano sul mare abbandonata sarle quanto le nostre misere forze lo permettano per evitare in lui e a noi cose laggiù nei tramonti. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi spiacevoli; abbia, buona Signora, pazienza e tornerà. Non le nascondo che io abbandoni col pensiero. Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una ho sperato in lei, nel suo affetto che mi sembra sincero, ma purtroppo vedo che vecchia lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via mette- ancora nulla abbiamo ottenuto, voglio però sperare che col tempo e pazienza va sulla costa pietrosa che scendeva dall’altipiano al mare. Questo ricordo che riusciremo a qualcosa. Egli mi disse che lei era molto buona, ma che il carattere non ricorda nulla è cosi forte in me! La costa bianca di macigni aveva bevuto il suo violento non poteva frenarlo, quando dice partire si sente agitato tanto che tramonto cupo e rosso che chiudeva l’isola e ora colla lanterna rugginosa solo meglio è per lui e per noi lasciarlo fare. Se a lasciato la roba rotta e sporca manle stelle sull’altipiano brillavano a me a Garcla. Io baciai la parete di granito do io a prenderla costi. senza pensare e non so ancora perché. Ricordo che in quella casa stava la sarda moglie dell’alcoolizzato amico dell’amico del nostro amico. Bevemmo il moConsigli Dino a tornarsene da Livorno, non è aria per lui sotto ogni aspetto. scato bianco salmastro di Sardegna ed è idiota come mi ricordo di tutto questo. Nell’Estate scorso egli vi passò troppe noie, che Dio non voglia si ripetine, tanto La mia padrona e dell’Isola del Giglio dove io farei certamente bene ad andare che fu obbligato a lasciare Livorno. Credevamo che non gli fosse tornato voglia ad abitare per un anno almeno. Tu non ne vedi la possibilità? di ritornarci; cerchi di consigliarlo a starci poco, anche per i suoi nervi gli fa meglio l’aria di montagna che quella di mare. Farà molto piacere a dirle questo Dovremmo ancora vedere le Alpi. Nietsche scendeva di là al mare colla sua anche a nome del babbo suo, noi non gli scriviamo perché non ci da ascolto. sfida. Aimè Rina perché non mi lasci morire? La Fedelweis non è d’AnnunziaFidente nella sua ascendenza su Dino Le fo ossequi e augura no e la Dora scende in tumulto e il più leggero dei baci crea ancora forse come quando dicevo Dev.ma Fanny Campana. LXVI Lettera [Firenze, 24 gennaio 1917] mercoledì Sibilla Aleramo a G. Sforni Genti.ma Signora, Ho ricevuto il volume di cui mi parla ma non sapevo da chi mi fosse stato portato. Se il Signor Campana vuoi venire da me lo conoscerò molto volentieri: io sarei in casa Domenica verso le 6 1/2. Se in quel momento egli non fosse Signore, libero, lo pregherei di telefonarmi per darmi un altro appuntamento. Mi creda Ella avrà ricevuto l’altro giorno Canti orfici di D[ino] C[ampana] assieme con ossequi Suo dev.mo al ritaglio d’un artic.[olo] di E.[milio] C. [cechi]2. Forse conosceva già il libro Gustavo Sforni e il nome del poeta. Forse qualche volta anche intese il nome di chi Le scrive. D[ino] C[ampana] voleva presentarlesi di persona, poi non ha osato. Mi faccio dunque animo io, che l’amo, e che soffro dell’impotenza del mio amore a gioLXVIII Lettera vargli. Egli è malato da molto tempo, di neurastenia acuta. Da più d’un anno non lavora. Dovrebbe far un lungo soggiorno in una casa di salute * - glie l’ha Sibilla Aleramo a Dino Campana prescritto ancor ieri il prof. Tanzi4. Ma è del tutto privo di mezzi. Ha sempre [Firenze 28 febbraio] vissuto, prima d’incontrarmi qualche mese fa, vagabondo, staccato da tutto. Signore, Le parlo con abbandono e con fiducia, perché so la gentilezza del Suo spirito. Anche Emilio Cecchi m’ha incoraggiata a questo passo. So ch’Ella è Dino, grato alla sorte ogni qual volta può, con semplicità, aiutare qualche uomo di valore. Dicesti: “Sibilla resisterà una settimana, poi mi soffocherà di lettere, di espressi...”. D[ino] C[ampana] abita in questo momento alle Cave di Muoiano, ma è quasi È un mese che sei partito, e ti scrivo - per un’unica volta. Non ho mai più sempre qui in città, dove abito io, L[ungarno] Acciaioli] 24 pr[ rosso] Fr[arini]. Io La ringrazio di quel ch’Ella farà, e non lo dimenticherò mai. Le auguro tanto saputo nulla di tè, se non che ti sentivi “bene e quasi felice”. Neanche Cesarino m’ha più scritto. Non aspetto più nulla. bene. [Firenze, 20-22 gennaio 1917] S.A.. * Vedi nota lettera LXXXI LXVII Lettera G. Sforni a Sibilla Aleramo Ma ti scrivo perché c’è una verità che ti voglio aver detto, che forse ti entrerà in petto ora che tè la dico di lontano e senza più speranza di rivederti. Dino, io e tè ci siamo amati come non era possibile amarsi di più, come nessuno potrà mai amare di più. Dino, e il dolore non importa, e non importa la morte. Io son già fuori della vita, anche se piango ancora. io pure uni poche righe, chiedendole la cagione della sua silenziosa partenza e Dino, fa di salvare nella tua anima il ricordo del nostro amore, poi che non se lei era in sua compagnia. hai saputo voler salvare l’amore nella vita, fa di portarlo nell’eternità com’io lo porterò! Abbiamo atteso invano la risposta. Circa il 20 ebbe le altre 30 lire, e il primo di marzo altre 30 lire, con preghiera di dirci perché era costà, cosa faceva come Dino, che DÌO ti guardi. stava. Siamo al ^ e nulla scrive. Il babbo dice che se non gli chiede non gli manda più denaro. SÌ sacrifica per lui giovane e robusto. Sibilla È un benedetto figliolo che bene non può stare, hai nostri occhi, fa il possibile per star male e fare star male i suoi. LXIX Lettera Non so cara signora che cosa aggiungere. L’infanzia e l’adolescenza di quel figliolo e stata meravigliosa. Pacifico bello grasso ricciuto, intelligente di due anni diceva l’Ave in francese, ero da tutti invidiata. DÌ un ubbidienza e bontà [Firenze [17 febbraio 1917] eccezionale, i suoi professori di ginnasio e liceo lo dicevano di un ingegno non C’è un ramo in fiore - che profuma di miele - e ci son luci rosse e nere - di comune, a noi genitori dicevano, sarà la loro consolazione. - Ora sono stata colegna che arde. - Ricordi inattesi - di paesi - felici, - gemiti improvvisi - per visi stretta dirle: per compatirti grande, bisogna mi richiami alla mente i tuoi primi - che atrocemente risero - e s’allontanarono. - Intensa fragranza - e guizzi in anni, e non basta. Lo crede che spero in un altra trasformazione. stanza - a sera - pace del fuoco - eco di luce - la pigna in brace - tutte le foreste Venne il 20 gennaio, e più non l’abbiamo visto, si cambiò prese le scarpe lungi. - Desdemona - e il salce dov’è? accomodate le 30 lire quindicinali, noi siamo in regola. Anzi lo pregai a dirle che il giorno stesso avevo pensato rispondere alla sua lettera, le facesse le mie Tè la volevo mandare un mese fa! Vedi come è brutta, strappala! scuse, aspettavo il calzolaio per unire al pacco le scarpe grosse accomodate, e tutto inviarle come mi diceva. LXX Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana F. Campana a Sibilla Aleramo [Lastra Signa, 5-5-1917]) Egregia Signora, Perdoni se troppo e a lungo mi sono trattenuta, e uno sfogo materno che compatirà. Se saprò qualcosa glielo comunicherò. La saluto distintamente. Dev.ma Fanny Campana La sua lettera mi ha sorpreso credendola lei pure a Torino. Non le nascondo Dino a portato via tutto anche la roba rotta? dove a messo tutto? a in più una che era il pensiero che mi teneva tranquilla riguardo a Dino. Tanto io che suo sua fotografia Dino? Padre fummo meravigliati ricevere una cartolina Ì14 febbraio da Dine dal Piemonte. Solo chiedeva il suo mensile che cera freddo e la spesa della legna in più. A posta corrente il babbo gli mandò le 30 lire quindicinali, e nella cartolina LXXI Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [marzo 1917?] Mio caro, lo sai che mi stanno uccidendo? Oh, non ti allarmare. Piano piano e nessuno se ne accorge. Minuto per minuto, in questo assurdo silenzio gonfio d’indicibile, aumenta la prostrazione, la fissità vana dello sguardo, e il sapore di terra in bocca. In questi ultimi giorni, per giunta, ho lavorato. Niente di molto bello, ma tutto serve. Non eri tu che dicevi “Come costa caro far poesia!”? E poi il motto Auf mors, Bah, perché ti scrivo queste storie? Pensare che l’altra mattina mi son svegliata col pungolo di mandarti questa straordinaria frase: “Cane arrabbiato che m’hai morso, muoio, ma ti taglieranno la testa”. Forse l’avevo sognata. Ancor adesso la contemplo con reverente stupore, lo stesso che m’incuteva certe volte il tuo più atroce furore. Poveri noi. Dino e Sibilla, anzi, Dinuccio e Rinetta, che non potranno amare mai più. Almeno io ne ho più per poco. Ma tu? Ingrassi? O fai versi? Addio, mio caro, non aspetto mica risposta. Hai visto che non t’ho “soffocato” con le mie lettere? Addio, Dino, che Dio ti guardi. LXXII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Marzo 1] Dino, ho una grande malinconia, un grande amore, una parola, non so quale, da dire. Non so quel che la vita vuole da me. Se debbo resistere in questa solitudine, in questa preghiera d’ogni istante: rinunciare a rivederti, restare per sempre con questo sapore di terra in bocca; salvarti con la mia rinuncia, col farmi amare da lontano. Aspettare la morte, quant’anni, Dio mio? O venire, con tutta l’umiltà del mio cuore che vuoi piangere e che vuoi cantare. Che non sa nulla, di là dalla gioia di ritrovarti. Che tu rinnegherai, calpesterai ancora, e continuerà ad amarti, cosi... Dino. E sentirmi chiamare per nome. Oh non è miseria. Ti amo. Ringrazio DÌO. L’adorazione silenziosa per l’universo, si scioglie in queste lagrime se ti vedo o se ti penso. E quando tu mi chiami Rina, è DÌO in tè che mi vuoi bene, che mi sorride. Vicino o lontano?. LXXIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Rubiana, 8 marzo 1917] Egregia Sibilla, II mio silenzio deve avervi significato che nulla e più possibile tra noi. Voi avrete dunque rinunciato al progetto del vostro viaggio quassù. Già vi dissi che preferivo uccidermi piuttosto che vivere con voi. Questa mia decisione si è consolidata. Lasciatemi dunque perdere. Sento che non potrò mai più perdonarvi. Addio dunque. Tutto è finito per sempre. Campana. LXXIV Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Rubiana, 9 marzo 1917, ore 11,20] Perdona vieni subito. Campana. LXXV Lettera ancora nulla. Mandami un quarto chilo di Thè Hornimans unica gioia. Sibilla Aleramo a Dino Campana La casa è ospitale qua. Posso disporne liberamente, benché sia innocente (scusa la parola). Ti bacio infinitamente gli occhi le labbra i capelli. Per sempre tuo [Firenze] 9 marzo, sera [1917] Perdonarmi? D’esserti venuta incontro, d’averti creduto un uomo libero e grande, d’averti parlato come parlo soltanto all’anima mia - perdonarmi d’averti “preso sul serio”, vero Campana? D’aver durato il martirio più infame, per amore, per speranza invincibile di miracolo, e baciato le tue ginocchia. E ora, d’aver aspettato, pregando, pregando DÌO Che ti salvasse, che il silenzio e la montagna ti facessero sentire che cosa siamo stati e che cosa potremmo essere - aspettato e taciuto, in una consunzione d’ogni minuto, quanto tempo? Ed è sempre la notte che sci partito, tè l’ho scritto finalmente nella cartolina che s’è incrociata con questa tua lettera2 ... Dino, povero, povero, povero! Dino La posta viene una volta al giorno. Inutile mandare espressi. LXXVII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Firenze] 12 marzo [1917] LXXVI Lettera Non vengo, mio povero amore. Perché non posso e perché non voglio. Ma non posso neppure scriverti. Soffro. Sento che nulla è mutato. Nulla in te s’è creato in tutto questo tempo d’orribile oscurità. Forse, anzi certo, perché sei Dino Campana a Sibilla Aleramo partito a quel modo. Come dunque cedere alla tua chiamata? Dino. Io ho rinunciato a tutto, son già quasi fuori della vita. E non voglio rientrarci vanamente, [Villa Irma, Rubiana (Torino) [11 marzo 1917] comprendi? Per la pura gioia di vederti e d’abbracciarti, tanto forte e tanto pura ch’è uguale al sogno, non voglio si ripeta tanto male. Meglio soltanto ricordare, Cara Rina Non ho ricevuto la tua cartolina. Non ti dico quello che ho sofferto in questo sentendo la morte venire. Io so ricordare la luce. So come ci siamo amati - come tempo. Non ho vissuto (?) che per te. Vedi che appena ti sei mossa, hai scritto non è possibile amare di più in terra, lo e te. Ma il male non lo voglio più. Doquella cartolina che non ho ricevuta - io ti ho scritto. Volevo dirti in quella lette- vevi partire per guarire, Dino. Che voleva dire rinascere. Ritrovare volontà e ra che tu venissi perché volevo morire, e questo tutti i giorni che c’era un po’ di fede. Pensarmi, volermi bene. La fede, ora bisognerebbe che la risuscitassi tu in me, ch’era tanta, lo sai! È mai possibile? Come se tu fossi giunto ieri costì, e sole qua volevo scrivertelo. Invece ti ho scritto il contrario, ma tu sai leggere. m’avessi chiesto perdono appena toccata la neve. È mai possibile che tu sappia Cara Rina, non voglio attaccarmi a te con quella disperazione che tanto ti rimaner fermo ora ad amarmi e ad aspettarmi? Per un tempo che assolva tutto offendeva, mi contento di dirti che ti amo più della mia vita, e ti prego a non il resto? Che tu voglia veramente vivere, per tè e per me? Dino, non posso più chiedermi più di quello che posso darti. Tu sei libera, io non ti domanderò mai sperare, e soffro, soffro, che dirti altro? Ma sono anche felice - di patire cosi, morire cosi d’amore. più nulla. Hai lavorato un po’? Vuoi venire tu o che venga io? Vuoi che viviamo insieme o lontani? Sai i miei gusti. Come stai? Che vita hai fatto? Qua non manca Sibilla. LXXVIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Rubiana] 21 marzo [1917] Caro amore, Mi accetti o no come tuo modesto compagno per sempre? In ogni caso perdona tesoro. Voglio rivederti. E basta colla inutile sofferenza ora e poi. 25, al primo del mese riscuote, e le manderà L. 35, che sono 60. Se lavora camperà, altrimenti… è cosi cara la vita… Speriamo bene... Io Signora non so dargli consiglio sul da farsi, altro che legalizzare l’unione. Un che mi dice che lei se vuole può salvarlo. Le cose ben fatte portano in generale buoni resultati, se vuol bene a Dino faccia del suo meglio, ed io l’appoggerò dove posso. Sento che non è indifferente all’animo mio, forse, anzi certo per l’interesse che si prende di mio figlio. Se viene qui alla Lastra sarà accetta. A Dino non abbiamo che da salutarlo e fargli auguri, pregarlo a conservare quel può di roba, camiciola specialmente e abiti che non potremo l’anno venturo rifargli. Se non vieni verrò tra due o tre giorni. Ricevo oggi la tua lettera del dodici. Indirizza Villa Irma Rubiana (Torino). Non ricevei la cartolina. Sono stanco di quassù e di tutto quello che non è te. Io non voglio vivere se non per te. Se accetFarò in seguito una scappata a Marradi, e le porterò un abito da mezza stagioti bene. Se no ci vedremo una volta e poi addio. Fai i tuoi calcoli tenendo conto anche del tuo cuore. Qua fa caldo. Dovresti venire quassù. Si sta tranquilli. Non ne; il cappotto camiciola e abiti da inverno vorrei averli a Marradi per conserc’è nessuno. Dovresti chiedere un permesso di quattro o cinque mesi all’istituto varglieli. L’altro mio figlio che abita a Siena ci prega a passare da lui le vacanze e feste Pasquali, insiste tanto: vedremo contentarlo. per [“] ragioni di salute” e procurarti qualche traduzione per me. Grazie per la premura che si prende di Dino. Auguri per le prossime feste. Si Di tè non ricordo che l’immenso amore che ti ho voluto e che ti voglio e che mi hai voluto e ti chiedo sinceramente perdono di tutto quello che per mia valga di me dove crede possa essere utile. Mi creda con ossequio Sua Devma miseria o per destino è successo tra noi. Non succederà più nulla. Amore mio Affma rispondi anzi vieni. Se vuoi vedere i tuoi amici ti accompagno. Ormai ti amo Fanny Luti Campana interamente colla tua vita. Per sempre tuo Dino! LXXX Lettera LXXIX Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo F. Campana a Sibilla Aleramo [Rubiana 25 aprile 1917] [Lastra a Signa] 22 marzo 1917] Egregia Signora, Finalmente stamani e arrivata una cartolina di Dino, il babbo gli a mandato L. Sibillina perché scrivo ancora? Non vi credo più, lo sapete. Aspettavo anche questa disillusione che non può aggiungere nulla al resto. Ciao lo stesso. Abbiamo fatto il giro del lago. La vita è un circolo vizioso. Mandate traduzioni? LXXXI Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Firenze] 25 apr. 1917] Ti mando dei versi qualunque, soltanto perché tu veda che anch’io in questi giorni pensavo che la “vita è un circolo vizioso”... Ma lo pensavo diversamente da te, mio povero Dino. Del resto, se ho ancora la grazia di sentire in qualche attimo il ritorno eterno della purezza nel mondo, non soffro però meno. Dino, ti amo ancora. In questi tre mesi son rimasta fedele alla mia passione, in un modo che tu non puoi forse neppur immaginare. Ma, mentre sono ancora cosi tua, ti dico a mia volta addio. Non so che cosa mi aspetta. Forse le primavere, se torneranno per me, torneranno tutte come questa, deserte. Sia fatta la volontà di Iddio. È morta mia madre, l’ho saputo troppo tardi per rivederla. Forse partirò domani, non importa per dove. Non ho da mandarti le traduzioni che mi richiedi, e non vedo come procurartene in questo momento. Addio, Dino, che tu possa ritrovar la poesia nella tua anima - e ricordarti qualche volta dell’anima mia. Ma si, sempre sibSento che sorrido, intenerita, c’è pudore e c’è grazia puerile in questo che m’investe, sola, tremore improvviso, oh luce tra le rame gemmate, sera che avvicini la primavera, sento che sorrido, intenerita, cosi tersa cosi lieve e presente la vita, con un suo senso anch’essa di casto bene, ridente, di un’ora che torna, torna, ma si, sempre di un’ora sospesa, oh nuova! Sibilla Aleramo Firenze, aprile 1917 (Questi tre mesi di castità - ai quali ne seguirono altri, stando alle informazioni di documenti d’archivio - sono stati per l’Aleramo più pesanti da morta che da viva. C’è chi li imputa al necessario isolamento per aver contratto la sifilide, durante la relazione con Dino Campana: per una risposta - basata sulla documentazione - a questa illazione (si legga la lettera n°66, dove la Aleramo parla di casa di salute, nelle lettera scritta a Gustavo Sforni e la spiegazione venne fatta dopo la visita medica e smentirebbero le recenti ipotesi che la diagnosi fatta dal Dottor Tanzi fosse quella di sifilide, così come il suo tono farebbe escludere l’abbandono di Campana da parte dell’Aleramo). In un interessante saggio dal titolo Sul carteggio fra Sibilla Aleramo e Dino Campana, Beatrice Stasi, invece, ne mette in dubbio la veridicità, attribuendo all’Aleramo una nuova relazione nel 1917. Si coglie l’occasione per precisare che Giovanni Merlo ebbe con Sibilla una storia d’amore che durò due anni, ma che ebbe inizio a marzo 1918. La poesia - inedita - è probabilmente quella a cui si accenna nella lettera e venne spedita in quei giorni anche a Cecchi). LXXXII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze fine aprile - primi di maggio 1917] Sibilla Mi hai scritto che mi lasciavi e sono venuto per vederti perché non posso lasciarti senza più sentire la tua voce, una volta sola. Mia adorata, se vuoi ti giuro che sarai libera perdona tuo Dino LXXXIII Lettera LXXXIV Lettera Via della Fornace 9 (presso Piatti) Firenze. Dino Campana a Sibilla Aleramo Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze, 30 maggio 1917, ore 13,30] [Firenze, 1° 5 maggio 1917 ?] Fornito danaro desidero ardentemente vederti. Campana Cattiva mi fecero il gioco delle carte e come vero. Non voglio scrivere capisci, niente vale il tuo sorriso, la dolcezza di te, non voglio dirti altro che sono passato e passo a guardare la tua finestra chiusa e a baciare il vetro della cassetta delle lettere che una volta lasciava vedere Sibilla Aleramo. Non mi sento affatto feroce, perfettamente tranquillo. Ti AMO. Gioia mia, più cara della vita mille volte mia per il mio ricordo disperato. Tesoro, vuoi che ti racconti? E inutile. Cosa puoi tu fare delle mie storie. Sibilla mia. Sibilla piango e sorrido ti adoro. Oggi glicine perlacee erano nel sole e una testa d’uomo? Non sono più il tuo bambino? Parlo di te come di una santa che si cerca in ginocchio. Mi sento forte perché tu sei stata qui, hai guardato l’Arno e hai visto le glicine. Sono stato pure al Lyceum e là ho visto le glicine vive sui muri del cortile arsi nel sole amore amore. Cuore del mio cuore c’è un altro ancora che vorrai cantare? La tua sancta solitudo coi grappoli di glicine al sole basta. Gioia Non so perché ti scrivo lettere assurde ti so lontana e che non vorrai più amarmi, capisco tutto sai. Mandami una goccia del tuo sangue posso guarire. Il vento batteva sui boschi ma la tua voce era più forte. Addio Sibilla non resisto più. Una lunga agonia era lassù lontano da tè. Avevo trovato una pupattola e ci recitavo la commedia dell’amore disperato. Se tu avessi assistito alla pantomina (come presente eri per me!), saresti stata tanto contenta, pantomina che spezzavo il cuore di legno a me e all’altra. Gioia tieni sul tuo petto la lettera prima di scriverla a lungo. Un bacio fatto di mille e mille baci. Tuo Dino. Scrivi raccomandato, Dino Via della Fornace 9 Firenze. LXXXV Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Milano] 30 maggio [1917] Ti ho sognato - mi eri coricato accanto - mi son svegliata che dicevi: “perdonami”. Eri tu, Dino - ti ho proprio rivisto, sentito. Allora vuoi dire che lo sai finalmente che t’ho amato? Lo sai che cosa orribile è stata la tua cecità? Quei tuoi occhi che chiudevi, ed eran fatti per il sole. Per me e per te. Oh Dino, Dino, e ora è troppo tardi. Non posso più. Io son per sempre quella della notte in cui partisti da Firenze, piango come quella notte, da quella notte e come se avessi quattro anni, lagrime senza risposta in mezzo alla via d’una bambina battuta e sperduta. E nessuno più m’ha toccata. Ero pura, Dino - perché hai voluto negarlo, e sapevi di mentire? Sono pura - e mi sento morire - ed ormai è troppo tardi, amore, povero mio, mio, ch’io sola ho amato. Ti perdono. Ricordati. Avevo fede nell’anima tua. Salvala - come se dovessimo ritrovarci. In sogno lo saprò, forse. Mio! Ti perdono. Vivi. Sibilla LXXXVI Lettera [Ruotano, 30 luglio 1917] Sibilla Aleramo a Dino Campana Signora, [Ca di Janzo, Novara] sera del 20 giugno [1917] Questa stanza d’albergo di cittadina di montagna m’ha ricordato, appena vi sono entrata, quella del Natale a Marradi. Forse perché c’è un letto grande, e da quella volta non ne ho mai più veduti. Grande, tutto per me. Ho mangiato dei funghi, come alla Casetta, e bevuto del vino. Domani proseguo per l’alta valle. Ci son tante valli nelle Alpi. Tu non puoi indovinare in quale mi trovo. Il proposito sarebbe di restarci almeno tre mesi, che uniti agli altri cinque già trascorsi in stato di santità farebbero un record - oh non per offrire a te! VÌ domando di rivedervi per parlarvi e per sapere qualche cosa del mio destino. Intanto vi domando perdono e sono umilmente vostro Dino LXXXIX Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Ca di janzo, Valsesia] fine luglio 1917] E tu sei di nuovo a Rubiana, vero? L’ho saputo otto o dieci giorni fa, tornando a Milano. Mah! E sei contento? Domani vedrò le cime di ghiaccio. Quando Mère des souvenirs, maitresse des maìtresses... - Un anno che scrissi “anpenso che non saprai mai come t’ho amato, Dino! Addio, stanotte dormo. dando e stando” Un anno di fedeltà mia, per il ricordo di quei mattini al Barco ch’eravamo due cose d’oro. Addio, Addio... LXXXVII Lettera Sibilla Aleramo a Dino Campana [Ca diJanzo, Novara 20 giugno 1917] Le ginestre a Marradi, le ginestre a Maiani, in quale giugno le vedremo insieme? XC Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Marradi 8 agosto 1917] Cara Rina Se quest’anno sarai sulle Alpi, coglieremo le genziane. Fammi credere! Nel Mi trovo finalmente a Marradi fra le vergini foreste paese che tu pure hai tempo, mio, nostro. Nel ritorno dell’estate, l’anno che verrà e poi ancora, an- veduto. Compiango il tempo che ho trascorso in foreste meno vergini. Ma, viva cora. Vivere non avendo più fìssa dinanzi la morte, vivere guardando la vita. dio, mi sento soltanto adesso di essere ancora giovane e di combattere nuove Dino! battaglie sia nel campo vastissimo dell’intelletto nonché in quello di nuovi amori. Auguro a te pure donna intellettuale e colta di poter fare per quanto ti sarà possibile la stessa via. LXXXVIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo Se credi mi saranno grate le tue notizie e assicurati che di te conservo il più dolce ricordo. Dalle rupi di Campigno, nelle cui rupi pietrose abita permanente il falco io spero di superarle e volare sopra di esse con tutta la fierezza e la forza dell’aquila. Fra tutti gli areoplani moderni anche il mio seguirà il suo destino. O la morte o la gloria! tuo affezionatissimo [Marradi, 13 agosto 1917] Sibilla? XCIV Lettera Dino Campana Dino Campana a Sibilla Aleramo cosi detto poeta del presente e dell’avvenire [Marradi, 14 agosto 1917] Marradi (Firenze) scritta da Campigno. XCI Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo Perché non mi perdonate? Vi costa cosi poco. Siete per me l’unica divinità sulla terra vi amo come un idolo senz’occhi. È vero non posso nulla per voi. Ho esaurito tutto il mio ottimismo, ma venite a bere il sangue dei miei ginocchi, venite divina sola tra tutte le donne. Sono vostro schiavo. Vi custodirò come, Perdono perdono venite Dino per sempre vostro. [Marradi, 13 agosto 1917] XCV Lettera Your for ever Dino Campana a Sibilla Aleramo Dino [Marradi, 27 agosto 1917] XCII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Marradi, 1° agosto 1917] Your for ever Dinuccio XCIII Lettera Dino Campana a M. Luchaire Cara amica, perdonate se vi scrivo cosi, per me siete l’unica che penso come amica in possibilità. Dunque volete ancora fare qualcosa di me? Troverò un impiego e vi amerò per tutto il resto della mia vita che ormai auguro breve. Voi non mi farete forse più soffrire, non mi romanzo[re]te più, sarete meglio di una romanziera è vero? Ho lasciato tutti e tutte. Vorrei venire in Piemonte e vivere presso di voi. Però mi prometterete di non conoscere la Guglielminetti e di disprezzarla. Vita di lavoro e rinunzia! Come meglio la potete fare che come vi dico Ciao biondina adorata. Scrivi subito ti prego.. XCVI Lettera XCVIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze, 6 settembre 1917] [Firenze, 6 settembre 1917] Sibilla Aleramo Cara Signora Addio. Nous ne nous reverrons plus sur terre. Addio. Mandate ancora un sono nella tua stanza. Dimmi se devo viverci o morirci. Non ti importuno, è saluto al vostro vero. Tesoro santo. Dino Lungarno Acciaioli 24 (presso Fratini). Tuo Dino Lungarno Acciaioli 24 (presso Fratini). XCVII Lettera XCIX Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze, 6 settembre 1917] [Novara, 11 settembre 1917, ore 9,30] Cara Sibilla Malato ritorno Milano domando rivederti telegrafa Manin Perdono. Tuo Campana. oggi faccio frasi: ossia: il mondo un deserto senza di te, oppure che cosa devo fare della mia verginità, oppure mi contenterei di vederti di abitare nello stesso paese perché il mondo è ecc. Sibilla ti supplico, ti ho amato lo sai, ti assicuro ti C Lettera giuro che non posso vivere cosi, tu non puoi privarmi della tua presenza, non posso vivere senza vederti, senza saperti. Ti giuro che non domando neppure Dino Campana a Sibilla Aleramo il tuo saluto, sarò la tua ombra nella vita se vuoi, il ricordo di un amore che ti seguirà, felice cosi. Né per vivere né per morire posso essere senza di te. Ti ho [Novara, 11 settembre 1917, ore 12] adorato tanto questi mesi in mezzo al mio tormento mentre credevo di morire. Ma lassù c’era il ghiaccio e il silenzio, tu mi avresti dopo ritrovato puro dopo in Arrestato a Novara vieni a vedermi Campana. tutto il silenzio di tutte le cose. Sibilla perdono, per te sola ho fatto tutto. Non mi offendere, sarò il tuo amico silenzioso, non domando la gioia, voglio solo (Dino era stato arrestato come abbiamo già saputo dalla nota aggiunta alla letvederti. Farò tutto quello che mi comandi. Sibilla perché vuoi che muoia cosi tera XIII, ma ricordiamolo: Sibilla si recò dall’Avvocato milanese antifascista, lontano da te? colui che denunciò il Parlamento in delitto Matteotti, che l’aiutò a far scarcerare Campana) CI Lettera Sibilla Aleramo a E. Cecchi [Stazione Novara 13 seti. 17 sera [1917] Caro Cecchi, Cara Sibibilla mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato e l’ultimo male che mi puoi fare Ma pure spero ancora in una tua buona parola, di quelle che si scrivono ad un voglio scrivervi una lettera “storica”... Non hanno forse gli uomini inventato la storia per giustificare la vita? Vero è che aspetto un treno che mi riporti a amico inutile e lontano, un tuo sorriso di riflesso e tante tue notizie sulle righe. Milano, di dove son partita oggi. dopo esservi arrivata iersera da questa stessa Cara, chi ti fu caro, fu linea... Caro amico, sono venuta qui per vedere Camp[ana] ch’è in prigione. ArDinuccio è vero? restato tre giorni fa per il suo solito motivo (somiglianza con un tedesco). L’ho riveduto così, dopo nove mesi, attraverso una doppia grata a maglia. Non ero mai entrata in una prigione. E stato un colloquio di mezz’ora, i carcerieri avevan 1918 quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare e vedendo me irrigidita. ANTIEPILOGO Quando sono uscita, c’era tanto vento, pareva il giorno che arrivai ad Alessandria, ricordate? e in fondo si vedevano le montagne bianche. Ebbene, la libertà m’è parsa la cosa più tremenda della terra. Ho invidiato - forse, forse si - lui ch’era rimasto dentro con qualcuno almeno che lo ascoltava piangere... O io sono stanata dall’umanità, o la mia umanità non si esprime più... Ma ora parlo, ecco. Perdonate. Vogliatemi bene. Scrivete a C. a Marradi, dove il delegato m’ha promesso di mandarlo domani con foglio di via. Ditegli che lavori, che abbia fede... Non ho potuto promettergli nulla - e pure ero sua, son rimasta sua, lo sapete. Forse tutto è veramente bene. Chi sa. Coraggio. Sib P.S. Scrivetemi al Manin, non so dove andrò ma mi raggiungeranno.. CII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Marradi 27 settembre [1917]] CIII Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Firenze, 4 gennaio 1918, ore 18] Tutto cancellato domando rivederti. Campana. CIV Lettera Dino Campana a Sibilla Aleramo [Manicomio di S. Salvi, Firenze 17 gennaio 1918] Cara Se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo Dino. EPILOGO e L’ETERNITA’ NELLA POESIA Giulietta e Romeo dramma in 14 quadri e sette scene. dove si vedono mostruosi fatti e scene di terrore e orrore e infine della lotta della passione il trionfo dell’innocenza. Scena finale. Mia cara Rina, Sono cinque minuti che aspettando Rina Faccio mia amica amante e amabilissima Rina ossia una donna sul baratro (Sibilla Aleramo) *** Vi amai nella città dove per sole Vi amai nella città dove per sole Strade si posa il passo illanguidito Dove una pace tenera che piove A sera il cuor non sazio e non pentito Volge a un’ambigua primavera in viole Lontane sopra il ciclo impallidito ********************************* Sul più illustre paesaggio Sul più illustre paesaggio Ha passeggiato il ricordo Col vostro passo di pantera Sul più illustre paesaggio II vostro passo di velluto E il vostro sguardo di vergine violata II vostro passo silenzioso come il ricordo Affacciata al parapetto Sull’acqua corrente I vostri occhi forti di luce ********************************* In un momento In un momento Sono sfiorite le rose I petali caduti Perché io non potevo dimenticare le rose Le cercavamo insieme Abbiamo trovato delle rose Erano le sue rose erano le mie rose Questo viaggio chiamavamo amore Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose Che brillavano un momento al sole del mattino Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi Le rose che non erano le nostre rose Le mie rose le sue rose P. S. E cosi dimenticammo le rose ********************************* I piloni fanno il fiume più bello I piloni fanno il fiume più bello E gli archi fanno il ciclo più bello Negli archi la tua figura. Più pura nell’azzurro è la luce d’argento Più bella la tua figura. Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi Più bella della bionda Cerere la tua figura. Sibilla Aleramo e Dino Campana Passione sfrenata con più giovani e quasi senza uomini, raggelata, dove i muri della città esortano a non parlare con gli sconosciuti e a denunciare le persone sospetbotte da orbi È tornato recentemente in libreria, con un titolo fantasioso e l’ aggiunta di una dozzina di nuove lettere, il carteggio Campana-Aleramo, pubblicato nel 1958 da Vallecchi e curato da Nicolò Gallo, che in realtà si limitò a sistemare e ad annotare le lettere che gli aveva dato la Aleramo. Personalmente, penso che sarebbe stato meglio ristampare il testo originale, senza nulla cambiare e nulla aggiungere. Quel carteggio, infatti, non è un vero carteggio, ma è il romanzo d’ amore che Sibilla, ottantenne, compose mettendo insieme una parte delle sue lettere a Campana e quasi tutte le lettere di Campana a lei. Sibilla potè creare quel romanzo perché qualcuno (forse la madre bigotta di Dino, Fanny) le aveva restituito le lettere d’ allora, dopo che Dino era stato internato in manicomio. Sistemando l’ epistolario con Campana, distruggendo alcune lettere, togliendone altre, Sibilla diede anche forma accettabile a una storia che probabilmente le pesava ancora. L’ edizione Vallecchi delle Lettere è un suo romanzo: la sua opera migliore, forse l’ unica che le sopravvivrà (se non verrà troppo rimaneggiata). Dino Campana e Sibilla Aleramo si incontrano per la prima volta giovedì 3 agosto 1916 al Barco sopra Scarperia nelle montagne del Mugello, e per l’ ultima volta giovedì 13 settembre 1917 a Novara. La loro storia d’ amore (che però, come si vedrà, non è soltanto una storia d’ amore, e non è del tutto corrispondente al romanzo epistolare di Sibilla) ha bisogno di alcune premesse: sui suoi protagonisti, sulla guerra che le fa da sfondo e poi anche sulla malattia di cui Dino soffre già da parecchi mesi, e che lo porterà alla tomba. Dino e Sibilla sono due personaggi diversi e quasi opposti. Tanto lei è mondana, socievole e «sociale» (ma con intelligenza, senza le pose da femme fatale alla Amalia Guglielminetti), tanto lui è, per sua stessa ammissione, «orso» e «strambo». Senza la Grande Guerra del 1915-1918, si sarebbero forse incrociati e sfiorati nell’ ambiente letterario fiorentino, e tutto sarebbe finito lì. Il loro incontro è inevitabile e «fatale» perché avviene nelle retrovie della guerra; in un’ Italia silenziosa e attonita per le notizie che arrivano dal fronte, che espone quasi su ogni porta il nastro di un «lutto tricolore». In quell’ Italia senza te, Sibilla trova un giovane maschio di trent’ anni, con i capelli fulvi e gli occhi chiari, che è anche un grande poeta: e se ne innamora all’ istante. Che altro avrebbe potuto fare? Nel momento in cui si incontrano, Sibilla e Dino hanno una sola cosa in comune: sono, tutt’ è due, affamati d’ amore. Lei, di amori ne ha già avuti tanti, ma nessuno mai l’ ha soddisfatta né mai arriverà a soddisfarla pienamente. L’ amore disperato e folle con Dino Campana: i pugni e gli sputi di lui, i graffi e i morsi che lei gli ricambierà saranno tra le cose più autentiche della sua esistenza. Lui, Dino, prima di incontrare Sibilla non ha mai amato nessuna donna. Possiamo esserne sicuri, anche senza conoscere tutti i giorni e tutti i minuti della sua vita, perché ci troviamo di fronte al caso, abbastanza raro, di un poeta in cui scrittura e vita coincidono. Nelle poesie e nelle lettere di Dino Campana la scrittura registra, quasi automaticamente, tutti i principali eventi della vita: è ciò che la «scatola nera» è per gli aerei. Se una cosa non c’ è nella scrittura, non c’ è nemmeno nella vita. Prima dell’ incontro con Sibilla, nella vita di Campana ci sono le infatuazioni adolescenziali per qualche ragazza di Marradi, per qualche compagna di liceo; c’ è la creola Manuelita, intravista a Bahia... E poi, ci sono le prostitute. C’ è l’ epopea del sesso a pagamento e della prostituzione dell’ epoca, nelle sue forme più arcaiche (v. Il viaggio e il ritorno: «A l’ ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’ odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludi erano taciuti ormai...» ) e volgari (v. Notturno teppista: «Amo le vecchie troie/ Gonfie lievitate di sperma...»). Ci sono un paio di incontri senza importanza: con una «svizzera Segantiniana», con una «russa incredibile venuta dall’ Africa». Non c’ è, assolutamente, nessun amore degno del nome. (E, quando poi ci sarà, lascerà la sua traccia). L’ amore di Sibilla e di Dino è, fino dal giorno del primo incontro, una passionaccia, un amore quasi esclusivamente carnale. (Sibilla: «I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupisco- no il cielo». Ancora Sibilla: «Ti farò gridare di gioia quando ci riprenderemo»). I guai nascono quando i due incominciano a conoscersi. Dino ha un bisogno disperato di Sibilla, e però non c’ è quasi niente di lei che possa piacergli davvero: né la scrittura, né le amicizie, né il carattere. In quanto a Sibilla, scoprirà presto che c’ è una ragione, e mica piccola!, per cui lo Stato italiano ha lasciato a lei quel maschio giovane e forte, invece di mandarlo al fronte insieme ai suoi coetanei. Dino Campana è malato. Nell’ autunno del 1915 è stato ricoverato quaranta giorni all’ Ospedale di Marradi, con una diagnosi ufficiale di «nefrite». In realtà, ha avuto e ha una leggera paralisi al lato destro, che gli ha bloccato metà del viso e lo costringe a zoppicare; e soffre di un terribile mal di testa, di cui parla nelle sue lettere a Cecchi e ad altri corrispondenti e che chiama «congestione cerebrale» (meningite?). Questi sintomi non hanno niente a che vedere con la nefrite, e per un uomo di trent’ anni senza malattie cardiache (se ne avesse avute, in quattordici anni di manicomio si sarebbero rivelate), robusto come un torello e dedito assiduamente alle puttane, la spiegazione più logica è la sifilide. La sifilide distrugge il sistema nervoso, e gli ammalati di sifilide, finché ci sono stati i manicomi, finivano spesso lì. Ma per avere avanzato questa elementarissima ipotesi, perfino ovvia, ho rischiato querele dai discendenti di Campana e ho subito, e subisco tuttora, l’ anatema delle vergini vestali di Sibilla Aleramo e dei vergini vestali di Dino Campana: in pratica, per dirla con Dino, di tutta la «Letteratura nazionale / Industria del cadavere / Si Salvi Chi Può». Dino e Sibilla si amano follemente e si battono follemente, in vari luoghi, fino al gennaio del 1917. Grande amore, e botte da orbi: che Sibilla riceve (i Cecchi, marito e moglie, la incontrano con un occhio nero, e le consigliano di lasciare Campana), e però anche ricambia con molta determinazione. Anstrid Anhfelt, la giornalista svedese che ospita per qualche giorno i due invasati nella sua villa di Settignano nel dicembre del 1916, scrive a Leonetta Cecchi Pieraccini un biglietto in cui la prega di fare qualcosa per fare «tornare in sé» Sibilla. A leggere quel biglietto («Tutta la notte si sono battuti e graffiati»: dove è facile immaginare che a battere sarà stato soprattutto Campana, e a graffiare sarà stata soprattutto Sibilla; «Si ammazzano senz’altro, se qualcuno non interviene») non sembra che Sibilla sia del tutto soccombente. Se lo fosse stata, la Anhfelt avrebbe scritto: «la ammazza», e non «si ammazzano»... Fu- ghe, inseguimenti, riconciliazioni, altre botte: finché, il 22 gennaio 1917, per interessamento dell’ Aleramo, Campana viene visitato da un illustre psichiatra, il professor Ernesto Tanzi. Cosa abbia detto Tanzi a Sibilla, non si sa (ma la «paralisi vasomotoria» e le terribili emicranie di Dino erano sintomi inequivocabili, che lui certamente riconobbe). Si sa invece con assoluta certezza, che da quel momento Sibilla e Dino si dividono, e che non si rivedranno più fino al 13 settembre. Lui va in Val di Susa, e non le scrive quasi più. Lei probabilmente deve curarsi con il famoso «preparato 606» (il Salvarsan), e le lettere di questo periodo, selezionatissime, registrano però qualche scatto rabbioso («Cane arrabbiato che m’ hai morso, muoio, ma ti taglieranno la testa»), qualche perfidia femminile («Ci sono tante valli nelle Alpi. Tu non puoi immaginare in quale mi trovo»), qualche espressione irritata per la «santità» a cui è costretta («Il proposito sarebbe di restarci almeno tre mesi, che uniti agli altri cinque già trascorsi in stato di santità farebbero un record - oh non per offrire a te!»). Il rifugio segreto di Sibilla è un villaggio quasi irraggiungibile con i mezzi d’ allora, ai piedi del Monte Rosa. Lì Sibilla smette di scrivere, probabilmente anche per non far scoprire dove si trova, ed è invece lui che la tempesta di lettere farneticanti e di cartoline, spedite all’ indirizzo di Milano. («Hotel Manin, Milano, far proseguire»). Ad agosto, nonostante le restrizioni della guerra (siamo nel 1917) e nonostante sia privo di documenti per viaggiare, Dino va a Firenze e si insedia in casa di lei, di cui forse ha conservato una chiave («Sono nella tua stanza. Dimmi se devo viverci o morirci». Ed eccoci arrivati a settembre. Sibilla deve ritornare a Milano e a Firenze, ma teme di ritrovarsi tra i piedi quello spasimante che ormai le è diventato odioso, e decide di fargli uno scherzo. Il giorno 9 settembre, alla vigilia del rientro in città, scrive due lettere. Una a Cecchi, in cui dice: «Ho risposto poche righe a Campana, ancora di distacco e di coraggio. Se vi raccontasse altro, invenzioni»; e un’ altra (che naturalmente è scomparsa) a Campana, con le righe di distacco e... l’ indirizzo dell’ albergo! Il resto è fin troppo noto. Dino riceve le righe di distacco a Marradi il 10 settembre; il giorno dopo è a Novara, dove viene arrestato alla stazione ferroviaria mentre si informa sugli orari delle corriere per la Valsesia e il Monte Rosa. L’ Aleramo, avvertita con un telegramma, si rende conto di averla fatta un po’ grossa. Mobilita le sue conoscenze milanesi, e poi corre a riconoscere Dino che è in prigione: non «per il suo solito motivo (somiglianza con un tedesco)», come scriverà, mentendo, in un’ altra lettera a Cecchi; ma perché, sprovvisto di documenti, non può viaggiare. Il giorno 13 settembre, da Novara, Dino viene rispedito a Marradi con un «foglio di via», che dovrà far timbrare in Comune al momento dell’ arrivo. Da allora non darà più fastidio. Conclusione. La grande e tormentata storia d’ amore tra due protagonisti della letteratura italiana del Novecento è, in realtà, una storia di: a) amore; b) botte; c) sifilide; d) carognate; e) melassa postuma della «vulgata» dell’ unica sopravvissuta, cioè dell’ Aleramo; f) libri e ristampe alla melassa. Comunque vadano le cose, gli amori tra scrittori producono libri: ed è questa consapevolezza, forse, ciò che più spaventa Dino nei momenti di lucidità. («Le mie lettere», scrisse all’ Aleramo alla fine del 1916, «sono fatte per essere bruciate»). I PROTAGONISTI I destini incrociati di un poeta vagabondo e di una scrittrice monda- na Dino Campana è nato a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885; ed è morto a Castel Pulci, sempre in provincia di Firenze, nel 1932. Vive una giovinezza travagliata, che lo porta a interrompere gli studi di chimica pura all’ Università di Bologna. Dopo un ricovero al manicomio di Imola (1906), inizia una serie di vagabondaggi, in Svizzera e in Francia (1907). Nel 1908 è in Argentina, dove lavora come bracciante; poi va a Odessa, Anversa, Bruxelles, Parigi. Nel 1909 è di nuovo ricoverato, in una clinica di Firenze. Riprende, due anni dopo, senza alcuna fortuna, gli studi universitari. Nell’ autunno 1913 porta a Firenze, per consegnarlo a Soffici e a Papini, il quadernetto dei suoi Canti Orfici; ma, nella primavera successiva, è costretto a riscriverli, perché Soffici ha perduto il manoscritto; e li fa stampare privatamente da un tipografo di Marradi (1914). Segue una nuova fase di viaggi (a Torino e, di qui, a Ginevra), cui si alternano un altro soggiorno in clinica e una tumultuosa relazione con Sibilla Aleramo (1916-17), che precede il ricovero definitivo di Campana nel manicomio di Castel Pulci (1918). Molti suoi scritti usciranno postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960) e Il più lungo giorno (1973). Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, è nata ad Alessandria nel 1876 ed è morta a Roma nel 1960. Esordisce nel 1906 con un romanzo programmaticamente femminista, Una donna, dove già s’ intrecciano le componenti principali della sua personalità: la forte sensibilità sociale e la prorompente carica autobiografica e individualistica. Da questo conflitto nasceranno i romanzi successivi come Il passaggio (1919), Amo dunque sono (1927) e Il frustino (1932) e le prose di Gioie d’ occasione (1930), Orsa minore (1938) e Dal mio diario 1940-44 (1945). Da ricordare anche le raccolte di versi confluite in Selva d’ amore (1947, che le valse il premio Viareggio) e le altre liriche di Aiutami a dire (1951) e Luci della mia sera (1956). Alla vita di Dino Campana e al suo incontro con Sibilla, Sebastiano Vassalli ha dedicato il romanzo-biografia La notte della cometa, edito da Einaudi. (Corriere della Sera, Agosto 2000) Vassalli Sebastiano: Campana, la chimera del poeta ma- all’aria la biografia del Pariani e avrebbero dovuto sgombrare il campo da molte leggende. Invece sono servite a costruire altre leggende, come ledetto Dal Corriere della Sera del 26 Novembre 2003 Ripubblicati i «Canti Orfici» del geniale autore segnato dalla pazzia. Ma ancora una volta il suo ritratto umano non è attendibile Una storia che continua a dare fastidio e resta sepolta sotto un cumulo di leggende La ristampa, a cura di Renato Martinoni, dei Canti Orfici di Campana nei «tascabili» Einaudi, rappresenta un passo avanti per quanto riguarda la sistemazione dei contributi critici, nell’«Introduzione», nelle «Note ai testi» e nelle puntuali «Appendici». È invece un’ occasione mancata, se si voleva restituire Campana alla sua storia di uomo e di scrittore. Quella storia, da quasi un secolo dà fastidio a tutti: ai familiari, ai concittadini, ai medici, alla società letteraria; e si è cercato di seppellirla sotto un cumulo di leggende, che fino al 1985 si appoggiavano all’autorità dello psichiatra Carlo Pariani, autore di una biografia dal titolo perentorio: Vita non romanzata di Dino Campana scrittore. Carlo Pariani non era, come molti credono, il medico curante di Campana. Era un tale che andava a trovarlo in manicomio per una sua ricerca su genio e follia. Dino gli confidava di essere elettrico («Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison... sono elettrico») e, tra un delirio e l’altro, gli raccontava ogni genere di balle. Gli diceva di essere stato cinque anni in Argentina; di essere andato a Odessa; di aver patito la prigione a Parma, a Bruxelles, a Basilea, eccetera. Il 1985 avrebbe dovuto essere un anno di svolta per gli studi campaniani. In seguito alla pubblicazione (nel 1984) del mio romanzo-verità La notte della cometa, dal municipio di Marradi incominciarono a venir fuori carte e carte (prima non c’ era nulla) che avrebbero dovuto smentirmi e che invece confermavano quasi tutto della mia ricostruzione «romanzata». Campana, ovunque andasse, si lasciava dietro una scia di fogli di via, verbali di polizia e cose del genere, con date e timbri. Quelle date e quei timbri mandavano definitivamente quella riferita da Martinoni a proposito del servizio militare del poeta: «Dal gennaio ai primi di agosto del 1904, e qui torniamo alle notizie accertate, Campana è a Ravenna, dove presta servizio militare in qualità di soldato». Notizie accertate un corno. Io non so su cosa Martinoni basi la sua affermazione, ma so che le cose stanno diversamente e che riguardano un periodo importante, di un paio d’ anni, della vita di Campana. Le principali questioni non ancora risolte nella biografia del poeta sono appunto queste. IL SERVIZIO MILITARE - Il Registro della leva e le altre carte dell’ Esercito, che non si trovano a Marradi ma all’ Archivio di Stato di Firenze, a proposito del servizio militare sono chiarissime: Campana è «volontario» ed è «allievo ufficiale». Sembra una sciocchezza, ma le scuole per ufficiali (non «sottoufficiali»: proprio «ufficiali») in Italia e in quell’ epoca erano tre: quella di Cavalleria a Pinerolo, quella di Fanteria a Modena e quella della Marina a Livorno. I corsi di Modena duravano due anni e prevedevano quattro esami: caporale, sergente, sottotenente e tenente. Campana (è scritto nei documenti) passa l’ esame di caporale e non passa quello di sergente. Espulso dall’ Accademia, finisce il periodo di ferma da qualche altra parte. Dove? LA SIFILIDE - Questo è il punto che suscita più malumori. Premesso che la prova provata della sifilide di Campana non potrà mai esserci, così come non potrà mai esserci per Nietzsche o per altri personaggi illustri morti di quel male, alcune osservazioni si impongono. La prima è che i comportamenti di Campana erano a rischio. Chi navigava nel mare delle «troie dagli occhi ferrigni» e delle prostitute del porto di Genova, prima o poi pescava quei pesci, cioè quelle malattie. La seconda osservazione è che tutto il decorso della malattia di Campana, dalla paresi facciale del 1915, alla distruzione del sistema nervoso con conseguente follia, alla morte in manicomio nel 1932 è quello, da manuale, di una sifilide nervosa: perché ostinarsi a negarlo? Cosa c’ è da difendere: la famiglia? La categoria degli psichiatri? L’ albo professionale dei poeti? Anche il lungo decorso della malattia non costituisce un’ obiezione valida. Campana era giovane e forte (Soffici ne descrive le «gambe ercoline» e il «viso di salute»); e la sifilide può durare anche venticinque anni. che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli. Hanno vinto loro. Addio, Dino. L’ AMORE PER SIBILLA ALERAMO - Nell’ Italia senza più uomini della Prima guerra mondiale, la poetessa Aleramo incontra un maschio giovane e forte, e lo fa suo. È l’ estate del 1916. Ma dopo poche settimane di passione sfrenata si scopre che, se quel maschio non è al fronte, c’ è una ragione. Incominciano le scenate e le botte. Nel gennaio 1917, Sibilla accompagna Dino dallo psichiatra Eugenio Tanzi, un luminare per quell’ epoca; e la loro relazione finisce lì. Lei scappa, si nasconde, trascorre mesi e mesi «in stato di santità» («un record»), gli scrive «cane arrabbiato che mi hai morso...». A quanto pare, deve curarsi. Lui alterna periodi di lucidità ad altri di follia. Un giorno (nel settembre 1917) riceve una lettera su carta intestata di un albergo in Valsesia; parte per raggiungere la sua bella, ma lei non è più lì e lui viene arrestato come disertore... LA VITA Il manicomio e la passione Il poeta Dino Campana (18851932) ebbe una vita travagliata, costellata dai ricoveri in manicomio, l’ultimo in quello di Castel Pulci dove morirà (qui gli fu scattata questa foto nel 1928) Molti suoi scritti usciti postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960) La ristampa di Canti Orfici e altre poesie, a cura di Renato Martinoni (pagg. 236, euro 9,50), è stata appena pubblicata nei Tascabili Einaudi. L’ ELETTRICITÀ - In manicomio, per molti anni, Campana viene fritto con l’ elettricità. «Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. Credevo che mi avessero rotto una vena nel cervello!». L’ uso e l’ abuso dell’ elettricità con i matti è iniziato nella Prima guerra mondiale, in tutta Europa, per tenere gli uomini nelle trincee e non ha ancora finalità terapeutiche accertate. Negli anni Venti è un uso sperimentale e punitivo, che sostituisce catene e botte. Gli apparecchi con cui si danno le scosse sono descritti e riprodotti nella vecchia Enciclopedia Treccani: rocchetti a corrente alternata, pennelli faradici e simili. Qualcuno di quegli strumenti è ancora visibile nei musei, là dove si sono volute conservare le attrezzature dei vecchi istituti manicomiali; ma già alla fine degli anni Trenta non venivano più usati. Vorrei concludere questo articolo con una considerazione personale. Non credo che scriverò più su Dino Campana. Nel corso degli anni, ho fatto tutto ciò che poteva essere fatto per restituire quell’ uomo alla sua verità. Non ci sono riuscito, e quest’ultima ristampa dei Canti Orfici ne è la prova. Consegno la memoria di Dino ai film melensi, alle biografie deliranti o troppo circospette, ai «chissà!» e alla strizzatine d’ occhi, ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti Annalisa Gimmi: Lasciate in pace la follia di Campana da Il Giornale, domenica 23 ottobre 2005 Povero Dino Campana. Bistrattato in vita. E adesso, quando il postumo amore di generazioni di lettori potrebbero restituirgli serenità, ecco che scrittori e critici si attaccano alle sue ossa per azzannare il boccone più grosso. L’uscita del libro curato da Sebastiano Vassalli, Un po’ del mio sangue (Rizzoli, pagg. 298, euro 9) ha sollevato consensi e proteste anche pittoreschi. Vassalli, in veste di Depositario della Verità, si scaglia contro tutti: dai genitori del poeta, «una famiglia orribile» che lo avrebbe emarginato, considerato pazzo senza alcun reale motivo e allontanato per la vergogna; ai concittadini, fautori del mito del «mat Campana»; ai letterati che lo hanno deriso, rifiutato, e anche ai critici che lo vogliono «usare» per creare un personaggio, seguendo non ben chiari disegni di mistificazione. Vassalli sostiene a spada tratta che Campana, in realtà, non era pazzo. Lo è diventato a trent’anni, dopo aver contratto la sifilide. Prima di allora, Dino era una persona - come definirla? - originale, inquieta, disperata. Ma non pazzo. Da quando invece (tra il 1916 e il 1917) la malattia comincia a manifestarsi in modo sempre più conclamato, perde veramente la ragione. E non scrive più. È chiara la tesi sostenuta da Vassalli: Campana non era pazzo mentre scriveva i Canti orfici. Non è di un pazzo quel libretto che rappresenta una delle maggiori vette della poesia italiana. La malattia, di origine assolutamente organica, è posteriore e coincide con il suo silenzio. Certo che non era pazzo, Campana, mentre scriveva. Era solo se stesso. Ed è vero che quando la follia si è completamente impadronita di lui anche la sua arte ha taciuto. Ma non si possono negare i fatti. I ricoveri durante la gioventù, i numerosi arresti per risse, i vagabondaggi inquieti. È vero, molto può essere attribuito alla fantasia dei suoi compaesani (c’è sempre un «mat» nelle piccole comunità), ma ci sono anche le opinioni dei medici. Non sempre concordi. Ma, per Vassalli, quelli che gli hanno diagnosticato disturbi mentali sono tutti in malafede, buoni solo gli altri. E poi, la sifilide. (Sfortuna rara - sia detto per inciso - per uno creduto pazzo, impazzire davvero a causa di un male organico, che niente ha in comune con l’inquieto passato.) Non esiste alcun documento a comprovare questa patologia, ma effettivamente niente vieta di attribuirla a Campana: né i sintomi, che sembrano rispondere alle manifestazioni di questo male, né la possibilità di averla contratta durante quegli incontri con prostitute che Dino stesso racconta, sublimandoli, in alcune splendide pagine della sua opera. In verità, la «follia» di Campana, reale o indotta dall’ambiente, sembra innegabile fin dalla gioventù. Fu causa di fughe, liti, disordinate e disperate ribellioni. Poi la situazione è precipitata (forse per la sifilide, ma che importanza ha?) e la sua mente si è ottenebrata. Oggi ogni tentativo di ricostruire con certezza le vicende dello straordinario poeta sembra impuntarsi su liti in fondo a lui estranee. Vassalli (e dopo di lui Cristina Taglietti sul Corriere della Sera del 15 settembre scorso) attacca chi lo ha preceduto nell’impresa, in particolare lo scrittore argentino Gabriel Cacho Millet, autore - in realtà - di edizioni molto curate di inediti e soprattutto di lettere del poeta. A questi attacchi ha risposto in modo scomposto e furibondo Paolo Pianigiani sul sito web Transfinito, il 27 settembre. Quante grida inutili e avvilenti. L’opera di Campana parla da sé. È grande poesia. Non sembra essenziale definire se scritta da una mente «sana» (e poi - antica questione - come definire la «sanità»?) o per intervalla insaniae (non sarebbe il primo... ). È lì, da leggere e da amare. Smettiamo di tormentarlo. In fondo Dino ai nostri occhi è (per usare parole dello stesso Vassalli) solo un poeta.