July 21st, 2015
Published by: massicov
Tell Me Chigiana: un progetto di storytelling
per il #classicoinatteso
Tell me Chigiana ha raccontanto con immagini,
interviste e recensioni
il Chigiana International Festival and Summer Academy
2015.
Tell me Chigiana è una redazione per la comunicazione
digitale coordinata da Massimiliano Coviello
e Laura Tassi e composta da Antonella Varvara, Carla
Monni, Francesco Milella e Vera Vecchiarelli.
un vincolo contenuto nell’atto di donazione alla Biblioteca, le
musiche erano rimaste chiuse alla consultazione. Un vincolo
sciolto solo grazie all’interessamento del Vice Cancelliere della
Reale Accademia d’Italia.
Il criterio scelto dalla Chigiana per la selezione delle musiche
in programma fu quello di eseguire tutti gli aspetti della
produzione vivaldiana (teatrale, religiosa, strumentale e
cameristica), concentrandosi – per quanto possibile – sulle
musiche inedite.
In questo modo Siena «era destinata a rivelare al mondo, per
la prima volta dopo due secoli, degli aspetti sommi dell’arte
vivaldiana» (dal programma della Settimana Musicale Senese,
1939).
A dire il vero, l’idea di consacrare la prima Settimana Musicale
a Vivaldi venne al Conte Chigi già nel 1928, in reazione
all’esperienza del VI Festival della Società Italiana di Musica
Contemporanea, organizzato a Siena da Alfredo Casella.
Ri-comporre Vivaldi
10 lug 2015
di Vera Vecchiarelli
Richter e Vivaldi. Un binomio ormai assodato, un successo da
milioni di contatti su Youtube e Spotify, approda a Siena ed è la
prima delle celebrazioni estive del 50° anniversario del Conte
Chigi.
Il concerto è una chiave di lettura rappresentativa della
programmazione 2015: classico come «concetto non solo
legato al passato, profondamente inserito nelle radici della
nostra storia e della nostra cultura, ma anche all’energia del
presente» spiega il Direttore Artistico Nicola Sani. Quindi un
ponte tra ieri, oggi e domani.
Vivaldi funziona come anello di congiunzione tra passato e
presente, tra Richter, il Conte Chigi e l’Accademia.
Perché Richter è un ex allievo della Chigiana, così come il
compositore spiega in un’intervista, e come tutti gli ex allievi
mantiene un legame affettivo con l’Istituzione: «amo Siena,
amo l’Accademia, è un’occasione perfetta. In un certo senso
per me sarà un ritorno».
Perché Siena vanta un primato prezioso nell’ambito della
Renaissance vivaldiana, che ha permesso nel corso nel
Novecento la vera e propria riscoperta dell’autore veneziano.
Il programma della prima Settimana Musicale Senese (1939),
era dedicato infatti a Vivaldi e interamente basato su musiche
italiane del Settecento.
Gli inediti vivaldiani erano stati studiati a partire dal 1936 dalla
violinista Olga Rudge, Segretaria dell’Accademia, ed erano
di proprietà della Biblioteca Nazionale di Torino. A causa di
I documenti d’archivio ci svelano i retroscena dell’iniziativa,
relativi in particolare alle reciproche reticenze tra i
compositori contemporanei e gli amanti di un tipo di musica
più tradizionale. Nelle Ricordanze il Conte scrive:
Della Settimana Musicale festivaliana del 1928, io
trassi l’idea delle attuali Settimane settembrine,
che nel 1939 organizzai e sostenni in onore di
Antonio Vivaldi, [...] monito severo e giusto alle
tante, alle troppe musiche… farmaceutiche che
infestano, straziando orecchie e offendendo la Divina
Arte, quella vera, scritta con tutte «maiuscole»
ed a massima onta di molti odierni così detti
«Maestri», quali non sono che dei poveri, miserevoli
«farmacisti»… con tutte «minuscole»!
D’altro canto, ecco quanto comunicato il 10 luglio 1938 da
Alfredo Casella in merito all’invito a partecipare alla Settimana
Vivaldiana rivolto a Ildebrando Pizzetti:
Carissimo Conte, sta bene per la riunione “vivaldiana”
al 24. Per quanto riguarda Pizzetti, credo che Ella farà
bene invitandolo. Dubito però che venga, perché ha
dato una adesione subordinata ai suoi soliti ma, se
ecc.; cioè ha detto che voleva prima conoscere le opere
teatrali del prete rosso per sapere se non erano in
contraddizione coi noti principi drammatici che egli
difende da anni.
Insomma una polemica e un dibattito accesi, che vedono la
Chigiana giocare un ruolo importante.
A distanza di oltre 75 anni Vivaldi è ancora protagonista,
stavolta “ricomposto” con l’apporto dell’elettronica, un
tentativo – come spiega Richter – di «riconnettersi con
l’originale, di riscoprirlo, di cercare una nuova a strada
attraverso questo magnifico paesaggio che Vivaldi per primo
aveva disegnato».
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July 21st, 2015
Published by: massicov
Fondatore nel 1989 dell’ensemble “Piano Circus”, con il quale
irrompe nei templi dell’hard rock londinese, il lavoro di
Richter è da sempre caratterizzato dalla ricerca di percorsi
trasversali, di una via di mezzo tra l’impegno compositivo, il
confronto con altri generi musicali e con il balletto, l’arte, il
cinema.
rompere l’isolamento della musica d’oggi rispetto al grande
pubblico.
Secondo Richter la musica classica è sempre stata viva e
contemporanea, e i compositori sono chiamati a cercare nuovi
strumenti, nuovi stili espressivi, nuovi modi di raccontare
storie, in linea con il loro tempo.
Come ha spiegato Stefano Jacoviello nel lounge di ieri sera,
il lavoro di Richter è il risultato di una riflessione filosofica
sul tempo che muove dalle esperienze delle maggiori correnti
musicali del Novecento.
L’inaugurazione dell’International Festival and Summer
Academy segna un nuovo inizio, ed è naturale per l’Accademia
ricominciare proprio dal Conte, riprendere il filo dove l’aveva
lasciato, ripartendo idealmente proprio dai concerti delle
Stagioni storiche.
Il problema del tempo nella musica del XX secolo coincide
con la nascita e diffusione del disco, che altera profondamente
le dinamiche dell’ascolto. Se prima la musica poteva essere
ripetuta solo con l’esecuzione dal vivo, sempre uguale e sempre
diversa, con la riproduzione meccanica del suono si inizia a
riproporre sempre uguale a se stessa, ma in tempi e luoghi
diversi.
Ha dichiarato Stefano Jacoviello, protagonista del Chigiana
Lounge di questa sera (ore 19.00, Ridotto del Teatro dei
Rinnovati).
La musica di Richter nasce da una profonda
meditazione sul tempo, sulla memoria della musica
e sul modo di ascoltarla attraverso le epoche. Con
il suo lavoro di ricucitura, Richter ci fa capire
immediatamente che, sebbene le note di Vivaldi
trovino un’eco negli archi della disco-dance, è anche
vero che oggi per noi è quasi impossibile ascoltare
Vivaldi senza Gloria Gaynor.
Infra per pianoforte, archi ed elettronica, originariamente
composta per balletto, trova la sua forma definitiva nell’album
della “FatCat Records” del 2010, interpolata con materiali
melodici della Winterreise di Schubert.
Dunque ancora un modo per ripensare, ricomporre e
riassemblare il passato; per rileggere un classico con gli occhi
personalissimi di un compositore immerso nell’oggi.
Tra gli spettatori molti giovani, nuovi alle sale concertistiche,
arrivati a Siena per l’occasione con il biglietto acquistato
già da alcune settimane. Perché Richter vanta un pubblico
affezionato e trasversale.
Ciò scatena una rivoluzione filosofica, una vera e propria
battaglia sul tempo, che conta tra i suoi storici protagonisti
Pierre Schaeffer e la musique concrète. Questi cercano di
annullare la consequenzialità del tempo, costringendo il suono
in un istante che suona sempre uguale a se stesso. Il tentativo
di annullare il tempo si rivela però un fallimento.
L’esperienza minimalista fa quindi un tentativo diverso:
se il tempo continua a scorrere, non resta che “bloccare”
l’ascoltatore al suo interno. Steve Reich isola così “cristalli
di tempo”, e l’impressione data dall’ascolto è quella di stare
immobili nel tempo, guardandolo passare.
Richter si inserisce in queste riflessioni con un progetto
musicale che parte dall’esperienza di Steve Reich arrivando a
impostare una prospettiva diversa: egli scompone e ricompone
la storia, e lo fa sia in maniera concreta, sia da un punto di vista
filosofico.
Richter taglia e concretamente riassembla la partitura
vivaldiana, riscrivendola con l’apporto di strumenti figli del
nostro tempo, quali il moog – sistema di sintetizzatori basati
su tastiera – e l’elettronica; quindi lavora materialmente sul
tempo musicale, allungando e tirando i metri originali.
Se ad esempio le note di una melodia sono le stesse, ma non lo è
più il metro musicale, noi riconosceremo quella stessa melodia
e la percepiremo come parzialmente variata.
Max Richter vs Kronos
11 lug 2015
di Vera Vecchiarelli
Un teatro sold out, una platea attenta ed eterogenea, una
grande partecipazione hanno segnato il concerto inaugurale
delle attività estive dell’Accademia.
Max Richter ha confermato il successo del suo progetto
musicale, un’operazione collettiva, condivisa, che mira a
L’operazione funziona tanto più se pensiamo all’utilizzo
vivaldiano dei ritornelli, concepiti sin dall’origine proprio per
essere fissati nella memoria, con un ruolo più incisivo rispetto
alle esperienze musicali precedenti. Anche il rapporto con
gli episodi solistici lavora in questa direzione: i ritornelli
non hanno niente in comune con il resto del testo musicale,
e proprio tale estraneità e disordine dei materiali crea
una crescente attesa nello spettatore, accrescendone la sua
funzione catalizzatrice.
I ritornelli dell’opera di Vivaldi nascono quindi per essere
ricordati; hanno cioè la funzione di veri e propri jingle, che
si stampano nella testa e si ricordano per sempre. Richter
sfrutta questa peculiarità, giocando proprio sulle dinamiche
del ricordo: il riutilizzo di queste melodie è particolarmente
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July 21st, 2015
riuscito perché conta su una solida memoria dell’originale.
L’effetto ottenuto è quello di un riascolto effettivo di Vivaldi,
ma filtrato dalla memoria e dalla distanza storica.
Proprio la memoria è un punto fondamentale dell’operazione
del Vivaldi recomposed. Ogni ricordo non è mai preciso e
puntuale, ma selezione, rielaborazione, modifica. Partendo da
questo assunto Richter lavora sul ricordo di quella musica e
sul modo in cui Vivaldi risuona nel contemporaneo.
Egli ci fa meditare su cosa ricordiamo noi di Vivaldi, cercando
di creare una memoria di quella musica. La riproposizione
in musica di un ricordo del passato implica quindi una sua
attualizzazione: la musica antica è ancora musica d’oggi, ma
per esserlo deve essere in qualche modo adattata al nostro
tempo. Quindi anche suonata con gli strumenti che abbiamo
a disposizione:
«Se io scrivessi, oggi, come se la musica elettronica
o il computer non esistessero, beh sarebbe abbastanza
strano» (Max Richter).
Roberto Fabbriciani: the flute
explorer
11 lug 2015
di Carla Monni
Il Chigiana International Festival & Summer Academy
2015 quest’anno mira a seguire la tradizione della storica
Accademia Musicale Chigiana, rivolgendosi anche con lo
sguardo verso i linguaggi contemporanei. Nulla di nuovo se
si pensa che lo stesso Conte Guido Chigi Saracini, fondatore
dell’Accademia, era uomo visionario e versatile, aperto alle
diverse forme artistiche e letterarie. Un uomo che ha da
sempre promosso e conferito all’Accademia un’esperienza
inebriante, giovanile e curiosa.
La molteplice proposta di quest’anno rispecchia dopotutto
quello che era in passato l’idea delle Settimane Musicali
Senesi, in cui nella raffinata sede Chigiana si respirava
un’aria internazionale dove si studiava con «spregiudicatezza
e libertà», un «luogo dotato di una sua spiccata originalità»,
ha scritto Roberto Barzanti in Profumi e dottrina, un articolo
del 1982. Sia dal punto di vista didattico che artistico
l’Accademia ha sempre puntato su nomi contemporanei, che
hanno “modernizzato” lo stesso impianto della scuola senese.
Published by: massicov
Una delle personalità chiave fu Alfredo Casella che negli anni
Trenta promosse la creazione di uno stile moderno, tentando
una prima via di emancipazione dall’eredità soprattutto
operistica ottocentesca e verista piccolo-borghese, di cui era
impregnata l’intera musica italiana. L’idea dunque era quella
di scuotere soprattutto e in primis i musicisti alle più svariate
fondamenta musicali – per nulla unilaterali e piatte – e solo in
seguito le “masse”.
Per la prima volta quest’anno #ilclassicoinatteso
dell’Accademia Chigiana aspira a un pubblico plurime
e diversificato. Non solo dunque il semplice spettatore
ordinario, pronto a riempire le sale del teatro e questo grazie
a una programmazione in cui il rispetto della tradizione si
innesta appieno nell’innovazione e nella contemporaneità.
Nel programma de #classicoinatteso non poteva mancare
Roberto Fabbriciani secondo cui «l’obiettivo è quello di
portare la musica d’arte ad un pubblico più vasto». Interprete
originale ed artista poliedrico, Fabbriciani è stato allievo e poi
assistente di Severino Gazzelloni che dal 1965 al 1992 insegnò
all’Accademia Chigiana, uno dei primi pionieri – negli anni
Sessanta e Settanta – della riscoperta moderna in Italia del
flauto, strumento che, grazie all’artista, iniziò gradualmente
ad essere apprezzato per le sue singolari caratteristiche di
agilità, bellezza del suono e alle ampie possibilità nell’utilizzo
solistico.
Grazie a Gazzelloni, Fabbriciani inizia una ricerca personale
e sperimentale sul suo strumento, modernizzandone in
seguito la tecnica e sviluppandone le potenzialità sonore.
Tra i migliori interpreti a livello internazionale, Fabbriciani
ha collaborato con alcuni tra i maggiori compositori del
nostro tempo, tra cui Giacinto Scelsi, Bruno Maderna, Henri
Pousseur, Luciano Berio, Franco Donatoni, György Kurtág,
Luigi Nono, che questa sera omaggerà con il concerto
intitolato The Flute Experience, per flauto solo ed elettronica,
in cui il flautista percorrerà cinquant’anni circa di musica
contemporanea mirando, citando il titolo, a far vivere
un’esperienza totalizzante allo spettatore.
Il programma di questa sera tocca le infinite sfaccettature
avanguardistiche musicali della seconda metà del secolo
scorso. Otto composizioni che hanno rivoluzionato il rapporto
tra compositore ed esecutore ma soprattutto brani in cui
lo strumento più antico del mondo – il flauto – viene
“raccontato” in un viaggio tipicamente novecentesco e
oltre, grazie alle tecniche strumentali più avanzate, che
caratterizzano i linguaggi propri della musica contemporanea,
e in cui, a partire dalla seconda metà del Novecento la live
electronics – successiva all’avvento della musica per nastro
magnetico – è ampiamente utilizzata.
Per Fabbriciani la musica elettronica oggi «è un linguaggio
indispensabile»; ma il flautista sostiene anche che
l’aspetto tecnologico è servito a fare un nuovo passo
avanti, ma non si compone perché si hanno nuovi
strumenti ma perché un pensiero musicale innovativo
per esprimersi ha bisogno di questi mezzi.
Ciò che accomuna i lavori presentati questa sera è un’idea
estetica che si aggira attorno all’esplorazione sonora; tutte
opere in cui il suono viene plasmato come materia viva. Dallo
sperimentalismo di Bruno Maderna con Cadenza tratto da
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July 21st, 2015
Dimensioni III (1962) si passerà al virtuosismo richiesto in
Sequenza I di Luciano Berio (1958); da una dimensione
spaziale del suono in Das atmende Klarsein, fragment (1981)
di Luigi Nono a una più mistica in Pwyll (1954) di Giacinto
Scelsi; dal pezzo di vasto respiro elettroacustico Zeus joueur
de flûtes (2006) che Fabbriciani compose assieme a Henri
Pousseur sino all’espressionismo elettronico di Suoni per Gigi
(2007) dello stesso Fabbriciani, dedicato alla memoria del suo
amico Luigi Nono.
Non ci resta dunque che attendere il concerto di questa sera,
perché a detta di John Cage «qualsiasi cosa [Fabbriciani]
suona è sempre nel modo migliore».
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programma scelto dall’artista è una sintesi molto dettagliata di
questo progresso che lui stesso ha contribuito a perseverare,
cogliendola lezione e continuando in un certo senso la
strada che aveva aperto negli anni Sessanta il flautista
sperimentatore, suo mentore e maestro, Severino Gazzelloni.
La scelta delle otto composizioni eseguite, che racchiudono
circa cinquant’anni di musica contemporanea, non è casuale.
Sono tutti brani in cui la materia sonora viene plasmata
attraverso il flauto che trascende la propria natura, diventa
percussione, esplosione polifonica, alito, sottile lamento e
quant’altro concesso dalla fantasia dell’ascolto.
Fabbriciani utilizza il suono per creare contrasti di puro colore
e arricchisce la sua “tavolozza cromatica” con l’uso di trilli e
note ribattute in Pwyll (1954) di Giacinto Scelsi, suoni ampi
e virtuosistici in Cadenza, tratto da Dimensioni III di Bruno
Maderna, salti agili e frenetiche scale ascendenti e discendenti
in Sequenza I di Luciano Berio, i glissandi e i frammenti
melodici e ritmici mobili nei due pezzi che compongono Midi
di Franco Donatoni.
Fondamentale per Fabbriciani, in linea anche con la poetica di
alcuni compositori del Novecento, è l’indagine timbrica sullo
strumento, che diventa aspetto centrale nella sua musica e
nelle esecuzioni.
Fabbriciani e le infinite nuance
del suo strumento
12 lug 2015
di Carla Monni
Un’atmosfera intima si è respirata ieri nel Cortile del
Rettorato dell’antica Università senese per il secondo concerto
de #ilclassicoinatteso con il poliedrico e originale artista
Roberto Fabbriciani. La serata è iniziata con un ricordo dello
straordinario pittore appena scomparso, Gabriele Amadori
, che avrebbe dovuto prestare il suo pennello alle sonorità
espanse di Fabbriciani, accompagnando il suo flauto in tempo
reale con uno spettacolo che, sulla scia di Jackson Pollock,
aveva chiamato Action Painting . L’obiettivo sarebbe stato
quello di ricercare le infinite sfaccettature offerte dai loro
strumenti, il flauto e il pennello, all’insegna della creazione
musicale istantanea, con una certa libertà di linguaggio e una
personale fantasia esecutiva.
Al pari della pittura, anche la musica si esprime attraverso
forme e colori. Il suono è materia e colore e, come
scrive Kandinskij nello Spirituale nell’arte, i toni atmosferici
dell’azzurro rappresentano musicalmente il flauto. E non
è forse un caso che il titolo stesso della serata The Flute
Experience, riecheggi quel colore azzurro kandinskijano
dotato di un movimento orizzontale, concentrico e centripeto,
perché si avvolge su sé stesso, creando un effetto di
immersione che attira lo spettatore.
Fabbriciani vuole infatti far vivere allo spettatore
un’esperienza centralizzante, che si distacca dal tradizionale,
proponendo un repertorio contemporaneo che ha innovato il
flauto, diventato strumento principale della nuova musica. Il
Uno degli elementi dominanti è sicuramente il soffio che
utilizza in particolar modo in Doloroso di György Kurtàg,
caratterizzato da una melodia ariosa e lirica, nel suo Suoni per
Gigi, dedicato all’amico e collaboratore Luigi Nono, e in Zeus
joueur de flûtes, un lavoro per flauto, nastro magnetico e live
electronics scritto da Henri Pousseur e dallo stesso Fabbriciani
nel 2006.
In Zeus joueur de flûtes la parte del flauto, inedita, è molto
complessa e prevede l’impiego di quattro tipi di flauti: basso,
contralto, flauto in do e ottavino. Strumenti differenti, che
grazie alla maestria dell’artista e secondo il proprio approccio
interpretativo, riesce magistralmente a interpretare. Il flauto
assume una veste “ornitologica”, duetta e imita la parte
elettronica, costituita dall’elaborazione di una composizione
di musica elettronica preesistente, e viene potenziato e
rinnovato grazie al live electronics. La composizione dà voce
a un racconto mitologico ed evocativo contemporaneo, i cui
protagonisti sono Zeus e gli uccelli rappresentati dal flauto.
Per Fabbriciani l’utilizzo delle apparecchiature elettroniche
modificano il rapporto tra la musica e l’ascoltatore
permettendo a quest’ultimo di stare al centro di un sistema dai
confini fluttuanti.
L’idea estetica che accomuna le otto composizioni è il
loro percorso compositivo innovativo. Tutte nascono da
procedimenti creativi basati soprattutto sull’improvvisazione
con cui si “fissano” le idee che, a detta di Fabbriciani, vengono
“proposte”, poi analizzate, e solo in un secondo momento,
attraverso registrazioni, finalmente trascritte su partitura.
Tutte le composizioni proposte danno un’idea di
improvvisazione, ma che in realtà non è tale, non essendo
infatti casuale. Anzi, tutto è assolutamente ponderato, anche
se spesso le parti sembrano improvvisate, ma per il semplice
fatto che sono finalmente libere da certi schemi.
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July 21st, 2015
Fabbriciani sostiene che la musica è libera, deve volare! La
musica dunque vuole essere “aperta”, uno spazio privo di
confini fisici, rientrante in una dimensione spaziale –più
coinvolgente e intrigante – in cui è proiettato lo spettatore,
promossa anche nel Das atmende Klarsein, fragment di Luigi
Nono.
Fabbriciani è un artista-creatore, un artista che continua
ancora oggi la propria ricerca verso la purezza dell’espressione
sonora.
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Nell’intervista che mi ha concesso ieri mattina, il maestro
Sciarrino mi ha raccontato di come abbia conosciuto il testo
di Towitara. I versi, esposti al museo Pigorini di Roma su un
foglio dattiloscritto, erano presentati in una traduzione poco
soddisfacente per il maestro perché troppo letterale; come la
musica, infatti, anche la poesia necessita di interpretazione,
già al momento della sua traduzione, e per questo Sciarrino ha
dovuto rielaborare il testo italiano cercando di far riaffiorare
un significato più profondo.
Ilpoema papuano si trasforma, così, in una specie di manifesto
della didattica del maestro siciliano. La corrispondenza tra
il contenuto della poesia e le considerazioni del compositore
sull’insegnamento a me è apparsa evidente. Niente paura, non
sto per riportarvi l’ennesima opinione sul tema della “buona
scuola”, oggi tanto dibattuto; il discorso di Sciarrino verte più
che altro sul buon senso.
La prova più difficile che uno studente, non solo di musica
ma di qualsiasi disciplina, deve affrontare è losviluppo
della propria autocoscienza; conoscere innanzitutto sé stessi,
quindi, per inventare la propria personalità.
«Il mio discorso non è piacevole» afferma Sciarrino, «perché
chiedo di affrontare i propri problemi». Il compositore
denuncia la mancanza di responsabilità nel lavoro dei giovani,
dovuta non a loro personali mancanze ma ad una scuola e una
società sempre più inclini ad esaltare facili successi.
A scuola di autocoscienza
13 lug 2015
di Antonella Varvara
Questa sera #ilclassicoinatteso vi propone, cari senesi, il brano
di un compositore a voi molto vicino. Non mi riferisco ad
una vicinanza ideologica o affettiva, la intendo proprio in
senso fisico: potrebbe, infatti, capitarvi di incrociare Salvatore
Sciarrino mentre passeggiate per le vie della città antica o di
incontrarlo per caso al bar, mentre prende il suo caffè ristretto.
A lui, compositore tra i più conosciuti, apprezzati ed eseguiti
a livello internazionale, è stata affidata quest’estate la cattedra
di composizione della Chigiana. È già la quarta volta che il
Maestro partecipa ai corsi dell’Accademia e la sua presenza,
come sempre, ha richiamato molti giovani musicisti in città,
tutti curiosi di imparare qualcosa da un compositore che è
anche uomo di grande e raffinata cultura. Con entusiasmo e
interesse gli studenti della sua classe seguono in questi giorni
le prove di Carnaval, un’opera che, guarda caso, parla proprio
di didattica.
A proposito dei due protagonisti della narrazione il suo testo
poetico fornisce pochi ma fondamentali dettagli: essi sono un
maestro e il suo allievo, entrambi alla ricerca della “chiave”
della creatività, un percorso impegnativo che si avvale tuttavia
di strumenti più che consoni alla natura umana.
Con un gioco di metafore, tutto parte da una riflessione:
mentre si specchiano nell’acqua sorgiva i due “creatori
d’immagini” del testo del poeta Towitara si trovano faccia a
faccia con sé stessi, si riscoprono (o si scoprono) per poter
cominciare ad inventare; il passo successivo è la condivisione
di questa nuova dote con i propri amici, un atto naturale per
l’uomo in quanto essere sociale.
Nulla si raggiunge senza fatica, ci vogliono anni di
lavorio per creare; non bastano le buone intenzioni.
Non si compone per il pubblico ma bisogna cercare
un linguaggio individuale e ciò richiede grande
autodisciplina ed educazione.
La fatica di cui parla Sciarrino è, però, anche piacere: lo studio
è piacere della scoperta e in esso, così come nello scrivere e nel
creare, deve esserci necessariamente una forte componente
affettiva.
Per esprimersi nell’arte è indispensabile fare appello alla parte
irrazionale del proprio pensiero ed è qui che il rapporto
con l’altro, con l’amico diventa essenziale. In Carnaval, ad
esempio,è stata l’amicizia con il pianista Maurizio Pollini il
motore che ha dato il via a tutta la composizione.
Carnaval offre una ricetta utile all’educazione non solo degli
artisti ma anche degli ascoltatori. «Mentre con l’orecchio
sprofondiamo nel non udibile, la coscienza comincia a
risuonare» scrive il compositore nelle note di sala del concerto.
Nel silenzio, che esalta il suono, ci viene dunque offerta
un’occasione per riflettere e scoprire qualcosa di nuovo sul
mondo e su noi stessi. Anche in questo caso il percorso non è
facile.
Molti di noi a sentir parlare di un certo genere di musica
contemporanea hanno l’idea di un’esperienza d’ascolto, per
così dire, “soporifera”. Eppure, nelle intenzioni del vero
artista, l’effetto desiderato è opposto. Afferma Sciarrino:
L’idea di musica per riempire gli stadi è una bugia
politica, serve solo ad assopire la coscienza.
Questa sera, dunque, vi invitiamo a prendere parte a questa
“scuola di autocoscienza” e ad apprendere, da un vero Maestro,
una lezione che certamente non si finisce mai di imparare.
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July 21st, 2015
Appuntamento alle 21.15 al Teatro dei Rozzi di Siena con
i Neue Vocalsolisten Stuttgart, i Klangforum Wien, Daniele
Pollini e Tito Ceccherini direttore.
Published by: massicov
di “madrigali concertati” attribuita dall’autore ai numeri vocali
della composizione.
Sani nota bene come nell’utilizzare quest’ultima etichetta si
debba andare al di là delle analogie timbriche e sonore con i
brani cinquecenteschi; il rimando serve a «riscoprire la radice
poetica dell’opera» e ad evocare il peculiare rapporto che essa
intrattiene con il silenzi.
Nelle parole di Sciarrino troviamo la conferma di questo
legame tutto da interpretarsi: sembra un po’ un ossimoro ma
i suoi madrigali a cinque voci non sono polifonici, ognuno
di essi mira a creare una monodia, un canto unico a cui
prendono parte più interpreti.
È sul discorso generale, portato avanti dal testo poetico, che
si concentra l’attenzione; le voci, impiegate alla stregua di
strumenti musicali, costruiscono insieme questo significato
unitario preoccupandosi di rendere le parole del testo
perfettamente intellegibili.
di Antonella Varvara
Sicuramente non manca, nella scrittura musicale, un
certo “descrittivismo”, in questo caso mutuato davvero
dal madrigale: la musica, infatti, aiuta a disegnare alcune
immagini del testo come, ad esempio, quella dell’acqua
che zampilla dalla roccia, effetto reso grazie all’uso delle
dinamiche.
Sarà stato perché in prima integrale assoluta, o perché segno di
un cambiamento importante nella programmazione musicale
dell’estate senese, ma alla recita del Carnaval di Salvatore
Sciarrino, ieri sera al teatro dei Rozzi, si respirava davvero aria
di novità.
Anche la parte “concertante” dei primi nove numeri di
Carnaval sembra far parte di quest’unico canto, con gli
strumenti che ribadiscono a turno quanto appena esposto
dalle voci mentre i violoncelli costruiscono un sottile tappeto
sonoro.
Se considerato in relazione al resto della produzione di
Sciarrino quest’opera, in realtà, non si avvale di molti elementi
inediti: ognuno dei dodici frammenti che la compongono si
riallaccia, infatti, ad una ricerca già sperimentata dal musicista
in lavori precedenti.
L’ascolto di Carnaval comunica l’intenzione compositiva del
suo autore e non è difficile rintracciare in questa esperienza
il percorso che lo ha portato alla sua produzione. Sciarrino
afferma, infatti, di essere partito da un’idea generale di quello
che sarebbe stato il suono complessivo del brano, per poi
arrivare ad evidenziare su carta i diversi elementi che lo
avrebbero costituito.
“Un viaggio più sorprendente
del mio”: Carnaval di Sciarrino
14 lug 2015
È l’idea che lega le sue diverse sezioni la parte più curiosa di
Carnaval. Sciarrino afferma, infatti, di aver voluto creare «un
libro di musica», un contenitore in cui racchiudere una piccola
antologia di momenti musicali eterogenei.
Considera questa composizione un’opera letteraria perché
pensata per durare nel tempo, proprio come i testi inseriti
al suo interno. Sebbene scritti da mani diverse in luoghi e
circostanze differenti, essi condividono, infatti, la loro ragion
d’essere e il loro scopo, ovvero tramandare conoscenza, finalità
che, di rimando, diventa propria anche dell’opera di Sciarrino.
Il legame col tempo e con la memoria è fondamentale per il
compositore: «There’s no new without old and no old without
new» sottolinea in un’intervista d’oltreoceano, un concetto
espresso anche da Nicola Sani durante la chiacchierata preconcerto del Chigiana Lounge.
La cultura è legame, è connessione sia col passato ma anche
col presente, con quella memoria collettiva senza cui non
potremmo apprezzare il nuovo.
Il rapporto tra la musica del passato e quella di Sciarrino è
complesso. Nel caso di Carnaval credo sia facile fraintendere
e semplificare questa relazione sia per via del suo titolo, un
tributo all’omonimo brano di Schumann, sia per la definizione
È proprio questa idea di suono complessivo che arriva al
nostro orecchio: ci si cala in un paesaggio di rumori inconsueti,
un silenzio in cui eventi sonori accadono, si materializzano
senza denunciare la loro sorgente e scompaiono prima ancora
di averti raggiunto. I sensi si risvegliano perché intenti
ad identificare ciò che percepiscono; l’orecchio resta in
attesa di maggiori informazioni da elaborare finendo, però,
immancabilmente per essere nuovamente sorpreso.
La ricerca di Sciarrino sulla fisicità del suono amplia la
tavolozza delle possibilità espressive dei vari strumenti al
punto che del loro suono “classico”, quello a noi più familiare,
non resta quasi nulla. Questo crea un effetto di smarrimento
che giunge al suo culmine nel brano strumentale, il penultimo,
in cui il suono limpido del pianoforte solo risalta nel dialogo
col resto dell’ensemble.
È questo il momento più patetico della composizione, in cui
gli strumenti si contrappongono tra loro in un certamen che
solo in ultima istanza diventa finalmente concerto. L’ultimo
brano, quasi telegrafico in rapporto alla variopinta sezione
precedente, torna a coinvolgere le voci per raccontare la storia
di Tao Yamming che «non sapeva la musica ma teneva presso
di sé un liuto senza corde» da toccare nei momenti «di
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July 21st, 2015
pienezza», un finale che ci lascia riflettere sull’esigenza umana
di creare e comunicare.
Con Carnaval Sciarrino ci invita ad intraprendere un viaggio
che, se non rifiutato a priori, può essere «più sorprendente del
mio». È una musica democratica che ci invita a partecipare alla
costruzione del suo significato e che, sempre citando l’autore,
«deve “puzzare” di ognuno di noi».
L’ascoltatore è il centro della musica, non la partitura;
l’interpretazione è, dunque, personale ed emotiva. Non
importa se il viaggio vi porterà in fondo al mare o a sentir
cantar le stelle; l’importante è lasciarsi andare.
Published by: massicov
E così accadde con “Carnaval”, una particolare raccolta di
brevi pezzi per pianoforte di Robert Schumann pubblicati nel
1837. In quegli anni di intensissima attività il ventiquattrenne
compositore tedesco, frequentando la casa del suo maestro di
pianoforte, Frederick Wieck (padre della celebre Clara), pose
il suo sguardo su una delle allieve, Ernestine von Fricken,
originaria della città boema di Aš.
Con non poco stupore il giovane pianista si accorse subito
di una singolare coincidenza: le lettere del nome della
cittadina, Aš, la cui pronuncia in tedesco suona “Asch”,
comparivano anche nel suo cognome, ma non soltanto: nel
mondo anglosassone, corrispondevano a delle note musicali.
Un caso o forse un segno che il destino stava mandando a
Schumann per rassicurarlo sul suo futuro sentimentale? Da
buon adolescente romantico, optò per la seconda: quello era
un segno che doveva diventare musica. E lo divenne.
Le quattro lettere A-S-C-H si trasformarono rispettivamente
nelle note la-mi bemolle-do-si che servirono a Schumann per
creare un tema particolarmente dolente che a sua volta venne
utilizzato come base per tutti i brani di questa raccolta.
Insomma, un romantico ed originale crittogramma.
Ma Carnaval è anche altro: questa romantica ed originale
corrispondenza tra le note che definiscono questa raccolta e
quelle quattro lettere per lui così significative non sono che
la base di un lavoro ben più profondo ed intimo che va al di
là dell’amore per Ernestine ed arriva a toccare le corde più
sensibili del cuore e della mente schumanniana.
Crittogrammi e metafore: il
Carnevale sentimentale di
Robert Schumann
14 lug 2015
di Francesco Milella
Non sono poche, nella storia della musica, i casi di
crittogrammi musicali in cui i compositori hanno cercato di
giocare con la musica costruendo melodie e intere partiture
con le note suggerite dalle lettere di una parola.
L’iniziatore di questa singolare e divertente pratica pare sia
stato, nel XVI secolo, il fiammingo Josquin Desprez che,
dovendo scrivere una messa in onore di Ercole duca di Ferrara,
fece coincidere le lettere del committente (Hercules Dux
Ferrariae) con le lettere della solmizzazione, ideata a cavallo
dell’anno mille di Guido d’Arezzo (ut-re-mi…), traendo così il
soggetto musicale dalle vocali: Her – re, cu – ut, les – re, Dux
– ut, Fer – re, ra – fa, ri – mi, ae – re.
Altrettanto famoso fu il caso di Bach che, qualche secolo
dopo, approfittò della insolita coincidenza delle lettere del suo
cognome col nome anglosassone di quattro note (B-A-C-H),
per comporre una serie di fughe con le note Sibemolle – La –
Do – Si naturale in una dilettevole satira su sé stesso.
Nell’Ottocento ovviamente la situazione non poteva che
cambiare. La sofferta esistenza e l’irrequieta intimità di
molti dei protagonisti del romanticismo trasformarono questo
brillante ed originale gioco musicale in uno strumento per dare
libero sfogo ai loro più profondi desideri e paure.
Carnaval è una vera e propria sfilata di tipi umani, personaggi
fantastici e reali che, in un vero e proprio inquietante carnevale
marciano uno dopo l’altro alternati da tre macabre sfingi:
da un notturno Pierrot ad un brillante Arlecchino, dal pio
Eusebius alla vivace Coquette.
Insomma, non c’è bisogno della psicanalisi per capire che
siamo davanti ad una stupefacente metafora: Schumann
mette in scena tutti i fantasmi più oscuri ed inquietanti
che abitavano in quel momento la sua mente, come se il
sentimento d’amore per Ernestine avesse liberato i pensieri
più intimi della sua mente in un drammatico flusso musicale.
Flusso musicale che #ilclassicoinatteso di quest’anno vuole
porre al centro di un dialogo tra musica e letteratura
abbinandolo ad un significativo testimone del nostro
presente, un presente che non necessariamente deve essere
contemporaneo e neanche europeo.
La scelta ovviamente non poteva che cadere su “Le Carnaval de
Schumann” di Armand Godoy. Ovviamente, dico, non soltanto
perché il poeta cubano naturalizzato francese trae chiara e
diretta ispirazione dal capolavoro schumanniano: la raccolta
poetica, proposta questa sera con la traduzione e con la lettura
di Nicola Muschitiello, va ben al di là della trascrizione poetica
delle sensazioni e delle emozioni provate dal grande pianista
per inserirle in una dimensione estetica totalmente nuova.
Questo dialogo vedrà anche un terzo interlocutore nel
coreografo e danzatore Marco Batti che, in collaborazione
col balletto di Siena, contribuirà a rendere ancora
più inatteso questo grande classico per pianoforte. Un
classico trasformato, in questo comunione di musica,
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July 21st, 2015
poesia
e
Published by: massicov
danza,
in
un
vero
e
proprio
dramma
Dando infatti vita e forma a personaggi come Eusebius,
Pierrot, Estrella e Florestan, la danza, grazie anche alla
essenziale regia di Alessio Pizzech, ha costruito una trama
leggera e delicata. In altre e più forti parole, ha delineato
ancora più incisivamente l’universo emotivo che Schumann è
riuscito a creare col suo linguaggio musicale.
Insomma, un viaggio, in una doppia direzione, interiore
ed esteriore, che la raffinatissima penna di Armand Godoy
(1880-1964) ha saputo cogliere con rara delicatezza.
psicologico.
Carnaval, storia di un’intimità
ricostruita
15 lug 2015
di Francesco Milella
“Schumann? chi lo studia più? È un autore trascurato perché
intimo in una società che di intimità non ne ha più”.
Queste parole, pronunciate dal compositore palermitano
Salvatore Sciarrino pochi giorni prima la “messa in scena”
del “Carnaval” schumanniano per “Il Classico Inatteso”, mi
sono parse in un primo momento decisamente forzate. Quanti
dischi, quanti concerti dedicati al genio tedesco!
Ma quel riferimento all’intimità della sua musica
incompatibile con la superficialità della nostra società, aveva
però il suo effetto e soprattutto il suo senso. Forse era vero:
Schumann si studia, ma pochi davvero riescono a viverlo, ad
entrare nella profonda sensibilità della sua estetica e cogliere
il valore del suo messaggio.
Ieri sera, al Teatro dei Rozzi, quest’intimità, in un certo senso,
ha fatto ritorno, per poco tempo, anzi, per poco più un’ora.
Ma è stato sufficiente per coglierne la grandezza, o meglio la
profondità, la teatralità e soprattutto la modernità.
Profondità, teatralità e modernità, sì. Sono proprio queste
parole, di apparente chiarezza, che a mio parere delineano
in maniera più pertinente e forse più intensa lo straordinario
dialogo fra arti che ieri ha avuto luogo nel piccolo teatro
senese.
Innanzitutto profondità, profondità nel suono, nella musica,
vera protagonista di questa serata: grazie proprio al
bravo e raffinato pianista Roberto Prosseda, questo
capolavoro schumanniano ha ritrovano la sua affascinante
tridimensionalità musicale e soprattutto psicologica.
Una tridimensionalità fatta di suoni ora liquidi ora ruvidi, ora
dolci ora amari, in un fragile quanto affascinante equilibrio tra
follia e razionalità, ironia e amore, vita e morte. È un suono,
quello del “Carnaval” schumanniano, che cessa di muoversi
su coordinate verticali ed orizzontali, per andare oltre, verso
l’esterno, verso il mondo e dunque contro tutti i mostri che lo
abitano. Ma anche verso l’interno, verso l’uomo per affrontare
i suoi fantasmi in un viaggio degno di un dramma.
Fuori fa freddo, tanto freddo nell’anima mia. /
L’ebbrezza mi ci vuole, la follia.
Così, con queste parole, inizia il “Carnaval di Schumann”,
scritto nel 1927 come trasposizione poetica del capolavoro
musicale. Parole in cui ritorna chiara e penetrante la
profondità della musica con, però, qualcosa di diverso.
C’è infatti, in questi versi tradotti (pubblicati da Pendragon) e
letti con intelligenza da Nicola Muschitiello alternandosi con
i brano musicali, una sintesi di tutta la sofferenza non solo
dell’ottocento romantico di Schumann ma anche e soprattutto
del novecento di Godoy un poeta che, da Cuba a Parigi, da Poe
a Baudelaire, si è trovato a vivere la lenta fine del
mondo moderno e la rapida, dolorosissima ascesa del mondo
contemporaneo.
Ritornano nelle sue parole i dolori e le sofferenze del
“Carnaval” schumanniano temperate (o forse oscurate?) da
metafore e termini tragicamente novecenteschi allorquando
Godoy si trova a scrivere le parole per “Paganini”:
È l’ultima notte che passerò in questo triste ospedale /
(l’ultima notte d’amore) e domani, / saziato il corpo,
dimentico e brutale, / andrò incontro ai deliranti
tormenti della vita.
Tornano anche, con “Florestan” ad esempio, i sogni
d’amore capaci di far respirare per un attimo un’eternità e
una giovinezza che, se in Schumann odorano ancora di Goethe
e Schiller, in Godoy sembrano accogliere una leggerezza più
effimera e materiale.
È bella la vita, è proprio bella! / Chi ci pensa ai guai,
chi parla di morire! / quando il buon desiderio si
risveglia / per la minima occhiata di una bella?
Nelle sue poesie, che accompagnano con sorprendente
coerenza i vari momenti della musica di Schumann, si ritrova
dunque una modernità ermetica, ricca di metafore e
suggestioni sempre sorprendenti.
Ma resta comunque una modernità suffi cientemente chiara e
trasparente nel condividere il suo obiettivo: ascoltare, scoprire
e vivere Schumann in una luce diversa figlia di un’estetica più
moderna. Più “nostra”.
E tale è stato l’obiettivo della compagnia “Balletto di Siena”
che, con la delicata coreografia di Marco Batti, è riuscita a
rendere ancora più viva ed esplicita la teatralità che anima
l’opera schumanniana.
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July 21st, 2015
Published by: massicov
Fortunatamente, sei anni dopo la prematura morte di Mozart,
nacque a Vienna Franz Schubert, un giovane che in soli
trent’anni di vita, di cui poco meno di venti dedicati alla
musica, riuscì a raccogliere l’immensa eredità storica del Lied,
ripulirlo delle incrostazioni accumulate negli ultimi secoli per
porlo in una dimensione di altissimo prestigio.
Dopo aver messo definitivamente da parte l’opera che si era
dimostrata, per ben diciassette volte, poco adatta a dare forma
alle sue esigenze espressive (in una Vienna oltretutto dominata
da Rossini e Barbaja), Schubert si concede totalmente al Lied,
una forma più intima, più raccolta e lontana dalle luci e
dai vestiti sontuosi dell’opera lirica e dunque più vicina alla
sensibilità comunicativa del musicista.
Storia di un viaggiatore
che diventa straniero: la
“Winterreise”
16 lug 2015
di Francesco Milella
Questa è la storia di un viaggiatore che diventa straniero, di un
amante abbandonato che intraprende un viaggio senza meta
in una terra fredda e sconosciuta.
Maè anche la storia di un giovane compositore, quasi
trentenne, sifilitico, con la morte sempre più vicina, che, in
un frenetico e quasi disumano impeto creativo, in soli otto
mesi scrive alcune delle più profonde opere della musica
occidentale.
Questa è la storia della Winterreise di Franz Schubert una
delle più nobili testimonianze di quanto il giovane musicista
viennese sia stato in grado di realizzare con il Lied, tracciando
così un percorso che avrebbe portato a Schumann, Wagner,
Richard Strauss e Hugo Wolff.
Lied è una parola tedesca tanto semplice quanto multiforme.
Il suo primo significato, si sa, è quello di “canzone” o
“romanza”. Ma basta andare indietro nel passato e frugare,
anche superficialmente, nella sua immensa storia per scoprire
un’affascinante complessità.
Fin dall’epoca carolingia infatti si diffusero in tutta la zona
dell’attuale Germania delle canzoni monofoniche, di forte
impronta gregoriana, con melodie semplici e lineari alle quali
vennero, nei secoli successivi, accostati alcuni strumenti.
Dopo gli strumenti, tra 1400 e 1500 venne la polifonia che
con le sue melodie più popolari cantate da tre o più voci diede
un grande impulso a questa forma musicale. Ma “ahimè”,
dopo la polifonia, venne l’opera: gli innumerevoli castrati, che
dall’Italia avevano inondato corti tedesche e austriache con le
loro arie virtuosistiche, ricche di gorgheggi e trilli, lasciarono
il lied in una dimensione secondaria che visse in ambienti
popolari e raccolti, dunque lontano dalla tradizione colta. Non
bastarono neanche i geni del primo classicismo viennese a
risollevarlo da questa malaugurata sorte.
Come tutti i capolavori, anche questa raccolta di Lieder nacque
quando, nel 1823, il giovane Schubert lesse in una rivista una
serie di brevi poesie di Wilhelm Müller, il poeta a cui il giovane
compositore viennese aveva fatto ricorso per il suo primo ciclo
lideristico Die Schöne Müllerin. Affascinato dalla semplicità e
allo stesso tempo della profondità di quelle parole, Schubert
non ci pensò due volte a metterlo in musica.
Nel 1827, anno della morte del suo venerato Beethoven,
Schubert portò a compimento questo ciclo di Lieder. Il
risultato, com’è noto, è di mirabile fattura: Winterreise è un
viaggio invernale di un amante abbandonato. Deluso dalla vita
e dal suo cuore, questo anonimo viaggiatore inizia un viaggio
metaforico lontano dalla città, lontano dal mondo.
Non più tra i fiori primaverili della bella mugnaia. Ora il
viaggiatore diventato straniero cammina al freddo, tra la neve,
alla ricerca di una strada impossibile da trovare senza la luce
del sole.
Si tratta di un’avventura intima e spirituale in un mondo
gelido, quasi onirico, dove rare, rarissime sono le figure vive:
una cornacchia, il suonatore d’organetto e un vecchietto in
secondo piano che nessuno sembra o vuole osservare. Si tratta
di piccoli e fragili testimoni di un universo solitario. E non
basta neppure la sporadica, seppur delicata, presenza di un
elegante tiglio, a dare luce e calore a questa mesta avventura
la cui meta desiderata non è altro che la morte.
La musica si inserisce in questo viaggio come co-protagonista,
come fedele compagna dell’amante abbandonato. Lo sostiene,
lo aiuta, quasi offrendogli uno strumento di espressione, un
mezzo con cui cantare la propria solitudine e la propria
sofferenza.
Schubert, ponendo sullo stesso piano musicale pianoforte e
voce, trasforma il testo di Müller amplificando i suoi spazi,
rimarcando i suoi colori freddi e caldi con delicati contrasti
melodici e ritmici.
In questo modo la musica di Schubert accentua le tensioni,
le paure, addolcendo allo stesso tempo le vane speranze che
compaiono sulla via dello straniero. Il tutto con un canto
quasi sillabico, chiaro, piano ma tremendamente drammatico
e teatrale.
Seguendo il sentierio già solcato dagli inaspettati dialoghi
culturali e soprattutto temporali tra Vivaldi e Max Richter,
tra Robert Schumann e Armand Godoy, la Winterreise che
questa sera #ilclassicoinatteso offrirà al suo pubblico in prima
9
July 21st, 2015
Published by: massicov
esecuzione italiana prosegue questo percorso di interazione e
confronto fra la musica e le altre arti.
è dunque il pericolo di frantumare e distorcere questa
raffinatissima convivenza tra le due arti.
Dopo la poesia e la danza, tocca oggi alle immagini. Sarà
infatti l’artista William Kentridge che, con le sue creazioni
visive proporrà una Winterreise inaspettata.
Kentridge si inserisce in questo dialogo con delicatezza e
rispetto, accostandosi con lo sguardo di chi conosce bene
Schubert ma lo vive da appassionato.
Una Winterreise in trio dove il pianista Markus Hinteräuser
e il baritono Matthias Goerne saranno accompagnati dalle
immagini dell’artista sudafricano per dare vita un dialogo tra
musica, poesia e immagini.
Egli vede la musica da regista qual è e cioè come «uno spazio
per accogliere altre parole ed altri pensieri». E come tale
la utilizza. La musica dunque non accompagna le immagini.
Né tantomeno queste accompagnano la musica. Anzi: essa
diventa il mondo in cui inserire il suo personale viaggio.
Ripescando, in un amarcord fotografico e sensoriale, tra i
ricordi della sua infanzia a Johannesburg, Kentridge si pone di
fronte alle emozioni che i primi ascolti del Winterreise assieme
a suo padre provocavano in lui: spaesamento, perplessità,
senso di impenetrabilità linguistica e semantica ma anche
consapevolezza di una logica strutturale nascosta in questi
ventiquattro piccoli quadri.
Trio per musica, testo e
immagini: Die Winterreise
secondo William Kentridge
17 lug 2015
di Francesco Milella
A volte si è convinti di intraprendere un viaggio tra la neve e il
ghiaccio di un paesaggio invernale, accompagnato dal silenzio
di una natura morta e decadente, magari da qualche latrato in
lontananza.
Ma poi, come per miracolo si finisce, per miracolo o per magia,
da tutt’altra parte.
Così William Kentridge ci ha ingannato. Credevamo di
ascoltare la Winterreise di Schubert, il celeberrimo ciclo di
Lieder che racconta il mesto e solitario vagabondare di un
anonimo straniero in una gelida terra.
E invece siamo finiti nella gabbia di un uccello patendo la
sua ansia e la sua claustrofobia, sotto una doccia, bagnati da
un’acqua trasformata in sangue, tra gli alberi della savana
africana camminando assieme alle donne che ritornano alle
loro tribù al calar del sole.
Kentridge ha in un certo senso messo da parte la Winterreise
di Schubert, quello che tutti noi abbiamo conosciuto nei
dischi, prima di Hans Hotter, di Dietrich Fischer-Dieskau poi,
per raccontarci il suo personale viaggio d’inverno, partendo
proprio dal suo rapporto con la musica di Schubert e con la
poesia di Müller intelligentemente interpretate dal baritono
Goerne, espressivo nell’intima e malinconica teatralità che il
genere del Lied richiede, accompagnato dal pianista Markus
Hinteräuser con discreta correttezza.
I rischi di rovinare tutto in questo caso erano altissimi: ci
si inserisce infatti in un dialogo tra due elementi, musica
e poesia, che convivono in un perfetto equilibrio. Altissimo
E sono proprio questi piccoli frammenti del passato che,
filtrati attraverso il delicato e quasi onirico linguaggio visivo
del regista sudafricano, pongono le basi di questo inaspettato
Winterreise: e così la neve, del tutto assente in Sudafrica,
si trasforma in coriandoli neri, l’organetto si trasforma in
una pianola, i pini e gli abeti in leggeri e secchi arbusti della
savana, l’acqua del ruscello si converte in una soffocante
doccia domestica sotto cui proiettare l’ombra del cantante in
scena.
Il ricordo, o meglio, l’esperienza personale in Kentridge
diventano dunque un motore deformante, quasi un’energia
capace di generare una metamorfosi della realtà e degli
oggetti che la compongono. Questo anche grazie alla poesia
di Müller. Una poesia semplice e chiara, ma al contempo
teatrale, drammatica e soprattutto ricca di suggestioni visive
che accoglie senza troppe dissonanze l’estetica visuale del
regista sudafricano.
Poesia, musica e immagini. I tre elementi di un trio,
definito come tale dallo stesso Kentridge, guidati (verrebbe
da dire ingabbiati come l’uccello che accompagna il Lied
“Letzte Hoffnung – L’ultima speranza”) dal tempo, il vero
protagonista dello spettacolo.
È un tempo ritmico e musicale, come quello che si inserisce
tra pianista e baritono, ma anche un tempo semantico, di
suggestioni coordinate e dialoghi armonizzati, qual è quello
che invece si instaura tra le immagini proiettate sullo sfondo e
la Winterreise in primo piano. E, aggiungerei, anche un tempo
storico e culturale che trasporta il pubblico dall’ottocento
viennese e post napoleonico di Franz Schubert alla modernità
inquieta ed incostante che ci circonda.
Questo è dunque il viaggio che per #ilclassicoinatteso William
Kentridge ha proposto per la prima volta al pubblico italiano
al Teatro dei Rinnovati.
Un viaggio in cui, al freddo e alla neve del viaggio che noi tutti
conosciamo, il viandante, lo straniero vagabondo si è trovato
ad affrontare una dimensione interiore nervosa ed irrequieta
dove l’organetto del Lied finale dà vita ad una processione di
figure oscure che camminano dietro ad un albero essiccato
scaldato da un sole in procinto di tramontare sulla savana.
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July 21st, 2015
Vecchio misterioso, e se venissi con
Accompagneresti i miei canti col tuo organetto?
Published by: massicov
te?
Incapace di sopportare una vita di sfruttamento e
sottomissione, Montejo decide di fuggire e di nascondersi
nella foresta diventando, dunque, un cimarrón, parola che
in spagnolo indica proprio un “fuggitivo”, sia esso umano o
animale.
Dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1880, Montejo lascia
la foresta e l’isolamento e torna a lavorare, da libero
cittadino, nelle piantagioni di canna da zucchero. Combatte al
fianco dell’esercito rivoluzionario cubano per l’indipendenza
dell’isola dagli spagnoli ma, al termine della guerra, si accorge
presto di quanto falsa sia la libertà acquisita: all’esplicito
dominio degli spagnoli si sostituì, infatti, la dipendenza
economica dagli Stati Uniti; Montejo, di nuovo bracciante nei
campi, si accorge di essere ancora “schiavo”, non più per legge
ma per necessità.
Cosa aspettarsi da un
“Cimarrón”
17 lug 2015
di Antonella Varavara
Cosa dobbiamo aspettarci dalla messa in scena di un’opera
come El Cimarrón di Hans Werner Henze? Di certo non il
sentimento. O forse sì.
Accusato di essere espressione di una società iniqua ed
ipocrita, il sentimentalismo in musica fu nemico giurato per
le cosiddette avanguardie storiche. Vittima principale fu la
melodia, veicolo di emozioni e soggettività ma elemento da
trascurare per la nuova musica in favore di una ricerca
incentrata su altri parametri quali armonia, ritmo, timbro.
«Uccidiamo il chiaro di luna» per dirla insieme ai futuristi;
«riflettiamo sulla musica e col suo stesso linguaggio» per chi
ne raccolse l’eredità negli anni a venire.
Hans Werner Henze fu certamente dalla parte del nuovo;
sperimentò le tante “grammatiche” elaborate nel corso del
secolo ma a nessuna di esse concesse l’esclusiva. Nel suo
stile eclettico l’innovazione fu, però, solo uno dei punti
fermi: altrettanto essenziale per questo autore fu l’esigenza di
comunicare. A differenza degli altri contemporanei si dedicò
spesso al teatro, medium tra i più consoni all’espressione e alla
creazione di un ponte tra autore e ascoltatore.
Nel caso di El Cimarrón ciò che Henze vuole trasmettere
è un’idea politica. Cresciuto nella Germania nazista ma
da sempre idealmente opposto al regime, Henze abbracciò
l’ideologia marxista dopo la guerra e ne fu acceso sostenitore.
Nel clima di protesta che caratterizzò l’Europa degli anni
Sessanta la vicenda narrata in quest’opera fu considerata
certamente esemplare dal compositore. Sebbene fuori dal
comune, questa è in tutto e per tutto una storia vera.
Il racconto è in prima persona; le parole di Montejo, spontanee
e inevitabilmente nello slang di un cubano per nulla istruito,
affiancano ed equiparano alla vicenda politica e rivoluzionaria
le altre esperienze di vita dell’anziano.
Cosa aspettarsi da un cimarrón, nato schiavo e senza nome,
ignorante e fuorilegge, disilluso e senza Dio?
Dal suo punto di vista innocente traspare in realtà una critica
naive e per questo scomoda e quasi crudele sulla società,
la religione, la vita. Così nell’opera di Henze riaffiora il
sentimento, una partecipazione emotiva raggiunta proprio
grazie al resoconto tragico di una vita ineluttabilmente
difficile.
Montejo ci regala anche una morale, espressione di una
filosofia di vita appresa “sul campo”: la vera libertà è da
ricercarsi dentro di noi, non è esteriore; essa coincide con la
nostra dignità, quella propria di ogni uomo e che ogni uomo
deve difendere con tutti i mezzi.
In un’epoca come la nostra, che comincia a pagare il prezzo
dell’iniquità, la vicenda di El Cimarrón può ancora far
riflettere.
La partitura di Henze offre ancora nuovo senso all’opera
teatrale. Pensata per essere un “recital per quattro musicisti”
in cui anche la voce è trattata alla stregua di uno strumento,
essa lascia spazio all’improvvisazione.
Il “libero arbitrio” degli strumentisti è vincolato dal
compositore in termini di tempo che, come ha notato
Stefano Jacoviello nel Chigiana Lounge con Matteo Giuggioli,
rappresenta sì una «gabbia» ma vuota, «in cui tutto ciò che
accade dipende dalle azioni dei musicisti».
El Cimarrón invita, dunque, all’azione non solo i suoi
interpreti ma anche noi spettatori, chiamati a riempire il
nostro tempo nel migliore dei modi possibile.
Il testo a cui Hans Enzensberger, librettista dell’opera, fa
riferimento nella stesura di El Cimarrón è un saggio edito nel
1966 dall’etnografo Miguel Barnet. Argomento del trattato è il
racconto autobiografico dell’ultracentenario Estéban Montejo,
nato a Cuba da genitori sconosciuti nel 1860 e venduto come
schiavo in tenera età.
11
July 21st, 2015
Published by: massicov
concerto mentre si descrive un’opera teatrale ma in questo
casoè senza dubbio lecito.
Sebbene qui sia previsto, infatti, l’uso della voce in scena
questa è trattata alla stregua degli altri strumenti; il cantante
o, come lo definisce il compositore, il Vokalist racconta
la vicenda del protagonista in prima persona ma non lo
interpreta, lascia alla musica il compito di veicolare il
significato del testo. Il suono sottolinea le diverse situazioni in
cui Esteban Montejo — questo il nome del protagonista — è
venuto a trovarsi nel corso della vita grazie al sapiente impiego
di timbri e ritmi.
Raccontare la libertà
attraverso la musica: “El
Cimarrón” di Heze
18 lug 2015
di Antonella Varvara
La rappresentazione di El Cimarrón a cui abbiamo assistito
ieri sera al Teatro dei Rozzi di Siena è stata una prima assoluta,
ma anche “un’ultima” assoluta. L’opera di Henze, tra le più
eseguite del repertorio da camera del compositore, è stata
concepita, infatti, per non essere mai uguale a se stessa.
La partitura non fornisce agli esecutori delle indicazioni
precise; in un sistema di segni decisamente arzigogolato
questa indica per lo più altezze di suoni imprecisate, i
cambiamenti di organico e delle tecniche vocali e strumentali
da impiegare nelle diverse sezioni. Ai musicisti l’arduo
compito di interpretare e rendere in musica una scrittura che
lascia largo spazio all’immaginazione.
Proprio in virtù di questa sua versatilità, El Cimarrón è
diventato quest’anno simbolo delle celebrazioni in onore del
suo compositore, scomparso nel 2012: l’opera andrà in scena
anche il 28 luglio al Teatro Poliziano di Montepulciano in un
allestimento a cura del Cantiere Internazionale d’Arte, ente
istituito dallo stesso Henze nel 1976 per creare uno spazio
in cui artisti di diversa formazione potessero dialogare e
collaborare.
Per la stesura dell’opera, Henze ritenne necessario recarsi a
Cuba in prima persona per “catturare” il peculiare paesaggio
sonoro dell’isola. Ciò che portò indietro in Europa, stipato tra
le pagine della sua partitura, non fu soltanto una suggestione:
una lunga tradizione culturale, specchio di uno dei più grandi
melting pot del pianeta, fornì all’artista l’ampio vocabolario
musicale necessario alla creazione di El Cimarrón.
Per chi ha familiarità con danze e musiche sud americane
sarà stato facile riconoscere, infatti, in certi momenti
dello spettacolo il ritmo tipico di alcuni generi popolari.
L’Habanera, il toque, il son diventano segnali per l’ascoltatore,
si trasformano persino in personaggi quando accompagnano
le opinioni del protagonistasulle donne e gli uomini di Cuba.
Quasi onomatopeico è l’utilizzo dell’ampio strumentario a
disposizione dei musicisti che ci trasporta, di volta in volta,
nelle foreste cubane, per le strade de L’Avana, tra le macchine
del zuccherificio.
Apparentemente a loro agio con queste sonorità lontane, i
tre strumentisti Luciano Tristaino, Luigi Attademo e Maurizio
Ben Omar hanno dato vita ad un Cimarrón che lascia largo
spazio all’interpretazione scenica del baritono Maurizio Leoni.
Per quest’ultimo la sfida è stata senz’altro trovare “il giusto
mezzo” in un continuum che va dal semplice parlato al canto
melodico, problema che Leoni ha risolto tendendo più sul
versante del recitato.
Come El Cimarrón nella foresta anche i musicisti hanno
dovuto crearsi da soli le proprie coordinate in un universo
sonoro dove tutto e nulla dipende da noi.
L’ascolto di quest’opera non è facile; il suo messaggio è
profondo e deve essere reso necessariamente in maniera
chiara. I quattro strumentisti collaborano al racconto
della vicenda personale del protagonista, ex-schiavo nelle
piantagioni di canna da zucchero cubane divenuto poi
fuggitivo e rivoluzionario. È la storia a prevalere e a guidare
l’intera performance. L’intento di Henze è duplice tuttavia: da
un lato il bisogno di raccontare, dall’altro la volontà di farlo in
musica. Problematica è, dunque, la ricerca di una definizione
di genere, di un’etichetta da dare a questo brano.
Sono due i modelli a cui guardare per capire cos’è El Cimarrón:
il Lied politico tedesco, genere di cui Henze si diceva tuttavia
insoddisfatto, e il concerto. Sembra un paradosso parlare di
Il club degli ’80
18 lug 2015
di Carla Monni
12
July 21st, 2015
Published by: massicov
All’interno dell’ottantatreesima Estate Musicale Chigiana
questa sera al Teatro dei Rozzi si terrà l’ottavo concerto de
#ilclassicoinatteso e terzo del ciclo, intitolato Quei favolosi
’80, dedicato al cinquantesimo anniversario della scomparsa
del Conte Guido Chigi Saracini (1880-1965). Con Quei favolosi
’80 si vuole sottolineare il grande cambiamento nella musica
e nelle arti del Novecento incoraggiato soprattutto grazie al
contributo degli artisti nati negli anni Ottanta del secolo
precedente.
Il Conte Chigi privilegiava soprattutto il Settecento, l’opera
verista e gli autori romantici, certo con Chopin al primo posto.
Ma tuttavia un episodio importante per la rinnovata attività
musicale senese, fu legato invece alla musica contemporanea.
Dal 10 al 15 settembre 1928 il palazzo Chigi fu sede
del “VI Festival internazionale della Società Internazionale
per la Musica Contemporanea” con relativo congresso
organizzato dalla “Corporazione delle Nuove Musiche” di cui
era presidente Alfredo Casella.
Tra i suoi molteplici significati l’80 è il numero dei sogni
e delle idee brillanti che portano a termine un lavoro, che
concludono una trattativa. Questa sera quel “favoloso” 80
ci balzerà alle orecchie con le opere di tre autori, nati
rispettivamente a distanza di circa ottant’anni l’uno dall’altro
– Felix Mendelssohn (1809-1847), Ernest Bloch (1880-1959)
e Osvaldo Golijov (1960) –, compositori appartenenti tutti
alla cultura ebraica e “legati” musicalmente poiché parte
della loro produzione colta risente dell’influsso della musica
folcloristica giudaica, sia nel campo esecutivo-interpretativo,
che compositivo.
Quell’anno fu una Settimana Musicale Senese ante litteram
in cui fu possibile ascoltare composizioni da camera, eseguite
quasi tutte in prima italiana – e con interpreti di valore
quali il Quartetto Kolisch, il violoncellista Arturo Bonucci
e il pianista Erwin Schulhoff – di autori d’eccezione come
Vincenzo Tommasini, Alois Hába, Paul Hindemith, Maurice
Ravel, Anton Webern, Manuel de Falla, Sergej Prokof’ev, Igor
Stravinskij, William Walton, Franco Alfano e Ernest Bloch.
Il dialogo fra musica colta e musica etnica testimonia il
tentativo del Festival di abbattere ogni sorta di barriera. Il
classico si presenta ancora come inatteso, poiché questa volta
si confronta con l’antichissima arte ebraica e che trova una
dimensione comune nei tre compositori. È una musica che ha
assorbito e rielaborato il folclore musicale dei numerosi paesi
est europei e balcanici in cui si sono sviluppate le comunità
ebraiche.
La fusione di colto e popolare ben si adatta nell’opera del
compositore argentino Osvaldo Golijov, The Dreams and
prayers of Isaac the blind (1994), dove i suoni ritmici ed
espressivi del clarinetto klezmer di David Krakauer si sposano
con le sonorità della classica formazione del quartetto d’archi,
suggerendo un’atmosfera davvero innovativa al pubblico
“chigiano”, essendo l’opera per la prima volta eseguita in Italia.
Per l’Accademia Chigiana la musica popolare, almeno dal
punto di vista didattico, non è una novità. Poco prima degli
anni ’80 infatti venne istituito il corso di etnomusicologia, che
ha vantato alcuni tra i più illustri studiosi come Roberto Leydi,
Jacques Nattiez, Alain Lomax e Diego Carpitella.
Quello stesso Ernest Bloch, tanto amato dal Conte Chigi,
che ascolteremo questa sera con il Concerto grosso n. 2
per quartetto d’archi e orchestra (1952); compositore che
negli anni ’50 fu intonato dal Quintetto Chigiano, simbolo
dell’Accademia che ancora oggi possiamo ascoltare grazie alle
registrazioni incise dall’etichetta discografica inglese Decca.
Se pensassimo di sgretolare quel “favoloso” numero 80,
non è forse un caso che la sua prima parte, il numero 8,
nella simbologia ebraica rappresenti un nuovo inizio? Ma non
solo, l’8 è il numero dell’equilibrio cosmico, che incita alla
ricerca e alla scoperta della trascendenza e che rappresenta la
continuità terrena. È simbolo dell’infinito, dove nulla finisce.
Il numero 8 rappresenta dunque un continuo ciclo che non ha
mai fine, che è poi il filo conduttore del festival di quest’anno,
ovvero ricordare qualcosa che è stato, come la Sinfonia per
archi mendelssohniana, pagina del passato che “riprende vita”
e che può vivere ancora nell’attualità.
Ma un numero 8 anche come flusso infinito di tempo e di idee,
come nell’opera di Golijov, in cui possiamo abbandonarci nello
stimolante connubio della musica popolare e colta. In questo
modo si crea un affascinante interscambio tra epoche diverse.
La stessa musica mendelssohniana non è novella all’interno
delle fatidiche Settimane Musicali Senesi. Nel 1980 la
Settimana fu dedicata al compositore, come anche il festival
del 1995 che si aprì con le due musiche di scena, il notissimo
Sogno di una notte di mezza estate – in versione integrale –
e il rarissimo Edipo a Colono, tratto dalla tragedia di Sofocle;
e ancora la Sinfonia n. 3“Scozzese” – diretta da Gianandrea
Gavazzeni, che tornò a Siena con l’Orchestra del Maggio
Musicale Fiorentino –, una delle sinfonie più famose, eseguite
assieme a quella comunemente conosciuta con il nome di
Italiana.
Sotto la bacchetta del californiano Jonathan Stockhammer,
questa sera l’Orchestra della Toscana intonerà invece la
Sinfonia per archi n. 6 in mi bemolle maggiore, scritta nel
1821 da un Mendelssohn adolescente e sesta delle 12 Sinfonie
giovanili che, dopo la morte del compositore, non vennero
pubblicate nei 36 volumi degli Opera omnia, rimanendo
nell’oblio più totale sino al 1967.
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July 21st, 2015
Ernest Bloch al Quintetto Chigiano (1957)
Mendelssohn, Bloch e Golijov:
un viaggio ad occhi chiusi
nella cultura ebraica
19 lug 2015
di Carla Monni
Tre compositori di origine ebraica, nati in tre differenti
periodi, che hanno concepito tre musiche in maniera diversa,
racchiusi tutti nell’ottavo concerto de #ilclassicoinatteso al
Teatro dei Rozzi. Mendelssohn, Bloch e Golijov sono tre, il
numero della stabilità e dell’equilibrio, secondo la concezione
cabalistica ebraica; tre come gli elementi, fuoco, aria, acqua,
che riposano su di un quarto, la terra.
Sono figli del millenario pensiero della tradizione ebraica,
dettato in primis dalla Cabala, l’insieme degli insegnamenti
esoterici e mistici, diffusi già a partire dal XII-XIII secolo,
che mirano a spiegare il rapporto tra la natura dell’universo
– immutabile, eterno e misterioso Ein Sof (“senza fine”) –
e l’universo mortale e finito (creazione di Dio), portando
il genere umano a comprendere lo scopo dell’esistenza e
conducendolo verso la realizzazione spirituale.
E ancora oggi in un’epoca, a detta del rabbino Bradley Shavit
Artson, «affamata di significato e senso di appartenenza»,
tutti bramiamo nel carpire la vita che si cela sotto le forme
esteriori della realtà. Gershom Scholem infatti afferma nel
suo Major Trends «la ricerca della vita nascosta dell’elemento
trascendente in questa creazione formerà sempre una delle
preoccupazioni più importanti della mente umana».
Qabbaláh significa «ricevere», ma anche «tradizione», una
tradizione che Osvaldo Golijov racconta nel suo poema
sinfonico per clarinetto klezmer e orchestra d’archi (I
sogni e le preghiere di Isacco il Cieco, 1994), dove
quell’elemento trascendente “ricercato” viene ora proposto
attraverso mezzi puramente musicali. Lavoro toccante, «una
sorta di epica storia del giudaismo», e sapientemente
interpretato dall’Orchestra Toscana con David Krakauer al
clarinetto, clarinetto basso e al corno di bassetto.
L’immagine centrale è quella del rabbino medievale Isaac
il Cieco che, circa 800 anni fa, scrisse che ogni cosa
nell’universo è prodotta dalle lettere dell’alfabeto ebraico.
Da lui parte dunque il pensiero cabalistico, secondo cui le
ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, combinate tra loro,
erano preesistenti alla stessa creazione del mondo. Isaac è
Sagghì Neho, ovvero “con Molta Luce” nel senso di avere una
vista eccellente. Per quanto l’epiteto aramaico sia paradossale,
Isaac il Cieco ha la vista migliore perché è colui che percorre
l’albero della conoscenza.Il non vedere per il compositore è
fondamentale al fine di entrare totalmente in contatto con il
trascendente, secondo anche quella predilezione ebraica per
l’ascolto piuttosto che per la dimensione visiva.
Golijov percorre un viaggio che suddivide in cinque
movimenti, in cui si estendono le splendide inflessioni
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musicali ebraiche di David Krakauer sui molteplici clarinetti.
Krakauer fa cantare il suo strumento nel registro ora sovracuto
e poi più grave – imitando per esempio con movenze
singhiozzanti prima un battito cardiaco poi una fisarmonica
nel Preludio –, come è tipico delle tradizioni musicali
ebraiche est europee. Il clarinettista ci accompagna nel mondo
yiddish intonando sonorità meditative ed espressive di una
potenza impressionante e un tocco virtuosistico al momento
opportuno. Melodie spesso trillate e dal ritmo incalzante che
vengono accompagnate dagli accenti e i pizzicati “classici”
dell’orchestra.
Nonostante Golijov sia nato in Argentina, egli è comunque
figlio della Shoah e nella sua cultura musicale rivivono le
storie di Terezin, sede di un’antica guarnigione militare e
poi, dal 1941, ghetto ebreo. A Terezin furono internati circa
2000 artisti, tra cui compositori, musicisti, pittori, scrittori,
poeti, attori che a costo di sacrifici estremi riuscirono a
preservare il diritto alla creazione. Nonostante le enormi
difficoltà per reperire strumenti e partiture, a Terezin si
svolgevano regolarmente concerti e spettacoli musicali. Il
ghetto fu il palcoscenico di molte prime esecuzioni per i
compositori che ebbero la sventura di transitarvi. Tra questi
possiamo menzionare Viktor Ullmann e il suo Der Kaiser von
Atlantis su libretto di Peter Kein.
Il regime nazionalsocialista giunse perfino a bandire la
popolarissima musica di Felix Mendelssohn, l’artefice della
riscoperta di Bach e l’autore di oratori profondamente luterani
quali l’Elias o il Paulus, nonché della Sinfonia La riforma. Tra
le composizioni mendelssohniane bandite dal Terzo Reich ci
furono le 12 Sinfonie giovanili scritte tra il 1821 e il 1823,
che vennero alla luce solo nel 1967. Nel primo tomo è inserita
anche la Sinfonia per archi n. 6 in mi bemolle maggiore,
eseguita ieri sera dall’Orchestra della Toscana, diretta da
Jonathan Stockhammer. Dalla struttura tripartita, la Sinfonia
testimonia le doti di freschezza ed elegante brillantezza di
un Mendelssohn giovane e spontaneo. Basti pensare solo
al tema del primo movimento, breve e incisivo, intonato
dalle pennellate dei violini; tema che ricorrerà per l’intera
composizione e in particolar modo nella sezione centrale del
Minuetto, in cui le vivaci entrate e il background di note
lunghe intonate dai violoncelli e dai contrabbassi preparano i
ritmi danzanti e dialoganti delle viole e dei violini.
Al pari di Mendelssohn, che definì la sua cifra stilistica a
partire dall’eredità del periodo classico, in particolar modo
guardando alla musica di Haydn, l’eclettico Ernest Bloch volge
il suo sguardo al passato e ancora più indietro, concependo
il Concerto Grosso n. 2 (1952) secondo il modello classico
in quattro tempi standardizzati da Francesco Geminiani. Ma
l’opera presenta in realtà poliedriche influenze. Bloch adotta
prima di tutto lo stile neoclassico, diventato popolare nel 1920
grazie a compositori come Stravinsky e Hindemith, in cui sono
incluse le caratteristiche della musica del XVII e XVIII secolo,
imbevute però da uno stile decisamente moderno.
E così quel Maestoso di ampio respiro comincia nella
maniera più classica, in cui il gruppo di strumentini e il
ripieno orchestrale intraprendono il loro discorso musicale,
arricchito da sottili dissonanze, che sfocia in una sezione più
frenetica che anticipa lo stato d’animo lento del movimento
successivo: un Andante attraente e rapsodico, che ricorda i
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July 21st, 2015
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colori timbrici delle melodie idilliache del compositore inglese
Ralph Vaughan Williams. E ancora un Allegro robusto e
rustico, impregnato di ritmi barocchi rigorosamente quadrati;
e infine un Traquillo-Animato, in cui prevarica un tema
ostinato discendente e cromatico, che dà l’impressione di
una passacaglia barocca, tipicamente bachiana. Partendo
lentamente, gli strumenti prendono slancio e culminano in un
tempo più veloce che poi conclude sospeso.
Al contrario della musica di Mendelssohn e di moltissimi
compositori di origine ebraica a cui vennero “depennate” le
opere sotto il regime nazista – si pensi a Berg, che morì
di stenti dopo che la rappresentazione delle sue opere fu
vietata, con il conseguente tracollo economico – Bloch riuscì
a sottrarsi dall’etichetta di “musicista degenerato” e, al pari
di compositori come Schoenberg, ha avuto il privilegio di
appartenere a uno status sociale che gli ha permesso di
poter scegliere se restare nella loro terra natale o espatriare
oltreoceano.
È chiaro dunque che i tre autori hanno attraversato destini e
storie differenti, e “raccontarli” insieme testimonia quanto in
fondo siano legati da un unico filo rosso quale è la loro origine;
sono tre, come la “corda triplice che non verrà spezzata con
facilità”, poiché forte e duratura, ancora secondo la concezione
cabalistica.
Il Festival ha voluto riportare in vita la Sinfonia
mendelssohniana, far emergere il recupero della musica
settecentesca nella composizione moderna blocheriana e
volgere l’attenzione a quello che succede oggi nel mondo
artistico proponendo l’opera di Golijov, il tutto in una
prospettiva contemporanea, affinché le musiche del passato
vivano ancora nel presente. Un passato che esplorato, attinge
a piene mani a ciò che esso nasconde, facendone tesoro per il
futuro.
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