July 21st, 2015 Published by: massicov Tell Me Chigiana: un progetto di storytelling per il #classicoinatteso Tell me Chigiana ha raccontanto con immagini, interviste e recensioni il Chigiana International Festival and Summer Academy 2015. Tell me Chigiana è una redazione per la comunicazione digitale coordinata da Massimiliano Coviello e Laura Tassi e composta da Antonella Varvara, Carla Monni, Francesco Milella e Vera Vecchiarelli. un vincolo contenuto nell’atto di donazione alla Biblioteca, le musiche erano rimaste chiuse alla consultazione. Un vincolo sciolto solo grazie all’interessamento del Vice Cancelliere della Reale Accademia d’Italia. Il criterio scelto dalla Chigiana per la selezione delle musiche in programma fu quello di eseguire tutti gli aspetti della produzione vivaldiana (teatrale, religiosa, strumentale e cameristica), concentrandosi – per quanto possibile – sulle musiche inedite. In questo modo Siena «era destinata a rivelare al mondo, per la prima volta dopo due secoli, degli aspetti sommi dell’arte vivaldiana» (dal programma della Settimana Musicale Senese, 1939). A dire il vero, l’idea di consacrare la prima Settimana Musicale a Vivaldi venne al Conte Chigi già nel 1928, in reazione all’esperienza del VI Festival della Società Italiana di Musica Contemporanea, organizzato a Siena da Alfredo Casella. Ri-comporre Vivaldi 10 lug 2015 di Vera Vecchiarelli Richter e Vivaldi. Un binomio ormai assodato, un successo da milioni di contatti su Youtube e Spotify, approda a Siena ed è la prima delle celebrazioni estive del 50° anniversario del Conte Chigi. Il concerto è una chiave di lettura rappresentativa della programmazione 2015: classico come «concetto non solo legato al passato, profondamente inserito nelle radici della nostra storia e della nostra cultura, ma anche all’energia del presente» spiega il Direttore Artistico Nicola Sani. Quindi un ponte tra ieri, oggi e domani. Vivaldi funziona come anello di congiunzione tra passato e presente, tra Richter, il Conte Chigi e l’Accademia. Perché Richter è un ex allievo della Chigiana, così come il compositore spiega in un’intervista, e come tutti gli ex allievi mantiene un legame affettivo con l’Istituzione: «amo Siena, amo l’Accademia, è un’occasione perfetta. In un certo senso per me sarà un ritorno». Perché Siena vanta un primato prezioso nell’ambito della Renaissance vivaldiana, che ha permesso nel corso nel Novecento la vera e propria riscoperta dell’autore veneziano. Il programma della prima Settimana Musicale Senese (1939), era dedicato infatti a Vivaldi e interamente basato su musiche italiane del Settecento. Gli inediti vivaldiani erano stati studiati a partire dal 1936 dalla violinista Olga Rudge, Segretaria dell’Accademia, ed erano di proprietà della Biblioteca Nazionale di Torino. A causa di I documenti d’archivio ci svelano i retroscena dell’iniziativa, relativi in particolare alle reciproche reticenze tra i compositori contemporanei e gli amanti di un tipo di musica più tradizionale. Nelle Ricordanze il Conte scrive: Della Settimana Musicale festivaliana del 1928, io trassi l’idea delle attuali Settimane settembrine, che nel 1939 organizzai e sostenni in onore di Antonio Vivaldi, [...] monito severo e giusto alle tante, alle troppe musiche… farmaceutiche che infestano, straziando orecchie e offendendo la Divina Arte, quella vera, scritta con tutte «maiuscole» ed a massima onta di molti odierni così detti «Maestri», quali non sono che dei poveri, miserevoli «farmacisti»… con tutte «minuscole»! D’altro canto, ecco quanto comunicato il 10 luglio 1938 da Alfredo Casella in merito all’invito a partecipare alla Settimana Vivaldiana rivolto a Ildebrando Pizzetti: Carissimo Conte, sta bene per la riunione “vivaldiana” al 24. Per quanto riguarda Pizzetti, credo che Ella farà bene invitandolo. Dubito però che venga, perché ha dato una adesione subordinata ai suoi soliti ma, se ecc.; cioè ha detto che voleva prima conoscere le opere teatrali del prete rosso per sapere se non erano in contraddizione coi noti principi drammatici che egli difende da anni. Insomma una polemica e un dibattito accesi, che vedono la Chigiana giocare un ruolo importante. A distanza di oltre 75 anni Vivaldi è ancora protagonista, stavolta “ricomposto” con l’apporto dell’elettronica, un tentativo – come spiega Richter – di «riconnettersi con l’originale, di riscoprirlo, di cercare una nuova a strada attraverso questo magnifico paesaggio che Vivaldi per primo aveva disegnato». 1 July 21st, 2015 Published by: massicov Fondatore nel 1989 dell’ensemble “Piano Circus”, con il quale irrompe nei templi dell’hard rock londinese, il lavoro di Richter è da sempre caratterizzato dalla ricerca di percorsi trasversali, di una via di mezzo tra l’impegno compositivo, il confronto con altri generi musicali e con il balletto, l’arte, il cinema. rompere l’isolamento della musica d’oggi rispetto al grande pubblico. Secondo Richter la musica classica è sempre stata viva e contemporanea, e i compositori sono chiamati a cercare nuovi strumenti, nuovi stili espressivi, nuovi modi di raccontare storie, in linea con il loro tempo. Come ha spiegato Stefano Jacoviello nel lounge di ieri sera, il lavoro di Richter è il risultato di una riflessione filosofica sul tempo che muove dalle esperienze delle maggiori correnti musicali del Novecento. L’inaugurazione dell’International Festival and Summer Academy segna un nuovo inizio, ed è naturale per l’Accademia ricominciare proprio dal Conte, riprendere il filo dove l’aveva lasciato, ripartendo idealmente proprio dai concerti delle Stagioni storiche. Il problema del tempo nella musica del XX secolo coincide con la nascita e diffusione del disco, che altera profondamente le dinamiche dell’ascolto. Se prima la musica poteva essere ripetuta solo con l’esecuzione dal vivo, sempre uguale e sempre diversa, con la riproduzione meccanica del suono si inizia a riproporre sempre uguale a se stessa, ma in tempi e luoghi diversi. Ha dichiarato Stefano Jacoviello, protagonista del Chigiana Lounge di questa sera (ore 19.00, Ridotto del Teatro dei Rinnovati). La musica di Richter nasce da una profonda meditazione sul tempo, sulla memoria della musica e sul modo di ascoltarla attraverso le epoche. Con il suo lavoro di ricucitura, Richter ci fa capire immediatamente che, sebbene le note di Vivaldi trovino un’eco negli archi della disco-dance, è anche vero che oggi per noi è quasi impossibile ascoltare Vivaldi senza Gloria Gaynor. Infra per pianoforte, archi ed elettronica, originariamente composta per balletto, trova la sua forma definitiva nell’album della “FatCat Records” del 2010, interpolata con materiali melodici della Winterreise di Schubert. Dunque ancora un modo per ripensare, ricomporre e riassemblare il passato; per rileggere un classico con gli occhi personalissimi di un compositore immerso nell’oggi. Tra gli spettatori molti giovani, nuovi alle sale concertistiche, arrivati a Siena per l’occasione con il biglietto acquistato già da alcune settimane. Perché Richter vanta un pubblico affezionato e trasversale. Ciò scatena una rivoluzione filosofica, una vera e propria battaglia sul tempo, che conta tra i suoi storici protagonisti Pierre Schaeffer e la musique concrète. Questi cercano di annullare la consequenzialità del tempo, costringendo il suono in un istante che suona sempre uguale a se stesso. Il tentativo di annullare il tempo si rivela però un fallimento. L’esperienza minimalista fa quindi un tentativo diverso: se il tempo continua a scorrere, non resta che “bloccare” l’ascoltatore al suo interno. Steve Reich isola così “cristalli di tempo”, e l’impressione data dall’ascolto è quella di stare immobili nel tempo, guardandolo passare. Richter si inserisce in queste riflessioni con un progetto musicale che parte dall’esperienza di Steve Reich arrivando a impostare una prospettiva diversa: egli scompone e ricompone la storia, e lo fa sia in maniera concreta, sia da un punto di vista filosofico. Richter taglia e concretamente riassembla la partitura vivaldiana, riscrivendola con l’apporto di strumenti figli del nostro tempo, quali il moog – sistema di sintetizzatori basati su tastiera – e l’elettronica; quindi lavora materialmente sul tempo musicale, allungando e tirando i metri originali. Se ad esempio le note di una melodia sono le stesse, ma non lo è più il metro musicale, noi riconosceremo quella stessa melodia e la percepiremo come parzialmente variata. Max Richter vs Kronos 11 lug 2015 di Vera Vecchiarelli Un teatro sold out, una platea attenta ed eterogenea, una grande partecipazione hanno segnato il concerto inaugurale delle attività estive dell’Accademia. Max Richter ha confermato il successo del suo progetto musicale, un’operazione collettiva, condivisa, che mira a L’operazione funziona tanto più se pensiamo all’utilizzo vivaldiano dei ritornelli, concepiti sin dall’origine proprio per essere fissati nella memoria, con un ruolo più incisivo rispetto alle esperienze musicali precedenti. Anche il rapporto con gli episodi solistici lavora in questa direzione: i ritornelli non hanno niente in comune con il resto del testo musicale, e proprio tale estraneità e disordine dei materiali crea una crescente attesa nello spettatore, accrescendone la sua funzione catalizzatrice. I ritornelli dell’opera di Vivaldi nascono quindi per essere ricordati; hanno cioè la funzione di veri e propri jingle, che si stampano nella testa e si ricordano per sempre. Richter sfrutta questa peculiarità, giocando proprio sulle dinamiche del ricordo: il riutilizzo di queste melodie è particolarmente 2 July 21st, 2015 riuscito perché conta su una solida memoria dell’originale. L’effetto ottenuto è quello di un riascolto effettivo di Vivaldi, ma filtrato dalla memoria e dalla distanza storica. Proprio la memoria è un punto fondamentale dell’operazione del Vivaldi recomposed. Ogni ricordo non è mai preciso e puntuale, ma selezione, rielaborazione, modifica. Partendo da questo assunto Richter lavora sul ricordo di quella musica e sul modo in cui Vivaldi risuona nel contemporaneo. Egli ci fa meditare su cosa ricordiamo noi di Vivaldi, cercando di creare una memoria di quella musica. La riproposizione in musica di un ricordo del passato implica quindi una sua attualizzazione: la musica antica è ancora musica d’oggi, ma per esserlo deve essere in qualche modo adattata al nostro tempo. Quindi anche suonata con gli strumenti che abbiamo a disposizione: «Se io scrivessi, oggi, come se la musica elettronica o il computer non esistessero, beh sarebbe abbastanza strano» (Max Richter). Roberto Fabbriciani: the flute explorer 11 lug 2015 di Carla Monni Il Chigiana International Festival & Summer Academy 2015 quest’anno mira a seguire la tradizione della storica Accademia Musicale Chigiana, rivolgendosi anche con lo sguardo verso i linguaggi contemporanei. Nulla di nuovo se si pensa che lo stesso Conte Guido Chigi Saracini, fondatore dell’Accademia, era uomo visionario e versatile, aperto alle diverse forme artistiche e letterarie. Un uomo che ha da sempre promosso e conferito all’Accademia un’esperienza inebriante, giovanile e curiosa. La molteplice proposta di quest’anno rispecchia dopotutto quello che era in passato l’idea delle Settimane Musicali Senesi, in cui nella raffinata sede Chigiana si respirava un’aria internazionale dove si studiava con «spregiudicatezza e libertà», un «luogo dotato di una sua spiccata originalità», ha scritto Roberto Barzanti in Profumi e dottrina, un articolo del 1982. Sia dal punto di vista didattico che artistico l’Accademia ha sempre puntato su nomi contemporanei, che hanno “modernizzato” lo stesso impianto della scuola senese. Published by: massicov Una delle personalità chiave fu Alfredo Casella che negli anni Trenta promosse la creazione di uno stile moderno, tentando una prima via di emancipazione dall’eredità soprattutto operistica ottocentesca e verista piccolo-borghese, di cui era impregnata l’intera musica italiana. L’idea dunque era quella di scuotere soprattutto e in primis i musicisti alle più svariate fondamenta musicali – per nulla unilaterali e piatte – e solo in seguito le “masse”. Per la prima volta quest’anno #ilclassicoinatteso dell’Accademia Chigiana aspira a un pubblico plurime e diversificato. Non solo dunque il semplice spettatore ordinario, pronto a riempire le sale del teatro e questo grazie a una programmazione in cui il rispetto della tradizione si innesta appieno nell’innovazione e nella contemporaneità. Nel programma de #classicoinatteso non poteva mancare Roberto Fabbriciani secondo cui «l’obiettivo è quello di portare la musica d’arte ad un pubblico più vasto». Interprete originale ed artista poliedrico, Fabbriciani è stato allievo e poi assistente di Severino Gazzelloni che dal 1965 al 1992 insegnò all’Accademia Chigiana, uno dei primi pionieri – negli anni Sessanta e Settanta – della riscoperta moderna in Italia del flauto, strumento che, grazie all’artista, iniziò gradualmente ad essere apprezzato per le sue singolari caratteristiche di agilità, bellezza del suono e alle ampie possibilità nell’utilizzo solistico. Grazie a Gazzelloni, Fabbriciani inizia una ricerca personale e sperimentale sul suo strumento, modernizzandone in seguito la tecnica e sviluppandone le potenzialità sonore. Tra i migliori interpreti a livello internazionale, Fabbriciani ha collaborato con alcuni tra i maggiori compositori del nostro tempo, tra cui Giacinto Scelsi, Bruno Maderna, Henri Pousseur, Luciano Berio, Franco Donatoni, György Kurtág, Luigi Nono, che questa sera omaggerà con il concerto intitolato The Flute Experience, per flauto solo ed elettronica, in cui il flautista percorrerà cinquant’anni circa di musica contemporanea mirando, citando il titolo, a far vivere un’esperienza totalizzante allo spettatore. Il programma di questa sera tocca le infinite sfaccettature avanguardistiche musicali della seconda metà del secolo scorso. Otto composizioni che hanno rivoluzionato il rapporto tra compositore ed esecutore ma soprattutto brani in cui lo strumento più antico del mondo – il flauto – viene “raccontato” in un viaggio tipicamente novecentesco e oltre, grazie alle tecniche strumentali più avanzate, che caratterizzano i linguaggi propri della musica contemporanea, e in cui, a partire dalla seconda metà del Novecento la live electronics – successiva all’avvento della musica per nastro magnetico – è ampiamente utilizzata. Per Fabbriciani la musica elettronica oggi «è un linguaggio indispensabile»; ma il flautista sostiene anche che l’aspetto tecnologico è servito a fare un nuovo passo avanti, ma non si compone perché si hanno nuovi strumenti ma perché un pensiero musicale innovativo per esprimersi ha bisogno di questi mezzi. Ciò che accomuna i lavori presentati questa sera è un’idea estetica che si aggira attorno all’esplorazione sonora; tutte opere in cui il suono viene plasmato come materia viva. Dallo sperimentalismo di Bruno Maderna con Cadenza tratto da 3 July 21st, 2015 Dimensioni III (1962) si passerà al virtuosismo richiesto in Sequenza I di Luciano Berio (1958); da una dimensione spaziale del suono in Das atmende Klarsein, fragment (1981) di Luigi Nono a una più mistica in Pwyll (1954) di Giacinto Scelsi; dal pezzo di vasto respiro elettroacustico Zeus joueur de flûtes (2006) che Fabbriciani compose assieme a Henri Pousseur sino all’espressionismo elettronico di Suoni per Gigi (2007) dello stesso Fabbriciani, dedicato alla memoria del suo amico Luigi Nono. Non ci resta dunque che attendere il concerto di questa sera, perché a detta di John Cage «qualsiasi cosa [Fabbriciani] suona è sempre nel modo migliore». Published by: massicov programma scelto dall’artista è una sintesi molto dettagliata di questo progresso che lui stesso ha contribuito a perseverare, cogliendola lezione e continuando in un certo senso la strada che aveva aperto negli anni Sessanta il flautista sperimentatore, suo mentore e maestro, Severino Gazzelloni. La scelta delle otto composizioni eseguite, che racchiudono circa cinquant’anni di musica contemporanea, non è casuale. Sono tutti brani in cui la materia sonora viene plasmata attraverso il flauto che trascende la propria natura, diventa percussione, esplosione polifonica, alito, sottile lamento e quant’altro concesso dalla fantasia dell’ascolto. Fabbriciani utilizza il suono per creare contrasti di puro colore e arricchisce la sua “tavolozza cromatica” con l’uso di trilli e note ribattute in Pwyll (1954) di Giacinto Scelsi, suoni ampi e virtuosistici in Cadenza, tratto da Dimensioni III di Bruno Maderna, salti agili e frenetiche scale ascendenti e discendenti in Sequenza I di Luciano Berio, i glissandi e i frammenti melodici e ritmici mobili nei due pezzi che compongono Midi di Franco Donatoni. Fondamentale per Fabbriciani, in linea anche con la poetica di alcuni compositori del Novecento, è l’indagine timbrica sullo strumento, che diventa aspetto centrale nella sua musica e nelle esecuzioni. Fabbriciani e le infinite nuance del suo strumento 12 lug 2015 di Carla Monni Un’atmosfera intima si è respirata ieri nel Cortile del Rettorato dell’antica Università senese per il secondo concerto de #ilclassicoinatteso con il poliedrico e originale artista Roberto Fabbriciani. La serata è iniziata con un ricordo dello straordinario pittore appena scomparso, Gabriele Amadori , che avrebbe dovuto prestare il suo pennello alle sonorità espanse di Fabbriciani, accompagnando il suo flauto in tempo reale con uno spettacolo che, sulla scia di Jackson Pollock, aveva chiamato Action Painting . L’obiettivo sarebbe stato quello di ricercare le infinite sfaccettature offerte dai loro strumenti, il flauto e il pennello, all’insegna della creazione musicale istantanea, con una certa libertà di linguaggio e una personale fantasia esecutiva. Al pari della pittura, anche la musica si esprime attraverso forme e colori. Il suono è materia e colore e, come scrive Kandinskij nello Spirituale nell’arte, i toni atmosferici dell’azzurro rappresentano musicalmente il flauto. E non è forse un caso che il titolo stesso della serata The Flute Experience, riecheggi quel colore azzurro kandinskijano dotato di un movimento orizzontale, concentrico e centripeto, perché si avvolge su sé stesso, creando un effetto di immersione che attira lo spettatore. Fabbriciani vuole infatti far vivere allo spettatore un’esperienza centralizzante, che si distacca dal tradizionale, proponendo un repertorio contemporaneo che ha innovato il flauto, diventato strumento principale della nuova musica. Il Uno degli elementi dominanti è sicuramente il soffio che utilizza in particolar modo in Doloroso di György Kurtàg, caratterizzato da una melodia ariosa e lirica, nel suo Suoni per Gigi, dedicato all’amico e collaboratore Luigi Nono, e in Zeus joueur de flûtes, un lavoro per flauto, nastro magnetico e live electronics scritto da Henri Pousseur e dallo stesso Fabbriciani nel 2006. In Zeus joueur de flûtes la parte del flauto, inedita, è molto complessa e prevede l’impiego di quattro tipi di flauti: basso, contralto, flauto in do e ottavino. Strumenti differenti, che grazie alla maestria dell’artista e secondo il proprio approccio interpretativo, riesce magistralmente a interpretare. Il flauto assume una veste “ornitologica”, duetta e imita la parte elettronica, costituita dall’elaborazione di una composizione di musica elettronica preesistente, e viene potenziato e rinnovato grazie al live electronics. La composizione dà voce a un racconto mitologico ed evocativo contemporaneo, i cui protagonisti sono Zeus e gli uccelli rappresentati dal flauto. Per Fabbriciani l’utilizzo delle apparecchiature elettroniche modificano il rapporto tra la musica e l’ascoltatore permettendo a quest’ultimo di stare al centro di un sistema dai confini fluttuanti. L’idea estetica che accomuna le otto composizioni è il loro percorso compositivo innovativo. Tutte nascono da procedimenti creativi basati soprattutto sull’improvvisazione con cui si “fissano” le idee che, a detta di Fabbriciani, vengono “proposte”, poi analizzate, e solo in un secondo momento, attraverso registrazioni, finalmente trascritte su partitura. Tutte le composizioni proposte danno un’idea di improvvisazione, ma che in realtà non è tale, non essendo infatti casuale. Anzi, tutto è assolutamente ponderato, anche se spesso le parti sembrano improvvisate, ma per il semplice fatto che sono finalmente libere da certi schemi. 4 July 21st, 2015 Fabbriciani sostiene che la musica è libera, deve volare! La musica dunque vuole essere “aperta”, uno spazio privo di confini fisici, rientrante in una dimensione spaziale –più coinvolgente e intrigante – in cui è proiettato lo spettatore, promossa anche nel Das atmende Klarsein, fragment di Luigi Nono. Fabbriciani è un artista-creatore, un artista che continua ancora oggi la propria ricerca verso la purezza dell’espressione sonora. Published by: massicov Nell’intervista che mi ha concesso ieri mattina, il maestro Sciarrino mi ha raccontato di come abbia conosciuto il testo di Towitara. I versi, esposti al museo Pigorini di Roma su un foglio dattiloscritto, erano presentati in una traduzione poco soddisfacente per il maestro perché troppo letterale; come la musica, infatti, anche la poesia necessita di interpretazione, già al momento della sua traduzione, e per questo Sciarrino ha dovuto rielaborare il testo italiano cercando di far riaffiorare un significato più profondo. Ilpoema papuano si trasforma, così, in una specie di manifesto della didattica del maestro siciliano. La corrispondenza tra il contenuto della poesia e le considerazioni del compositore sull’insegnamento a me è apparsa evidente. Niente paura, non sto per riportarvi l’ennesima opinione sul tema della “buona scuola”, oggi tanto dibattuto; il discorso di Sciarrino verte più che altro sul buon senso. La prova più difficile che uno studente, non solo di musica ma di qualsiasi disciplina, deve affrontare è losviluppo della propria autocoscienza; conoscere innanzitutto sé stessi, quindi, per inventare la propria personalità. «Il mio discorso non è piacevole» afferma Sciarrino, «perché chiedo di affrontare i propri problemi». Il compositore denuncia la mancanza di responsabilità nel lavoro dei giovani, dovuta non a loro personali mancanze ma ad una scuola e una società sempre più inclini ad esaltare facili successi. A scuola di autocoscienza 13 lug 2015 di Antonella Varvara Questa sera #ilclassicoinatteso vi propone, cari senesi, il brano di un compositore a voi molto vicino. Non mi riferisco ad una vicinanza ideologica o affettiva, la intendo proprio in senso fisico: potrebbe, infatti, capitarvi di incrociare Salvatore Sciarrino mentre passeggiate per le vie della città antica o di incontrarlo per caso al bar, mentre prende il suo caffè ristretto. A lui, compositore tra i più conosciuti, apprezzati ed eseguiti a livello internazionale, è stata affidata quest’estate la cattedra di composizione della Chigiana. È già la quarta volta che il Maestro partecipa ai corsi dell’Accademia e la sua presenza, come sempre, ha richiamato molti giovani musicisti in città, tutti curiosi di imparare qualcosa da un compositore che è anche uomo di grande e raffinata cultura. Con entusiasmo e interesse gli studenti della sua classe seguono in questi giorni le prove di Carnaval, un’opera che, guarda caso, parla proprio di didattica. A proposito dei due protagonisti della narrazione il suo testo poetico fornisce pochi ma fondamentali dettagli: essi sono un maestro e il suo allievo, entrambi alla ricerca della “chiave” della creatività, un percorso impegnativo che si avvale tuttavia di strumenti più che consoni alla natura umana. Con un gioco di metafore, tutto parte da una riflessione: mentre si specchiano nell’acqua sorgiva i due “creatori d’immagini” del testo del poeta Towitara si trovano faccia a faccia con sé stessi, si riscoprono (o si scoprono) per poter cominciare ad inventare; il passo successivo è la condivisione di questa nuova dote con i propri amici, un atto naturale per l’uomo in quanto essere sociale. Nulla si raggiunge senza fatica, ci vogliono anni di lavorio per creare; non bastano le buone intenzioni. Non si compone per il pubblico ma bisogna cercare un linguaggio individuale e ciò richiede grande autodisciplina ed educazione. La fatica di cui parla Sciarrino è, però, anche piacere: lo studio è piacere della scoperta e in esso, così come nello scrivere e nel creare, deve esserci necessariamente una forte componente affettiva. Per esprimersi nell’arte è indispensabile fare appello alla parte irrazionale del proprio pensiero ed è qui che il rapporto con l’altro, con l’amico diventa essenziale. In Carnaval, ad esempio,è stata l’amicizia con il pianista Maurizio Pollini il motore che ha dato il via a tutta la composizione. Carnaval offre una ricetta utile all’educazione non solo degli artisti ma anche degli ascoltatori. «Mentre con l’orecchio sprofondiamo nel non udibile, la coscienza comincia a risuonare» scrive il compositore nelle note di sala del concerto. Nel silenzio, che esalta il suono, ci viene dunque offerta un’occasione per riflettere e scoprire qualcosa di nuovo sul mondo e su noi stessi. Anche in questo caso il percorso non è facile. Molti di noi a sentir parlare di un certo genere di musica contemporanea hanno l’idea di un’esperienza d’ascolto, per così dire, “soporifera”. Eppure, nelle intenzioni del vero artista, l’effetto desiderato è opposto. Afferma Sciarrino: L’idea di musica per riempire gli stadi è una bugia politica, serve solo ad assopire la coscienza. Questa sera, dunque, vi invitiamo a prendere parte a questa “scuola di autocoscienza” e ad apprendere, da un vero Maestro, una lezione che certamente non si finisce mai di imparare. 5 July 21st, 2015 Appuntamento alle 21.15 al Teatro dei Rozzi di Siena con i Neue Vocalsolisten Stuttgart, i Klangforum Wien, Daniele Pollini e Tito Ceccherini direttore. Published by: massicov di “madrigali concertati” attribuita dall’autore ai numeri vocali della composizione. Sani nota bene come nell’utilizzare quest’ultima etichetta si debba andare al di là delle analogie timbriche e sonore con i brani cinquecenteschi; il rimando serve a «riscoprire la radice poetica dell’opera» e ad evocare il peculiare rapporto che essa intrattiene con il silenzi. Nelle parole di Sciarrino troviamo la conferma di questo legame tutto da interpretarsi: sembra un po’ un ossimoro ma i suoi madrigali a cinque voci non sono polifonici, ognuno di essi mira a creare una monodia, un canto unico a cui prendono parte più interpreti. È sul discorso generale, portato avanti dal testo poetico, che si concentra l’attenzione; le voci, impiegate alla stregua di strumenti musicali, costruiscono insieme questo significato unitario preoccupandosi di rendere le parole del testo perfettamente intellegibili. di Antonella Varvara Sicuramente non manca, nella scrittura musicale, un certo “descrittivismo”, in questo caso mutuato davvero dal madrigale: la musica, infatti, aiuta a disegnare alcune immagini del testo come, ad esempio, quella dell’acqua che zampilla dalla roccia, effetto reso grazie all’uso delle dinamiche. Sarà stato perché in prima integrale assoluta, o perché segno di un cambiamento importante nella programmazione musicale dell’estate senese, ma alla recita del Carnaval di Salvatore Sciarrino, ieri sera al teatro dei Rozzi, si respirava davvero aria di novità. Anche la parte “concertante” dei primi nove numeri di Carnaval sembra far parte di quest’unico canto, con gli strumenti che ribadiscono a turno quanto appena esposto dalle voci mentre i violoncelli costruiscono un sottile tappeto sonoro. Se considerato in relazione al resto della produzione di Sciarrino quest’opera, in realtà, non si avvale di molti elementi inediti: ognuno dei dodici frammenti che la compongono si riallaccia, infatti, ad una ricerca già sperimentata dal musicista in lavori precedenti. L’ascolto di Carnaval comunica l’intenzione compositiva del suo autore e non è difficile rintracciare in questa esperienza il percorso che lo ha portato alla sua produzione. Sciarrino afferma, infatti, di essere partito da un’idea generale di quello che sarebbe stato il suono complessivo del brano, per poi arrivare ad evidenziare su carta i diversi elementi che lo avrebbero costituito. “Un viaggio più sorprendente del mio”: Carnaval di Sciarrino 14 lug 2015 È l’idea che lega le sue diverse sezioni la parte più curiosa di Carnaval. Sciarrino afferma, infatti, di aver voluto creare «un libro di musica», un contenitore in cui racchiudere una piccola antologia di momenti musicali eterogenei. Considera questa composizione un’opera letteraria perché pensata per durare nel tempo, proprio come i testi inseriti al suo interno. Sebbene scritti da mani diverse in luoghi e circostanze differenti, essi condividono, infatti, la loro ragion d’essere e il loro scopo, ovvero tramandare conoscenza, finalità che, di rimando, diventa propria anche dell’opera di Sciarrino. Il legame col tempo e con la memoria è fondamentale per il compositore: «There’s no new without old and no old without new» sottolinea in un’intervista d’oltreoceano, un concetto espresso anche da Nicola Sani durante la chiacchierata preconcerto del Chigiana Lounge. La cultura è legame, è connessione sia col passato ma anche col presente, con quella memoria collettiva senza cui non potremmo apprezzare il nuovo. Il rapporto tra la musica del passato e quella di Sciarrino è complesso. Nel caso di Carnaval credo sia facile fraintendere e semplificare questa relazione sia per via del suo titolo, un tributo all’omonimo brano di Schumann, sia per la definizione È proprio questa idea di suono complessivo che arriva al nostro orecchio: ci si cala in un paesaggio di rumori inconsueti, un silenzio in cui eventi sonori accadono, si materializzano senza denunciare la loro sorgente e scompaiono prima ancora di averti raggiunto. I sensi si risvegliano perché intenti ad identificare ciò che percepiscono; l’orecchio resta in attesa di maggiori informazioni da elaborare finendo, però, immancabilmente per essere nuovamente sorpreso. La ricerca di Sciarrino sulla fisicità del suono amplia la tavolozza delle possibilità espressive dei vari strumenti al punto che del loro suono “classico”, quello a noi più familiare, non resta quasi nulla. Questo crea un effetto di smarrimento che giunge al suo culmine nel brano strumentale, il penultimo, in cui il suono limpido del pianoforte solo risalta nel dialogo col resto dell’ensemble. È questo il momento più patetico della composizione, in cui gli strumenti si contrappongono tra loro in un certamen che solo in ultima istanza diventa finalmente concerto. L’ultimo brano, quasi telegrafico in rapporto alla variopinta sezione precedente, torna a coinvolgere le voci per raccontare la storia di Tao Yamming che «non sapeva la musica ma teneva presso di sé un liuto senza corde» da toccare nei momenti «di 6 July 21st, 2015 pienezza», un finale che ci lascia riflettere sull’esigenza umana di creare e comunicare. Con Carnaval Sciarrino ci invita ad intraprendere un viaggio che, se non rifiutato a priori, può essere «più sorprendente del mio». È una musica democratica che ci invita a partecipare alla costruzione del suo significato e che, sempre citando l’autore, «deve “puzzare” di ognuno di noi». L’ascoltatore è il centro della musica, non la partitura; l’interpretazione è, dunque, personale ed emotiva. Non importa se il viaggio vi porterà in fondo al mare o a sentir cantar le stelle; l’importante è lasciarsi andare. Published by: massicov E così accadde con “Carnaval”, una particolare raccolta di brevi pezzi per pianoforte di Robert Schumann pubblicati nel 1837. In quegli anni di intensissima attività il ventiquattrenne compositore tedesco, frequentando la casa del suo maestro di pianoforte, Frederick Wieck (padre della celebre Clara), pose il suo sguardo su una delle allieve, Ernestine von Fricken, originaria della città boema di Aš. Con non poco stupore il giovane pianista si accorse subito di una singolare coincidenza: le lettere del nome della cittadina, Aš, la cui pronuncia in tedesco suona “Asch”, comparivano anche nel suo cognome, ma non soltanto: nel mondo anglosassone, corrispondevano a delle note musicali. Un caso o forse un segno che il destino stava mandando a Schumann per rassicurarlo sul suo futuro sentimentale? Da buon adolescente romantico, optò per la seconda: quello era un segno che doveva diventare musica. E lo divenne. Le quattro lettere A-S-C-H si trasformarono rispettivamente nelle note la-mi bemolle-do-si che servirono a Schumann per creare un tema particolarmente dolente che a sua volta venne utilizzato come base per tutti i brani di questa raccolta. Insomma, un romantico ed originale crittogramma. Ma Carnaval è anche altro: questa romantica ed originale corrispondenza tra le note che definiscono questa raccolta e quelle quattro lettere per lui così significative non sono che la base di un lavoro ben più profondo ed intimo che va al di là dell’amore per Ernestine ed arriva a toccare le corde più sensibili del cuore e della mente schumanniana. Crittogrammi e metafore: il Carnevale sentimentale di Robert Schumann 14 lug 2015 di Francesco Milella Non sono poche, nella storia della musica, i casi di crittogrammi musicali in cui i compositori hanno cercato di giocare con la musica costruendo melodie e intere partiture con le note suggerite dalle lettere di una parola. L’iniziatore di questa singolare e divertente pratica pare sia stato, nel XVI secolo, il fiammingo Josquin Desprez che, dovendo scrivere una messa in onore di Ercole duca di Ferrara, fece coincidere le lettere del committente (Hercules Dux Ferrariae) con le lettere della solmizzazione, ideata a cavallo dell’anno mille di Guido d’Arezzo (ut-re-mi…), traendo così il soggetto musicale dalle vocali: Her – re, cu – ut, les – re, Dux – ut, Fer – re, ra – fa, ri – mi, ae – re. Altrettanto famoso fu il caso di Bach che, qualche secolo dopo, approfittò della insolita coincidenza delle lettere del suo cognome col nome anglosassone di quattro note (B-A-C-H), per comporre una serie di fughe con le note Sibemolle – La – Do – Si naturale in una dilettevole satira su sé stesso. Nell’Ottocento ovviamente la situazione non poteva che cambiare. La sofferta esistenza e l’irrequieta intimità di molti dei protagonisti del romanticismo trasformarono questo brillante ed originale gioco musicale in uno strumento per dare libero sfogo ai loro più profondi desideri e paure. Carnaval è una vera e propria sfilata di tipi umani, personaggi fantastici e reali che, in un vero e proprio inquietante carnevale marciano uno dopo l’altro alternati da tre macabre sfingi: da un notturno Pierrot ad un brillante Arlecchino, dal pio Eusebius alla vivace Coquette. Insomma, non c’è bisogno della psicanalisi per capire che siamo davanti ad una stupefacente metafora: Schumann mette in scena tutti i fantasmi più oscuri ed inquietanti che abitavano in quel momento la sua mente, come se il sentimento d’amore per Ernestine avesse liberato i pensieri più intimi della sua mente in un drammatico flusso musicale. Flusso musicale che #ilclassicoinatteso di quest’anno vuole porre al centro di un dialogo tra musica e letteratura abbinandolo ad un significativo testimone del nostro presente, un presente che non necessariamente deve essere contemporaneo e neanche europeo. La scelta ovviamente non poteva che cadere su “Le Carnaval de Schumann” di Armand Godoy. Ovviamente, dico, non soltanto perché il poeta cubano naturalizzato francese trae chiara e diretta ispirazione dal capolavoro schumanniano: la raccolta poetica, proposta questa sera con la traduzione e con la lettura di Nicola Muschitiello, va ben al di là della trascrizione poetica delle sensazioni e delle emozioni provate dal grande pianista per inserirle in una dimensione estetica totalmente nuova. Questo dialogo vedrà anche un terzo interlocutore nel coreografo e danzatore Marco Batti che, in collaborazione col balletto di Siena, contribuirà a rendere ancora più inatteso questo grande classico per pianoforte. Un classico trasformato, in questo comunione di musica, 7 July 21st, 2015 poesia e Published by: massicov danza, in un vero e proprio dramma Dando infatti vita e forma a personaggi come Eusebius, Pierrot, Estrella e Florestan, la danza, grazie anche alla essenziale regia di Alessio Pizzech, ha costruito una trama leggera e delicata. In altre e più forti parole, ha delineato ancora più incisivamente l’universo emotivo che Schumann è riuscito a creare col suo linguaggio musicale. Insomma, un viaggio, in una doppia direzione, interiore ed esteriore, che la raffinatissima penna di Armand Godoy (1880-1964) ha saputo cogliere con rara delicatezza. psicologico. Carnaval, storia di un’intimità ricostruita 15 lug 2015 di Francesco Milella “Schumann? chi lo studia più? È un autore trascurato perché intimo in una società che di intimità non ne ha più”. Queste parole, pronunciate dal compositore palermitano Salvatore Sciarrino pochi giorni prima la “messa in scena” del “Carnaval” schumanniano per “Il Classico Inatteso”, mi sono parse in un primo momento decisamente forzate. Quanti dischi, quanti concerti dedicati al genio tedesco! Ma quel riferimento all’intimità della sua musica incompatibile con la superficialità della nostra società, aveva però il suo effetto e soprattutto il suo senso. Forse era vero: Schumann si studia, ma pochi davvero riescono a viverlo, ad entrare nella profonda sensibilità della sua estetica e cogliere il valore del suo messaggio. Ieri sera, al Teatro dei Rozzi, quest’intimità, in un certo senso, ha fatto ritorno, per poco tempo, anzi, per poco più un’ora. Ma è stato sufficiente per coglierne la grandezza, o meglio la profondità, la teatralità e soprattutto la modernità. Profondità, teatralità e modernità, sì. Sono proprio queste parole, di apparente chiarezza, che a mio parere delineano in maniera più pertinente e forse più intensa lo straordinario dialogo fra arti che ieri ha avuto luogo nel piccolo teatro senese. Innanzitutto profondità, profondità nel suono, nella musica, vera protagonista di questa serata: grazie proprio al bravo e raffinato pianista Roberto Prosseda, questo capolavoro schumanniano ha ritrovano la sua affascinante tridimensionalità musicale e soprattutto psicologica. Una tridimensionalità fatta di suoni ora liquidi ora ruvidi, ora dolci ora amari, in un fragile quanto affascinante equilibrio tra follia e razionalità, ironia e amore, vita e morte. È un suono, quello del “Carnaval” schumanniano, che cessa di muoversi su coordinate verticali ed orizzontali, per andare oltre, verso l’esterno, verso il mondo e dunque contro tutti i mostri che lo abitano. Ma anche verso l’interno, verso l’uomo per affrontare i suoi fantasmi in un viaggio degno di un dramma. Fuori fa freddo, tanto freddo nell’anima mia. / L’ebbrezza mi ci vuole, la follia. Così, con queste parole, inizia il “Carnaval di Schumann”, scritto nel 1927 come trasposizione poetica del capolavoro musicale. Parole in cui ritorna chiara e penetrante la profondità della musica con, però, qualcosa di diverso. C’è infatti, in questi versi tradotti (pubblicati da Pendragon) e letti con intelligenza da Nicola Muschitiello alternandosi con i brano musicali, una sintesi di tutta la sofferenza non solo dell’ottocento romantico di Schumann ma anche e soprattutto del novecento di Godoy un poeta che, da Cuba a Parigi, da Poe a Baudelaire, si è trovato a vivere la lenta fine del mondo moderno e la rapida, dolorosissima ascesa del mondo contemporaneo. Ritornano nelle sue parole i dolori e le sofferenze del “Carnaval” schumanniano temperate (o forse oscurate?) da metafore e termini tragicamente novecenteschi allorquando Godoy si trova a scrivere le parole per “Paganini”: È l’ultima notte che passerò in questo triste ospedale / (l’ultima notte d’amore) e domani, / saziato il corpo, dimentico e brutale, / andrò incontro ai deliranti tormenti della vita. Tornano anche, con “Florestan” ad esempio, i sogni d’amore capaci di far respirare per un attimo un’eternità e una giovinezza che, se in Schumann odorano ancora di Goethe e Schiller, in Godoy sembrano accogliere una leggerezza più effimera e materiale. È bella la vita, è proprio bella! / Chi ci pensa ai guai, chi parla di morire! / quando il buon desiderio si risveglia / per la minima occhiata di una bella? Nelle sue poesie, che accompagnano con sorprendente coerenza i vari momenti della musica di Schumann, si ritrova dunque una modernità ermetica, ricca di metafore e suggestioni sempre sorprendenti. Ma resta comunque una modernità suffi cientemente chiara e trasparente nel condividere il suo obiettivo: ascoltare, scoprire e vivere Schumann in una luce diversa figlia di un’estetica più moderna. Più “nostra”. E tale è stato l’obiettivo della compagnia “Balletto di Siena” che, con la delicata coreografia di Marco Batti, è riuscita a rendere ancora più viva ed esplicita la teatralità che anima l’opera schumanniana. 8 July 21st, 2015 Published by: massicov Fortunatamente, sei anni dopo la prematura morte di Mozart, nacque a Vienna Franz Schubert, un giovane che in soli trent’anni di vita, di cui poco meno di venti dedicati alla musica, riuscì a raccogliere l’immensa eredità storica del Lied, ripulirlo delle incrostazioni accumulate negli ultimi secoli per porlo in una dimensione di altissimo prestigio. Dopo aver messo definitivamente da parte l’opera che si era dimostrata, per ben diciassette volte, poco adatta a dare forma alle sue esigenze espressive (in una Vienna oltretutto dominata da Rossini e Barbaja), Schubert si concede totalmente al Lied, una forma più intima, più raccolta e lontana dalle luci e dai vestiti sontuosi dell’opera lirica e dunque più vicina alla sensibilità comunicativa del musicista. Storia di un viaggiatore che diventa straniero: la “Winterreise” 16 lug 2015 di Francesco Milella Questa è la storia di un viaggiatore che diventa straniero, di un amante abbandonato che intraprende un viaggio senza meta in una terra fredda e sconosciuta. Maè anche la storia di un giovane compositore, quasi trentenne, sifilitico, con la morte sempre più vicina, che, in un frenetico e quasi disumano impeto creativo, in soli otto mesi scrive alcune delle più profonde opere della musica occidentale. Questa è la storia della Winterreise di Franz Schubert una delle più nobili testimonianze di quanto il giovane musicista viennese sia stato in grado di realizzare con il Lied, tracciando così un percorso che avrebbe portato a Schumann, Wagner, Richard Strauss e Hugo Wolff. Lied è una parola tedesca tanto semplice quanto multiforme. Il suo primo significato, si sa, è quello di “canzone” o “romanza”. Ma basta andare indietro nel passato e frugare, anche superficialmente, nella sua immensa storia per scoprire un’affascinante complessità. Fin dall’epoca carolingia infatti si diffusero in tutta la zona dell’attuale Germania delle canzoni monofoniche, di forte impronta gregoriana, con melodie semplici e lineari alle quali vennero, nei secoli successivi, accostati alcuni strumenti. Dopo gli strumenti, tra 1400 e 1500 venne la polifonia che con le sue melodie più popolari cantate da tre o più voci diede un grande impulso a questa forma musicale. Ma “ahimè”, dopo la polifonia, venne l’opera: gli innumerevoli castrati, che dall’Italia avevano inondato corti tedesche e austriache con le loro arie virtuosistiche, ricche di gorgheggi e trilli, lasciarono il lied in una dimensione secondaria che visse in ambienti popolari e raccolti, dunque lontano dalla tradizione colta. Non bastarono neanche i geni del primo classicismo viennese a risollevarlo da questa malaugurata sorte. Come tutti i capolavori, anche questa raccolta di Lieder nacque quando, nel 1823, il giovane Schubert lesse in una rivista una serie di brevi poesie di Wilhelm Müller, il poeta a cui il giovane compositore viennese aveva fatto ricorso per il suo primo ciclo lideristico Die Schöne Müllerin. Affascinato dalla semplicità e allo stesso tempo della profondità di quelle parole, Schubert non ci pensò due volte a metterlo in musica. Nel 1827, anno della morte del suo venerato Beethoven, Schubert portò a compimento questo ciclo di Lieder. Il risultato, com’è noto, è di mirabile fattura: Winterreise è un viaggio invernale di un amante abbandonato. Deluso dalla vita e dal suo cuore, questo anonimo viaggiatore inizia un viaggio metaforico lontano dalla città, lontano dal mondo. Non più tra i fiori primaverili della bella mugnaia. Ora il viaggiatore diventato straniero cammina al freddo, tra la neve, alla ricerca di una strada impossibile da trovare senza la luce del sole. Si tratta di un’avventura intima e spirituale in un mondo gelido, quasi onirico, dove rare, rarissime sono le figure vive: una cornacchia, il suonatore d’organetto e un vecchietto in secondo piano che nessuno sembra o vuole osservare. Si tratta di piccoli e fragili testimoni di un universo solitario. E non basta neppure la sporadica, seppur delicata, presenza di un elegante tiglio, a dare luce e calore a questa mesta avventura la cui meta desiderata non è altro che la morte. La musica si inserisce in questo viaggio come co-protagonista, come fedele compagna dell’amante abbandonato. Lo sostiene, lo aiuta, quasi offrendogli uno strumento di espressione, un mezzo con cui cantare la propria solitudine e la propria sofferenza. Schubert, ponendo sullo stesso piano musicale pianoforte e voce, trasforma il testo di Müller amplificando i suoi spazi, rimarcando i suoi colori freddi e caldi con delicati contrasti melodici e ritmici. In questo modo la musica di Schubert accentua le tensioni, le paure, addolcendo allo stesso tempo le vane speranze che compaiono sulla via dello straniero. Il tutto con un canto quasi sillabico, chiaro, piano ma tremendamente drammatico e teatrale. Seguendo il sentierio già solcato dagli inaspettati dialoghi culturali e soprattutto temporali tra Vivaldi e Max Richter, tra Robert Schumann e Armand Godoy, la Winterreise che questa sera #ilclassicoinatteso offrirà al suo pubblico in prima 9 July 21st, 2015 Published by: massicov esecuzione italiana prosegue questo percorso di interazione e confronto fra la musica e le altre arti. è dunque il pericolo di frantumare e distorcere questa raffinatissima convivenza tra le due arti. Dopo la poesia e la danza, tocca oggi alle immagini. Sarà infatti l’artista William Kentridge che, con le sue creazioni visive proporrà una Winterreise inaspettata. Kentridge si inserisce in questo dialogo con delicatezza e rispetto, accostandosi con lo sguardo di chi conosce bene Schubert ma lo vive da appassionato. Una Winterreise in trio dove il pianista Markus Hinteräuser e il baritono Matthias Goerne saranno accompagnati dalle immagini dell’artista sudafricano per dare vita un dialogo tra musica, poesia e immagini. Egli vede la musica da regista qual è e cioè come «uno spazio per accogliere altre parole ed altri pensieri». E come tale la utilizza. La musica dunque non accompagna le immagini. Né tantomeno queste accompagnano la musica. Anzi: essa diventa il mondo in cui inserire il suo personale viaggio. Ripescando, in un amarcord fotografico e sensoriale, tra i ricordi della sua infanzia a Johannesburg, Kentridge si pone di fronte alle emozioni che i primi ascolti del Winterreise assieme a suo padre provocavano in lui: spaesamento, perplessità, senso di impenetrabilità linguistica e semantica ma anche consapevolezza di una logica strutturale nascosta in questi ventiquattro piccoli quadri. Trio per musica, testo e immagini: Die Winterreise secondo William Kentridge 17 lug 2015 di Francesco Milella A volte si è convinti di intraprendere un viaggio tra la neve e il ghiaccio di un paesaggio invernale, accompagnato dal silenzio di una natura morta e decadente, magari da qualche latrato in lontananza. Ma poi, come per miracolo si finisce, per miracolo o per magia, da tutt’altra parte. Così William Kentridge ci ha ingannato. Credevamo di ascoltare la Winterreise di Schubert, il celeberrimo ciclo di Lieder che racconta il mesto e solitario vagabondare di un anonimo straniero in una gelida terra. E invece siamo finiti nella gabbia di un uccello patendo la sua ansia e la sua claustrofobia, sotto una doccia, bagnati da un’acqua trasformata in sangue, tra gli alberi della savana africana camminando assieme alle donne che ritornano alle loro tribù al calar del sole. Kentridge ha in un certo senso messo da parte la Winterreise di Schubert, quello che tutti noi abbiamo conosciuto nei dischi, prima di Hans Hotter, di Dietrich Fischer-Dieskau poi, per raccontarci il suo personale viaggio d’inverno, partendo proprio dal suo rapporto con la musica di Schubert e con la poesia di Müller intelligentemente interpretate dal baritono Goerne, espressivo nell’intima e malinconica teatralità che il genere del Lied richiede, accompagnato dal pianista Markus Hinteräuser con discreta correttezza. I rischi di rovinare tutto in questo caso erano altissimi: ci si inserisce infatti in un dialogo tra due elementi, musica e poesia, che convivono in un perfetto equilibrio. Altissimo E sono proprio questi piccoli frammenti del passato che, filtrati attraverso il delicato e quasi onirico linguaggio visivo del regista sudafricano, pongono le basi di questo inaspettato Winterreise: e così la neve, del tutto assente in Sudafrica, si trasforma in coriandoli neri, l’organetto si trasforma in una pianola, i pini e gli abeti in leggeri e secchi arbusti della savana, l’acqua del ruscello si converte in una soffocante doccia domestica sotto cui proiettare l’ombra del cantante in scena. Il ricordo, o meglio, l’esperienza personale in Kentridge diventano dunque un motore deformante, quasi un’energia capace di generare una metamorfosi della realtà e degli oggetti che la compongono. Questo anche grazie alla poesia di Müller. Una poesia semplice e chiara, ma al contempo teatrale, drammatica e soprattutto ricca di suggestioni visive che accoglie senza troppe dissonanze l’estetica visuale del regista sudafricano. Poesia, musica e immagini. I tre elementi di un trio, definito come tale dallo stesso Kentridge, guidati (verrebbe da dire ingabbiati come l’uccello che accompagna il Lied “Letzte Hoffnung – L’ultima speranza”) dal tempo, il vero protagonista dello spettacolo. È un tempo ritmico e musicale, come quello che si inserisce tra pianista e baritono, ma anche un tempo semantico, di suggestioni coordinate e dialoghi armonizzati, qual è quello che invece si instaura tra le immagini proiettate sullo sfondo e la Winterreise in primo piano. E, aggiungerei, anche un tempo storico e culturale che trasporta il pubblico dall’ottocento viennese e post napoleonico di Franz Schubert alla modernità inquieta ed incostante che ci circonda. Questo è dunque il viaggio che per #ilclassicoinatteso William Kentridge ha proposto per la prima volta al pubblico italiano al Teatro dei Rinnovati. Un viaggio in cui, al freddo e alla neve del viaggio che noi tutti conosciamo, il viandante, lo straniero vagabondo si è trovato ad affrontare una dimensione interiore nervosa ed irrequieta dove l’organetto del Lied finale dà vita ad una processione di figure oscure che camminano dietro ad un albero essiccato scaldato da un sole in procinto di tramontare sulla savana. 10 July 21st, 2015 Vecchio misterioso, e se venissi con Accompagneresti i miei canti col tuo organetto? Published by: massicov te? Incapace di sopportare una vita di sfruttamento e sottomissione, Montejo decide di fuggire e di nascondersi nella foresta diventando, dunque, un cimarrón, parola che in spagnolo indica proprio un “fuggitivo”, sia esso umano o animale. Dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1880, Montejo lascia la foresta e l’isolamento e torna a lavorare, da libero cittadino, nelle piantagioni di canna da zucchero. Combatte al fianco dell’esercito rivoluzionario cubano per l’indipendenza dell’isola dagli spagnoli ma, al termine della guerra, si accorge presto di quanto falsa sia la libertà acquisita: all’esplicito dominio degli spagnoli si sostituì, infatti, la dipendenza economica dagli Stati Uniti; Montejo, di nuovo bracciante nei campi, si accorge di essere ancora “schiavo”, non più per legge ma per necessità. Cosa aspettarsi da un “Cimarrón” 17 lug 2015 di Antonella Varavara Cosa dobbiamo aspettarci dalla messa in scena di un’opera come El Cimarrón di Hans Werner Henze? Di certo non il sentimento. O forse sì. Accusato di essere espressione di una società iniqua ed ipocrita, il sentimentalismo in musica fu nemico giurato per le cosiddette avanguardie storiche. Vittima principale fu la melodia, veicolo di emozioni e soggettività ma elemento da trascurare per la nuova musica in favore di una ricerca incentrata su altri parametri quali armonia, ritmo, timbro. «Uccidiamo il chiaro di luna» per dirla insieme ai futuristi; «riflettiamo sulla musica e col suo stesso linguaggio» per chi ne raccolse l’eredità negli anni a venire. Hans Werner Henze fu certamente dalla parte del nuovo; sperimentò le tante “grammatiche” elaborate nel corso del secolo ma a nessuna di esse concesse l’esclusiva. Nel suo stile eclettico l’innovazione fu, però, solo uno dei punti fermi: altrettanto essenziale per questo autore fu l’esigenza di comunicare. A differenza degli altri contemporanei si dedicò spesso al teatro, medium tra i più consoni all’espressione e alla creazione di un ponte tra autore e ascoltatore. Nel caso di El Cimarrón ciò che Henze vuole trasmettere è un’idea politica. Cresciuto nella Germania nazista ma da sempre idealmente opposto al regime, Henze abbracciò l’ideologia marxista dopo la guerra e ne fu acceso sostenitore. Nel clima di protesta che caratterizzò l’Europa degli anni Sessanta la vicenda narrata in quest’opera fu considerata certamente esemplare dal compositore. Sebbene fuori dal comune, questa è in tutto e per tutto una storia vera. Il racconto è in prima persona; le parole di Montejo, spontanee e inevitabilmente nello slang di un cubano per nulla istruito, affiancano ed equiparano alla vicenda politica e rivoluzionaria le altre esperienze di vita dell’anziano. Cosa aspettarsi da un cimarrón, nato schiavo e senza nome, ignorante e fuorilegge, disilluso e senza Dio? Dal suo punto di vista innocente traspare in realtà una critica naive e per questo scomoda e quasi crudele sulla società, la religione, la vita. Così nell’opera di Henze riaffiora il sentimento, una partecipazione emotiva raggiunta proprio grazie al resoconto tragico di una vita ineluttabilmente difficile. Montejo ci regala anche una morale, espressione di una filosofia di vita appresa “sul campo”: la vera libertà è da ricercarsi dentro di noi, non è esteriore; essa coincide con la nostra dignità, quella propria di ogni uomo e che ogni uomo deve difendere con tutti i mezzi. In un’epoca come la nostra, che comincia a pagare il prezzo dell’iniquità, la vicenda di El Cimarrón può ancora far riflettere. La partitura di Henze offre ancora nuovo senso all’opera teatrale. Pensata per essere un “recital per quattro musicisti” in cui anche la voce è trattata alla stregua di uno strumento, essa lascia spazio all’improvvisazione. Il “libero arbitrio” degli strumentisti è vincolato dal compositore in termini di tempo che, come ha notato Stefano Jacoviello nel Chigiana Lounge con Matteo Giuggioli, rappresenta sì una «gabbia» ma vuota, «in cui tutto ciò che accade dipende dalle azioni dei musicisti». El Cimarrón invita, dunque, all’azione non solo i suoi interpreti ma anche noi spettatori, chiamati a riempire il nostro tempo nel migliore dei modi possibile. Il testo a cui Hans Enzensberger, librettista dell’opera, fa riferimento nella stesura di El Cimarrón è un saggio edito nel 1966 dall’etnografo Miguel Barnet. Argomento del trattato è il racconto autobiografico dell’ultracentenario Estéban Montejo, nato a Cuba da genitori sconosciuti nel 1860 e venduto come schiavo in tenera età. 11 July 21st, 2015 Published by: massicov concerto mentre si descrive un’opera teatrale ma in questo casoè senza dubbio lecito. Sebbene qui sia previsto, infatti, l’uso della voce in scena questa è trattata alla stregua degli altri strumenti; il cantante o, come lo definisce il compositore, il Vokalist racconta la vicenda del protagonista in prima persona ma non lo interpreta, lascia alla musica il compito di veicolare il significato del testo. Il suono sottolinea le diverse situazioni in cui Esteban Montejo — questo il nome del protagonista — è venuto a trovarsi nel corso della vita grazie al sapiente impiego di timbri e ritmi. Raccontare la libertà attraverso la musica: “El Cimarrón” di Heze 18 lug 2015 di Antonella Varvara La rappresentazione di El Cimarrón a cui abbiamo assistito ieri sera al Teatro dei Rozzi di Siena è stata una prima assoluta, ma anche “un’ultima” assoluta. L’opera di Henze, tra le più eseguite del repertorio da camera del compositore, è stata concepita, infatti, per non essere mai uguale a se stessa. La partitura non fornisce agli esecutori delle indicazioni precise; in un sistema di segni decisamente arzigogolato questa indica per lo più altezze di suoni imprecisate, i cambiamenti di organico e delle tecniche vocali e strumentali da impiegare nelle diverse sezioni. Ai musicisti l’arduo compito di interpretare e rendere in musica una scrittura che lascia largo spazio all’immaginazione. Proprio in virtù di questa sua versatilità, El Cimarrón è diventato quest’anno simbolo delle celebrazioni in onore del suo compositore, scomparso nel 2012: l’opera andrà in scena anche il 28 luglio al Teatro Poliziano di Montepulciano in un allestimento a cura del Cantiere Internazionale d’Arte, ente istituito dallo stesso Henze nel 1976 per creare uno spazio in cui artisti di diversa formazione potessero dialogare e collaborare. Per la stesura dell’opera, Henze ritenne necessario recarsi a Cuba in prima persona per “catturare” il peculiare paesaggio sonoro dell’isola. Ciò che portò indietro in Europa, stipato tra le pagine della sua partitura, non fu soltanto una suggestione: una lunga tradizione culturale, specchio di uno dei più grandi melting pot del pianeta, fornì all’artista l’ampio vocabolario musicale necessario alla creazione di El Cimarrón. Per chi ha familiarità con danze e musiche sud americane sarà stato facile riconoscere, infatti, in certi momenti dello spettacolo il ritmo tipico di alcuni generi popolari. L’Habanera, il toque, il son diventano segnali per l’ascoltatore, si trasformano persino in personaggi quando accompagnano le opinioni del protagonistasulle donne e gli uomini di Cuba. Quasi onomatopeico è l’utilizzo dell’ampio strumentario a disposizione dei musicisti che ci trasporta, di volta in volta, nelle foreste cubane, per le strade de L’Avana, tra le macchine del zuccherificio. Apparentemente a loro agio con queste sonorità lontane, i tre strumentisti Luciano Tristaino, Luigi Attademo e Maurizio Ben Omar hanno dato vita ad un Cimarrón che lascia largo spazio all’interpretazione scenica del baritono Maurizio Leoni. Per quest’ultimo la sfida è stata senz’altro trovare “il giusto mezzo” in un continuum che va dal semplice parlato al canto melodico, problema che Leoni ha risolto tendendo più sul versante del recitato. Come El Cimarrón nella foresta anche i musicisti hanno dovuto crearsi da soli le proprie coordinate in un universo sonoro dove tutto e nulla dipende da noi. L’ascolto di quest’opera non è facile; il suo messaggio è profondo e deve essere reso necessariamente in maniera chiara. I quattro strumentisti collaborano al racconto della vicenda personale del protagonista, ex-schiavo nelle piantagioni di canna da zucchero cubane divenuto poi fuggitivo e rivoluzionario. È la storia a prevalere e a guidare l’intera performance. L’intento di Henze è duplice tuttavia: da un lato il bisogno di raccontare, dall’altro la volontà di farlo in musica. Problematica è, dunque, la ricerca di una definizione di genere, di un’etichetta da dare a questo brano. Sono due i modelli a cui guardare per capire cos’è El Cimarrón: il Lied politico tedesco, genere di cui Henze si diceva tuttavia insoddisfatto, e il concerto. Sembra un paradosso parlare di Il club degli ’80 18 lug 2015 di Carla Monni 12 July 21st, 2015 Published by: massicov All’interno dell’ottantatreesima Estate Musicale Chigiana questa sera al Teatro dei Rozzi si terrà l’ottavo concerto de #ilclassicoinatteso e terzo del ciclo, intitolato Quei favolosi ’80, dedicato al cinquantesimo anniversario della scomparsa del Conte Guido Chigi Saracini (1880-1965). Con Quei favolosi ’80 si vuole sottolineare il grande cambiamento nella musica e nelle arti del Novecento incoraggiato soprattutto grazie al contributo degli artisti nati negli anni Ottanta del secolo precedente. Il Conte Chigi privilegiava soprattutto il Settecento, l’opera verista e gli autori romantici, certo con Chopin al primo posto. Ma tuttavia un episodio importante per la rinnovata attività musicale senese, fu legato invece alla musica contemporanea. Dal 10 al 15 settembre 1928 il palazzo Chigi fu sede del “VI Festival internazionale della Società Internazionale per la Musica Contemporanea” con relativo congresso organizzato dalla “Corporazione delle Nuove Musiche” di cui era presidente Alfredo Casella. Tra i suoi molteplici significati l’80 è il numero dei sogni e delle idee brillanti che portano a termine un lavoro, che concludono una trattativa. Questa sera quel “favoloso” 80 ci balzerà alle orecchie con le opere di tre autori, nati rispettivamente a distanza di circa ottant’anni l’uno dall’altro – Felix Mendelssohn (1809-1847), Ernest Bloch (1880-1959) e Osvaldo Golijov (1960) –, compositori appartenenti tutti alla cultura ebraica e “legati” musicalmente poiché parte della loro produzione colta risente dell’influsso della musica folcloristica giudaica, sia nel campo esecutivo-interpretativo, che compositivo. Quell’anno fu una Settimana Musicale Senese ante litteram in cui fu possibile ascoltare composizioni da camera, eseguite quasi tutte in prima italiana – e con interpreti di valore quali il Quartetto Kolisch, il violoncellista Arturo Bonucci e il pianista Erwin Schulhoff – di autori d’eccezione come Vincenzo Tommasini, Alois Hába, Paul Hindemith, Maurice Ravel, Anton Webern, Manuel de Falla, Sergej Prokof’ev, Igor Stravinskij, William Walton, Franco Alfano e Ernest Bloch. Il dialogo fra musica colta e musica etnica testimonia il tentativo del Festival di abbattere ogni sorta di barriera. Il classico si presenta ancora come inatteso, poiché questa volta si confronta con l’antichissima arte ebraica e che trova una dimensione comune nei tre compositori. È una musica che ha assorbito e rielaborato il folclore musicale dei numerosi paesi est europei e balcanici in cui si sono sviluppate le comunità ebraiche. La fusione di colto e popolare ben si adatta nell’opera del compositore argentino Osvaldo Golijov, The Dreams and prayers of Isaac the blind (1994), dove i suoni ritmici ed espressivi del clarinetto klezmer di David Krakauer si sposano con le sonorità della classica formazione del quartetto d’archi, suggerendo un’atmosfera davvero innovativa al pubblico “chigiano”, essendo l’opera per la prima volta eseguita in Italia. Per l’Accademia Chigiana la musica popolare, almeno dal punto di vista didattico, non è una novità. Poco prima degli anni ’80 infatti venne istituito il corso di etnomusicologia, che ha vantato alcuni tra i più illustri studiosi come Roberto Leydi, Jacques Nattiez, Alain Lomax e Diego Carpitella. Quello stesso Ernest Bloch, tanto amato dal Conte Chigi, che ascolteremo questa sera con il Concerto grosso n. 2 per quartetto d’archi e orchestra (1952); compositore che negli anni ’50 fu intonato dal Quintetto Chigiano, simbolo dell’Accademia che ancora oggi possiamo ascoltare grazie alle registrazioni incise dall’etichetta discografica inglese Decca. Se pensassimo di sgretolare quel “favoloso” numero 80, non è forse un caso che la sua prima parte, il numero 8, nella simbologia ebraica rappresenti un nuovo inizio? Ma non solo, l’8 è il numero dell’equilibrio cosmico, che incita alla ricerca e alla scoperta della trascendenza e che rappresenta la continuità terrena. È simbolo dell’infinito, dove nulla finisce. Il numero 8 rappresenta dunque un continuo ciclo che non ha mai fine, che è poi il filo conduttore del festival di quest’anno, ovvero ricordare qualcosa che è stato, come la Sinfonia per archi mendelssohniana, pagina del passato che “riprende vita” e che può vivere ancora nell’attualità. Ma un numero 8 anche come flusso infinito di tempo e di idee, come nell’opera di Golijov, in cui possiamo abbandonarci nello stimolante connubio della musica popolare e colta. In questo modo si crea un affascinante interscambio tra epoche diverse. La stessa musica mendelssohniana non è novella all’interno delle fatidiche Settimane Musicali Senesi. Nel 1980 la Settimana fu dedicata al compositore, come anche il festival del 1995 che si aprì con le due musiche di scena, il notissimo Sogno di una notte di mezza estate – in versione integrale – e il rarissimo Edipo a Colono, tratto dalla tragedia di Sofocle; e ancora la Sinfonia n. 3“Scozzese” – diretta da Gianandrea Gavazzeni, che tornò a Siena con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino –, una delle sinfonie più famose, eseguite assieme a quella comunemente conosciuta con il nome di Italiana. Sotto la bacchetta del californiano Jonathan Stockhammer, questa sera l’Orchestra della Toscana intonerà invece la Sinfonia per archi n. 6 in mi bemolle maggiore, scritta nel 1821 da un Mendelssohn adolescente e sesta delle 12 Sinfonie giovanili che, dopo la morte del compositore, non vennero pubblicate nei 36 volumi degli Opera omnia, rimanendo nell’oblio più totale sino al 1967. 13 July 21st, 2015 Ernest Bloch al Quintetto Chigiano (1957) Mendelssohn, Bloch e Golijov: un viaggio ad occhi chiusi nella cultura ebraica 19 lug 2015 di Carla Monni Tre compositori di origine ebraica, nati in tre differenti periodi, che hanno concepito tre musiche in maniera diversa, racchiusi tutti nell’ottavo concerto de #ilclassicoinatteso al Teatro dei Rozzi. Mendelssohn, Bloch e Golijov sono tre, il numero della stabilità e dell’equilibrio, secondo la concezione cabalistica ebraica; tre come gli elementi, fuoco, aria, acqua, che riposano su di un quarto, la terra. Sono figli del millenario pensiero della tradizione ebraica, dettato in primis dalla Cabala, l’insieme degli insegnamenti esoterici e mistici, diffusi già a partire dal XII-XIII secolo, che mirano a spiegare il rapporto tra la natura dell’universo – immutabile, eterno e misterioso Ein Sof (“senza fine”) – e l’universo mortale e finito (creazione di Dio), portando il genere umano a comprendere lo scopo dell’esistenza e conducendolo verso la realizzazione spirituale. E ancora oggi in un’epoca, a detta del rabbino Bradley Shavit Artson, «affamata di significato e senso di appartenenza», tutti bramiamo nel carpire la vita che si cela sotto le forme esteriori della realtà. Gershom Scholem infatti afferma nel suo Major Trends «la ricerca della vita nascosta dell’elemento trascendente in questa creazione formerà sempre una delle preoccupazioni più importanti della mente umana». Qabbaláh significa «ricevere», ma anche «tradizione», una tradizione che Osvaldo Golijov racconta nel suo poema sinfonico per clarinetto klezmer e orchestra d’archi (I sogni e le preghiere di Isacco il Cieco, 1994), dove quell’elemento trascendente “ricercato” viene ora proposto attraverso mezzi puramente musicali. Lavoro toccante, «una sorta di epica storia del giudaismo», e sapientemente interpretato dall’Orchestra Toscana con David Krakauer al clarinetto, clarinetto basso e al corno di bassetto. L’immagine centrale è quella del rabbino medievale Isaac il Cieco che, circa 800 anni fa, scrisse che ogni cosa nell’universo è prodotta dalle lettere dell’alfabeto ebraico. Da lui parte dunque il pensiero cabalistico, secondo cui le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, combinate tra loro, erano preesistenti alla stessa creazione del mondo. Isaac è Sagghì Neho, ovvero “con Molta Luce” nel senso di avere una vista eccellente. Per quanto l’epiteto aramaico sia paradossale, Isaac il Cieco ha la vista migliore perché è colui che percorre l’albero della conoscenza.Il non vedere per il compositore è fondamentale al fine di entrare totalmente in contatto con il trascendente, secondo anche quella predilezione ebraica per l’ascolto piuttosto che per la dimensione visiva. Golijov percorre un viaggio che suddivide in cinque movimenti, in cui si estendono le splendide inflessioni Published by: massicov musicali ebraiche di David Krakauer sui molteplici clarinetti. Krakauer fa cantare il suo strumento nel registro ora sovracuto e poi più grave – imitando per esempio con movenze singhiozzanti prima un battito cardiaco poi una fisarmonica nel Preludio –, come è tipico delle tradizioni musicali ebraiche est europee. Il clarinettista ci accompagna nel mondo yiddish intonando sonorità meditative ed espressive di una potenza impressionante e un tocco virtuosistico al momento opportuno. Melodie spesso trillate e dal ritmo incalzante che vengono accompagnate dagli accenti e i pizzicati “classici” dell’orchestra. Nonostante Golijov sia nato in Argentina, egli è comunque figlio della Shoah e nella sua cultura musicale rivivono le storie di Terezin, sede di un’antica guarnigione militare e poi, dal 1941, ghetto ebreo. A Terezin furono internati circa 2000 artisti, tra cui compositori, musicisti, pittori, scrittori, poeti, attori che a costo di sacrifici estremi riuscirono a preservare il diritto alla creazione. Nonostante le enormi difficoltà per reperire strumenti e partiture, a Terezin si svolgevano regolarmente concerti e spettacoli musicali. Il ghetto fu il palcoscenico di molte prime esecuzioni per i compositori che ebbero la sventura di transitarvi. Tra questi possiamo menzionare Viktor Ullmann e il suo Der Kaiser von Atlantis su libretto di Peter Kein. Il regime nazionalsocialista giunse perfino a bandire la popolarissima musica di Felix Mendelssohn, l’artefice della riscoperta di Bach e l’autore di oratori profondamente luterani quali l’Elias o il Paulus, nonché della Sinfonia La riforma. Tra le composizioni mendelssohniane bandite dal Terzo Reich ci furono le 12 Sinfonie giovanili scritte tra il 1821 e il 1823, che vennero alla luce solo nel 1967. Nel primo tomo è inserita anche la Sinfonia per archi n. 6 in mi bemolle maggiore, eseguita ieri sera dall’Orchestra della Toscana, diretta da Jonathan Stockhammer. Dalla struttura tripartita, la Sinfonia testimonia le doti di freschezza ed elegante brillantezza di un Mendelssohn giovane e spontaneo. Basti pensare solo al tema del primo movimento, breve e incisivo, intonato dalle pennellate dei violini; tema che ricorrerà per l’intera composizione e in particolar modo nella sezione centrale del Minuetto, in cui le vivaci entrate e il background di note lunghe intonate dai violoncelli e dai contrabbassi preparano i ritmi danzanti e dialoganti delle viole e dei violini. Al pari di Mendelssohn, che definì la sua cifra stilistica a partire dall’eredità del periodo classico, in particolar modo guardando alla musica di Haydn, l’eclettico Ernest Bloch volge il suo sguardo al passato e ancora più indietro, concependo il Concerto Grosso n. 2 (1952) secondo il modello classico in quattro tempi standardizzati da Francesco Geminiani. Ma l’opera presenta in realtà poliedriche influenze. Bloch adotta prima di tutto lo stile neoclassico, diventato popolare nel 1920 grazie a compositori come Stravinsky e Hindemith, in cui sono incluse le caratteristiche della musica del XVII e XVIII secolo, imbevute però da uno stile decisamente moderno. E così quel Maestoso di ampio respiro comincia nella maniera più classica, in cui il gruppo di strumentini e il ripieno orchestrale intraprendono il loro discorso musicale, arricchito da sottili dissonanze, che sfocia in una sezione più frenetica che anticipa lo stato d’animo lento del movimento successivo: un Andante attraente e rapsodico, che ricorda i 14 July 21st, 2015 Published by: massicov colori timbrici delle melodie idilliache del compositore inglese Ralph Vaughan Williams. E ancora un Allegro robusto e rustico, impregnato di ritmi barocchi rigorosamente quadrati; e infine un Traquillo-Animato, in cui prevarica un tema ostinato discendente e cromatico, che dà l’impressione di una passacaglia barocca, tipicamente bachiana. Partendo lentamente, gli strumenti prendono slancio e culminano in un tempo più veloce che poi conclude sospeso. Al contrario della musica di Mendelssohn e di moltissimi compositori di origine ebraica a cui vennero “depennate” le opere sotto il regime nazista – si pensi a Berg, che morì di stenti dopo che la rappresentazione delle sue opere fu vietata, con il conseguente tracollo economico – Bloch riuscì a sottrarsi dall’etichetta di “musicista degenerato” e, al pari di compositori come Schoenberg, ha avuto il privilegio di appartenere a uno status sociale che gli ha permesso di poter scegliere se restare nella loro terra natale o espatriare oltreoceano. È chiaro dunque che i tre autori hanno attraversato destini e storie differenti, e “raccontarli” insieme testimonia quanto in fondo siano legati da un unico filo rosso quale è la loro origine; sono tre, come la “corda triplice che non verrà spezzata con facilità”, poiché forte e duratura, ancora secondo la concezione cabalistica. Il Festival ha voluto riportare in vita la Sinfonia mendelssohniana, far emergere il recupero della musica settecentesca nella composizione moderna blocheriana e volgere l’attenzione a quello che succede oggi nel mondo artistico proponendo l’opera di Golijov, il tutto in una prospettiva contemporanea, affinché le musiche del passato vivano ancora nel presente. Un passato che esplorato, attinge a piene mani a ciò che esso nasconde, facendone tesoro per il futuro. 15