DICEMBRE 2008
anno 3 numero 19
Neri dalla rabbia
A settembre la camorra ammazza sei africani a Castel Volturno, due mesi dopo le
forze dell’ordine compiono una violenta retata di migranti. Il sindaco applaude,
i media sorvolano. Voci e punti di riferimento degli africani del litorale domizio
H
o sentito bussare alla porta.
Mi sono svegliata di colpo,
erano le cinque. Gridavano: carabinieri! carabinieri! Ho
cercato le chiavi e ho aperto la
porta. Li ho fatti entrare, in casa
c’eravamo solo io e il mio
bambino di sette anni. “Chi sono
i genitori?”, mi hanno chiesto.
Gli ho detto che il papà non
abitava qui perchè siamo
separati. Il bambino porta il
nome del padre, gli ho mostrato
lo stato di famiglia per
dimostrare che sono la madre.
Quando hanno visto che il
permesso di soggiorno rilasciato
dalla questura di Mantova era
scaduto, mi hanno detto di
seguirli in caserma. Hanno
perquisito tutta la casa.
Hanno buttato giù la
porta della stanza di un
ragazzo che abita con noi
e che a quell’ora era già
uscito per andare a
lavorare. Ci hanno
portato alla caserma dei
carabinieri di Mondragone e poi,
dopo i primi controlli, alla
questura di Caserta. Faceva
freddo. Ho avuto paura per mio
figlio che soffre di asma. Per
fortuna mi hanno dato una
coperta. Ci hanno trattenuti fino
alle due di notte del giorno
seguente, quasi ventiquattro ore,
poi ci hanno riaccompagnati
qui».
La “brillante operazione
delle forze dell’ordine” comincia
all’alba del 20 novembre, quando
circa trecento uomini tra
poliziotti e carabinieri, accompagnati da unità cinofile, vigili del
fuoco e vigili urbani, fanno
irruzione nell’American Palace,
una palazzina di cinque
piani situata al chilometro
trentaquattro della statale
Domiziana, un edificio in
cui abitano esclusivamente
migranti africani. A
quell’ora molti di loro
sono già diretti verso le rotonde,
dove i caporali reclutano la forza
lavoro da condurre nei campi o
nei cantieri. Gli agenti sfasciano
i vetri delle finestre e le porte.
Chi rientra nel pomeriggio
lamenta la sparizione di denaro,
documenti e altri oggetti. Dalla
questura dicono di essere alla
ricerca di “armi, munizioni o
esplosivi, latitanti”. A operazione
conclusa fanno sapere che nei
ventisei appartamenti dell’American Palace sono stati fermati
novanta cittadini stranieri,
settantasette dei quali senza
permesso di soggiorno. Sedici
sono stati arrestati per violazione
dell’ordine di lasciare il territorio
nazionale; (segue a pag 6 e 7)
Pag. 9
Il sommergibilista
di Porta Nolana
Pag. 2-3
Studenti e
assessori
Pag. 4
Blindati a
Terzigno
Pag. 5-6-7
Su e giù per
la Domiziana
Pag. 8
Messaggi
dalla Cina
Pag. 10
L’ex studentato
Miranda
Pag. 11
Molly Sweeney,
Così fan tutti
Pag. 12
Viaggio in
Mozambico
DICEMBRE 2008
DICEMBRE 2008
Dalla farsa alla tragedia
Indagato il presidente del porto, un assessore si dimette, un altro si toglie la vita
I
l 7 novembre migliaia di
studenti sfilano per le strade
del centro di Napoli per
protestare contro i tagli a scuola
e università. I manifestanti
prendono di mira le sedi di
alcuni giornali, le agenzie di
lavoro interinale e la sede di
Confindustria in piazza dei
Martiri con il lancio di palloncini
pieni d’acqua. Slogan e cartelli
contro il ministro Gelmini. Il
giorno dopo manifestazione di
tremila persone contro la
discarica in allestimento a
Chiaiano. Gli attivisti mostrano
spezzoni di filmati che
dimostrano la presenza di eternit
e rifiuti speciali nella cava, in
seguito interrati dai militari. Il
presidio propone un incontro al
capo della Procura Giandomenico Lepore per chiedere il blocco
dei lavori a Chiaiano e il
sequestro della cava. Intanto i
carabinieri applicano il nuovo
decreto sui rifiuti che punisce
con il carcere chi abbandona in
strada rifiuti
speciali e ingombranti e fermano
sei persone per il
deposito illegale.
Polemica sulla
norma, che ha
valore solo nel
territorio della
Campania. Il 9 al
concertone anti-camorra e prosaviano muore la cantante
sudafricana Miriam Makeba. Si
è accasciata sul palco mentre
eseguiva l’ultima canzone, il suo
successo più grande: “Pata
Pata”.Vano il trasferimento nella
clinica Pineta Grande. Mamma
Africa, dicono i giornali, ha
cessato di vivere poco dopo la
mezzanotte. L’11 decine di
professori e centinaia di studenti
fanno lezione a piazza Plebiscito
per protestare contro le politiche
del governo sulla conoscenza. Il
13 dodicesima visita del premier
Silvio Berlusconi
a Napoli. Incontra
il cardinale Sepe,
che chiede al
governo lavoro
per i giovani del
sud. Poi presenzia
alla firma per
l’affidamento
dell’inceneritore
di Acerra alla ditta lombarda
A2A: la prima linea
dell’impianto – così dicono –
entrerà in funzione a gennaio.
Insieme a Bertolaso il premier
annuncia anche che dal primo
dicembre apriranno le piazzole
in cui i cittadini potranno portare
rifiuti da riciclare in cambio di
un indennizzo.
Il 14 mille studenti antiGelmini partono dalla
Campania diretti a Roma per la
manifestazione nazionale degli
studenti. In città ancora occupate
Lettere e l’Orientale. Il 15 il
Partito Democratico convoca gli
“stati generali della legalità” a
Caserta. Il segretario Walter
Veltroni, ammalato, invia un
messaggio: «La camorra si può
battere». Lo stesso giorno al
teatro Sannazaro si rivede il
movimento civico “Chiaia per
Napoli” che presenta un libro
per ricordare la marcia di
protesta del 10 novembre 2007 e
propone per le prossime
comunali la formazione di una
lista civica. In prima fila
commercianti, imprenditori,
medici e notai. Il 17 brogli
all’Ordine dei medici. Il
presidente uscente Giuseppe
Scalera, deputato Pdl, blocca lo
spoglio del voto. Trovate due
buste che contenevano più
schede a favore di Gabriele
Peperoni, il geriatra che gli
contende la rielezione. «È uno
sporco imbroglio – dice Peperoni
–. La nostra lista era in
vantaggio». La magistratura
mette i sigilli alle urne elettorali.
Intanto dopo dieci giorni di
applicazione delle nuove norme
sui rifiuti, sono già cinquanta le
persone arrestate per avere
lasciato in strada rifiuti
ingombranti o pericolosi.
Vengono resi noti alcuni dati sul
lavoro in regione: tra settembre
e ottobre sono state attivate
ventimila richieste di cassa
integrazione nella provincia di
Napoli, pari a 154 settimane.
Sono 36mila i posti di lavoro
persi in Campania nei primi sei
mesi del 2008.
Il 18 blitz dei vigili a San
Gregorio Armeno. Scatta il
censimento delle bancarelle di
pastori, ma gli artigiani
protestano. «Da qui non
andiamo via». Alla fine sono 114
i commercianti censiti, ma il
comune prevede di autorizzarne
solo 75. Gli altri rischiano multe
e sequestri della merce. Il 19 la
Procura, dopo i ripetuti
interventi della polizia
municipale, vieta i giovedì
musicali al museo di arte
contemporanea Madre in via
Settembrini per la carente
certificazione delle misure
antincendio. Il direttore del
museo protesta: «È una censura
nei confronti dell’arte». E
annuncia la riapertura per la
settimana dopo.
Il 20 indagato il presidente
dell’Autorità portuale, Francesco
Nerli e tre suoi collaboratori.
Tredici rappresentanti di società
operanti nel porto versavano
contributi, tutti fatturati e
registrati, alla vigilia di
manifestazioni elettorali
organizzate dai Ds, come quella
svoltasi nel marzo 2005 a
sostegno della candidatura di
Antonio Bassolino alla Regione.
Le somme vanno dai cinque ai
venticinquemila euro. La
Procura ritiene che l’Autorità
portuale abbia “indotto gli
operatori a effettuare le
contribuzioni forte dei
rilevantissimi poteri di controllo,
vigilanza, attribuzione e revoca
di concessioni, autorizzazioni,
appalti”. Per i magistrati si tratta
di “concussione ambientale”.
Nerli e la sua segretaria, Rita
Convertino, hanno il divieto di
dimora in Campania.
Il 26 nuovo blitz della polizia
municipale nella strada dei
presepi. Un artigiano si incatena
alla baracca e minaccia di darsi
fuoco, mentre i colleghi bloccano
la strada. A fine giornata dieci
baracche vengono abbattute. Il
comune conferma che gli
autorizzati sono solo 75. Ma non
è ancora stata firmata
l’ordinanza. Il 27 dopo l’occupazione della facoltà di
Sociologia della Federico II il
rettore Trombetti
decide di sospendere le elezioni
universitarie. Candidati di destra e
di sinistra occupano il rettorato per
protesta. An
chiede le dimissioni del rettore. I
collettivi universitari invece
sostengono che le elezioni sono
una farsa, perché il quorum non
si raggiunge mai e i candidati
rappresentano solo se stessi.
Poi il 28 si dimette l’assessore
comunale alle finanze e alle
aziende comunali Enrico
Cardillo. Era in carica da sette
anni e mezzo. Venti giorni fa era
finito in un’inchiesta sulle
consulenze per il piano
strategico del Comune. La
richiesta di interdizione dai
pubblici uffici avanzata dal pm
era stata respinta. Il sindaco
Iervolino si attribuisce tutte le
deleghe, annunciando un rimpasto
a fine anno. Nel frattempo la Procura
sequestra le sale del
museo Madre dalle
ventidue di sera alle
sei di mattina per
impedire le famigerate serate
danzanti. Infine il 29 si suicida
con una corda al collo nella sua
casa di Pianura l’ex assessore
Giorgio Nugnes, costretto a
dimettersi il mese scorso per le
indagini sulla rivolta contro la
discarica di Pianura. Era
accusato di aver avvertito i
manifestanti dell’arrivo delle
forze dell’ordine comunicando
con il consigliere comunale
Nonno, di schieramento opposto
ma pianurese di nascita come
lui. Nugnes era finito agli arresti
il 6 ottobre e poi era tornato in
libertà, ma con il divieto di
dimora a Pianura. Poi il gip gli
aveva concesso di tornare a casa
per tre notti a settimana. Il
sindaco piange, qualche politico
accusa i giudici, altri ancora
parlano di un’inchiesta che lo
vedeva coinvolto, ben più ampia
e preoccupante di quella di
Pianura. (lr)
DICEMBRE 2008
Blindati nel parco del Vesuvio
Bertolaso torna alla carica a Terzigno legalizzando vecchie e nuove discariche
Il Parco naturale del Vesuvio nasconde da sempre discariche abusive di ogni
tipo. Al centro degli sversamenti la città di Terzigno.
Proprio qui lo scorso 17 novembre il sottosegretario
Bertolaso comunica ai cittadini che non ci saranno più
discariche abusive. Non ce ne saranno soltanto perché
tutte quelle presenti e non in regola diventeranno “legali”
grazie al decreto legge n. 90 del 23 maggio 2008. Ma
andiamo con ordine e cerchiamo di capire cosa è accaduto
e cosa accadrà nei comuni di Terzigno,
Boscoreale e Boscotrecase.
La storia ha inizio con il decreto n. 61
dell’11 maggio 2007, durante il governo Prodi.
L’atto normativo individua a Terzigno, in
località Pozzelle, diversi siti di stoccaggio dei
rifiuti solidi urbani. In quegli stessi giorni
viene istituito un presidio permanente in via
Nespole della Monica. Prendono il via
manifestazioni e interventi pubblici che
portano agli incontri con l’allora prefetto
Pansa e il ministro Pecoraro Scanio per poi
sfociare nelle occupazioni della stazione
ferroviaria di Pompei e del comune di
Terzigno. Si arriva al mese di agosto senza
che le disposizioni previste dal decreto
vengano attuate. A sentire le comunità in
lotta «il governo scelse di temporeggiare, riuscendo in
questo modo a stemperare gli animi e sfaldare il nucleo
organizzato della protesta».
Oggi lo scenario politico è decisamente cambiato.
Con il decreto del 23 maggio vengono militarizzate tutte
le aree interessate allo smaltimento dei rifiuti e, com’era
prevedibile, la località Pozzelle a Terzigno è ancora uno
dei punti nevralgici per la risoluzione della crisi.
settembre la conferenza dei servizi indetta da Bertolaso
invia ai comuni, all’Ente Parco e all’Asl la
documentazione progettuale redatta dalla presidenza
del consiglio e dal dipartimento di idraulica, trasporti e
strade della Sapienza di Roma. Il progetto individua
cinque siti in località Terzigno: Cava Pozzelle 1 - mq
81665 (dismessa e di proprietà della SARI, parzialmente
adibita a discarica), Cava Pozzelle 2 - mq 41781 (dismessa,
sottoposta a sequestro e di proprietà di Di Somma Ida),
Cava Pozzelle 3 - mq 42916 (dismessa e di proprietà della
SARI), Cava Pozzelle 5 - mq 339456 (attiva e sottoposta
a sequestro, di proprietà di Vitiello), ex-discarica SARI
- mq 119350 (dismessa e adibita a discarica di prima
categoria per rifiuti urbani e assimilabili, sottoposta a
sequestro a causa dell’abusività del tipo di utilizzo e di
invaso).
Nella notte tra il 13 e il 14 novembre con una scelta
dettata “da necessità e urgenza”, il governo sceglie la
linea dura inviando le forze dell’ordine a presidio della
ex-discarica SARI: è un avvicendarsi di blindati,
fuoristrada e uomini armati che bloccano l’accesso già
da via Nespole della Monica, strada abitata che conduce
alla discarica, ma non ancora “di interesse strategico
nazionale”. Come conseguenza i residenti sono costretti
a esibire un documento di identità ogni volta che devono
rientrare a casa e uscire dalle loro abitazioni per
identificare eventuali ospiti.
Di lì a pochi giorni, con una mossa a sorpresa,
Bertolaso e la sua scorta partecipano, non annunciati, al
consiglio comunale straordinario di Terzigno per
rispondere alle perplessità della popolazione. L’atmosfera,
da subito tesa, si riscalda ulteriormente quando i presenti
chiedono a gran voce che il sottosegretario sia allontanato
dall’aula consiliare. I toni si stemperano soltanto quando
viene concessa anche ai cittadini la facoltà di intervenire
per porre interrogativi al rappresentante del governo. È
però il commissario straordinario a gestire l’economia
del dibattito riservandosi la possibilità di rispondere per
ultimo una volta ascoltati tutti i dubbi della sala. Sono
molti e precisi gli interventi: il più significativo chiede
delucidazioni circa i rischi per la salute e l’eventuale
incremento delle patologie tumorali in presenza di
discariche e inceneritori. Il sottosegretario, dopo aver
aperto una lunga parentesi sulla raccolta differenziata e
sul corretto operato del governo – interrotta soltanto da
uno scatto d’ira di un presente, subito placato da un
impetuoso “silenzio!” – chiosa con un sibillino: «A me
non risulta».
Al governo, dunque, non risulta che – secondo i dati
forniti dal professor Comella, direttore del
dipartimento di terapia medica dell’istituto
nazionale tumori di Napoli – in prossimità
di inceneritori e discariche vi sia un incremento
del rischio di cancro polmonare, di sarcoma
dei tessuti molli, di mortalità nelle donne per
tutte le cause: tumore del colon e della
mammella, diabete e malattie cardiovascolari,
diminuzione del tasso di testosterone e
disfunzione del sistema immune… È giusto
aggiungere che, secondo il decreto legislativo
42\2004 lettera l, nelle aree interessate da
attività vulcanica le discariche non vanno
istallate per “non pregiudicare l’isolamento
dei rifiuti”.
Mimì Auricchio, ieri pasdaran della lotta
contro la discarica e oggi sindaco di Terzigno
per il Popolo delle Libertà e primo promotore dello
stesso, si esprime così: «Con il premier Silvio Berlusconi
ho stretto un accordo: una deroga piena sui vincoli della
zona rossa. Non chiederemo sanatorie, ma la messa in
sicurezza del territorio. […] Quindi, l’approvazione del
PUC, il piano urbanistico comunale, che prevede un’area
commerciale di duecentomila metri quadrati nella zona
rossa per rilanciare l’economia di Terzigno e delle aree
vicine. Infine, Berlusconi in persona mi ha promesso che
ci darà una mano per la realizzazione di un centro
polisportivo. Sarà il più grande della Campania: faremo
persino un campo di golf […] potremo rifare le strade
e dare un’aggiustatina al paese. E tutto questo, senza
subire alcun danno. Ho visto come lavorano i militari:
sono bravissimi. Sono stato nel sito di Sant’Arcangelo
Trimonte: non è una discarica, ma una fabbrica di
confetti. Ecco, noi avremo una fabbrica di confetti che
produrrà oro. Insomma, altro che casinò. Meglio di un
casinò». (da www.capitoloprimo.it)
Perdere la scuola elementare
Il decreto 137 mantiene il tempo pieno, che però a Napoli non raggiunge il due per cento
Il decreto 137, convertito in legge
il 29 ottobre scorso, è sorretto da una motivazione esclusivamente economica e innesca due
generi di questioni, l’una pedagogica, l’altra sociale.
Da un punto di vista pedagogico l’attuale scuola
elementare è il frutto dello sviluppo del tempo pieno,
inteso come tempo disteso durante il quale i bambini
imparano secondo la velocità e le capacità di ognuno.
Tra il 1985 e il 1990 tutte le elementari italiane avviarono
cinque anni di studio per definire i nuovi modelli operativi
e al termine della sperimentazione vennero identificate
due strutture orarie fondate entrambe sulla pluralità dei
docenti: il tempo modulare e il tempo pieno. In entrambi
i casi la finalità è sempre stata permettere a tutti di
raggiungere un unico livello di apprendimento quale
che sia il punto di partenza, e conseguenza non secondaria
è stata l’integrazione dei bambini diversamente abili e
migranti, non più relegati in classi differenziali ma inseriti
totalmente nel percorso scolastico comune, con innegabili
vantaggi sia per loro che per l’intero gruppo-classe. Il
valore delle scelte operate è ratificato dai dati OCSEPISA che classificano la scuola elementare italiana come
la seconda in Europa e la sesta al mondo.
Con il decreto 137 tutto questo scompare. La riduzione
del tempo-scuola a 24 ore settimanali coperte da un solo
insegnante è considerata la strada migliore per ridurre
la spesa pubblica. Si crea così una scuola antica, in cui
un unico insegnante ha la responsabilità di portare
trentatre bambini (perché con i tagli viene sfondato anche
il tetto dei venticinque alunni per classe) a un livello di
apprendimento che non può, ovviamente, tener conto
delle differenze socio-culturali, con la conseguente perdita
degli elementi più deboli, meno motivati e meno seguiti
dalle famiglie.
Il secondo problema, non meno importante, è sociale.
La scuola materna ed elementare a tempo modulare o
pieno (quindi dalle 8.30 alle 15 o alle 16.30) significa per
le donne la possibilità di impiego. La situazione attuale,
sospesa in attesa dei decreti attuativi, sembra configurare
per l’anno prossimo il mantenimento del tempo pieno a
40 ore e l’eliminazione della struttura modulare, con una
pesantissima ricaduta soprattutto sul meridione, dove il
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tempo pieno non raggiunge il 5% (a Napoli è fermo a
un miserrimo 1,5%) e quindi le scuole cittadine si
attesteranno su orari di 24, al massimo 30 ore settimanali.
Conseguenza sarà l’impossibilità per le donne di lavorare,
con la cristallizzazione della disoccupazione femminile
ai livelli attuali e l’identificazione delle famiglie
meridionali come famiglie monoreddito, sia che i genitori
lavorino entrambi e investano uno stipendio in scuole
private o aiuti familiari sia che le donne ritengano più
conveniente seguire i figli e lasciare il lavoro. Si crea
quindi anche una questione di genere, che già lancia i
primi segnali: in alcuni casi si preferisce far studiare il
maschio, anche se meno brillante, e ritirare le ragazze
dopo la fine della scuola dell’obbligo, perché è evidente
la mancanza di prospettive femminili che non siano i
lavori di cura della casa e della famiglia.
Sembra che la nuova struttura oraria debba essere
riferita solo alle prime classi. In realtà, anche questa è
più una speranza che una certezza, ma non va dimenticato
che il “contratto” che lega la scuola alla famiglia, il Piano
dell’Offerta Formativa, non può essere modificato senza
un accordo scritto tra le parti. È essenziale perciò, rifiutarsi
di firmare qualsiasi diminuzione di orario proposta dalle
scuole e, nel caso si riscontrino differenze tra l’orario
dell’anno in corso e quello dell’anno prossimo, ricorrere
al Tribunale amministrativo regionale, che negli anni
precedenti ha già espresso parere negativo a cambiamenti
non condivisi dalle parti. (cb)
DICEMBRE 2008
E.
M. è l’unica donna presente all’American Palace. Ci abita da cinque anni, da quando
è arrivata a Castel Volturno proveniente da Mantova. Lavorava per una cooperativa
che produceva jeans. Aveva il permesso di soggiorno e il libretto di lavoro.
«Quando il contratto è scaduto
non mi è stato più rinnovato. Per
un periodo andavo e venivo
dall’Olanda dove vendevo
abbigliamento italiano. Nel 2000
ho conosciuto il padre di mio
figlio. Avevo già una figlia in
Africa. Ho scoperto solo mentre
ero incinta che lui era sposato
con un’altra donna. Quando mio
figlio aveva un anno ho
conosciuto un altro uomo, ma
anche in questo caso le cose non
sono andate bene. Lui voleva un
figlio e io no, litigavamo e ha
cominciato a minacciarmi.
Quando le cose sono peggiorate
sono dovuta scappare in un paese
vicino. Dopo ulteriori minacce
ho deciso di trasferirmi, con
l’aiuto del Celestial Church of
Christ, a Castel Volturno. Con
un po’ di soldi che avevo ho
comprato dei prodotti alimentari
all’ingrosso e ho iniziato a
venderli prima a Verona e poi
qui all’American Palace. Per un
periodo guadagnavo un po’
anche cucinando per le persone
che abitano qui. Ho dovuto
smettere perchè questo lavoro
non era compatibile con gli orari
di mio figlio. Lui la mattina va
a scuola con il pullman. Io vado
a piazza Garibaldi per comprare
qualcosa da rivendere qui.
Torno in tempo per riprenderlo
alle 13,30. Il pomeriggio va al
doposcuola dai padri comboniani e ritorna a casa alle quattro.
Paghiamo un affitto di cinquecentoventi euro, compreso la luce
e l’acqua».
« M I CHIAMO J OSEPH . Sono
arrivato nell’89. Da allora non
sono più tornato in Ghana. I miei
non stanno nemmeno più là.
Molti parenti sono in California.
Mio figlio studia all’università
dell’Ohio. Io lavoro a Napoli, a
Posillipo. C’è un amministratore
che mi chiama per fare lavori di
muratura e di giardinaggio,
piccole cose. Quando non lavoro
passo tutta la giornata a casa, esco
solo per fare la spesa. Abito in
una di queste case basse, siamo
sei sette africani. Le case
affacciano su questo grande
cortile. Fino a qualche anno fa
questo era un ristorante famoso.
Venivano a fare le cerimonie.
Adesso è abbandonato, ma i
padroni abitano ancora qua. Li
conosco da tanto tempo».
« A Napoli vado con il
pullman, esco di casa alle quattro
e trenta del mattino per iniziare
a lavorare alle nove. Quando
sono arrivato a Castel Volturno,
agli inizi degli anni Novanta,
intorno era campagna e
d’inverno non c’era nessuno.
Anche la Domiziana era deserta,
solo d’estate c’era un po’ di
movimento. Ora tutta Napoli si
è trasferita qui. Molti ghanesi
abitano a Pescopagano. Chi vive
qui, appena riesce a ottenere i
documenti va via, non sono come
me. Anch’io sono andato al nord.
Ho lavorato a Brescia in una
fonderia. Avevo il lavoro ma non
avevo la casa e per un anno e
mezzo ho dormito alla stazione
dei treni. Troppo duro. Ho
lavorato anche a Busano in un
allevamento di cavalli. Anche lì
non mi sono trovato bene e sono
tornato a Napoli. A Posillipo
lavoro da tanto tempo. Ho
iniziato ancora prima di andare
al nord».
«MI CHIAMO A. O. Sono arrivato nel 1981 per studiare a Perugia.
Sono geometra. Mi sono
diplomato nel 1985. Quando ho
finito gli studi sono tornato in
Nigeria. Per un anno ho fatto il
servizio militare. Poi ho lavorato
per un’impresa italiana nel mio
paese. Dopo qualche anno sono
tornato in Italia per studiare
all’università. Ho frequentato
per tre anni, poi ho lasciato. Non
riuscivo a sostenermi economicamente. Allora sono andato a
lavorare in una fabbrica di
ceramica. Ho lavorato per
quattro anni fino al 1991. Ero
costretto a lavorare in nero
perchè il mio datore di lavoro
non voleva regolarizzarmi. Per
questo motivo ho litigato. Nel
1993 sono arrivato qui a Castel
Volturno. A quei tempi la
maggior parte delle persone che
abitavano qui provenivano
dall’Africa. Di italiani ce n’erano
pochi. Era una città fantasma.
Riuscivamo a trovare case anche
senza pagare nulla. Qualche
volta i proprietari chiedevono
cento, duecento euro. Nessun
italiano voleva venire a vivere
qui. Lavoravamo nella zona di
Villa Literno, raccoglievamo i
pomodori. Può sembrare strano
che un geometra va nei campi a
raccogliere i pomodori. In
Nigeria lavorando come
geometra guadagnavo duecentocinquanta dollari al mese e alla
fine del mese non riuscivo a
mettere nulla da parte. Qui
invece facendo qualsiasi lavoro
riuscivo a risparmiare anche
cinquecento dollari. Quindi ho
capito che conveniva usare la
forza e non l’intelligenza. Se un
geometra va a raccogliere i
pomodori ci deve essere una
ragione. Poi per un periodo non
riuscivo a trovare lavoro e mi
sono messo a fare delle cose
illegali. Sono stato arrestato per
spaccio di droga. Ho trascorso
cinque mesi in carcere. Sono
uscito dalla prigione tredici mesi
fa. Adesso metto la testa a posto.
Sto cercando qualsiasi tipo di
lavoro. Se possibile mi
piacerebbe tornare a Perugia».
(sp/lr)
DICEMBRE 2008
DICEMBRE 2008
Neri dalla rabbia
T
rentanove sono sottoposti a provvedimento
territorio di Castel Volturno con il compito di
di espulsione e accompagnati presso alcuni
gestire le aree demaniali e i beni sottoposti a
Cie (Centri di identificazione ed espulsione,
sequestro; trovare una risoluzione del
gli ex Cpt). Nove tra gli stranieri avevano chiesto
contenzioso tra lo Stato e i Coppola; predisporre
asilo politico. Nessuna traccia, a quanto pare, di
progetti di sviluppo del territorio. L’1 agosto
armi, munizioni, esplosivi o latitanti.
2003 viene approvato l’accordo di programma
“Un’operazione spettacolare che ha mostrato
per il risanamento eco-ambientale e il rilancio
i muscoli con i più deboli e distrugge tutto ciò
socio-economico del litorale domitio. Il piano
che faticosamente si stava tentando di fare: unire
prevede una serie di interventi di riqualificazione
le forze di tutti contro la camorra”, sostiene in
tra cui l’ampliamento del porto turistico “San
un comunicato, divulgato subito dopo il blitz, il
Bartolomeo” che passerà dagli attuali 250 a 1200
centro sociale Ex-Canapificio di Caserta, punto
posti barca. Il 30 giugno 2005 viene firmato
di ritrovo di centinaia di migranti e riferimento
l’accordo che pone fine al contenzioso tra lo
indispensabile per le questioni legali e
Stato e i Coppola. I quarantatre milioni di euro
amministrative. “Sono poveri, sono neri, sono
di debito vengono sanati dai Coppola, in parte
irregolari – dice un altro
in contanti e in parte con la
comunicato, stilato dai missionari
cessione di alcuni fabbricati
comboniani –. L’American
costruiti illecitamente.
Palace non è il ghetto, o la Soweto
di Castel Volturno come una
Una duplice attrattiva
trasmissione televisiva l’ha
Dopo il blitz dell’American
recentemente chiamato. Quando
Palace il sindaco di Castel
in un palazzo ci vivono italiani,
Volturno Francesco Nuzzo ha
famiglie o persone singole, il
dichiarato: «L’iniziativa delle
palazzo viene chiamato
forze dell’ordine segue la mia
condominio e non ci sorprende
richiesta inviata al ministro
di vedere volti bianchi alle
dell’interno, che ha pienamente
finestre, ma se a queste finestre
recepito il senso del messaggio
si affacciano volti neri chiamiamo
e compresa l’esigenza di
il palazzo ghetto”.
ripristinare, anche nell’area della
Padre Giorgio Poletti siede al
clandestinità, i fondamenti della
tavolo di cucina nella casa dei
legalità (…) La città nutre
padri comboniani di Castel
completa fiducia nell’operato
Volturno. Sono in quattro, in una palazzina a
delle istituzioni perché anche sulla parte
due piani, poco distante dal monotono rettilineo
rimanente del territorio, dove si annidano forme
della Domiziana. Padre Giorgio ha l’aria
di illegalità che vanno dalla prostituzione allo
sofferente per i postumi di una brutta caduta,
spaccio di droga, si pongano in atto iniziative
ma si dice soprattutto «stanco di ripetere le cose
analoghe». Il sindaco dimentica di aggiungere
di sempre». Le parole escono fuori a fatica,
che, benché senza i documenti in regola, la retata
lentamente, ma la voce è chiara, profonda:
colpisce solo lavoratori extracomunitari
«L’American Palace è sempre stato il luogo dove
sottopagati che soggiornano nella spoglia
le forze dell’ordine, soprattutto i carabinieri di
palazzina abusiva pagando cospicui affitti al
Mondragone, hanno iniziato i loro interventi
nero. Il 13 novembre, sette giorni prima
sul territorio. Cinque anni fa è stato oggetto di
dell’irruzione, i consiglieri comunali di
un’altra incursione. Allora, per protestare contro
opposizione avevano presentato un’interrogaziol’operazione “Alto Impatto”, che nel nostro
ne al sindaco, chiedendogli “quali provvedimenti
territorio colpiva soprattutto gli immigrati
intende urgentemente adottare al fine di
irregolari, ci siamo incatenati alla prefettura di
prevenire e di eliminare i gravi pericoli per
Caserta. Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
l’ordine e l’incolumità pubblica relativamente
Adesso si riparte con questa
alla presenza massiva (sic) nel
incursione, con un dispiegamento
American Palace di
Un’incursione cosiddetto
di forze sproporzionato».
un notevole numero di
con mezzi
Secondo lui però, il vero
immigrati clandestini, provvisti
problema è un altro. «La
foglio di via, con decreto di
sproporzionati di
questione è che sul litorale ci sono
espulsione, come ampiamente
piani di sviluppo per il futuro.
documentato nella trasmissione
Dopo la strage di settembre sono stati in pochi
Anno Zero”.
a dirlo. Quando ci incatenammo, si stava
Qualche giorno prima, durante la
concludendo l’accordo di programma tra la
trasmissione di Michele Santoro, l’ineffabile
Regione, la provincia di Caserta, i comuni di
giornalista Ruotolo aveva riunito un gruppetto
Castel Volturno e Villa Literno e le società
di immigrati e gli aveva chiesto in diretta di
Consorzio Rinascita S.r.l. e Fontana Blu S.p.a,
mostrare il foglio di via per dimostrare
sul futuro assetto del territorio di Pineta mare,
l’inefficacia dei provvedimenti di espulsione.
una cittadina per il novanta per cento abusiva,
Per alcuni è stato questo il motivo scatenante
costruita dalla famiglia Coppola su terreni del
del blitz. Per altri è il prezzo che il sindaco ha
demanio marittimo e forestale. Tutto è stato
dovuto pagare alle pressioni dell’opposizione,
bloccato per anni da un contenzioso tra lo Stato
che proprio il giorno prima era tornata alla carica
e gli eredi Coppola. Poi si è trovato un accordo.
presentando una mozione di chiusura del centro
Adesso i Coppola rientrano nell’accordo di
Fernandes, bocciata in consiglio comunale per
programma con il consorzio Rinascita. Chi ha
un solo voto.
distrutto paga la penale e guadagna di nuovo
Il centro Fernandes è un baluardo
sulla ricostruzione». In effetti, nel 1998 il governo
dell’accoglienza ai migranti nella zona di Castel
nomina un commissario straordinario per il
Volturno. Antonio Casale, l’attuale direttore del
centro, ne racconta in sintesi la storia. «Negli
anni Ottanta era uno dei tanti edifici abbandonati
lungo la Domiziana, occupati dagli immigrati
in cerca di un tetto. Ce n’erano circa
quattrocento, tutti uomini. Non c’erano corrente,
acqua e servizi igienici. Il comune fece
un’ordinanza di sgombero e in molti confluirono
verso il famoso ghetto di Villa Literno. Da poco
era stata approvata la legge regionale
sull’immigrazione che prevedeva l’istituzione
di centri di accoglienza. La Caritas di Capua e
il comune decisero di trasformare questa
struttura in centro d’accoglienza. La casa venne
inaugurata nel 1996. Un finanziamento regionale
ne consentì la parziale ristrutturazione. Adesso
ospitiamo trenta immigrati. Possono restare per
due mesi, ricevono vitto e alloggio, si cerca di
avviarli al lavoro. Ci sono aule per i corsi di
alfabetizzazione, uffici, ambulatori, aree verdi,
un centro di ascolto, la mensa, uno sportello
legale. Nel 2000 abbiamo attivato una parte della
casa per le donne, ex prostitute sfruttate e ragazze
cavallo. Accanto alla casa ci sono tre costruzioni
madri. Adesso abbiamo cinque donne con
a pianta circolare, che ricordano le capanne dei
bambini assistite dalle suore».
villaggi africani. Hanno il tetto a punta fatto di
«Quando è nato – continua Casale – questo
palme intrecciate. «Abbiamo iniziato cinque
posto era pensato per essere anche un centro
anni fa su proposta dei padri comboniani –
studi. Qui fuori c’è ancora la targhetta “Informa
racconta Margherita Prisco, che manda avanti
giovani e osservatorio sull’immigrazione”. Si
la scuola con il marito Robert Visco –. Eravamo
voleva studiare il fenomeno, cominciare a
due ragazze, lo spazio uno scantinato. L’altra
elaborare risposte, oltre alla semplice accoglienza
ragazza andò via il secondo giorno. All’inizio
per pochi. Tutto questo non è durato, non
c’erano due bambini, dopo tre mesi erano venti
abbiamo avuto finanziamenti».
e alla fine dell’anno trentacinque. Lasciammo
Attualmente al comune risultano censiti 2300
lo scantinato e prendemmo in affitto questa casa.
immigrati. Sono tanti rispetto a una popolazione
Abbiamo una lista d’attesa abbastanza lunga, lo
di quasi 23000 unità, ma la presenza effettiva è
spazio all’interno è limitato e non possiamo
di almeno il doppio. Tra chi non risulta
prenderne di più. Ci sono anche una decina di
regolarmente censito ci sono anche molti regolari
bambini italiani. Nella zona c’è più commistione
che spesso hanno la residenza altrove, per il
di quel che si creda. Alcune famiglie italiane
permesso di soggiorno o la richiesta di asilo
prendono in affidamento bambini stranieri.
politico. «Stanno qui – dice Casale – soprattutto
Magari sono vicini di casa che aiutano gli
per due motivi. Trovano più
immigrati che lavorano tutto il
facilmente casa. C’è un enorme
giorno. È un affido non ufficiale,
p a t r i m o n i o i m m o b i l i a r e Vengono qui
poi ci sono anche quelli che
abbandonato. Interi complessi, perché trovano
pagano… Per la scuola non
case costruite abusivamente anni
riceviamo alcun incentivo. I
fa per venire al mare, che oggi casa facilmente bambini pagano due euro al
non hanno più alcuna attrattiva.
giorno, ma forniamo tutto noi,
In una villetta si possono affittare tre, quattro
dai pannolini al mangiare. Le mamme vengono
stanze a duecento euro l’una, in nero. Il territorio
a prenderli alle cinque. Tutti i soldi provengono
li assorbe. E poi, si tratta di una zona franca,
da iniziative legate ai missionari comboniani.
non ci sono controlli di alcun tipo. Puoi stare
Ci industriamo in ogni modo, un concerto, una
senza permesso di soggiorno e nessuno ti ferma,
riffa, qualche offerta…».
puoi avere la macchina senza assicurazione e
L’organico della scuola è composto da cinque
nessuno te la sequestra, puoi aprire un’attività
ragazze del servizio civile, oltre a Margherita e
commerciale e non ci sono controlli severi…».
Robert, suo marito, che è una specie di jolly: «Fa
«Castel Volturno è un porto franco per tutti,
il cuoco, il bidello, cura le pubbliche relazioni –
non solo per gli immigrati – dice il comboniano
dice Margherita –. Io e lui siamo gli unici
padre Giorgio –. Lo sfruttamento del lavoro
stipendiati». Alle due del pomeriggio arrivano
non riguarda solo gli immigrati ma anche gli
i bambini delle elementari che fanno il
italiani. Questo è un luogo d’asilo, qui hanno
doposcuola nelle capanne accanto alla casa. «Le
portato gli sfollati del terremoto dell’Irpinia.
abbiamo fatte costruire noi – spiega Margherita
Manca un’identità geografica e culturale. Non
–, un po’ alla volta, come tutto qui intorno.
ci sono cittadini, ma fruitori di un territorio da
Anche le serre. Abbiamo un progetto di
spolpare. C’è scarso interesse per il bene pubblico.
inserimento lavorativo per le donne. E il
Non dimentichiamo che erano paesi gestiti da
maneggio. Un fisioterapista che ama i cavalli si
famiglie dove un fratello faceva
è offerto di fare ippoterapia con
il prete, l’altro ancora il maestro.
i bambini». «Lo chiamiamo
Il potere si è sempre concentrato
doposcuola – interviene Robert
nelle mani di pochi».
–, ma il progetto è rivolto
soprattutto alle ragazzine, per
Una scuola multietnica
tenerle occupate con i compiti e
Antonio Gucchierato, insegnante
i laboratori. Attraversano un’età
di scuola elementare al primo
critica… Qua ci sono i leoni. Se
circolo didattico di Castel
una ragazza fa un chilometro a
Volturno, mette anche lui
piedi lungo la Domiziana si
l’accento sull’incerto tessuto
fermano minimo cinque, sei
sociale della zona. «Nel ’91 – dice
macchine a darle fastidio».
–, quando scelsi di venire in
«Un paio di volte – prosegue
questa scuola, pensavo che il
Robert – sono venuti a rubare.
problema fosse l’inserimento
Ci hanno ripulito di tutto. E
degli immigrati. Io sono di
un’altra volta quando eravamo
Capua, durante un periodo di
nello scantinato. Abbiamo
distacco sindacale avevo vissuto
dovuto mettere le grate alle
l’arrivo impetuoso alla fine degli
finestre. Poi una volta c’erano
anni Ottanta. E invece no, il problema non
due ragazzi ghanesi che stavano al primo piano,
riguardava loro. Le famiglie straniere ci tengono
li ospitavamo. Vennero con le pistole, li fecero
che i figli vadano a scuola. Tutti frequentano
stendere a terra puntandogli la pistola alla nuca.
regolarmente e con impegno. Sono nati qui, la
Qui dietro avevamo degli animali: pecore,
maggior parte entrano già alla materna. Quelli
agnelli. Hanno sgozzato un agnello davanti a
che arrivano nel corso dell’anno sono poche
loro: “questa è la fine che farete se non ci aprite
eccezioni. E di solito raggiungono la famiglia,
la porta della scuola”. Ma loro non avevano le
quindi i genitori già parlano l’italiano. Le classi
chiavi. Li hanno picchiati e se ne sono andati.
ponte qui non so a cosa potrebbero servire…
Questo due anni fa. L’ultimo furto l’anno scorso.
Ma poi c’è una forte presenza di figli di famiglie
Non abbiamo mai saputo chi fossero». (sp/lr)
italiane non radicate nel territorio e spesso in
condizioni di deprivazione. Sembra quasi che
un nucleo familiare quando va in disfacimento
venga ad abitare a Castel Volturno. Esiste
un’enorme mobilità territoriale. Una volta, nello
stesso anno scolastico abbiamo avuto 98 alunni
in uscita e 180 in entrata, per la maggior parte
italiani. E qualcuno in entrata e in uscita più
volte. La “disfrequenza” riguarda quasi solo i
figli di italiani che dall’hinterland napoletano e
casertano si trasferiscono qui».
Sempre lungo la Domiziana c’è una scuola
dove i neri sono in maggioranza, anche se non
sono gli unici alunni. È un asilo nato qualche
anno fa dall’iniziativa dei padri comboniani. Si
chiama la “Casa dei bambini” e ne ospita circa
quaranta, dai due ai sei anni. Oltre il cancello
rosso, un vialetto conduce a un’ex casa colonica
a un piano. Sul davanti un giardino con qualche
gioco, sul retro una grande estensione di terreno,
alcune serre, un recinto dove sgambetta un
DICEMBRE 2008
La venditrice cinese
La ragazza cinese mi aveva intercettato sul sito di aste on-line, ma le nostre trattative
durarono un giorno, poi cominciò il racconto: gli studi, la grande città, il lavoro come
venditrice. Il computer sempre acceso e la rigida sorveglianza. Finchè un giorno...
J
any lavorava al computer sedici ore
al giorno. Il suo compito era quello
di dragare la rete in lungo e in largo
per raccogliere quanti più indirizzi di
posta elettronica possibile. Le e-mail dei
consumatori occidentali valgono oro,
perché si tratta delle caselle che vengono
prese d’assalto per proporre i prodotti
delle fabbriche cinesi a basso costo. Tra
gli indirizzi intercettati c’è anche il mio,
preso direttamente da un celebre sito di
aste on line. È così che ho conosciuto Jany,
e con lei tanti altri operatori cinesi del
web. Cominciò con l’offrirmi stock di
abbigliamento e di prodotti elettronici a
un decimo del costo a cui era possibile
trovarli in Italia in un qualunque negozio,
spiegandomi che un’eventuale rivendita
mi avrebbe fruttato notevoli guadagni.
L’unico ostacolo era la dogana – mi diceva
– perché accade talvolta che i pacchi
provenienti dalla Cina vengano bloccati.
In questo caso, avrebbero provveduto a
rispedirmi il tutto, anche più volte se
necessario. Nel costo era infatti inclusa
una speciale assicurazione che prevedeva
questa eventualità.
Presto i contatti con i venditori cinesi
si spostarono in chat. Acconsentii a
scambiare i riferimenti messenger,
incuriosito da un mondo che mi era del
tutto sconosciuto. Ormai i venditori mi
contattavano quasi ogni settimana, sempre
cortesi e con mille attenzioni, ma anche
presi da un’ansia di concludere l’affare
che si avvertiva piuttosto chiaramente nei
colloqui. Molti, quando capivano che non
avrei comprato, sparivano e puntavano
su nuove prede. I miei tentativi di
dirottare il discorso su tematiche meno
legate al commercio falliva quasi sempre
di fronte al silenzio imbarazzato dei miei
interlocutori o a un loro rifiuto cortese
ma esplicito, spiegato con la severità dei
controlli a cui erano sottoposti. Jany però
era diversa dagli altri. Le nostre trattative
commerciali durarono un solo giorno.
L’indomani fu lei a rompere il ghiaccio e
a chiedermi della mia vita, del cibo italiano
e delle abitudini di un trentenne
occidentale. Nelle sue parole digitate in
chat si avvertiva una dolcezza e una voglia
di esplorare il mondo non comuni. Mi
faceva domande, ma presto furono le mie
a prendere il sopravvento. E lei non si
sottraeva, aveva voglia di raccontare sé
stessa e il suo mondo di ventitreenne. A
volte i colloqui si interrompevano
bruscamente. Accadeva quando quello
che lei chiamava “boss” si avvicinava alla
sua postazione. Non era consentita alcuna
divagazione, l’ordine era tassativo. Il capo
conosceva l’inglese e avrebbe facilmente
scoperto che l’oggetto dei nostri dialoghi
non erano le scarpe Nike.
«Perché avete il terrore del vostro capo?»,
le chiesi un giorno.
«If are not able to sell the predefined
amount of goods, we can easily be fired»,
fu la risposta.
Nel caso qualcuno non fosse stato in
grado di vendere le quantità stabilite di
merce, sarebbe scattata la mannaia
immediata del licenziamento. Ma il
problema non era solo quello. Un
licenziamento – mi spiegò – rovina del
tutto la carriera di un aspirante operatore
di telemarketing, rendendo problematica
la ricerca di altri lavori. In quel caso, non
restava che la fabbrica vera e propria, la
produzione: quattordici ore davanti a una
macchina utensile a ripetere gesti sempre
uguali. L’edificio dal quale Jany operava
era in effetti lo stesso della fabbrica per
la quale lavorava, un’ala di quello che mi
«Non esci mai, Jany?».
«Sì, il sabato, solo qualche volta la
domenica. Esco con i miei colleghi di
lavoro, soprattutto con loro».
«E che fate di solito?».
«Di solito shopping, ci sono un sacco di
bei negozi qui».
«In quale zona della Cina sei?».
«Sono nel sud della Cina, ma la mia
famiglia vive al centro del paese. Ho deciso
di venire qui perché ci abitavano dei
parenti. I miei avevano una grande casa
in campagna, con enormi spazi intorno e
degli animali. Questo fino a vent’anni fa.
Quando ci sono tornata per lavoro, non
esisteva più nulla di quello che ricordavo
descriveva come un fabbricato enorme.
Le ore di lavoro scandite dal rumore
monotono e incessante dei macchinari,
che nei periodi di pieno regime andava
avanti anche nelle ore notturne. Mi
confessò di non poterne più di quel
rumore, che gli ritornava in testa anche
di notte, come un incubo ricorrente.
«Vivi lontano dalla fabbrica?», provai a
chiedere un giorno.
«No, come tutti quelli che lavorano qui,
ho una stanzetta vicino al luogo dove
lavoro, sempre nello stesso edificio, in
modo che non vi siano tempi morti. E poi
ho un computer anche in stanza. Sai,
quando da noi è sera o notte, in Europa
è pomeriggio e in America addirittura
mattina, quindi bisogna restare in linea».
Venni a sapere che riceveva sia a
pranzo che a cena un piatto unico sempre
a base di riso, a cui venivano aggiunte
altre pietanze. Mangiava quasi sempre
con un occhio al computer. La sera Jany
semplicemente se ne restava stesa sul suo
letto, in attesa di eventuali chiamate di
clienti.
da bambina. La grande città ha inghiottito
tutto».
«È molto grande la città?».
«Ci vivono quindici milioni di persone,
e la tua?».
«Beh, senza considerare la provincia, un
milione e mezzo».
«Ma allora vivi in un piccolo paese…».
Jany mi diceva di avere un fidanzato,
ma abitava a varie ore di treno e lo vedeva
una volta ogni due settimane. «Ma in
fondo è meglio così, non credi? Non mi
piace dover fare tutto con lui», diceva
convinta.
Un giorno di metà ottobre mi
annunciò che la sorella si era sposata, e
che era stata organizzata una festa
piuttosto sfarzosa. Le chiesi se avesse
intenzione di sposarsi anche lei. «No –
rispose –, almeno fino ai trent’anni voglio
essere libera di divertirmi e spendere i
soldi che guadagno. Ieri sono stata in un
nuovo locale che hanno aperto qui in città.
È un posto fantastico, dove è possibile
mangiare, bere, chiacchierare, ballare e
anche cantare. Io sono abbastanza timida,
ma ho cantato per quaranta minuti».
Era quasi un mese che ci sentivamo
ormai. Mi parlava della sua istruzione e
dei progetti futuri. Aveva studiato
all’università, una facoltà che riuscii a
tradurre come “inglese finanziario”. I suoi
avevano sborsato molto denaro per
consentirle di studiare ed era sua ferma
intenzione restituirlo. Ma il salario era
basso e dipendente dalle vendite condotte
in porto, non molte, tanto da tenerla
sempre con il fiato sospeso. Mi fece una
strana richiesta: «Hai mai comprato
qualcosa da questa fabbrica?». La mia
risposta negativa mi fece scoprire il motivo
della curiosità: «No, niente, volevo sapere
qual è la qualità di quello che producono.
Noi lavoriamo nello stesso edificio della
fabbrica, ma non ci è concesso nel modo
più assoluto dare uno sguardo ai
prodotti».
Non poteva vedere di persona ciò che
vendeva, e naturalmente neppure
comprare. I suoi acquisti, peraltro
numerosi come quelli di un qualunque
ragazzo occidentale, erano indirizzati
verso quella che mi descriveva come
merce destinata al mercato interno. «Ci
sono merci che sono solo per il mercato
occidentale, quindi?», le chiesi.
«Sì – rispose –, ad esempio la fabbrica
dove lavoro produce solo per l’estero».
Il lungo periodo di frequentazione
telematica ci aveva fatto diventare quasi
amici. Sempre più spesso, però, la sentivo
triste, a tratti disperata. Erano trascorsi
due mesi dalla sua assunzione e le sue
vendite erano modestissime. Il capo la
maltrattava sempre più spesso. Le aveva
persino sottratto un potenziale cliente, un
vecchio acquirente che rientrava tra i suoi
contatti quando lui stesso faceva quel
lavoro. Nelle serate che diventavano
sempre più fredde, mi diceva di avere
forti crisi di ansia e dolori allo stomaco.
Gli amici le dicevano di “pensare di meno”
ed era giunta alla conclusione che forse
avevano ragione. Voleva però fare un
check-up medico, ed erano i costi elevati
a spaventarla. Gli ospedali erano cari –
mi diceva – e non voleva che la sua
famiglia si sobbarcasse le spese. Nel corso
dei nostri lunghi colloqui esprimeva
crescenti dubbi sulla sua adeguatezza a
quel lavoro. Pensava di dare le dimissioni
per non incorrere nel licenziamento, ma
non trovava il coraggio di dare seguito al
proposito.
La penultima volta che la sentii, mi
disse che sognava di andare via dalla Cina,
e di vivere, semplicemente, in pace. Il
giorno successivo mi annunciò
convulsamente che la sua vicina di
postazione, e sua migliore amica, era stata
licenziata ed era nel panico. Mi chiese di
nuovo l’indirizzo mail, che aveva
smarrito, da appuntare in fretta su un
foglietto. «Credo che tra poco verrà anche
il mio turno…». (gv)
napoliMonitor presenta il suo annuario 2008:
MEDIOEVO NAPOLETANO
Dopo il rinascimento prima della barbarie
Otto reportage dentro e fuori Napoli
“Nella città condannata a cadere e risorgere a intervalli sempre più brevi, adesso il tempo sembra fare il suo giro al contrario. Dall’illusione
della rinascita a una crisi senza via d’uscita. Ma per andare oltre le etichette l’unico modo è ancora una volta conoscere, descrivere, organizzare.
I barbari sono alle porte, ma non sono quelli che vogliono farci credere...”.
In tutte le librerie
DICEMBRE 2008
Dai fondali al Lazzaretto
Fino a qualche anno fa Tommaso viveva in quella parte di Polonia che affaccia sul
mare. Era sommergibilista nella marina sovietica. Poi il muro crollò e lui si ritrovò
con un sacco militare pieno di orologi e mostrine. Arrivò a Napoli con l’Odessa
R
isalendo il corso Garibaldi da Via
Marina si compie il tragitto che i
container fanno tra porto e
interporto. Loro lo fanno in treno
perdendosi il panorama umano che
popola la zona stretta tra le “case nuove”
e il mercato, e più su tra porta Nolana e
la Circumvesuviana. La strada è anonima,
la popolazione composita. Lungo il corso
è un viavai di commerci e traffici diventati
nel corso degli anni sempre più umili.
Dal lato della stazione dei treni in
partenza verso il vesuviano, i rom
organizzano un mercato di pezze, rottami,
oggetti in apparente disuso che sono i
tesori del riutilizzo in tempi di spreco.
Gli avventori sono rumeni, magrebini e
altri stranieri. Qui la raccolta differenziata
non va a finire nei maceri, viene
ridistribuita attraverso forme primordiali
di commercio, è quasi un baratto. Di
fronte ci sono i cappellai e le jeanserie
frequentate dai ragazzotti in bomber e
cappellino americano.
Più avanti, risalendo verso piazza
Garibaldi, compaiono i venditori cinesi
che commerciano le cineserie sbarcate
dalle porta-contenitori China Shipping.
È tutto ammassato ordinatamente nello
spazio ristretto delle bancarelle. Sono
cianfrusaglie, ma nuove e ancora
imballate. Poco più avanti, superando la
Circum, si apre lo slargo di Porta Nolana,
dai cui pilastri partono gli abusivismi anni
Sessanta e i palazzi del risanamento da
sanare nuovamente. Nei portoni entrano
ed escono agenti di assicurazioni, avvocati
di piccolo cabotaggio, faccendieri dagli
abiti sdruciti. Intorno, da mattina a sera,
c’è il mercatino del Lazzaretto. Panni
ruvidi stesi a terra ospitano libri, arnesi,
vestiti, oggetti tecnici arrugginiti, scarpe.
Tra gli avventori si aggirano uomini
minuti pronti a farti fare l’affare con
l’orologio falso stretto nella mano. È il
regno dei saponari e delle sarte di
quartiere che per pochi spiccioli adattano
abiti di taglie più grandi ai corpi dei
compratori. Si parla italiano al Lazzaretto,
quell’italiano duro, tronco e gutturale
traslato da lingue slave, dall’arabo di
strada. La lingua storpiata dalle
approssimazioni e dall’onnipresente
dialetto.
Tommaso parla così. Sbaglia qualche
verbo, ricorre spesso all’infinito, ma
conosce tutte le parole tecniche di orologi,
macchine fotografiche e strumenti ottici.
La sua bancarella espone mercanzia di
precisione, un tantino usurata ma rara, e
di ottima fattura: cannocchiali, binocoli,
macchine fotografiche, cineprese, orologi,
bussole, fino agli scacchi lavorati a mano.
La sua mercanzia, insomma, è pregiata.
E ci tiene a sottolinearlo.
Fino a qualche anno fa – diciamo il
1989 – Tommaso viveva non lontano da
dove era nato. In Slesia, quella parte della
Polonia che affaccia sul mare, dove c’è
Danzica, foriera dei drammi del secolo
breve. Era un marinaio. E che marinaio!
Lui uomo di terra è arrivato perfino a
sfiorare i fondali freddi dell’Atlantico.
Polacco di nascita, cittadino realsocialista
per contingenze, Tommaso all’età di
Era iscritto al sindacato, ma gli risultò
impossibile farsi assumere nella marina
mercantile polacca o sui traghetti in
partenza per il Baltico. Neanche i
pescherecci di merluzzo lo accettarono a
bordo. Così dopo un anno passato tra
vodka e banchine, cetriolini e moli,
stracciò la tessera e si arruolò di nuovo in
marina sfruttando i due anni di
credenziali accumulate durante la leva.
Fu mandato all’addestramento in una
base nei pressi di Vladivostok dove subì
anche una lunga rieducazione politica
marxista-leninista «Che fare? diceva
Lenin. Ma noi non lo sapevamo che fare.
Andavamo avanti a cetrioli e pane nero.
ventuno anni iniziò la leva nell’esercito
polacco. Fu mandato in marina senza un
chiaro perché, si ritrovò in una base sul
Mar Nero a fare cinque mesi di
addestramento. Attraversò il Mar di
Marmara, lo stretto dei Dardanelli e per
un anno rimase a bordo di un
cacciatorpediniere inserito nell’area
mediterranea della marina sovietica. Era
una flottiglia ben organizzata, che si
muoveva tra la Libia, l’Algeria e il
mediterraneo orientale. In quegli anni si
ritrovò al largo di Beirut, fuori Suez.
Poi sbarcò, tornò in Polonia. Gli fu
chiesto di iscriversi a Solidarnosc. Si
iscrisse. «Ma fu grave errore quello», mi
ha raccontato poi, sorseggiando uno dei
caffè che gli offro due giorni a settimana.
Da Tommaso vado a vedere gli orologi o
cerco di trovare affari nel campo delle
macchine fotografiche.
Le camerate erano tutte scrostate e non
c’era l’acqua calda. Non era buon affare
di fare il militare».
Tommaso era nei battaglioni misti
interforze del patto di Varsavia. Ogni
stato aveva un suo esercito ma l’Esercito
era l’Armata rossa. Scoppiò la guerra in
Afghanistan, i russi chiamarono gli alleati
alla solidarietà. Tommaso per sfuggire
alla guerra fece domanda nei
sommergibilisti, quei marinai di fondale
che respirano sempre la stessa aria, filtrata
e rifiltrata. Fece un ennesimo
addestramento e si ritrovò a mangiare
sardine con il grado di “marinaio scelto”
a bordo di un sommergibile atomico della
marina sovietica. «Non c’era spazio per
niente. Era come una grotta nella roccia,
bisognava scavare per recuperare una
cuccetta. Ordine c’era ordine, ma per il
resto marinai e ufficiali avevano sempre
la schiena china. Lo spazio era del reattore,
e nessuno ci dormiva volentieri vicino».
Poi il muro crollò. La cortina di ferro
venne frettolosamente abbattuta e
Tommaso si ritrovò con un sacco militare
pieno di orologi, mostrine e macchine
fotografiche, sul molo di Danzica di
nuovo alla ricerca di vodka e cetriolini. Il
denaro non valeva più niente, si diede a
ramazzare i magazzini militari, mise
insieme un patrimonio di cianfrusaglie
di valore e precisione, e salì su uno dei
pullman diretti verso occidente. Prima di
partire si fece finalmente crescere la barba,
vietatissima a bordo per via del pericolo
di radiazioni. Saltò la Germania – fredda
e ostile – deviò verso il Mediterraneo
passando per i Balcani e arrivò in Italia a
traino dell’Odessa – la nave con i marinai
abbandonati nel porto di Napoli. In breve
trovò abitazione presso un vecchio mito
della città, Agostino il pazzo, che dismessa
la motocicletta – con cui fece impazzire
guardie e ladri napoletani – s’era dato al
commercio di antiquariato e al mestiere
di affittacamere. In breve Tommaso
mostrò il suo talento di venditore e
procacciatore di oggetti antichi. Dalle sue
mani iniziarono a passare violini,
mobiletti, icone ortodosse, tutti beni
rivenduti a vecchi e nuovi intenditori.
Agostino gli cambiò stanza, Tommaso
salì di piano e iniziò a risvegliarsi nel sole
e nel tepore del Mediterraneo. Aveva
finalmente chiuso con l’umidità del mare.
Dai sommergibili Tommaso ha
ereditato la paura per gli spazi stretti.
Adora la folla e la strada. Arriva al
Lazzaretto di mattina presto, sistema la
merce e aspetta i compratori. Allontana
i perdigiorno, tratta con chi compra, con
chi caccia i soldi. Ha voglia di caffè, di
raccontarsi ai pochi che hanno voglia di
ascoltarlo. Nei sotterranei della città
continua a sognare i sommergibili, in
incubi profondi.
Sulla sua bancarella spiccano i ritratti
minuscoli dei cento e uno morti nella
tragedia del Kursk, il sottomarino atomico
russo affondato nel Mar Baltico un’estate
di pochi anni fa. «Se non partivo, mi
ritrovavo lì. Morire sul fondo è come
morire da topi. E noi siamo ancora
uomini…». Si accarezza la lunga barba
incolta, si liscia i baffi grigi e accende una
sigaretta con un accendino di ottone a
benzina. «Questa è roba originale,
funziona. Da me non c’è trucco e non c’è
inganno…». (-ma)
Seconda lingua, italiano
Le classi ponte non risolvono i problemi di risorse e didattica. Due esperienze napoletane
Il 9 ottobre la Lega presenta alla
Camera una mozione in cui chiede la creazio-
ne di classi separate per gli studenti che non superino
un test d’ingresso su lingua e cultura italiana. Una proposta
che fa discutere ma torna a mettere in luce l’insufficienza degli
interventi attuali. Perché se da una parte la seconda generazione
di stranieri cresce e si consolida, i bambini e ragazzi appena
arrivati richiedono un percorso di inserimento più solido e
insieme più elastico di quello utilizzato in molte scuole. «Nel
testo della mozione si parla, come se fossero sinonimi, di
“studenti stranieri”, “nomadi”, “studenti con cittadinanza non
italiana”, “minori con genitori stranieri”: tutte categorie con
problematiche molto diverse tra loro, mescolarle non ha alcun
senso». Anna De Meo all’Orientale insegna e studia la didattica
e l’apprendimento delle lingue straniere; da qualche anno
coordina un corso di perfezionamento per la didattica
dell’italiano come seconda lingua. Come altri linguisti difende
la legge utilizzata negli ultimi anni in Italia. «È una delle più
moderne in Europa: prevede l’inserimento degli alunni in base
all’età; sospende la valutazione dell’allievo in fase di acquisizione
della lingua; dà indicazioni per adattare i programmi alle
esigenze individuali», spiega la De Meo. Il problema è che
«tutto questo è lasciato all’iniziativa e alle risorse delle singole
scuole, senza alcun finanziamento statale».
Nel 2004 parte un progetto pilota, “Azione Italiano L2”,
per formare gli insegnanti in scuole con alta densità di stranieri.
Il progetto si conclude con ottimi risultati, ma non viene più
finanziato. Nel solco di questa esperienza nascono scuole di
perfezionamento che formano gli specialisti della didattica
per gli stranieri, ma di fatto manca una qualifica riconosciuta,
e ogni scuola si organizza come può. A Napoli, scuole ad alta
concentrazione di stranieri come la “Bovio Colletta” (elementare
e media), alternano le lezioni di italiano L2 con gli interventi
dei mediatori culturali, operatori di lingua materna degli
studenti, soprattutto per lingue come il cinese. All’istituto
tecnico commerciale “Volta” è stato organizzato un laboratorio
intensivo: «Quest’anno abbiamo utilizzato le ore di educazione
fisica e religione – racconta la De Meo –. Il progetto si conclude
in questi giorni con il conseguimento da parte dei più deboli
del primo livello di competenza riconosciuta. Non è un livello
di sicurezza, ma riuscire a far sì che un allievo appena arrivato
in Italia alla fine di novembre possa cominciare a far parte del
gruppo classe è già un ottimo risultato». Sia la Bovio Colletta
che il Volta possono contare su un piccolo gruppo di docenti
che si è formato con il progetto ministeriale. Nella maggioranza
delle scuole invece tutto viene lasciato alle buone intenzioni
degli insegnanti. Tra gli interventi più pedestri ci sono quelli
che associano gli alunni stranieri con i portatori di handicap,
mettendo problemi linguistici e cognitivi sotto la tutela di
un’unica insegnante di sostegno.
In questo quadro così complesso, la mozione della Lega
sembra azzerare tutte le sperimentazioni iniziate con il progetto
pilota. «Nel momento in cui si attiva una classe di inserimento
degli studenti stranieri – aggiunge la De Meo – dovrebbe
essere un’unica classe per ogni scuola e quindi accogliere alunni
diversi per età? In primavera abbiamo aperto una classe di
italiano per preadolescenti e adolescenti. Ci siamo ritrovati
con bambini di sei anni e ragazzi di quattordici. Abbiamo
dovuto dividerli in sei gruppi, offrendo una didattica ludica
ai bambini mentre i più grandi chiedevano elementi di
riflessione in più. Ci sono le energie per attivare tante classi
con magari uno o due allievi? E se volessimo davvero un
modello di classi separate dovremmo prevedere un team di
docenti specializzati nella didattica dell’italiano L2 e
contemporaneamente nelle varie discipline». Secondo la De
Meo si possono però individuare delle priorità: soprattutto «il
riconoscimento dell’insegnante di italiano L2 come figura
professionale; e prevedere una struttura che non sia di
allontanamento dalla classe: l’allievo va inserito in classe, per
età, lavorando sulla lingua in orario diverso da quello
curricolare, lungo tutto il periodo della formazione». (vs)
DICEMBRE 2008
SpaZi&puBbLiCi
Ex studentato Miranda. Mai più per gli studenti?
L’ex Casa dello studente “Miranda” è una struttura
pubblica che si trova alle spalle della facoltà di Veterinaria.
Negli anni Sessanta ospitava i ragazzi che si trasferivano
a Napoli dalla provincia per frequentare i corsi
universitari. Oggi l’ingresso della struttura, quello che
in origine era un giardino, è uno spazio dominato da
rifiuti ed erbacce. Superato ciò che resta dell’ingresso, si
accede a un edificio completamente diroccato. Lunghi
corridoi disseminati di calcinacci, vetri infranti, scale
pericolanti, sporcizia ovunque. Tre piani di desolazione.
Eppure, nel 2002 la Regione Campania aveva ceduto il
Miranda al Formez, che si era impegnato a recuperarlo
e a trasformarlo in un centro di formazione e di ricerca.
Quella decisione non piacque a molti studenti di
Veterinaria, i quali avrebbero preferito un progetto di
recupero della struttura per usi abitativi. Avrebbero
voluto che diventasse una nuova casa dello studente, più
che mai necessaria in una città in cui i fuori-sede sono
abbandonati al mercato selvaggio degli appartamenti
per studenti. La Regione scelse una strada diversa, non
senza alcuni incidenti di percorso. Nel piano per l’edilizia
universitaria, approvato nel 2001 e tuttora in gran parte
non realizzato, l’edificio Miranda era indicato tra quelli
da recuperare e adibire a casa dello studente. Da quel
testo derivarono equivoci e proteste, perché gli
universitari, carte alla mano, pretendevano che
quell’impegno fosse rispettato. Chiesero e ottennero
anche alcuni incontri in Regione, durante i quali
spiegarono le loro ragioni. Invano. «L’inserimento del
Miranda nella delibera sulle residenze universitarie è
stato un mero errore materiale», dissero all’epoca i
collaboratori del professor Nicolais, allora titolare della
delega all’Università a palazzo Santa Lucia. Nicolais
garantì peraltro che avrebbe chiesto al Formez la
restituzione dell’edificio, qualora, entro pochi anni, non
fossero stati realizzati i lavori di ristrutturazione per i
quali si era impegnato il centro di formazione. Il tempo
è trascorso, i lavori non sono stati compiuti, ma la struttura
è ancora del Formez. È stata ora inserita nel programma
di recupero del centro storico, dove peraltro si ribadisce
che la responsabilità dell’intervento per il Miranda è del
centro di formazione. Tempi e modalità restano vaghi
e gli studenti rimpiangono l’opportunità perduta.
È ancora tutto da scrivere, dunque, il nuovo capitolo
della storia del Miranda: casa dello studente prima,
alloggio precario per i terremotati nel 1980, centro sociale
autogestito nella metà degli anni Novanta, rifugio di
emarginati e senza fissa dimora tra il 1995 e il 1997. Chi
c’era in quell’epoca ricorda Leo, un cinquantenne
giramondo con problemi di alcool, che sarebbe morto di
lì a poco; Palli Palli e i suoi cani enormi; uno scozzese
sornione che, per raccogliere spiccioli in giro, imitava un
albero surreale; due adolescenti tedeschi con un bimbo
di pochi mesi; un nigeriano di passaggio; qualche
giocoliere di strada. Vivevano tutti senz’acqua calda e
senza elettricità. La sera le poche stanze abitate si
illuminavano dei fuochi dei fornelletti da campo con i
quali si preparava la cena. Furono tutti cacciati nel 1997.
Le cronache raccontano dello stupore dei vigili urbani
al cospetto dei murales e dei disegni sulle pareti.
Credevano di trovarsi al cospetto di qualche setta satanica,
invece che di un gruppetto di povericristi. Da allora,
nessuno ha più frequentato i corridoi spettrali di quel
palazzone che, nelle giornate limpide di inverno, regalava
il tepore del sole di mezzogiorno e una spettacolare vista
su Capri. (fg)
MuSici&pAroLe
Una birra con Jim. Da New Orleans seguendo la banda
L’americano è nero, e così grasso che deborda dalla
panchina su cui ci siamo seduti a parlare, un caldo
pomeriggio piovoso, nella grande piazza vicino al porto
sul fiume Mississipi, a New Orleans. L’americano
sorseggia una birra, nascosta da una piccola busta di carta
da imballaggio, perché qui è vietato bere per strada.
Poggiato a terra accanto a lui, troneggia il suo sousaphone,
uno strumento d’ottone enorme, pieno d’ammaccature
e ossidato di verde. Jim, così si chiama l’americano, lo
suona in una marchin’band, una formazione che ricorda
le nostre bande di paese, ma con lo swing e l’energia
della musica di queste parti. Mentre suonano, lanciano
collanine e braccialetti ai passanti: molti li seguono, e
vanno a infoltire la second line, dove tutti ballano e fanno
festa, anche nei giorni di lavoro, anche oggi, che piove.
Eppure, Jim ha l’aria seria e non sembra avere molto
da festeggiare. Gli chiedo come mai: «Oh man, I’m ok»,
mi risponde, quasi stranito dalla domanda. Forse
l’espressione cupa ce l’ha dipinta sul volto. Nonostante
tutto è cordiale e disponibile con uno straniero che, come
me, ha solo voglia di fare qualche domanda. Di sera, Jim
lavora in un ristorante famoso da queste parti, dove si
assaggiano i migliori piatti cajun, di cucina creola. Fa il
lavapiatti: sono tutti neri qui i lavapiatti, gli spazzini, gli
operai. Nero è sinonimo di workin’class: siamo nel vecchio
sud. Gli chiedo se è vero, o se è solo un’impressione
indotta dalle mie sovrastrutture. «Man, guardati attorno:
non ci sono neri. Stanno tutti nei suburbs. È lì che dovresti
andare, per incontrarne. Il centro della città è roba da
turisti. Sei stato, ad esempio nel Northern District?». Ci
sono stato, è un ammasso di piccole case a un piano,
circondate da un cortile. È lì che l’uragano, nel 2005, ha
colpito maggiormente, e i disastri ancora si possono
vedere: tetti divelti, cancellate distrutte, un odore di
marcio. Non è stato fatto molto per la ricostruzione.
Eppure, il governatore della Louisiana è un
afroamericano, democratico, eletto a grande maggioranza.
Jim mi spiega, allora, che chi fa il politico dopo che
l’hanno eletto si interessa poco ai problemi della sua
gente, pensa solo a incamerare denaro, a fare affari, a
prendere mazzette. A New Orleans c’è il tasso di
corruzione più alto di tutti gli Stati Uniti: se vuoi aprire
un negozio, o anche una bancarella nel French Market,
e vuoi che nessuno venga a disturbarti, o che te lo
chiudano per qualche problema burocratico, devi pagare
qualcuno. Allo stesso modo, se vuoi godere degli aiuti
federali, devi farti amico qualcuno. Se sei disoccupato –
a New Orleans il tasso di disoccupazione è tra i più alti
degli Stati Uniti – puoi garantirti un posto grazie
all’amicizia di qualcuno. Ma chi è questo qualcuno?
«Come la mafia, man, non conosci la mafia? Certe cose
le sai meglio di me, sei italiano». E scoppia in una grassa
risata, che mi fa provare un fastidio enorme.
Cerco di cambiare discorso, e di farlo parlare
dell’elezione di Obama a presidente. Jim non sembra poi
tanto entusiasta. «Obama è nero, ma non è un fratello.
Questa è roba che andava bene negli anni Sessanta. A
me non importa se sei nero o bianco: io non vado
nemmeno a votare, non ne vale la pena, dovrei andare
a prendere il certificato elettorale e pagare, capisci? Non
me ne frega un cazzo. L’unica cosa che mi piace di
Obama è che è elegante, si muove bene, e poi sembra un
tipo a posto. Comunque, se pure fossi andato a votare,
non avrei votato per lui, per via del suo nome, e molti
non l’hanno votato per lo stesso motivo». Cos’ha il suo
nome che non va? «Si chiama Hussein, lo sai? Come il
più grande nemico degli Stati Uniti. Certe cose non si
dimenticano». Mi viene da ridere, ma cerco di trattenermi:
ci vediamo, torna a suonare il tuo sousaphone, americano.
Quelle canzoni antiche dicono molte più cose di quante
tu riesca anche solo a immaginare. (cr)
DICEMBRE 2008
Teatro /Molly Sweeney
Radio /Case chiuse su Radio3
Buio pesto in sala. Le voci dei tre attori avvolgono lo
spettatore accompagnandolo nel mondo di Molly
Sweeney, fatto di suoni, odori e tattilità, gli elementi che
animano la cecità, l’assenza della luce. Ci vogliono più
di trenta minuti perché una sottile linea di luce illumini
pochi oggetti sistemati su un tavolo che, insieme ad altri
scarni elementi offuscati da un velatino, compongono
la scena del nuovo lavoro del regista Andrea De Rosa
(diventato intanto il nuovo direttore dello stabile
napoletano). La comparsa della luce è la chiave di volta
della vicenda raccontata da Oliver Sachs (il celebre
neurologo e scrittore) e portata in teatro da Brian Friel.
Molly è una donna inglese, cieca dalla nascita. All’età
di quaranta anni incontra un oftalmologo interiormente
ferito da vicende amorose, che con due operazioni
chirurgiche riesce a restituirle la vista strappandola dal
suo mondo personale fatto di immaginazione e oscurità.
Molly approda nel mondo di luce e paranoia comune a
noi esseri umani.
Il pubblico è cieco e riacquista lentamente la vista,
seguendo Molly nella sua parabola e nel suo abbandono
alla crudeltà della vista. La vittoria della medicina si
rivela una sconfitta della psiche, e nello spettacolo sembra
di assistere alla disfatta della razionalità medica di fronte
alle incerte e irrazionali deambulazioni dell’Io. La
scoperta delle cose così come sono, della forma degli
oggetti e dei colori dei fiori per intenderci, sono raccontate
dalla prospettiva di una sostituzione di mondi capace
di rapire lo spettatore, incerto tra l’euforia di una vista
ritrovata e la nostalgia incipiente di un mondo scuro ma
denso, unico, personale.
L’educazione al mondo di tutti la fa cadere in una
fortissima sindrome depressiva che si materializza con
il rifiuto ostinato di aprire gli occhi che, già pochi mesi
dopo l’operazione, manterrà irrimediabilmente serrati,
sbarrati, in un estremo tentativo di respingere la luce.
Molly finirà i suoi giorni nel letto di un ospedale
psichiatrico. Il velatino che separa la scena dal pubblico
immerge l’azione nell’opacità della vista sbiadita,
nell’incertezza dei contorni regalando a chi guarda la
fugace impressione che si immagina abbia vissuto e
tramortito Molly.
Lo spettacolo è una conferma del talento del regista
ma anche della ricezione possibile che la città può avere
di opere ingegnose, che finalmente riescono a portare
un soffio di innovazione, o quanto meno uno stimolo
alla contaminazione degli elementi di scena diventata
rara negli ultimi anni. Chissà se l’alone di cecità che
sembra avvolgere Napoli, non proceda verso la sottile
linea di luce in grado di regalarci non soltanto un’illusione
di miglioramento, ma un’apertura vera a linguaggi
complessi e opere non convenzionali. (-ma)
«La prostituta era una donna complicata», sentiamo
raccontare da una voce impastata dall’accento napoletano.
È un piccolo frammento delle interviste raccolte per il
documentario radiofonico dedicato al cinquantenario
della Legge Merlin. Senza immagini ma grazie a
materiali sonori differenti (interviste, spezzoni di film,
letture) viene raccontato uno dei fenomeni della
modernizzazione del paese. Le città di Napoli, Bologna,
Genova e Roma fanno da sfondo a una narrazione ben
congegnata. I bordelli del vico Lungo Gelso, di Santa
Lucia e del corso Vittorio Emanuele ci aiutano a
territorializzare un racconto che ha molto a che vedere
con la città.
La rinuncia alle case chiuse che aprì alla
trasformazione dei costumi della società italiana del
boom economico, è
declinata dai ricordi dei
maschi; la prospettiva
adottata quindi, sembra
essere quella del cliente. Nei
racconti delle quindici
puntate, emerge un
mosaico di testimonianze
efficaci che restituiscono
all’ascoltatore la dimensione
proibita e desiderata dei
bordelli d’altri tempi. Non
ha niente di nostalgico
l’audio-documentario, anzi
mira a storicizzare una
pratica sociale che ritorna
paurosamente nel mondo
dell’oggi attraverso i
tentativi sotterranei di
riapertura di locali o zone
delle città in cui ghettizzare la domanda e l’offerta di
sesso mercenario.
È un ascolto efficace e piacevole anche se alcuni
dettagli indeboliscono l’impianto narrativo. Era forse
necessario un contesto più ampio di quegli anni, a fronte
di materiali che si collocano a metà tra la microstoria e
la storia orale. Le voci sono dei clienti o potenziali tali,
sono cioè filtrate dal vissuto di uomini, maschi; delle
testimonianze femminili dirette, e non solo affidate alle
letture, avrebbero forse complicato ulteriormente la vita
degli ascoltatori. Anche le norme, le regole ad esempio
delle case (gli orari, le misure igieniche, i prezzi etc.)
vengono raccontate non tanto da chi le subiva – le
prostitute – ma da chi era costretto ad adattarsi – i clienti.
In ogni caso lavorare con materiali sonori consente di
aprire una breccia nell’inflazione di immagini che ci
circonda, lascia spazi d’immaginazione. (-ma)
Molly Sweeney di Brian Friel. Regia: Andrea de Rosa. Con
Umberto Orsini, Leonardo Capuano e Valentina Sperlì.
Teatro Stabile di Napoli Mercadante dal 26 novembre al
7 dicembre 2008.
Così fan tutti. Documentario radiofonico di Lea Nocera e
Daria D’Antonio, Radio3 Rai, dal 24 novembre al 12
dicembre, dal lunedì al venerdì, ore 23,30-00, oppure dal
podcast del sito di radio tre
Musei /Un dj al Madre
Teatro /Tanti inferni sul palcoscenico
Tanti i teatri in città, e le compagnie, differenti per
provenienza e poetica, che propongono nello stesso
momento storico, declinazioni diverse dello stesso tema:
l’inferno. Variazioni anche distanti tra loro che ripetono
però ossessivamente lo stesso motivo.
Al Bellini, Inferno. Emiliano Pellissari porta in scena
sei acrobati e danzatori che sembra abbiano sconfitto il
concetto di peso. Galleggiano attraverso un velo in una
sorta di acquario. La voce di Gassman, montata su delle
basi elettroniche, declama frammenti di Commedia
dantesca. È uno sfondo, pare quasi scenografia. In primo
piano invece il trucco teatrale delle evoluzioni dei corpi.
L’idea delle anime che hanno abbandonato il peso del
corpo e si aggirano nello spazio con disegni simmetrici,
è estetizzante a tratti, ma molto suggestiva.
I corpi nudi de La Pelle di Curzio Malaparte, messo
in scena da Marco Baliani al Mercadante, nuova
produzione dello stabile di Napoli. Nascosti dietro la
bandiera italiana nella prima scena, raccontano una
seconda guerra mondiale che vuole essere specchio dei
nostri tempi. Esseri umani ridotti a oggetti e cose, corpi
senz’anima. Ambientato a Napoli perché “lì il ventre è
più scoperto, il trucco non c’è più, il teatro è ormai a
cielo aperto. Ma lo spettacolo non è sulla Napoli del
dopoguerra ma sul nostro mondo, sul nostro oggi”, ci
illustrano le note di regia. Aggiungendo poi che “lo
Testi / Tommy Riccio
nati / E s’accuntentano e leggere ‘na
cartulina...
Nun se po’ vivere addò nun ce stanno
‘e speranze / addò ce manca ‘a funtana
pe’ vevere ‘a vita / addò te scuorde ‘o
sapore che tene ‘o ppane / Nun se pò
vivere addò vire ‘e figlie ‘e murì.
‘stì grossi valigie attaccate co’ spago
/ Partono e lassan’ ‘a terra addò so’
Rit
...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore
/ so venuti a faticà, ce cercano ‘na
mano pe’ potersi realizzà
e nui che l’aiutammo: pure lloro hanna
campà
...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore
‘nammurati ‘e stà città / ‘e femmene
chiù belle ‘nzieme a lloro stanno cà /
teneno ‘o stesso core, talequale
comme nuje napulitane
Nuje simme nati e cresciuti campanno
dint’ o bene / figli ‘e sta terra addò ‘a
pioggia fa crescere ‘o grano / Nun se
sgarrupano ‘e case, nun chioveno ‘e
bombe
spettacolo segue l’andamento per frammenti del libro,
procedendo in una successione di quadri che ricorda il
susseguirsi dei gironi infernali”. Frutto di un lungo
laboratorio, in cui si mostra il lavoro sullo svuotamento
del corpo dal suo principio vitale, sul corpo-marionetta
mosso dall’esterno. La messa in scena della “Pelle” come
superficie visibile senza niente dietro. La prostituzione,
metafora dell’oggi.
Al San Ferdinando, A sciaveca, (Premio Tondelli
2007) tragedia in versi in lingua flegrea di Mimmo
Borrelli, messa in scena da Davide Iodice. “Una sorta
di marina commedia che annega Dante nel mare colerico
della penisola flegrea (…) derelitti miserabili e presenze
demoniache, macello di carni e spiriti fluttuanti”. Qui
l’Inferno raccontato è la “catastrofe di una comunità che
si dibatte nel suo colera” e il percorso che ha portato allo
spettacolo, articolato in più momenti, ha visto anche una
tappa della messa in scena su una barca nel lago d’Averno,
anticamente considerato la bocca degli Inferi. La
provenienza geografica flegrea, che dà forma alla lingua
e alla storia, sembra funzionale alla messa in scena di
un’altra catastrofe, di un’altra comunità affetta da un
altro colera. Non necessariamente un colera napoletano,
un’inferno di città, ma una città metafora di un altrove,
comunque infernale, forse per questo sempre al centro
del discorso. (ac)
Quanta creature sta’ terra ha saputo
salvà
Rit
...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore
/ so venuti a faticà, ce cercano ‘na
mano pe’ potersi realizzà
e nui che l’aiutammo: pure lloro hanna
campà / ...e stanno ccà, chisti guagliun’
‘e fore / ‘nammurati ‘e stà città, ‘e
femmene chiù belle
‘nzieme a lloro stanno cà / teneno ‘o
stesso core, talequale
comme nuje napulitane
Purtroppo miez’ a vuje esiste chillo
che nun ha capito niente
‘a libertà se perde dint’a nu mumento:
nun’a facite male a ‘sta città
E guagline ‘e fore / T. Riccio
DICEMBRE 2008
Nella valle dello Zambesi
Viaggio in Mozambico tra i contadini che arrivano in città fuggendo dalle inondazioni.
La maggior parte degli abitanti vive di agricoltura di sussistenza e resta sotto la
soglia di povertà. Intanto il governo offre i terreni migliori sul mercato internazionale
S
iamo arrivate a Beira nel pieno di
un inverno da venticinque gradi
all’ombra, lasciando a casa un’estate
più fredda. Gli aeroporti mozambicani
hanno un fascino particolare e una
terrazza grande affacciata sulla pista, dove
scorgiamo subito chi ci aspetta: i muzungo
– i bianchi – qui sono decisamente facili
da individuare. Stefano ha prenotato i
posti nella chapa, dove passeremo le
prossime sette ore in viaggio. Ai lati della
strada c’è un mondo che si muove ad altro
ritmo: una carovana infinita di persone a
piedi o in bicicletta procede lungo le rotte
di un tragitto commerciale portando sul
capo merci varie, avvolte da stoffe solari.
Bivio di Gorongosa. Le capanne che si
disperdono all’orizzonte sembrano
piccolissime tra gli imponenti baobab e i
termitai giganti. Ancora un paio d’ore.
Sera. Sena. Passeremo qui le prossime
settimane, nel cuore della Valle dello
Zambesi, cercando di comprendere le
condizioni di vita dei suoi abitanti e i
fenomeni che stanno trasformando il
territorio.
Comincia la nostra inchiesta. Il rituale
è sempre lo stesso. Ci fermiamo ai margini
di un lotto delimitato da bassi arbusti e
chiediamo il permesso per passare
attraverso una porta immaginaria: «com
licenzia…». Varchiamo una soglia che
non è fisica, eppure percepiamo ogni volta
di essere entrate in uno spazio privato. Ci
accoglie di regola il capofamiglia o, in sua
assenza, una delle mogli. La stuoia viene
stesa a terra sotto l’ombra della frondosa
massaniquera, al centro dello spazio
circolare generato dalla disposizione di
piccole costruzioni, che messe insieme
formano il mudzi. Accomodati in questi
salotti africani, ricoperti dalla curiosità di
bambini e vicini, ascoltiamo le voci di
questa città rurale che rivelano l’incrocio
di abitudini ancestrali, proprie di un
mondo agricolo, con aspirazioni
tipicamente urbane. Pochi a Sena sono
quelli che hanno un reddito fisso come
impiegati nelle deboli strutture pubbliche.
Qualcuno è commerciante e gode della
felice posizione di transito della cittadina,
a pochi chilometri dal Malawi e a tutt’oggi
sede dell’unico ponte sullo Zambesi. La
maggior parte della popolazione vive di
agricoltura di sussistenza e resta al di sotto
della soglia di povertà.
Baltasar, come molti qui del resto,
percorre ogni giorno due ore di cammino
che separano la casa dalla machamba. Qui
coltiva miglio, mapira e fagioli, con l’aiuto
della sua microimpresa familiare di tre
mogli e quindici figli. Il lavoro nei campi
non consente il soddisfacimento del
fabbisogno alimentare e ci si inventa ogni
giorno un modo per integrare le entrate
con attività occasionali, i buscados. Le
donne raccolgono legna, il figlio maggiore
recupera a Nhampanda paglia per
rivestire i tetti. Paula, la seconda, va in
conoscenza con esistenze così precarie da
essere messe a rischio da un morso di
zanzara, un’inondazione, la siccità o
perfino da un ippopotamo incazzato. Alla
sera torniamo pensierosi dai padri
Saveriani che ci ospitano. Portiamo
sempre qualche birra per risollevare gli
bicicletta a Chola a comprare pomodori
da rivendere al mercato centrale e
raccoglie pietre da costruzione su
commissione. João fa il venditore
ambulante di capulane stoffe colorate e multiuso
- di cui fa scorta all'ingrosso al mercato centrale.
Buona parte dei guadagni
dei buscados serve per le
spese mediche. L’aids,
anche quando non è dichiarato, è palpabile
e diffusissimo. In caso di malattia si ricorre
al curandero, poi all’ospedale. Da queste
parti la malaria, così come le infezioni
causate dall’acqua raccolta nei pozzi, sono
malattie ordinarie, di cui è stato affetto e
spesso colpito a morte almeno un membro
della famiglia. Ai bambini non viene dato
un nome finché non sopravvivono ai primi
tre o quattro anni di vita.
Lo stupore aumenta ogni giorno,
mano a mano che approfondiamo la
spiriti. Il convento è una specie di fortino
bianco intonacato, in mezzo a un
paesaggio di costruzioni di terra e paglia.
C’è l’acqua corrente e una bella scorta di
alimenti in scatola.
Piccoli privilegi a cui
nessun essere umano,
potendo, sa rinunciare.
Potremmo restare ore ad
ascoltare le storie che ci
narrano sulla variegata
umanità incontrata nella loro esperienza
di missionari.
Ci raccontano anche delle profonde
trasformazioni della Valle dello Zambesi.
I padri hanno da poco sottoscritto una
lettera con la quale denunciano il governo
mozambicano, accusato di coprire la
cattiva gestione della diga di Cahora Bassa,
che sta un po’ più a nord, nella provincia
di Tete. La diga ha un ruolo fondamentale
nel regolare la portata dello Zambesi, ma
è gestita al solo fine di massimizzare i
Università, ultime ondate
F
orse la mia è solo una difesa di
categoria, perché sono ancora
studente. Ma a mio discapito
posso dire che non ho mai frequentato
molto né l’università né i vari
collettivi. Difendo l’Onda, con un
ottimismo forse ormai fuori luogo,
perché mi è sembrato che a settembre
abbia portato una boccata di aria
fresca. Perché ho visto scendere in
piazza persone molto diverse tra loro,
con esperienze politiche in alcuni casi
divergenti e in molti casi inesistenti,
che si ritrovavano a difendere insieme
una serie di principi semplici e banali,
che però ultimamente non sembrano
difesi da nessuno. Come la visione di
un’istruzione pubblica che sia un
servizio e un diritto, accessibile anche
a chi non può permettersi rate da
Luiss e possibilmente di qualità
dignitosa; di un ricambio
generazionale che permetta di
regolarizzare quei ricercatori precari
che reggono una parte sempre più
consistente della didattica e della
ricerca nelle nostre università; di un
percorso scolastico che dalla materna
all’università possa offrire le stesse
possibilità a tutti o quasi, e che non
sia un triste parcheggio dalle risorse
striminzite.
Saranno forse solo slogan, ma nel
giro di un paio di mesi, tra una
finanziaria e un decreto legge, si è
deciso del futuro di molte persone
sulla base di ragioni economiche e
territoriali, e l’istruzione si è
allontanata sempre più velocemente
da quel poco che rimaneva dell’idea
di un servizio pubblico. Proprio
perché già ne rimaneva poco, l’Onda
ha cercato di rilanciare il più possibile
la posta in gioco, per rimettere in luce
altri meccanismi rovinosi ereditati
dalle passate legislazioni:
dall’autonomia degli atenei
all’istituzione del 3+2, fino allo stesso
sistema dei crediti formativi. La prima
grande manifestazione a Napoli, il 29
ottobre, racchiudeva questo e molto
altro. Il corteo era stato bello
Riti ancestrali
e urbani si
fondono a Sena
soprattutto perché nato in maniera
spontanea, dopo che i cortili
dell’Orientale e della Federico II non
erano riusciti a contenere tutti i
partecipanti alle assemblee della
mattina: da lì era partito un fiume che
si era riversato a piazza Plebiscito. La
settimana dopo il corteo era già più
strutturato, con una serie di invenzioni
coreografiche – travestimenti, figure
e numeri di cartapesta, disegni
disseminati sui muri e sull’asfalto.
Forse questa idea di essere per
forza innovativi e diversi rispetto ai
movimenti precedenti era un po’ una
fissa, ma a me pareva che evitando di
farci appiccicare addosso etichette
stantie si poteva avere qualche
possibilità in più. Per questo mi sono
venuti i brividi quando alla fine di
questo secondo corteo le casse del
camioncino hanno suonato “bella
ciao” e “rigurgito antifascista”: che
c’entravano? Di fatto poi l’effetto
novità si è pian piano smorzato, e il
coordinamento è passato sempre più
nelle mani di quelli con esperienza
politica consolidata. Il punto di svolta
era per molti l’elaborazione di
profitti della produzione di energia
elettrica. Di conseguenza, il fiume straripa
continuamente, inondando la valle e
producendo gravi danni per chi lì vive e
coltiva la terra. Negli ultimi anni il
governo mozambicano ha messo in piedi
un massiccio piano di trasferimento della
popolazione dalla valle alle più sicure città
di Caia, Sena e Murraça. Moltissimi fondi
sono stati stanziati a questo scopo, con il
cospicuo intervento delle organizzazioni
internazionali. Ma quale potrà mai essere
– in un luogo così arido e distante dalle
coltivazioni – il destino di questa
popolazione recentemente inurbata, che
intanto continua a vivere di agricoltura?
Dove troveranno i fondi le misere
amministrazioni locali per offrire loro
servizi e lavoro?
Sono molte le domande che ci frullano
in testa mentre intervistiamo i governatori
locali che ci spiegano le loro politiche a
medio e lungo termine. Il governo
mozambicano ha deciso di proporsi sul
mercato internazionale offrendo i migliori
terreni agricoli alle imprese straniere per
la coltivazione di biocombustibile. La valle
dello Zambesi, con le sua fertili zone
alluvionali, è una zona ideale e vanta già
diversi investitori potenziali… che
coincidenza fortuita che i contadini
l’abbiano dovuta abbandonare.
Gli amministratori ci prospettano fieri
il roseo futuro dei nuovi cittadini da
impiegare come braccianti nei latifondi,
ma finalmente iniziati a uno stile di vita
urbano e moderno. Del resto, si sa, lo
sviluppo è inevitabile, soprattutto se la
Banca Mondiale ha già in cantiere una
Spatial Development Iniziative per la Valle
dello Zambesi, grazie alla quale
pioveranno sul territorio finanziamenti
stranieri, grandi infrastrutture,
megaprogetti.
La fotografia scattata il giorno del
nostro arrivo si fa lentamente più nitida,
ma resta l’amara sensazione di aver solo
intuito un mondo che reclamava
maggiore profondità di comprensione.
Ne parleremo a lungo durante il nostro
viaggio verso nord. Ce ne andiamo
percorrendo una strada asfaltata di fresco.
Quello sviluppo di cui abbiamo discusso
intere serate davanti a matapa e birra
eccolo lì, sotto i nostri piedi. Stiamo per
attraversare in barca lo Zambesi, nel punto
in cui si costruisce il nuovo ponte.
I piloni ormai ci sono tutti e Caia,
dove un anno prima neanche c’era
l’elettricità, ora di notte con i suoi bagliori
fa competizione alla luce piena della Via
Lattea. (rn/cm)
proposte e rivendicazioni precise, cosa
che doveva accadere nel corso
dell’assemblea plenaria alla Sapienza
il 15 e 16 novembre, seguendo l’idea
affascinante di un’auto-riforma dal
basso. Ma da Roma non è uscito quello
che ci si aspettava, magari anche per
la difficoltà di mettere insieme troppe
teste e realtà diverse, e da allora la
partecipazione è calata lentamente.
Dopo qualche segnale di attenzione
iniziale, il governo ha scelto
efficacemente di ignorare il
movimento. Gli studenti sono stati
lasciati a cuocere nel loro brodo.
Mentre alla Cei è bastato accennare
un lamento sui tagli alle scuole
paritarie, previsti nella stessa
finanziaria, perché il governo il giorno
stesso si affrettasse a modificare quel
comma con un nuovo emendamento.
L’ultima speranza ora è nello
sciopero generale del 12 dicembre, nel
tentativo di unire la protesta degli
studenti a quella dei lavoratori, che
pagheranno lo stesso tipo di politiche
governative. Poi, non si sa. Se non
altro, una boccata d’aria sarà servita
a rinfrescare vecchie e nuove idee. (vs)
Napoli Monitor, anno 3, numero 19
Autorizzazione del tribunale di Napoli
n°111 del 21/12/06
direttore responsabile: riccardo orioles
a cura di: roberto carro, luca
rossomando, cyop&kaf, miguel angel
valdivia, marcello anselmo, francesco
feola, renata pepicelli, bernardo de luca,
fabrizio geremicca, alessandra cutolo,
viola sarnelli
impaginazione: roberto carro
disegni: kaf e malov(copertina), diego
(2/3), cyop (4), malov (5), ciro (6/7),
aria (8), dalisi (9), dalisi, ciro (10) ciro,
malov (11) ciro (12)
hanno collaborato: salvatore porcaro,
ciro riccardi, capitoloprimo.it, costanza
boccardi, gianluca vitiello, roberta
nicchia, cristina mattiucci, vito costanzo,
salvatore maglione
a pietro e portelli jr
redazione: vico Santa Maria del pozzo
43/b c.a.p. 80137 Sanità - Napoli
stampa: SAMA Quarto
info: [email protected]
napoli, 8 dicembre 2008
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Neri dalla rabbia