DICEMBRE 2008 anno 3 numero 19 Neri dalla rabbia A settembre la camorra ammazza sei africani a Castel Volturno, due mesi dopo le forze dell’ordine compiono una violenta retata di migranti. Il sindaco applaude, i media sorvolano. Voci e punti di riferimento degli africani del litorale domizio H o sentito bussare alla porta. Mi sono svegliata di colpo, erano le cinque. Gridavano: carabinieri! carabinieri! Ho cercato le chiavi e ho aperto la porta. Li ho fatti entrare, in casa c’eravamo solo io e il mio bambino di sette anni. “Chi sono i genitori?”, mi hanno chiesto. Gli ho detto che il papà non abitava qui perchè siamo separati. Il bambino porta il nome del padre, gli ho mostrato lo stato di famiglia per dimostrare che sono la madre. Quando hanno visto che il permesso di soggiorno rilasciato dalla questura di Mantova era scaduto, mi hanno detto di seguirli in caserma. Hanno perquisito tutta la casa. Hanno buttato giù la porta della stanza di un ragazzo che abita con noi e che a quell’ora era già uscito per andare a lavorare. Ci hanno portato alla caserma dei carabinieri di Mondragone e poi, dopo i primi controlli, alla questura di Caserta. Faceva freddo. Ho avuto paura per mio figlio che soffre di asma. Per fortuna mi hanno dato una coperta. Ci hanno trattenuti fino alle due di notte del giorno seguente, quasi ventiquattro ore, poi ci hanno riaccompagnati qui». La “brillante operazione delle forze dell’ordine” comincia all’alba del 20 novembre, quando circa trecento uomini tra poliziotti e carabinieri, accompagnati da unità cinofile, vigili del fuoco e vigili urbani, fanno irruzione nell’American Palace, una palazzina di cinque piani situata al chilometro trentaquattro della statale Domiziana, un edificio in cui abitano esclusivamente migranti africani. A quell’ora molti di loro sono già diretti verso le rotonde, dove i caporali reclutano la forza lavoro da condurre nei campi o nei cantieri. Gli agenti sfasciano i vetri delle finestre e le porte. Chi rientra nel pomeriggio lamenta la sparizione di denaro, documenti e altri oggetti. Dalla questura dicono di essere alla ricerca di “armi, munizioni o esplosivi, latitanti”. A operazione conclusa fanno sapere che nei ventisei appartamenti dell’American Palace sono stati fermati novanta cittadini stranieri, settantasette dei quali senza permesso di soggiorno. Sedici sono stati arrestati per violazione dell’ordine di lasciare il territorio nazionale; (segue a pag 6 e 7) Pag. 9 Il sommergibilista di Porta Nolana Pag. 2-3 Studenti e assessori Pag. 4 Blindati a Terzigno Pag. 5-6-7 Su e giù per la Domiziana Pag. 8 Messaggi dalla Cina Pag. 10 L’ex studentato Miranda Pag. 11 Molly Sweeney, Così fan tutti Pag. 12 Viaggio in Mozambico DICEMBRE 2008 DICEMBRE 2008 Dalla farsa alla tragedia Indagato il presidente del porto, un assessore si dimette, un altro si toglie la vita I l 7 novembre migliaia di studenti sfilano per le strade del centro di Napoli per protestare contro i tagli a scuola e università. I manifestanti prendono di mira le sedi di alcuni giornali, le agenzie di lavoro interinale e la sede di Confindustria in piazza dei Martiri con il lancio di palloncini pieni d’acqua. Slogan e cartelli contro il ministro Gelmini. Il giorno dopo manifestazione di tremila persone contro la discarica in allestimento a Chiaiano. Gli attivisti mostrano spezzoni di filmati che dimostrano la presenza di eternit e rifiuti speciali nella cava, in seguito interrati dai militari. Il presidio propone un incontro al capo della Procura Giandomenico Lepore per chiedere il blocco dei lavori a Chiaiano e il sequestro della cava. Intanto i carabinieri applicano il nuovo decreto sui rifiuti che punisce con il carcere chi abbandona in strada rifiuti speciali e ingombranti e fermano sei persone per il deposito illegale. Polemica sulla norma, che ha valore solo nel territorio della Campania. Il 9 al concertone anti-camorra e prosaviano muore la cantante sudafricana Miriam Makeba. Si è accasciata sul palco mentre eseguiva l’ultima canzone, il suo successo più grande: “Pata Pata”.Vano il trasferimento nella clinica Pineta Grande. Mamma Africa, dicono i giornali, ha cessato di vivere poco dopo la mezzanotte. L’11 decine di professori e centinaia di studenti fanno lezione a piazza Plebiscito per protestare contro le politiche del governo sulla conoscenza. Il 13 dodicesima visita del premier Silvio Berlusconi a Napoli. Incontra il cardinale Sepe, che chiede al governo lavoro per i giovani del sud. Poi presenzia alla firma per l’affidamento dell’inceneritore di Acerra alla ditta lombarda A2A: la prima linea dell’impianto – così dicono – entrerà in funzione a gennaio. Insieme a Bertolaso il premier annuncia anche che dal primo dicembre apriranno le piazzole in cui i cittadini potranno portare rifiuti da riciclare in cambio di un indennizzo. Il 14 mille studenti antiGelmini partono dalla Campania diretti a Roma per la manifestazione nazionale degli studenti. In città ancora occupate Lettere e l’Orientale. Il 15 il Partito Democratico convoca gli “stati generali della legalità” a Caserta. Il segretario Walter Veltroni, ammalato, invia un messaggio: «La camorra si può battere». Lo stesso giorno al teatro Sannazaro si rivede il movimento civico “Chiaia per Napoli” che presenta un libro per ricordare la marcia di protesta del 10 novembre 2007 e propone per le prossime comunali la formazione di una lista civica. In prima fila commercianti, imprenditori, medici e notai. Il 17 brogli all’Ordine dei medici. Il presidente uscente Giuseppe Scalera, deputato Pdl, blocca lo spoglio del voto. Trovate due buste che contenevano più schede a favore di Gabriele Peperoni, il geriatra che gli contende la rielezione. «È uno sporco imbroglio – dice Peperoni –. La nostra lista era in vantaggio». La magistratura mette i sigilli alle urne elettorali. Intanto dopo dieci giorni di applicazione delle nuove norme sui rifiuti, sono già cinquanta le persone arrestate per avere lasciato in strada rifiuti ingombranti o pericolosi. Vengono resi noti alcuni dati sul lavoro in regione: tra settembre e ottobre sono state attivate ventimila richieste di cassa integrazione nella provincia di Napoli, pari a 154 settimane. Sono 36mila i posti di lavoro persi in Campania nei primi sei mesi del 2008. Il 18 blitz dei vigili a San Gregorio Armeno. Scatta il censimento delle bancarelle di pastori, ma gli artigiani protestano. «Da qui non andiamo via». Alla fine sono 114 i commercianti censiti, ma il comune prevede di autorizzarne solo 75. Gli altri rischiano multe e sequestri della merce. Il 19 la Procura, dopo i ripetuti interventi della polizia municipale, vieta i giovedì musicali al museo di arte contemporanea Madre in via Settembrini per la carente certificazione delle misure antincendio. Il direttore del museo protesta: «È una censura nei confronti dell’arte». E annuncia la riapertura per la settimana dopo. Il 20 indagato il presidente dell’Autorità portuale, Francesco Nerli e tre suoi collaboratori. Tredici rappresentanti di società operanti nel porto versavano contributi, tutti fatturati e registrati, alla vigilia di manifestazioni elettorali organizzate dai Ds, come quella svoltasi nel marzo 2005 a sostegno della candidatura di Antonio Bassolino alla Regione. Le somme vanno dai cinque ai venticinquemila euro. La Procura ritiene che l’Autorità portuale abbia “indotto gli operatori a effettuare le contribuzioni forte dei rilevantissimi poteri di controllo, vigilanza, attribuzione e revoca di concessioni, autorizzazioni, appalti”. Per i magistrati si tratta di “concussione ambientale”. Nerli e la sua segretaria, Rita Convertino, hanno il divieto di dimora in Campania. Il 26 nuovo blitz della polizia municipale nella strada dei presepi. Un artigiano si incatena alla baracca e minaccia di darsi fuoco, mentre i colleghi bloccano la strada. A fine giornata dieci baracche vengono abbattute. Il comune conferma che gli autorizzati sono solo 75. Ma non è ancora stata firmata l’ordinanza. Il 27 dopo l’occupazione della facoltà di Sociologia della Federico II il rettore Trombetti decide di sospendere le elezioni universitarie. Candidati di destra e di sinistra occupano il rettorato per protesta. An chiede le dimissioni del rettore. I collettivi universitari invece sostengono che le elezioni sono una farsa, perché il quorum non si raggiunge mai e i candidati rappresentano solo se stessi. Poi il 28 si dimette l’assessore comunale alle finanze e alle aziende comunali Enrico Cardillo. Era in carica da sette anni e mezzo. Venti giorni fa era finito in un’inchiesta sulle consulenze per il piano strategico del Comune. La richiesta di interdizione dai pubblici uffici avanzata dal pm era stata respinta. Il sindaco Iervolino si attribuisce tutte le deleghe, annunciando un rimpasto a fine anno. Nel frattempo la Procura sequestra le sale del museo Madre dalle ventidue di sera alle sei di mattina per impedire le famigerate serate danzanti. Infine il 29 si suicida con una corda al collo nella sua casa di Pianura l’ex assessore Giorgio Nugnes, costretto a dimettersi il mese scorso per le indagini sulla rivolta contro la discarica di Pianura. Era accusato di aver avvertito i manifestanti dell’arrivo delle forze dell’ordine comunicando con il consigliere comunale Nonno, di schieramento opposto ma pianurese di nascita come lui. Nugnes era finito agli arresti il 6 ottobre e poi era tornato in libertà, ma con il divieto di dimora a Pianura. Poi il gip gli aveva concesso di tornare a casa per tre notti a settimana. Il sindaco piange, qualche politico accusa i giudici, altri ancora parlano di un’inchiesta che lo vedeva coinvolto, ben più ampia e preoccupante di quella di Pianura. (lr) DICEMBRE 2008 Blindati nel parco del Vesuvio Bertolaso torna alla carica a Terzigno legalizzando vecchie e nuove discariche Il Parco naturale del Vesuvio nasconde da sempre discariche abusive di ogni tipo. Al centro degli sversamenti la città di Terzigno. Proprio qui lo scorso 17 novembre il sottosegretario Bertolaso comunica ai cittadini che non ci saranno più discariche abusive. Non ce ne saranno soltanto perché tutte quelle presenti e non in regola diventeranno “legali” grazie al decreto legge n. 90 del 23 maggio 2008. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire cosa è accaduto e cosa accadrà nei comuni di Terzigno, Boscoreale e Boscotrecase. La storia ha inizio con il decreto n. 61 dell’11 maggio 2007, durante il governo Prodi. L’atto normativo individua a Terzigno, in località Pozzelle, diversi siti di stoccaggio dei rifiuti solidi urbani. In quegli stessi giorni viene istituito un presidio permanente in via Nespole della Monica. Prendono il via manifestazioni e interventi pubblici che portano agli incontri con l’allora prefetto Pansa e il ministro Pecoraro Scanio per poi sfociare nelle occupazioni della stazione ferroviaria di Pompei e del comune di Terzigno. Si arriva al mese di agosto senza che le disposizioni previste dal decreto vengano attuate. A sentire le comunità in lotta «il governo scelse di temporeggiare, riuscendo in questo modo a stemperare gli animi e sfaldare il nucleo organizzato della protesta». Oggi lo scenario politico è decisamente cambiato. Con il decreto del 23 maggio vengono militarizzate tutte le aree interessate allo smaltimento dei rifiuti e, com’era prevedibile, la località Pozzelle a Terzigno è ancora uno dei punti nevralgici per la risoluzione della crisi. settembre la conferenza dei servizi indetta da Bertolaso invia ai comuni, all’Ente Parco e all’Asl la documentazione progettuale redatta dalla presidenza del consiglio e dal dipartimento di idraulica, trasporti e strade della Sapienza di Roma. Il progetto individua cinque siti in località Terzigno: Cava Pozzelle 1 - mq 81665 (dismessa e di proprietà della SARI, parzialmente adibita a discarica), Cava Pozzelle 2 - mq 41781 (dismessa, sottoposta a sequestro e di proprietà di Di Somma Ida), Cava Pozzelle 3 - mq 42916 (dismessa e di proprietà della SARI), Cava Pozzelle 5 - mq 339456 (attiva e sottoposta a sequestro, di proprietà di Vitiello), ex-discarica SARI - mq 119350 (dismessa e adibita a discarica di prima categoria per rifiuti urbani e assimilabili, sottoposta a sequestro a causa dell’abusività del tipo di utilizzo e di invaso). Nella notte tra il 13 e il 14 novembre con una scelta dettata “da necessità e urgenza”, il governo sceglie la linea dura inviando le forze dell’ordine a presidio della ex-discarica SARI: è un avvicendarsi di blindati, fuoristrada e uomini armati che bloccano l’accesso già da via Nespole della Monica, strada abitata che conduce alla discarica, ma non ancora “di interesse strategico nazionale”. Come conseguenza i residenti sono costretti a esibire un documento di identità ogni volta che devono rientrare a casa e uscire dalle loro abitazioni per identificare eventuali ospiti. Di lì a pochi giorni, con una mossa a sorpresa, Bertolaso e la sua scorta partecipano, non annunciati, al consiglio comunale straordinario di Terzigno per rispondere alle perplessità della popolazione. L’atmosfera, da subito tesa, si riscalda ulteriormente quando i presenti chiedono a gran voce che il sottosegretario sia allontanato dall’aula consiliare. I toni si stemperano soltanto quando viene concessa anche ai cittadini la facoltà di intervenire per porre interrogativi al rappresentante del governo. È però il commissario straordinario a gestire l’economia del dibattito riservandosi la possibilità di rispondere per ultimo una volta ascoltati tutti i dubbi della sala. Sono molti e precisi gli interventi: il più significativo chiede delucidazioni circa i rischi per la salute e l’eventuale incremento delle patologie tumorali in presenza di discariche e inceneritori. Il sottosegretario, dopo aver aperto una lunga parentesi sulla raccolta differenziata e sul corretto operato del governo – interrotta soltanto da uno scatto d’ira di un presente, subito placato da un impetuoso “silenzio!” – chiosa con un sibillino: «A me non risulta». Al governo, dunque, non risulta che – secondo i dati forniti dal professor Comella, direttore del dipartimento di terapia medica dell’istituto nazionale tumori di Napoli – in prossimità di inceneritori e discariche vi sia un incremento del rischio di cancro polmonare, di sarcoma dei tessuti molli, di mortalità nelle donne per tutte le cause: tumore del colon e della mammella, diabete e malattie cardiovascolari, diminuzione del tasso di testosterone e disfunzione del sistema immune… È giusto aggiungere che, secondo il decreto legislativo 42\2004 lettera l, nelle aree interessate da attività vulcanica le discariche non vanno istallate per “non pregiudicare l’isolamento dei rifiuti”. Mimì Auricchio, ieri pasdaran della lotta contro la discarica e oggi sindaco di Terzigno per il Popolo delle Libertà e primo promotore dello stesso, si esprime così: «Con il premier Silvio Berlusconi ho stretto un accordo: una deroga piena sui vincoli della zona rossa. Non chiederemo sanatorie, ma la messa in sicurezza del territorio. […] Quindi, l’approvazione del PUC, il piano urbanistico comunale, che prevede un’area commerciale di duecentomila metri quadrati nella zona rossa per rilanciare l’economia di Terzigno e delle aree vicine. Infine, Berlusconi in persona mi ha promesso che ci darà una mano per la realizzazione di un centro polisportivo. Sarà il più grande della Campania: faremo persino un campo di golf […] potremo rifare le strade e dare un’aggiustatina al paese. E tutto questo, senza subire alcun danno. Ho visto come lavorano i militari: sono bravissimi. Sono stato nel sito di Sant’Arcangelo Trimonte: non è una discarica, ma una fabbrica di confetti. Ecco, noi avremo una fabbrica di confetti che produrrà oro. Insomma, altro che casinò. Meglio di un casinò». (da www.capitoloprimo.it) Perdere la scuola elementare Il decreto 137 mantiene il tempo pieno, che però a Napoli non raggiunge il due per cento Il decreto 137, convertito in legge il 29 ottobre scorso, è sorretto da una motivazione esclusivamente economica e innesca due generi di questioni, l’una pedagogica, l’altra sociale. Da un punto di vista pedagogico l’attuale scuola elementare è il frutto dello sviluppo del tempo pieno, inteso come tempo disteso durante il quale i bambini imparano secondo la velocità e le capacità di ognuno. Tra il 1985 e il 1990 tutte le elementari italiane avviarono cinque anni di studio per definire i nuovi modelli operativi e al termine della sperimentazione vennero identificate due strutture orarie fondate entrambe sulla pluralità dei docenti: il tempo modulare e il tempo pieno. In entrambi i casi la finalità è sempre stata permettere a tutti di raggiungere un unico livello di apprendimento quale che sia il punto di partenza, e conseguenza non secondaria è stata l’integrazione dei bambini diversamente abili e migranti, non più relegati in classi differenziali ma inseriti totalmente nel percorso scolastico comune, con innegabili vantaggi sia per loro che per l’intero gruppo-classe. Il valore delle scelte operate è ratificato dai dati OCSEPISA che classificano la scuola elementare italiana come la seconda in Europa e la sesta al mondo. Con il decreto 137 tutto questo scompare. La riduzione del tempo-scuola a 24 ore settimanali coperte da un solo insegnante è considerata la strada migliore per ridurre la spesa pubblica. Si crea così una scuola antica, in cui un unico insegnante ha la responsabilità di portare trentatre bambini (perché con i tagli viene sfondato anche il tetto dei venticinque alunni per classe) a un livello di apprendimento che non può, ovviamente, tener conto delle differenze socio-culturali, con la conseguente perdita degli elementi più deboli, meno motivati e meno seguiti dalle famiglie. Il secondo problema, non meno importante, è sociale. La scuola materna ed elementare a tempo modulare o pieno (quindi dalle 8.30 alle 15 o alle 16.30) significa per le donne la possibilità di impiego. La situazione attuale, sospesa in attesa dei decreti attuativi, sembra configurare per l’anno prossimo il mantenimento del tempo pieno a 40 ore e l’eliminazione della struttura modulare, con una pesantissima ricaduta soprattutto sul meridione, dove il NAPOLI MONITOR LO TROVI: Napoli Centro - Librerie: Perditempo, via San Pietro a Majella - Dante & Descartes, via Mezzocannone - Mondadori, via B. Croce - Feltrinelli, via S. Tommaso d’Aquino - Eva Luna, Piazza Bellini - L’ibrido, via San Sebastiano - O’ Pappece, vico Monteleone - Treves, piazza Plebiscito - Manitese, piazza Cavour - Jamm, via S.G.M. Pignatelli. Gallerie: Hde, piazzetta Nilo, 7 - Canto Libre, via S. Giovanni Maggiore Pignatelli. Edicole: staz. metro Montesanto - staz. cumana Montesanto - via Monteoliveto fronte Architettura - via Duomo ang. Forcella - piazza Trieste e Trento - corso V. Emanuele, angolo Monti. Chiaia - Edicole: via dei mille ang. via Nisco. Sanità - Edicole: via Supportico Lopez ang. Vergini. Secondigliano - Gridas, via Monterosa 90 Vomero - Fonoteca via Morghen. Edicole: via Luca Giordano ang. Cimarosa-Staz. funicolare S.Martino. Bagnoli - Biblioteca Mazzacurati -Edicole: Staz. metro Bagnoli. Fuorigrotta - Edicole: staz. cumana Fuorigrotta. Quarto - Edicole: staz. circumflegrea Quarto. Marigliano - Quilombo, bottega equo solidale Se vuoi segnalare un punto di distribuzione nel tuo quartiere o nella tua città scrivi a: [email protected] tempo pieno non raggiunge il 5% (a Napoli è fermo a un miserrimo 1,5%) e quindi le scuole cittadine si attesteranno su orari di 24, al massimo 30 ore settimanali. Conseguenza sarà l’impossibilità per le donne di lavorare, con la cristallizzazione della disoccupazione femminile ai livelli attuali e l’identificazione delle famiglie meridionali come famiglie monoreddito, sia che i genitori lavorino entrambi e investano uno stipendio in scuole private o aiuti familiari sia che le donne ritengano più conveniente seguire i figli e lasciare il lavoro. Si crea quindi anche una questione di genere, che già lancia i primi segnali: in alcuni casi si preferisce far studiare il maschio, anche se meno brillante, e ritirare le ragazze dopo la fine della scuola dell’obbligo, perché è evidente la mancanza di prospettive femminili che non siano i lavori di cura della casa e della famiglia. Sembra che la nuova struttura oraria debba essere riferita solo alle prime classi. In realtà, anche questa è più una speranza che una certezza, ma non va dimenticato che il “contratto” che lega la scuola alla famiglia, il Piano dell’Offerta Formativa, non può essere modificato senza un accordo scritto tra le parti. È essenziale perciò, rifiutarsi di firmare qualsiasi diminuzione di orario proposta dalle scuole e, nel caso si riscontrino differenze tra l’orario dell’anno in corso e quello dell’anno prossimo, ricorrere al Tribunale amministrativo regionale, che negli anni precedenti ha già espresso parere negativo a cambiamenti non condivisi dalle parti. (cb) DICEMBRE 2008 E. M. è l’unica donna presente all’American Palace. Ci abita da cinque anni, da quando è arrivata a Castel Volturno proveniente da Mantova. Lavorava per una cooperativa che produceva jeans. Aveva il permesso di soggiorno e il libretto di lavoro. «Quando il contratto è scaduto non mi è stato più rinnovato. Per un periodo andavo e venivo dall’Olanda dove vendevo abbigliamento italiano. Nel 2000 ho conosciuto il padre di mio figlio. Avevo già una figlia in Africa. Ho scoperto solo mentre ero incinta che lui era sposato con un’altra donna. Quando mio figlio aveva un anno ho conosciuto un altro uomo, ma anche in questo caso le cose non sono andate bene. Lui voleva un figlio e io no, litigavamo e ha cominciato a minacciarmi. Quando le cose sono peggiorate sono dovuta scappare in un paese vicino. Dopo ulteriori minacce ho deciso di trasferirmi, con l’aiuto del Celestial Church of Christ, a Castel Volturno. Con un po’ di soldi che avevo ho comprato dei prodotti alimentari all’ingrosso e ho iniziato a venderli prima a Verona e poi qui all’American Palace. Per un periodo guadagnavo un po’ anche cucinando per le persone che abitano qui. Ho dovuto smettere perchè questo lavoro non era compatibile con gli orari di mio figlio. Lui la mattina va a scuola con il pullman. Io vado a piazza Garibaldi per comprare qualcosa da rivendere qui. Torno in tempo per riprenderlo alle 13,30. Il pomeriggio va al doposcuola dai padri comboniani e ritorna a casa alle quattro. Paghiamo un affitto di cinquecentoventi euro, compreso la luce e l’acqua». « M I CHIAMO J OSEPH . Sono arrivato nell’89. Da allora non sono più tornato in Ghana. I miei non stanno nemmeno più là. Molti parenti sono in California. Mio figlio studia all’università dell’Ohio. Io lavoro a Napoli, a Posillipo. C’è un amministratore che mi chiama per fare lavori di muratura e di giardinaggio, piccole cose. Quando non lavoro passo tutta la giornata a casa, esco solo per fare la spesa. Abito in una di queste case basse, siamo sei sette africani. Le case affacciano su questo grande cortile. Fino a qualche anno fa questo era un ristorante famoso. Venivano a fare le cerimonie. Adesso è abbandonato, ma i padroni abitano ancora qua. Li conosco da tanto tempo». « A Napoli vado con il pullman, esco di casa alle quattro e trenta del mattino per iniziare a lavorare alle nove. Quando sono arrivato a Castel Volturno, agli inizi degli anni Novanta, intorno era campagna e d’inverno non c’era nessuno. Anche la Domiziana era deserta, solo d’estate c’era un po’ di movimento. Ora tutta Napoli si è trasferita qui. Molti ghanesi abitano a Pescopagano. Chi vive qui, appena riesce a ottenere i documenti va via, non sono come me. Anch’io sono andato al nord. Ho lavorato a Brescia in una fonderia. Avevo il lavoro ma non avevo la casa e per un anno e mezzo ho dormito alla stazione dei treni. Troppo duro. Ho lavorato anche a Busano in un allevamento di cavalli. Anche lì non mi sono trovato bene e sono tornato a Napoli. A Posillipo lavoro da tanto tempo. Ho iniziato ancora prima di andare al nord». «MI CHIAMO A. O. Sono arrivato nel 1981 per studiare a Perugia. Sono geometra. Mi sono diplomato nel 1985. Quando ho finito gli studi sono tornato in Nigeria. Per un anno ho fatto il servizio militare. Poi ho lavorato per un’impresa italiana nel mio paese. Dopo qualche anno sono tornato in Italia per studiare all’università. Ho frequentato per tre anni, poi ho lasciato. Non riuscivo a sostenermi economicamente. Allora sono andato a lavorare in una fabbrica di ceramica. Ho lavorato per quattro anni fino al 1991. Ero costretto a lavorare in nero perchè il mio datore di lavoro non voleva regolarizzarmi. Per questo motivo ho litigato. Nel 1993 sono arrivato qui a Castel Volturno. A quei tempi la maggior parte delle persone che abitavano qui provenivano dall’Africa. Di italiani ce n’erano pochi. Era una città fantasma. Riuscivamo a trovare case anche senza pagare nulla. Qualche volta i proprietari chiedevono cento, duecento euro. Nessun italiano voleva venire a vivere qui. Lavoravamo nella zona di Villa Literno, raccoglievamo i pomodori. Può sembrare strano che un geometra va nei campi a raccogliere i pomodori. In Nigeria lavorando come geometra guadagnavo duecentocinquanta dollari al mese e alla fine del mese non riuscivo a mettere nulla da parte. Qui invece facendo qualsiasi lavoro riuscivo a risparmiare anche cinquecento dollari. Quindi ho capito che conveniva usare la forza e non l’intelligenza. Se un geometra va a raccogliere i pomodori ci deve essere una ragione. Poi per un periodo non riuscivo a trovare lavoro e mi sono messo a fare delle cose illegali. Sono stato arrestato per spaccio di droga. Ho trascorso cinque mesi in carcere. Sono uscito dalla prigione tredici mesi fa. Adesso metto la testa a posto. Sto cercando qualsiasi tipo di lavoro. Se possibile mi piacerebbe tornare a Perugia». (sp/lr) DICEMBRE 2008 DICEMBRE 2008 Neri dalla rabbia T rentanove sono sottoposti a provvedimento territorio di Castel Volturno con il compito di di espulsione e accompagnati presso alcuni gestire le aree demaniali e i beni sottoposti a Cie (Centri di identificazione ed espulsione, sequestro; trovare una risoluzione del gli ex Cpt). Nove tra gli stranieri avevano chiesto contenzioso tra lo Stato e i Coppola; predisporre asilo politico. Nessuna traccia, a quanto pare, di progetti di sviluppo del territorio. L’1 agosto armi, munizioni, esplosivi o latitanti. 2003 viene approvato l’accordo di programma “Un’operazione spettacolare che ha mostrato per il risanamento eco-ambientale e il rilancio i muscoli con i più deboli e distrugge tutto ciò socio-economico del litorale domitio. Il piano che faticosamente si stava tentando di fare: unire prevede una serie di interventi di riqualificazione le forze di tutti contro la camorra”, sostiene in tra cui l’ampliamento del porto turistico “San un comunicato, divulgato subito dopo il blitz, il Bartolomeo” che passerà dagli attuali 250 a 1200 centro sociale Ex-Canapificio di Caserta, punto posti barca. Il 30 giugno 2005 viene firmato di ritrovo di centinaia di migranti e riferimento l’accordo che pone fine al contenzioso tra lo indispensabile per le questioni legali e Stato e i Coppola. I quarantatre milioni di euro amministrative. “Sono poveri, sono neri, sono di debito vengono sanati dai Coppola, in parte irregolari – dice un altro in contanti e in parte con la comunicato, stilato dai missionari cessione di alcuni fabbricati comboniani –. L’American costruiti illecitamente. Palace non è il ghetto, o la Soweto di Castel Volturno come una Una duplice attrattiva trasmissione televisiva l’ha Dopo il blitz dell’American recentemente chiamato. Quando Palace il sindaco di Castel in un palazzo ci vivono italiani, Volturno Francesco Nuzzo ha famiglie o persone singole, il dichiarato: «L’iniziativa delle palazzo viene chiamato forze dell’ordine segue la mia condominio e non ci sorprende richiesta inviata al ministro di vedere volti bianchi alle dell’interno, che ha pienamente finestre, ma se a queste finestre recepito il senso del messaggio si affacciano volti neri chiamiamo e compresa l’esigenza di il palazzo ghetto”. ripristinare, anche nell’area della Padre Giorgio Poletti siede al clandestinità, i fondamenti della tavolo di cucina nella casa dei legalità (…) La città nutre padri comboniani di Castel completa fiducia nell’operato Volturno. Sono in quattro, in una palazzina a delle istituzioni perché anche sulla parte due piani, poco distante dal monotono rettilineo rimanente del territorio, dove si annidano forme della Domiziana. Padre Giorgio ha l’aria di illegalità che vanno dalla prostituzione allo sofferente per i postumi di una brutta caduta, spaccio di droga, si pongano in atto iniziative ma si dice soprattutto «stanco di ripetere le cose analoghe». Il sindaco dimentica di aggiungere di sempre». Le parole escono fuori a fatica, che, benché senza i documenti in regola, la retata lentamente, ma la voce è chiara, profonda: colpisce solo lavoratori extracomunitari «L’American Palace è sempre stato il luogo dove sottopagati che soggiornano nella spoglia le forze dell’ordine, soprattutto i carabinieri di palazzina abusiva pagando cospicui affitti al Mondragone, hanno iniziato i loro interventi nero. Il 13 novembre, sette giorni prima sul territorio. Cinque anni fa è stato oggetto di dell’irruzione, i consiglieri comunali di un’altra incursione. Allora, per protestare contro opposizione avevano presentato un’interrogaziol’operazione “Alto Impatto”, che nel nostro ne al sindaco, chiedendogli “quali provvedimenti territorio colpiva soprattutto gli immigrati intende urgentemente adottare al fine di irregolari, ci siamo incatenati alla prefettura di prevenire e di eliminare i gravi pericoli per Caserta. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. l’ordine e l’incolumità pubblica relativamente Adesso si riparte con questa alla presenza massiva (sic) nel incursione, con un dispiegamento American Palace di Un’incursione cosiddetto di forze sproporzionato». un notevole numero di con mezzi Secondo lui però, il vero immigrati clandestini, provvisti problema è un altro. «La foglio di via, con decreto di sproporzionati di questione è che sul litorale ci sono espulsione, come ampiamente piani di sviluppo per il futuro. documentato nella trasmissione Dopo la strage di settembre sono stati in pochi Anno Zero”. a dirlo. Quando ci incatenammo, si stava Qualche giorno prima, durante la concludendo l’accordo di programma tra la trasmissione di Michele Santoro, l’ineffabile Regione, la provincia di Caserta, i comuni di giornalista Ruotolo aveva riunito un gruppetto Castel Volturno e Villa Literno e le società di immigrati e gli aveva chiesto in diretta di Consorzio Rinascita S.r.l. e Fontana Blu S.p.a, mostrare il foglio di via per dimostrare sul futuro assetto del territorio di Pineta mare, l’inefficacia dei provvedimenti di espulsione. una cittadina per il novanta per cento abusiva, Per alcuni è stato questo il motivo scatenante costruita dalla famiglia Coppola su terreni del del blitz. Per altri è il prezzo che il sindaco ha demanio marittimo e forestale. Tutto è stato dovuto pagare alle pressioni dell’opposizione, bloccato per anni da un contenzioso tra lo Stato che proprio il giorno prima era tornata alla carica e gli eredi Coppola. Poi si è trovato un accordo. presentando una mozione di chiusura del centro Adesso i Coppola rientrano nell’accordo di Fernandes, bocciata in consiglio comunale per programma con il consorzio Rinascita. Chi ha un solo voto. distrutto paga la penale e guadagna di nuovo Il centro Fernandes è un baluardo sulla ricostruzione». In effetti, nel 1998 il governo dell’accoglienza ai migranti nella zona di Castel nomina un commissario straordinario per il Volturno. Antonio Casale, l’attuale direttore del centro, ne racconta in sintesi la storia. «Negli anni Ottanta era uno dei tanti edifici abbandonati lungo la Domiziana, occupati dagli immigrati in cerca di un tetto. Ce n’erano circa quattrocento, tutti uomini. Non c’erano corrente, acqua e servizi igienici. Il comune fece un’ordinanza di sgombero e in molti confluirono verso il famoso ghetto di Villa Literno. Da poco era stata approvata la legge regionale sull’immigrazione che prevedeva l’istituzione di centri di accoglienza. La Caritas di Capua e il comune decisero di trasformare questa struttura in centro d’accoglienza. La casa venne inaugurata nel 1996. Un finanziamento regionale ne consentì la parziale ristrutturazione. Adesso ospitiamo trenta immigrati. Possono restare per due mesi, ricevono vitto e alloggio, si cerca di avviarli al lavoro. Ci sono aule per i corsi di alfabetizzazione, uffici, ambulatori, aree verdi, un centro di ascolto, la mensa, uno sportello legale. Nel 2000 abbiamo attivato una parte della casa per le donne, ex prostitute sfruttate e ragazze cavallo. Accanto alla casa ci sono tre costruzioni madri. Adesso abbiamo cinque donne con a pianta circolare, che ricordano le capanne dei bambini assistite dalle suore». villaggi africani. Hanno il tetto a punta fatto di «Quando è nato – continua Casale – questo palme intrecciate. «Abbiamo iniziato cinque posto era pensato per essere anche un centro anni fa su proposta dei padri comboniani – studi. Qui fuori c’è ancora la targhetta “Informa racconta Margherita Prisco, che manda avanti giovani e osservatorio sull’immigrazione”. Si la scuola con il marito Robert Visco –. Eravamo voleva studiare il fenomeno, cominciare a due ragazze, lo spazio uno scantinato. L’altra elaborare risposte, oltre alla semplice accoglienza ragazza andò via il secondo giorno. All’inizio per pochi. Tutto questo non è durato, non c’erano due bambini, dopo tre mesi erano venti abbiamo avuto finanziamenti». e alla fine dell’anno trentacinque. Lasciammo Attualmente al comune risultano censiti 2300 lo scantinato e prendemmo in affitto questa casa. immigrati. Sono tanti rispetto a una popolazione Abbiamo una lista d’attesa abbastanza lunga, lo di quasi 23000 unità, ma la presenza effettiva è spazio all’interno è limitato e non possiamo di almeno il doppio. Tra chi non risulta prenderne di più. Ci sono anche una decina di regolarmente censito ci sono anche molti regolari bambini italiani. Nella zona c’è più commistione che spesso hanno la residenza altrove, per il di quel che si creda. Alcune famiglie italiane permesso di soggiorno o la richiesta di asilo prendono in affidamento bambini stranieri. politico. «Stanno qui – dice Casale – soprattutto Magari sono vicini di casa che aiutano gli per due motivi. Trovano più immigrati che lavorano tutto il facilmente casa. C’è un enorme giorno. È un affido non ufficiale, p a t r i m o n i o i m m o b i l i a r e Vengono qui poi ci sono anche quelli che abbandonato. Interi complessi, perché trovano pagano… Per la scuola non case costruite abusivamente anni riceviamo alcun incentivo. I fa per venire al mare, che oggi casa facilmente bambini pagano due euro al non hanno più alcuna attrattiva. giorno, ma forniamo tutto noi, In una villetta si possono affittare tre, quattro dai pannolini al mangiare. Le mamme vengono stanze a duecento euro l’una, in nero. Il territorio a prenderli alle cinque. Tutti i soldi provengono li assorbe. E poi, si tratta di una zona franca, da iniziative legate ai missionari comboniani. non ci sono controlli di alcun tipo. Puoi stare Ci industriamo in ogni modo, un concerto, una senza permesso di soggiorno e nessuno ti ferma, riffa, qualche offerta…». puoi avere la macchina senza assicurazione e L’organico della scuola è composto da cinque nessuno te la sequestra, puoi aprire un’attività ragazze del servizio civile, oltre a Margherita e commerciale e non ci sono controlli severi…». Robert, suo marito, che è una specie di jolly: «Fa «Castel Volturno è un porto franco per tutti, il cuoco, il bidello, cura le pubbliche relazioni – non solo per gli immigrati – dice il comboniano dice Margherita –. Io e lui siamo gli unici padre Giorgio –. Lo sfruttamento del lavoro stipendiati». Alle due del pomeriggio arrivano non riguarda solo gli immigrati ma anche gli i bambini delle elementari che fanno il italiani. Questo è un luogo d’asilo, qui hanno doposcuola nelle capanne accanto alla casa. «Le portato gli sfollati del terremoto dell’Irpinia. abbiamo fatte costruire noi – spiega Margherita Manca un’identità geografica e culturale. Non –, un po’ alla volta, come tutto qui intorno. ci sono cittadini, ma fruitori di un territorio da Anche le serre. Abbiamo un progetto di spolpare. C’è scarso interesse per il bene pubblico. inserimento lavorativo per le donne. E il Non dimentichiamo che erano paesi gestiti da maneggio. Un fisioterapista che ama i cavalli si famiglie dove un fratello faceva è offerto di fare ippoterapia con il prete, l’altro ancora il maestro. i bambini». «Lo chiamiamo Il potere si è sempre concentrato doposcuola – interviene Robert nelle mani di pochi». –, ma il progetto è rivolto soprattutto alle ragazzine, per Una scuola multietnica tenerle occupate con i compiti e Antonio Gucchierato, insegnante i laboratori. Attraversano un’età di scuola elementare al primo critica… Qua ci sono i leoni. Se circolo didattico di Castel una ragazza fa un chilometro a Volturno, mette anche lui piedi lungo la Domiziana si l’accento sull’incerto tessuto fermano minimo cinque, sei sociale della zona. «Nel ’91 – dice macchine a darle fastidio». –, quando scelsi di venire in «Un paio di volte – prosegue questa scuola, pensavo che il Robert – sono venuti a rubare. problema fosse l’inserimento Ci hanno ripulito di tutto. E degli immigrati. Io sono di un’altra volta quando eravamo Capua, durante un periodo di nello scantinato. Abbiamo distacco sindacale avevo vissuto dovuto mettere le grate alle l’arrivo impetuoso alla fine degli finestre. Poi una volta c’erano anni Ottanta. E invece no, il problema non due ragazzi ghanesi che stavano al primo piano, riguardava loro. Le famiglie straniere ci tengono li ospitavamo. Vennero con le pistole, li fecero che i figli vadano a scuola. Tutti frequentano stendere a terra puntandogli la pistola alla nuca. regolarmente e con impegno. Sono nati qui, la Qui dietro avevamo degli animali: pecore, maggior parte entrano già alla materna. Quelli agnelli. Hanno sgozzato un agnello davanti a che arrivano nel corso dell’anno sono poche loro: “questa è la fine che farete se non ci aprite eccezioni. E di solito raggiungono la famiglia, la porta della scuola”. Ma loro non avevano le quindi i genitori già parlano l’italiano. Le classi chiavi. Li hanno picchiati e se ne sono andati. ponte qui non so a cosa potrebbero servire… Questo due anni fa. L’ultimo furto l’anno scorso. Ma poi c’è una forte presenza di figli di famiglie Non abbiamo mai saputo chi fossero». (sp/lr) italiane non radicate nel territorio e spesso in condizioni di deprivazione. Sembra quasi che un nucleo familiare quando va in disfacimento venga ad abitare a Castel Volturno. Esiste un’enorme mobilità territoriale. Una volta, nello stesso anno scolastico abbiamo avuto 98 alunni in uscita e 180 in entrata, per la maggior parte italiani. E qualcuno in entrata e in uscita più volte. La “disfrequenza” riguarda quasi solo i figli di italiani che dall’hinterland napoletano e casertano si trasferiscono qui». Sempre lungo la Domiziana c’è una scuola dove i neri sono in maggioranza, anche se non sono gli unici alunni. È un asilo nato qualche anno fa dall’iniziativa dei padri comboniani. Si chiama la “Casa dei bambini” e ne ospita circa quaranta, dai due ai sei anni. Oltre il cancello rosso, un vialetto conduce a un’ex casa colonica a un piano. Sul davanti un giardino con qualche gioco, sul retro una grande estensione di terreno, alcune serre, un recinto dove sgambetta un DICEMBRE 2008 La venditrice cinese La ragazza cinese mi aveva intercettato sul sito di aste on-line, ma le nostre trattative durarono un giorno, poi cominciò il racconto: gli studi, la grande città, il lavoro come venditrice. Il computer sempre acceso e la rigida sorveglianza. Finchè un giorno... J any lavorava al computer sedici ore al giorno. Il suo compito era quello di dragare la rete in lungo e in largo per raccogliere quanti più indirizzi di posta elettronica possibile. Le e-mail dei consumatori occidentali valgono oro, perché si tratta delle caselle che vengono prese d’assalto per proporre i prodotti delle fabbriche cinesi a basso costo. Tra gli indirizzi intercettati c’è anche il mio, preso direttamente da un celebre sito di aste on line. È così che ho conosciuto Jany, e con lei tanti altri operatori cinesi del web. Cominciò con l’offrirmi stock di abbigliamento e di prodotti elettronici a un decimo del costo a cui era possibile trovarli in Italia in un qualunque negozio, spiegandomi che un’eventuale rivendita mi avrebbe fruttato notevoli guadagni. L’unico ostacolo era la dogana – mi diceva – perché accade talvolta che i pacchi provenienti dalla Cina vengano bloccati. In questo caso, avrebbero provveduto a rispedirmi il tutto, anche più volte se necessario. Nel costo era infatti inclusa una speciale assicurazione che prevedeva questa eventualità. Presto i contatti con i venditori cinesi si spostarono in chat. Acconsentii a scambiare i riferimenti messenger, incuriosito da un mondo che mi era del tutto sconosciuto. Ormai i venditori mi contattavano quasi ogni settimana, sempre cortesi e con mille attenzioni, ma anche presi da un’ansia di concludere l’affare che si avvertiva piuttosto chiaramente nei colloqui. Molti, quando capivano che non avrei comprato, sparivano e puntavano su nuove prede. I miei tentativi di dirottare il discorso su tematiche meno legate al commercio falliva quasi sempre di fronte al silenzio imbarazzato dei miei interlocutori o a un loro rifiuto cortese ma esplicito, spiegato con la severità dei controlli a cui erano sottoposti. Jany però era diversa dagli altri. Le nostre trattative commerciali durarono un solo giorno. L’indomani fu lei a rompere il ghiaccio e a chiedermi della mia vita, del cibo italiano e delle abitudini di un trentenne occidentale. Nelle sue parole digitate in chat si avvertiva una dolcezza e una voglia di esplorare il mondo non comuni. Mi faceva domande, ma presto furono le mie a prendere il sopravvento. E lei non si sottraeva, aveva voglia di raccontare sé stessa e il suo mondo di ventitreenne. A volte i colloqui si interrompevano bruscamente. Accadeva quando quello che lei chiamava “boss” si avvicinava alla sua postazione. Non era consentita alcuna divagazione, l’ordine era tassativo. Il capo conosceva l’inglese e avrebbe facilmente scoperto che l’oggetto dei nostri dialoghi non erano le scarpe Nike. «Perché avete il terrore del vostro capo?», le chiesi un giorno. «If are not able to sell the predefined amount of goods, we can easily be fired», fu la risposta. Nel caso qualcuno non fosse stato in grado di vendere le quantità stabilite di merce, sarebbe scattata la mannaia immediata del licenziamento. Ma il problema non era solo quello. Un licenziamento – mi spiegò – rovina del tutto la carriera di un aspirante operatore di telemarketing, rendendo problematica la ricerca di altri lavori. In quel caso, non restava che la fabbrica vera e propria, la produzione: quattordici ore davanti a una macchina utensile a ripetere gesti sempre uguali. L’edificio dal quale Jany operava era in effetti lo stesso della fabbrica per la quale lavorava, un’ala di quello che mi «Non esci mai, Jany?». «Sì, il sabato, solo qualche volta la domenica. Esco con i miei colleghi di lavoro, soprattutto con loro». «E che fate di solito?». «Di solito shopping, ci sono un sacco di bei negozi qui». «In quale zona della Cina sei?». «Sono nel sud della Cina, ma la mia famiglia vive al centro del paese. Ho deciso di venire qui perché ci abitavano dei parenti. I miei avevano una grande casa in campagna, con enormi spazi intorno e degli animali. Questo fino a vent’anni fa. Quando ci sono tornata per lavoro, non esisteva più nulla di quello che ricordavo descriveva come un fabbricato enorme. Le ore di lavoro scandite dal rumore monotono e incessante dei macchinari, che nei periodi di pieno regime andava avanti anche nelle ore notturne. Mi confessò di non poterne più di quel rumore, che gli ritornava in testa anche di notte, come un incubo ricorrente. «Vivi lontano dalla fabbrica?», provai a chiedere un giorno. «No, come tutti quelli che lavorano qui, ho una stanzetta vicino al luogo dove lavoro, sempre nello stesso edificio, in modo che non vi siano tempi morti. E poi ho un computer anche in stanza. Sai, quando da noi è sera o notte, in Europa è pomeriggio e in America addirittura mattina, quindi bisogna restare in linea». Venni a sapere che riceveva sia a pranzo che a cena un piatto unico sempre a base di riso, a cui venivano aggiunte altre pietanze. Mangiava quasi sempre con un occhio al computer. La sera Jany semplicemente se ne restava stesa sul suo letto, in attesa di eventuali chiamate di clienti. da bambina. La grande città ha inghiottito tutto». «È molto grande la città?». «Ci vivono quindici milioni di persone, e la tua?». «Beh, senza considerare la provincia, un milione e mezzo». «Ma allora vivi in un piccolo paese…». Jany mi diceva di avere un fidanzato, ma abitava a varie ore di treno e lo vedeva una volta ogni due settimane. «Ma in fondo è meglio così, non credi? Non mi piace dover fare tutto con lui», diceva convinta. Un giorno di metà ottobre mi annunciò che la sorella si era sposata, e che era stata organizzata una festa piuttosto sfarzosa. Le chiesi se avesse intenzione di sposarsi anche lei. «No – rispose –, almeno fino ai trent’anni voglio essere libera di divertirmi e spendere i soldi che guadagno. Ieri sono stata in un nuovo locale che hanno aperto qui in città. È un posto fantastico, dove è possibile mangiare, bere, chiacchierare, ballare e anche cantare. Io sono abbastanza timida, ma ho cantato per quaranta minuti». Era quasi un mese che ci sentivamo ormai. Mi parlava della sua istruzione e dei progetti futuri. Aveva studiato all’università, una facoltà che riuscii a tradurre come “inglese finanziario”. I suoi avevano sborsato molto denaro per consentirle di studiare ed era sua ferma intenzione restituirlo. Ma il salario era basso e dipendente dalle vendite condotte in porto, non molte, tanto da tenerla sempre con il fiato sospeso. Mi fece una strana richiesta: «Hai mai comprato qualcosa da questa fabbrica?». La mia risposta negativa mi fece scoprire il motivo della curiosità: «No, niente, volevo sapere qual è la qualità di quello che producono. Noi lavoriamo nello stesso edificio della fabbrica, ma non ci è concesso nel modo più assoluto dare uno sguardo ai prodotti». Non poteva vedere di persona ciò che vendeva, e naturalmente neppure comprare. I suoi acquisti, peraltro numerosi come quelli di un qualunque ragazzo occidentale, erano indirizzati verso quella che mi descriveva come merce destinata al mercato interno. «Ci sono merci che sono solo per il mercato occidentale, quindi?», le chiesi. «Sì – rispose –, ad esempio la fabbrica dove lavoro produce solo per l’estero». Il lungo periodo di frequentazione telematica ci aveva fatto diventare quasi amici. Sempre più spesso, però, la sentivo triste, a tratti disperata. Erano trascorsi due mesi dalla sua assunzione e le sue vendite erano modestissime. Il capo la maltrattava sempre più spesso. Le aveva persino sottratto un potenziale cliente, un vecchio acquirente che rientrava tra i suoi contatti quando lui stesso faceva quel lavoro. Nelle serate che diventavano sempre più fredde, mi diceva di avere forti crisi di ansia e dolori allo stomaco. Gli amici le dicevano di “pensare di meno” ed era giunta alla conclusione che forse avevano ragione. Voleva però fare un check-up medico, ed erano i costi elevati a spaventarla. Gli ospedali erano cari – mi diceva – e non voleva che la sua famiglia si sobbarcasse le spese. Nel corso dei nostri lunghi colloqui esprimeva crescenti dubbi sulla sua adeguatezza a quel lavoro. Pensava di dare le dimissioni per non incorrere nel licenziamento, ma non trovava il coraggio di dare seguito al proposito. La penultima volta che la sentii, mi disse che sognava di andare via dalla Cina, e di vivere, semplicemente, in pace. Il giorno successivo mi annunciò convulsamente che la sua vicina di postazione, e sua migliore amica, era stata licenziata ed era nel panico. Mi chiese di nuovo l’indirizzo mail, che aveva smarrito, da appuntare in fretta su un foglietto. «Credo che tra poco verrà anche il mio turno…». (gv) napoliMonitor presenta il suo annuario 2008: MEDIOEVO NAPOLETANO Dopo il rinascimento prima della barbarie Otto reportage dentro e fuori Napoli “Nella città condannata a cadere e risorgere a intervalli sempre più brevi, adesso il tempo sembra fare il suo giro al contrario. Dall’illusione della rinascita a una crisi senza via d’uscita. Ma per andare oltre le etichette l’unico modo è ancora una volta conoscere, descrivere, organizzare. I barbari sono alle porte, ma non sono quelli che vogliono farci credere...”. In tutte le librerie DICEMBRE 2008 Dai fondali al Lazzaretto Fino a qualche anno fa Tommaso viveva in quella parte di Polonia che affaccia sul mare. Era sommergibilista nella marina sovietica. Poi il muro crollò e lui si ritrovò con un sacco militare pieno di orologi e mostrine. Arrivò a Napoli con l’Odessa R isalendo il corso Garibaldi da Via Marina si compie il tragitto che i container fanno tra porto e interporto. Loro lo fanno in treno perdendosi il panorama umano che popola la zona stretta tra le “case nuove” e il mercato, e più su tra porta Nolana e la Circumvesuviana. La strada è anonima, la popolazione composita. Lungo il corso è un viavai di commerci e traffici diventati nel corso degli anni sempre più umili. Dal lato della stazione dei treni in partenza verso il vesuviano, i rom organizzano un mercato di pezze, rottami, oggetti in apparente disuso che sono i tesori del riutilizzo in tempi di spreco. Gli avventori sono rumeni, magrebini e altri stranieri. Qui la raccolta differenziata non va a finire nei maceri, viene ridistribuita attraverso forme primordiali di commercio, è quasi un baratto. Di fronte ci sono i cappellai e le jeanserie frequentate dai ragazzotti in bomber e cappellino americano. Più avanti, risalendo verso piazza Garibaldi, compaiono i venditori cinesi che commerciano le cineserie sbarcate dalle porta-contenitori China Shipping. È tutto ammassato ordinatamente nello spazio ristretto delle bancarelle. Sono cianfrusaglie, ma nuove e ancora imballate. Poco più avanti, superando la Circum, si apre lo slargo di Porta Nolana, dai cui pilastri partono gli abusivismi anni Sessanta e i palazzi del risanamento da sanare nuovamente. Nei portoni entrano ed escono agenti di assicurazioni, avvocati di piccolo cabotaggio, faccendieri dagli abiti sdruciti. Intorno, da mattina a sera, c’è il mercatino del Lazzaretto. Panni ruvidi stesi a terra ospitano libri, arnesi, vestiti, oggetti tecnici arrugginiti, scarpe. Tra gli avventori si aggirano uomini minuti pronti a farti fare l’affare con l’orologio falso stretto nella mano. È il regno dei saponari e delle sarte di quartiere che per pochi spiccioli adattano abiti di taglie più grandi ai corpi dei compratori. Si parla italiano al Lazzaretto, quell’italiano duro, tronco e gutturale traslato da lingue slave, dall’arabo di strada. La lingua storpiata dalle approssimazioni e dall’onnipresente dialetto. Tommaso parla così. Sbaglia qualche verbo, ricorre spesso all’infinito, ma conosce tutte le parole tecniche di orologi, macchine fotografiche e strumenti ottici. La sua bancarella espone mercanzia di precisione, un tantino usurata ma rara, e di ottima fattura: cannocchiali, binocoli, macchine fotografiche, cineprese, orologi, bussole, fino agli scacchi lavorati a mano. La sua mercanzia, insomma, è pregiata. E ci tiene a sottolinearlo. Fino a qualche anno fa – diciamo il 1989 – Tommaso viveva non lontano da dove era nato. In Slesia, quella parte della Polonia che affaccia sul mare, dove c’è Danzica, foriera dei drammi del secolo breve. Era un marinaio. E che marinaio! Lui uomo di terra è arrivato perfino a sfiorare i fondali freddi dell’Atlantico. Polacco di nascita, cittadino realsocialista per contingenze, Tommaso all’età di Era iscritto al sindacato, ma gli risultò impossibile farsi assumere nella marina mercantile polacca o sui traghetti in partenza per il Baltico. Neanche i pescherecci di merluzzo lo accettarono a bordo. Così dopo un anno passato tra vodka e banchine, cetriolini e moli, stracciò la tessera e si arruolò di nuovo in marina sfruttando i due anni di credenziali accumulate durante la leva. Fu mandato all’addestramento in una base nei pressi di Vladivostok dove subì anche una lunga rieducazione politica marxista-leninista «Che fare? diceva Lenin. Ma noi non lo sapevamo che fare. Andavamo avanti a cetrioli e pane nero. ventuno anni iniziò la leva nell’esercito polacco. Fu mandato in marina senza un chiaro perché, si ritrovò in una base sul Mar Nero a fare cinque mesi di addestramento. Attraversò il Mar di Marmara, lo stretto dei Dardanelli e per un anno rimase a bordo di un cacciatorpediniere inserito nell’area mediterranea della marina sovietica. Era una flottiglia ben organizzata, che si muoveva tra la Libia, l’Algeria e il mediterraneo orientale. In quegli anni si ritrovò al largo di Beirut, fuori Suez. Poi sbarcò, tornò in Polonia. Gli fu chiesto di iscriversi a Solidarnosc. Si iscrisse. «Ma fu grave errore quello», mi ha raccontato poi, sorseggiando uno dei caffè che gli offro due giorni a settimana. Da Tommaso vado a vedere gli orologi o cerco di trovare affari nel campo delle macchine fotografiche. Le camerate erano tutte scrostate e non c’era l’acqua calda. Non era buon affare di fare il militare». Tommaso era nei battaglioni misti interforze del patto di Varsavia. Ogni stato aveva un suo esercito ma l’Esercito era l’Armata rossa. Scoppiò la guerra in Afghanistan, i russi chiamarono gli alleati alla solidarietà. Tommaso per sfuggire alla guerra fece domanda nei sommergibilisti, quei marinai di fondale che respirano sempre la stessa aria, filtrata e rifiltrata. Fece un ennesimo addestramento e si ritrovò a mangiare sardine con il grado di “marinaio scelto” a bordo di un sommergibile atomico della marina sovietica. «Non c’era spazio per niente. Era come una grotta nella roccia, bisognava scavare per recuperare una cuccetta. Ordine c’era ordine, ma per il resto marinai e ufficiali avevano sempre la schiena china. Lo spazio era del reattore, e nessuno ci dormiva volentieri vicino». Poi il muro crollò. La cortina di ferro venne frettolosamente abbattuta e Tommaso si ritrovò con un sacco militare pieno di orologi, mostrine e macchine fotografiche, sul molo di Danzica di nuovo alla ricerca di vodka e cetriolini. Il denaro non valeva più niente, si diede a ramazzare i magazzini militari, mise insieme un patrimonio di cianfrusaglie di valore e precisione, e salì su uno dei pullman diretti verso occidente. Prima di partire si fece finalmente crescere la barba, vietatissima a bordo per via del pericolo di radiazioni. Saltò la Germania – fredda e ostile – deviò verso il Mediterraneo passando per i Balcani e arrivò in Italia a traino dell’Odessa – la nave con i marinai abbandonati nel porto di Napoli. In breve trovò abitazione presso un vecchio mito della città, Agostino il pazzo, che dismessa la motocicletta – con cui fece impazzire guardie e ladri napoletani – s’era dato al commercio di antiquariato e al mestiere di affittacamere. In breve Tommaso mostrò il suo talento di venditore e procacciatore di oggetti antichi. Dalle sue mani iniziarono a passare violini, mobiletti, icone ortodosse, tutti beni rivenduti a vecchi e nuovi intenditori. Agostino gli cambiò stanza, Tommaso salì di piano e iniziò a risvegliarsi nel sole e nel tepore del Mediterraneo. Aveva finalmente chiuso con l’umidità del mare. Dai sommergibili Tommaso ha ereditato la paura per gli spazi stretti. Adora la folla e la strada. Arriva al Lazzaretto di mattina presto, sistema la merce e aspetta i compratori. Allontana i perdigiorno, tratta con chi compra, con chi caccia i soldi. Ha voglia di caffè, di raccontarsi ai pochi che hanno voglia di ascoltarlo. Nei sotterranei della città continua a sognare i sommergibili, in incubi profondi. Sulla sua bancarella spiccano i ritratti minuscoli dei cento e uno morti nella tragedia del Kursk, il sottomarino atomico russo affondato nel Mar Baltico un’estate di pochi anni fa. «Se non partivo, mi ritrovavo lì. Morire sul fondo è come morire da topi. E noi siamo ancora uomini…». Si accarezza la lunga barba incolta, si liscia i baffi grigi e accende una sigaretta con un accendino di ottone a benzina. «Questa è roba originale, funziona. Da me non c’è trucco e non c’è inganno…». (-ma) Seconda lingua, italiano Le classi ponte non risolvono i problemi di risorse e didattica. Due esperienze napoletane Il 9 ottobre la Lega presenta alla Camera una mozione in cui chiede la creazio- ne di classi separate per gli studenti che non superino un test d’ingresso su lingua e cultura italiana. Una proposta che fa discutere ma torna a mettere in luce l’insufficienza degli interventi attuali. Perché se da una parte la seconda generazione di stranieri cresce e si consolida, i bambini e ragazzi appena arrivati richiedono un percorso di inserimento più solido e insieme più elastico di quello utilizzato in molte scuole. «Nel testo della mozione si parla, come se fossero sinonimi, di “studenti stranieri”, “nomadi”, “studenti con cittadinanza non italiana”, “minori con genitori stranieri”: tutte categorie con problematiche molto diverse tra loro, mescolarle non ha alcun senso». Anna De Meo all’Orientale insegna e studia la didattica e l’apprendimento delle lingue straniere; da qualche anno coordina un corso di perfezionamento per la didattica dell’italiano come seconda lingua. Come altri linguisti difende la legge utilizzata negli ultimi anni in Italia. «È una delle più moderne in Europa: prevede l’inserimento degli alunni in base all’età; sospende la valutazione dell’allievo in fase di acquisizione della lingua; dà indicazioni per adattare i programmi alle esigenze individuali», spiega la De Meo. Il problema è che «tutto questo è lasciato all’iniziativa e alle risorse delle singole scuole, senza alcun finanziamento statale». Nel 2004 parte un progetto pilota, “Azione Italiano L2”, per formare gli insegnanti in scuole con alta densità di stranieri. Il progetto si conclude con ottimi risultati, ma non viene più finanziato. Nel solco di questa esperienza nascono scuole di perfezionamento che formano gli specialisti della didattica per gli stranieri, ma di fatto manca una qualifica riconosciuta, e ogni scuola si organizza come può. A Napoli, scuole ad alta concentrazione di stranieri come la “Bovio Colletta” (elementare e media), alternano le lezioni di italiano L2 con gli interventi dei mediatori culturali, operatori di lingua materna degli studenti, soprattutto per lingue come il cinese. All’istituto tecnico commerciale “Volta” è stato organizzato un laboratorio intensivo: «Quest’anno abbiamo utilizzato le ore di educazione fisica e religione – racconta la De Meo –. Il progetto si conclude in questi giorni con il conseguimento da parte dei più deboli del primo livello di competenza riconosciuta. Non è un livello di sicurezza, ma riuscire a far sì che un allievo appena arrivato in Italia alla fine di novembre possa cominciare a far parte del gruppo classe è già un ottimo risultato». Sia la Bovio Colletta che il Volta possono contare su un piccolo gruppo di docenti che si è formato con il progetto ministeriale. Nella maggioranza delle scuole invece tutto viene lasciato alle buone intenzioni degli insegnanti. Tra gli interventi più pedestri ci sono quelli che associano gli alunni stranieri con i portatori di handicap, mettendo problemi linguistici e cognitivi sotto la tutela di un’unica insegnante di sostegno. In questo quadro così complesso, la mozione della Lega sembra azzerare tutte le sperimentazioni iniziate con il progetto pilota. «Nel momento in cui si attiva una classe di inserimento degli studenti stranieri – aggiunge la De Meo – dovrebbe essere un’unica classe per ogni scuola e quindi accogliere alunni diversi per età? In primavera abbiamo aperto una classe di italiano per preadolescenti e adolescenti. Ci siamo ritrovati con bambini di sei anni e ragazzi di quattordici. Abbiamo dovuto dividerli in sei gruppi, offrendo una didattica ludica ai bambini mentre i più grandi chiedevano elementi di riflessione in più. Ci sono le energie per attivare tante classi con magari uno o due allievi? E se volessimo davvero un modello di classi separate dovremmo prevedere un team di docenti specializzati nella didattica dell’italiano L2 e contemporaneamente nelle varie discipline». Secondo la De Meo si possono però individuare delle priorità: soprattutto «il riconoscimento dell’insegnante di italiano L2 come figura professionale; e prevedere una struttura che non sia di allontanamento dalla classe: l’allievo va inserito in classe, per età, lavorando sulla lingua in orario diverso da quello curricolare, lungo tutto il periodo della formazione». (vs) DICEMBRE 2008 SpaZi&puBbLiCi Ex studentato Miranda. Mai più per gli studenti? L’ex Casa dello studente “Miranda” è una struttura pubblica che si trova alle spalle della facoltà di Veterinaria. Negli anni Sessanta ospitava i ragazzi che si trasferivano a Napoli dalla provincia per frequentare i corsi universitari. Oggi l’ingresso della struttura, quello che in origine era un giardino, è uno spazio dominato da rifiuti ed erbacce. Superato ciò che resta dell’ingresso, si accede a un edificio completamente diroccato. Lunghi corridoi disseminati di calcinacci, vetri infranti, scale pericolanti, sporcizia ovunque. Tre piani di desolazione. Eppure, nel 2002 la Regione Campania aveva ceduto il Miranda al Formez, che si era impegnato a recuperarlo e a trasformarlo in un centro di formazione e di ricerca. Quella decisione non piacque a molti studenti di Veterinaria, i quali avrebbero preferito un progetto di recupero della struttura per usi abitativi. Avrebbero voluto che diventasse una nuova casa dello studente, più che mai necessaria in una città in cui i fuori-sede sono abbandonati al mercato selvaggio degli appartamenti per studenti. La Regione scelse una strada diversa, non senza alcuni incidenti di percorso. Nel piano per l’edilizia universitaria, approvato nel 2001 e tuttora in gran parte non realizzato, l’edificio Miranda era indicato tra quelli da recuperare e adibire a casa dello studente. Da quel testo derivarono equivoci e proteste, perché gli universitari, carte alla mano, pretendevano che quell’impegno fosse rispettato. Chiesero e ottennero anche alcuni incontri in Regione, durante i quali spiegarono le loro ragioni. Invano. «L’inserimento del Miranda nella delibera sulle residenze universitarie è stato un mero errore materiale», dissero all’epoca i collaboratori del professor Nicolais, allora titolare della delega all’Università a palazzo Santa Lucia. Nicolais garantì peraltro che avrebbe chiesto al Formez la restituzione dell’edificio, qualora, entro pochi anni, non fossero stati realizzati i lavori di ristrutturazione per i quali si era impegnato il centro di formazione. Il tempo è trascorso, i lavori non sono stati compiuti, ma la struttura è ancora del Formez. È stata ora inserita nel programma di recupero del centro storico, dove peraltro si ribadisce che la responsabilità dell’intervento per il Miranda è del centro di formazione. Tempi e modalità restano vaghi e gli studenti rimpiangono l’opportunità perduta. È ancora tutto da scrivere, dunque, il nuovo capitolo della storia del Miranda: casa dello studente prima, alloggio precario per i terremotati nel 1980, centro sociale autogestito nella metà degli anni Novanta, rifugio di emarginati e senza fissa dimora tra il 1995 e il 1997. Chi c’era in quell’epoca ricorda Leo, un cinquantenne giramondo con problemi di alcool, che sarebbe morto di lì a poco; Palli Palli e i suoi cani enormi; uno scozzese sornione che, per raccogliere spiccioli in giro, imitava un albero surreale; due adolescenti tedeschi con un bimbo di pochi mesi; un nigeriano di passaggio; qualche giocoliere di strada. Vivevano tutti senz’acqua calda e senza elettricità. La sera le poche stanze abitate si illuminavano dei fuochi dei fornelletti da campo con i quali si preparava la cena. Furono tutti cacciati nel 1997. Le cronache raccontano dello stupore dei vigili urbani al cospetto dei murales e dei disegni sulle pareti. Credevano di trovarsi al cospetto di qualche setta satanica, invece che di un gruppetto di povericristi. Da allora, nessuno ha più frequentato i corridoi spettrali di quel palazzone che, nelle giornate limpide di inverno, regalava il tepore del sole di mezzogiorno e una spettacolare vista su Capri. (fg) MuSici&pAroLe Una birra con Jim. Da New Orleans seguendo la banda L’americano è nero, e così grasso che deborda dalla panchina su cui ci siamo seduti a parlare, un caldo pomeriggio piovoso, nella grande piazza vicino al porto sul fiume Mississipi, a New Orleans. L’americano sorseggia una birra, nascosta da una piccola busta di carta da imballaggio, perché qui è vietato bere per strada. Poggiato a terra accanto a lui, troneggia il suo sousaphone, uno strumento d’ottone enorme, pieno d’ammaccature e ossidato di verde. Jim, così si chiama l’americano, lo suona in una marchin’band, una formazione che ricorda le nostre bande di paese, ma con lo swing e l’energia della musica di queste parti. Mentre suonano, lanciano collanine e braccialetti ai passanti: molti li seguono, e vanno a infoltire la second line, dove tutti ballano e fanno festa, anche nei giorni di lavoro, anche oggi, che piove. Eppure, Jim ha l’aria seria e non sembra avere molto da festeggiare. Gli chiedo come mai: «Oh man, I’m ok», mi risponde, quasi stranito dalla domanda. Forse l’espressione cupa ce l’ha dipinta sul volto. Nonostante tutto è cordiale e disponibile con uno straniero che, come me, ha solo voglia di fare qualche domanda. Di sera, Jim lavora in un ristorante famoso da queste parti, dove si assaggiano i migliori piatti cajun, di cucina creola. Fa il lavapiatti: sono tutti neri qui i lavapiatti, gli spazzini, gli operai. Nero è sinonimo di workin’class: siamo nel vecchio sud. Gli chiedo se è vero, o se è solo un’impressione indotta dalle mie sovrastrutture. «Man, guardati attorno: non ci sono neri. Stanno tutti nei suburbs. È lì che dovresti andare, per incontrarne. Il centro della città è roba da turisti. Sei stato, ad esempio nel Northern District?». Ci sono stato, è un ammasso di piccole case a un piano, circondate da un cortile. È lì che l’uragano, nel 2005, ha colpito maggiormente, e i disastri ancora si possono vedere: tetti divelti, cancellate distrutte, un odore di marcio. Non è stato fatto molto per la ricostruzione. Eppure, il governatore della Louisiana è un afroamericano, democratico, eletto a grande maggioranza. Jim mi spiega, allora, che chi fa il politico dopo che l’hanno eletto si interessa poco ai problemi della sua gente, pensa solo a incamerare denaro, a fare affari, a prendere mazzette. A New Orleans c’è il tasso di corruzione più alto di tutti gli Stati Uniti: se vuoi aprire un negozio, o anche una bancarella nel French Market, e vuoi che nessuno venga a disturbarti, o che te lo chiudano per qualche problema burocratico, devi pagare qualcuno. Allo stesso modo, se vuoi godere degli aiuti federali, devi farti amico qualcuno. Se sei disoccupato – a New Orleans il tasso di disoccupazione è tra i più alti degli Stati Uniti – puoi garantirti un posto grazie all’amicizia di qualcuno. Ma chi è questo qualcuno? «Come la mafia, man, non conosci la mafia? Certe cose le sai meglio di me, sei italiano». E scoppia in una grassa risata, che mi fa provare un fastidio enorme. Cerco di cambiare discorso, e di farlo parlare dell’elezione di Obama a presidente. Jim non sembra poi tanto entusiasta. «Obama è nero, ma non è un fratello. Questa è roba che andava bene negli anni Sessanta. A me non importa se sei nero o bianco: io non vado nemmeno a votare, non ne vale la pena, dovrei andare a prendere il certificato elettorale e pagare, capisci? Non me ne frega un cazzo. L’unica cosa che mi piace di Obama è che è elegante, si muove bene, e poi sembra un tipo a posto. Comunque, se pure fossi andato a votare, non avrei votato per lui, per via del suo nome, e molti non l’hanno votato per lo stesso motivo». Cos’ha il suo nome che non va? «Si chiama Hussein, lo sai? Come il più grande nemico degli Stati Uniti. Certe cose non si dimenticano». Mi viene da ridere, ma cerco di trattenermi: ci vediamo, torna a suonare il tuo sousaphone, americano. Quelle canzoni antiche dicono molte più cose di quante tu riesca anche solo a immaginare. (cr) DICEMBRE 2008 Teatro /Molly Sweeney Radio /Case chiuse su Radio3 Buio pesto in sala. Le voci dei tre attori avvolgono lo spettatore accompagnandolo nel mondo di Molly Sweeney, fatto di suoni, odori e tattilità, gli elementi che animano la cecità, l’assenza della luce. Ci vogliono più di trenta minuti perché una sottile linea di luce illumini pochi oggetti sistemati su un tavolo che, insieme ad altri scarni elementi offuscati da un velatino, compongono la scena del nuovo lavoro del regista Andrea De Rosa (diventato intanto il nuovo direttore dello stabile napoletano). La comparsa della luce è la chiave di volta della vicenda raccontata da Oliver Sachs (il celebre neurologo e scrittore) e portata in teatro da Brian Friel. Molly è una donna inglese, cieca dalla nascita. All’età di quaranta anni incontra un oftalmologo interiormente ferito da vicende amorose, che con due operazioni chirurgiche riesce a restituirle la vista strappandola dal suo mondo personale fatto di immaginazione e oscurità. Molly approda nel mondo di luce e paranoia comune a noi esseri umani. Il pubblico è cieco e riacquista lentamente la vista, seguendo Molly nella sua parabola e nel suo abbandono alla crudeltà della vista. La vittoria della medicina si rivela una sconfitta della psiche, e nello spettacolo sembra di assistere alla disfatta della razionalità medica di fronte alle incerte e irrazionali deambulazioni dell’Io. La scoperta delle cose così come sono, della forma degli oggetti e dei colori dei fiori per intenderci, sono raccontate dalla prospettiva di una sostituzione di mondi capace di rapire lo spettatore, incerto tra l’euforia di una vista ritrovata e la nostalgia incipiente di un mondo scuro ma denso, unico, personale. L’educazione al mondo di tutti la fa cadere in una fortissima sindrome depressiva che si materializza con il rifiuto ostinato di aprire gli occhi che, già pochi mesi dopo l’operazione, manterrà irrimediabilmente serrati, sbarrati, in un estremo tentativo di respingere la luce. Molly finirà i suoi giorni nel letto di un ospedale psichiatrico. Il velatino che separa la scena dal pubblico immerge l’azione nell’opacità della vista sbiadita, nell’incertezza dei contorni regalando a chi guarda la fugace impressione che si immagina abbia vissuto e tramortito Molly. Lo spettacolo è una conferma del talento del regista ma anche della ricezione possibile che la città può avere di opere ingegnose, che finalmente riescono a portare un soffio di innovazione, o quanto meno uno stimolo alla contaminazione degli elementi di scena diventata rara negli ultimi anni. Chissà se l’alone di cecità che sembra avvolgere Napoli, non proceda verso la sottile linea di luce in grado di regalarci non soltanto un’illusione di miglioramento, ma un’apertura vera a linguaggi complessi e opere non convenzionali. (-ma) «La prostituta era una donna complicata», sentiamo raccontare da una voce impastata dall’accento napoletano. È un piccolo frammento delle interviste raccolte per il documentario radiofonico dedicato al cinquantenario della Legge Merlin. Senza immagini ma grazie a materiali sonori differenti (interviste, spezzoni di film, letture) viene raccontato uno dei fenomeni della modernizzazione del paese. Le città di Napoli, Bologna, Genova e Roma fanno da sfondo a una narrazione ben congegnata. I bordelli del vico Lungo Gelso, di Santa Lucia e del corso Vittorio Emanuele ci aiutano a territorializzare un racconto che ha molto a che vedere con la città. La rinuncia alle case chiuse che aprì alla trasformazione dei costumi della società italiana del boom economico, è declinata dai ricordi dei maschi; la prospettiva adottata quindi, sembra essere quella del cliente. Nei racconti delle quindici puntate, emerge un mosaico di testimonianze efficaci che restituiscono all’ascoltatore la dimensione proibita e desiderata dei bordelli d’altri tempi. Non ha niente di nostalgico l’audio-documentario, anzi mira a storicizzare una pratica sociale che ritorna paurosamente nel mondo dell’oggi attraverso i tentativi sotterranei di riapertura di locali o zone delle città in cui ghettizzare la domanda e l’offerta di sesso mercenario. È un ascolto efficace e piacevole anche se alcuni dettagli indeboliscono l’impianto narrativo. Era forse necessario un contesto più ampio di quegli anni, a fronte di materiali che si collocano a metà tra la microstoria e la storia orale. Le voci sono dei clienti o potenziali tali, sono cioè filtrate dal vissuto di uomini, maschi; delle testimonianze femminili dirette, e non solo affidate alle letture, avrebbero forse complicato ulteriormente la vita degli ascoltatori. Anche le norme, le regole ad esempio delle case (gli orari, le misure igieniche, i prezzi etc.) vengono raccontate non tanto da chi le subiva – le prostitute – ma da chi era costretto ad adattarsi – i clienti. In ogni caso lavorare con materiali sonori consente di aprire una breccia nell’inflazione di immagini che ci circonda, lascia spazi d’immaginazione. (-ma) Molly Sweeney di Brian Friel. Regia: Andrea de Rosa. Con Umberto Orsini, Leonardo Capuano e Valentina Sperlì. Teatro Stabile di Napoli Mercadante dal 26 novembre al 7 dicembre 2008. Così fan tutti. Documentario radiofonico di Lea Nocera e Daria D’Antonio, Radio3 Rai, dal 24 novembre al 12 dicembre, dal lunedì al venerdì, ore 23,30-00, oppure dal podcast del sito di radio tre Musei /Un dj al Madre Teatro /Tanti inferni sul palcoscenico Tanti i teatri in città, e le compagnie, differenti per provenienza e poetica, che propongono nello stesso momento storico, declinazioni diverse dello stesso tema: l’inferno. Variazioni anche distanti tra loro che ripetono però ossessivamente lo stesso motivo. Al Bellini, Inferno. Emiliano Pellissari porta in scena sei acrobati e danzatori che sembra abbiano sconfitto il concetto di peso. Galleggiano attraverso un velo in una sorta di acquario. La voce di Gassman, montata su delle basi elettroniche, declama frammenti di Commedia dantesca. È uno sfondo, pare quasi scenografia. In primo piano invece il trucco teatrale delle evoluzioni dei corpi. L’idea delle anime che hanno abbandonato il peso del corpo e si aggirano nello spazio con disegni simmetrici, è estetizzante a tratti, ma molto suggestiva. I corpi nudi de La Pelle di Curzio Malaparte, messo in scena da Marco Baliani al Mercadante, nuova produzione dello stabile di Napoli. Nascosti dietro la bandiera italiana nella prima scena, raccontano una seconda guerra mondiale che vuole essere specchio dei nostri tempi. Esseri umani ridotti a oggetti e cose, corpi senz’anima. Ambientato a Napoli perché “lì il ventre è più scoperto, il trucco non c’è più, il teatro è ormai a cielo aperto. Ma lo spettacolo non è sulla Napoli del dopoguerra ma sul nostro mondo, sul nostro oggi”, ci illustrano le note di regia. Aggiungendo poi che “lo Testi / Tommy Riccio nati / E s’accuntentano e leggere ‘na cartulina... Nun se po’ vivere addò nun ce stanno ‘e speranze / addò ce manca ‘a funtana pe’ vevere ‘a vita / addò te scuorde ‘o sapore che tene ‘o ppane / Nun se pò vivere addò vire ‘e figlie ‘e murì. ‘stì grossi valigie attaccate co’ spago / Partono e lassan’ ‘a terra addò so’ Rit ...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore / so venuti a faticà, ce cercano ‘na mano pe’ potersi realizzà e nui che l’aiutammo: pure lloro hanna campà ...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore ‘nammurati ‘e stà città / ‘e femmene chiù belle ‘nzieme a lloro stanno cà / teneno ‘o stesso core, talequale comme nuje napulitane Nuje simme nati e cresciuti campanno dint’ o bene / figli ‘e sta terra addò ‘a pioggia fa crescere ‘o grano / Nun se sgarrupano ‘e case, nun chioveno ‘e bombe spettacolo segue l’andamento per frammenti del libro, procedendo in una successione di quadri che ricorda il susseguirsi dei gironi infernali”. Frutto di un lungo laboratorio, in cui si mostra il lavoro sullo svuotamento del corpo dal suo principio vitale, sul corpo-marionetta mosso dall’esterno. La messa in scena della “Pelle” come superficie visibile senza niente dietro. La prostituzione, metafora dell’oggi. Al San Ferdinando, A sciaveca, (Premio Tondelli 2007) tragedia in versi in lingua flegrea di Mimmo Borrelli, messa in scena da Davide Iodice. “Una sorta di marina commedia che annega Dante nel mare colerico della penisola flegrea (…) derelitti miserabili e presenze demoniache, macello di carni e spiriti fluttuanti”. Qui l’Inferno raccontato è la “catastrofe di una comunità che si dibatte nel suo colera” e il percorso che ha portato allo spettacolo, articolato in più momenti, ha visto anche una tappa della messa in scena su una barca nel lago d’Averno, anticamente considerato la bocca degli Inferi. La provenienza geografica flegrea, che dà forma alla lingua e alla storia, sembra funzionale alla messa in scena di un’altra catastrofe, di un’altra comunità affetta da un altro colera. Non necessariamente un colera napoletano, un’inferno di città, ma una città metafora di un altrove, comunque infernale, forse per questo sempre al centro del discorso. (ac) Quanta creature sta’ terra ha saputo salvà Rit ...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore / so venuti a faticà, ce cercano ‘na mano pe’ potersi realizzà e nui che l’aiutammo: pure lloro hanna campà / ...e stanno ccà, chisti guagliun’ ‘e fore / ‘nammurati ‘e stà città, ‘e femmene chiù belle ‘nzieme a lloro stanno cà / teneno ‘o stesso core, talequale comme nuje napulitane Purtroppo miez’ a vuje esiste chillo che nun ha capito niente ‘a libertà se perde dint’a nu mumento: nun’a facite male a ‘sta città E guagline ‘e fore / T. Riccio DICEMBRE 2008 Nella valle dello Zambesi Viaggio in Mozambico tra i contadini che arrivano in città fuggendo dalle inondazioni. La maggior parte degli abitanti vive di agricoltura di sussistenza e resta sotto la soglia di povertà. Intanto il governo offre i terreni migliori sul mercato internazionale S iamo arrivate a Beira nel pieno di un inverno da venticinque gradi all’ombra, lasciando a casa un’estate più fredda. Gli aeroporti mozambicani hanno un fascino particolare e una terrazza grande affacciata sulla pista, dove scorgiamo subito chi ci aspetta: i muzungo – i bianchi – qui sono decisamente facili da individuare. Stefano ha prenotato i posti nella chapa, dove passeremo le prossime sette ore in viaggio. Ai lati della strada c’è un mondo che si muove ad altro ritmo: una carovana infinita di persone a piedi o in bicicletta procede lungo le rotte di un tragitto commerciale portando sul capo merci varie, avvolte da stoffe solari. Bivio di Gorongosa. Le capanne che si disperdono all’orizzonte sembrano piccolissime tra gli imponenti baobab e i termitai giganti. Ancora un paio d’ore. Sera. Sena. Passeremo qui le prossime settimane, nel cuore della Valle dello Zambesi, cercando di comprendere le condizioni di vita dei suoi abitanti e i fenomeni che stanno trasformando il territorio. Comincia la nostra inchiesta. Il rituale è sempre lo stesso. Ci fermiamo ai margini di un lotto delimitato da bassi arbusti e chiediamo il permesso per passare attraverso una porta immaginaria: «com licenzia…». Varchiamo una soglia che non è fisica, eppure percepiamo ogni volta di essere entrate in uno spazio privato. Ci accoglie di regola il capofamiglia o, in sua assenza, una delle mogli. La stuoia viene stesa a terra sotto l’ombra della frondosa massaniquera, al centro dello spazio circolare generato dalla disposizione di piccole costruzioni, che messe insieme formano il mudzi. Accomodati in questi salotti africani, ricoperti dalla curiosità di bambini e vicini, ascoltiamo le voci di questa città rurale che rivelano l’incrocio di abitudini ancestrali, proprie di un mondo agricolo, con aspirazioni tipicamente urbane. Pochi a Sena sono quelli che hanno un reddito fisso come impiegati nelle deboli strutture pubbliche. Qualcuno è commerciante e gode della felice posizione di transito della cittadina, a pochi chilometri dal Malawi e a tutt’oggi sede dell’unico ponte sullo Zambesi. La maggior parte della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e resta al di sotto della soglia di povertà. Baltasar, come molti qui del resto, percorre ogni giorno due ore di cammino che separano la casa dalla machamba. Qui coltiva miglio, mapira e fagioli, con l’aiuto della sua microimpresa familiare di tre mogli e quindici figli. Il lavoro nei campi non consente il soddisfacimento del fabbisogno alimentare e ci si inventa ogni giorno un modo per integrare le entrate con attività occasionali, i buscados. Le donne raccolgono legna, il figlio maggiore recupera a Nhampanda paglia per rivestire i tetti. Paula, la seconda, va in conoscenza con esistenze così precarie da essere messe a rischio da un morso di zanzara, un’inondazione, la siccità o perfino da un ippopotamo incazzato. Alla sera torniamo pensierosi dai padri Saveriani che ci ospitano. Portiamo sempre qualche birra per risollevare gli bicicletta a Chola a comprare pomodori da rivendere al mercato centrale e raccoglie pietre da costruzione su commissione. João fa il venditore ambulante di capulane stoffe colorate e multiuso - di cui fa scorta all'ingrosso al mercato centrale. Buona parte dei guadagni dei buscados serve per le spese mediche. L’aids, anche quando non è dichiarato, è palpabile e diffusissimo. In caso di malattia si ricorre al curandero, poi all’ospedale. Da queste parti la malaria, così come le infezioni causate dall’acqua raccolta nei pozzi, sono malattie ordinarie, di cui è stato affetto e spesso colpito a morte almeno un membro della famiglia. Ai bambini non viene dato un nome finché non sopravvivono ai primi tre o quattro anni di vita. Lo stupore aumenta ogni giorno, mano a mano che approfondiamo la spiriti. Il convento è una specie di fortino bianco intonacato, in mezzo a un paesaggio di costruzioni di terra e paglia. C’è l’acqua corrente e una bella scorta di alimenti in scatola. Piccoli privilegi a cui nessun essere umano, potendo, sa rinunciare. Potremmo restare ore ad ascoltare le storie che ci narrano sulla variegata umanità incontrata nella loro esperienza di missionari. Ci raccontano anche delle profonde trasformazioni della Valle dello Zambesi. I padri hanno da poco sottoscritto una lettera con la quale denunciano il governo mozambicano, accusato di coprire la cattiva gestione della diga di Cahora Bassa, che sta un po’ più a nord, nella provincia di Tete. La diga ha un ruolo fondamentale nel regolare la portata dello Zambesi, ma è gestita al solo fine di massimizzare i Università, ultime ondate F orse la mia è solo una difesa di categoria, perché sono ancora studente. Ma a mio discapito posso dire che non ho mai frequentato molto né l’università né i vari collettivi. Difendo l’Onda, con un ottimismo forse ormai fuori luogo, perché mi è sembrato che a settembre abbia portato una boccata di aria fresca. Perché ho visto scendere in piazza persone molto diverse tra loro, con esperienze politiche in alcuni casi divergenti e in molti casi inesistenti, che si ritrovavano a difendere insieme una serie di principi semplici e banali, che però ultimamente non sembrano difesi da nessuno. Come la visione di un’istruzione pubblica che sia un servizio e un diritto, accessibile anche a chi non può permettersi rate da Luiss e possibilmente di qualità dignitosa; di un ricambio generazionale che permetta di regolarizzare quei ricercatori precari che reggono una parte sempre più consistente della didattica e della ricerca nelle nostre università; di un percorso scolastico che dalla materna all’università possa offrire le stesse possibilità a tutti o quasi, e che non sia un triste parcheggio dalle risorse striminzite. Saranno forse solo slogan, ma nel giro di un paio di mesi, tra una finanziaria e un decreto legge, si è deciso del futuro di molte persone sulla base di ragioni economiche e territoriali, e l’istruzione si è allontanata sempre più velocemente da quel poco che rimaneva dell’idea di un servizio pubblico. Proprio perché già ne rimaneva poco, l’Onda ha cercato di rilanciare il più possibile la posta in gioco, per rimettere in luce altri meccanismi rovinosi ereditati dalle passate legislazioni: dall’autonomia degli atenei all’istituzione del 3+2, fino allo stesso sistema dei crediti formativi. La prima grande manifestazione a Napoli, il 29 ottobre, racchiudeva questo e molto altro. Il corteo era stato bello Riti ancestrali e urbani si fondono a Sena soprattutto perché nato in maniera spontanea, dopo che i cortili dell’Orientale e della Federico II non erano riusciti a contenere tutti i partecipanti alle assemblee della mattina: da lì era partito un fiume che si era riversato a piazza Plebiscito. La settimana dopo il corteo era già più strutturato, con una serie di invenzioni coreografiche – travestimenti, figure e numeri di cartapesta, disegni disseminati sui muri e sull’asfalto. Forse questa idea di essere per forza innovativi e diversi rispetto ai movimenti precedenti era un po’ una fissa, ma a me pareva che evitando di farci appiccicare addosso etichette stantie si poteva avere qualche possibilità in più. Per questo mi sono venuti i brividi quando alla fine di questo secondo corteo le casse del camioncino hanno suonato “bella ciao” e “rigurgito antifascista”: che c’entravano? Di fatto poi l’effetto novità si è pian piano smorzato, e il coordinamento è passato sempre più nelle mani di quelli con esperienza politica consolidata. Il punto di svolta era per molti l’elaborazione di profitti della produzione di energia elettrica. Di conseguenza, il fiume straripa continuamente, inondando la valle e producendo gravi danni per chi lì vive e coltiva la terra. Negli ultimi anni il governo mozambicano ha messo in piedi un massiccio piano di trasferimento della popolazione dalla valle alle più sicure città di Caia, Sena e Murraça. Moltissimi fondi sono stati stanziati a questo scopo, con il cospicuo intervento delle organizzazioni internazionali. Ma quale potrà mai essere – in un luogo così arido e distante dalle coltivazioni – il destino di questa popolazione recentemente inurbata, che intanto continua a vivere di agricoltura? Dove troveranno i fondi le misere amministrazioni locali per offrire loro servizi e lavoro? Sono molte le domande che ci frullano in testa mentre intervistiamo i governatori locali che ci spiegano le loro politiche a medio e lungo termine. Il governo mozambicano ha deciso di proporsi sul mercato internazionale offrendo i migliori terreni agricoli alle imprese straniere per la coltivazione di biocombustibile. La valle dello Zambesi, con le sua fertili zone alluvionali, è una zona ideale e vanta già diversi investitori potenziali… che coincidenza fortuita che i contadini l’abbiano dovuta abbandonare. Gli amministratori ci prospettano fieri il roseo futuro dei nuovi cittadini da impiegare come braccianti nei latifondi, ma finalmente iniziati a uno stile di vita urbano e moderno. Del resto, si sa, lo sviluppo è inevitabile, soprattutto se la Banca Mondiale ha già in cantiere una Spatial Development Iniziative per la Valle dello Zambesi, grazie alla quale pioveranno sul territorio finanziamenti stranieri, grandi infrastrutture, megaprogetti. La fotografia scattata il giorno del nostro arrivo si fa lentamente più nitida, ma resta l’amara sensazione di aver solo intuito un mondo che reclamava maggiore profondità di comprensione. Ne parleremo a lungo durante il nostro viaggio verso nord. Ce ne andiamo percorrendo una strada asfaltata di fresco. Quello sviluppo di cui abbiamo discusso intere serate davanti a matapa e birra eccolo lì, sotto i nostri piedi. Stiamo per attraversare in barca lo Zambesi, nel punto in cui si costruisce il nuovo ponte. I piloni ormai ci sono tutti e Caia, dove un anno prima neanche c’era l’elettricità, ora di notte con i suoi bagliori fa competizione alla luce piena della Via Lattea. (rn/cm) proposte e rivendicazioni precise, cosa che doveva accadere nel corso dell’assemblea plenaria alla Sapienza il 15 e 16 novembre, seguendo l’idea affascinante di un’auto-riforma dal basso. Ma da Roma non è uscito quello che ci si aspettava, magari anche per la difficoltà di mettere insieme troppe teste e realtà diverse, e da allora la partecipazione è calata lentamente. Dopo qualche segnale di attenzione iniziale, il governo ha scelto efficacemente di ignorare il movimento. Gli studenti sono stati lasciati a cuocere nel loro brodo. Mentre alla Cei è bastato accennare un lamento sui tagli alle scuole paritarie, previsti nella stessa finanziaria, perché il governo il giorno stesso si affrettasse a modificare quel comma con un nuovo emendamento. L’ultima speranza ora è nello sciopero generale del 12 dicembre, nel tentativo di unire la protesta degli studenti a quella dei lavoratori, che pagheranno lo stesso tipo di politiche governative. Poi, non si sa. Se non altro, una boccata d’aria sarà servita a rinfrescare vecchie e nuove idee. (vs) Napoli Monitor, anno 3, numero 19 Autorizzazione del tribunale di Napoli n°111 del 21/12/06 direttore responsabile: riccardo orioles a cura di: roberto carro, luca rossomando, cyop&kaf, miguel angel valdivia, marcello anselmo, francesco feola, renata pepicelli, bernardo de luca, fabrizio geremicca, alessandra cutolo, viola sarnelli impaginazione: roberto carro disegni: kaf e malov(copertina), diego (2/3), cyop (4), malov (5), ciro (6/7), aria (8), dalisi (9), dalisi, ciro (10) ciro, malov (11) ciro (12) hanno collaborato: salvatore porcaro, ciro riccardi, capitoloprimo.it, costanza boccardi, gianluca vitiello, roberta nicchia, cristina mattiucci, vito costanzo, salvatore maglione a pietro e portelli jr redazione: vico Santa Maria del pozzo 43/b c.a.p. 80137 Sanità - Napoli stampa: SAMA Quarto info: [email protected] napoli, 8 dicembre 2008