Quale immagine di Dio per l’Uomo d’oggi?
Se il titolo della conferenza è una domanda, da parte mia scelgo come risposta “la bellezza”.
Mi sembra che la migliore immagine di Dio per l’Uomo d’oggi sia - appunto - la bellezza.
Non nego che ci siano altre strade per entrare nel mistero di Dio, ma fra tutte preferisco la
bellezza. La VIA PULCHRITUDINIS come da tempo immemorabile sa l’Uomo. Bisogna
riprenderla.
Lo affermo per la fatica che ho compiuto nel conquistarla anche teoricamente. Nei fatti la
bellezza mi apparve seducente fin da bambino. La mia natura e la cultura che andavo
incontrando in Parrocchia e a Scuola, m’hanno condotto a fare esperienza d’incontro
immediato con la bellezza.
Ma me ne mancava un’interpretazione razionale. Posso dire soltanto che ho accettato di essere
prete sedotto dalla bellezza: la cercavo e - quanto più - me ne saziavo come potevo.
Innamorandomene, ho trovato la bellezza come uno spettacolo che mi permetteva di non
restare prigioniero della percezione molto sentita di bellezze femminili.
Si, le donne; ma la bellezza era di più e meglio in quanto colta come presenza assoluta,
infinita ed eterna. L’identificazione tra Dio e Bellezza - ancora del tutto intuitiva - mi faceva
libero dall’Incarnazione nelle bellezze provvisorie e parziali di questa Bellezza totale.
Reciprocamente la Bellezza totale mi ingentiliva e mi raffinava così da educare in me quella
dimensione estetica che mi faceva percepire - immediatamente - i valori autentici da
riconoscere nelle cose, nelle persone, negli avvenimenti.
Questo dialogo tra la Bellezza e la mia sete m’è stato maestro di accoglienza, di simpatia, di
affinità, di liberazione. Con chiunque cercava la bellezza, la reciprocità era immediata, quasi
un’intuizione del loro Io più profondo. E l’intesa sulla bellezza diventava incontro
indimenticabile ed amicizia solidissima, facilissima comunicazione e perfetto anelare di
ricerca.
Con gli innamorati della bellezza non ho mai litigato. Conoscevo invece lo scontro sul “vero”
e sul “bene”. La Rivelazione trasformata in Dogmatica e in Morale quasi abitualmente
lasciava scontentezza, imitazione, rifiuto. E’ stata dunque mia maestra l’esperienza. Più dei
sacramenti e dell’autorità ecclesiastica - in due momenti della mia vita - fu la bellezza con la
sua forza intrinseca ad evitarmi il naufragium fidei.
Questa è la primissima motivazione per cui rispondo che quale immagine di Dio per l’Uomo
d’oggi scelgo la bellezza. Mi sembrò - giovane com’ero - una chiave irresistibile per aprire la
porta di Dio nel suo esistere e nel suo essere.
Debbo confessare che chi confuse questa originale esperienza fu San Tommaso. Don
Pederzoli, grandissimo maestro reggiano - da me interrogato - m’aveva indicato di studiare il
tomismo: diceva che vi avrei trovato pascolo.
Cominciai con la “Expositio de divinis nominibus”. San Tommaso l’aveva scritta tra il 1261 68, quindi fra i suoi 40/45 anni. Non ne rimasi persuaso; anzi la mia ulteriore ricerca sulla
bellezza si spense nella Summa Theologiae. Né più l’ho ripresa, sui libri. Evidentemente non
ne avevo capito niente; ma fu così. E con il tomismo chiusi.
Mi interessava molto - al contrario - la ricerca sperimentale della bellezza. Proseguendola,
notavo sempre più che quanti incontravo denunciavano forte scetticismo sulla spiritualità e
sulla vita: li frenava la pesantezza di quella che cominciai a chiamare “cattiva qualità”.
Nell’esporre come la vivevano, quanti incontravo finivano per denunciare il deteriorarsi dei
rapporti con la natura (appesantimento fisico, immobilismo tecnologico, figli, soldi) e
logoramento delle relazioni sociali (delusioni, tradimenti, scontri individualistici, solitudine,
ideologie, teologumeni). A costoro rispondevo portandoli in montagna.
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Oltre i 2000 metri, li convincevo, il vostro scetticismo sparisce; ma erano iniezioni precarie,
perché fatte in un fine settimana reso anche più frettoloso dagli impegni famigliari e
professionali.
Si mostravano emotivamente convincenti questi fine settimana, ma sempre più mi apparivano
superficiali. Mancava una metafisica della bellezza, pensavo; ma francamente non trovavo
aiuti.
In quegli anni attorno a me ho trovato il vuoto. Un vuoto troppo spesso abitato da insetti più
dediti alle accuse, alle denunce, ai tradimenti che nn alla contemplazione e all’amicizia. Ho
avuto la mia agonia nel superare lo squallore del clericalismo che tirava a sostituire la Gloria
della Rivelazione.
Ho vergogna a dire che chi mi risvegliò - ed ero già stato sul Bianco, sul Cervino, sul Gran
Paradiso, sull’Ortles, sull’Adamello - fu nel 1968 Herbert Marcuse.
Lessi in originale “La dimensione estetica” che dal suo punto di vista mi apparve migliore di
tutte le Chiese nel galvanizzare quel mondo giovanile turbolento e rivoluzionario eppure così
avido di pensare, di amare, di contemplare.
Feci qualche proposta alle autorità competenti, ma nel vuoto.
Tornati al quotidiano, lo scetticismo sulla capacità della bellezza di superare la cattiva qualità
della vita, riprendeva.
Ed io mi amareggiavo nel dover constatare che vetro-cemento-rumore-fumo e puzza (ad
esempio la Ghisolfa o Pero), finivano per uccidere la bellezza e così interrompere quello che
consideravo il più facile ed efficace itinerario verso Dio.
Ero però convinto che l’esperienza negativa della qualità della vita, fosse una grossa
motivazione per porre al centro della “pastorale” (cattolici) e dell’educazione (laici) la
bellezza.
Ripresi Marcuse (“Eros e civiltà” già pubblicato nel 1955 ma edito in Italia solo nel 1968). Vi
ritrovai una delle tesi freudiane che toccavano quel malessere sulla qualità della vita che
avevo da tempo notato. La tesi era questa: il “principio di piacere” dev’essere sacrificato al
“principio di realtà” (costituito dal mondo storico e sociale), se si vogliono garantire insieme
sicurezza materiale e ordinata convivenza.
La civiltà è necessariamente malessere (Freud, “Il disagio della civiltà”), e Marcuse ne
divulgava la constatazione: il prezzo della civiltà è l’incanalamento degli istinti con la
repressione del loro movimento spontaneo.
Di ciò convinto e convincente, Marcuse scriveva (1969) quel libretto “Saggio sulla
liberazione” che sarebbe diventato la bandiera del movimento studentesco nell’impatto con
“L’uomo a una dimensione”.
A continuare questa ribellione contro lo scadere della qualità della vita - allora facilmente
imputata ai cattolici - concorsero poi (1977) Agnes Heller, la discepola di Lukacs, con il
marxismo riverniciato del suo “La teoria, la prassi e i bisogni” e le teorie francesi del
“desiderio” divulgate da Deleuze-Guattari (“L’anti Edipo. Capitalismo e schizofrenia).
Tutte queste deviazioni - così le etichettavo allora - rilanciavano in me l’urgenza di riportare
cultura ed esperienza alla bellezza. Ma nell’ambiente dove m’ero frattanto trasferito, di aiuto o
anche solo di dialogo non trovavo nulla. Dico assolutamente nulla. La mia desolazione di dura
sofferenza per l’accusa di essere imbibito di letture radicali perché citavo Garaudy e
Horkheimer, Dostojevsky e Puskin, Ionesco e Beckett, conobbe la solitudine ed il rifiuto. Solo
qualcuno mi ascoltava; ma impaurito. S’era creato il paradosso di aver paura della bellezza,
quasi fosse per i cattolici una sconosciuta o un avversario.
E’ questo del cibo amaro che guasta la bocca, è questo dell’ “indigestione materialista”, il
secondo motivo per cui propongo “la bellezza” quale immagine di Dio da privilegiare sulle
altre.
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Proprio mentre si produceva una massiccia estetizzazione del mondo in cui viviamo, una certa
cecità cattolica ha accettato supinamente che allo studio della natura e alla critica dell’opera
d’arte si sostituissero immagini cultuali scadute in paccottiglia, che sul “mistero” prevalesse
una predicazione troppo facilmente incline a oscillare tra l’orrore del peccato, od un
compiaciuto dolorismo, e la petulante domanda di soldi, col risultato di convincere la gente –
a milioni – nel preferire i musei ed i panorami alle chiese.
Anche la trascuratezza dei governi nel tutelare il comune patrimonio nazionale – come non
fosse un’altra scuola – ha condotto la cultura estetica ad assumere il valore relativo di
un’istintiva religione secolare, alternativa alla trascendenza. Si concludeva così quella
“apostasia delle masse” già autorevolmente deprecata da trent’anni.
Posso perciò presentare il terzo motivo per cui preferisco la bellezza come immagine di Dio
da presentare all’Uomo moderno. Ed è questo: il vuoto incontrato nel parlarne.
L’ostracismo in cui venni a trovarmi - a Dio spiacente ed ai nimici sui - mi rintanò nelle
letture. Non volevo perdere i temi scientifici che mi avevano incantato; ma non potendo
rilanciarli per l’impossibilità di proseguirli, pensai di utilizzarli continuando in solitudine la
mia ricerca della bellezza. E fui fortunato (o benedetto). Trovai nel Pontificio Ateneo
Anselmiano un’autorevole guida che mi portò a considerare - in modo più sistematico di
quanto avessero saputo cogliere mie precedenti intuizioni - i limiti notevoli di una “ragione”
assunta a mezzo esclusivo della verità. Cominciai ad organizzare, tutto solo (ripeto) il mio
convincimento che fosse possibile aggiungere a quella della razionalità scientifica un’altra
forma di accesso al reale.
Mi confortava la constatazione che il nostro mondo stava cambiando i propri paradigmi
culturali, liberandosi - pur faticosamente - da quell’impostazione illuminista che ha dominato
gli ultimi secoli.
C’era di fatto un materialismo estetico generato dal fondo oscuro della privazione totale
imposta dalla guerra (1939 – 45) e sviluppato nella voglia di vivere intensamente la vita.
Dovunque, ma soprattutto in Occidente, ormai abbastanza ricco per soddisfare la richiesta di
gratificazioni, si scoprì la possibilità di estetizzare tutta la vita quotidiana: casa, automobile,
vestito, gioielli, feste, viaggi, tutto doveva essere bello. Negli anni ’80 l’edonismo divenne
turbinoso tanto da volere che il mercato producesse non più soddisfazioni di bisogni reali, ma
dipendenze artificiali, quelle coltivate dalla grande illusione delle droghe. Il ricorso alle
tecniche della soddisfazione si fece sempre più dilagante. Che fare con tutta questa orgia tesa
a colmare quel vuoto?
Sublimarlo nella bellezza, quella autentica.
Parlavo con me stesso - follia o mistica? - di una nuova cultura. E ne ricavavo le fondazioni in
Pavel Evdokimov (1901 - 1970) ed in Hans Urs Von Balthasar (1905 - 1998). Li presi come
stampelle del mio claudicare; erano invece ali. Ali per un volo appassionante, non ancora
finito; benché ormai di un ventennio.
Per Evdokimov faccio ancora riferimento a “Dostojevsky e il problema del male”, a “La
donna e la salvezza del mondo”, a “Le età della vita spirituale”, a “Lo Spirito Santo nella
Tradizione ortodossa”, a “La teologia della bellezza”. Per Von Balthasar, ho continuato a
leggere e rileggere “Verità. La verità del mondo”. Poi ho proseguito con lui; ma per evitare di
annegarmi nella sua oceanica produzione, mi sono affidato a R. Fisichella, “Amore e
credibilità cristiana”.
Così, circa dal 1980, ho fatto l’affamato. Mangiavo estetica, ci scherzavo sopra, ma intanto
tutti quei libri - di numero ben superiore a quanto pensassi - mi agguerrivano nel mio
convincimento che era la bellezza, l’immagine di Dio preferibile per l’uomo moderno.
Tante mie letture sull’estetica mi hanno reso ulteriormente isolato. Nel deserto altrui, la mia
voce non trovava echi. E con chi parlare di Gadamer (“L’attualità del bello”). Tatarkewicz
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(“Storia dell’estetica”), Vattimo (“Estetica moderna”), Pifano (“Sulla bellezza”), Migliorini
(“L’estetica contemporanea”), Modica (“Che cos’è l’estetica?”).
Servivano non per la comunicazione, ahimè, ma per la consolazione. Quante notti, Bellezza
sempre antica e sempre nuova, mi hai cullato! Ed entravo in debito con quanti ignoravano
quelle meraviglie. Ho detto vuoto, e lo ribadisco.
Vuoto tanto più deprecabile se misurato all’interno di quelle Facoltà universitarie che
intendono creare dei formatori. Come può definirsi “formatore” - e quindi guida e stimolo
all’esplorazione dei problemi del mondo e della vita - chi della realtà della bellezza ignora
aspetti nodali costitutivi della cultura e della civiltà occidentale?
C’è un quarto motivo che mi ha spinto e mi spinge a preferire come immagine di Dio per
l’Uomo moderno: è la visione biblica dell’universo. Il Papa nella “Redemptor hominis” lo
richiama così: “In questa inquietudine creativa batte e pulsa ciò che è più profondamente
umano: la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la
NOSTALGIA DEL BELLO” (n. 18).
Non sono d’accordo - perciò - con Grundmann (GLNT, V, 4-47) che afferma:
“complessivamente il problema del bello non riscuote l’interesse del pensiero biblico”. E’
invece evidente che la Bibbia guarda la bellezza e la fa sognare integrandovi quella esteriore e
quella interiore, espresse con un linguaggio turgido, seppur complesso. Tenuto conto del
rischio di cadere nell’antropomorfismo, l’educazione a trascendere i limiti delle forme
terrestri per risalire direttamente alla fonte stessa della bellezza, è chiara e forte.
L’ha ripresa da qualche anno la teologia narrativa rimediando alla diffusa tentazione di far
decadere la meditazione della Scrittura in arida scolastica biblica. Questo energico recupero
del rapporto tra Bibbia e Bellezza deve diventare - a mio avviso - la via regale della salvezza
del mondo.
Ormai sono 200 anni da quando Friedrich Schiller - con le “Lettere sull’educazione estetica”
(1794) ha compiuto la prima e forse migliore impostazione teoretica moderna dell’educazione
estetica.
Sarebbe stato opportuno confrontarla con la visione biblica della bellezza; ma il genio mancò.
Ci si fermò ad Aristotele con il suo Kalós kai agatzós pur entusiasmando il Rinascimento a
guardare il bello come creatore di uomini eccellenti. Era già molto; ma la Bibbia era andata
lontano e lo mise in rilievo Dilthey con la sua “erlebnis” (esperienza) che - negli epigoni - finì
per dare scarso rilievo all’atteggiamento contemplativo identificato addirittura con la
passività.
Per riprendere l’estetica come attributo intrinseco e da privilegiare dell’educazione, sono
occorsi 100 anni. Ma non è ancora ovvio che il dato estetico è processo di originalità capace
di rimediare ai danni di un industrialismo selvaggio che - indirizzato ai consumi di massa tende a soffocarla in un materialismo produttivistico dentro cui umiliare i caratteri spirituali
del bello.
La Bibbia è il miglior contravveleno a tanta decadenza. Per questa strada troveremmo molti
alleati e molti mecenati. Né sarà trascurabile risultato - questo umanesimo - se esso ci porterà
dal rincoglionimento degli affari all’incanto del bello. Così è possibile che attraverso il bello
la Bibbia possa ridiventare la Madre della nostra civiltà. Essa, infatti, dall’inizio - e Dio vide
che il creato era bello (Kalós nei LYX) - alla fine (Io sono la stella radiosa del mattino), non fa
che spingerci alla contemplazione della bellezza, ad ammirarla, ad averne nostalgia. La vita è
bella, insegna la Bibbia, e ci educa a godere nella eternità lo splendore del Paradiso dove i
giusti “vedranno la faccia di Dio” (Ap. 22, 3).
Questo tema del volto di Dio come fruizione sempre nuova, come spettacolo senza
interruzioni, è insistente: i Salmi ne sono pieni (27,8; 11,7; 4,7); i Profeti se ne inebriano (vedi
il Cantico), il Nuovo Testamento lo glorifica in maniera impressionante. Eccone qualche
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parola: lo vedremo così com’è (1 Gv. 3, 2); allora lo vedremo faccia a faccia (1 Cor. 13, 12);
quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, ne mai entrarono in cuore d’uomo, queste ha
preparato Dio per coloro che lo amano (1 Cor. 2, 9).
Un altro tema che ci conduce alla bellezza biblica è la danza di Dio. Nei Proverbi, ad esempio,
l’idea di Dio artista geniale e fantasioso viene indicata con “amon”, l’architetto, e a Lui si
riferisce l’Universo che danza e lo fa danzare sorridente.
Attraverso la danza si entra in comunione col Dio che è TOB: bello, buono, santo. Per questa
via pulchritudinis si scopre senza difficoltà che solo Cristo è adeguatamente “irradiazione
della sua gloria” (Eb. 1, 3). Certo, la danza di Dio ci porta davanti a nuovi capitoli dell’esegesi
biblica, capitoli di difficile descrizione, spesso ignoti completamente allo stesso nostro mondo
accademico. Occorrono approfondimenti disprezzati solo per impreparazione, ma sempre più
indispensabili.
Ho scelto questi due spunti - volto e danza - intanto per invocare aiuto a sviluppare questa
simpatia fra Bibbia e Bellezza, ma anche per sottolinearne fin da principio la difficoltà: il
frequente uso di “kalós” nelle lettere pastorali di S. Paolo segnala che il modo di intendere
l’essere cristiano è cambiato.
Il cristianesimo viene assimilato a una condotta “ragionevole” e civilmente esemplare, alla
maniera stoica del pulchrum et decorum est pro patria mori. Così la bellezza resta trasformata
in buona condotta sociale dei cristiani (Mt. 5, 16). Alla bellezza si contrappone la croce. E c’è
un eroismo estremo che vede nella croce la più radicale dissoluzione del concetto classico di
bellezza come perfezione.
L’incontro tra cultura classica e cristianesimo non avvenne, dunque, sempre e dovunque per
affinità elettiva; avvenne anche in termini di ostilità.
Tertulliano, Teofilo di Antiochia, Taziano hanno duramente condannato l’assimilazione della
bellezza classica: “Può esservi forse qualcosa di comune tra Atene e Gerusalemme? Che
bisogno abbiamo noi di ricerche dopo Gesù Cristo? Che cosa dobbiamo richiedere noi dopo
che abbiamo avuto il Vangelo?” (De praescriptione VIII).
Il loro impeto si spiega con la difficoltà a conciliare la serietà di vita richiesta ai cristiani e le
abitudini di condotta immorale quali trasparivano in certa mentalità pagana.
Per nostra grazia, un altro tipo di cristianesimo si oppose alla dannazione della bellezza. I suoi
sostenitori - cito qui S. Basilio nei suoi rapporti con i giovani - trovarono nella Scrittura tutta
una serie di testi capaci di far risalire all’Assoluto del Creatore le bellezze create. Senza
cadere nell’ingenuità, i cultori della bellezza difesero perfino il nudo commentando Tt. 1, 15. I
loro argomenti sono quelli perenni: con l’espressione “kaloskagatzós” essi definiscono il loro
ideale di vita e di educazione, indicano il criterio con cui l’aristocrazia plasma l’uomo nobile,
applaudono il condottiero che allo splendore del corpo severamente allenato unisce una
condotta rispettosa e giusta, riflessiva e prudente, misurata e capace. Insomma: bella!
Teorizzano come ideale la partecipazione al modello eterno della bellezza che contemplata dà
fecondità creatrice ed estasi come visione beatifica.
I moderni hanno troppo lungamente ignorato questi argomenti che hanno lontane radici nel
Simposio di Platone. Non si pensi né a Shaftesbury, né ai romantici; si superino anche la
trattazione del “sublime” e Kant con la sua “Critica del Giudizio”. Soprattutto si evitino i
dogmi della critica semiotico-strutturale e la deriva nullificante del decostruzionismo. Sono
devastante entropia spirituale.
Penso invece a quanti hanno imparato ad usare anche solo microscopio e telescopio, facendoli
strumenti di ricerca e di preghiera. Costoro non hanno discusso di bellezza. L’hanno vista e
ce l’hanno fatta vedere.
Come mai, loro si e noi no?
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Essi hanno imparato ad osservare, a compiere cioè la prima operazione scientifica. L’hanno
usata per riconoscere, confrontare, classificare. Sono poi passati alla seconda operazione
scientifica: la sperimentazione, che consiste nel portare i fenomeni osservati alla loro
formulazione più semplice così da poterli ripetere a piacere ed esprimerli con i dati della
matematica, insostituibile per esporli con precisione.
E’ così che anch’io sono cresciuto. Ad esempio sono passato dalle foglie alla loro
respirazione, alla loro funzione clorofilliana, alla loro putrefazione. La conquista di questi tre
miracoli è diventata parte integrante di me stesso. In loro venerazione, oggi calpesto il terreno
con incedere sacro.
Identica emozione hanno suscitato in me i fiori finalmente visti con occhio scientifico.
Bellissimi sempre, ma ancor più magnifici quando ci si rende conto della loro sessualità: essi
sono l’organo di riproduzione delle piante. Così finalmente ci si accorge che il pistillo è
l’organo femminile, gli stami sono gli organi maschili, che là dentro ci sono gli ovuli e qui
dentro c’è il polline, che la corolla e i petali sono strumenti di seduzione. In loro tutto canta la
bellezza dell’amore.
Ma come scegliere per continuare ad esemplificare?
L’ape ha risolto il problema del suo favo a suon di logaritmi. La lumaca si fa il guscio con la
spirale di Archimede. I pesci e gli uccelli hanno scoperto il galleggiamento ed il volo ben
prima che l’Ingegneria iniziasse il suo apprendistato con le navi e gli aerei.
Una goccia d’acqua vista al microscopio ci mostra meraviglie incredibili, così come ci fa
incantare comunque: dalle ali di un moscerino a un tuorlo d’uovo.
E passando dall’infinitamente piccolo o all’infinitamente grande, soltanto una scienza ormai
adulta sa stupirsi delle meraviglie che provengono dal numero atomico, sa appassionarsi - con
Fritz Zwicky nel 1933 - quando scrutando nella costellazione della Chioma di Berenice
dovette concludere alla “massa mancante”, sa inginocchiarsi davanti alle relazioni fra la
glicolisi, il ciclo di Krebs ed il trasporto degli elettroni: l’ATP è la molecola definita come il
trasportatore universale di energia nella cellula vivente. Chi ne parla? Chi sa ascoltare?
E che dire di noi stessi? La vista e l’udito - ad esempio - sono concentrati di genialità messa a
servizio della luce e del suono. Come non incantarsene?
Lo stupore è l’unica risposta intelligente, già indicata dalla Rivelazione: “Udii come una voce
potente di una folla immensa nel cielo che diceva Alleluia... Udii come una voce di
un’immensa folla simile al fragore di grandi acque e al rombo di tuoni potenti che gridavano
Alleluia”.
Ecco l’udito!
“Poi vidi il cielo aperto... vidi poi un angelo ritto sul sole... vidi poi un angelo che scendeva
dal cielo... poi vidi alcuni troni... vidi anche... vidi poi un grande trono bianco... vidi poi un
nuovo cielo ed una nuova terra... vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere
dal Cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”.
Ecco la vista!
Udito e vista intenti al loro fine: quale estasi!
Ci accompagnino questo udire e questo vedere per lunghi anni con eccitanti slanci provocati
dal dialogo fra bellezza e verità, fra bellezza e bene.
Nell’assimilarli c’è l’eco dell’entusiasmo beatificante gustato da Dio in sé stesso e fuori di sé
stesso: nella storia di Cristo e nella storia dello Spirito. Trasformati dalla loro capacità
educativa trasfigurata dalla bellezza dell’assemblea dei credenti e dalla bellezza della
Comunione dei Santi, saremo pronti per immergerci direttamente nella Bellezza di Dio.
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