Jules Verne
Edgar Allan Poe
A cura di Mariella Di Maio
Editori Riuniti
I Piccoli
I edizione: ottobre 1990
Titolo originale: Edgar Poe et ses oeuvres
© Copyright Editori Riuniti
Via Serchio 9/11 - 00198 Roma
Traduzione e cura di Mariella Di Maio
Grafica Luciano Vagaggini
CL 63-3386-9
ISBN 88-359-3386-2
Indice
Introduzione _____________________________________________ 4
Edgar Allan Poe____________________________________________ 14
I ______________________________________________________ 14
Scuola dello «strano» - Poe e Baudelaire - Vita miserabile e morte
dello scrittore - Ann Radcliffe, Hoffmann e Poe - Storie straordinarie Gli assassinii della rue Morgue - Curiosa associazione di idee Interrogatorio dei testimoni - L'autore del crimine - Il marinaio
maltese. _______________________________________________ 14
II ______________________________________________________ 27
La lettera rubata - Imbarazzo di un prefetto di polizia - Un sistema per
vincere sempre al gioco del pari e dispari - Victorien Sardou - Lo
scarabeo d'oro - La testa di morto - Lettura stupefacente di un
documento indecifrabile. _________________________________ 27
III _____________________________________________________ 45
La frottola del pallone - L'incomparabile avventura di un certo Hans
Pfaall - Il manoscritto trovato in una bottiglia - Una discesa nel
Maelström - La verità sul caso Valdemar - Il gatto nero - L'uomo della
folla - La caduta della casa Usher - Tre domeniche in una settimana. 45
IV _____________________________________________________ 54
Avventure dì Gordon Pym - Augustus Barnard - Il brigantino Grampus
- Il nascondiglio in fondo alla stiva - Il cane idrofobo - La lettera di
sangue - Rivolta e massacro - Un fantasma a bordo - La nave dei morti
- Naufragio - Torture della fame - Viaggio al polo sud - Uomini nuovi L'isola straordinaria - Sepolti vivi - La grande figura umana Conclusione. ___________________________________________ 54
INTRODUZIONE
Il testo che presentiamo nella sua prima traduzione italiana
fu pubblicato nel Musée des Familles (aprile 1864, pp. 193208). Il titolo originale era Edgard Poë et ses oeuvres (sic!).
Tra le ristampe recenti: 1) Lausanne, Ed. Rencontre, 1970 (con
Le Sphinx des glaces e una prefazione di Charles-Noël Martin);
2) Reims, A l'Ecart, 1978 (riproduzione dell'originale in
trecento esemplari); 3) in Textes oubliés (1849-1903), a cura di
Francis Lacassin, Paris, UGE, Collection 10/18,1979, pp. 111153, che abbiamo tenuto presente per questa traduzione. I brani
dei Racconti di Poe e delle Avventure di Gordon Pym che
figurano nel testo sono riportati dalle Opere scelte, a cura di
Giorgio Manganelli, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1984.
(m.d.m.)
Pubblicato nel 1864, Edgar Poe et ses oeuvres è un testo
pressoché sconosciuto ai lettori dei Viaggi straordinari. È
inoltre marginalmente considerato, se non del tutto ignorato,
anche negli studi più importanti e nelle analisi più brillanti
dell'opera verniana. Così come viene generalmente trascurato o
minimizzato, sia pure con preziose eccezioni, il rapporto di
Verne con Poe. I Racconti e le Avventure di Gordon Pym
esercitano invece una notevole influenza su non pochi romanzi
verniani nell'arco di un trentennio circa, almeno fino a La
sfinge dei ghiacci del 1897, che è una continuazione e una
riscrittura del romanzo di Poe.
Eppure il saggio che presentiamo meriterebbe maggiore
attenzione almeno per due buoni motivi: 1) perché è l'unico
saggio di critica letteraria che Verne abbia mai scritto; 2)
perché è un'ulteriore testimonianza della fortunata ricezione di
Poe nella cultura francese, una testimonianza non banale e
tempestiva perché si colloca quasi a ridosso delle traduzioni
baudelairiane e molto prima che il «caso Poe» abbia la sua
massima risonanza, fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso.
Verne lo scrive quando è agli inizi della sua carriera
letteraria, agli inizi di quella fortunatissima e colossale impresa
narrativa concordata con il suo editore Hetzel. Sono stati
pubblicati o stanno per esserlo: Cinque settimane in pallone,
Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Viaggi e
avventure del capitano Hatteras. E già in questi romanzi
troviamo alcune suggestioni dell'opera poesca: l'omaggio del
critico è quindi un segnale di conferma di ciò che già avveniva
nell'ispirazione e nella scrittura.
Cominciando dal titolo del ciclo verniano, Voyages
extraordinaires, probabilmente modellato su quello di
Histoires extraordinaires (ma perché no?) che Baudelaire
aveva dato alla prima scelta di racconti che aveva tradotto.
Verne del resto aveva letto Poe attraverso le traduzioni
baudelairiane, sicuramente delle Histoires extraordinaires
(1856), delle Nouvelles histoires extraordinaires (1857) e delle
Aventures d'Arthur Gordon Pym (1858). Doveva aver letto
inoltre la traduzione dei Contes inédits d'Edgar Poe di William
L. Hughes, pubblicata nel 1862.
Le sue pagine critiche sono fortemente influenzate da quelle
di Baudelaire, soprattutto dal grande studio del 1856. Nella
parte biografica sono ripetuti gli stessi errori (luogo e data di
nascita di Poe — la falsa notizia dei suoi viaggi in Grecia e in
Russia) e non pochi spunti sono integralmente mutuati dalla
lettura baudelairiana. Ma Verne non ne condivideva fino in
fondo l'impostazione: quella «prefazione» conteneva, secondo
lui, un'interpretazione troppo personale e non era meno
«strana» delle opere che voleva commentare. «Del resto i due
sono fatti per capirsi», egli concludeva, il che è in fin dei conti
un'intuizione molto sottile in relazione al tempo in cui veniva
espressa, qualcosa di più di un riconoscimento.
E fra i meriti del più grande traduttore di Poe dobbiamo
annoverare anche quello di aver «provocato» letture divergenti
dalla sua, che nascono magari da innamoramenti subitanei e
folgoranti come questo di Verne. Accanto alla discendenza
«ideal» e già prefigurata dei Mallarmé e dei Valéry, accanto a
un'interpretazione (vincente in territorio francese) dell'opera
dello scrittore americano come paradigma estremo del
procedimento «creativo», esiste anche un'interpretazione come
quella verniana che vi rintraccia soprattutto le matrici dei
generi di massa (il romanzo d'avventure, il poliziesco, il
racconto di fantascienza).
Diversamente da Baudelaire, Verne prende infatti in
considerazione esclusivamente la narrativa di Poe e concentra
l'attenzione sulla definizione del genere adottato: «l'étrange»,
l'«étrange» — egli scrive — è un genere di cui Poe è l'artefice
più perfetto, una «scuola» di cui è il capo riconosciuto. Esso si
differenzia da due generi contigui: dal «terrible» in cui
eccelleva Ann Radcliffe e dal «fantastique pur» di cui maestro
è Hoffmann. Per Verne la distinzione si basa sull'esistenza o
meno di una spiegazione «naturale» dei fatti narrati.
Ma non è a questo livello che va definito 1' «étrange», che
si costruisce sull'attesa del lettore, soggiogato, incatenato dalla
«verosimiglianza» e credibilità di atmosfere e situazioni. Nel
«genere Poe» i personaggi rimangono sempre «umani», ma si
spingono ai limiti ultimi della sensibilità e dell'intelligenza,
abusano delle loro facoltà intellettuali come altri fanno abuso
di alcool, dispiegando un eccezionale spirito di deduzione e di
riflessione. È dalla sovreccitazione della sensibilità e dalla
«terribile» capacità di analisi che nasce quindi la suspense del
tutto particolare della narrativa poesca.
Al di là del tono un po' da imbonitore che Verne usa per
tutte le sue pagine («Ecco a voi, cari lettori!…») e di certe
troppo candide manifestazioni di entusiasmo, questa analisi con
cui il saggio si apre non può non colpire, anche se
indubbiamente certi accostamenti non sono certo una novità.
Già Baudelaire, per esempio, aveva parlato di «fantastico allo
stato puro» alla maniera di Hoffmann per L'uomo della folla e
Poe era stato paragonato alla Radcliffe e sempre a Hoffmann
da Barbey d'Aurevilly, gran detrattore del martirologio
baudelairiano.
Verne doveva aver letto gli articoli virulenti di Barbey
d'Aurevilly (sul Pays, sul Réveil, quasi in contemporanea con
gli scritti di Baudelaire), dove Poe è condannato per la sua
americanità: da «Hoffmann del materialismo americano»,
«mutilato nel vivo del suo pensiero». Un'accusa che faceva star
male Baudelaire perché rovesciava i termini stessi del suo
antiamericanismo: per lui l'«angelo caduto» era stato invece la
vittima sacrificale della società che lo aveva distrutto, gli Stati
Uniti «una vasta prigione». E nell'ultimissima parte del suo
studio Verne sposa il punto di vista di Barbey, anche se
nemmeno lo nomina. Il difetto di Poe è di essere rimasto un
«apostolo del materialismo», un americano, un uomo
«positivo» e dinnanzi al mistero soprannaturale ha cercato
spiegazioni scientifiche, spesso inventate di sana pianta.
Se queste sono le riserve (abbastanza curiose, dobbiamo
ammetterlo, da parte di chi stava elaborando un'epopea
universale della scienza e della tecnica), è però totale e
incondizionata l'ammirazione per lo stile di Poe e per alcuni
testi in particolare. Anche in questo caso la scelta è abbastanza
personale ed originale.
In apertura Verne si sofferma lungamente su due dei
racconti che hanno Dupin come protagonista (Gli assassinii
della rue Morgue, La lettera rubata) e sullo Scarabeo d'oro
che è accomunato ai racconti «polizieschi» perché anch'esso
basato su un enigma da decifrare. Il privilegio di questo tipo di
storie non può stupire i suoi lettori più affezionati che sanno
bene quanto siano frequenti nei suoi romanzi i documenti
misteriosi, i crittogrammi, i rebus, i giochi di parole. Era ciò
che affascinava Raymond Roussel che a questo proposito ha
scritto di Verne come di un genio «incommensurable», che si è
innalzato alle «vette più alte che possa mai raggiungere il verbo
umano».
Il viaggio straordinario, del resto, come già il racconto
straordinario, si baserà sulla sfida all'intelligenza, alle umane
possibilità, e spesso un mistero da scoprire fa scattare la molla
narrativa, come avviene in Viaggio al centro della Terra o
durante la ricerca del capitano Grant. I veri modelli sono
Auguste Dupin e William Legrand, campioni insuperabili di
inchieste indiziarie, di associazioni mentali e di deduzioni.
Perché ciò che Verne trovava di «sovrumano» in Poe era
proprio questo «gioco» mentale (e linguistico).
Non a caso prediligeva fra tutti Lo scarabeo d'oro, l'esempio
più perfetto di quel tipo di congegno narrativo, a suo avviso. Il
racconto ispirerà La Jangada, del 1881, nell'episodio centrale
in cui confluiscono idealmente le pagine dedicate quasi
vent'anni prima alla descrizione minuziosa e defatigante del
metodo d'analisi poesco. E Poe verrà direttamente utilizzato e
citato nel romanzo («il nostro immortale analista Edgar Poe»)
quando si deve decifrare il testo misterioso da cui dipende la
vita di un uomo. Ma nella Jangada il metodo fallisce e sarà
necessario un intervento provvidenziale per scongiurare il
dramma. Non sappiamo se dobbiamo considerarla una
manifestazione di umiltà o più semplicemente la prova che
abbiamo
cambiato
genere
letterario.
Siamo
nell'«extraordinaire» che deriva dall'«étrange», ma che è
molto diverso.
Dei personaggi adorati dei racconti di Poe, degli
avventurieri della mente, rimane però un'impronta indelebile. E
l'immagine che Verne si era fatto di quegli eroi: li vedeva
agitati, divorati da un fuoco interno e inestinguibile, una «vera
combustione», che accelerava il funzionamento del corpo e del
cervello, scossi, «galvanizzati» come se avessero respirato dosi
eccessive di ossigeno. Questa immagine, già presente in Edgar
Poe et ses oeuvres, la ritroviamo in Hatteras a proposito degli
esploratori del mare polare (una pagina stupefacente per
Michel Butor) e in Le Docteur Ox, una «fantasia» curiosa ed
inquietante, dove il sovraccarico di ossigeno diventa un
pericoloso esperimento scientifico che semina follia in una
città-cavia. E non ha molta importanza se ancora una volta la
fonte è Baudelaire che aveva già visto quei personaggi sullo
sfondo di una Natura animata che come loro «rabbrividisce di
un brivido soprannaturale e galvanico».
Per Verne esisteranno sempre due tipi di «vita ardente», di
combustione, due modi diversi (ma quanto?) di superare i
limiti: l'indagine (la decifrazione del mistero) e il viaggio, dove
però sappiamo che troppo frequenti sono i naufragi e troppi gli
abbandoni.
Ma nel genere verniano, lo straordinario, maggiore dovrà
essere la plausibilità, la verosimiglianza, e questo avverrà sia
sfruttando al massimo le conoscenze geografiche e scientifiche
esistenti, sia anticipando ciò che ancora non esiste. Rimanendo
al limite cioè tra mondi «noti e ignoti», in ogni senso. Alla luce
di questo progetto che è stato definito positivistico e
imperialistico (ma che sfocerà in un profetico pessimismo negli
anni Ottanta), è più chiaro perché Verne si soffermi sui
racconti fantastico-scientifici di Poe, come La frottola del
pallone e L'impareggiabile avventura di un certo Hans Pfaall.
Non sembra coglierne la complessa ironia, anzi si rammarica
che siano così inverosimili scientificamente e che le leggi
elementari della «fisica e della meccanica» vi siano
allegramente trasgredite.
Che idea fantastica un viaggio in pallone e un viaggio sulla
Luna! La frottola del pallone (Baudelaire aveva tradotto in
modo strepitoso The Balloon Hoax con Le Canard au ballon)
gli dà l'idea di Cinque settimane in pallone e Hans Pfaall ispira
Dalla Terra alla Luna. L'impresa lunare si fa sotto il segno di
Poe ed è per lui l'«hurrah!» del Gun-Club, per quel «genio
strano e contemplativo».
Un altro racconto su cui Verne si sofferma abbastanza a
lungo nella terza parte del suo saggio è Tre domeniche in una
settimana, relativamente poco noto e molto diverso dagli altri
esaminati. Anche in questo caso è attirato da un'idea, quella del
giorno «perduto» o «guadagnato» viaggiando intorno al mondo
in una certa direzione. Il curioso «scherzo cosmografico» gli
suggerirà il finale arcinoto del Giro del mondo in ottanta giorni
e sarà lo stesso autore ad affermarlo in una comunicazione
presentata alla Société de Géographie nel 1873.
Da questi esempi risulta che in una prima fase dei Viaggi
straordinari l'influenza di Poe è determinante per la scelta di
forme o sottogeneri narrativi molto precisi: il racconto di
anticipazione scientifica e il racconto basato su un enigma da
decifrare o su una trovata paradossale e inattesa. Ma questi
segnali testuali, seppur molto espliciti, rimarrebbero schegge,
frammenti, se non venissero ricomposti alla luce del progetto
che Verne coltivò in segreto per più di trent'anni, quello di dare
una continuazione, un vero «finale» al Gordon Pym.
L'analisi del romanzo di Poe occupava del resto tutta la
quarta parte dello studio del 1864. Nella sua presentazione
estremamente dettagliata (che in un certo senso era già una
riscrittura), Verne si soffermava in particolare su due punti: 1)
l'episodio di cannibalismo sul relitto del Grampus; 2) l'ultimo
atto, il più straordinario, del viaggio del protagonista fino
all'incontro con la candida figura velata. E saranno i due temi
principali su cui si costruirà il suo futuro romanzo: sulla
memoria ossessiva di quel crimine e sul viaggio al polo sud
come esperienza della morte.
Verne considerava il Gordon Pym un racconto interrotto
perché il suo autore si era fermato troppo presto, non aveva
voluto avanzare di più nell'«impossibile». Egli andrà oltre nella
Sfinge dei ghiacci, «infinitamente più lontano di Poe», come
scrive al suo editore mentre sta lavorando al suo libro.
Perciò nel 1896-97 riprende i fili di quella storia che non sa
dimenticare e immagina che un misterioso capitano parta con
la sua nave verso i mari del sud portandosi a bordo uno
scienziato avventuroso, facente funzione di narratore. La nave
segue lo stesso itinerario descritto nel romanzo di Poe,
considerato un diario vero e proprio e non un'opera di fantasia.
Il capitano è alla ricerca del fratello (che era il comandante
della Jane nel Gordon Pym) e il protagonista vuole sapere
come finirà quella vicenda appassionante e vuole raggiungere il
polo sud.
Alla fine l'epilogo sarà solo parzialmente felice: saranno
ritrovati alcuni naufraghi, sopravvissuti all'altro romanzo, ma i
personaggi verniani non riusciranno nemmeno a vedere il polo.
Lo rende inaccessibile una montagna a forma di Sfinge, un
magnete colossale dotato di una forza di attrazione prodigiosa.
Nel suo ultimo viaggio, Arthur Gordon Pym si è schiantato
contro la montagna maledetta; accanto a lui muore di dolore il
fedele compagno Dirk Peters, che Verne aveva «resuscitato»
sotto falso nome.
Veniva così portato a termine, in uno degli ultimi Viaggi
straordinari, un progetto, un sogno lungamente accarezzato.
All'insegna dello scientismo tardo-positivistico — è stato
scritto — e mettendo a posto tutti i tasselli, fornendo tutte le
spiegazioni che non erano state date. E non era forse questa la
vera riserva che Verne aveva mosso a Poe: quella di non aver
saputo concepire «invenzioni» scientifiche degne di questo
nome?
Perciò il francese dedica all'americano un'invenzione e una
teoria sul magnetismo polare. Sotto la forma di un antico mito,
però, attivando dispositivi simbolici complessi ed elementari
come avviene nei suoi migliori romanzi. Mettendo al centro
della sua storia una colpa incancellabile (la violazione del tabù
primordiale) e una sfida (il viaggio al polo) ai limiti dell'umana
conoscenza. Risvegliando antichi fantasmi, antiche paure e
soprattutto guardando non al futuro, ma al passato, al mito.
Evocando Edipo al polo sud, per far finire un romanzo
«impossibile».
Mariella Di Maio
Edgar Allan Poe
I
SCUOLA DELLO «STRANO» - POE E BAUDELAIRE - VITA
MISERABILE E MORTE DELLO SCRITTORE - ANN
RADCLIFFE, HOFFMANN E POE - STORIE STRAORDINARIE GLI ASSASSINII DELLA RUE MORGUE - CURIOSA
ASSOCIAZIONE DI IDEE - INTERROGATORIO DEI TESTIMONI
- L'AUTORE DEL CRIMINE - IL MARINAIO MALTESE.
Ecco a voi, cari lettori, uno scrittore americano di
chiarissima fama. Conoscete il suo nome, anzi forse conoscete
più il suo nome delle sue opere. Permettetemi allora di
raccontarvi l'uomo e l'opera. Occupano entrambi un posto
importante nella storia dell'immaginazione perché Poe ha
creato un genere a parte, in cui non ha predecessori e di cui egli
solo conobbe il segreto. Lo possiamo definire il capo della
scuola dello strano: egli ha fatto arretrare le frontiere
dell'impossibile. Avrà certo degli imitatori che tenteranno di
andare oltre, di spingere all'eccesso la sua maniera di scrivere.
Ma anche se più d'uno crederà di superarlo, nessuno riuscirà
nemmeno ad eguagliarlo.
Vi dirò subito che un critico francese, Charles Baudelaire,
ha scritto una prefazione alla sua traduzione delle opere di Poe
che non è meno strana delle opere stesse. Forse questa
prefazione richiederebbe a sua volta un qualche commento e
una qualche spiegazione. Comunque sia, se ne è parlato molto
negli ambienti letterari; ha fatto grande scalpore e molto
giustamente: Charles Baudelaire aveva tutto il diritto di
interpretare a modo suo lo scrittore americano ed io non potrei
che augurargli come commentatore delle sue opere presenti e
future un nuovo Edgar Poe. Del resto i due sono fatti per
capirsi. Inoltre la traduzione di Baudelaire è eccellente e da
essa sono tratti i brani citati in questo mio articolo.
Non tenterò di spiegarvi l'inesplicabile, l'incomprensibile,
l'impossibile prodotto di un'immaginazione che Poe spingeva
talvolta fino al delirio. Ma lo seguiremo passo a passo. Vi
racconterò le sue novelle più curiose con molte citazioni; vi
mostrerò come procede e quali lati oscuri dell'umana sensibilità
riesce a toccare per cavarne gli effetti più strani.
Edgar Poe era nato a Baltimora nel 1813 1 , nel cuore
dell'America, la nazione più positiva del mondo. La sua
famiglia, per molto tempo rispettabile e altolocata, era
singolarmente decaduta quando egli venne al mondo. Se il
nonno si era distinto nella guerra d'indipendenza come
quartiermastro generale 2 accanto a La Fayette, il padre era
morto da attore miserabile nel più completo abbandono.
Un certo signor Allan, negoziante a Baltimora, adottò il
piccolo Edgar e lo fece viaggiare in Inghilterra, in Irlanda, in
Scozia. Sembra però che Edgar non visitasse Parigi, di cui
descrisse con molte inesattezze alcune strade in uno dei suoi
racconti.
Tornato a Richmond nel 1822, continuò gli studi mostrando
attitudini particolari per la fisica e la matematica. Per la sua
condotta dissipata fu espulso dall'Università di Charlottesville e
fu scacciato anche dalla sua famiglia adottiva. Partì allora per
1
In realtà Poe era nato a Boston nel 1809. Verne ripete l'errore di
Baudelaire in Edgar Poe, sa vie et ses oeuvres (1856).
2
Verne «traduce» il quarter-master-general che Baudelaire lasciava in
inglese.
la Grecia mentre si svolgeva quella guerra che sembra sia stata
fatta solo per la maggior gloria di Lord Byron 3 . E vogliamo
ricordare, per inciso e senza trarne alcuna conclusione, che Poe
era un ottimo nuotatore come il poeta inglese.
Passò dalla Grecia alla Russia, arrivò fino a Pietroburgo, fu
compromesso in affari misteriosi, tornò in America ed entrò in
una scuola militare. Ne fu ben presto espulso per il suo
temperamento indisciplinato ed allora cadde nella più nera
miseria, quella miseria americana che è, fra tutte, la più
spaventosa. Per vivere fece dei lavori letterari, ma
fortunatamente vinse due premi istituiti da una rivista per il
miglior racconto e per la migliore poesia. Diventò infine
direttore del Southern Literary Messenger. Grazie a lui il
giornale cominciò a prosperare e Poe, in un momento di
temporanea e relativa agiatezza, sposò la cugina Virginia
Clemm.
Due anni dopo litigò con il proprietario del giornale. In
realtà lo sventurato cercava spesso negli eccessi dell'acquavite
le più strane ispirazioni e la sua salute a poco a poco ne
risentiva. Ma sorvoliamo rapidamente sulle miserie, gli scontri,
le lotte, i successi, la disperazione dello scrittore, sempre
sorretto dalla povera moglie e soprattutto dalla madre di lei che
lo amò come un figlio anche dopo la morte.
Dopo una sosta troppo prolungata in una bettola di
Baltimora, il 6 ottobre 1849, un corpo fu ritrovato per strada, il
corpo di Edgar Poe. L'infelice respirava appena e fu trasportato
in ospedale. Era in preda al delirium tremens e morì l'indomani
all'età di soli trentasei anni 4 .
Questa è la vita dell'uomo, parliamo adesso dell'opera. Non
mi occuperò di Poe giornalista, filosofo, critico, per
soffermarmi unicamente sul narratore: è nella novella, infatti,
3
Anche queste false notizie sui viaggi in Grecia e in Russia derivano dalla
stessa fonte.
4
Cfr. nota n. 1.
nel racconto e nel romanzo che si manifesta pienamente tutta la
stranezza del suo genio.
Talvolta è stato paragonato a due autori: una inglese, Ann
Radcliffe, e l'altro tedesco, Hoffmann 5 . Ma Ann Radcliffe ha
praticato il genere terribile che si spiega sempre con cause
naturali; Hoffmann ha fatto del fantastico puro che sfugge ad
ogni ragione materiale.
Non è così per Poe: i suoi personaggi potrebbero al limite
anche esistere perché squisitamente umani, ma hanno una
sensibilità esaltata, tesa, morbosa. Sono individui eccezionali,
galvanizzati per così dire, come persone alle quali si facesse
respirare un'aria sovraccarica di ossigeno e la cui vita non
sarebbe altro che una combustione in atto. Se non sono folli, i
personaggi di Poe sono evidentemente destinati a diventarlo
per aver abusato del proprio cervello, come altri abusano di
liquori forti. Spingono al limite estremo lo spirito di riflessione
e di deduzione; sono i più terribili analisti che io conosca e,
partendo da un fatto insignificante, arrivano alla verità assoluta.
Cerco di definirli, di dipingerli, di fissarli e non ci riesco
perché sfuggono al pennello, al compasso, alla definizione.
5
Il parallelo con Ann Radcliffe e Hoffmann è di Barbey d'Aurevilly, che
aveva dedicato a Poe tre articoli (in Le Pays, 27 luglio 1853 e 10 giugno
1856, e in Le Réveil, 15 maggio 1858). Gli articoli del 1856 e del 1858,
scritti a commento delle traduzioni di Baudelaire, contengono pesanti
riserve
sull'interpretazione
di
quest'ultimo,
pur
manifestando
contraddittoriamente un fondo di ammirazione per la scrittura di Poe. Verne
si rifà a queste considerazioni nella conclusione del suo saggio dove
individua il «limite» di Poe nella sua «americanità» e nel suo materialismo.
Nel 1883, in un articolo sul Constitutionnel del 19 marzo, Barbey fa però
una specie di ritrattazione e fa «ridiventare» lo scrittore americano una
vittima della società in cui era stato costretto a vivere. Ma nelle sue pagine,
come per altri versi in quelle di Baudelaire e anche in quelle di Verne, il
vero nodo problematico è l'immagine negativa dell'America, che emerge
con particolare intensità nel momento in cui l'opera di Poe si pone
all'attenzione della cultura francese nei suoi caratteri di sconvolgente
modernità e di «diversità».
Preferisco, cari lettori, mostrarli nell'esercizio delle loro
funzioni quasi sovrumane. Ed è ciò che mi accingo a fare.
Di Poe abbiamo due volumi di Storte straordinarie, tradotte
da Baudelaire, i Racconti inediti, tradotti da William Hughes, e
un romanzo intitolato Avventure di Arthur Gordon Pym 6 . Vi
presenterò la scelta più interessante da queste diverse raccolte.
Non sarà difficile perché lascerò che sia soprattutto Poe a
parlare. Vogliate dunque ascoltarlo fiduciosamente.
Comincio con tre novelle nelle quali lo spirito di analisi e di
riflessione si spinge ai limiti ultimi dell'intelligenza: Gli
assassinii della rue Morgue, La lettera rubata e Lo scarabeo
d'oro.
Ecco la prima di queste tre storie ed ecco come Edgar Poe
prepara il lettore a questo strano racconto.
Dopo alcune curiose osservazioni con le quali dimostra che
l'uomo davvero immaginativo è sempre un analista, mette in
scena un suo amico, Auguste Dupin, insieme al quale aveva
vissuto a Parigi in una parte remota e solitaria del Faubourg
Saint-Germain.
«Il mio amico — egli dice — aveva una bizzarria — come
si potrebbe infatti chiamarla altrimenti? — egli era cioè
innamorato della notte, e in questa sua strana passione, come in
tutte le altre, mi lasciai trascinare tranquillamente anch'io,
giacché mi davo ai suoi strani capricci col più completo
abbandono. La nera divinità non poteva essere sempre con noi;
ma potevamo pur sempre farcene una posticcia. Al primo
chiarore dell'alba serravamo tutti i pesanti scuri della vecchia
casa e accendevamo due fiaccole fortemente profumate, le
quali mandavano una luce debolissima, spettrale.
6
Le traduzioni di Baudelaire alle quali si allude sono: Histoires
extraordinaires, Paris, Michel Lévy, 1856; Nouvelles histoires
extraordinaires, ivi, 1857 e Aventures d'Arthur Gordon Pym, ivi, 1858. I
Contes inédits tradotti da William L. Hughes (pseudonimo di William
O'Gorman) furono editi da Hetzel nel 1862.
A quel fievole chiarore abbandonavamo l'anima ai sogni —
leggendo, scrivendo o conversando — sino a quando l'orologio
non ci avvertiva del ritorno della vera oscurità. Allora ci
mettevamo a percorrere le vie l'uno sottobraccio all'altro,
continuando la conversazione del giorno, vagabondando a caso
fino ad ora avanzata, cercando in mezzo alle luci e ombre della
popolosa città quegli innumerevoli eccitanti dello spirito che
può dare l'osservazione spassionata.
«In quei casi non potevo fare a meno di osservare e di
ammirare — quantunque la sua ricca idealità avesse dovuto
rendermi avvertito — la particolare attitudine analitica del mio
amico […]. In quei momenti il suo modo di fare era freddo e
distratto, i suoi occhi fissavano il vuoto, e la sua bella voce da
tenore saliva a un tono acuto».
Ed a questo punto, prima di affrontare il tema della novella,
Poe racconta in che modo Dupin procedeva nelle sue curiose
analisi.
«Sono rari coloro — egli dice — che in qualche momento
della loro vita non si siano divertiti a risalire i gradini per i
quali certe conclusioni della loro mente erano state raggiunte. E
un'occupazione che riesce spesso interessantissima; e chi la
prova per la prima volta rimane stupito dell'incoerenza e della
distanza, in apparenza incommensurabile, fra il punto di
partenza e la meta.
«Una notte passavamo per una lunga e sordida strada nelle
vicinanze del Palais Royal. Immersi ciascuno nei propri
pensieri, da almeno un quarto d'ora non avevamo pronunciato
sillaba. A un tratto Dupin venne fuori con queste parole:
«— E molto, molto piccolo, è proprio vero; starebbe meglio
al Théâtre des Variétés.
«— Non ci può essere il minimo dubbio — replicai senza
pensare e senza sulle prime osservare (tanto ero assorto nelle
mie riflessioni) il modo straordinario con cui le sue parole si
adattavano ai miei pensieri. Un momento dopo, tornato in me,
fui profondamente stupefatto.
«— Dupin —, gli dissi gravemente — questo sorpassa il
mio intendimento. Non esito a confessarvi il mio stupore,
riesco appena a credere ai miei sensi. Come avete fatto a
indovinare che stavo pensando a…?
«E mi fermai per assicurarmi al di là di ogni dubbio se
veramente sapeva a chi pensavo.
«— A Chantilly — disse lui. — E perché vi interrompete?
Non stavate pensando che la sua piccola statura lo rende
inadatto alla tragedia?
«Tale era precisamente il soggetto delle mie riflessioni…
Chantilly era un ex ciabattino della rue Saint-Denis che andava
matto per il teatro e aveva voluto recitare la parte di Serse nella
tragedia di Crébillon […].
«— Per l'amor di Dio, — esclamai — ditemi il metodo, se
un metodo esiste, col quale siete riuscito a penetrare nell'anima
mia in questa faccenda».
Vedete bene che l'inizio di questo racconto è davvero
bizzarro. Poe e Dupin cominciano a discutere e quest'ultimo,
notando la sequenza delle riflessioni del suo amico, gli
dimostra che esse seguono a ritroso il seguente ordine:
Chantilly, il ciabattino, Orione, il dottor Nichols, Epicuro, la
stereotomia, i selciati, il fruttivendolo.
Queste idee non hanno alcuna relazione fra loro e tuttavia
Dupin le collega agevolmente cominciando dall'ultima.
In effetti, mentre passava nella strada, un fruttivendolo
aveva urtato bruscamente Poe; questi era scivolato, inciampato
su una pietra sconnessa, si era slogato leggermente la caviglia
borbottando contro il selciato difettoso. Arrivato poi in una
viuzza dove era stato sperimentato un selciato a blocchi, gli era
venuta in mente la parola stereotomia e questa parola lo aveva
indotto fatalmente a pensare agli atomi e alle teorie di Epicuro.
Infatti nel corso di una discussione su questo argomento, Dupin
gli aveva detto che le recenti scoperte cosmogoniche del dottor
Nichols confermavano le teorie del filosofo greco. Poe allora
non aveva potuto fare a meno di alzare gli occhi verso la
costellazione di Orione che in quel momento splendeva in tutta
la sua purezza. Ora, il verso latino:
Perdidit antiquum litera prima sonum
si riferisce ad Orione che anticamente si scriveva Urione, e
un critico lo aveva citato maliziosamente per il ciabattino
Chantilly nel suo ultimo articolo.
«Questa associazione d'idee — continuò Dupin — l'ho vista
da quella specie di sorriso che vi è passato sulle labbra. Avete
pensato all'immolazione del povero ciabattino. Sino ad allora
eravate piuttosto curvo nel camminare, ma a quel punto vi siete
raddrizzato tutto. Allora sono stato sicuro che pensavate alla
piccola statura di Chantilly. In quel momento ho interrotto le
vostre riflessioni, per osservare che Chantilly era proprio
piccolo, molto piccolo, e che sarebbe stato meglio al Théâtre
des Variétés».
Provate a chiedervi se esiste qualcosa di più ingegnoso, di
più nuovo e chiedetevi ancora fin dove potrà arrivare un uomo
dotato di spirito d'osservazione come questo Dupin! Ed è ciò
che vedremo subito.
Nella rue Morgue è stato commesso un delitto spaventoso:
Madame l'Espanaye e sua figlia, che abitavano in un
appartamento al quarto piano, sono state assassinate verso le tre
del mattino. Alcuni testimoni, fra i quali un italiano, un inglese,
uno spagnolo, un olandese, richiamati da grida strazianti, si
erano precipitati nell'appartamento, avevano forzato la porta e
in mezzo al più strano disordine avevano trovato le due vittime,
l'una strangolata e l'altra ferocemente colpita da un rasoio
ancora sanguinante. Porte e finestre erano accuratamente
chiuse e non era quindi possibile scoprire da dove fosse entrato
e uscito l'assassino. Le indagini della polizia furono inutili e
non esisteva nemmeno l'ombra di un indizio.
Questa orribile vicenda, avvolta nel mistero più fitto,
interessava particolarmente Auguste Dupin, convinto che
nell'istruzione del crimine non si dovesse procedere con i soliti
mezzi. Poiché conosceva il prefetto di polizia, ottenne da lui
l'autorizzazione a recarsi sulla scena del delitto per esaminarla.
Poe lo accompagnava durante quella visita. Dupin, seguito
da un gendarme, ispezionò la rue Morgue, il retro dell'edificio e
la facciata con una minuziosa attenzione. Salì quindi nella
stanza dove giacevano i due cadaveri. Non si fermò fino a sera,
non disse mai una parola e, tornando verso casa, si recò per
qualche minuto nella redazione di un quotidiano. Restò
silenzioso per tutta la notte e soltanto l'indomani a
mezzogiorno chiese all'amico se aveva notato qualcosa di
particolare sulla scena del delitto.
Il Dupin analista comincia a rivelarsi. «Ora — egli disse —
aspetto una persona che per quanto non sia l'autrice di questa
carneficina, deve pure trovarsi in parte coinvolta nella sua
perpetrazione. Della parte più atroce del misfatto, è probabile
che sia innocente. Spero anzi di non ingannarmi su questa
ipotesi, perché è appunto su di essa che fondo la speranza di
sciogliere l'intero enigma. L'aspetto qui, in questa stanza, da un
momento all'altro. Può darsi che non venga, è vero; ma è più
probabile che venga. Se viene, bisognerà trattenerla. Ecco qui
un paio di pistole: sappiamo ambedue come adoperarle quando
l'occasione lo richiede».
Vi lascio immaginare lo sbalordimento di Poe a quelle
parole così concrete. Dupin gli disse allora che mentre la
polizia, dopo aver tolto i pavimenti, aperto i soffitti e sondato
la muratura, non riusciva a spiegare come si fosse introdotto e
come fosse fuggito l'assassino, lui, usando metodi diversi,
sapeva bene come risolvere il mistero. E in realtà, frugando in
ogni angolo e soprattutto vicino alla finestra sul retro,
attraverso la quale doveva essere passato il criminale, aveva
scoperto una molla. Questa molla, tenuta malamente da un
chiodo arrugginito, poteva essersi bloccata da sola e poteva
aver fatto richiudere la finestra, spinta dall'esterno dal piede del
fuggitivo. Vicino alla finestra passava la lunga corda di un
parafulmine e Dupin era ormai sicuro che questa fosse servita
all'incursione e al «volo» del colpevole.
Ma era ancora poco: spiegare il modo in cui era entrato e
uscito non era sufficiente a identificare l'autore del crimine?
Perciò Dupin, concentrato su questo punto, si lancia in una
curiosa deduzione e affronta un ordine di idee del tutto
differente. Non si chiede più come si siano svolti i fatti, ma in
che cosa essi siano singolari ed insoliti. Il denaro trovato intatto
nell'appartamento spiega d'altro canto che il furto non è stato il
movente del delitto.
Allora richiama l'attenzione di Poe su un fatto al quale non
era stato dato alcun rilievo nelle deposizioni e nel quale si
manifesta tutto il genio dello scrittore americano.
I testimoni accorsi al momento del crimine avevano udito
distintamente due voci. Tutti affermavano senza ombra di
dubbio che una era la voce di un francese; ma quanto all'altra,
una voce acuta, aspra, c'era un gran disaccordo fra i testimoni
che erano di nazionalità diverse.
«Ognuno di loro è sicuro — dice Dupin — che non era la
voce di un suo compatriota. Ognuno la paragona non già alla
voce di un individuo la cui lingua gli sia familiare, ma proprio
al contrario. Il francese suppone che sia la voce di uno
spagnolo e anzi avrebbe potuto distinguere qualche parola se
avesse conosciuto lo spagnolo. L'olandese afferma che era la
voce di un francese, ma troviamo che il teste non conoscendo il
francese è stato interrogato per mezzo di un interprete.
L'inglese la crede la voce di un tedesco, ma non capisce il
tedesco. Lo spagnolo è sicuro che era quella di un inglese, ma
giudica dall'intonazione poiché non ha nessuna conoscenza
dell'inglese. L'italiano la crede la voce di un russo, ma non ha
mai parlato con un russo. Un altro francese, contrariamente a
quello che ha detto il primo, è sicuro che la voce fosse di un
italiano, ma non conoscendo quella lingua, egli, come lo
spagnolo, trae la sua certezza dall'intonazione. Come dunque
doveva essere singolarmente insolita quella voce per poter dare
origine a testimonianze di tal genere! Nella sua intonazione
persino gli abitanti delle cinque grandi nazioni d'Europa non
avevano potuto riconoscere nulla che fosse loro familiare!
Direte che poteva essere la voce di un asiatico o di un africano.
Né gli asiatici ne' gli africani abbondano a Parigi, ma senza
negare la possibilità del caso, io richiamerò semplicemente la
vostra attenzione su tre punti. Un teste dice che la voce era
piuttosto aspra che acuta. Altri due dicono che era rapida e a
scatti. Non parole, non suoni che somigliassero a parole, sono
stati distinti da alcun testimone».
Dupin continua: rammenta a Poe i dettagli del crimine, la
forza fisica di chi ha strappato ciocche intere di capelli grigi
dalla testa dell'anziana signora e voi sapete «che forza occorra
per strappare dalla testa anche solo venti o trenta capelli in una
volta». Gli fa notare quale straordinaria agilità fosse stata
necessaria per salire lungo la corda del parafulmine, la ferocia
bestiale delle uccisioni, «quel grottesco nell'orrore,
assolutamente al di fuori della natura umana» e infine e sempre
«quella voce, dall'intonazione straniera all'orecchio di persone
di nazionalità diverse, e priva di qualsiasi sillabazione distinta e
intellegibile».
«Che cosa se ne può ricavare? — chiede allora Dupin al suo
compagno — Che impressione ho fatto sulla vostra
immaginazione?»
Vi devo confessare che, leggendo questa pagina, ho sentito
un fremito corrermi per le ossa, come l'interlocutore di Dupin!
Vedete come questo scrittore stupefacente riesce ad avvincere
il lettore! Forse perché cattura la vostra immaginazione? Forse
perché vi tiene sospesi e palpitanti dietro al suo racconto? Ma
avete intuito chi è l'autore di quello straordinario delitto?
Io avevo già indovinato tutto. E anche voi avete capito.
Tuttavia concluderò rapidamente citando le poche righe che
Dupin aveva fatto pubblicare il giorno prima su Le Monde,
giornale che s'interessa di questioni navali. e che è molto letto
dai marinai:
«Trovato — Nel Bois de Boulogne la mattina del… corrente
(la data del giorno del delitto), a un'ora molto mattutina, un
enorme Orang-utang fulvo, della specie di Borneo. Il
proprietario (che, come è stato accertato, è un marinaio
dell'equipaggio di una nave maltese) può riavere l'animale,
dopo averne dati i segni d'identificazione sufficienti e
rimborsato alcune piccole spese sostenute per la cattura e il
mantenimento. Rivolgersi al n…, Rue…, Faubourg SaintGermain, piano terzo».
Dupin aveva capito che si trattava di un marinaio di un
equipaggio maltese da un pezzo di nastro raccolto ai piedi della
corda del parafulmine, che aveva un nodo caratteristico dei
marinai maltesi. Questo tipo, inoltre, parlava come un francese
secondo tutte le testimonianze. Avrebbe risposto all'annuncio,
che non stabiliva alcuna relazione tra la fuga dell'orango e il
crimine, e si sarebbe certamente presentato.
Infatti si presentò: era un marinaio, «alto, robusto e
muscoloso, con un'espressione di audacia indiavolata». Dopo
qualche esitazione, ammise ogni cosa. L'orango era scappato
strappandogli il rasoio mentre si stava sbarbando. Il padrone
terrorizzato aveva inseguito l'animale che, nella sua corsa
fantastica, era arrivato alla rue Morgue, aveva visto la corda del
parafulmine e vi si era arrampicato con incredibile agilità.
L'uomo lo aveva seguito. La scimmia aveva trovato la finestra
aperta, si era precipitata dentro ed era piombata
nell'appartamento delle due povere donne. Il resto lo sappiamo.
Il marinaio era stato testimone del dramma senza poterlo
impedire, chiamando e urlando. Poi aveva perso la testa ed era
fuggito via. L'orango, che aveva richiuso col piede la finestra,
si era lasciato scivolare sulla strada ed era scomparso a sua
volta.
Ed ecco questa strana storia e la sua veridica spiegazione.
Mette bene in rilievo le doti meravigliose del suo autore.
Sembra così vera che talvolta abbiamo l'impressione di leggere
un atto d'accusa estratto dalla Gazette des tribunaux.
II
LA LETTERA RUBATA - IMBARAZZO DI UN PREFETTO DI
POLIZIA - UN SISTEMA PER VINCERE SEMPRE AL GIOCO
DEL PARI E DISPARI - VICTORIEN SARDOU - LO SCARABEO
D'ORO - LA TESTA DI MORTO - LETTURA STUPEFACENTE DI
UN DOCUMENTO INDECIFRABILE.
Edgar Poe non abbandonò quel tipo curioso di Auguste
Dupin, l'uomo dalle profonde deduzioni. Lo ritroviamo nella
Lettera rubata.
La storia è semplice: una lettera compromettente è stata
sottratta da un ministro a un personaggio politico. Poiché il
ministro D*** può usare il documento a scopi molto pericolosi,
bisogna riaverlo ad ogni costo. Il prefetto di polizia è stato
incaricato di questa difficile missione e si sa che la lettera è
rimasta sempre nelle mani di D***. In sua assenza, gli agenti
ne hanno perquisito minuziosamente il palazzo, frugato la casa
stanza per stanza, esaminato i mobili di ogni appartamento,
aperto tutti i cassetti, anche quelli segreti; esplorato le
imbottiture delle sedie con lunghi aghi, rimosso il piano dei
tavoli, smontato i sostegni dei letti, frugato nelle più piccole
connessure dei mobili, nelle tende, nei tappeti, fra le
intelaiature e le lastre degli specchi. Infine tutta la superficie
della casa è stata suddivisa in compartimenti numerati
passando al microscopio pollice quadrato per pollice quadrato.
Ogni cosa insomma è stata esaminata sia nella casa del
ministro, sia nelle case adiacenti. Sospettando che D*** si
portasse addosso il documento, il prefetto lo ha fatto aggredire
e rapinare due volte da due falsi ladri. Non hanno trovato nulla.
Il prefetto scoraggiato si reca da Dupin e gli racconta la
vicenda. Dupin gli consiglia di continuare le ricerche. Un mese
dopo il prefetto gli fa una seconda visita: era stata tutta fatica
sprecata.
«Darei effettivamente cinquantamila franchi — disse — a
chi mi sapesse trar d'impiccio.
«Nel qual caso, — disse Dupin aprendo un cassetto e
prendendone un libretto di chèques, — vorreste farmi un buono
per questa somma? Firmato che sia, vi darò la lettera».
E consegna il prezioso documento al prefetto che,
sbalordito, si precipita fuori dalla porta. Dupin spiega allora a
Poe come sia venuto in possesso della lettera. Per dimostrargli
che i metodi da impiegare debbono variare a seconda delle
persone con cui si ha a che fare, gli racconta quanto segue:
«Ho conosciuto un ragazzo di otto anni che era ammirato da
tutti per la sua bravura al gioco del pari e dispari. Aveva un
modo per indovinare che consisteva semplicemente
nell'osservare e calcolare la scaltrezza dei suoi avversari. Per
esempio il suo avversario è un semplicione che levando in aria
il pugno chiuso chiede: Pari o dispari? Il nostro ragazzo
risponde: dispari, o perde. Ma la seconda volta vince perché
dice fra sé: il semplicione aveva pari la prima volta e tutta la
sua furberia arriverà fino a fargli mettere dispari la seconda.
Allora io dirò: Dispari. Dice dispari e vince.
«Ma con un avversario meno ingenuo avrebbe pensato: a
questi la prima idea che si affaccerà alla mente, avendomi udito
dire dispari la prima volta, sarà la semplice variazione da pari a
dispari, come ha fatto quello stupidotto, però una seconda
riflessione gli farà pensare che è un cambiamento troppo
semplice e alla fine si deciderà a ripetere pari, come la prima
volta. Io dirò dunque: pari. Dice pari e vince».
Partendo da questo principio, Dupin ha dunque cominciato
col riconoscere il ministro D*** ed ha saputo che egli è
insieme poeta e matematico.
«Come poeta e matematico — pensò — poteva ragionare
bene; come semplice matematico non avrebbe ragionato
affatto, e sarebbe stato alla mercé del prefetto».
Sono osservazioni molto profonde, cari lettori. Il
matematico si sarebbe ingegnato a inventare un nascondiglio,
ma il poeta avrebbe proceduto in tutt'altro modo, con
semplicità. Ci sono infatti oggetti che sfuggono ai nostri occhi
per il fatto stesso di essere in eccessiva evidenza. Così, nelle
carte geografiche, le parole a grandi caratteri che vanno da una
parte all'altra della carta sfuggono a chi le guarda molto più dei
nomi scritti in caratteri minuti e quasi impercettibili. D***
doveva dunque cercare di mettere fuori strada gli agenti di
polizia proprio con l'ingenua semplicità delle sue
combinazioni.
Ma Dupin l'aveva capito: conosceva D***, aveva un
facsimile della lettera in questione. Si era recato perciò nel
palazzo del ministro e la prima cosa che aveva visto era stata
quella lettera introvabile, in perfetta evidenza. Il poeta aveva
capito che il modo migliore per non farla trovare era di non
nasconderla affatto. Dupin gli aveva sottratto la lettera
sostituendola con un facsimile e gli aveva giocato un brutto
tiro. I segugi avevano fatto cilecca e un semplice ragionatore
aveva raggiunto lo scopo senza sforzi particolari.
Questa novella è molto bella e interessante. Victorien
Sardou ne ha tratto una commedia deliziosa che si intitola Les
Pattes de mouche, di cui avete certamente sentito parlare e che
è stata uno dei grandi successi del Gymnase 7 .
E arriviamo allo Scarabeo d'oro, dove il protagonista dà
prova di una sagacia non comune. Sarò costretto a citare un
lungo brano di questa storia, ma non vi dispiacerà, anzi vi
assicuro che lo rileggerete più di una volta.
Poe aveva stretto amicizia con un certo William Legrand il
quale, ridotto in miseria da una serie di disgrazie, aveva
abbandonato New Orleans. Si era trasferito nella Carolina del
Sud presso Charleston, sull'isola di Sullivan, formata soltanto
da tre miglia di sabbia marina e che non misura più di un
quarto di miglio in larghezza. Legrand era un misantropo e
alternava di continuo stati di entusiasmo e di malinconia.
Ritenendolo un po' squilibrato, i parenti gli avevano messo
accanto un vecchio negro che rispondeva al nome di Jupiter.
7
Les Pattes de mouche di V. Sardou ebbe la sua prima rappresentazione al
Théâtre du Gymnase dramatique il 15 maggio 1860 ed ebbe anche in
seguito un grande successo. Commedia in tre atti, leggera e sentimentale, ha
effettivamente al centro una lettera (d'amore) nascosta sotto una statuetta di
«biscuit» di Sèvres, intorno alla quale si scatena una girandola di equivoci e
di inganni, con lieto fine. Un segnale che Sardou volesse alludere
ironicamente ai racconti di Poe potrebbe essere il fatto che, a un certo
momento della commedia, un personaggio mette uno scarabeo (!) dentro la
lettera.
Ve lo state già immaginando: questo Legrand, questo amico
di Poe, sarà anche lui dotato di un carattere eccezionale, di un
temperamento sovreccitabile, soggetto a crisi morbose.
Un giorno Poe andò a fargli visita e lo trovò in preda a uno
dei suoi accessi di entusiasmo. Legrand, che collezionava
conchiglie ed esemplari entomologici, aveva scoperto uno
scarabeo di una strana specie. Ve l'aspettavate questa parola,
non è vero? In quel momento Legrand non aveva con sé
l'animale perché l'aveva prestato a un suo amico, il tenente
G*** del forte Moultrie.
Jupiter diceva di non aver mai visto un simile scarabeo di un
color d'oro smagliante e molto pesante. Il negro era sicuro che
fosse d'oro massiccio. Legrand volle fare per l'amico un
disegno dell'insetto. Cercò un foglio di carta, non ne trovò e
tirò fuori dalla tasca un pezzo di pergamena sudicia, sul quale
si mise a disegnare. Quando passò a Poe il disegno, questi ebbe
l'impressione nettissima che raffigurasse una testa di morto.
Glielo disse e William non fu d'accordo. Dopo una breve
discussione, dovette però ammettere che la sua penna aveva
disegnato un teschio perfettamente riconoscibile. Gettò via
stizzosamente il foglio, poi lo riprese, lo esaminò attentamente
e infine lo conservò nella scrivania. Si parlò d'altro e Poe andò
via senza che Legrand insistesse per trattenerlo.
Un mese dopo ricevette la visita del negro. Questi era molto
preoccupato per lo stato di salute del padrone, che era diventato
taciturno, pallido, debolissimo. Era convinto che fosse stato
morso dallo scarabeo e che perciò tutte le notti sognava sempre
oro.
Jupiter aveva portato con sé una lettera di Legrand che
supplicava Poe di andarlo a trovare:
« Venite! venite! — diceva — Vorrei vedervi stasera per
una faccenda molto grave. Vi assicuro che è cosa della più alta
importanza».
Vedete come procede l'azione e come la storia promette di
essere singolarmente interessante: c'è un monomaniaco che
sogna oro per il morso di uno scarabeo!
Poe seguì il negro fino al molo per imbarcarsi. Sulla barca
c'erano una falce e tre vanghe, comprate per ordine di William.
Ne fu sbalordito. Arrivò all'isola verso le tre del pomeriggio.
Legrand lo aspettava con impazienza e gli strinse nervosamente
la mano.
«II suo viso era di un pallore spettrale e gli occhi infossati
brillavano di una luce innaturale».
Poe gli chiese notizie dello scarabeo. William gli rispose che
l'insetto avrebbe fatto la sua fortuna e che, usandolo in modo
opportuno, sarebbe arrivato all'oro di cui era l'indizio.
Gli mostrò quindi un insetto magnifico, sconosciuto ai
naturalisti di quell'epoca. A una estremità del dorso aveva due
macchie nere rotonde e una terza macchia di forma allungata
all'altra estremità. Le scaglie erano eccezionalmente dure e
lucenti e sembravano davvero d'oro brunito.
«Vi ho mandato a chiamare […] — disse William a Poe —
per chiedervi consiglio e aiuto per compiere ciò che vogliono il
fato e lo scarabeo […]».
Poe lo interruppe e gli tastò il polso, ma non trovò il più
leggero sintomo di febbre. Voleva distrarlo dalla sua
ossessione, ma Legrand gli annunciò formalmente che
intendeva partire quella notte stessa per una spedizione sulle
colline, spedizione nella quale lo scarabeo avrebbe avuto un
ruolo molto importante. A Poe non rimase altro da fare che
seguirlo insieme a Jupiter.
Partirono tutti e tre. Attraversarono l'insenatura che separava
l'isola dalla terraferma e, superati i pendii della riva, passarono
per una zona selvaggia e desolata. Al tramonto entrarono in
una regione squallidamente sinistra, dove si aprivano voragini
profonde. Su di una stretta piattaforma si ergeva un gigantesco
tulipifero in mezzo a una decina di querce. William ordinò a
Jupiter di arrampicarsi sull'albero portando con sé lo scarabeo
attaccato all'estremità di una lunga corda. Dopo inutili
resistenze, Jupiter cedette alle minacce del padrone e si portò
fino alla grande biforcazione dell'albero, a settanta piedi da
terra.
Allora William gli disse di continuare a salire per il ramo
più grosso da una certa parte. Jupiter sparì nel fogliame e
quando si fu arrampicato per sette rami, gli fu ordinato di
avanzare più che poteva e di dire se vedeva qualcosa di strano.
Dopo qualche esitazione, poiché il ramo gli sembrava marcio,
il negro, allettato dalla promessa di un dollaro d'argento, arrivò
alla punta.
«O-o-oh! — gridò — Signore Iddio, misericordia! Che cosa
è questo?».
Jupiter aveva trovato un teschio scarnificato dai corvi e che
era fissato all'albero da un grosso chiodo. William gli disse di
far passare per la cavità dell'occhio sinistro del teschio la corda
a cui era sospeso lo scarabeo e di farlo cadere a piombo fino a
terra.
Il negro obbedì e l'insetto rimase sospeso a pochi pollici dal
suolo. William sgombrò il terreno dai cespugli, diede l'ordine
di mollare lo scarabeo e conficcò un piuolo nel punto preciso
dove era caduto. Poi tirò fuori da una tasca un metro a nastro,
ne assicurò un'estremità alla parte dell'albero più vicina al
piuolo, lo srotolò per una cinquantina di piedi nella direzione
indicata dall'albero e dal piuolo. Conficcò quindi nel punto
raggiunto un secondo piuolo, intorno al quale descrisse un
cerchio del diametro di quattro piedi. Aiutato da Poe e da
Jupiter, si mise a scavare di buona lena. Ma non si trovò
nemmeno l'ombra di un tesoro. Legrand era visibilmente
sconcertato. Senza dire una parola, Jupiter raccolse gli arnesi e
il gruppetto prese la via del ritorno verso est.
Avevano fatto non più di una dozzina di passi quando
Legrand saltò addosso al negro:
«Scellerato! — gridò facendo fischiare le sillabe fra i denti.
— Quale è il tuo occhio sinistro?».
Il poveretto indicò con la mano l'occhio destro. «Lo
immaginavo, — gridò Legrand. — Andiamo! andiamo! si
ricomincia».
Jupiter si era realmente sbagliato e aveva fatto passare la
corda con lo scarabeo per l'occhio destro invece che per il
sinistro. Allora spostarono il piuolo di qualche pollice più ad
ovest e il metro srotolato indicò un punto che distava parecchi
metri da quello trovato prima.
Ricominciarono a scavare. Ben presto trovarono un mucchio
di ossa umane, dei bottoni di metallo, alcune monete d'oro e
d'argento e una cassa di legno di forma oblunga. Era fasciata da
lamine in ferro battuto e il coperchio era chiuso da due
catenacci che William tremando e palpitando per l'ansia aprì
rapidamente.
La cassa conteneva un tesoro di valore incalcolabile:
quattrocentocinquantamila dollari in monete francesi, spagnole,
tedesche e inglesi, centodieci diamanti, diciotto rubini,
trecentodieci smeraldi, ventuno zaffiri e un opale, una quantità
enorme di ornamenti in oro massiccio, anelli, orecchini, catene,
ottantatré crocifissi d'oro, cinque incensieri, centonovantasette
orologi di grande bellezza: il tutto per un valore di un milione e
mezzo di dollari.
Il tesoro fu trasportato a poco a poco nella capanna di
Legrand. Poe moriva dalla voglia di sapere come l'amico ne
avesse scoperto l'esistenza e questi si affrettò a raccontarglielo.
Fino a questo momento il lettore non ha potuto avere che
un'idea imperfetta e approssimativa del tipo di racconto di
fronte a cui si trova. Non ho potuto descrivervi la
sovreccitazione morbosa di William durante quella famosa
notte. D'altro canto, la scoperta del tesoro rassomiglia a tutte le
scoperte del genere che avete avuto l'occasione di leggere: a
parte la messinscena dello scarabeo e del teschio, è una
sequenza di luoghi comuni.
Ma arriviamo adesso alla parte davvero singolare e
pittoresca della novella, alla serie di deduzioni che portarono
Legrand a scoprire il tesoro.
Egli cominciò col ricordare all'amico lo schizzo grossolano
dello scarabeo che aveva fatto durante la sua prima visita e la
sua somiglianza con una testa di morto. Allora lo aveva
disegnato su un foglio sottilissimo di pergamena.
Aveva trovato quel foglio alla punta dell'isola, vicino ai resti
di uno scafo naufragato il giorno stesso in cui aveva scoperto lo
scarabeo. Ed aveva avvolto l'insetto proprio nella pergamena
spiegazzata.
Poi aveva ripensato allo scafo e si era ricordato che il
teschio era l'emblema arcinoto della pirateria. Erano già due
anelli di una grande catena.
Ma se il teschio non era sulla pergamena quando William
aveva disegnato lo scarabeo, come mai era spuntato fuori
quando aveva dato il foglio a Poe? Proprio nel momento in cui
quest'ultimo stava per esaminarlo, il cane di Legrand gli era
saltato addosso per giocare. Cercando di allontanarlo, aveva
avvicinato al fuoco il foglio e il calore della fiamma, per effetto
di una preparazione chimica, aveva fatto riapparire il disegno
fino ad allora invisibile.
Dopo che l'amico era andato via, William aveva ripreso la
pergamena, l'aveva sottoposta all'azione della fiamma e aveva
visto apparire, in un angolo del foglio diagonalmente opposto
al punto su cui era stata disegnata la testa di morto, la figura di
un capretto.
Ma quale relazione poteva esserci fra dei pirati e un
capretto? Ed eccola la relazione: era un certo capitano Kidd 8
(kid in inglese significa "capretto"), che un tempo era stato
8
Questo pirata è realmente esistito. Cooper lo nomina spesso nei suoi
romanzi (N.d.A.).
molto famoso. Quella figura poteva essere la sua firma
geroglifica e il teschio aveva l'aria di essere un bollo o un
sigillo. William fu perciò indotto naturalmente a cercare il testo
di una lettera fra il sigillo e la firma. Ma sembrava che questo
testo non esistesse.
E tuttavia gli tornavano in mente tutte le storie di Kidd. Un
tempo circolava la voce che il capitano e i suoi compagni
avevano sotterrato somme enormi provenienti dalle loro azioni
piratesche in qualche punto della costa dell'Atlantico. Il tesoro
doveva trovarsi ancora nel suo nascondiglio perché altrimenti
non se ne sarebbe più parlato. Perciò Legrand arrivò alla
conclusione che l'indicazione del nascondiglio era contenuta in
quel pezzo di pergamena.
Lo aveva pulito accuratamente, lo aveva messo in una
casseruola sui carboni ardenti e, dopo qualche minuto, aveva
notato che il foglio era ricoperto in parecchi punti da segni che
sembravano cifre allineate. Dopo averlo scaldato un'altra volta,
aveva visto apparire dei caratteri vergati grossolanamente in
rosso.
Questo era il suo racconto. Dopo averlo terminato, allungò
la pergamena a Poe che vi lesse quanto segue:
53‡‡ + 305))6*;4826)4‡.)4‡); 806*; 48 + 8¶60))85; 1‡(;:‡ *8 +
83(88)5* + ; 46(;88 *96*?;8)*‡(;485);5* + 2:*‡(;4956 *2(5*—
4)8¶8*; 4069285);) 6 + 8) 4‡‡; l(‡9;48081; 8:8‡l; 48 +
85;4)485 + 528806*81(‡9;48;(88;4(‡?34;48)4‡;161;: 188;‡?;
Poe vedendo quella successione di cifre, di punti, di linee, di
punti e virgola, di parentesi, confessò di brancolare ancora nel
buio. Lo avreste detto anche voi, cari lettori! Ebbene, l'autore
sta per svelare l'enigma con una logica mirabile. Seguitelo,
perché questa è la parte più ingegnosa della novella.
Il primo quesito da sciogliere era la lingua della cifra, ma in
questo caso il gioco di parole su Kidd non si poteva fare che in
inglese e doveva perciò trattarsi di questa lingua.
Adesso lascio la parola a Legrand.
«Osservate — egli disse — che fra le varie parole non esiste
divisione: se vi fossero state divisioni, la soluzione sarebbe
stata relativamente facile. In questo caso avrei cominciato con
un confronto ed un'analisi delle parole più brevi e se avessi
trovato, come è più probabile, una parola di una sola lettera
(«a» per esempio o «I»), avrei ritenuto la soluzione assicurata.
Ma non essendoci divisioni, il mio primo passo era di rilevare
quali fossero le lettere predominanti, come anche quali fossero
quelle che capitavano più raramente. Le contai tutte e potei
stabilire la tavola seguente:
Il
»
»
»
»
»
»
»
»
carattere 8
» ;
»
» 4 »
» ‡ »
» * »
» 5 »
» 6 »
» + »
» 1 »
si
trova
»
»
»
»
»
»
»
»
33
26
19
16
16
13
12
11
8
volte
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
0
9
2
:
3
?
¶
─
•
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
8
6
5
4
4
3
2
1
1
»
»
»
»
»
»
»
»
»
«Ora la lettera che in inglese ricorre più spesso è la e. Le
altre si succedono in quest'ordine: a, o, i, d, h, n, r, s, t, u, y, c,
f, l, m, w, b, k, p, q, x, z. La e predomina così notevolmente che
è raro trovare una sola frase di una certa lunghezza nella quale
essa non sia la lettera più frequente.
«Noi abbiamo dunque, fin dal principio, una base
d'operazione che è qualche cosa di più di una mera congettura
[…] Poiché il nostro carattere predominante è l'8, cominceremo
a prenderlo per la e dell'alfabeto naturale. Per verificare questa
supposizione, vediamo prima di tutto se il numero 8 si trova
spesso raddoppiato, poiché la e in inglese si raddoppia molto di
frequente, come per esempio nelle parole "meet, speed, seen,
been, agree", ecc. Nel caso nostro, a dispetto della brevità del
crittogramma, lo troviamo raddoppiato non meno di cinque
volte.
«Prendiamo dunque l'8 per la e. Ora di tutte le parole della
nostra lingua la parola "the" è la più comune: cerchiamo perciò
se non ci siano ripetizioni di tre caratteri posti nello stesso
ordine dei quali l'8 sia l'ultimo. Se ne troveremo, è probabile
che rappresentino la parola "the". Infatti ne troviamo non meno
di sette, e i caratteri sono ;48. Possiamo quindi arguire che il
punto e virgola rappresenta la t, e che il 4 rappresenta l'h, e l'8
la e, poiché il significato di quest'ultimo segno ne è
confermato. Così abbiamo fatto un gran passo avanti.
«Ma avendo spiegato una sola parola, siamo in grado di
stabilire un punto molto importante, cioè il principio e la fine di
altre parole.
«Prendiamo per esempio il penultimo caso in cui si presenta
la combinazione:
;48
quasi alla fine del crittogramma. Sappiamo che il segno ;,
che viene immediatamente dopo, è il principio di una parola, e
dei sei caratteri che seguono il "the", ne conosciamo già non
meno di cinque. Mettiamo quindi al posto dei caratteri le lettere
che essi rappresentano, lasciando vuoto lo spazio per quella che
ancora non conosciamo:
t eeth
«Qui siamo subito in grado di scartare il th che non può
esser parte della parola che comincia colla prima t, poiché,
sostituendo alla lettera mancante tutte le lettere dell'alfabeto,
troviamo che nessuna parola può essere formata in modo da
terminare con th. I caratteri si riducono quindi a
t ee
e riprendendo da capo, se occorre, tutto l'alfabeto, arriviamo
alla parola "tree" (albero) come la sola versione possibile.
Abbiamo così guadagnato una nuova lettera r rappresentata dal
segno (, ed abbiamo anche due parole unite: "the tree"
(l'albero).
«Andando avanti, a poca distanza, ritroviamo la
combinazione ;48 e ce ne serviamo come termine per la parola
immediatamente precedente. Abbiamo quindi la formula
seguente:
the tree ;4 (‡ ? 34 the,
o sostituendo, dove possiamo, le lettere naturali, abbiamo:
the tree thr ‡? 34 the.
«Ora, se al posto dei caratteri che ci sono ancora ignoti
mettiamo spazi e puntini, avremo:
the tree thr… h the
dove la parola "through" (attraverso) balza subito fuori.
Ma questa scoperta ci dà altre lettere o, u, g, rispettivamente
rappresentate dai caratteri:
‡,?e3.
«Ora, se cerchiamo con molta attenzione nel crittogramma
le varie combinazioni di caratteri conosciuti, troviamo, non
lontano dall'inizio, questa combinazione:
83 (88
ossia "egree", che senza alcun dubbio è la desinenza della
parola "degree" (grado) che ci offre ancora una nuova lettera d
rappresentata dal segno +.
«Quattro lettere dopo la parola "degree", troviamo la
combinazione:
;46 (; 88*
dalla quale, traducendo le lettere che conosciamo e
rappresentando con un punto quella sconosciuta, abbiamo:
th.rtee.
composizione che ci suggerisce immediatamente la parola
"thirteen" (tredici) e ci fornisce due nuove lettere i e n,
rappresentate dalle figure 6 e *.
«Risalendo ora all'inizio del crittogramma troviamo la
combinazione:
53 ‡‡ +.
«Traducendola, come sopra, abbiamo:
good,
ciò che ci prova che la prima lettera deve essere a e che di
conseguenza le prime due parole sono a good (un buon, una
buona).
«Ora, per evitare confusioni, è tempo di disporre in forma di
tavola, la chiave che abbiamo trovato. Si presenterà così:
5
+
8
3
4
6
*
‡
(
;
rappresenta
"
"
"
"
"
"
"
"
"
d
e
g
h
i
n
o
r
t
«Abbiamo così non meno di dieci lettere delle più
importanti, e mi sembra inutile continuare con i particolari
della soluzione […]. Ora non mi resta che darvi la traduzione
completa dei caratteri del documento come sono stati decifrati.
Eccola:
«A good glass in the bishop's hostel in the devil's seat fortyone degrees and thirteen minutes northeast and by north main
branch seventh limb east side shoot from the left eye of the
death's-head a bee-line from the tree through the shot fifty feet
out.
«Il che significa:
«Un buon vetro nell'albergo del vescovo nella seggiola del
diavolo quarantuno gradi e tredici minuti nord-est quarto di
nord fusto principale settimo ramo lato est, lascia cadere
dall'occhio mancino del teschio una linea retta dall'albero
attraverso la palla cinquanta piedi al largo».
Il crittogramma era decifrato e sfido i miei lettori a rifare i
calcoli dello scrittore: ne potranno controllare l'esattezza. Ma
cosa vuol dire tutto quel gergo e come aveva fatto Legrand a
ricavarne un significato?
Il suo primo sforzo era stato di mettere la punteggiatura. Chi
aveva scritto il testo s'era fatto un dovere di raggruppare le
parole senza dividerle, ma, non essendo molto abile, aveva
infittito i caratteri proprio nei punti in cui si richiedevano una
pausa o un'interruzione. Tenete a mente questa riflessione
perché denota una conoscenza profonda della natura umana.
Ora, il manoscritto presentava queste divisioni:
«Un buon vetro nell'albergo del vescovo nella seggiola del
diavolo — quarantuno gradi e tredici minuti — nord-est quarto
di nord — fusto principale settimo ramo lato est — lascia
cadere dall'occhio mancino del teschio — una linea retta
dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi al largo».
Dopo lunghe ricerche, Legrand era arrivato con suprema
sagacia alle seguenti conclusioni.
Scoprì dapprima, a quattro miglia a nord dell'isola, un
vecchio maniero chiamato Castello di Bessop. Era un ammasso
di picchi e di rocce con in cima una cavità che era denominata
La Seggiola del Diavolo. Il resto era stato semplice: il buon
vetro significava un cannocchiale e, puntandolo a 41° 13' nordest quarto di nord, si poteva vedere un grande albero. Nel suo
fogliame brillava un punto bianco, il teschio umano.
L'enigma era risolto. William raggiunse l'albero, trovò il
fusto principale e il settimo ramo lato est e capì che si doveva
far passare una palla attraverso l'occhio sinistro del teschio e
che una linea retta tracciata dal tronco dell'albero attraverso la
«palla» per una distanza di cinquanta piedi al largo gli avrebbe
indicato il punto preciso in cui era sepolto il tesoro. Seguendo
la sua natura fantastica e volendo punire l'amico con una
piccola mistificazione, aveva usato lo scarabeo invece di una
palla. E si era così arricchito di più di un milione di dollari.
Questa novella curiosa, stupefacente, eccita l'interesse del
lettore con effetti nuovi ed insoliti. È piena di osservazioni, di
deduzioni di altissima logica e da sola basterebbe ad assicurare
allo scrittore americano la celebrità che merita.
Secondo me, è la più notevole di tutte le storie straordinarie,
quella in cui si manifesta più compiutamente il genere
letterario che ora viene definito genere Poe.
III
LA FROTTOLA DEL PALLONE - L'INCOMPARABILE
AVVENTURA DI UN CERTO HANS PFAALL - IL MANOSCRITTO
TROVATO IN UNA BOTTIGLIA - UNA DISCESA NEL
MAELSTRÖM - LA VERITÀ SUL CASO VALDEMAR - IL GATTO
NERO - L'UOMO DELLA FOLLA - LA CADUTA DELLA CASA
USHER - TRE DOMENICHE IN UNA SETTIMANA.
Parliamo ora della Frottola del pallone. Vi dirò in poche
parole che narra di una traversata dell'Atlantico, compiuta in tre
giorni da otto persone. Il racconto del viaggio apparve nel New
York Sun. Furono in molti a crederci senza nemmeno darsi la
pena di leggere il resoconto, perché i mezzi meccanici indicati
da Poe (la vite d'Archimede che avrebbe fatto da propulsore e il
timone) sono assolutamente insufficienti a dirigere un pallone.
Gli aeronauti, partiti dall'Inghilterra per Parigi, sono trascinati
in America, all'isola Sullivan. Durante la traversata salgono
fino a venticinquemila piedi. La novella è breve e gli incidenti
di viaggio risultano più strani che veri.
Preferisco la storia intitolata L'incomparabile avventura di
un certo Hans Pfaall, sulla quale vi intratterrò più a lungo. Ma
devo dirvi subito che anche in questo caso le leggi più
elementari della fisica e della meccanica sono allegramente
trasgredite. E questo mi ha sempre meravigliato in Poe, che
avrebbe potuto rendere più verosimile il suo racconto con
qualche invenzione. Dopo tutto si tratta di un viaggio sulla
Luna e non si deve essere troppo difficili e complicati sui
mezzi di trasporto.
Questo Hans Pfaall era un criminale stravagante, una specie
di assassino sognatore che, per non pagare i suoi debiti, decise
di scappare sulla Luna. Partì da Rotterdam un bel mattino,
dopo aver fatto saltare in aria i suoi creditori per mezzo di
un'apposita mina.
Devo raccontarvi adesso come Pfaall compì quel viaggio
impossibile. Aveva riempito il suo pallone di un gas di sua
invenzione, risultato dalla combinazione di una certa sostanza
metallica e semimetallica e di un acido comunissimo. Questo
gas era uno dei costituenti dell'azoto, che fino ad allora era
considerato irriducibile, e la sua densità era trentasette volte
inferiore a quella dell'idrogeno. Eccoci dunque, «fisicamente»
parlando, nel regno della fantasia. Ma non è tutto!
Sapete bene che la pressione dell'aria fa salire un aerostato.
Giunto ai limiti superiori dell'atmosfera, a circa seimila tese, un
pallone, se mai potesse arrivarci, si fermerebbe subito e
nessuna forza umana potrebbe spingerlo oltre. Ed a questo
punto Pfaall, o meglio Poe in persona, si lancia in discussioni
molto bizzarre, tese a dimostrare che, al di là dei limiti
considerati insuperabili, esiste ancora un ambiente etereo.
Queste discussioni sono portate avanti con un notevole aplomb
e le argomentazioni si basano quasi sempre su dati falsi, con il
rigore più illogico. In breve, egli arriva a concludere che poteva
darsi il caso, ed era una forte probabilità, che ad un certo punto
della sua ascensione si sarebbe trovato, con i diversi pesi riuniti
del suo immenso pallone (del gas estremamente rarefatto che
esso conteneva, della navicella e del suo contenuto) ad
eguagliare il peso della massa atmosferica spostata.
Questo è il punto di partenza, ma andiamo avanti! Va bene
salire, salire sempre, ma si deve anche respirare. Pfaall porta
allora con sé un certo apparecchio che può condensare
l'atmosfera, per quanto sia rarefatta, in quantità sufficiente da
permettergli di respirare.
Ed ecco che quella stessa atmosfera che deve essere
condensata per far funzionare i polmoni, viene considerata
abbastanza densa, nel suo stato naturale, da sollevare il pallone.
Le contraddizioni sono evidenti! E non voglio insistere oltre.
D'altra parte, una volta che si è accettato il punto di
partenza, il viaggio di Pfaall è meraviglioso, ricco di
osservazioni inattese e singolari. L'aeronauta trascina con sé il
lettore nelle zone più elevate dell'atmosfera. Attraversa
rapidamente una nube tempestosa; a nove miglia e mezzo di
altezza ha l'impressione che gli occhi gli escano dalle orbite e
che gli oggetti contenuti nella navicella gli appaiano
mostruosamente deformati. Sale sempre; viene preso da uno
spasmo; è costretto a praticarsi un salasso aprendosi una vena
con un temperino e prova una sensazione immediata di
sollievo.
A un'altezza di diciassette miglia — dice Pfaall — l'aspetto
della Terra era davvero magnifico:
«Ad ovest, a nord, a sud, lontano fin dove potevo spingere
lo sguardo, scorgevo una distesa sterminata di mare,
calmissimo in apparenza, che ad ogni momento diventava di un
turchino sempre più cupo. Lontanissimo poi, verso est, si
allungavano perfettamente distinguibili le isole britanniche, le
coste atlantiche della Francia e della Spagna e persino parte di
quelle africane. Non trapelava traccia alcuna di edifici, e le più
orgogliose città degli uomini erano completamente scomparse
dalla faccia della Terra».
Pfaall raggiunge un'altezza di venticinque miglia, per cui il
suo campo visivo abbraccia non meno della trecentoventesima
parte della superficie terrestre. Prepara il condensatore
chiudendo la navicella in un sacco di caucciù. Condensa
l'atmosfera e inventa un apparecchio ingegnoso che,
bagnandogli il viso, lo fa svegliare ad intervalli regolari di
un'ora e gli consente di rinnovare l'aria viziata.
Giorno per giorno tiene un diario del viaggio. Era partito il
1° aprile; il 6 si trova sopra al polo; osserva l'immensa banchisa
e vede allargarsi il suo orizzonte a causa dello schiacciamento
della Terra. Il 7 pensa di trovarsi a un'altezza di
settemiladuecentocinquantaquattro miglia. Sotto i suoi occhi si
stende il massimo diametro terrestre e l'equatore segna il limite
del suo orizzonte.
Da quel momento il pianeta natale sembra rimpicciolirsi, ma
Pfaall non riesce a vedere la Luna che è al suo zenit ed è
nascosta dal pallone. Il 15 è terrorizzato da un rumore
spaventoso e pensa di aver sfiorato un immenso aerolito. Il 17
sente di nuovo i morsi della paura: ha l'impressione che il
diametro terrestre sia d'improvviso aumentato, che sia tornato
di proporzioni enormi. E forse scoppiato il pallone? E sta
dunque precipitando a una velocità eccezionale, pazzesca? Gli
tremano le ginocchia, gli battono i denti, i capelli gli si rizzano
sulla testa. Ma poi cerca di riflettere ed è facile immaginare la
sua gioia quando si accorge che sta scendendo velocemente
sulla Luna, la Luna che in tutta la sua gloria si stende ai suoi
piedi.
Mentre stava dormendo, il pallone aveva mutato direzione e
ora stava scendendo sul satellite luminoso, le cui montagne
vulcaniche erano in continua eruzione.
Il 19 aprile, nonostante che le scoperte moderne provino
l'assenza completa di atmosfera intorno alla Luna, Pfaall si
accorge che l'aria si fa sempre più densa. Il suo apparecchio
funziona senza alcuno sforzo e può persino aprire l'involucro di
caucciù. Continua a scendere con una rapidità paurosa. Si
libera di tutta la zavorra, di ogni oggetto contenuto nella
navicella e precipita a capofitto «nel cuore di una città dal
fantastico aspetto, in mezzo a una folla di mostruosi omiciattoli
i quali rimasero tutti, senza che nessuno pronunziasse una
sillaba né si degnasse di aiutarmi, a guardarmi ironicamente».
Il viaggio era durato diciannove giorni. Pfaall aveva
attraversato all'incirca duecentotrentunomilanovecentoventi
miglia. Guardando la Terra, l'aveva vista «come un largo disco
opaco di rame, di un diametro di circa due gradi, immobile
negli spazi e ornato, da una parte, da una falce d'oro
scintillante. Non vi si distingueva alcuna traccia dei continenti
o del mare. Si notavano solo delle macchie in movimento e le
cinture delle zone tropicali ed equatoriali».
Finisce qui la strana avventura di Hans Pfaall. Ma in che
modo questo racconto giunse al borgomastro di Rotterdam,
Mynheer Superbus von Underduck? Fu per mezzo di un
abitante della Luna: Hans chiedeva di poter tornare sulla Terra
e di essere graziato del suo delitto. In cambio si impegnava a
comunicare le sue curiose osservazioni sul nuovo pianeta: sulle
sue «straordinarie alternative di caldo e di freddo»; sulla luce
solare implacabile ed ardente anche per quindici giorni di
seguito; e sulla temperatura glaciale, più che polare, che si ha
nell'altra quindicina; sul trapasso continuo di umidità per
distillazione come nel vuoto, dal punto immediatamente sotto il
Sole al punto più lontano da esso; sulla razza dei suoi abitanti e
sui loro usi, costumi e organizzazione politica; sulla loro
singolare struttura fisica, la loro bruttezza, la mancanza di
orecchie, inutili in un 'atmosfera così diversa dalla nostra e la
conseguente loro ignoranza dell'uso e proprietà del linguaggio;
sul modo singolare con cui comunicano tra loro;
sull'incomprensibile rapporto che corre tra un dato abitante
della Luna e un dato abitante della Terra, analogo a quello, e
da esso dipendente, che regola i movimenti del nostro pianeta e
del suo satellite, e per effetto del quale esistenza e destino degli
abitanti dell'uno sono collegati ad esistenza e destino degli
abitanti dell'altro. E avrebbe soprattutto riferito «riguardo agli
oscuri, terribili misteri che hanno luogo in quelle regioni della
Luna che mai, per la concordanza quasi miracolosa della
rotazione del satellite con la sua rivoluzione siderale intorno
alla Terra, sono esposte e mai, grazie a Dio, saranno esposte
all'osservazione del telescopio umano».
Riflettete attentamente su tutto ciò, cari lettori, e meditate
sulle pagine magnifiche che Edgar Poe ha scritto su questi
strani fatti! Ha preferito fermarsi qui. Conclude addirittura il
suo racconto sostenendo che si tratta certamente di una
mistificazione. Auspica perciò, e noi con lui, che venga
finalmente scritta quella storia etnografica, fisica e morale della
Luna che ancora oggi non esiste. Fino a quando qualcuno più
ispirato o più audace non compia quell'impresa, dobbiamo
rinunciare a sapere in qual modo particolare siano organizzati i
lunari, come comunichino tra loro, sprovvisti come sono
dell'uso della parola e soprattutto quale correlazione esista fra
noi e gli abitanti del nostro satellite. Mi piace credere che, data
la condizione d'inferiorità del loro pianeta, saranno buoni tutt'al
più a farci da domestici.
Vi ho detto che Edgar Poe ricava gli effetti più strani dalla
sua bizzarra immaginazione. Vi darò gli esempi più rilevanti
citando ancora qualcuno dei suoi racconti. Il manoscritto
trovato nella bottiglia, per esempio, un racconto fantastico in
cui i superstiti di un naufragio sono raccolti da un vascello
impossibile, guidato da ombre; Una discesa nel Maelström,
viaggio vertiginoso, tentato da alcuni pescatori di Lofoden; La
verità sul caso Valdemar, dove la morte di un agonizzante
viene differita mediante il sonno magnetico; Il gatto nero,
storia di un assassino il cui delitto viene scoperto a causa di un
gatto sotterrato malamente con la vittima.
C'è poi L'uomo della folla, personaggio eccezionale, che
riesce a vivere solo in mezzo alla folla e che Poe, sorpreso,
toccato, attratto contro la sua volontà, segue fin dal mattino tra
la pioggia e la nebbia di Londra, nelle strade popolate di gente,
nei bazar tumultuosi, nei gruppi rumorosi, nei bassifondi dove
si accalcano gli ubriachi, dovunque ci sia folla, che è il suo
elemento naturale. E infine La caduta della casa Usher,
avventura terrificante di una fanciulla che viene creduta morta,
che viene seppellita e che ritorna…
Ultima della lista è la novella intitolata Tre domeniche in
una settimana. È meno cupa delle altre, ma molto bizzarra.
Come può esistere una settimana con tre domeniche? Può
esistere eccome: per tre persone e Poe lo dimostra
perfettamente.
La Terra infatti ha una circonferenza di ventiquattromila
miglia e ruota sul suo asse da ovest a est 9 in ventiquattro ore:
con una velocità quindi di mille miglia all'ora. Supponiamo che
il primo individuo parta da Londra e faccia mille miglia in
direzione est. Vedrà il Sole un'ora prima del secondo individuo
che non si è mosso. Dopo altre mille miglia, lo vedrà due ore
prima. Alla fine del suo giro del mondo, tornato al punto di
partenza, sarà in anticipo di un'intera giornata sul secondo
individuo.
Se un terzo fa lo stesso viaggio, nelle stesse condizioni, ma
in senso inverso, in direzione ovest, dopo il suo giro del
mondo, sarà in ritardo di una giornata. Ma che succede allora ai
tre personaggi riuniti, una bella domenica, al punto di
partenza? Succede che per il primo domenica era ieri, per il
secondo è oggi e per il terzo è domani.
È uno scherzo cosmografico, insomma, espresso in termini
molto curiosi.
9
Correggiamo l'errore di Verne che scambia est con ovest e viceversa,
basandosi sulla traduzione di Hughes (ed. cit., p.152). L'errore è stato
rilevato da F. Lacassin in J. Verne, Textes oubliés, cit., p. 142 e p. 153.
IV
AVVENTURE DÌ GORDON PYM - AUGUSTUS BARNARD - IL
BRIGANTINO GRAMPUS - IL NASCONDIGLIO IN FONDO
ALLA STIVA - IL CANE IDROFOBO - LA LETTERA DI SANGUE
- RIVOLTA E MASSACRO - UN FANTASMA A BORDO - LA
NAVE DEI MORTI - NAUFRAGIO - TORTURE DELLA FAME VIAGGIO AL POLO SUD - UOMINI NUOVI - L'ISOLA
STRAORDINARIA - SEPOLTI VIVI - LA GRANDE FIGURA
UMANA - CONCLUSIONE.
Terminerò questo studio delle opere di Poe parlando del suo
romanzo. Si intitola Avventure di Arthur Gordon Pym ed è più
lungo dei suoi racconti più lunghi. È forse più umano delle
storie straordinarie, ma non per questo meno fuori dal comune.
Narra fatti drammatici ed insoliti; ma sarete voi a giudicare.
Il romanzo inizia con una lettera del suddetto Gordon Pym
che vuol dimostrare che le sue avventure non sono
immaginarie come potrebbe lasciar credere la firma ad esse
apposta dal signor Poe. Intende provare la loro autenticità e
noi, senza andare così lontano, vedremo se è perlomeno
probabile, per non dire possibile, che siano realmente accadute.
È lo stesso Gordon Pym che racconta.
Fin da bambino aveva avuto la passione dei viaggi e
malgrado una certa disavventura che stava per costargli la vita,
ma che non era valsa a correggere le sue inclinazioni, un giorno
progettò, contro il volere e all'insaputa della famiglia,
d'imbarcarsi sul brigantino Grampus, attrezzato per la caccia
alla balena.
Un suo amico, Augustus Barnard, che faceva parte
dell'equipaggio, avrebbe favorito il progetto preparando un
nascondiglio nella stiva dove Arthur sarebbe rimasto fino al
momento della partenza.
Tutto procede senza alcuna difficoltà e il nostro eroe sente il
brigantino mettersi in moto. Ma dopo tre giorni di cattività, la
sua mente comincia a confondersi, ha dei crampi alle gambe e
le provviste di cibo vanno a male. Passano le ore, Augustus
non si fa vedere e il prigioniero è tormentato da una nera
inquietudine.
Poe descrive con immagini estremamente vigorose e con
parole efficaci le allucinazioni, i sogni, i miraggi bizzarri
dell'infelice e le sue sofferenze fisiche e morali. Ha perso la
parola, ha la testa annebbiata e in quel momento di
disperazione sente che le zampe di un mostro enorme gli
opprimono il petto e ne vede scintillare gli occhi come globi
infuocati. Il cervello in fiamme, sta per uscir di senno, quando
il mostro tenebroso si mette a fargli delle carezze, con le più
pazze dimostrazioni di affetto e di gioia. Non era altri che
Tiger, il suo terranova, che lo aveva seguito a bordo.
Era suo amico e compagno da sette anni. Arthur ritorna a
sperare e tenta di riannodare il filo delle idee. Ha smarrito la
sensazione del tempo: da quanti giorni è immerso in quella
inerzia morbosa?
È agitato dalla febbre e per colmo di sventura la brocca
d'acqua è vuota. Decide allora di raggiungere, a qualunque
costo, la botola, ma i rollii e i beccheggi del brigantino urtano e
spostano la merce stipata nella cala. Ad ogni momento c'è il
rischio che si blocchi l'unica via d'uscita. Tuttavia, dopo mille
sforzi dolorosi, raggiunge lo sportello della botola. Ma cerca
invano di forzarlo con la lama del coltello: è tutto inutile!
Pazzo di disperazione, si trascina di nuovo spossato, esausto, al
suo nascondiglio e si butta sul materasso. Tiger cerca di
consolarlo con le sue carezze. Il suo comportamento però
spaventa il padrone: il cane emette sordi lamenti ed ogni volta
che Arthur allunga la mano per toccarlo lo trova disteso sul
dorso, con le zampe in aria.
Notate la sequenza di eventi attraverso cui Poe ha preparato
il lettore a credere a tutto, ad aspettarsi di tutto. Ma vi sentite lo
stesso rabbrividire al titolo del capitolo successivo: Tiger
idrofobo! 10 Avete la tentazione di interrompere la lettura.
Ma prima di provare l'orrore supremo, il nostro fa un'altra
scoperta: accarezzando Tiger si accorge che sotto la sua spalla
sinistra è legata con una cordicella una strisciolina di carta. Va
alla ricerca disperata dei suoi zolfanelli e stropicciando forte un
po' di zolfo ottiene una luce pallidissima che si estingue
rapidamente. A questa specie di chiarore riesce a leggere solo
queste parole:… sangue — Rimani nascosto, ne va della tua
vita.
Sangue! Quella parola! in quella situazione! E proprio
allora, al chiarore del fosforo, avverte un singolare mutamento
nel comportamento di Tiger! Senza dubbio la mancanza
d'acqua lo aveva reso idrofobo. Adesso se il padrone cercava di
uscire dal suo nascondiglio, il cane sembrava volergli sbarrare
la strada. Allora questi, terrorizzato, avviluppandosi nel
mantello per proteggersi dai morsi, lotta disperatamente con
l'animale. Ha la meglio e riesce a chiuderlo nella cassa che gli
serviva da nascondiglio. Perde i sensi. Un rumore, un
mormorio, il suo nome pronunciato a voce bassa ed esitante lo
risvegliano dal torpore in cui è precipitato. Augustus gli è
accanto e gli accosta alle labbra una bottiglia d'acqua.
Ma cosa era successo a bordo? L'equipaggio si era
ammutinato e il capitano e ventuno uomini erano stati
eliminati. Augustus era stato risparmiato grazie alla protezione
inattesa di un certo Peters, un marinaio dalla forza prodigiosa.
Dopo la spaventosa carneficina, il Grampus aveva continuato
10
È Baudelaire che, nella sua versione, mette i titoli ai capitoli del romanzo.
la sua navigazione e il racconto delle sue avventure, ci dice il
narratore, «conterrà, nella sua ultima parte, episodi di natura
così eccezionale e così fuori dai limiti dell'umana credibilità
che io, nel continuarlo, dispero di poter essere mai creduto e
non confido che nel tempo e nel progresso della scienza
affinché talune delle mie più rilevanti e meno plausibili
affermazioni trovino conferma».
Ma procedo rapidamente. I capi della rivolta erano due, il
secondo e il cuoco Peters. Fra i due esisteva una sorda rivalità.
Barnard decide di approfittarne e rivela a Peters, i cui
sostenitori fra gli ammutinati diminuiscono sempre più, la
presenza di Gordon Pym a bordo. Meditano d'impadronirsi
della nave. L'occasione favorevole è la morte di un marinaio.
Arthur fingerà di essere il suo fantasma e i congiurati
approfitteranno del panico provocato dalla sua apparizione.
La messinscena produce un terrore agghiacciante; inizia lo
scontro e Peters e compagni, aiutati da Tiger, hanno la meglio.
Rimangono soli a bordo con un marinaio di nome Parker, che
era sopravvissuto e che si unisce a loro.
C'è una tempesta spaventosa! La nave, dopo una rollata
paurosa, s'inclina sulla fiancata e, poiché lo stivaggio è
scivolato da una parte, rischia di capovolgersi del tutto. Ma si
riassesta in qualche modo.
Sopravvengono le torture della fame e falliscono
miseramente tutti i tentativi di arrivare alla cambusa: sono
descritti con ritmo incalzante.
Quando più atroci diventano le sofferenze avviene un fatto
terrificante, fra i più congeniali al talento di Poe.
Una nave è in vista dei naufraghi, un grosso brigantino
costruito all'olandese, dipinto di nero e con una pomposa
polena dorata. Si avvicina lentamente, poi si allontana e infine
torna indietro. Sembra seguire una rotta incerta. In un'ultima
imbardata passa a soli venti piedi dal Grampus e i naufraghi
possono finalmente abbracciare con lo sguardo tutto il ponte
della nave. Che orrore! È coperto di cadaveri ed a bordo non
c'è un solo essere vivente! Ma sì, c'è un corvo 11 che volteggia
su tutti quei morti. Poi lo strano vascello scompare, portando
con sé il suo orrendo e insondabile mistero.
Nei giorni seguenti i tormenti della fame e della sete
diventarono intollerabili. Le torture della zattera della Medusa
non potrebbero dare che un'idea imperfetta di ciò che accadde a
bordo; si discusse freddamente di cannibalismo e si tirò a sorte.
Parker non ebbe fortuna.
Gli sventurati andarono avanti così fino al 4 agosto.
Barnard, stremato, era morto. La nave, per un moto
irresistibile, si capovolge a poco a poco e rimane con la chiglia
in aria. I naufraghi vi si aggrappano e riescono a sfamarsi con
delle grosse ostriche che avevano ricoperto la chiglia e che si
rivelano un cibo eccellente. Ma non hanno più acqua.
Infine, il 6 agosto, dopo nuovi angosciosi patimenti,
nell'alternarsi di speranze e delusioni, sono raccolti dalla
goletta Jane Guy di Liverpool, comandata dal capitano Guy.
Sono andati alla deriva per non meno di venticinque gradi da
nord a sud.
La Jane Guy era diretta nei mari del sud in cerca di vitelli
marini e il 18 ottobre gettò l'ancora a Christmas Harbour,
nell'Isola della Desolazione.
Il 12 novembre salpò da Christmas Harbour e raggiunse, in
11
Il testo originale parla di un gabbiano. Qui c'è forse una suggestione del
Corvo di Poe.
una quindicina di giorni, le isole di Tristan da Cunha. Il 12
dicembre il capitano Guy decise di spingersi verso il polo sud.
A questo punto il narratore si trasforma in un curioso erudito
e racconta le scoperte avvenute in quei mari parlandoci dei
tentativi del celebre Weddell, i cui errori sono stati rettificati
dal nostro Dumont d'Urville durante i suoi viaggi sull'Astrolabe
e la Zélée 12 .
Il 26 dicembre la Jane Guy superava il 63° parallelo e si
trovava in mezzo alla banchisa. Il 18 gennaio l'equipaggio
pescava la carcassa di un animale terrestre di aspetto
singolarissimo:
«Era lungo tre piedi e alto non più di sei pollici, con le
gambe cortissime e i piedi muniti di lunghi artigli di un rosso
acceso che parevano corallo. Aveva il corpo tutto rivestito d'un
fitto pelame come di seta, perfettamente bianco. Aveva la coda
sottile come quella di un ratto e lunga circa un piede e mezzo.
La testa somigliava a quella di un gatto, fuorché per le orecchie
che gli pendevano come quelle di un cane. I denti li aveva dello
stesso colore rosso vivo degli artigli».
Il 19 gennaio fu segnalata di nuovo terra sull'83° grado di
latitudine. Dei selvaggi, degli uomini mai visti, con la pelle
nera come il carbone, si avvicinarono alla goletta. Credevano
che la Jane fosse una creatura vivente. Il capitano, incoraggiato
dal comportamento amichevole degli indigeni, decise di
visitare l'interno dell'isola. Con una dozzina di marinai armati
fino ai denti arrivò al villaggio di Klock-Klock dopo tre ore di
marcia. Arthur faceva parte della spedizione. «A mano a mano
che ci si inoltrò nel paese, sempre più andammo convincendoci
di trovarci su una terra in tutto e per tutto diversa da quelle sino
allora visitate dagli uomini civili. Nulla di quanto vedevamo ci
12
In Le Sphinx des glaces Verne riprenderà e svilupperà la storia delle
esplorazioni antartiche, partendo dalle pagine ad esse dedicate nel Gordon
Pym. Ai viaggi di Dumont d'Urville si accenna nel capitolo X della I parte
del romanzo verniano.
tornava familiare».
Gli alberi infatti non somigliavano a nessuno di quelli
caratteristici delle zone torride, le rocce riuscivano nuove nella
massa e nella stratificazione e l'acqua presentava fenomeni
ancora più singolari!
«Sebbene fosse limpida non meno di ogni altra acqua
calcarea esistente, non aveva l'aspetto abituale della
limpidezza. Dispiegava all'occhio tutte le possibili sfumature
della porpora, come una seta cangiante» con le sue sfumature e
i suoi riflessi.
Anche gli animali di quella regione differivano dagli animali
conosciuti, almeno per il loro aspetto.
I marinai della Jane Guy e gli indigeni avevano rapporti
molto amichevoli. Si decise perciò un secondo viaggio
all'interno dell'isola: sei uomini rimasero a bordo della goletta e
tutti gli altri si misero in marcia. Il gruppo, accompagnato dai
selvaggi, si inoltrò per valli strette e tortuose. Incontrò ad un
certo momento un'alta parete di roccia, striata da fenditure, che
attirò l'attenzione di Arthur. Mentre questi stava esaminando
una delle spaccature insieme a Peters e a un certo Wilson,
avvertì — come dice — «una scossa che non avevo mai
provato e che mi diede una vaga idea […] di qualcosa che
crollava alla base del globo terrestre come se fosse arrivato il
giorno della distruzione universale».
Erano sepolti vivi. Dopo essere tornati in sé, Peters e Arthur
si accorsero che Wilson era rimasto schiacciato. I due
sventurati si trovavano in mezzo a una collina costituita da una
roccia morbida, una specie di pietra-sapone. Erano stati
investiti da una frana, ma da una frana artificiale: i selvaggi
avevano fatto precipitare la parete rocciosa sull'equipaggio
della Jane Guy. Erano morti tutti, eccetto loro due.
Scavando un passaggio nella roccia tenera, raggiunsero
allora un'apertura da cui riuscirono a vedere il territorio
circostante che brulicava di indigeni. Stavano attaccando la
nave e i marinai si difendevano a colpi di cannone. Alla fine gli
attaccanti ebbero la meglio e incendiarono la goletta che saltò
in aria in una terribile esplosione. Molte migliaia di uomini vi
persero la vita.
Per parecchi giorni Arthur e Peters rimasero nel labirinto
sotterraneo nutrendosi di nocciole. Il nostro eroe rilevò con
esattezza la forma del labirinto che finiva in tre burroni. Nel
suo racconto ce ne dà addirittura il disegno e riproduce certi
segni che sembravano incisi sulla roccia.
Dopo tentativi sovrumani, i due riuscirono a scendere nella
pianura. Inseguiti da un'orda di selvaggi urlanti,
s'impadronirono di una canoa, dove si era rifugiato un
indigeno, e presero il largo.
Si trovarono allora in mezzo all'oceano Antartico «a più di
ottantaquattro gradi di latitudine, su una fragile canoa, e senza
altre provviste che tre tartarughe»
Usarono le loro camicie per farsi una specie di vela. Ma la
vista della tela impressionò stranamente il prigioniero che
sembrava aver orrore del bianco. Continuarono a navigare
verso sud ed entrarono in una regione di novità e meraviglia:
«Un'alta barriera di vapore grigio si stendeva lungo
l'orizzonte sud e a tratti s'illuminava di lunghe strisce
tremolanti che correvano ora da est a ovest e ora da ovest a est
per poi raccogliersi tutte in una sola linea uniforme».
Fenomeno ancora più strano: la temperatura dell'acqua
aumentava e presto divenne insopportabile. Il mare assunse una
tinta opaca e lattiginosa.
Arthur e Peters appresero dal loro prigioniero che l'isola che
era stata teatro del disastro si chiamava Tsalal. Il povero
diavolo era in preda a violente convulsioni quando vedeva un
qualunque oggetto bianco.
Ad un tratto il mare si agitò e il fenomeno fu accompagnato
da uno strano balenio del vapore in superficie.
«Una finissima polvere bianca, simile a cenere ma che non
era affatto cenere, cadde sull'imbarcazione e su un largo tratto
di mare mentre il balenio luminoso del vapore svaniva e l'acqua
ritornava calma dappertutto».
Andò avanti così per qualche giorno; i tre infelici erano
intorpiditi nel corpo e nello spirito e ormai l'acqua era tanto
calda che non era possibile immergervi la mano.
E cito adesso per intero la pagina finale di questo
stupefacente racconto:
«9 marzo. La strana sostanza come di cenere continuava a
pioverci attorno in enorme quantità. La barriera di vapore era
salita sull'orizzonte sud a un'altezza prodigiosa e cominciava ad
assumere una forma distinta. Io non sapevo paragonarla ad
altro che ad un'immane cateratta la quale precipitasse
silenziosamente in mare dall'alto di qualche favolosa montagna
perduta nel cielo. La gigantesca cortina occupava l'orizzonte in
tutta la sua estensione. Da essa non veniva alcun rumore.
«21 marzo. Una funebre oscurità aleggiava su di noi, ma dai
lattiginosi recessi dell'oceano scaturiva un fulgore che
riverberava sui fianchi della barca. Eravamo quasi soffocati dal
tempestare della cenere bianca che si accumulava su di noi e
riempiva l'imbarcazione, mentre nell'acqua si scioglieva. La
sommità della cateratta si perdeva nell'oscurità della distanza.
Nel frattempo risultava evidente che correvamo diritto su di
essa ad una impressionante velocità. A tratti, su quella cortina
sterminata si aprivano larghe fenditure, che però subito si
richiudevano, attraverso le quali, dal caos di indistinte forme
vaganti che si agitava al di là, scaturivano possenti ma
silenziose correnti d'aria che sconvolgevano, nel loro volo,
l'oceano infiammato.
«22 marzo. L'oscurità si era fatta più intensa e solo il
luminoso riflettersi nelle acque della bianca cortina tesa
dinnanzi a noi ormai la rischiarava. Una moltitudine di uccelli
giganteschi, di un livido color bianco, si alzava a volo
incessantemente dietro a quel velo singolare […]. Fu allora che
la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta
dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere
sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di
proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della
Terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della
neve».
Con queste parole il racconto viene interrotto. E chi mai lo
riprenderà? Qualcuno più audace di me e più ardito
nell'avventurarsi nei dominii dell'impossibile.
Devo credere peraltro che Arthur Gordon Pym si sia salvato
perché fu lui in persona a scrivere questo strano libro; ma morì
prima di aver terminato la sua opera.
Poe sembra rammaricarsene vivamente e dichiara di non
volerne colmare le lacune.
Vi ho così riassunto le opere principali dello scrittore
americano. Sono andato forse troppo lontano considerandole
strane e soprannaturali? Ma sono convinto che egli abbia
realmente creato una nuova forma letteraria che trae origine
dalla sensibilità della sua mente eccessiva, per usare uno dei
suoi termini preferiti.
Lasciando da parte l'incomprensibile, ciò che dobbiamo
ammirare nelle opere di Poe è la novità delle situazioni, la
discussione di fatti quasi del tutto ignoti, l'analisi delle facoltà
morbose dell'uomo, la scelta degli argomenti, la personalità
sempre strana dei suoi eroi, il loro temperamento ipersensibile
e nervoso, la loro maniera d'esprimersi per bizzarre
interiezioni. Eppure talvolta l'impossibile è presentato al lettore
in modo credibile e verosimile.
Mi sia consentito infine di richiamare l'attenzione sul
carattere materialistico di questi racconti: non vi avvertiamo
mai un intervento provvidenziale. Poe non sembra ammetterlo
e vuole spiegare tutto mediante le leggi fisiche che arriva ad
inventare quando sia necessario. Non sentiamo in lui la fede
che dovrebbe essergli comunicata dalla contemplazione
incessante del soprannaturale. Fa del fantastico a freddo, se
posso esprimermi così, e quello sventurato è ancora un
apostolo del materialismo. Ma io penso che ciò non dipenda
tanto dal suo temperamento quanto dall'influenza della società
pratica e industriale degli Stati Uniti. Ha scritto, pensato,
sognato da americano, da uomo positivo. Pur constatando
questa tendenza, ammiriamo le sue opere.
Questi racconti straordinari ci fanno intravedere lo stato di
continua sovreccitazione nel quale Edgar Poe viveva.
Sfortunatamente la sua natura non gli bastava e i suoi eccessi lo
indussero alla spaventosa malattia dell'alcool che ha raccontato
così bene e di cui è morto.
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Edgar Allan Poe di Jules Verne