E CULTURA MUSICALE - N. 2/2006 Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (Bologna) - Bimestrale n. 2/2006 - anno XVI/BO - € 2,00 MI - PERIODICO D’INFORMAZIONE Il Brodsky incontra il sax di Harle, la prima assoluta di Campogrande L'esordio bolognese dei Solisti del Royal Concertgebouw di Amsterdam Aprile/Maggio 2006 Sommario n. 2 Aprile - Maggio 2006 Musica a Bologna I programmi di Musica Insieme Intervista Intervista I Solisti del Concertgebouw: più musica per l’Italia Il Brodsky e John Harle: vivace, con ritmo! di Fulvia de Colle 16 Nicola Campogrande, o il compositore e l’oggi di Fabrizio Festa 29 Chloë Hanslip, erede dei grandi violinisti 18 Luoghi della musica di Donata Cappeli 37 Per leggere Mozart a Villa Pallavicini di Maria Pace Marzocchi di Matteo Gualandi 21 L’Enciclopedia Einaudi vista da Nattiez di Chiara Sirk 38 Argomenti Nono a Bologna, una rara sensazione di Roberto Verti Da ascoltare 22 Grandi interpreti, grandi novità di Alberto Spano 40 Calendario I Concerti: Aprile / Maggio 2006 Intervallo Musica enigmatica 25 In copertina: The Brodsky String Quartet 2 41 Non è possibile celare l’imbarazzo a un passo dall’ennesima tornata elettorale: parlare di politica nell’Italia dei milioni di analfabeti (definirli “di ritorno” è solo un modesto eufemismo per celare una tristissima realtà) e dove il dibattito s’incentra solo sul passato, significa adottare il vocabolario calcistico del lunedì (oggi esteso anche al di Fabrizio Festa sabato ed alla domenica pomeriggio), e menare mazzate alla cieca. Che si parli di sviste arbitrali o deficit pubblico, l’esito sarà il medesimo: nell’appellarsi all’immarcescibile “senno del poi” (con l’aggiunta dell’immancabile sostegno tecnologico di telecamere e moviola), ciascuno indica nell’altro la fonte di tutti i mali. Questa non è una constatazione qualunquista. Al contrario, è l’evoluzione italiota del dilemma di Amleto: tra l’essere ed il non essere, si è preferito un più modesto “tirare a campare”. Dall’arte di arrangiarsi, che prevedeva almeno l’applicazione di una certa dose d’ingegno, siamo passati al mestiere del metterci una pezza. Le pezze prima o poi marciscono. Il chirurgo pietoso fa il malato morto. Di questo, però, nessuno si cura per ovvie J.H. Fuessli: Gertrude, Amleto e il fantasma del padre ragioni. In primo luogo perché dovrebbe rispondere diversamente al dilemma del Principe di Danimarca. Che si scelga di “essere” o di “non essere”, in ogni caso si compie un gesto determinato, che non ammette smentite. Così ogni trasversalismo sarebbe bandito. Nessuno potrebbe dire che è stato frainteso. Tanto più nell’affrontare il nodo che nessuno sembra voler sciogliere (neppure con un gesto gordiano): quello che riguarda il moribondo apparato culturale e formativo italiano. A guardarlo dall’esterno, pare ormai uno di quei barconi con i quali i clandestini cercano di approdare sulle nostre rive. Rappezzati, traballanti, al timone scafisti senza scrupoli, il cui unico interesse è l’immediato presente: ovvero, razziare le “ricchezze” dei diseredati di turno. Altro che Robin Hood. Qui siamo ormai alla parodia della celebre vicenda. Oppure dobbiamo pensare che lo Sceriffo di Nottingham abbia avuto la meglio. E l’arte? La cultura? Marginali – se non del tutto assenti – nelle arringhe e nei comizi di chi chiede il voto, appartengono ad una dimensione affatto ignota al politico nostrano: il futuro. Che è la dimensione dell’artista, dell’intellettuale, dell’operatore culturale. Ed anche dello studente, delle generazioni che crescono, persino di quelle che verranno. Di coloro, cioè, che progettano, che creano, che guardano avanti, sempre e comunque. Da qui l’imbarazzo a parlare di politica in Italia. L’imbarazzo di chi vorrebbe discutere delle sorti progressive, e non sempre vane, e finisce per parlare dell’ennesimo rigore concesso alla Juve. Parlare di politica 3 Il Brodsky String Quartet incontra John Harle. Ed è subito novità, nell’instancabile ricerca sul repertorio che da sempre contraddistingue l’ensemble inglese. Vivace, con ritmo! di Fulvia de Colle Il Quartetto Brodsky ci ha abituati in questi anni a programmi sempre affascinanti e d’ampio respiro, come il progetto Opus 18 – ospitato da Musica Insieme nel 2000 – che affiancava l’esecuzione integrale dei Quartetti op. 18 di Beethoven ad altrettante composizioni appositamente commissionate ad autori contemporanei; nella sua camaleontica attività, il Brodsky si accompagna poi agli ospiti più diversi. Ricordiamo, una per tutte, la stimolante collaborazione con Elvis Costello – anche in questo caso ospitata nella nostra stagione – ed ora eccolo con il sassofonista John Harle, a sua volta compositore nonché interprete dedicatario dei lavori di Michael Nyman come di John Tavener, e aduso a collaborazioni che travalicano i confini della classica. In un’intervista doppia, che MI ha rivolto da una parte a Paul Cassidy, violista del Brodsky, e dall’altra a John Harle, conosciamo un po’ più da vicino la loro storia e la musica che presenteranno a Bologna il prossimo 10 aprile. Come nasce dunque questa collaborazione? Paul Cassidy: John è un amico di vecchia data. Ci siamo conosciuti circa venticinque anni fa. La prima volta che l’ho ascoltato suonare in ambito classico sedevo ancora tra le fila dell’orchestra, ed in programma c’erano le Danze sinfoniche di Rachmaninov. Dietro di me improvvisamente ho sentito un rumore inusuale e prorompente. Mi sono voltato indietro, naturalmente, per cercare di capire chi fosse a produrre quel suono così stupefacente e particolare. Era John Harle, e da lì è nata la nostra amicizia, poi trasformatasi in sodalizio artistico. Del resto, quando abbiamo cominciato a collaborare con Elvis Costello, scrivendo le Juliet Letters, anche Harle stava lavorando con lui, per conto suo, ad un progetto incentrato su alcune canzoni del periodo elisabettiano. Infine, sebbene non esista un grande repertorio per sax e quartetto d’archi, ci sono comunque alcuni brani molto interessanti, e la collaborazione con Harle s’inserisce in un nostro percorso, sempre teso alla ricerca di nuove strade. John Harle: Il nostro sodalizio artistico nasce ai tempi delle Juliet Letters, quando produssi l’album Terror and Magnificence, dove Elvis interpretava anche tre mie canzoni. Poco più tardi, andai con lui ad un concerto del Brodsky, e fu allora che decidem- 16 Paul Cassidy mo di fare un po’ di musica insieme, con l’idea di una fusione di timbri e di generi. E cominciammo a sperimentare con le Children’s Songs di Chick Corea. L’annoso problema della mancanza di un repertorio originale: naturalmente di Corea presentate delle trascrizioni, considerando che le Children’s Songs sono per solo pianoforte. PC: Sì, ne abbiamo scelte alcune e le abbiamo trascritte Harle ed io. Spero che Corea apprezzi il nostro lavoro, perché effettivamente queste trascrizioni suonano davvero bene. Con Corea, d’altronde, siamo in contatto da molti anni, e abbiamo cercato di convincerlo a scrivere un pezzo per noi. Ha mostrato sempre un vero interesse per questo progetto, e più volte ci ha detto che avrebbe voluto comporre un quartetto, ma ovviamente non abbiamo ancora ricevuto alcunché. Così, alla fine, abbiamo deciso di trascrivere queste Children’s Songs, naturalmente informandolo e con la speranza di convincerlo, magari dopo avergli fatto ascoltare qualche registrazione di queste trascrizioni, a comporre finalmente il quartetto che stiamo aspettando. JH: Prima dell’incontro col Brodsky non avevo mai sentito un quartetto d’archi suonare in modo così ritmico ed ispirato, e mi piacque moltissimo. Per que- sto ci mettemmo a lavorare su brani dotati di un grande impulso ritmico come quelli di Corea o di Nyman. Come descrivereste il particolare mélange che contraddistingue il vostro insieme strumentale, e conseguentemente i programmi che scegliete per i vostri concerti? PC: Ritengo che ciascuno dei pezzi in programma richieda una sua specifica sonorità. Ad esempio, il brano di Françaix è sicuramente radicato nel repertorio più classico, e quindi richiede un maggiore lavoro di rifinitura, un approccio mirato alla ricerca di una “sonorità classica” del tutto diversa da quella richiesta dai brani di Corea. Brani che, invece, necessitano di un approccio esecutivo totalmente differente, perché si tratta di una scrittura davvero brillante, perché sono pagine piene di energia e vanno interpretate tenendo conto proprio di questi fattori. JH: Il nostro insieme è ritmico e vibrante, giocoso, e dotato di una certa libertà, la quale comprende ampie zone improvvisative, soprattutto da parte del sax – ad esempio nei brani di Chick Corea vi è molto spazio per l’improvvisazione. Quanto al repertorio, è musica piena di colori, perlopiù veloce e ritmata, ed accattivante. Vista la varietà dei brani, Harle dovrà adottare un suono diverso per ciascuno di loro. PC: Certamente sì. Nel caso del brano di Françaix il suono sarà quello “classico” di scuola francese, tra l’oboe ed il clarinetto, Mentre nel caso di Nyman abbiamo cercato tutti insieme un suono in certo senso molto uniforme e compatto. La sua musica John Harle cerca di catturarti e portarti in uno stato di trance. Quindi occorreva un suono omogeneo. Il brano, del resto, è stato scritto qualche anno fa, indipendentemente da questo nostro progetto. È piacevole ed affascinante, e questo ci ha convinto ad inserirlo nel nostro repertorio. John Harle ha collaborato assiduamente con Michael Nyman, interpretandone molte opere. D’altronde Nyman pare apprezzare in particolar modo il suono degli ottoni e del sax, prediligendone le sonorità soprattutto per i lavori di sapore spiccatamente neobarocco... JH: Per dieci anni sono stato alla guida della Michael Nyman Band. Poi abbiamo registrato la colonna sonora del film I misteri del giardino di Compton House (1982) di Peter Greenaway, dove i sassofoni suonano proprio come delle trombe naturali barocche. Quei sassofoni li ho registrati tutti io... sovraincidendoli uno dopo l’altro! Harle eseguirà una propria versione per sassofono del celebre Syrinx di Claude Debussy, originariamente composto per flauto. Come suonano al sax le reminiscenze arcaiche del flauto di Pan? JH: Decisamente bene...! L’effetto è quello di un suono mai udito prima, con accenti in qualche modo ultraterreni. Un effetto molto bello. Un’altra trascrizione: il Quartetto di Françaix, autore a sua volta molto attratto dagli strumenti a fiato... JH: In questo caso si tratta di una trascrizione del suo Quartetto per corni inglesi: la nostra versione prevede invece un organico di violino, viola, violoncello e sassofono. È un brano molto attraente, raffinato e ben scritto. C’è un movimento lento deliziosamente ammiccante al jazz e al blues, e suonato al sax rende assai bene questo aspetto ‘hollywoodiano’ del pezzo. Harle, lei è anche un compositore assai prolifico, con oltre 35 opere per sassofono e orchestra e più di cento partiture per film e trasmissioni televisive. È d’obbligo domandarle quali siano i lavori attualmente in cantiere. JH: Al momento sto lavorando a un film di produzione inglese, che s’intitola Butterflies. Quando mi occupo di colonne sonore cerco di trovare soggetti particolarmente stimolanti: Butterflies parla di un serial killer... Nel contempo sto componendo un brano della durata di 15 minuti, che verrà eseguito da 600 musicisti. È una commissione della Royal Military School of Music, l’Accademia musicale dell’esercito inglese, e costituirà un grande evento a Londra il prossimo settembre: sei enormi autocarri militari dislocati in diversi punti dello spazio. Io suonerò il sax in cima a una torre, ed i mezzi militari si muoveranno intorno ad essa lungo un raggio di mezzo miglio... 17 Con Nicola Campogrande, del quale Musica Insieme presenta il debutto delle Tre piccolissime musiche notturne, abbiamo cercato di fare il punto sul compositore oggi Centrale o marginale? di Fabrizio Festa Nicola Campogrande ben rappresenta la maturazione e la trasformazione che la figura del compositore ha avuto nel contesto artistico italiano soprattutto in questi ultimi quindici anni. Superata la fase dello “sperimentalismo”, dell’esoteria ideologica, oggi i compositori italiani sono tornati – se pur con le immancabili difficoltà – sia ad occupare ruoli importanti nelle istituzioni musicali, sia a recuperare una certa quale visibilità presso il pubblico, che non accoglie più la musica dei nostri giorni con la diffidenza mostrata in un passato anche recente. Compositore molto attivo, e con un ricco catalogo ormai alle spalle, ed al tempo stesso impegnato a Torino nel contesto di Sistema Musica (di cui si parla alla fine di quest’intervista), Campogrande – così come i Betta, i D’Amico, e molti altri nel nostro paese – testimonia di una vitalità e di una capacità artistica e professionale, che meriterebbe non solo maggiore attenzione da parte dell’intera comunità, ma soprattutto andrebbe, per così dire, utilizzata al meglio. Ovvero, messa in Nicola Campogrande 18 grado di esprimere tutte le sue potenzialità in un ambito altrettanto ricettivo e a sua volta disponibile ad accogliere il contributo di chi possiede, per l’appunto, tali requisiti. Parafrasando proprio una sua dichiarazione, prima o poi qualcosa cambierà. Prima o poi, la generazione ormai quasi ottuagenaria dei direttori artistici italiani andrà finalmente in pensione. Oppure, semplicemente, la nicchia in cui vive la “musica classica” potrà estendersi, allargarsi, fors’anche abbandonare certe posizioni arroccate per guardare al futuro con maggiore ottimismo. In estrema sintesi, questo è il fil rouge della nostra intervista, dal passato al futuro, accogliendo l’invito di Campogrande a renderci conto del momento in cui viviamo e della situazione attuale, senza troppi infingimenti e senza neppure limitarsi alle fin troppo logore doglianze. Nonostante la lapalissiana centralità della sua figura nella storia della musica occidentale, da ormai mezzo secolo il compositore è messo in ombra, in disparte, sembra quasi accessorio ad un sistema musicale fondato su altri elementi. A suo avviso è solo l’evoluzione coerente di un mercato poco attento ai valori estetici, oppure esistono precise responsabilità dei compositori stessi, che non hanno saputo mantenere vivo il contatto col pubblico? Se ci si riferisce al fatto che oggi la musica nuova non è di casa nei cartelloni concertistici, credo che la colpa sia in massima parte delle vecchie avanguardie, che hanno volutamente tagliato i ponti con il pubblico. Se invece il discorso è relativo al fatto che la musica colta oggi ha perso la propria centralità nel mondo, la questione è più ampia. Nel gennaio 2005 avevo provato a sintetizzarla su Sistema Musica: “Un bell’articolo pubblicato da Tom Strini sul Milwaukee Journal Sentinel qualche mese fa ricordava giustamente come negli anni Cinquanta chiunque, senza averne letto le pubblicazioni, sapeva che Einstein era uno scienziato di genio; e chiunque, senza aver mai sentito il Sacre, sapeva che Stravinskij era il massimo compositore vivente. I nomi di Toscanini o Bernstein erano noti a quell’uomo della strada che oggi non ha mai sentito pronunciare quelli di John Adams (il compositore più eseguito del pianeta) o di Lorin Maazel e che mai saprà della loro esistenza. È che, come ricorda Strini, sono successe alcune cose non da poco: la produzione delle vecchie avanguardie (dodecafonica, seriale, ecc.) ha rotto i legami con un pubblico che non riconosce musica senza consonanze o ritmi comprensibili; la multiculturalità ha eroso il ruolo della musica classica come vetta indiscussa dell’espressione umana; orchestre ed ensemble dal 1860 si vestono nello stesso modo, suonano nelle stesse sale, interpretano lo stesso repertorio; il crollo dell’idea di socialismo ha contribuito a mettere in crisi il sistema del finanziamento pubblico al mondo della musica classica che, come è noto, non è redditizio e non è in grado di reggersi su un’economia di mercato (si rilegga la nota legge di Baumol). Poi, però, ci sono anche alcuni segnali positivi: il livello delle esecuzioni è senz’altro più alto di quarant’anni fa; Internet permette a giovani free-lance di buttarsi nella mischia senza il filtro di editori e case discografiche; l’allungamento delle aspettative di vita fa sopravvivere gli ascoltatori qualche anno in più. Ma non c’è nulla che possa far seriamente pensare ad un’inversione di tendenza. Allora, la cosa seria da fare è sapere che si agisce all’interno di una nicchia. Sapere che se un politico decide che è meglio spendere denaro pubblico per sostenere un festival pop anziché un teatro d’opera, non ci si può più opporre facendo riferimento a condivise ragioni storico-culturali; che, se vostro figlio vi guarda sbigottito quando uscite per andare al Conservatorio, non è affatto detto che un giorno erediterà la vostra passione e il vostro abbonamento, anzi; che l’affermare la propria predilezione la musica classica, quando si esce dal nostro guscio dorato, oggi è davvero equivalente a preferire la Nu-Metal alla Cubana. Ci va bene perché, mediamente, sappiamo ancora incutere un vago timore e, dunque, spesso si viene trattati con un qualche rispetto. È il genere di rispetto, però, che suscita l’abito grigio che indossiamo quando ci tocca andare a chiedere un fido in banca – non so se rendo l’idea”. Nel rapporto con l’interprete, singolo o piccolo gruppo da camera, si è mantenuta pressoché inalterata una certa quale dialettica, che vede il compositore ancora in grado di collaborare e sviluppare un percorso artistico insieme agli interpreti stessi. Che ruolo ha, dunque, nel contesto attuale la collaborazione tra interpreti e compositori, e come sarebbe possibile svilupparla, anche mirando ad un rinnovamento della programmazione e ad un ampliamento dei repertori? Mi sembra che la nuova musica abbia cambiato pelle anche grazie ad una nuova generazione d’interpreti, i quali, anziché rifiutarsi di suonare ciò che viene scritto oggi, hanno saputo chiedere ai compositori di inventare musica capace di offrire gusto, piacere, passione a chi è chiamato a suo- narla. La mia esperienza in questo senso è estremamente positiva: la possibilità di lavorare con interpreti come Mario Brunello, Gautier Capuçon, Michael Flaiksman, Andrea Lucchesini, Sonig Tchakerian, il Trio Debussy, Corrado Rovaris, Elena Casoli, Germano Scurti, Elio, Lucia Minetti – per citarne soltanto alcuni – non solo ha arricchito il mio modo di sentire la musica, ma ha rappresentato e rappresenta uno stimolo importante nel pensare a chi deve poi confrontarsi con le mie partiture. Di rimando, la disponibilità e l’allegria con la quale interpreti come loro si mettono al lavoro su musica appena nata mi pare una bella conferma della nuova vitalità del rapporto tra chi scrive e chi suona. In Italia non esiste la figura del “compositore residente”, e certo l’attuale crisi delle strutture musicali istituzionali non favorirà l’affermarsi di un simile ruolo. Eppure, non ritiene sarebbe stato davvero opportuno cercare di stabilire anche nel nostro paese delle “residenze”, così da favorire la diffusione e la divulgazione della musica dei nostri giorni? Non solo opportuno: sarebbe vitale, per i compositori e per le istituzioni musicali. I compositori portano energie e idee a chi si mette in relazione con loro e, per formazione, hanno tutte le caratteristiche per contribuire in modo determinante alla formulazione di una stagione, alla gestione di un’attività di produzione, alla divulgazione delle idee. Curiosamente, sembra che nessuno in Italia se ne renda conto… Chiunque entri in contatto con il mondo della composizione italiano matura immediatamente l’impressione che si tratti di un universo limitato, spesso rimasto estraneo a quanto è andato accadendo nel resto del mondo, e fortemente lobbistico, nonostante oggi non esistano più le condizioni per esercitare un controllo simile a quello che ha marcato la vita musicale italiana dagli anni Sessanta agli Ottanta. Esistono, a suo avviso, le condizioni per il necessario rinnovamento? La rivoluzione sta arrivando dal basso. Credo che saranno gli interpreti ad imporre a poco a poco musica nuova, aperta al dialogo, composta per le orecchie di chi la suona e di chi la ascolta. È vero, la situazione nazionale, nel suo complesso, sembra impermeabile a quanto sta accadendo nel mondo della creazione musicale. Ma, prima o poi, arriverà una nuova generazione di direttori artistici, di responsabili, di organizzatori che si renderanno conto di quanto una fetta crescente di musica italiana sia trascinante, appassionata, allegra e capace di rappresentare il presente con tutti i suoi brividi, le sue vertigini, le sue sfide. 19 Un ruolo centrale nel mondo della composizione lo avevano gli editori. Oggi tale ruolo è fortemente ridimensionato, e i compositori possono tentare di riappropriarsi dei “mezzi di produzione”, caratteristici del loro lavoro. Qual è la sua opinione in proposito? Per alcuni anni io ho fatto professionalmente il compositore “in proprio”. Ero fortemente sfiduciato nei confronti del mondo editoriale. Poi ho incontrato persone che mi hanno fatto cambiare idea e oggi sono convinto che sia vincente la sinergia tra compositori che si sanno organizzare e editori che riescano a farsi aiutare nel lavoro di promozione. Con Universal, con Sonzogno, con RaiTrade – i tre editori che attualmente pubblicano la mia musica – questo accade e, seppure in un contesto nel quale, è verissimo, il ruolo editoriale è fortemente ridimensionato, credo che un dialogo aperto tra compositori e mondo dell’editoria possa ancora essere foriero di risultati interessanti. Oltre che nella composizione, lei opera anche attivamente nel mondo dell’organizzazione musicale torinese, e Sistema Musica è una preziosa testimonianza di una proficua – e rara – collaborazione tra pubblico e privato. NICOLA CAMPOGRANDE Nato a Torino nel 1969, si è diplomato con Azio Corghi al Conservatorio di Milano e quindi presso il Conservatoire Supérieur National de Musique et Danse di Parigi. Considerato uno dei compositori più interessanti della giovane generazione italiana (“uno dei sei compositori italiani per oggi e per domani” ha scritto il mensile Carnet), Campogrande è particolarmente attento alle nuove possibilità del teatro musicale, e nei suoi lavori (su testi fra gli altri di Alessandro Baricco e Dario Voltolini) fa spesso coabitare la grande tradizione classica e il jazz, gesti delle passate avanguardie e canzoni, esplorazioni elettroniche e memorie. Nel 1998 Cronache animali, la sua “pocket-opera per attrice che canta e cinque strumenti” ha debuttato con successo a Stoccarda ed è andata in scena per quaranta volte in Italia nella stagione ‘98/’99: “Vi si aprirà il cuore e vi concilierete, almeno per una volta, con il teatro. [...] È un tripudio di fantasia” [la Repubblica]. Nel maggio 2000 ha debuttato con successo la sua opera Lego, commissionatagli dal Cidim in occasione dell’International Music Council di Roma. Nel marzo 2001 ha debuttato al Teatro Piccolo Regio di Torino l’opera da camera Alianti, ripresa in Europa nel 2002 (a Londra, Amsterdam, Berlino). Nel 2002, su commissione delle Settimane Musicali di Stresa, ha scritto un Concerto per pianoforte e orchestra partendo da un Concerto per cembalo e archi di Bach, eseguito dalla European Sinfonietta diretta da Corrado Rovaris. Nel 2003 ha completato la raccolta di Preludi a getto d’inchiostro, composta per Elena Casoli e presentata al festival 20 Qual è secondo la sua esperienza, e quale dovrebbe essere la formula giusta per coordinare e non disperdere gli sforzi degli operatori privati della cultura? Quale il ruolo reciproco di pubblico e privato, specie in questo momento particolarmente difficile dal punto di vista economico? Sistema Musica è una associazione torinese, costituita nel 1999, che riunisce la Città di Torino con il Festival Torino Settembre Musica, la Biblioteca Musicale e con Torino Danza, l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, Lingotto Musica, il Conservatorio, il Teatro Regio, l’Orchestra Filarmonica di Torino, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, l’Unione Musicale e, come soci sostenitori, l’Academia Montis Regalis, l’Associazione “la Nuova Arca”, la De Sono. È un esempio unico di come in una grande città tutte le forze musicali possano cooperare per dare vita a uno strumento di comunicazione unitario (il mensile Sistema Musica, che io dirigo e che diffonde circa 30.000 copie) e ad alcune altre iniziative di interesse comune. In un momento in cui nella gestione dei finanziamenti alle attività culturali si sta ragionando sul rapporto tra pubblico e privato, questo effettivamente è un esperimento al quale forse vale la pena guardare con attenzione. di Melbourne e in molte altre occasioni; ha poi composto, su invito del festival Torino Settembre Musica, Blu tranquillo per gli Alter Ego. Nel 2004 ha composto fra l’altro Absolut. Concerto per violoncello, basso elettrico e archi commissionatogli dall’Orchestra dell’Università di Milano per Mario Brunello, una Sinfonietta per l’Orchestra Filarmonica di Torino (che ha debuttato a Parigi in occasione della Conferenza annuale dell’Unesco) e la raccolta Danze del riso e dell’oblio per fisarmonica e pianoforte. Gli sono state commissionate musiche dalla Rai-Tv (radio e televisione) e dal Teatro Stabile di Torino, dalla Fondazione “I Pomeriggi Musicali” di Milano, da Torino Settembre Musica, da Rive Gauche Concerti, da Bruno Bozzetto, dal Trio Italiano, dal Trio Debussy, dal Quintetto Bibiena, e da molti altri interpreti. La sua musica viene trasmessa con frequenza da RadioRai e da France Musique oltre che dalle radio nazionali canadese, svizzera, israeliana, vaticana, olandese e statunitense. Dal 1991 è stato critico musicale del quotidiano la Repubblica, collabora con Musica! Rock e altro e dirige il mensile Sistema Musica. Per la rete Internet nel 1995 ha ideato con Giorgio Pugliaro Compact Classica, il primo sistema informativo italiano sulla musica di tradizione classica. Ha pubblicato per Mondadori Orecchie: istruzioni per l’uso, una guida all’ascolto della musica di tradizione classica. È tra i conduttori di Radiotre (dopo diversi anni al microfono di MattinoTre è ritornato ora a quello di RadioTre Suite e insegna alla Scuola Holden di Torino). Nell’anno mozartiano, ricordiamo uno fra i luoghi della musica bolognese che hanno ospitato il giovanissimo Wolfgang, riecheggiandone le prime composizioni Mozart a Bologna: la villa Pallavicini di Maria Pace Marzocchi Wolfgang Amadeus Mozart e il padre Leopold giunsero per la prima volta a Bologna il 24 marzo 1770 prendendo alloggio nell’albergo del Pellegrino, allora il migliore della città (bombardato nel 1943). Li accompagnava da Milano una lettera di presentazione del Governatore della Lombardia conte di Firmian, per il maresciallo conte Gian Luca Pallavicini, che il 26 marzo, in onore del quattordicenne Wolfgang, organizzò un’Accademia Musicale nel salone del suo palazzo in Strada San Felice. Leopold Mozart ne scrisse alla moglie: Il conte Pallavicini ha organizzato ieri un concerto al quale erano invitati il cardinale e la più alta nobiltà. …Il celebre P. Martino fu ugualmente invitato e sebbene non vada mai ad alcun concerto, venne ugualmente… Furono giorni di incontri: il 27 la visita al celebre Farinelli nella sua villa suburbana (ora distrutta), due volte in visita a Padre Martini: e ogni volta Wolfgang ha eseguito una fuga, della quale il P. Martino aveva scritto solo il ducem, ossia la guida con qualche nota. Quando il 29 marzo i Mozart lasciarono la città alla volta di Roma con la lettera del conte Pallavicini per il cugino Cardinale Lazzaro Pallavicini, Segretario di Stato di Clemente XIV, trovarono la stessa benevola accoglienza. Poi il soggiorno a Napoli, e, di ritorno a Roma, grazie al Cardinale, l’onorificenza dell’Ordine dello Sperone d’oro dalla mano del Papa. Il 20 luglio i Mozart erano nuovamente a Bologna. Sono presto giorni di lavoro: Wolfgang si accinge a musicare il libretto di Mitridate re del Ponto, da allestire a Milano per le feste natalizie (andrà in scena il 26 dicembre), compone il Minuetto KV 122, completa la Sinfonia in re maggiore KV 84. Ancora giorni di incontri: con il compositore Vincenzo Manfredini, rientrato dalla Russia dove era stato maestro di cappella alla corte degli zar, con il boemo Joseph Myslivecek, per altro appena reduce da un clamoroso insuccesso della sua opera Nitteti al Nuovo Teatro Pubblico. Dove i nobili bolognesi andavano per ascoltare musica, fare salotto, giocare a carte…: tutto in un’atmosfera molto chiassosa, come lamentava il critico musicale tedesco J.J. Volkmann. All’inizio di agosto giunse ai Mozart, in quei giorni alloggiati all’albergo San Marco, l’invito del conte Pallavicini per passare il resto dell’estate nella residenza di campagna alla Croce del Biacco, dove sarebbero rimasti fino al 1° di ottobre. La villa, edificata dagli Alamandini nella prima metà del Seicento, e all’estinzione della famiglia passata ai Bolognetti, nel 1765 era stata affittata ai Pallavicini, che l’avrebbero acquisita nel 1773. È sempre Leopold a raccontare alla moglie della magnificenza del luogo, della cortesia degli ospiti. Sua Eccellenza ci ha alloggiati nelle prime camere (che per Salisburgo sarebbero a piano terra) che in estate sono le stanze migliori. …Il giovane conte – unico erede – ha la stessa età di Wolfgang. È intelligentissimo, suona il piano, parla tedesco… Come potrai immaginare… sono divenuti i migliori amici del mondo… Il Signor Contino, la contessa, per cui Mozart suonava spesso il clavicembalo nella loggia terrena che fungeva da sala da musica, e a cui dedicò il Minuetto in re maggiore KV 94, le passeggiate nel parco, gli svaghi quotidiani alternati allo studio per l’esame di aggregazione all’Accademia Filarmonica, che avrebbe sostenuto il 9 ottobre. Di lì a pochi giorni Wolfgang lasciò Bologna, per non farvi più ritorno. Nella villa il soggiorno di Mozart è ricordato da una lapide fatta apporre dall’Accademia Filarmonica a conclusione del restauro effettuato per il Grande Giubileo del 2000, in vista della destinazione universitaria del palazzo (ora, di pertinenza della Fondazione Alma Mater, ospita la Scuola Superiore di Giornalismo): che, dopo la morte del conte Giuseppe Pallavicini, ebbe una storia tormentata, passando più volte di mano. Alla fine dell’Ottocento furono abbattuti quasi tutti gli alberi del parco secolare, nel Novecento vi fu istituito un ospizio per bambini, chiuso negli anni Settanta. Poi un progressivo degrado, fino a che i recenti interventi ne hanno restituito la leggibilità: dalla facciata tripartita, alla cappella, alla foresteria, allo scalone a tenaglia, alle tempere con paesaggi e vedute, scene di vita eremitica, di caccia, di danza… Villa Pallavicini 21 Con l’Omaggio a Nono, lo scorso 6 febbraio, Musica Insieme ha offerto un’occasione importante per riflettere sulla musica oggi, sull’onda di emozioni profonde Una rara sensazione di Roberto Verti Foto Roberto Serra / Iguana Press Quando Maurizio Pollini attacca il primo dei Sei piccoli pezzi per pianoforte di Schönberg hai una sensazione rara e che però conosci già. È la percezione precisa che quelle pagine – e sono ben poche in questo caso, brevissime ma intense e dense come un buco nero, quelle dell’opera 19 – le stai ascoltando nell’unica versione possibile. Non v’è mancanza di rispetto per molti altri eccellenti interpreti schönberghiani. È che Pollini sa avere il potere tremendo di darti la lezione definitiva. Accade perché Pollini è artista etico quanto ben pochi altri. Suona, sempre, secondo una urgenza. C’è una necessità, nelle scelte polliniane. Nel discrimine interpretativo, e anche in quella fase d’attacco dell’interpretazione che è la scelta del repertorio, l’identificazione dell’oggetto da aggredire con studio e opzioni stilistiche, per restituirlo facendone cultura condivisa. Maurizio Pollini, pianista grandissimo, è questo da sempre. Fa musica anche quando non la fa. È un artista la cui coerenza urla, vive nell’hic et nunc, nel momento della performance e, insieme, nella storia, soprattutto nella storia nostra contemporanea, che Pollini percorre dalla fine degli anni Cinquanta, quando, ragazzo, s’apprestava a vincere nel 1960, folgorante, il Premio Chopin di Varsavia. Il “Progetto Nono” che Musica Insieme ha coprodotto, ospitando prima la concertazione e una presentazione pubblica in autunno, poi la tappa italiana del tour che ha toccato Tokyo Vienna Parigi Londra, è stato pensato e voluto da Pollini. Musica Insieme lo ha fatto proprio. Chi scrive, franca- Omaggio a Nono - Musica Insieme, 6 febbraio 2006 22 mente, non sa se e con quali sacrifici, ma immagina che l’avventura sia stata magari anche complessa, impegnativa, e certamente di quelle che un segno lo lasciano. Mi è stato chiesto di commentare questo progetto per le pagine di MI. Non scrivo mai in prima persona e mi scuso per questa eccezione, ma in certi casi occorre spiegarsi, precisare i ruoli, e questo aiuta. È un commento cui mi dedico ritenendolo un’opportunità preziosa. Perché, osservando le cose della Bologna musicale da molti anni, mi sono spesso lamentato, seccato e inacidito, come altri tra noi, di fronte a scelte corrive e di basso profilo, di fronte al cedimento supino alle lusinghe del repertorio d’agenzia (fai poca fatica, il risultato c’è), di fronte, soprattutto, a quel che ora, in questo 2006, s’evidenza in Italia come una clamorosissima incapacità di produrre. Di fare scelte. Di intervenire. E buttiamo lì anche la frase così deprezzata da tanto millantato credito degli autolodanti: di fare cultura. Quanto a scelte strutturali – del governo centrale e purtroppo di quasi tutte le amministrazioni, ma anche di chi promuove concertismo ad alto livello e ad alto tasso di costi – siamo il quarto mondo della musica europea. Ed è per questa ragione che – pur avendo, come critico, manifestato verso l’opus recuperato di Luigi Nono, A floresta é jovem e cheja de vida, anche qualche segno di mancata empatia – sono convinto, come già ho scritto, che questa operazione “esorbitante”, con la quale Musica Insieme ha fatto quel che per sua natura non è obbligata a fare, cioè il produttore, sia uno dei capitoli più decisivi nella storia di questo sodalizio che a Bologna porta musica di rango da quasi vent’anni. In autunno s’era avuta la presentazione del progetto, un’anteprima senza la voce eccellente di Barbara Hannigan, che ha raggiunto più tardi i compagni di ventura, ma con un Teatro Manzoni stracolmo. Era un bel segno, quello. In sala si sono visti non solo i sacerdoti della contemporaneità – dei quali si potrebbe fare volentieri a meno soprattutto per la tronfia episodicità autoreferenziale delle loro sortite al sapor di baciapile – ma molte centinaia di ragazzi, e non era gente a spasso che profittava di un ingresso libero. Ad ascoltare il Nono 1966, che grida contro la guerra in Vietnam facendo lacerare lo spazio sonoro dalle lastre di rame, non ci vai perché non hai di meglio da fare. In febbraio, s’è avuta la riconferma. Pollini sul palco ad aggiungere il proprio contributo pieno di affetti, con Schönberg e soprattutto con ...sofferte onde serene..., partitura acustico-elettronica che è nella vita di Maurizio Pollini. In autunno, con Fabrizio Festa a coordinarne gli inter- Maurizio Pollini venti, sul palco del Manzoni erano saliti i coprotagonisti di certi anni di Luigi Nono: oltre a Pollini, Massimo Cacciari e Nuria Schönberg, moglie di Nono, e non è stato un amarcord. Trovare tutta quella gente in sala per ascoltare Cacciari, Pollini e Nuria, era da non credere, sembrava la Bologna di trent’anni fa, la città che i giapponesi venivano a visitare per capire come si faceva, una città che viveva lo spolvero di un’età durissima per il sociale (non che oggi sia tenera) ma fertile per la cultura. L’insegnamento è stato: vedi che si può fare? Poi, a febbraio, in stagione, con gli abbonati. L’Abbonato “tipo”, però, non è l’abbonato che legge queste pagine e va a teatro. L’Abbonato “tipo” è una maschera. Disegnata dall’Organizzatore di musica (anche questo spesso un “tipo”). Che su quella maschera riversa propri timori e colpe, ma soprattutto, ed è ciò che fa del male, la propria indolenza, il pilatesco risolvere ogni problema con “sì, va bene, ma gli abbonati questo non lo vogliono”. Ma lo chiedono mai, agli abbonati, che cosa vogliono? Un dubbio. In fondo, però: perché dovrebbero chiederlo, agli abbonati, che cosa vogliono? Penso che chi progetta stagioni – in questo caso vale per l’amico Bruno Borsari – quasi quasi farebbe male, a chiederlo. Perché gli spetta di rispettare il proprio pubblico, e il rispetto è anche nel non pensare d’avere a che fare con un pensiero informe e inetto. Chi organizza, un po’ di doveri culturali, via, ce li ha. Le imprese non sono tutte uguali, e chi vende musica vende la possibilità di confrontarsi con artisti, oggetti d’arte e beni culturali. Primo fra tutti, ha il dovere di pizzicare anche un pochino, di azzardare e via via virare verso certe prospettive; ha il dovere di non mettere a sedere le orecchie – sue e nostre – e di guidare le scelte, anche di inventarsi qualche cosa, vivaddio. Né più né meno come fa un editore (lo so, che gli editori è come non ci fossero più, che anche loro pensano di vendere libri alla maschera dell’Abbonato: è lì, il nocciolo). Le nostre stagioni di musica – e Bologna ne ha di belle e importanti – vivono anche prima e dopo le ore 21 e le ore 23.15 dei giorni di concerto. Incontrarsi con Pollini, Cacciari e Nuria Schönberg è parte integrante della musica come fatto di cultura. Avere assistito al formarsi del Progetto Nono e poi averne verificato gli esiti a metà tour significa porsi in relazione con ciò che della musica esce dall’ambito di quelle due-ore-e-unquarto-intervalli-compresi. Cioè, per dirne solo una, con il significato storico e culturale delle cose di musica. Il Nono elettroacustico del 1966 può “non piacere”. A me, per esempio, non piace granché: lo ho trovato invecchiato, per dirne una; la musica moderna, per riprendere e parafrasare Adorno, invecchia, eccome. Lo ho trovato perfino ingenuo, per le orecchie di oggi. Ma, come diceva un tale, non condivido la tua idea ma mi batterò fino all’ultimo perché tu possa esprimerla. E per molti, quella serata ha rappresentato un’emozione profonda. Io che ho passato minuti di grazia ascoltando lo Schönberg di Pollini e i Quattro pezzi per clarinetto e pianoforte di Alban Berg meravigliosamente pronunciati e cantati dal clarinetto di Alain Damiens sono stato per parte mia molto contento di assistere al recupero della Floresta di Nono: perché quell’opera è stata letteralmente “recuperata”, perché anche la musica contemporanea ha bisogno di filologia e ricostruzione, e la tradizione elettroacustica pone problemi da risolvere, e quei problemi, questa volta, sono stati risolti e hanno restituito una pagina che segna un momento chiave del percorso di uno dei nostri protagonisti del secondo Novecento. Ne aveva parlato in autunno Nuria Schönberg Nono invitando ad aiutare l’Archivio Luigi Nono (www.archivionono.it). All’ultima Biennale di Venezia, settembre 2005, era stata presentata appunto un’altra partitura chiave del Nono ‘politico’, Y entonces comprendió (1969), restaurata dal Laboratorio Mirage dell’Università di Udine, sede di Gorizia. “Sapere” questo, verificarne i contenuti e, soprattutto, avere l’occasione per poterli valutare, vuol dire essere dentro la musica. La quale, si diceva, inizia prima delle 21 e finisce dopo le 23.15 (del lunedì, per noi che ci si ritrova al Teatro Manzoni). Bologna, 16 marzo 2006 La notizia terribile, persino inconcepibile, dell’improvvisa scomparsa di un carissimo amico: quel Roberto Verti di cui ancora la firma campeggia su queste pagine, dove accogliamo il suo ultimo contributo a questa nostra rivista. Abbiamo perso, prima ancora che il valentissimo collaboratore, il raffinato intellettuale, l’acuto e l’attento osservatore delle vicende musicali di questi anni, un amico. Un amico con il quale personalmente tutti noi di Musica Insieme abbiamo condiviso emozioni e momenti di vita non solo professionale, ma anche privati, in un’umanissima condivisione di passioni e di idee. È stato un compagno di strada. Ci ha accompagnato passo passo in quell’alternarsi di sentimenti e di stati d’animo, che fanno della nostra professione qualcosa di speciale, e che Roberto ha saputo esaltare in maniera unica, irripetibile, indimenticabile. 23 LUNEDÌ 3 APRILE 2006 Teatro Manzoni - ore 21 SOLISTI DELLA ROYAL CONCERTGEBOUW ORCHESTRA PAG. 26 32 Maaike Aarts Junko Naito Peter Sokole Gregor Horsch Jacques Meertens Helma van den Brinck Jacob Slagter Sepp Grotenhuis Paul Hindemith Béla Bartók Igor’ Stravinskij Paul Hindemith Gabriel Fauré violino violino viola violoncello clarinetto fagotto corno pianoforte Sonata per corno e pianoforte Contrasts per violino, clarinetto e pianoforte Settimino Sonata per fagotto e pianoforte Quintetto n. 1 in re minore op. 89 Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna LUNEDÌ 10 APRILE 2006 Teatro Manzoni - ore 21 THE BRODSKY STRING QUARTET sassofono John Harle PAG. 30 32 Dmitrij Šostakovič Michael Nyman Jean Françaix Claude Debussy Astor Piazzolla Chick Corea Nono Quartetto in mi bemolle maggiore op. 117 Act without words Quartetto per sassofono e archi Syrinx Four for Tango Children’s Songs Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole” LUNEDÌ 8 MAGGIO 2006 Teatro Manzoni - ore 21 ORCHESTRA DELLA TOSCANA violino Chloë Hanslip Paul Daniel direttore Ludwig van Beethoven PAG. 33 32 Nicola Campogrande Concerto in re maggiore op. 61 per violino e orchestra Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 Tre piccolissime musiche notturne – Omaggio a Mozart Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme: Galleria Cavour, 3 - 40124 Bologna - Tel. 051 271932 - Fax 051 231423 E-mail: [email protected] - Sito web: www.musicainsiemebologna.it 25 Lunedì 3 aprile 2006 Teatro Manzoni ore 21 SOLISTI DELLA ROYAL CONCERTGEBOUW ORCHESTRA Paul Hindemith Béla Bartók Igor’ Stravinskij Paul Hindemith Gabriel Fauré Sonata per corno e pianoforte Contrasts per violino, clarinetto e pianoforte Settimino per clarinetto, corno, fagotto, pianoforte, violino, viola, violoncello Sonata per fagotto e pianoforte Quintetto n. 1 in re minore op. 89 per pianoforte e archi SOSTITUISCE IL PREVISTO CONCERTO DEL WIENER KAMMERENSEMBLE Un secolo di contrasti di Sara Bacchini In voga già alla fine del Settecento e poi anche nel primo Ottocento, le Accademie erano manifestazioni musicali pubbliche a pagamento organizzate da uno strumentista, il quale assumeva in genere il ruolo di protagonista nello svolgimento dell’intera serata. L’esecutore su cui si concentrava il massimo dell’attesa eseguiva un concerto o un grande pezzo con orchestra, insieme a brani cameristici e varie improvvisazioni; gli altri esecutori e l’orchestra gli facevano da corona, accrescendo la varietà del programma proposto ed attirando a concerto, cosa nient’affatto trascurabile in termini economici, i propri personali ammiratori. In tali circostanze, risultava particolarmente delicata anche la scelta del programma da proporre al pubblico, secondo le esigenze di “intrattenimento” e le richieste della moda di quel determinato periodo. In questo campo fu con Mendelssohn, Moscheles e soprattutto Liszt, che il repertorio concertistico subì profonde modifiche: in particolare, la riproposizione di capolavori che per diversi motivi erano finiti nel “dimenticatoio”, conseguenza magari di scelte che nulla avevano a che vedere con il loro intrinseco valore artistico e musicale. Anche al giorno d’oggi tuttavia, 26 Junko Naito quando ormai molte cose sono già state dette e proposte in varie versioni, si avverte il bisogno di (ri)scoprire opere poco praticate o raramente eseguite, specialmente per quanto riguarda la musica che ha fatto storia nel Novecento. È questo il caso del Quintetto op. 89 di Gabriel Fauré: opera emblematica del progressivo distacco dell’autore dal romanticismo emotivo di fine Ottocento, essa delinea un pensiero musicale estremamente raffinato, caratterizzato da un’atmosfera di aristocratica contemplazione e da un lirismo tenue, arioso, mai decorativo. Composto in circa tre anni di lavoro (1903-06), il Quintetto è un’opera di transizione nel linguaggio di Fauré verso melodie molto più austere ed intime, nonché verso un’essenzialità tendente a diventare messaggio morale ed etico. Introdotta da lunghi arpeggi del pianoforte, la lenta melodia del primo movimento (Molto moderato) si eleva sempre più, sostenuta dalle successive entrate degli strumenti ad arco, fino all’enunciazione di un secondo tema fortissimo e ritmicamente contrastante: il lungo sviluppo giocherà proprio su questi contrasti fino ad arrivare al culmine di un vorticoso intreccio in cui la parte ritmica del pianoforte fa da trait d’union. La lenta ridiscesa emotiva della tensione, attraverso brevi e momentanei sussulti di passione, conduce al successivo Adagio, fondato sull’equilibrio oscillante dei ritmi giambici, in cui l’atmosfera cambia la propria luce attraverso il prisma dell’instabilità armonica. È un momento di pura bellezza e sensibilità, che mostra tutta la profondità di un pudore “tragico” e sembra quasi voler sospendere il tempo… Il contrasto diviene ancora più evidente con il tema vivace e bonario dell’Allegro moderato, esposto dal pianoforte sull’accompagnamento pizzicato degli archi: una briosità che non abbandonerà mai la scena fino alla coda conclusiva, attraverso la quale si avrà davvero l’impressione di una definitiva catarsi finale. Opera di transizione è anche il Sepp Grotenhuis Settimino di Igor’ Stravinskij, il cui processo compositivo era spesso accompagnato dall’invenzione di nuovi complessi strumentali. Diversamente dagli autori precedenti, egli concepiva combinazioni strumentali inedite per ciascuna opera, inventando così tessiture e colori timbrici secondo quanto gli dettava l’orecchio interiore. Strumentata nel 1952 per trio di fiati (clarinetto, corno, fagotto), trio d’archi (violino, viola, violoncello) e pianoforte, l’opera segna il passaggio dallo stile neoclassico del periodo intermedio di Stravinskij alle tecniche seriali di derivazione schönbergiana, tipiche della sua ultima fase creativa. Il primo tempo è un Allegro neoclassico, caratterizzato da una contrastante sezione intermedia fugata. L’austera Passacaglia, che segue, inizia con un tema diviso tra quattro strumenti e ripetuto nove volte attraverso un procedimento a canone, per condurre alla Giga finale, essenzialmente una sequenza di quattro fughe, ovvero le versioni di una serie di otto note derivata dal precedente tema di passacaglia. La prima SOLISTI DELLA ROYAL CONCERTGEBOUW ORCHESTRA Maaike Aarts Junko Naito Peter Sokole Gregor Horsch Jacques Meertens Helma van den Brinck Jacob Slagter Sepp Grotenhuis violino violino viola violoncello clarinetto fagotto corno pianoforte è suonata dagli archi e poi ripetuta dal pianoforte mentre i tre fiati vi sovrappongono la seconda; stesso procedimento anche per la terza e la quarta fuga prima di arrivare alla cadenza conclusiva, a cui partecipano tutti gli strumenti. Anche Paul Hindemith, dopo un’iniziale adesione all’espressionismo, nelle opere della maturità delinea il proprio stile attraverso il recupero della tradizione tedesca bachiana e pre-bachiana. Non una contaminazione neoclassica come in Stravinskij, ma il recupero della struttura e della tecnica compositiva, spesso rigorosamente fondate sui principii della forma-sonata, della fuga e delle sue leggi contrappuntistiche. La produzione sonatistica degli anni 1938-39 rispecchia appieno i tratti salienti dello stile hindemithiano, caratterizzato da un’eccezionale vocazione musicale capace di penetrare prontamente la natura di ogni strumento. La Sonata per corno e pianoforte fu composta in una sola settimana durante il forzato esilio in Svizzera, in seguito allo scoppio della guerra. Il movimento iniziale (Mäßig bewegt) esprime tre complessi tematici ben definiti e successivamente riproposti in forma retrograda: il terzo termina in un ostinato ritmico tipico del miglior Hindemith, il secondo si riduce gradualmente all’inciso del I Solisti della Royal Concertgebouw Orchestra nascono come frutto della consolidata esperienza musicale maturata all’interno della prestigiosissima compagine sinfonica di Amsterdam. L’organico del gruppo varia dai sei ai quindici elementi ed estende il proprio repertorio dal Barocco alla musica contemporanea. Prime parti della storica Royal Concertgebouw Orchestra, i Solisti annoverano nel corso della loro carriera collaborazioni con artisti dell’importanza di Martha Argerich, Leif Ove Andsnes, Emanuel Ax, Joshua Bell, Yefim Bronfman, Truls Mørk, Edgar Meyer, Mstislav Rostropovič, Maxim Vengerov. Rammentiamo, altresì, collaborazioni in sede ed all’estero con Mariss Jansons, Nikolaus Harnoncourt, Bernhard Haitink. Ripetute e trionfali le apparizioni presso sale dell’importanza di: Carnegie Hall, Hollywood Bowl, Barbican Center, Royal Festival Hall, Royal Albert Hall, Suntory Hall, Gewandhaus Leipzig, Berliner Philharmonie, Tanglewood Festival, Marlboro Festival, Festival di Salisburgo, Chautaqua Festival. Raffinatissime e di grande impatto musicale le esecuzioni, che li hanno resi noti sulla scena internazionale come uno dei migliori ensemble oggi in attività. Depositari riconosciuti di un modello esecutivo decisamente unico, i Solisti della Royal Concertgebouw Orchestra hanno profondamente ridefinito con le loro interpretazioni il concetto di fare musica da camera, rendendosi protagonisti di appuntamenti che sono andati sempre più assumendo il sapore dell’evento. Jacques Meertens 27 tema iniziale, mentre il primo intensifica il proprio tema in una sorta di apoteosi finale. Il Lebhaft successivo deriva direttamente dal terzo complesso tematico del movimento precedente, elaborato in forma liederistica, mentre l’ultimo movimento presenta due gruppi tematici ben distinti e interrelati: energico e tempestoso uno, esitante ed ostinato l’altro. Diversamente, la Sonata per fagotto e pianoforte è in soli due tempi: breve, monotematico e di grande dolcezza il primo; mentre il secondo, tripartito, chiude il cerchio ritornando al clima pastorale dell’inizio della sonata. Capolavoro cameristico novecentesco, Contrasts fu composto nel 1939 da Béla Bartók, su commissione del violinista ungherese Josef Szigeti e del clarinettista jazz Benny Goodman. Il titolo è ben esplicativo della composizione stessa, che si gioca tutta sui contrasti timbrici dei tre diversi strumenti, su quelli linguistico-musicali (jazz e musica classica) e sulle differenti atmosfere dei movimenti. Il primo di essi (Verbunkos) si apre con pizzicati del violino ironicamente ispirati dal tempo Blues della Sonata di Ravel con pianoforte, e rimanda ad una danza ungherese di arruolamento per giovani militari. Il secondo movimento (Pihenö) è un notturno tipicamente bartókiano, che riecheggia i suoni estivi della campa- Gregor Horsch 28 gna sotto la luce della luna; mentre l’ultimo (Sebes), caratterizzato dal ritmo delle danze tradizionali bulgare, presenta anche la particolarità della presenza in scena di due violi- ni: uno accordato normalmente, l’altro scordato con due quinte diminuite per meglio rendere il carattere modale della musica folkloristica dell’Europa centrale. DA ASCOLTARE Buone notizie: delle (raramente eseguite in Italia) Sonate per vari strumenti e pianoforte di Paul Hindemith esistono ottime edizioni discografiche. Di quella per corno del 1943, per esempio, c’è la favolosa incisione in studio con Mason Jones al corno e nientemeno che Glenn Gould al pianoforte (Sony). Incisione che smentisce la tesi di molti che il canadese non sarebbe stato un grande camerista. Forse un po’ personale (anzi tantissimo!) anche in Hindemith, lo è: è ovviamente Gould che comanda, ma Jones è ultrabravo a seguirlo in ogni sua stranezza, tanto da non rimanerne schiacciato. Ma diamine! Che si può voler sentire di più da un’opera così, letteralmente ricreata e gratificata dal genio di Gould? Della Sonata per fagotto e pianoforte risalente a cinque anni prima, invece, segnaliamo la rara incisione del duo Grainger-Niwa (Centaur) e quella più reperibile, e certamente migliore, con il noto virtuoso di fagotto Milan Turkovic e il bravissimo Ferenc Bognar al pianoforte (Sony). Meno noti e ancor meno eseguiti in pubblico dei due Quartetti per pianoforte e archi, i due Quintetti per pianoforte e archi di Gabriel Fauré, in particolare il primo op. 89, frutto di un lungo lavoro di elaborazione (gli ci vollero sei anni), sono sempre rimasti al margine del repertorio cameristico, offuscati dal quasi coevo Quintetto di Franck – che invece entrò rapidamente nelle sale e nei conservatori di tutto il mondo. Ad onta di questa scarsa circolazione, i Quintetti con pianoforte di Fauré hanno conosciuto alcune eccellenti edizioni discografiche. A cominciare dalla raffinata registrazione del 1985 col Quintetto Fauré di Roma, formato da Maureen Jones al piano (un fantastico Bösendorfer Grand Imperial), Pina Carmirelli e Federico Agostini al violino, Massimo Paris alla viola e Francesco Strano al violoncello (Claves), per proseguire con quella sicuramente più scintillante e virtuosistica di Jean Philippe Collard col Quartetto Parrenin (Emi), a quella più composta del pianista Jean Hubeau col Quartetto Via Nova (Teldec), da mettere a confronto diretto con la più recente incisione del pianista Emmanuel Strosser col Quartetto Rosamonde (Pierre Verany). (as) Helma van den Brinck PIÙ MUSICA PER L’ITALIA di Matteo Gualandi Emanazione diretta dell’Orchestra più prestigiosa di Amsterdam, l’ensemble di solisti ospiti della stagione di Musica Insieme si presenta con un programma tutto novecentesco, in cui si alterneranno varie formazioni. Un percorso che abbiamo discusso con Peter Sokole, violista del gruppo. E ne è emerso anche un appello per il benessere musicale del nostro Paese. Come nasce la versione cameristica della Royal Concertgebouw Orchestra? Già da un decennio, dalla nostra compagine orchestrale si diramano spesso varie formazioni solistiche: questa settimana per esempio [l’ultima di febbraio, NdR], dopo un concerto dell’orchestra ad organico pieno, un ensemble di fiati e archi è rimasto a New York per alcune serate cameristiche. In America c’è infatti un’associazione che ci sostiene con passione: sono gli “Amici della Royal Concertgebouw Orchestra”. Ci accade spesso di esibirci in formazioni solistiche, ed in futuro i nostri impegni in questo senso si intensificheranno, portandoci in tournée in Estremo Oriente, Nord America ed Europa. Due parole sul programma che presenterete a Bologna, e per la cui preparazione avete coinvolto anche Mariss Janson: un repertorio del Novecento storico che unisce brani di grande virtuosismo solistico a raffinati lavori d’insieme. Mariss Janson conosce il programma, che abbiamo prescelto con l’intenzione di unire il Settimino di Stravinskij – molto breve – ad una serie di lavori affidati volta per volta ad alcuni degli strumenti che lo compongono, a mo’ di cornice e insieme di presentazione dei vari solisti: clarinetto, corno, fagotto, violino, viola, violoncello e pianoforte. Ad esempio i Contrasts di Bartók sono brani straordinari, assai impegnativi sotto l’aspetto tecnico, ed in questo caso potremo ascoltarne l’esecuzione di Jacques Meertens, il primo clarinetto del Royal Concertgebouw, uno strumentista eccezionale che ne dà una lettura magnifica. Un altro esempio, la Sonata per corno e pianoforte di Hindemith nell’interpretazione di Jacob Slagter, il nostro primo corno, altro meraviglioso artista già molto noto sulla scena europea. A proposito di virtuosismo: il Quintetto di Fauré – dedicato non a caso ad Ysaÿe – è un brano meno conosciuto e di rara esecuzione. Esattamente. Una ragione per questo strano destino potrebbe essere il fatto che sia abbastanza difficile reperirne la partitura: per molti anni il Quintetto non è stato più pubblicato; la sua casa editrice ne vendette i diritti ad un editore che non ne fece altre uscite. Io stesso ho raccolto le parti del Quintetto in America, in un’edizione di Kalmus. È strano, ma salvo qualche rara eccezione è un lavoro che si ascolta davvero poco. Trovo che sia di grande valore, e perfetto per concludere il concerto. Infatti il Settimino di Stravinskij è un brano sperimentale, assai interessante per la ricerca sulla scrittura seriale, ma il Quintetto di Faurè ha tutta l’efficacia per comparire come finale di serata. Peter Sokole Come le appare la situazione musicale in Italia, in paragone all’esperienza con la Royal Concertgebouw, e quale il rapporto con il pubblico nostrano? Personalmente vivo fra l’Olanda e l’Italia, e tra i miei progetti c’è la fondazione di un festival cameristico in Toscana o ad Assisi – ancora la sede non è stata definitivamente prescelta. La situazione musicale italiana è difficile da interpretare, specialmente in questi tempi di ristrettezze economiche. Ma ciò che più mi disturba della situazione italiana è la quasi totale mancanza di una tradizione sinfonica: le grandi compagini europee vengono assai di rado nel Bel Paese, e ci sono un paio di orchestre italiane veramente buone, ma che potrebbero esserlo ancora di più, ivi compresa l’orchestra della Scala. Non è solo un problema economico, ma sicuramente il fattore denaro ha la sua incidenza. Spesso poi manca in Italia un’organizzazione di ampio respiro, il che rende assai difficile concordare una tournée italiana per un’orchestra con un calendario fittissimo d’impegni, com’è ad esempio la nostra. Girano comunque ottime produzioni, soprattutto liriche: ho assistito a Brema ad un magnifico Barbiere di Siviglia diretto da Daniele Gatti, per citare solo un caso, ma il problema strutturale rimane. Gatti è un eccellente direttore, con il quale abbiamo spesso collaborato come Royal Concertgebouw Orchestra. Il vostro ensemble da camera ha mai suonato a Bologna? No, soltanto l’orchestra, diretta da Chailly, ma parliamo di più di dieci anni fa. Progetti futuri per i Solisti? Qualcosa che mi sta molto a cuore: una nuova versione dell’Histoire du Soldat stravinskiana, con due attori, ballerini e solisti della Royal Concertgebouw, che debutterà a Londra nel 2007/08. 29 Lunedì 10 aprile 2006 Teatro Manzoni ore 21 THE BRODSKY STRING QUARTET sassofono John Harle Dmitrij Šostakovič Michael Nyman Jean Françaix Claude Debussy Astor Piazzolla Chick Corea Nono Quartetto in mi bemolle maggiore op. 117 Act without words Quartetto per sassofono e archi Syrinx Four for Tango Children’s Songs Vie nuove di Maria Chiara Mazzi Quando si ritrovano sul palcoscenico la formazione considerata più colta e raffinata di tutto l’ambiente cameristico e lo strumento forse più giovane entrato in orchestra e nei circuiti della musica ‘classica’, le sorprese possono essere davvero tante. Come accade in questo concerto, in cui il primo effetto dell’incontro è quello della cancellazione alla radice di uno dei principii così cari ed abituali per il pubblico (ma anche, spesso, per i compositori), cioè quello della presunta “intangibilità dell’opera d’arte”. Sì, perché troppo spesso abituati ad una concezione romantica della musica, non pensiamo che nei secoli precedenti all’Ottocento (che se ha portato benefici all’arte musicale e al suo godimento, ha però completamente mutato le prospettive riguardo alla sua fruizione) non pensiamo mai che la musica si faceva con chi c’era, per il gusto di farla, per il piacere di suona- re insieme, per la gioia di divertire ma anche, soprattutto, per divertirsi. E a questo fine anche la musica, o meglio, lo spartito, era piegato innanzitutto alle esigenze di chi suonava. Questo i compositori lo sapevano benissimo, e perciò più importante di un’esecuzione con gli strumenti da loro indicati era che la musica circolasse, che vivesse e che fosse, con una parola (che sempre agli occhi dei romantici sembrerebbe sicuramente orribile), consumata. Chi deve redigere le note di sala, di fronte a un programma di questo genere si trova completamente spiazzato, perché sicuramente la cosa che più salta agli occhi è l’accostamento di musica classica e musica di consumo e, soprattutto, la quasi totale irrisione del ‘testo originale’. Oppure si diverte, si diverte moltissimo a infilare altre strade, senza preconcetti e preclusioni. Noi abbiamo deciso di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, e incrociare (in fondo quando ascoltiamo concerti di questo tipo di solito parliamo di “cross-over”) autori di provenienza differente non solo come genere, ma The Brodsky String Quartet 30 anche come stile, ferma restando, in questo caso, la comune appartenenza alla nostra contemporaneità. Andiamo con ordine e cominciamo con un po’ di notizie ‘organologiche’. Sul quartetto d’archi sappiamo tutto. Di come sia formato, di quale sia stata la sua origine (nel classicismo viennese e principalmente con Haydn), di quale sia stata la sua tradizione (da Mozart all’inarrivabile Beethoven, fino all’esercizio di stile e alle dimostrazioni d’abilità dei compositori romantici). Il tipo di quartetto che giunge nelle mani di Šostakovič, quando il compositore sovietico inizia il suo cammino in quel genere (nel 1938), ha ormai assunto una veste raffinatissima e perfetta: con questo stile egli si confronta, cimentandosi in un genere che ormai possiamo definire sperimentale; trasportando in esso quelle tecniche compositive orientate al rinnovamento che caratterizzavano la musica colta occidentale alla metà del Novecento, e insieme la sua personale ricerca stilistica. Inoltre proprio negli ultimi quartetti egli mostra la sua capacità di progettare complesse costruzioni musicali con elementi formali minimi e sviluppati architettonicamente al massimo grado. Una tecnica che ricorda certamente l’elaborazione tematica di Beethoven; tuttavia la limpidezza del disegno e l’equilibrio dell’espressione, mai esagerata o ridondante ma sovente allucinata e dolorosa, ci riporta agli ultimi e splendidi esempi del camerismo schubertiano per archi soli. Il suono, appunto, la nuova timbrica, associata ad una costruzione contrap- puntistica lineare, non intricata, che pare diradare il tessuto musicale, costituiscono, accanto ad elementi del passato stile che ritornano decantati e purificati, le motivazioni di fondo di questa produzione. Composto in venti giorni nel maggio del 1964, il Nono Quartetto (op. 117) propone una successione dei movimenti molto particolare, poiché da un andamento lento ed espressivo (un Moderato cui fa seguito un Adagio) si passa ad un Allegretto, una sorta di scherzo sarcastico in cui riappare tutta l’ironia graffiante del compositore sovietico e si termina poi con un Allegro, un robusto rondò dallo spirito beethoveniano. Contro o assieme a questa tradizione storica così corposa arriva tranquillamente il sassofono (sax, per gli amici). Giovane incosciente, ultimo nato nella grande famiglia della musica ‘classica’, il sassofono fu ideato nel 1840 dal belga Adolphe Sax, e trovò subito estimatori soprattutto in Francia. Inizialmente fu utilizzato nei complessi di soli fiati, collocato tra i legni di registro basso e gli ottoni, poi anche nella musica sinfonica per arricchire la sonorità dell’orchestra (con Bizet, ad esempio). Il grande entusiasmo suscitato dai sassofoni in questi complessi ‘popolari’ decretò il suo riconoscimento tra gli strumenti utilizzabili, riconoscimento consacrato ufficialmente con l’apertura al Conservatorio parigino di una classe per questo strumento, affidata proprio a Sax. Purtroppo però gli eventi della storia (la sconfitta nella guerra francoprussiana) fecero sì che questa piccola rivoluzione nella musica classica, che sembrava aprirsi alla modernità, s’interrompesse con la soppressione della classe. Fu un momento terribile per il sassofono, perché la mancanza di scuole portò alla mancanza di esecutori qualificati e virtuosi, e la mancanza di virtuosi non invogliò certo i compositori ‘importanti’ a scrivere per questo strumento, la cui letteratura si era invece arricchita notevolmente nei pochi anni di attività di Sax come insegnante (dal 1856 al 1870). Per questa ragione tra Ottocento e Novecento non troviamo grandi autori, anche se la tradizione didattica, affidata prevalentemente a clarinettisti, era rimasta viva in particolare in Belgio, in Francia e poi negli Stati THE BRODSKY STRING QUARTET Andrew Averon Ian Belton Paul Cassidy Jacqueline Thomas violino violino viola violoncello Grande esperienza e singolare versatilità fanno del Quartetto Brodsky un gruppo in prima linea nell’ambito della scena musicale internazionale. Fondato nel 1972 da Adolf Brodsky, esso è stato il primo gruppo in assoluto ad essere eletto quartetto in residenza presso l’Università di Cambridge. Il Quartetto Brodsky tiene fra l’altro corsi presso numerose altre Università, quali il Trinity College e il Cabot Hall di Londra e presso molte di esse tiene abitualmente concerti. Il calendario di impegni del Quartetto Brodsky include non solo tournées concertistiche, ma anche commissioni di nuove opere ed impegni discografici. Essi collaborano con artisti di livello internazionale, quali Maria João Pires, Peter Donohoe, Joanna McGregor, Anne Sofie von Otter, Gidon Kremer, Elvis Costello, Paul McCartney e Björk. Nel maggio 1998 è stato conferito al Quartetto Brodsky il Royal Philharmonic Society Award per l’importante contributo dato al mondo della musica. Nel corso degli anni il Brodsky ha anche intrattenuto rapporti di strettissima collaborazione con compositori dell’importanza di Lutoslawski, Sculthorpe e Dave Brubeck. Recentemente, il quartetto ha firmato un accordo di esclusiva discografica con la Vanguard Classics per la registrazione di opere che vanno da Haydn ai giorni nostri. Andrew Haveron suona un violino di Thomas Balistriere del 1770, donato dalla Fondazione Grumiaux. Paul Cassidy suona una viola di Francesco Giussani di Milano, del 1843, donatagli dal Britten Trust. Il violino di Ian Belton risale al 1640 ed è stato costrutito da Giovanni Paolo Maggini. Jacqueline Thomas suona un violoncello del 1785, costruito da Thomas Perry. JOHN HARLE John Harle è universalmente considerato uno dei più importanti sassofonisti della propria generazione. Ha inciso più di 25 cd tra concerti sinfonici e recitals al fianco delle più importanti orchestre del mondo. Innumerevoli i compositori che hanno scritto per lui. Fra essi ricordiamo: John Tavener, Michael Nyman, Gavin Bryars, Mark Anthony Turnage, Michael Torke ed Harrison Birtwistle. Unitamente al ruolo di pioniere dei sassofonisti contemporanei, Harle annovera svariate coproduzioni con artisti dell’importanza di Sir Paul McCartney, Elvis Costello, Moondog, Ute Lemper, Lesley Garrett. Nel corso della propria carriera John Harle ha scritto oltre 35 opere per sassofono e orchestra e ben più di cento partiture per musiche televisive. Non a caso la Royal Television Society gli ha conferito un prestigiosissimo riconoscimento per aver composto il “miglior tema originale” per il programma Silent Witness, teletrasmesso da BBC 1 nel 1999. Un ulteriore premio gli era stato conferito come “Best Artistic Contribution” per Prick up your ears, proiettato al Festival del Cinema di Cannes nel 1989. Nel 1996 l’esecuzione della sua opera Terror and Magnificence, incisa per la DECCA ed eseguita al fianco di Elvis Costello, ha registrato il tutto esaurito presso il Royal Festival Hall. Nel corso dell’edizione 2000 dei BBC London Proms, Harle ha eseguito in prima assoluta uno dei più famosi concerti per sassofono da lui scritti, ovvero The Little Death Machine. Future commissioni prevedono per John Harle un Doppio Concerto di John Tavener con il violoncellista Steven Isserlis, ed un Concerto di Harrison Birtwistle. Uniti. Fu proprio là che si assistette alla rinascita dello strumento (che trovava posto nelle orchestre in sezioni apposite, nonché in orchestre di soli sassofoni) che veniva utilizzato nelle compagini sinfoniche, nelle bande militari, ma anche nel circo e nel vaudeville, dove sottolineava gli effetti più volgarmente plateali. Solo questo occorreva alla musica seria e paludata per guardare il sax con sospetto, mentre ciò segnò sicuramente un 31 momento di prosperità dello strumento, che acquistò oltreoceano una popolarità mai vista. Inizialmente utilizzato nelle orchestre da ballo per rafforzarne l’insieme, acquisì anche una grande letteratura ‘leggera’, e poi, a partire dagli anni Venti, divenne strumento fondamentale nella musica jazz. Ma se jazz a quell’epoca significava un genere abbastanza definito cui il sax ha dato un suono nuovo e ha aperto orizzonti inattesi, dagli anni Settanta (e a maggior ragione oggi) dire ‘jazz’ è come dire ‘musica classica’, ovvero non dire nulla, poiché tanti sono gli stili e le maniere quanti sono gli artisti. Un esempio? Quello di Chick Corea, pianista e personaggio musicalmente controverso, non tanto per il suo indiscutibile talento, quanto per le proposte musicali che non sempre sono state completamente comprese. Forse proprio per quel suo incrociare continuamente i generi (un gruppo di musica latina negli anni Sessanta, collaborazione con Miles Davis alla fine del decennio, avantjazz negli anni Settanta, jazz elettrico e avanguardie negli anni Ottanta e Novanta). Un innovatore, insomma, un inventore di sonorità e di ambienti musicali, un grande pianista che non esita ad entrare anche nel repertorio della musica classica, se pure riletto alla sua maniera, e che scrive pagine, come Children’s Songs, considerate da molti tra i brani più interessanti del repertorio contemporaneo e come tali interpretate anche da pianisti ‘classici’. E se dei brani di Corea conosciamo esattamente l’organico di partenza, ma motiviamo la trascrizione per quintetto in questo contesto, i tanghi di Piazzolla sono a tal punto stati rielaborati per tutti i gradi di difficoltà esecutiva e per qualsiasi formazione strumentale che ogni esecuzione diventa un originale, al punto che non ci interessa più conoscere la reale provenienza di una pagina, tanto queste musiche (ma è poi caratteristica della grande musica, tutta) hanno valore e suggestione sotto ogni forma. In tutta questa girandola di ‘vero’ e ‘falso’, di ‘buono’ e ‘cattivo’, di ‘originale’ e ‘trascritto’ finisce quasi per non interessarci più scoprire che il brano di Nyman (tratto dalla colonna sonora dell’omonimo film del 2000) sia qui proposto nella versione nella 32 quale l’autore l’ha pensato. Inventore del termine “minimalismo” applicato alla musica, è lui stesso a non autodefinirsi, quando scrive: “La mia è musica variabile perché accade sempre qualcosa e questo può avvicinarla al rock come alla musica barocca e ad altri stili, l’unica cosa che non sopporto è la monotonia di alcuni autori contemporanei. Il problema autentico con la mia musica è che se la spingi in una certa direzione diventa arte, se la indirizzi in un’altra diventa commerciale. Bisogna essere consapevoli che la musica, oggi, ha differenti usi e funzioni e regolarsi di conseguenza”. Dopo essere stati un po’ dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, scopriamo che in Europa il sassofono ha preso strade diverse, non a caso in Francia, dove lo strumento aveva conosciuto la sua giovinezza. Sin da inizio Novecento, infatti, i compositori scoprono le tante possibilità sonore di uno strumento non compromesso col romanticismo. E non è un caso che alla tradizione musicale francese, quella più irridente e disincantata, appartenga Françaix, figlio insieme dell’eleganza di Ravel e della leggerezza senza barriere tra i generi di Poulenc. E non è un caso che in questo concerto anche il brano di Françaix (nato per quattro corni inglesi) subisca la sua bella revisione con un adattamento ad un organico diverso da quello di partenza. Il fatto poi che quella dei sassofoni sia una grande famiglia (comprende, dal più acuto al più grave, il sopranino, il soprano, il contralto, il tenore, il baritono, il basso e il contrabbasso) e che i virtuosi più importanti in concerto se li portino spesso dietro tutti, ha consentito di variare nel repertorio, che oggi propone musiche originali ma soprattutto, ed è il caso di questa serata, si diverte a rileggere brani celeberrimi per differente organico. Come Syrinx di Debussy, che dal nome parrebbe vincolare ad un’esecuzione esclusiva col flauto, e che invece scopre sonorità differenti, forse non altrettanto astratte ma sicuramente altrettanto sensuali attraverso la timbrica del sax, che rimane per pochi minuti solo e unico protagonista sul palcoscenico. DA ASCOLTARE Pare impossibile, ma il Quartetto Brodsky esiste da 34 anni. Dal 1972, cioè, da quando il violinista anglorusso Adolf Brodsky lo fece nascere col preciso intento di creare una formazione da camera molto duttile, molto curiosa nel repertorio, ‘diversa’. Nel tempo solo il violista dell’antica formazione, Paul Cassidy, è ancora al suo posto, ma non è certo cambiata la bravura e lo spirito pionieristico di questo fenomenale quartetto ‘very English’, che proprio con la formazione che vede Michael Thomas al primo violino, l’inossidabile sorella Jacqueline Thomas al violoncello e Ian Belton al secondo violino, ha conosciuto il successo planetario. Alter ego dei più radicali cugini americani del Kronos Quartet, i quattro virtuosi del Brodsky hanno fatto dell’eclettismo in musica la loro bandiera: grandi interpreti di tutti i Quartetti di Dmitrij Šostakovič (Teldec), di molte pagine struggenti come il Quartetto n. 2 “Voces Intimae” di Janáček o del Quartetto n. 1 di Grieg (Biddulph) o dei Quartetti di autori inglesi come Delius e Britten (ASV), i quattro hanno lasciato registrazioni eccellenti di una bella scelta dei quartetti beethoveniani (ASV), dei Quartetti e del Tramonto di Respighi con Anne Sophie von Otter (ASV) e di tante piccole pagine pescate dal repertorio inglese, francese e tedesco. L’album del boom è naturalmente The Juliet Letters, di e con Elvis Costello, uscito per la Warner 14 anni or sono. Pura emozione. Un linguaggio musicale intenso e intelligente, che sa parlare al cuore di tutti i giovani, non necessariamente solo a quelli che frequentano i concerti. Sulla scia di quel successo altre cose sono uscite, sempre sul crinale fra musica d’intrattenimento o leggera. Fra le loro ultime uscite discografiche per la neonata etichetta Brodsky Label, troviamo ad esempio l’album Moodswing uscito nel 2005, che presenta alcuni celebri brani di autori come Elvis Costello, Sting, Meredith Monk e Björk, eseguiti dagli stessi cantanti sull’originalissimo accompagnamento dei quattro archi del Brodsky. (as) Lunedì 8 maggio 2006 Teatro Manzoni ore 21 ORCHESTRA DELLA TOSCANA violino Chloë Hanslip Paul Daniel direttore Ludwig van Beethoven Concerto in re maggiore op. 61 per violino e orchestra Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 Nicola Campogrande Tre piccolissime musiche notturne – Omaggio a Mozart Prima esecuzione assoluta La clemenza di Bacco di Carlo Vitali Fin dai suoi primi albori settecenteschi il concerto per violino era stato un affare privato di virtuosi-compositori che scrivevano avendo di mira se stessi nella veste di futuri interpreti. Ma con l’andar del tempo la specializzazione introdotta dalle esigenze sempre crescenti della tecnica strumentale condusse ad un divorzio tra la figura del compositore e quella del solista, con la parallela conseguenza di un diradarsi della produzione. Dalle decine di concerti scritti da Torelli, Vivaldi o Tartini si passa agli appena setteotto di Mozart ed ai quattro di Haydn; sicché (pur senza sottovalutare l’eccezione costituita da un tardissimo erede della tradizione corelliana come Giovanni Battista Viotti coi suoi circa 30 concerti) perfino Paganini non raggiunge la mezza dozzina. Per i grandi maestri del romanticismo il concerto violinistico diviene un preziosissimo unicum, realizzato per lo più in funzione di un preciso interprete-committente, il quale non di rado è chiamato ad intervenire nel processo compositivo con suggerimenti e contributi che fanno di lui quasi un co-autore della partitura, ed in ogni caso l’agente principale della sua ulteriore fortuna. Non molto felice sotto questo profilo fu il rapporto di Beethoven con Franz Clement, il dedicatario del suo unico concerto violinistico eseguito per la prima volta al Theater an der Wien l’antivigilia di Natale del 1806. Annus horribilis per una Vienna che si è appena ripresa dall’onta dell’occupazione napoleonica e non può più credersi il centro d’Europa: Francesco II d’Asburgo, rinunciando alla corona imperiale germanica per assumere quella austriaca col nome di Francesco I, ha posto fine ad un sogno di monarchia universale durato mille anni – per l’esattezza millesei. Non ne sembra però troppo turbato il liberale Ludwig, che proprio in quei mesi dispiega un’attività fuori del comune: compone la Quarta Sinfonia, il Quarto Concerto per pianoforte, la seconda versione del Fidelio, il suo primo ed ultimo Concerto per violino. La postilla sull’autografo, conservato presso la Nationalbibliothek di Vienna, è altresì rivelatrice della scontrosa affettività del Beethoven maturo, non senza una sfumatura di benevolo autoritarismo nei confronti dell’esecutore: “Concerto par Clemenza (!) pour Clement, primo violino e direttore al teatro a Vienna dal L. v. Bthvn 1806”. Ma Clement, che pure era un acclamato concertista, non volle o non seppe portarlo al successo. Invece la dedica sull’edizione a stampa (Vienna, Bureau d’arts et d’industrie, 1808, dopo il poco lungimirante rifiuto del bonnense Simrock) è indirizzata al fedele amico Stephan von Breuning. Prima ancora dell’originale, lo stesso editore viennese aveva mandato in luce una versione trascritta per pianoforte solo, anzi “arrangée pour le piano avec des notes additionelles”, commissionata a Beethoven addirittura da Muzio Clementi. Difficile infanzia, segnata da strane peripezie, quella di una pagina oggi unanimemente riconosciuta come uno dei vertici dell’arte violinistica di ogni tempo (certo molto al disopra delle due giovanili Romanze per violino e orchestra op. 40 e 50, rimarchevoli soltanto per la piana e simmetrica levigatezza del dettato). Toccò poi a Joseph Joachim, il [continua a pagina 35] Paul Daniel 33 ORCHESTRA DELLA TOSCANA PAUL DANIEL L’Orchestra della Toscana si è formata a Firenze nel 1980. Attualmente il direttore artistico è Aldo Bennici. Composta da 45 musicisti, che si suddividono anche in agili formazioni cameristiche, l’Orchestra realizza le prove e i concerti, distribuiti poi in tutta la Toscana, nello storico Teatro Verdi, situato nel centro di Firenze. Interprete duttile di un ampio repertorio che dalla musica barocca arriva fino ai compositori contemporanei, l’Orchestra riserva ampio spazio a Haydn, Mozart, tutto il Beethoven sinfonico, larga parte del barocco strumentale, con una particolare attenzione alla letteratura meno eseguita. Una precisa vocazione per il Novecento storico, insieme a una singolare sensibilità per la musica d’oggi, caratterizzano la formazione toscana nel panorama musicale italiano. Ospite delle più importanti Società concertistiche, si è esibita con grande successo presso istituzioni quali Teatro alla Scala di Milano, Maggio Musicale Fiorentino, Comunale di Bologna, Carlo Felice di Genova, Accademia di S. Cecilia di Roma, Ravenna Festival, Rossini Opera Festival e Biennale di Venezia. Numerose anche le sue apparizioni all’estero a partire dal 1992: dalla Germania al Giappone, dall’Austria all’Argentina, dal Brasile agli Stati Uniti. Tra i prestigiosi musicisti che hanno collaborato con l’ORT citiamo: Salvatore Accardo, Martha Argerich, Rudolf Barshai, Yuri Bashmet, Luciano Berio, Frans Brüggen, Mario Brunello, Sylvain Cambreling, MyungWhun Chung, Enrico Dindo, Gianandrea Gavazzeni, Gianluigi Gelmetti, Natalia Gutman, Daniel Harding, Heinz Holliger, Kim Kashkashian, Gidon Kremer, Yo-Yo Ma, Gustav Kuhn, Alexander Lonquich, Peter Maxwell Davies, Sabine Meyer, Shlomo Mintz, Viktoria Mullova, Esa Pekka Salonen, Uto Ughi, Maxim Vengerov. Daniel è considerato oggi uno dei direttori più attivi e affermati della sua generazione. Nel Regno Unito, in Francia, Olanda, Svizzera e Germania ha diretto orchestre tra le più prestigiose come la London Philharmonic, la Royal Philharmonic e l’Orchestra of The Age of Enlightenment, l’Orchestre de Paris, la Filarmonica di Radio France e la National di Lione, l’Orchestra Tonhalle di Zurigo e il Gewandhaus di Lipsia. Negli Stati Uniti è stato ospite della Filarmonica di Los Angeles, della Sinfonica di Indianapolis e della Cleveland Orchestra. Direttore musicale, prima dell’Opera Factory, e in seguito dell’Opera North, ha realizzato, riscuotendo unanime successo di pubblico e di critica, Arianna e Barbablu di Dukas, Re Priamo di Tippet, Don Giovanni, Der Ferne Klang di Schrecker, Boris Godunov, Don Carlos, Wozzeck, Gloriana, Il Trovatore, Pélleas et Melisande, la prima mondiale di Baa Baa Black Sheep di Michael Berkeley e Playing Away di Benedict Mason, opera premiata come migliore produzione alla Biennale di Monaco. Dal 1997, come direttore musicale della English National Opera, ha diretto numerosi titoli del grande repertorio di Verdi, Puccini, Bizet, insieme a Musorgskij, Debussy, e ad autori del Novecento quali Strauss e Britten. Impegnato anche sul fronte della musica d’oggi, ha affrontato opere di John Adams, di Philip Glass, le prime esecuzioni di The Silver Tassie di Mark Antony Turnage e Mask of Orpheus di Harrison Birtwistle. Ha partecipato al Festival di Edimburgo e al Festival Musica di Strasburgo e ha collaborato con La Monnaie di Bruxelles, con il Royal Opera House e la Bayerische Staatsoper. Orchestra della Toscana 34 violinista amico di Brahms e apostolo del suo verbo musicale, l’onore di diffondere tra il vasto pubblico la conoscenza del Concerto, ma solo a partire dal 1844. Primo tempo: (Allegro ma non troppo, 4/4). Un cauto inizio, con colpi smorzati di timpano, introduce il primo tema di carattere cantabile, dal quale si origina, più per logico sviluppo che per contrasto, il baldanzoso secondo tema, dotato di forte accentuazione ritmica e costruito come un perfetto arco simmetrico; è lui l’indimenticabile protagonista di questo movimento. Il solista esordisce divagando con rapsodica spigliatezza prima di impadronirsi gradatamente del motivo, che sembra quasi contendere all’orchestra battuta dopo battuta. Poi cadenza e lunghissima serie di trilli sospesi e progressioni che portano alla ripresa (il tema dominante riappare di tanto in tanto trasfigurato da patetiche inflessioni in minore), nuova cadenza e così via in un succedersi di episodi di clima contrastante, ora lieve, ora appassionato. L’ultima monumentale cadenza ad libitum introduce una breve ricapitolazione concentrata, ma su di un registro più basso – quasi placata. Si prepara così l’atmosfera sospesa ed estatica del movimento lento centrale (un Larghetto in 4/4), dove il violino, come l’allodola di Shelley, “si arrampica in cielo lungo la scala dei suoi canti”. La ripetizione quaternaria del tema, che riprende per chissà quale cabalistica allusione i quattro rulli iniziali di timpano nel movimento precedente, blocca il fluire temporale nell’attesa della mirabile fioritura melodica del solista. Zittisce anche l’orchestra in ascolto, solo risuona qualche lontano richiamo dei corni echeggianti in una solitudine notturna; forse non di allodola mattutina si tratterà, ma di usignolo: l’eterna Nacthigall (femminile) di tanto lirismo e liederismo romantico, che incantava perfino il cinico Heine. Ma l’incanto è breve, ché subito irrompe il tema saltellante e villereccio del Rondò in 6/8, rimpallato tra violino e orchestra in un gioioso crescendo non senza una romantica parentesi in minore. Il violino salta volentieri di registro tenoreggiando con maschia burbanza; tenta un pizzicato ed altri esibizionistici scambietti, quasi volesse farsi perdonare la prece- dente ubriacatura sentimentale. Anche il gesto finale dell’orchestra, dopo un’ultima deliziosa filatura del violino, sembra un “hop-là!” circense dopo un volteggio molto ben riuscito. Echi del lavoro beethoveniano risuonano ancora nel concerto che Brahms scriverà nel 1878, sotto la diretta influenza del già citato (nonché musicalmente assai longevo) Joseph Joachim. Come dimostra lo stato degli abbozzi, le prime idee musicali per la Settima e l’Ottava nacquero nella mente di Beethoven intorno al 1809 e si svilupparono in parallelo sino al definitivo compimento di entrambe nella primavera-estate del 1812. L’autografo in bella copia dell’Ottava porta la data dell’ottobre di quell’anno, ma la prima esecuzione dovette attendere sino al 27 febbraio di due anni dopo. La Settima debuttò invece l’8 dicembre 1813 nell’aula magna dell’Università di Vienna, nel corso d’una serata di beneficenza a favore dei soldati austro-bavaresi feriti nella battaglia di Hanau. Nel frattempo c’era già stata Lipsia, i Francesi avevano ripiegato oltre il Reno e il clima di esaltazione pangermanica era al culmine, ciò che dovette contribuire all’accoglienza sfrenata del pubblico. Oltre alla sinfonia, il programma comprendeva infatti bizzarrie e marchingegni escogitati da Mälzel, inventore non solo del discutibile metronomo, ma anche di un “Panharmonikon” e di una “tromba meccanica” cui Beethoven fece da testimonial con La vittoria di Wellington; Dussek e Pleyel con una marcia per ciascuno. In occasione della prima assoluta per Musica Insieme delle sue Tre piccolissime musiche notturne, abbiamo chiesto all’autore di illustrarci brevemente il nuovo brano. I GIOVANI COLLEGHI DI MOZART di Nicola Campogrande Grazie al cielo, oggi che la musica contemporanea è tornata a farsi apprezzare dal pubblico, noi compositori viventi siamo di nuovo colleghi di Mozart. Nel senso che le nostre partiture non sono più ghettizzate in apposite stagioni a parte, come capitava ai nostri maestri: le si esegue insieme a quelle di Beethoven o di Vivaldi, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Accade dunque di doversi confrontare con il meglio che la cultura occidentale ha selezionato nei secoli, e per noi non è uno scherzo; ma accade anche che le orecchie degli ascoltatori possano trovare in una “normale” sala da concerto una rappresentazione sonora del presente, e magari possano rispecchiarvisi, possano pensare di goderne, possano immaginare che sarà bello riascoltare questa nuova musica fra trent’anni e ritrovare un po’ di se stessi tra i pentagrammi. A me questo piace da matti. Mi complica la vita, naturalmente, perché ogni volta mi sento inadeguato, e penso che non ce la farò mai, e mi dico che sarebbe così più semplice confrontarmi soltanto con i già numerosi ed eccellenti colleghi di oggi. Però ogni volta, alla fine, compongo musica della quale sono fiero, musica che è figlia della storia, musica che in un certo senso è andata a scuola, che conosce il proprio passato e che proprio per questo ha il coraggio di abitare, e di disegnare, il presente. In queste Tre piccolissime musiche notturne l’omaggio a Mozart non è solo nel titolo: qui e là ci sono intervalli, frammenti, suggerimenti che provengono da Eine kleine Nachtmusik e, in un paio di occasioni, si ascoltano persino brevissime citazioni testuali (al flauto, nel primo movimento; alla tromba, nel finale dell’ultimo). Le ho scritte tra il novembre 2005 e il febbraio 2006, facendole ascoltare man mano a Federica e alla nostra piccola Olivia, che aveva solo un mese quando ho cominciato il lavoro. Per la cronaca – e valga come monito ai colleghi informatizzati – il terzo movimento è nato due volte: la prima versione, meravigliosa, è andata in pasto a un inspiegabile errore di sistema che si è divorato il file, il file di backup e ogni ulteriore copia sparsa sui miei supporti; quella contenuta in partitura è una ricreazione che, per quanto sopraffina, mai potrà restituire l’incanto di quelle quarantotto battute perse per sempre. 35 L’orchestra era composta dai migliori elementi che si potessero trovare in tutta Vienna: primo e secondo violino erano rispettivamente Schuppanzig (il fondatore del famoso quartetto) e Ludwig Spohr; tra i violini di fila sedeva Mauro Giuliani, l’inventore del chitarrismo moderno; la grancassa era suonata da Hummel e gli attacchi di tamburi e cannonate erano dati nientemeno che dall’imperial-regio Kapellmeister Salieri. Beethoven con- CHLOË HANSLIP Chloë Hanslip è nata nel 1987 in Gran Bretagna e suona il violino da quando aveva due anni. All’età di cinque suona per il grande Yehudi Menuhin ed in seguito studia con Natasha Boyarskaya alla Menuhin School. Nel 1995 si è trasferita a studiare in Germania con Zakhar Bron, frequentando in seguito masterclasses con Shlomo Mintz, Ida Haendel, Salvatore Accardo, Ruggiero Ricci e Maxim Vengerov. A quattro anni Chloë aveva già suonato a Londra alla Purcell Room e a dieci nelle più importanti sale d’Europa e Stati Uniti, compreso il Carnegie Hall a New York e il Royal Albert Hall a Londra. Nel 1997 Chloë ha preso parte in Germania ad un documentario per la televisione con Igor Oistrakh e Zakhar Bron e nel 2001 ad uno della BBC intitolato Can You Make a Genius? Ha inoltre interpretato il ruolo di una bambina prodigio con Ralph Fiennes e Liv Tyler nel film Onegin. Chloë ha un contratto di esclusiva con Warner Classics UK, per la quale ha inciso il suo primo cd Chloë con la London Symphony Orchestra, aggiudicandosi il Premio Echo Classik quale migliore giovane artista. Successivamente l’album dei Concerti n. 1 e n. 3 di Bruch ha ricevuto il Classic British Award. Vincitrice del Primo Premio e del Premio Speciale della Giuria al Concorso Internazionale di violino di Novosibirsk, si è aggiudicata anche la borsa di studio della Fondazione Sibelius. Chloë Hanslip suona un violino Guarneri del Gesù del 1735, gentilmente concesso da Ealing Strings. 36 certava le due semi-orchestre, ognuna dotata di un proprio direttore, ma già in quell’occasione Spohr ebbe a notare alcune sue fatali incertezze direttoriali determinate dalla sordità ormai avanzata. Il successo fu considerevole, forse il maggiore che sia mai toccato a Beethoven in vita. Lo dimostrano, oltre ai quattromila fiorini d’incasso, i resoconti della stampa dell’epoca. Di fatto, in una lettera del 1810 Beethoven paragonava la musica al vino, e se medesimo ad un Bacco reincarnato che pigiando il mosto dona all’umanità l’oblio dei dolori. L’idea del baccanale fu ripresa da Wagner, che battezzò questa sinfonia “Apoteosi della danza”; ma ai tempi di Beethoven fu il secondo movimento, il malioso e furtivo Allegretto, a colpire più profondamente gli addetti ai lavori. L’autorevole Allgemeine musikali- sche Zeitung lo definì “il coronamento della moderna musica strumentale”, Schubert ne rievoca ripetutamente l’andamento ritmico e il clima espressivo in alcuni dei propri lavori più intensi – non ultima la sinfonia “La Grande”, fedelmente modellata sulla Settima beethoveniana. Peraltro, prescindendo dal carismatico Allegretto, è la trascinante vitalità ritmica della Settima a farne non tanto una sinfonia quanto una forza della natura. Per il pubblico coevo essa deve aver rappresentato un’esperienza sconvolgente come lo fu la Sagra della primavera esattamente un secolo dopo. Si pensi che quando Weber ebbe udito la linea cromatica del basso nella coda del primo movimento, analoga a quella che deflagra in travolgente crescendo nella coda del finale, dichiarò Beethoven maturo per il manicomio. DA ASCOLTARE Innumerevoli le incisioni del Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 61 di Beethoven, il cui fascino e la cui popolarità hanno fatto sì che ogni tipo di violinista abbia nel tempo desiderato registrarlo. Ogni interprete ha infatti contribuito a suo modo a mettere in rilievo le mille sfaccettature di questo immenso capolavoro. Un must della discografia che consigliamo caldamente è l’incisione di Itzhak Perlman con Carlo Maria Giulini sul podio della Philharmonia Orchestra (Emi), in cui il virtuosismo immacolato del violinista israeliano va di pari passo con la profondità musicale e la bellezza del suo suono, coadiuvato magnificamente dal fraseggio morbidissimo di Giulini. È uno di quei capolavori discografici che si dovrebbe conoscere e che da solo potrebbe bastare per la piena comprensione del brano. Che suona indubbiamente più drammatico nella storica incisione di Jasha Heifetz con Arturo Toscanini (RCA), in cui ogni passaggio è affrontato dal grande virtuoso con una tensione ed una lucentezza del suono davvero uniche. Caratteristiche meno evidenti nell’altrettanto celebrata incisione di Yehudi Menuhin con Wilhelm Furtwängler e i Berliner Philharmoniker (Warner). Qui è certamente il direttore ad avere la meglio, ma la musicalità di Menuhin e la sua estrema onestà intellettuale si adattano a meraviglia al mitico fraseggio direttoriale. David Oistrakh ha inciso l’opera varie volte: a quella giovanile con Gauk (Melodija) preferiamo la tornita versione con l’indimenticabile direttore belga André Cluytens (Emi) sul podio dell’Orchestra di Radio France. È un continuo dialogo fra solista e orchestra, un sentire comune nobile e seducente. Più luciferina e intrigante la lettura di Isaac Stern nelle sue due incisioni con Bernstein e Barenboim (Sony), delle quali preferiamo di gran lunga la prima. Fin da adolescente Anne-Sophie Mutter è stata una meravigliosa interprete dell’op. 61: la sua incisione con Herbert von Karajan (Dgg) è un altro must della discografia. Non da meno Salvatore Accardo nella sua prima immacolata e classicissima incisione con Kurt Masur (Philips), leggermente più affaticato in quella con Giulini (Sony) e in quella senza direttore (Fonè). Ottima anche la visione più ‘romantica’ ed espressiva di Uto Ughi con Wolfgang Sawallisch e la London Symphony Orchestra. Da conoscere è la trascrizione d’autore per pianoforte e orchestra: eccellente Daniel Barenboim direttore e solista con la English Chamber Orchestra (Dgg), al limite del provocatorio Olli Mustonen con Esa Pekka Saraste (Decca). (as) CHLOË HANSLIP, O L’EREDITÀ DEI GRANDI MAESTRI di Donata Cappelli Al suo debutto bolognese, la giovane violinista britannica si presenta la nostro pubblico con gli auspici dei più grandi interpreti, idee chiare e una grinta fuori dal comune. Sul Concerto di Beethoven si sono cimentati i più grandi violinisti della storia. Qual è il tuo approccio alla partitura? Per brani come questo penso sia molto importante riferirsi al manoscritto originale, in modo da poter vedere quali fossero le idee del compositore. Sono fortunata: il mio maestro, Gerhard Schulz dell’Alban Berg Quartett, possiede questi manoscritti, perciò li ho studiati con grande cura. Ad esempio, il modo in cui Beethoven ha previsto un particolare passaggio del solista, il suo fraseggio… I manoscritti di Beethoven mostrano non solo la sua idea finale, ma anche le idee abbandonate, che ci permettono di esplorare il brano più a fondo. Da Menuhin a Bron, Mintz, Accardo, Oistrakh... tutti questi grandi artisti hanno lodato il tuo talento. Cosa ricordi del tuo incontro con Menuhin? Ho avuto il privilegio di suonare con il Maestro Menuhin quando avevo solo cinque anni, presso la sua scuola. Sui miei spartiti scrisse una volta: “Alla cara Chloë, che diventerà un’ottima violinista, con i miei migliori auguri, Yehudi Menuhin”. A quel tempo mi invitò a frequentare la sua scuola, ma ero troppo giovane, così ho cominciato a studiare privatamente con la sua migliore insegnante. Ho suonato per lui altre volte, l’ultima fu proprio due mesi prima che morisse. In quell’occasione mi insegnò come tenere il violino in modo da non avere problemi alla schiena ed al collo, come accade a molti violinisti. Era uno straordinario musicista, e mi sento molto fortunata ad aver potuto suonare per lui. C’è un artista che consideri particolarmente importante per la tua formazione, o più vicino di altri alla tua sensibilità musicale? Penso che il Professor Bron abbia avuto la maggiore influenza sul mio modo di suonare, avendo studiato con lui per dieci anni. Grazie a lui ho conosciuto Maxim Vengerov ed ho suonato nelle sue rinomate masterclasses, registrate dalla BBC e diffuse in tutto il mondo. Poiché la mia insegnante alla Yehudi Menuhin School era russa, ritengo inoltre che la scuola violinistica di quel paese abbia avuto sicuramente la massima influenza sul mio sviluppo musicale. Fra le tue incisioni ed i tuoi concerti compaiono i capolavori del romanticismo, dal Concerto di Bruch a quello di Sibelius. Ti senti particolarmente a tuo agio con quel repertorio? È vero che ho suonato molti concerti romantici, e certo sento una grande affinità con questo repertorio. Chloë Hanslip Ma mi è stato anche detto che interpreto Beethoven e Mozart con un ottimo stile; infine, sono molto concentrata anche sulla letteratura violinistica contemporanea. Ho appena inciso il Concerto per violino di John Adams e la Chaconne tratta dal film The Red Violin di John Corigliano, il cui CD verrà distribuito a settembre di quest’anno. Amo anche il Concerto per violino di Philip Glass, e con gli anni mi diverte sempre più ascoltare e suonare la contemporanea. Cameristica o sinfonica: che strada vorresti percorrere nella tua carriera futura? Amo suonare come solista, specie con un’orchestra di 70-80 elementi alle spalle. È certamente una sensazione incredibile, ma suono anche molta musica da camera con musicisti quali Steven Isserlis, Vladimir Mendelssohn, Christoph Richter, e penso che ciò mi aiuti immensamente per il mio lavoro da solista. Credo che le due strade si completino a vicenda. Hai suonato in tutto il mondo, ma questa è la tua prima volta a Bologna, ospite di Musica Insieme. Joseph Addison, giornalista di The Tatler e The Spectator, ha scritto intorno al Settecento che “non v’era certamente posto nel mondo in cui un uomo potesse viaggiare con maggiore piacere ed utilità che in Italia”. Ed io concordo! In quel periodo Bologna era famosa per la qualità della sua musica strumentale. Arcangelo Corelli, che lì si era formato, era detto “Il Bolognese”. Amo suonare in Italia! Il pubblico è così meraviglioso e “caldo”. In realtà, non penso al fatto di essere in una nuova sala o di fronte ad un nuovo pubblico: vivo per l’esibizione e spero di comunicarlo, e che il pubblico ne possa trarre piacere. 37 Una scatola di idee di Chiara Sirk Il quinto volume, pubblicato nell’ottobre 2005, era l’ultimo dell’Enciclopedia della musica edita da Einaudi. Appena una manciata di tomi, almeno rispetto ad altre pubblicazioni “enciclopediche”, eppure quest’opera spariglia le carte del sapere musicologico, diventando un punto di riferimento ineludibile per chi si occupa della materia. Abbiamo provato a fare un bilancio dell’impresa con il direttore JeanJacques Nattiez, con il quale hanno collaborato Margaret Bent, Rossana Dalmonte e Mario Baroni. Professor Nattiez, i lettori di solito prendono in mano le enciclopedie per trovare qualche informazione su un compositore o su un termine che non hanno capito. L’Enciclopedia Einaudi però è articolata in capitoli tematici. A chi, dunque, si rivolge? Questa enciclopedia non è nata per i musicologi. Se lei guarda il primo volume, per esempio, c’è solo un articolo con numerosi dettagli tecnici e, paradossalmente, è quello sul jazz. Abbiamo pensato quest’opera per appassionati di musica con un eccellente livello culturale. C’è qualche articolo un po’ più difficile, ma la maggior parte può essere letta da chiunque abbia una buona preparazione, non è necessario conoscere i dettagli della tecnica musicale. Per chi cerca informazioni su un compositore o su un termine ci sono tante opere di riferimento: dizionari, enciclopedie in ordine alfabetico, storie della musica tradizionali. Com’è nata quest’opera? A Torino per un convegno, sono andato dall’editore Einaudi perché pensavano di tradurre in italiano un mio libro. In quell’occasione mi hanno chiesto il progetto di un’enciclopedia, dandomi carta bianca, purché realizzassi qualcosa di completamente nuovo. Non avrei mai immaginato di fare un’opera del genere nella mia vita e ho pensato che 38 sarebbe stata la prima enciclopedia del XXI secolo. Il piano dell’opera prevedeva due volumi dedicati ad un bilancio delle conoscenze attuali, tenendo presenti le grandi discipline che oggi s’interessano di musica, come la biologia, l’antropologia, la psicologia. Un terzo volume è sulle musiche del mondo, ed è uscito prima di quello sulla musica europea. Dunque c’è la volontà di cancellare l’immagine tradizionale della musica, stile “appassionati che ascoltano Radio 3 vecchia formula”, dando l’idea che la musica non è solo Bach, Monteverdi, arrivando fino a Stravinskij o Berg, ma anche altro. Per esempio, nel secondo volume un articolo è sulla musica degli animali, un altro sulla musica e i bambini. Abbiamo pubblicato per primo il volume sulla musica del Novecento, per dire che dopo Schönberg e Stravinskij sono avvenuti cambiamenti che hanno orientato la musica di tutto il secolo e noi vogliamo prenderne coscienza. Dunque l’opera è pensata per appassionati di musica, ma non per andare incontro alle loro aspettative: piuttosto è dedicata a chi ha la testa aperta. È davvero una pubblicazione diversa da quanto abbiamo visto finora. Forse, per orientarsi in tutto il materiale proposto, sarebbe bene capire il progetto che c’è dietro. Vogliamo raccontarlo? Il filo che abbiamo seguito è stata la scelta degli autori e dei temi degli articoli. Abbiamo cercato molti studiosi che potessero fornire punti di vista diversi sulla musica. Non c’è una linea di pensiero editoriale da seguire, al contrario c’è il tentativo di fornire un’immagine il più diversa possibile di pensare la musica, attraverso le differenti opinioni degli autori. Per esempio, se prendiamo il volume sulla musica europea, notiamo che esso non segue la divisione cronologica in periodi, preferendo dare letture trasversali di alcuni argomenti. Per esempio: il suono orchestrale da Monteverdi a Ravel, il teatro d’opera da Venezia ai giorni nostri. Abbiamo scritto su Bach, Mozart, Beethoven, ma sempre con un taglio particolare, presentando l’argomento in modo originale. Bach e Händel sono in una prospettiva di confronto, per Mozart si parla della situazione dell’opera nella sua epoca, si parla di Wagner e delle fonti del wagnerismo. I suoi interessi di studioso appaiono trasversali: semiologia, etnomusicologia, storia della musica. Sono stati importanti per progettare quest’opera? Sì, naturalmente. Per esempio per quanto riguarda la semiologia ci sono diversi articoli sul tema della significazione nella musica, ma non abbiamo “semiologizzato” l’intera enciclopedia! Il mio interesse per l’etnomusicologia ha orientato fortemente la scelta di dedicare un volume alle tradizioni orali. Per esempio c’è un articolo molto bello sulla diaspora del tango nel mondo, un tema importante nel XX secolo. La musicologia compare di nuovo nel quinto volume, che s’intitola “L’unità della musica”. Se il terzo era sulla diversità culturale ed il quarto sulla diversità storica, al quinto è affidata la sintesi. Due suoi collaboratori e molti autori sono italiani. Eppure spesso sono affrontati argomenti che non s’insegnano nelle università italiane. Quindi, chi sono questi ricercatori? Sono spesso giovani musicologi che non hanno ancora avuto l’opportunità di diventare docenti universitari. Questo lavoro è stato anche per me l’opportunità di conoscere la ricchezza della musicologia italiana. L’Enciclopedia Einaudi esiste anche in edizione francese. I musicologi d’oltralpe hanno scoperto i loro colleghi italiani, rendendosi conto, per esempio, che a Bologna c’è una scuola importante di pedagogia musicale. Ma a volte gli stessi italiani sembrano non conoscere i loro studiosi. Così sono felice di aver dato l’opportunità a queste persone di essere notate dentro e fuori l’Italia. Quest’opera mostra un nuovo paradigma nell’affrontare la musica. Le opere classiche di consultazione sono superate, o sono destinate a convivere? A convivere, perché anch’io se cerco qualche informazione su Rossini consulto il Dizionario della Musica e dei Musicisti della Utet o il New Grove. Ho voluto fare dell’Enciclopedia Einaudi una “scatola di idee”. Dunque non ha senso guardare l’indice. Penso piuttosto che il lettore nei titoli dei contributi trovi delle provocazioni, e si chieda: “cos’è questo tema? la musica e la gola? oppure: la musica nei paesi socialisti? La musica e la biologia?” e, spinto dalla curiosità, inizi a leggere. Cinque volumi per un progetto enciclopedico sembrano pochi… Non per il curatore! Lei pensa che possa esserci una continuazione? No, assolutamente. In origine avevamo previsto solo quattro volumi. Poi è arrivato il quinto. Abbiamo cominciato nel 1997. Il primo volume è uscito nel 2001, seguito da un volume l’anno. Abbiamo chiesto 230 articoli a 185 diversi collaboratori. Per me sono stati otto anni di lavoro. Alla curatrice italiana, Rossana Dalmonte chiediamo: ci sono molti musicologi italiani che hanno lavorato all’opera: questa numerosa presenza può aver dato un indirizzo alla pubblicazione? Ciascuno di noi ha contribuito con la propria esperienza, le proprie idee, ma il curatore è Jean-Jacques Nattiez. Una delle cose più belle di questo lavoro è stato capire come la musicologia di matrice francese o anglosassone sia diversa dalla nostra. Non parliamo poi di com’è diversa la storia della musica. Se pensavamo alle date importanti, ciascuno di noi aveva in mente date diverse. Ricordo che eravamo tutti d’accordo sul 1913, data di Le Sacre du printemps di Stravinskij. Ciascuno per il suo curriculum e la propria esperienza collocava le date significative della storia della musica in momenti diversi. Se poi avessimo interrogato un russo o un canadese sarebbero venute fuori ancora altre date. Nel piano dell’opera era prevista una cronologia. Sarebbe stata interessante, ma è stato impossibile realizzarla: c’erano tante cronologie quante erano le persone che la stendevano. Ha ragione Jean-Jacques Nattiez, quando dice che la storia non è una, ma è un insieme di possibilità all’interno della quale ognuno cerca un suo intreccio. Questo è talmente vero che è impossibile fare una cronologia che vada bene per tutti. Quest’opera non è nata per gli specialisti, ha detto il professor Nattiez, ciononostante potrà essere un punto di riferimento per gli studiosi? Noi tutti lo speriamo. Il confronto con altri modi di pensare non può che arricchire tutti. Molti studiosi hanno già partecipato alla stesura dell’opera e questo è servito, perché gli stranieri hanno conosciuto il nostro lavoro. Difficilmente le opere in italiano hanno diffusione all’estero: se non pubblichiamo in inglese, non esistiamo. Questa è stata un’occasione unica. Non è importante condividere tutto, ma conoscere e discutere. 39 Grandi interpreti, grandi novità di Alberto Spano Erano già due anni che Maurizio Pollini inseriva a più riprese nei suoi recital alcuni gruppi di Notturni di Chopin, tornando a un vecchio amore degli anni giovanili e ai fasti del Concorso di Varsavia (1960). In realtà alcuni Notturni (l’op. 27, l’op. 48, l’op. 62) li aveva sempre suonati, magari offerti come memorabili bis. Ma l’insistere così tanto su un genere chopiniano così apparentemente lontano dalle sue predilezioni, non poteva che far sperare in una loro incisione integrale. E infatti, eccolo entrare in studio di registrazione nel giugno 2005 all’Herculessaal di Monaco col fidato produttore Christopher Alder e il pianoforte Steinway del pesarese Angelo Fabbrini e il gioco è fatto: in novembre il doppio cd con tutti i Notturni è già in negozio per l’etichetta Deutsche Grammophon (2 cd DGG 477 5718). E come esce, nel giro di due settimane, è in cima alle vendite. A Natale è già in classifica, accanto ai prodotti leggeri. Nessuna meraviglia, visto che erano molti anni che non usciva più un disco chopiniano dal più chopiniano dei pianisti viventi. Poi, ammettiamolo, la curiosità di ascoltare Pollini in pagine come il famoso Notturno op. 9 n. 2 o nel delicato Notturno giovanile opera postuma 72 in si minore, era tanta. Dei 19 Notturni registrati, forse molti Pollini non li ha mai suonati in pubblico. Mentre alcuni (come l’op. 27 n. 2) deve averli eseguiti migliaia di volte. La disparità di pratica strumentale non si avverte, anzi è straordinaria la coerenza interpretativa fra le opere giovanili e quelle più tarde. La registrazione è talmente presente che si sentono con un’evidenza a volte persino 40 imbarazzante i singulti, i gemiti e i respiri di Pollini mentre suona e ‘soffre’. Un particolare che ce li ha fatti ancor più amare. Più giovane di una generazione, ma non certo meno aduso alla sala d’incisione è il pianista finlandese Olli Mustonen, oggi trentanovenne. La sua ultima incisione per l’etichetta Ondine risale all’ottobre del 2004: in programma la Suite pianistica Cenerentola (15 brani op. 95, 97, 102), la Musica per bambini op. 65, la Gavotta op. 32 n. 3 e il Preludio op. 12 n. 7 di Sergej Prokof’ev. Anche qui l’interprete applica i suoi strani fraseggi, il gusto quasi parodistico di anticipare la mano destra con forti accenti sul battere, la voglia di evidenziare la struttura dei brani, le voci interne, le potenzialità armoniche, il desiderio continuo di differenziare voci e timbri del pianoforte. Strepitosa l’ultima incisione del violinista Nikolaj Znaider, la terza per l’etichetta RCA Red Seal: ci sono i Concerti di Mendelssohn e Beethoven per violino e orchestra. La bravura, l’intonazione, la precisione, il temperamento musicale di Znaider sono qualcosa di impressionante. Ma attenzione: questo poco più che ragazzo dalla faccia pulita è un vero asso dell’archetto, non è solo un virtuoso. Lo sa bene Zubin Mehta, che gli accende un’orchestra strepitosa, smagliante, vorremmo dire ‘innamorata’: la Israel Philharmonic Orchestra. La registrazione – superlativa – è stata realizzata nel luglio scorso all’Auditorium Frederic R. Mann di Tel Aviv, il violino suonato da Znaider è lo Stradivari ex-Liebig costruito nel 1704 (cd RCA 8287669217-2). Commovente, è proprio il caso di dirlo, l’ultimo cd di Mischa Maisky per la Deutsche Grammophon, regi- strato dal vivo nel gennaio 2005 alla Sala Grande di Schloss Elmau col pianista Pavel Gililov. Titolo Vocalise, sottotitolo Russian Romances. È infatti una lunga serie di romanze e melodie originariamente concepite per voce e pianoforte, eseguite al violoncello senza le parole. Il suono del violoncello è quello che si avvicina di più alla voce umana, pare voler dire Maisky, il quale dedica il disco alla giovane moglie e alla figlio di pochi mesi. In scaletta le più belle 23 “romanze senza parole” di Glinka, Čajkovskij, Dargomizskij, Musorgskij, Rubinstein, Rimskij-Korsakov, Arenskij, Rachmaninov (suo il celebre “Vocalise” che dà il titolo all’album), Glazunov, Guriljov e Anonimo. Un tuffo nella Vecchia Madre Russia che strapperà più di una lacrima di nostalgia (cd DGG 477 5743). Vivaldi e Schubert le due ultime fatiche discografiche di Viktoria Mullova per l’etichetta inglese Onyx. Nell’album Vivaldi, con il Giardino Armonico diretto da Giovanni Antonini, la violinista russa (che ci guarda dalla copertina bella e austera), suona 5 Concerti per violino e orchestra di Vivaldi, fra i quali quello per 4 violini, quello in re maggiore “L’inquietudine” e il più noto in mi minore “Il Favorito”. Incisione spettacolare: con un buon impianto stereofonico vi sembrerà di poter quasi toccare l’interprete, che sfoggia una grinta e un’infallibilità da lasciare basiti (cd Onyx 4001). All’Ottetto per archi di Schubert si dedica la Mullova col suo Ensemble nel cd appena uscito di fabbrica mentre scriviamo. Viatico di gran pregio durante la tournée primaverile della Mullova nei teatri d’Europa (cd Onyx 4006). Un intermezzo... musicale In questo numero seguiamo il bersaglio alla ricerca di parole musicalmente amiche, mentre Carlo Vitali ci trasporta nella dimensione onirica delle opere, tra poesia e interpretazioni freudiane. Infine si rinnova come di consueto l’appuntamento con le vignette di Aurelia, a spasso per il pentagramma con ironia. Nel prossimo numero Intervallo lascerà spazio alla presentazione della nuova Stagione 2006/2007. Arri-leggerci dunque ad ottobre! Tutte le soluzioni a pagina 56 di questo numero. LE VIGNETTE di Aurelia NOTE ENIGMATICHE di Carlo Vitali MUSICA PER SOGNARE 1) Sogna di essere trasportato in cielo e d'incontrarvi i suoi illustri antenati che gli spiegano come potrà essere più utile alla Patria. Questo edificante sogno, narrato in prosa latina da Cicerone e trasformato in libretto da Metastasio, fu messo in musica nel 1772 da... Nominare il musicista, il sognatore e il titolo dell'operina (o meglio "serenata"). 2) Tu cali, o santa notte, e dietro a te planano i sogni, come il chiaror lunare per gli spazi, per i petti umani silenziosi. Così comincia, nella traduzione italiana, un celebre Lied di Schubert, da lui pubblicato nel 1825. Come s'intitola il pezzo (in tedesco oppure in italiano)? 3) Una donna in carriera, direttrice di una rivista di moda a New York, racconta allo psicoanalista i propri sogni ricorrenti. Proprio grazie ai sogni giunge a comprendere che il marito ideale è qualcuno che lei conosce già, anzi un suo dipendente. Questa è la trama di un musical di successo interpretato da Danny Kaye nel 1941. Uno dei due librettisti era Ira Gershwin, fratello del celebre George. Dite il titolo dell'opera (in inglese oppure in italiano) e il nome del quasi altrettanto celebre compositore. IL BERSAGLIO di A. di Camillo Partendo dalla parola indicata dalla freccia, raggiungete quella contenuta nel centro del bersaglio, eliminando successivamente tutte le parole incluse in esso, secondo le seguenti regole: ROGO 4. Può essere collegata alla precedente in un proverbio, oppure nel titolo o nella trama di un lavoro teatrale, musicale o artistico in genere. RE A RTA SERVA C O C HI N O RMA A CIA J E S I N C OR 1. La parola può essere un sinonimo o un contrario della parola che la precede. BER PERGOL EM ALLEN ES PT NA O E VE R B AV VE RINETTO CLA S CK LLINO ANC E BE W EILL BR EA B 2. Può essere un anagramma della parola precedente. 3. La si può ottenere aggiungendo, togliendo oppure modificando una lettera della parola precedente. 5. Può collegarsi alla precedente in una metafora o similitudine, o ancora per associazione d’idee. 6. Può formare insieme alla precedente il nome di un personaggio celebre o di un luogo conosciuto, reale o immaginario. 41 SE R B A NA BER DRO L PA NI AN INO I CIN LLI BE S O N G A Editore MUSICA INSIEME S.r.l. Galleria Cavour, 3 - 40124 Bologna - Tel. 051/271932 Direttore responsabile: Fabrizio Festa In redazione: Bruno Borsari, Donata Cappelli, Fulvia de Colle, Marco Fier, Roberto Massacesi, Alessandra Scardovi, Luigi Vezzani Hanno collaborato: Sara Bacchini, Matteo Gualandi, Maria Pace Marzocchi, Maria Chiara Mazzi, Chiara Sirk, Alberto Spano, Roberto Verti, Carlo Vitali Grafica e impaginazione: S.O.S. 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CHICK, COREA, CORTA, BREVE, BRAVE, VERBA, SERBA, SERVA, PADRONA, PERGOLESI, JESI, ANCONA, ANCINA, ANCIA, CLARINETTO, ALLEN, SEPTEMBER, SONG, WEILL, BERLINO, BELLINO, BELLINI, NORMA, ROGO.