Jules Verne Edgar Allan Poe A cura di Mariella Di Maio Editori Riuniti I Piccoli I edizione: ottobre 1990 Titolo originale: Edgar Poe et ses oeuvres © Copyright Editori Riuniti Via Serchio 9/11 - 00198 Roma Traduzione e cura di Mariella Di Maio Grafica Luciano Vagaggini CL 63-3386-9 ISBN 88-359-3386-2 Indice Introduzione _____________________________________________ 4 Edgar Allan Poe____________________________________________ 14 I ______________________________________________________ 14 Scuola dello «strano» - Poe e Baudelaire - Vita miserabile e morte dello scrittore - Ann Radcliffe, Hoffmann e Poe - Storie straordinarie Gli assassinii della rue Morgue - Curiosa associazione di idee Interrogatorio dei testimoni - L'autore del crimine - Il marinaio maltese. _______________________________________________ 14 II ______________________________________________________ 27 La lettera rubata - Imbarazzo di un prefetto di polizia - Un sistema per vincere sempre al gioco del pari e dispari - Victorien Sardou - Lo scarabeo d'oro - La testa di morto - Lettura stupefacente di un documento indecifrabile. _________________________________ 27 III _____________________________________________________ 45 La frottola del pallone - L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall - Il manoscritto trovato in una bottiglia - Una discesa nel Maelström - La verità sul caso Valdemar - Il gatto nero - L'uomo della folla - La caduta della casa Usher - Tre domeniche in una settimana. 45 IV _____________________________________________________ 54 Avventure dì Gordon Pym - Augustus Barnard - Il brigantino Grampus - Il nascondiglio in fondo alla stiva - Il cane idrofobo - La lettera di sangue - Rivolta e massacro - Un fantasma a bordo - La nave dei morti - Naufragio - Torture della fame - Viaggio al polo sud - Uomini nuovi L'isola straordinaria - Sepolti vivi - La grande figura umana Conclusione. ___________________________________________ 54 INTRODUZIONE Il testo che presentiamo nella sua prima traduzione italiana fu pubblicato nel Musée des Familles (aprile 1864, pp. 193208). Il titolo originale era Edgard Poë et ses oeuvres (sic!). Tra le ristampe recenti: 1) Lausanne, Ed. Rencontre, 1970 (con Le Sphinx des glaces e una prefazione di Charles-Noël Martin); 2) Reims, A l'Ecart, 1978 (riproduzione dell'originale in trecento esemplari); 3) in Textes oubliés (1849-1903), a cura di Francis Lacassin, Paris, UGE, Collection 10/18,1979, pp. 111153, che abbiamo tenuto presente per questa traduzione. I brani dei Racconti di Poe e delle Avventure di Gordon Pym che figurano nel testo sono riportati dalle Opere scelte, a cura di Giorgio Manganelli, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1984. (m.d.m.) Pubblicato nel 1864, Edgar Poe et ses oeuvres è un testo pressoché sconosciuto ai lettori dei Viaggi straordinari. È inoltre marginalmente considerato, se non del tutto ignorato, anche negli studi più importanti e nelle analisi più brillanti dell'opera verniana. Così come viene generalmente trascurato o minimizzato, sia pure con preziose eccezioni, il rapporto di Verne con Poe. I Racconti e le Avventure di Gordon Pym esercitano invece una notevole influenza su non pochi romanzi verniani nell'arco di un trentennio circa, almeno fino a La sfinge dei ghiacci del 1897, che è una continuazione e una riscrittura del romanzo di Poe. Eppure il saggio che presentiamo meriterebbe maggiore attenzione almeno per due buoni motivi: 1) perché è l'unico saggio di critica letteraria che Verne abbia mai scritto; 2) perché è un'ulteriore testimonianza della fortunata ricezione di Poe nella cultura francese, una testimonianza non banale e tempestiva perché si colloca quasi a ridosso delle traduzioni baudelairiane e molto prima che il «caso Poe» abbia la sua massima risonanza, fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Verne lo scrive quando è agli inizi della sua carriera letteraria, agli inizi di quella fortunatissima e colossale impresa narrativa concordata con il suo editore Hetzel. Sono stati pubblicati o stanno per esserlo: Cinque settimane in pallone, Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Viaggi e avventure del capitano Hatteras. E già in questi romanzi troviamo alcune suggestioni dell'opera poesca: l'omaggio del critico è quindi un segnale di conferma di ciò che già avveniva nell'ispirazione e nella scrittura. Cominciando dal titolo del ciclo verniano, Voyages extraordinaires, probabilmente modellato su quello di Histoires extraordinaires (ma perché no?) che Baudelaire aveva dato alla prima scelta di racconti che aveva tradotto. Verne del resto aveva letto Poe attraverso le traduzioni baudelairiane, sicuramente delle Histoires extraordinaires (1856), delle Nouvelles histoires extraordinaires (1857) e delle Aventures d'Arthur Gordon Pym (1858). Doveva aver letto inoltre la traduzione dei Contes inédits d'Edgar Poe di William L. Hughes, pubblicata nel 1862. Le sue pagine critiche sono fortemente influenzate da quelle di Baudelaire, soprattutto dal grande studio del 1856. Nella parte biografica sono ripetuti gli stessi errori (luogo e data di nascita di Poe — la falsa notizia dei suoi viaggi in Grecia e in Russia) e non pochi spunti sono integralmente mutuati dalla lettura baudelairiana. Ma Verne non ne condivideva fino in fondo l'impostazione: quella «prefazione» conteneva, secondo lui, un'interpretazione troppo personale e non era meno «strana» delle opere che voleva commentare. «Del resto i due sono fatti per capirsi», egli concludeva, il che è in fin dei conti un'intuizione molto sottile in relazione al tempo in cui veniva espressa, qualcosa di più di un riconoscimento. E fra i meriti del più grande traduttore di Poe dobbiamo annoverare anche quello di aver «provocato» letture divergenti dalla sua, che nascono magari da innamoramenti subitanei e folgoranti come questo di Verne. Accanto alla discendenza «ideal» e già prefigurata dei Mallarmé e dei Valéry, accanto a un'interpretazione (vincente in territorio francese) dell'opera dello scrittore americano come paradigma estremo del procedimento «creativo», esiste anche un'interpretazione come quella verniana che vi rintraccia soprattutto le matrici dei generi di massa (il romanzo d'avventure, il poliziesco, il racconto di fantascienza). Diversamente da Baudelaire, Verne prende infatti in considerazione esclusivamente la narrativa di Poe e concentra l'attenzione sulla definizione del genere adottato: «l'étrange», l'«étrange» — egli scrive — è un genere di cui Poe è l'artefice più perfetto, una «scuola» di cui è il capo riconosciuto. Esso si differenzia da due generi contigui: dal «terrible» in cui eccelleva Ann Radcliffe e dal «fantastique pur» di cui maestro è Hoffmann. Per Verne la distinzione si basa sull'esistenza o meno di una spiegazione «naturale» dei fatti narrati. Ma non è a questo livello che va definito 1' «étrange», che si costruisce sull'attesa del lettore, soggiogato, incatenato dalla «verosimiglianza» e credibilità di atmosfere e situazioni. Nel «genere Poe» i personaggi rimangono sempre «umani», ma si spingono ai limiti ultimi della sensibilità e dell'intelligenza, abusano delle loro facoltà intellettuali come altri fanno abuso di alcool, dispiegando un eccezionale spirito di deduzione e di riflessione. È dalla sovreccitazione della sensibilità e dalla «terribile» capacità di analisi che nasce quindi la suspense del tutto particolare della narrativa poesca. Al di là del tono un po' da imbonitore che Verne usa per tutte le sue pagine («Ecco a voi, cari lettori!…») e di certe troppo candide manifestazioni di entusiasmo, questa analisi con cui il saggio si apre non può non colpire, anche se indubbiamente certi accostamenti non sono certo una novità. Già Baudelaire, per esempio, aveva parlato di «fantastico allo stato puro» alla maniera di Hoffmann per L'uomo della folla e Poe era stato paragonato alla Radcliffe e sempre a Hoffmann da Barbey d'Aurevilly, gran detrattore del martirologio baudelairiano. Verne doveva aver letto gli articoli virulenti di Barbey d'Aurevilly (sul Pays, sul Réveil, quasi in contemporanea con gli scritti di Baudelaire), dove Poe è condannato per la sua americanità: da «Hoffmann del materialismo americano», «mutilato nel vivo del suo pensiero». Un'accusa che faceva star male Baudelaire perché rovesciava i termini stessi del suo antiamericanismo: per lui l'«angelo caduto» era stato invece la vittima sacrificale della società che lo aveva distrutto, gli Stati Uniti «una vasta prigione». E nell'ultimissima parte del suo studio Verne sposa il punto di vista di Barbey, anche se nemmeno lo nomina. Il difetto di Poe è di essere rimasto un «apostolo del materialismo», un americano, un uomo «positivo» e dinnanzi al mistero soprannaturale ha cercato spiegazioni scientifiche, spesso inventate di sana pianta. Se queste sono le riserve (abbastanza curiose, dobbiamo ammetterlo, da parte di chi stava elaborando un'epopea universale della scienza e della tecnica), è però totale e incondizionata l'ammirazione per lo stile di Poe e per alcuni testi in particolare. Anche in questo caso la scelta è abbastanza personale ed originale. In apertura Verne si sofferma lungamente su due dei racconti che hanno Dupin come protagonista (Gli assassinii della rue Morgue, La lettera rubata) e sullo Scarabeo d'oro che è accomunato ai racconti «polizieschi» perché anch'esso basato su un enigma da decifrare. Il privilegio di questo tipo di storie non può stupire i suoi lettori più affezionati che sanno bene quanto siano frequenti nei suoi romanzi i documenti misteriosi, i crittogrammi, i rebus, i giochi di parole. Era ciò che affascinava Raymond Roussel che a questo proposito ha scritto di Verne come di un genio «incommensurable», che si è innalzato alle «vette più alte che possa mai raggiungere il verbo umano». Il viaggio straordinario, del resto, come già il racconto straordinario, si baserà sulla sfida all'intelligenza, alle umane possibilità, e spesso un mistero da scoprire fa scattare la molla narrativa, come avviene in Viaggio al centro della Terra o durante la ricerca del capitano Grant. I veri modelli sono Auguste Dupin e William Legrand, campioni insuperabili di inchieste indiziarie, di associazioni mentali e di deduzioni. Perché ciò che Verne trovava di «sovrumano» in Poe era proprio questo «gioco» mentale (e linguistico). Non a caso prediligeva fra tutti Lo scarabeo d'oro, l'esempio più perfetto di quel tipo di congegno narrativo, a suo avviso. Il racconto ispirerà La Jangada, del 1881, nell'episodio centrale in cui confluiscono idealmente le pagine dedicate quasi vent'anni prima alla descrizione minuziosa e defatigante del metodo d'analisi poesco. E Poe verrà direttamente utilizzato e citato nel romanzo («il nostro immortale analista Edgar Poe») quando si deve decifrare il testo misterioso da cui dipende la vita di un uomo. Ma nella Jangada il metodo fallisce e sarà necessario un intervento provvidenziale per scongiurare il dramma. Non sappiamo se dobbiamo considerarla una manifestazione di umiltà o più semplicemente la prova che abbiamo cambiato genere letterario. Siamo nell'«extraordinaire» che deriva dall'«étrange», ma che è molto diverso. Dei personaggi adorati dei racconti di Poe, degli avventurieri della mente, rimane però un'impronta indelebile. E l'immagine che Verne si era fatto di quegli eroi: li vedeva agitati, divorati da un fuoco interno e inestinguibile, una «vera combustione», che accelerava il funzionamento del corpo e del cervello, scossi, «galvanizzati» come se avessero respirato dosi eccessive di ossigeno. Questa immagine, già presente in Edgar Poe et ses oeuvres, la ritroviamo in Hatteras a proposito degli esploratori del mare polare (una pagina stupefacente per Michel Butor) e in Le Docteur Ox, una «fantasia» curiosa ed inquietante, dove il sovraccarico di ossigeno diventa un pericoloso esperimento scientifico che semina follia in una città-cavia. E non ha molta importanza se ancora una volta la fonte è Baudelaire che aveva già visto quei personaggi sullo sfondo di una Natura animata che come loro «rabbrividisce di un brivido soprannaturale e galvanico». Per Verne esisteranno sempre due tipi di «vita ardente», di combustione, due modi diversi (ma quanto?) di superare i limiti: l'indagine (la decifrazione del mistero) e il viaggio, dove però sappiamo che troppo frequenti sono i naufragi e troppi gli abbandoni. Ma nel genere verniano, lo straordinario, maggiore dovrà essere la plausibilità, la verosimiglianza, e questo avverrà sia sfruttando al massimo le conoscenze geografiche e scientifiche esistenti, sia anticipando ciò che ancora non esiste. Rimanendo al limite cioè tra mondi «noti e ignoti», in ogni senso. Alla luce di questo progetto che è stato definito positivistico e imperialistico (ma che sfocerà in un profetico pessimismo negli anni Ottanta), è più chiaro perché Verne si soffermi sui racconti fantastico-scientifici di Poe, come La frottola del pallone e L'impareggiabile avventura di un certo Hans Pfaall. Non sembra coglierne la complessa ironia, anzi si rammarica che siano così inverosimili scientificamente e che le leggi elementari della «fisica e della meccanica» vi siano allegramente trasgredite. Che idea fantastica un viaggio in pallone e un viaggio sulla Luna! La frottola del pallone (Baudelaire aveva tradotto in modo strepitoso The Balloon Hoax con Le Canard au ballon) gli dà l'idea di Cinque settimane in pallone e Hans Pfaall ispira Dalla Terra alla Luna. L'impresa lunare si fa sotto il segno di Poe ed è per lui l'«hurrah!» del Gun-Club, per quel «genio strano e contemplativo». Un altro racconto su cui Verne si sofferma abbastanza a lungo nella terza parte del suo saggio è Tre domeniche in una settimana, relativamente poco noto e molto diverso dagli altri esaminati. Anche in questo caso è attirato da un'idea, quella del giorno «perduto» o «guadagnato» viaggiando intorno al mondo in una certa direzione. Il curioso «scherzo cosmografico» gli suggerirà il finale arcinoto del Giro del mondo in ottanta giorni e sarà lo stesso autore ad affermarlo in una comunicazione presentata alla Société de Géographie nel 1873. Da questi esempi risulta che in una prima fase dei Viaggi straordinari l'influenza di Poe è determinante per la scelta di forme o sottogeneri narrativi molto precisi: il racconto di anticipazione scientifica e il racconto basato su un enigma da decifrare o su una trovata paradossale e inattesa. Ma questi segnali testuali, seppur molto espliciti, rimarrebbero schegge, frammenti, se non venissero ricomposti alla luce del progetto che Verne coltivò in segreto per più di trent'anni, quello di dare una continuazione, un vero «finale» al Gordon Pym. L'analisi del romanzo di Poe occupava del resto tutta la quarta parte dello studio del 1864. Nella sua presentazione estremamente dettagliata (che in un certo senso era già una riscrittura), Verne si soffermava in particolare su due punti: 1) l'episodio di cannibalismo sul relitto del Grampus; 2) l'ultimo atto, il più straordinario, del viaggio del protagonista fino all'incontro con la candida figura velata. E saranno i due temi principali su cui si costruirà il suo futuro romanzo: sulla memoria ossessiva di quel crimine e sul viaggio al polo sud come esperienza della morte. Verne considerava il Gordon Pym un racconto interrotto perché il suo autore si era fermato troppo presto, non aveva voluto avanzare di più nell'«impossibile». Egli andrà oltre nella Sfinge dei ghiacci, «infinitamente più lontano di Poe», come scrive al suo editore mentre sta lavorando al suo libro. Perciò nel 1896-97 riprende i fili di quella storia che non sa dimenticare e immagina che un misterioso capitano parta con la sua nave verso i mari del sud portandosi a bordo uno scienziato avventuroso, facente funzione di narratore. La nave segue lo stesso itinerario descritto nel romanzo di Poe, considerato un diario vero e proprio e non un'opera di fantasia. Il capitano è alla ricerca del fratello (che era il comandante della Jane nel Gordon Pym) e il protagonista vuole sapere come finirà quella vicenda appassionante e vuole raggiungere il polo sud. Alla fine l'epilogo sarà solo parzialmente felice: saranno ritrovati alcuni naufraghi, sopravvissuti all'altro romanzo, ma i personaggi verniani non riusciranno nemmeno a vedere il polo. Lo rende inaccessibile una montagna a forma di Sfinge, un magnete colossale dotato di una forza di attrazione prodigiosa. Nel suo ultimo viaggio, Arthur Gordon Pym si è schiantato contro la montagna maledetta; accanto a lui muore di dolore il fedele compagno Dirk Peters, che Verne aveva «resuscitato» sotto falso nome. Veniva così portato a termine, in uno degli ultimi Viaggi straordinari, un progetto, un sogno lungamente accarezzato. All'insegna dello scientismo tardo-positivistico — è stato scritto — e mettendo a posto tutti i tasselli, fornendo tutte le spiegazioni che non erano state date. E non era forse questa la vera riserva che Verne aveva mosso a Poe: quella di non aver saputo concepire «invenzioni» scientifiche degne di questo nome? Perciò il francese dedica all'americano un'invenzione e una teoria sul magnetismo polare. Sotto la forma di un antico mito, però, attivando dispositivi simbolici complessi ed elementari come avviene nei suoi migliori romanzi. Mettendo al centro della sua storia una colpa incancellabile (la violazione del tabù primordiale) e una sfida (il viaggio al polo) ai limiti dell'umana conoscenza. Risvegliando antichi fantasmi, antiche paure e soprattutto guardando non al futuro, ma al passato, al mito. Evocando Edipo al polo sud, per far finire un romanzo «impossibile». Mariella Di Maio Edgar Allan Poe I SCUOLA DELLO «STRANO» - POE E BAUDELAIRE - VITA MISERABILE E MORTE DELLO SCRITTORE - ANN RADCLIFFE, HOFFMANN E POE - STORIE STRAORDINARIE GLI ASSASSINII DELLA RUE MORGUE - CURIOSA ASSOCIAZIONE DI IDEE - INTERROGATORIO DEI TESTIMONI - L'AUTORE DEL CRIMINE - IL MARINAIO MALTESE. Ecco a voi, cari lettori, uno scrittore americano di chiarissima fama. Conoscete il suo nome, anzi forse conoscete più il suo nome delle sue opere. Permettetemi allora di raccontarvi l'uomo e l'opera. Occupano entrambi un posto importante nella storia dell'immaginazione perché Poe ha creato un genere a parte, in cui non ha predecessori e di cui egli solo conobbe il segreto. Lo possiamo definire il capo della scuola dello strano: egli ha fatto arretrare le frontiere dell'impossibile. Avrà certo degli imitatori che tenteranno di andare oltre, di spingere all'eccesso la sua maniera di scrivere. Ma anche se più d'uno crederà di superarlo, nessuno riuscirà nemmeno ad eguagliarlo. Vi dirò subito che un critico francese, Charles Baudelaire, ha scritto una prefazione alla sua traduzione delle opere di Poe che non è meno strana delle opere stesse. Forse questa prefazione richiederebbe a sua volta un qualche commento e una qualche spiegazione. Comunque sia, se ne è parlato molto negli ambienti letterari; ha fatto grande scalpore e molto giustamente: Charles Baudelaire aveva tutto il diritto di interpretare a modo suo lo scrittore americano ed io non potrei che augurargli come commentatore delle sue opere presenti e future un nuovo Edgar Poe. Del resto i due sono fatti per capirsi. Inoltre la traduzione di Baudelaire è eccellente e da essa sono tratti i brani citati in questo mio articolo. Non tenterò di spiegarvi l'inesplicabile, l'incomprensibile, l'impossibile prodotto di un'immaginazione che Poe spingeva talvolta fino al delirio. Ma lo seguiremo passo a passo. Vi racconterò le sue novelle più curiose con molte citazioni; vi mostrerò come procede e quali lati oscuri dell'umana sensibilità riesce a toccare per cavarne gli effetti più strani. Edgar Poe era nato a Baltimora nel 1813 1 , nel cuore dell'America, la nazione più positiva del mondo. La sua famiglia, per molto tempo rispettabile e altolocata, era singolarmente decaduta quando egli venne al mondo. Se il nonno si era distinto nella guerra d'indipendenza come quartiermastro generale 2 accanto a La Fayette, il padre era morto da attore miserabile nel più completo abbandono. Un certo signor Allan, negoziante a Baltimora, adottò il piccolo Edgar e lo fece viaggiare in Inghilterra, in Irlanda, in Scozia. Sembra però che Edgar non visitasse Parigi, di cui descrisse con molte inesattezze alcune strade in uno dei suoi racconti. Tornato a Richmond nel 1822, continuò gli studi mostrando attitudini particolari per la fisica e la matematica. Per la sua condotta dissipata fu espulso dall'Università di Charlottesville e fu scacciato anche dalla sua famiglia adottiva. Partì allora per 1 In realtà Poe era nato a Boston nel 1809. Verne ripete l'errore di Baudelaire in Edgar Poe, sa vie et ses oeuvres (1856). 2 Verne «traduce» il quarter-master-general che Baudelaire lasciava in inglese. la Grecia mentre si svolgeva quella guerra che sembra sia stata fatta solo per la maggior gloria di Lord Byron 3 . E vogliamo ricordare, per inciso e senza trarne alcuna conclusione, che Poe era un ottimo nuotatore come il poeta inglese. Passò dalla Grecia alla Russia, arrivò fino a Pietroburgo, fu compromesso in affari misteriosi, tornò in America ed entrò in una scuola militare. Ne fu ben presto espulso per il suo temperamento indisciplinato ed allora cadde nella più nera miseria, quella miseria americana che è, fra tutte, la più spaventosa. Per vivere fece dei lavori letterari, ma fortunatamente vinse due premi istituiti da una rivista per il miglior racconto e per la migliore poesia. Diventò infine direttore del Southern Literary Messenger. Grazie a lui il giornale cominciò a prosperare e Poe, in un momento di temporanea e relativa agiatezza, sposò la cugina Virginia Clemm. Due anni dopo litigò con il proprietario del giornale. In realtà lo sventurato cercava spesso negli eccessi dell'acquavite le più strane ispirazioni e la sua salute a poco a poco ne risentiva. Ma sorvoliamo rapidamente sulle miserie, gli scontri, le lotte, i successi, la disperazione dello scrittore, sempre sorretto dalla povera moglie e soprattutto dalla madre di lei che lo amò come un figlio anche dopo la morte. Dopo una sosta troppo prolungata in una bettola di Baltimora, il 6 ottobre 1849, un corpo fu ritrovato per strada, il corpo di Edgar Poe. L'infelice respirava appena e fu trasportato in ospedale. Era in preda al delirium tremens e morì l'indomani all'età di soli trentasei anni 4 . Questa è la vita dell'uomo, parliamo adesso dell'opera. Non mi occuperò di Poe giornalista, filosofo, critico, per soffermarmi unicamente sul narratore: è nella novella, infatti, 3 Anche queste false notizie sui viaggi in Grecia e in Russia derivano dalla stessa fonte. 4 Cfr. nota n. 1. nel racconto e nel romanzo che si manifesta pienamente tutta la stranezza del suo genio. Talvolta è stato paragonato a due autori: una inglese, Ann Radcliffe, e l'altro tedesco, Hoffmann 5 . Ma Ann Radcliffe ha praticato il genere terribile che si spiega sempre con cause naturali; Hoffmann ha fatto del fantastico puro che sfugge ad ogni ragione materiale. Non è così per Poe: i suoi personaggi potrebbero al limite anche esistere perché squisitamente umani, ma hanno una sensibilità esaltata, tesa, morbosa. Sono individui eccezionali, galvanizzati per così dire, come persone alle quali si facesse respirare un'aria sovraccarica di ossigeno e la cui vita non sarebbe altro che una combustione in atto. Se non sono folli, i personaggi di Poe sono evidentemente destinati a diventarlo per aver abusato del proprio cervello, come altri abusano di liquori forti. Spingono al limite estremo lo spirito di riflessione e di deduzione; sono i più terribili analisti che io conosca e, partendo da un fatto insignificante, arrivano alla verità assoluta. Cerco di definirli, di dipingerli, di fissarli e non ci riesco perché sfuggono al pennello, al compasso, alla definizione. 5 Il parallelo con Ann Radcliffe e Hoffmann è di Barbey d'Aurevilly, che aveva dedicato a Poe tre articoli (in Le Pays, 27 luglio 1853 e 10 giugno 1856, e in Le Réveil, 15 maggio 1858). Gli articoli del 1856 e del 1858, scritti a commento delle traduzioni di Baudelaire, contengono pesanti riserve sull'interpretazione di quest'ultimo, pur manifestando contraddittoriamente un fondo di ammirazione per la scrittura di Poe. Verne si rifà a queste considerazioni nella conclusione del suo saggio dove individua il «limite» di Poe nella sua «americanità» e nel suo materialismo. Nel 1883, in un articolo sul Constitutionnel del 19 marzo, Barbey fa però una specie di ritrattazione e fa «ridiventare» lo scrittore americano una vittima della società in cui era stato costretto a vivere. Ma nelle sue pagine, come per altri versi in quelle di Baudelaire e anche in quelle di Verne, il vero nodo problematico è l'immagine negativa dell'America, che emerge con particolare intensità nel momento in cui l'opera di Poe si pone all'attenzione della cultura francese nei suoi caratteri di sconvolgente modernità e di «diversità». Preferisco, cari lettori, mostrarli nell'esercizio delle loro funzioni quasi sovrumane. Ed è ciò che mi accingo a fare. Di Poe abbiamo due volumi di Storte straordinarie, tradotte da Baudelaire, i Racconti inediti, tradotti da William Hughes, e un romanzo intitolato Avventure di Arthur Gordon Pym 6 . Vi presenterò la scelta più interessante da queste diverse raccolte. Non sarà difficile perché lascerò che sia soprattutto Poe a parlare. Vogliate dunque ascoltarlo fiduciosamente. Comincio con tre novelle nelle quali lo spirito di analisi e di riflessione si spinge ai limiti ultimi dell'intelligenza: Gli assassinii della rue Morgue, La lettera rubata e Lo scarabeo d'oro. Ecco la prima di queste tre storie ed ecco come Edgar Poe prepara il lettore a questo strano racconto. Dopo alcune curiose osservazioni con le quali dimostra che l'uomo davvero immaginativo è sempre un analista, mette in scena un suo amico, Auguste Dupin, insieme al quale aveva vissuto a Parigi in una parte remota e solitaria del Faubourg Saint-Germain. «Il mio amico — egli dice — aveva una bizzarria — come si potrebbe infatti chiamarla altrimenti? — egli era cioè innamorato della notte, e in questa sua strana passione, come in tutte le altre, mi lasciai trascinare tranquillamente anch'io, giacché mi davo ai suoi strani capricci col più completo abbandono. La nera divinità non poteva essere sempre con noi; ma potevamo pur sempre farcene una posticcia. Al primo chiarore dell'alba serravamo tutti i pesanti scuri della vecchia casa e accendevamo due fiaccole fortemente profumate, le quali mandavano una luce debolissima, spettrale. 6 Le traduzioni di Baudelaire alle quali si allude sono: Histoires extraordinaires, Paris, Michel Lévy, 1856; Nouvelles histoires extraordinaires, ivi, 1857 e Aventures d'Arthur Gordon Pym, ivi, 1858. I Contes inédits tradotti da William L. Hughes (pseudonimo di William O'Gorman) furono editi da Hetzel nel 1862. A quel fievole chiarore abbandonavamo l'anima ai sogni — leggendo, scrivendo o conversando — sino a quando l'orologio non ci avvertiva del ritorno della vera oscurità. Allora ci mettevamo a percorrere le vie l'uno sottobraccio all'altro, continuando la conversazione del giorno, vagabondando a caso fino ad ora avanzata, cercando in mezzo alle luci e ombre della popolosa città quegli innumerevoli eccitanti dello spirito che può dare l'osservazione spassionata. «In quei casi non potevo fare a meno di osservare e di ammirare — quantunque la sua ricca idealità avesse dovuto rendermi avvertito — la particolare attitudine analitica del mio amico […]. In quei momenti il suo modo di fare era freddo e distratto, i suoi occhi fissavano il vuoto, e la sua bella voce da tenore saliva a un tono acuto». Ed a questo punto, prima di affrontare il tema della novella, Poe racconta in che modo Dupin procedeva nelle sue curiose analisi. «Sono rari coloro — egli dice — che in qualche momento della loro vita non si siano divertiti a risalire i gradini per i quali certe conclusioni della loro mente erano state raggiunte. E un'occupazione che riesce spesso interessantissima; e chi la prova per la prima volta rimane stupito dell'incoerenza e della distanza, in apparenza incommensurabile, fra il punto di partenza e la meta. «Una notte passavamo per una lunga e sordida strada nelle vicinanze del Palais Royal. Immersi ciascuno nei propri pensieri, da almeno un quarto d'ora non avevamo pronunciato sillaba. A un tratto Dupin venne fuori con queste parole: «— E molto, molto piccolo, è proprio vero; starebbe meglio al Théâtre des Variétés. «— Non ci può essere il minimo dubbio — replicai senza pensare e senza sulle prime osservare (tanto ero assorto nelle mie riflessioni) il modo straordinario con cui le sue parole si adattavano ai miei pensieri. Un momento dopo, tornato in me, fui profondamente stupefatto. «— Dupin —, gli dissi gravemente — questo sorpassa il mio intendimento. Non esito a confessarvi il mio stupore, riesco appena a credere ai miei sensi. Come avete fatto a indovinare che stavo pensando a…? «E mi fermai per assicurarmi al di là di ogni dubbio se veramente sapeva a chi pensavo. «— A Chantilly — disse lui. — E perché vi interrompete? Non stavate pensando che la sua piccola statura lo rende inadatto alla tragedia? «Tale era precisamente il soggetto delle mie riflessioni… Chantilly era un ex ciabattino della rue Saint-Denis che andava matto per il teatro e aveva voluto recitare la parte di Serse nella tragedia di Crébillon […]. «— Per l'amor di Dio, — esclamai — ditemi il metodo, se un metodo esiste, col quale siete riuscito a penetrare nell'anima mia in questa faccenda». Vedete bene che l'inizio di questo racconto è davvero bizzarro. Poe e Dupin cominciano a discutere e quest'ultimo, notando la sequenza delle riflessioni del suo amico, gli dimostra che esse seguono a ritroso il seguente ordine: Chantilly, il ciabattino, Orione, il dottor Nichols, Epicuro, la stereotomia, i selciati, il fruttivendolo. Queste idee non hanno alcuna relazione fra loro e tuttavia Dupin le collega agevolmente cominciando dall'ultima. In effetti, mentre passava nella strada, un fruttivendolo aveva urtato bruscamente Poe; questi era scivolato, inciampato su una pietra sconnessa, si era slogato leggermente la caviglia borbottando contro il selciato difettoso. Arrivato poi in una viuzza dove era stato sperimentato un selciato a blocchi, gli era venuta in mente la parola stereotomia e questa parola lo aveva indotto fatalmente a pensare agli atomi e alle teorie di Epicuro. Infatti nel corso di una discussione su questo argomento, Dupin gli aveva detto che le recenti scoperte cosmogoniche del dottor Nichols confermavano le teorie del filosofo greco. Poe allora non aveva potuto fare a meno di alzare gli occhi verso la costellazione di Orione che in quel momento splendeva in tutta la sua purezza. Ora, il verso latino: Perdidit antiquum litera prima sonum si riferisce ad Orione che anticamente si scriveva Urione, e un critico lo aveva citato maliziosamente per il ciabattino Chantilly nel suo ultimo articolo. «Questa associazione d'idee — continuò Dupin — l'ho vista da quella specie di sorriso che vi è passato sulle labbra. Avete pensato all'immolazione del povero ciabattino. Sino ad allora eravate piuttosto curvo nel camminare, ma a quel punto vi siete raddrizzato tutto. Allora sono stato sicuro che pensavate alla piccola statura di Chantilly. In quel momento ho interrotto le vostre riflessioni, per osservare che Chantilly era proprio piccolo, molto piccolo, e che sarebbe stato meglio al Théâtre des Variétés». Provate a chiedervi se esiste qualcosa di più ingegnoso, di più nuovo e chiedetevi ancora fin dove potrà arrivare un uomo dotato di spirito d'osservazione come questo Dupin! Ed è ciò che vedremo subito. Nella rue Morgue è stato commesso un delitto spaventoso: Madame l'Espanaye e sua figlia, che abitavano in un appartamento al quarto piano, sono state assassinate verso le tre del mattino. Alcuni testimoni, fra i quali un italiano, un inglese, uno spagnolo, un olandese, richiamati da grida strazianti, si erano precipitati nell'appartamento, avevano forzato la porta e in mezzo al più strano disordine avevano trovato le due vittime, l'una strangolata e l'altra ferocemente colpita da un rasoio ancora sanguinante. Porte e finestre erano accuratamente chiuse e non era quindi possibile scoprire da dove fosse entrato e uscito l'assassino. Le indagini della polizia furono inutili e non esisteva nemmeno l'ombra di un indizio. Questa orribile vicenda, avvolta nel mistero più fitto, interessava particolarmente Auguste Dupin, convinto che nell'istruzione del crimine non si dovesse procedere con i soliti mezzi. Poiché conosceva il prefetto di polizia, ottenne da lui l'autorizzazione a recarsi sulla scena del delitto per esaminarla. Poe lo accompagnava durante quella visita. Dupin, seguito da un gendarme, ispezionò la rue Morgue, il retro dell'edificio e la facciata con una minuziosa attenzione. Salì quindi nella stanza dove giacevano i due cadaveri. Non si fermò fino a sera, non disse mai una parola e, tornando verso casa, si recò per qualche minuto nella redazione di un quotidiano. Restò silenzioso per tutta la notte e soltanto l'indomani a mezzogiorno chiese all'amico se aveva notato qualcosa di particolare sulla scena del delitto. Il Dupin analista comincia a rivelarsi. «Ora — egli disse — aspetto una persona che per quanto non sia l'autrice di questa carneficina, deve pure trovarsi in parte coinvolta nella sua perpetrazione. Della parte più atroce del misfatto, è probabile che sia innocente. Spero anzi di non ingannarmi su questa ipotesi, perché è appunto su di essa che fondo la speranza di sciogliere l'intero enigma. L'aspetto qui, in questa stanza, da un momento all'altro. Può darsi che non venga, è vero; ma è più probabile che venga. Se viene, bisognerà trattenerla. Ecco qui un paio di pistole: sappiamo ambedue come adoperarle quando l'occasione lo richiede». Vi lascio immaginare lo sbalordimento di Poe a quelle parole così concrete. Dupin gli disse allora che mentre la polizia, dopo aver tolto i pavimenti, aperto i soffitti e sondato la muratura, non riusciva a spiegare come si fosse introdotto e come fosse fuggito l'assassino, lui, usando metodi diversi, sapeva bene come risolvere il mistero. E in realtà, frugando in ogni angolo e soprattutto vicino alla finestra sul retro, attraverso la quale doveva essere passato il criminale, aveva scoperto una molla. Questa molla, tenuta malamente da un chiodo arrugginito, poteva essersi bloccata da sola e poteva aver fatto richiudere la finestra, spinta dall'esterno dal piede del fuggitivo. Vicino alla finestra passava la lunga corda di un parafulmine e Dupin era ormai sicuro che questa fosse servita all'incursione e al «volo» del colpevole. Ma era ancora poco: spiegare il modo in cui era entrato e uscito non era sufficiente a identificare l'autore del crimine? Perciò Dupin, concentrato su questo punto, si lancia in una curiosa deduzione e affronta un ordine di idee del tutto differente. Non si chiede più come si siano svolti i fatti, ma in che cosa essi siano singolari ed insoliti. Il denaro trovato intatto nell'appartamento spiega d'altro canto che il furto non è stato il movente del delitto. Allora richiama l'attenzione di Poe su un fatto al quale non era stato dato alcun rilievo nelle deposizioni e nel quale si manifesta tutto il genio dello scrittore americano. I testimoni accorsi al momento del crimine avevano udito distintamente due voci. Tutti affermavano senza ombra di dubbio che una era la voce di un francese; ma quanto all'altra, una voce acuta, aspra, c'era un gran disaccordo fra i testimoni che erano di nazionalità diverse. «Ognuno di loro è sicuro — dice Dupin — che non era la voce di un suo compatriota. Ognuno la paragona non già alla voce di un individuo la cui lingua gli sia familiare, ma proprio al contrario. Il francese suppone che sia la voce di uno spagnolo e anzi avrebbe potuto distinguere qualche parola se avesse conosciuto lo spagnolo. L'olandese afferma che era la voce di un francese, ma troviamo che il teste non conoscendo il francese è stato interrogato per mezzo di un interprete. L'inglese la crede la voce di un tedesco, ma non capisce il tedesco. Lo spagnolo è sicuro che era quella di un inglese, ma giudica dall'intonazione poiché non ha nessuna conoscenza dell'inglese. L'italiano la crede la voce di un russo, ma non ha mai parlato con un russo. Un altro francese, contrariamente a quello che ha detto il primo, è sicuro che la voce fosse di un italiano, ma non conoscendo quella lingua, egli, come lo spagnolo, trae la sua certezza dall'intonazione. Come dunque doveva essere singolarmente insolita quella voce per poter dare origine a testimonianze di tal genere! Nella sua intonazione persino gli abitanti delle cinque grandi nazioni d'Europa non avevano potuto riconoscere nulla che fosse loro familiare! Direte che poteva essere la voce di un asiatico o di un africano. Né gli asiatici ne' gli africani abbondano a Parigi, ma senza negare la possibilità del caso, io richiamerò semplicemente la vostra attenzione su tre punti. Un teste dice che la voce era piuttosto aspra che acuta. Altri due dicono che era rapida e a scatti. Non parole, non suoni che somigliassero a parole, sono stati distinti da alcun testimone». Dupin continua: rammenta a Poe i dettagli del crimine, la forza fisica di chi ha strappato ciocche intere di capelli grigi dalla testa dell'anziana signora e voi sapete «che forza occorra per strappare dalla testa anche solo venti o trenta capelli in una volta». Gli fa notare quale straordinaria agilità fosse stata necessaria per salire lungo la corda del parafulmine, la ferocia bestiale delle uccisioni, «quel grottesco nell'orrore, assolutamente al di fuori della natura umana» e infine e sempre «quella voce, dall'intonazione straniera all'orecchio di persone di nazionalità diverse, e priva di qualsiasi sillabazione distinta e intellegibile». «Che cosa se ne può ricavare? — chiede allora Dupin al suo compagno — Che impressione ho fatto sulla vostra immaginazione?» Vi devo confessare che, leggendo questa pagina, ho sentito un fremito corrermi per le ossa, come l'interlocutore di Dupin! Vedete come questo scrittore stupefacente riesce ad avvincere il lettore! Forse perché cattura la vostra immaginazione? Forse perché vi tiene sospesi e palpitanti dietro al suo racconto? Ma avete intuito chi è l'autore di quello straordinario delitto? Io avevo già indovinato tutto. E anche voi avete capito. Tuttavia concluderò rapidamente citando le poche righe che Dupin aveva fatto pubblicare il giorno prima su Le Monde, giornale che s'interessa di questioni navali. e che è molto letto dai marinai: «Trovato — Nel Bois de Boulogne la mattina del… corrente (la data del giorno del delitto), a un'ora molto mattutina, un enorme Orang-utang fulvo, della specie di Borneo. Il proprietario (che, come è stato accertato, è un marinaio dell'equipaggio di una nave maltese) può riavere l'animale, dopo averne dati i segni d'identificazione sufficienti e rimborsato alcune piccole spese sostenute per la cattura e il mantenimento. Rivolgersi al n…, Rue…, Faubourg SaintGermain, piano terzo». Dupin aveva capito che si trattava di un marinaio di un equipaggio maltese da un pezzo di nastro raccolto ai piedi della corda del parafulmine, che aveva un nodo caratteristico dei marinai maltesi. Questo tipo, inoltre, parlava come un francese secondo tutte le testimonianze. Avrebbe risposto all'annuncio, che non stabiliva alcuna relazione tra la fuga dell'orango e il crimine, e si sarebbe certamente presentato. Infatti si presentò: era un marinaio, «alto, robusto e muscoloso, con un'espressione di audacia indiavolata». Dopo qualche esitazione, ammise ogni cosa. L'orango era scappato strappandogli il rasoio mentre si stava sbarbando. Il padrone terrorizzato aveva inseguito l'animale che, nella sua corsa fantastica, era arrivato alla rue Morgue, aveva visto la corda del parafulmine e vi si era arrampicato con incredibile agilità. L'uomo lo aveva seguito. La scimmia aveva trovato la finestra aperta, si era precipitata dentro ed era piombata nell'appartamento delle due povere donne. Il resto lo sappiamo. Il marinaio era stato testimone del dramma senza poterlo impedire, chiamando e urlando. Poi aveva perso la testa ed era fuggito via. L'orango, che aveva richiuso col piede la finestra, si era lasciato scivolare sulla strada ed era scomparso a sua volta. Ed ecco questa strana storia e la sua veridica spiegazione. Mette bene in rilievo le doti meravigliose del suo autore. Sembra così vera che talvolta abbiamo l'impressione di leggere un atto d'accusa estratto dalla Gazette des tribunaux. II LA LETTERA RUBATA - IMBARAZZO DI UN PREFETTO DI POLIZIA - UN SISTEMA PER VINCERE SEMPRE AL GIOCO DEL PARI E DISPARI - VICTORIEN SARDOU - LO SCARABEO D'ORO - LA TESTA DI MORTO - LETTURA STUPEFACENTE DI UN DOCUMENTO INDECIFRABILE. Edgar Poe non abbandonò quel tipo curioso di Auguste Dupin, l'uomo dalle profonde deduzioni. Lo ritroviamo nella Lettera rubata. La storia è semplice: una lettera compromettente è stata sottratta da un ministro a un personaggio politico. Poiché il ministro D*** può usare il documento a scopi molto pericolosi, bisogna riaverlo ad ogni costo. Il prefetto di polizia è stato incaricato di questa difficile missione e si sa che la lettera è rimasta sempre nelle mani di D***. In sua assenza, gli agenti ne hanno perquisito minuziosamente il palazzo, frugato la casa stanza per stanza, esaminato i mobili di ogni appartamento, aperto tutti i cassetti, anche quelli segreti; esplorato le imbottiture delle sedie con lunghi aghi, rimosso il piano dei tavoli, smontato i sostegni dei letti, frugato nelle più piccole connessure dei mobili, nelle tende, nei tappeti, fra le intelaiature e le lastre degli specchi. Infine tutta la superficie della casa è stata suddivisa in compartimenti numerati passando al microscopio pollice quadrato per pollice quadrato. Ogni cosa insomma è stata esaminata sia nella casa del ministro, sia nelle case adiacenti. Sospettando che D*** si portasse addosso il documento, il prefetto lo ha fatto aggredire e rapinare due volte da due falsi ladri. Non hanno trovato nulla. Il prefetto scoraggiato si reca da Dupin e gli racconta la vicenda. Dupin gli consiglia di continuare le ricerche. Un mese dopo il prefetto gli fa una seconda visita: era stata tutta fatica sprecata. «Darei effettivamente cinquantamila franchi — disse — a chi mi sapesse trar d'impiccio. «Nel qual caso, — disse Dupin aprendo un cassetto e prendendone un libretto di chèques, — vorreste farmi un buono per questa somma? Firmato che sia, vi darò la lettera». E consegna il prezioso documento al prefetto che, sbalordito, si precipita fuori dalla porta. Dupin spiega allora a Poe come sia venuto in possesso della lettera. Per dimostrargli che i metodi da impiegare debbono variare a seconda delle persone con cui si ha a che fare, gli racconta quanto segue: «Ho conosciuto un ragazzo di otto anni che era ammirato da tutti per la sua bravura al gioco del pari e dispari. Aveva un modo per indovinare che consisteva semplicemente nell'osservare e calcolare la scaltrezza dei suoi avversari. Per esempio il suo avversario è un semplicione che levando in aria il pugno chiuso chiede: Pari o dispari? Il nostro ragazzo risponde: dispari, o perde. Ma la seconda volta vince perché dice fra sé: il semplicione aveva pari la prima volta e tutta la sua furberia arriverà fino a fargli mettere dispari la seconda. Allora io dirò: Dispari. Dice dispari e vince. «Ma con un avversario meno ingenuo avrebbe pensato: a questi la prima idea che si affaccerà alla mente, avendomi udito dire dispari la prima volta, sarà la semplice variazione da pari a dispari, come ha fatto quello stupidotto, però una seconda riflessione gli farà pensare che è un cambiamento troppo semplice e alla fine si deciderà a ripetere pari, come la prima volta. Io dirò dunque: pari. Dice pari e vince». Partendo da questo principio, Dupin ha dunque cominciato col riconoscere il ministro D*** ed ha saputo che egli è insieme poeta e matematico. «Come poeta e matematico — pensò — poteva ragionare bene; come semplice matematico non avrebbe ragionato affatto, e sarebbe stato alla mercé del prefetto». Sono osservazioni molto profonde, cari lettori. Il matematico si sarebbe ingegnato a inventare un nascondiglio, ma il poeta avrebbe proceduto in tutt'altro modo, con semplicità. Ci sono infatti oggetti che sfuggono ai nostri occhi per il fatto stesso di essere in eccessiva evidenza. Così, nelle carte geografiche, le parole a grandi caratteri che vanno da una parte all'altra della carta sfuggono a chi le guarda molto più dei nomi scritti in caratteri minuti e quasi impercettibili. D*** doveva dunque cercare di mettere fuori strada gli agenti di polizia proprio con l'ingenua semplicità delle sue combinazioni. Ma Dupin l'aveva capito: conosceva D***, aveva un facsimile della lettera in questione. Si era recato perciò nel palazzo del ministro e la prima cosa che aveva visto era stata quella lettera introvabile, in perfetta evidenza. Il poeta aveva capito che il modo migliore per non farla trovare era di non nasconderla affatto. Dupin gli aveva sottratto la lettera sostituendola con un facsimile e gli aveva giocato un brutto tiro. I segugi avevano fatto cilecca e un semplice ragionatore aveva raggiunto lo scopo senza sforzi particolari. Questa novella è molto bella e interessante. Victorien Sardou ne ha tratto una commedia deliziosa che si intitola Les Pattes de mouche, di cui avete certamente sentito parlare e che è stata uno dei grandi successi del Gymnase 7 . E arriviamo allo Scarabeo d'oro, dove il protagonista dà prova di una sagacia non comune. Sarò costretto a citare un lungo brano di questa storia, ma non vi dispiacerà, anzi vi assicuro che lo rileggerete più di una volta. Poe aveva stretto amicizia con un certo William Legrand il quale, ridotto in miseria da una serie di disgrazie, aveva abbandonato New Orleans. Si era trasferito nella Carolina del Sud presso Charleston, sull'isola di Sullivan, formata soltanto da tre miglia di sabbia marina e che non misura più di un quarto di miglio in larghezza. Legrand era un misantropo e alternava di continuo stati di entusiasmo e di malinconia. Ritenendolo un po' squilibrato, i parenti gli avevano messo accanto un vecchio negro che rispondeva al nome di Jupiter. 7 Les Pattes de mouche di V. Sardou ebbe la sua prima rappresentazione al Théâtre du Gymnase dramatique il 15 maggio 1860 ed ebbe anche in seguito un grande successo. Commedia in tre atti, leggera e sentimentale, ha effettivamente al centro una lettera (d'amore) nascosta sotto una statuetta di «biscuit» di Sèvres, intorno alla quale si scatena una girandola di equivoci e di inganni, con lieto fine. Un segnale che Sardou volesse alludere ironicamente ai racconti di Poe potrebbe essere il fatto che, a un certo momento della commedia, un personaggio mette uno scarabeo (!) dentro la lettera. Ve lo state già immaginando: questo Legrand, questo amico di Poe, sarà anche lui dotato di un carattere eccezionale, di un temperamento sovreccitabile, soggetto a crisi morbose. Un giorno Poe andò a fargli visita e lo trovò in preda a uno dei suoi accessi di entusiasmo. Legrand, che collezionava conchiglie ed esemplari entomologici, aveva scoperto uno scarabeo di una strana specie. Ve l'aspettavate questa parola, non è vero? In quel momento Legrand non aveva con sé l'animale perché l'aveva prestato a un suo amico, il tenente G*** del forte Moultrie. Jupiter diceva di non aver mai visto un simile scarabeo di un color d'oro smagliante e molto pesante. Il negro era sicuro che fosse d'oro massiccio. Legrand volle fare per l'amico un disegno dell'insetto. Cercò un foglio di carta, non ne trovò e tirò fuori dalla tasca un pezzo di pergamena sudicia, sul quale si mise a disegnare. Quando passò a Poe il disegno, questi ebbe l'impressione nettissima che raffigurasse una testa di morto. Glielo disse e William non fu d'accordo. Dopo una breve discussione, dovette però ammettere che la sua penna aveva disegnato un teschio perfettamente riconoscibile. Gettò via stizzosamente il foglio, poi lo riprese, lo esaminò attentamente e infine lo conservò nella scrivania. Si parlò d'altro e Poe andò via senza che Legrand insistesse per trattenerlo. Un mese dopo ricevette la visita del negro. Questi era molto preoccupato per lo stato di salute del padrone, che era diventato taciturno, pallido, debolissimo. Era convinto che fosse stato morso dallo scarabeo e che perciò tutte le notti sognava sempre oro. Jupiter aveva portato con sé una lettera di Legrand che supplicava Poe di andarlo a trovare: « Venite! venite! — diceva — Vorrei vedervi stasera per una faccenda molto grave. Vi assicuro che è cosa della più alta importanza». Vedete come procede l'azione e come la storia promette di essere singolarmente interessante: c'è un monomaniaco che sogna oro per il morso di uno scarabeo! Poe seguì il negro fino al molo per imbarcarsi. Sulla barca c'erano una falce e tre vanghe, comprate per ordine di William. Ne fu sbalordito. Arrivò all'isola verso le tre del pomeriggio. Legrand lo aspettava con impazienza e gli strinse nervosamente la mano. «II suo viso era di un pallore spettrale e gli occhi infossati brillavano di una luce innaturale». Poe gli chiese notizie dello scarabeo. William gli rispose che l'insetto avrebbe fatto la sua fortuna e che, usandolo in modo opportuno, sarebbe arrivato all'oro di cui era l'indizio. Gli mostrò quindi un insetto magnifico, sconosciuto ai naturalisti di quell'epoca. A una estremità del dorso aveva due macchie nere rotonde e una terza macchia di forma allungata all'altra estremità. Le scaglie erano eccezionalmente dure e lucenti e sembravano davvero d'oro brunito. «Vi ho mandato a chiamare […] — disse William a Poe — per chiedervi consiglio e aiuto per compiere ciò che vogliono il fato e lo scarabeo […]». Poe lo interruppe e gli tastò il polso, ma non trovò il più leggero sintomo di febbre. Voleva distrarlo dalla sua ossessione, ma Legrand gli annunciò formalmente che intendeva partire quella notte stessa per una spedizione sulle colline, spedizione nella quale lo scarabeo avrebbe avuto un ruolo molto importante. A Poe non rimase altro da fare che seguirlo insieme a Jupiter. Partirono tutti e tre. Attraversarono l'insenatura che separava l'isola dalla terraferma e, superati i pendii della riva, passarono per una zona selvaggia e desolata. Al tramonto entrarono in una regione squallidamente sinistra, dove si aprivano voragini profonde. Su di una stretta piattaforma si ergeva un gigantesco tulipifero in mezzo a una decina di querce. William ordinò a Jupiter di arrampicarsi sull'albero portando con sé lo scarabeo attaccato all'estremità di una lunga corda. Dopo inutili resistenze, Jupiter cedette alle minacce del padrone e si portò fino alla grande biforcazione dell'albero, a settanta piedi da terra. Allora William gli disse di continuare a salire per il ramo più grosso da una certa parte. Jupiter sparì nel fogliame e quando si fu arrampicato per sette rami, gli fu ordinato di avanzare più che poteva e di dire se vedeva qualcosa di strano. Dopo qualche esitazione, poiché il ramo gli sembrava marcio, il negro, allettato dalla promessa di un dollaro d'argento, arrivò alla punta. «O-o-oh! — gridò — Signore Iddio, misericordia! Che cosa è questo?». Jupiter aveva trovato un teschio scarnificato dai corvi e che era fissato all'albero da un grosso chiodo. William gli disse di far passare per la cavità dell'occhio sinistro del teschio la corda a cui era sospeso lo scarabeo e di farlo cadere a piombo fino a terra. Il negro obbedì e l'insetto rimase sospeso a pochi pollici dal suolo. William sgombrò il terreno dai cespugli, diede l'ordine di mollare lo scarabeo e conficcò un piuolo nel punto preciso dove era caduto. Poi tirò fuori da una tasca un metro a nastro, ne assicurò un'estremità alla parte dell'albero più vicina al piuolo, lo srotolò per una cinquantina di piedi nella direzione indicata dall'albero e dal piuolo. Conficcò quindi nel punto raggiunto un secondo piuolo, intorno al quale descrisse un cerchio del diametro di quattro piedi. Aiutato da Poe e da Jupiter, si mise a scavare di buona lena. Ma non si trovò nemmeno l'ombra di un tesoro. Legrand era visibilmente sconcertato. Senza dire una parola, Jupiter raccolse gli arnesi e il gruppetto prese la via del ritorno verso est. Avevano fatto non più di una dozzina di passi quando Legrand saltò addosso al negro: «Scellerato! — gridò facendo fischiare le sillabe fra i denti. — Quale è il tuo occhio sinistro?». Il poveretto indicò con la mano l'occhio destro. «Lo immaginavo, — gridò Legrand. — Andiamo! andiamo! si ricomincia». Jupiter si era realmente sbagliato e aveva fatto passare la corda con lo scarabeo per l'occhio destro invece che per il sinistro. Allora spostarono il piuolo di qualche pollice più ad ovest e il metro srotolato indicò un punto che distava parecchi metri da quello trovato prima. Ricominciarono a scavare. Ben presto trovarono un mucchio di ossa umane, dei bottoni di metallo, alcune monete d'oro e d'argento e una cassa di legno di forma oblunga. Era fasciata da lamine in ferro battuto e il coperchio era chiuso da due catenacci che William tremando e palpitando per l'ansia aprì rapidamente. La cassa conteneva un tesoro di valore incalcolabile: quattrocentocinquantamila dollari in monete francesi, spagnole, tedesche e inglesi, centodieci diamanti, diciotto rubini, trecentodieci smeraldi, ventuno zaffiri e un opale, una quantità enorme di ornamenti in oro massiccio, anelli, orecchini, catene, ottantatré crocifissi d'oro, cinque incensieri, centonovantasette orologi di grande bellezza: il tutto per un valore di un milione e mezzo di dollari. Il tesoro fu trasportato a poco a poco nella capanna di Legrand. Poe moriva dalla voglia di sapere come l'amico ne avesse scoperto l'esistenza e questi si affrettò a raccontarglielo. Fino a questo momento il lettore non ha potuto avere che un'idea imperfetta e approssimativa del tipo di racconto di fronte a cui si trova. Non ho potuto descrivervi la sovreccitazione morbosa di William durante quella famosa notte. D'altro canto, la scoperta del tesoro rassomiglia a tutte le scoperte del genere che avete avuto l'occasione di leggere: a parte la messinscena dello scarabeo e del teschio, è una sequenza di luoghi comuni. Ma arriviamo adesso alla parte davvero singolare e pittoresca della novella, alla serie di deduzioni che portarono Legrand a scoprire il tesoro. Egli cominciò col ricordare all'amico lo schizzo grossolano dello scarabeo che aveva fatto durante la sua prima visita e la sua somiglianza con una testa di morto. Allora lo aveva disegnato su un foglio sottilissimo di pergamena. Aveva trovato quel foglio alla punta dell'isola, vicino ai resti di uno scafo naufragato il giorno stesso in cui aveva scoperto lo scarabeo. Ed aveva avvolto l'insetto proprio nella pergamena spiegazzata. Poi aveva ripensato allo scafo e si era ricordato che il teschio era l'emblema arcinoto della pirateria. Erano già due anelli di una grande catena. Ma se il teschio non era sulla pergamena quando William aveva disegnato lo scarabeo, come mai era spuntato fuori quando aveva dato il foglio a Poe? Proprio nel momento in cui quest'ultimo stava per esaminarlo, il cane di Legrand gli era saltato addosso per giocare. Cercando di allontanarlo, aveva avvicinato al fuoco il foglio e il calore della fiamma, per effetto di una preparazione chimica, aveva fatto riapparire il disegno fino ad allora invisibile. Dopo che l'amico era andato via, William aveva ripreso la pergamena, l'aveva sottoposta all'azione della fiamma e aveva visto apparire, in un angolo del foglio diagonalmente opposto al punto su cui era stata disegnata la testa di morto, la figura di un capretto. Ma quale relazione poteva esserci fra dei pirati e un capretto? Ed eccola la relazione: era un certo capitano Kidd 8 (kid in inglese significa "capretto"), che un tempo era stato 8 Questo pirata è realmente esistito. Cooper lo nomina spesso nei suoi romanzi (N.d.A.). molto famoso. Quella figura poteva essere la sua firma geroglifica e il teschio aveva l'aria di essere un bollo o un sigillo. William fu perciò indotto naturalmente a cercare il testo di una lettera fra il sigillo e la firma. Ma sembrava che questo testo non esistesse. E tuttavia gli tornavano in mente tutte le storie di Kidd. Un tempo circolava la voce che il capitano e i suoi compagni avevano sotterrato somme enormi provenienti dalle loro azioni piratesche in qualche punto della costa dell'Atlantico. Il tesoro doveva trovarsi ancora nel suo nascondiglio perché altrimenti non se ne sarebbe più parlato. Perciò Legrand arrivò alla conclusione che l'indicazione del nascondiglio era contenuta in quel pezzo di pergamena. Lo aveva pulito accuratamente, lo aveva messo in una casseruola sui carboni ardenti e, dopo qualche minuto, aveva notato che il foglio era ricoperto in parecchi punti da segni che sembravano cifre allineate. Dopo averlo scaldato un'altra volta, aveva visto apparire dei caratteri vergati grossolanamente in rosso. Questo era il suo racconto. Dopo averlo terminato, allungò la pergamena a Poe che vi lesse quanto segue: 53‡‡ + 305))6*;4826)4‡.)4‡); 806*; 48 + 8¶60))85; 1‡(;:‡ *8 + 83(88)5* + ; 46(;88 *96*?;8)*‡(;485);5* + 2:*‡(;4956 *2(5*— 4)8¶8*; 4069285);) 6 + 8) 4‡‡; l(‡9;48081; 8:8‡l; 48 + 85;4)485 + 528806*81(‡9;48;(88;4(‡?34;48)4‡;161;: 188;‡?; Poe vedendo quella successione di cifre, di punti, di linee, di punti e virgola, di parentesi, confessò di brancolare ancora nel buio. Lo avreste detto anche voi, cari lettori! Ebbene, l'autore sta per svelare l'enigma con una logica mirabile. Seguitelo, perché questa è la parte più ingegnosa della novella. Il primo quesito da sciogliere era la lingua della cifra, ma in questo caso il gioco di parole su Kidd non si poteva fare che in inglese e doveva perciò trattarsi di questa lingua. Adesso lascio la parola a Legrand. «Osservate — egli disse — che fra le varie parole non esiste divisione: se vi fossero state divisioni, la soluzione sarebbe stata relativamente facile. In questo caso avrei cominciato con un confronto ed un'analisi delle parole più brevi e se avessi trovato, come è più probabile, una parola di una sola lettera («a» per esempio o «I»), avrei ritenuto la soluzione assicurata. Ma non essendoci divisioni, il mio primo passo era di rilevare quali fossero le lettere predominanti, come anche quali fossero quelle che capitavano più raramente. Le contai tutte e potei stabilire la tavola seguente: Il » » » » » » » » carattere 8 » ; » » 4 » » ‡ » » * » » 5 » » 6 » » + » » 1 » si trova » » » » » » » » 33 26 19 16 16 13 12 11 8 volte » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » » 0 9 2 : 3 ? ¶ ─ • » » » » » » » » » » » » » » » » » » 8 6 5 4 4 3 2 1 1 » » » » » » » » » «Ora la lettera che in inglese ricorre più spesso è la e. Le altre si succedono in quest'ordine: a, o, i, d, h, n, r, s, t, u, y, c, f, l, m, w, b, k, p, q, x, z. La e predomina così notevolmente che è raro trovare una sola frase di una certa lunghezza nella quale essa non sia la lettera più frequente. «Noi abbiamo dunque, fin dal principio, una base d'operazione che è qualche cosa di più di una mera congettura […] Poiché il nostro carattere predominante è l'8, cominceremo a prenderlo per la e dell'alfabeto naturale. Per verificare questa supposizione, vediamo prima di tutto se il numero 8 si trova spesso raddoppiato, poiché la e in inglese si raddoppia molto di frequente, come per esempio nelle parole "meet, speed, seen, been, agree", ecc. Nel caso nostro, a dispetto della brevità del crittogramma, lo troviamo raddoppiato non meno di cinque volte. «Prendiamo dunque l'8 per la e. Ora di tutte le parole della nostra lingua la parola "the" è la più comune: cerchiamo perciò se non ci siano ripetizioni di tre caratteri posti nello stesso ordine dei quali l'8 sia l'ultimo. Se ne troveremo, è probabile che rappresentino la parola "the". Infatti ne troviamo non meno di sette, e i caratteri sono ;48. Possiamo quindi arguire che il punto e virgola rappresenta la t, e che il 4 rappresenta l'h, e l'8 la e, poiché il significato di quest'ultimo segno ne è confermato. Così abbiamo fatto un gran passo avanti. «Ma avendo spiegato una sola parola, siamo in grado di stabilire un punto molto importante, cioè il principio e la fine di altre parole. «Prendiamo per esempio il penultimo caso in cui si presenta la combinazione: ;48 quasi alla fine del crittogramma. Sappiamo che il segno ;, che viene immediatamente dopo, è il principio di una parola, e dei sei caratteri che seguono il "the", ne conosciamo già non meno di cinque. Mettiamo quindi al posto dei caratteri le lettere che essi rappresentano, lasciando vuoto lo spazio per quella che ancora non conosciamo: t eeth «Qui siamo subito in grado di scartare il th che non può esser parte della parola che comincia colla prima t, poiché, sostituendo alla lettera mancante tutte le lettere dell'alfabeto, troviamo che nessuna parola può essere formata in modo da terminare con th. I caratteri si riducono quindi a t ee e riprendendo da capo, se occorre, tutto l'alfabeto, arriviamo alla parola "tree" (albero) come la sola versione possibile. Abbiamo così guadagnato una nuova lettera r rappresentata dal segno (, ed abbiamo anche due parole unite: "the tree" (l'albero). «Andando avanti, a poca distanza, ritroviamo la combinazione ;48 e ce ne serviamo come termine per la parola immediatamente precedente. Abbiamo quindi la formula seguente: the tree ;4 (‡ ? 34 the, o sostituendo, dove possiamo, le lettere naturali, abbiamo: the tree thr ‡? 34 the. «Ora, se al posto dei caratteri che ci sono ancora ignoti mettiamo spazi e puntini, avremo: the tree thr… h the dove la parola "through" (attraverso) balza subito fuori. Ma questa scoperta ci dà altre lettere o, u, g, rispettivamente rappresentate dai caratteri: ‡,?e3. «Ora, se cerchiamo con molta attenzione nel crittogramma le varie combinazioni di caratteri conosciuti, troviamo, non lontano dall'inizio, questa combinazione: 83 (88 ossia "egree", che senza alcun dubbio è la desinenza della parola "degree" (grado) che ci offre ancora una nuova lettera d rappresentata dal segno +. «Quattro lettere dopo la parola "degree", troviamo la combinazione: ;46 (; 88* dalla quale, traducendo le lettere che conosciamo e rappresentando con un punto quella sconosciuta, abbiamo: th.rtee. composizione che ci suggerisce immediatamente la parola "thirteen" (tredici) e ci fornisce due nuove lettere i e n, rappresentate dalle figure 6 e *. «Risalendo ora all'inizio del crittogramma troviamo la combinazione: 53 ‡‡ +. «Traducendola, come sopra, abbiamo: good, ciò che ci prova che la prima lettera deve essere a e che di conseguenza le prime due parole sono a good (un buon, una buona). «Ora, per evitare confusioni, è tempo di disporre in forma di tavola, la chiave che abbiamo trovato. Si presenterà così: 5 + 8 3 4 6 * ‡ ( ; rappresenta " " " " " " " " " d e g h i n o r t «Abbiamo così non meno di dieci lettere delle più importanti, e mi sembra inutile continuare con i particolari della soluzione […]. Ora non mi resta che darvi la traduzione completa dei caratteri del documento come sono stati decifrati. Eccola: «A good glass in the bishop's hostel in the devil's seat fortyone degrees and thirteen minutes northeast and by north main branch seventh limb east side shoot from the left eye of the death's-head a bee-line from the tree through the shot fifty feet out. «Il che significa: «Un buon vetro nell'albergo del vescovo nella seggiola del diavolo quarantuno gradi e tredici minuti nord-est quarto di nord fusto principale settimo ramo lato est, lascia cadere dall'occhio mancino del teschio una linea retta dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi al largo». Il crittogramma era decifrato e sfido i miei lettori a rifare i calcoli dello scrittore: ne potranno controllare l'esattezza. Ma cosa vuol dire tutto quel gergo e come aveva fatto Legrand a ricavarne un significato? Il suo primo sforzo era stato di mettere la punteggiatura. Chi aveva scritto il testo s'era fatto un dovere di raggruppare le parole senza dividerle, ma, non essendo molto abile, aveva infittito i caratteri proprio nei punti in cui si richiedevano una pausa o un'interruzione. Tenete a mente questa riflessione perché denota una conoscenza profonda della natura umana. Ora, il manoscritto presentava queste divisioni: «Un buon vetro nell'albergo del vescovo nella seggiola del diavolo — quarantuno gradi e tredici minuti — nord-est quarto di nord — fusto principale settimo ramo lato est — lascia cadere dall'occhio mancino del teschio — una linea retta dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi al largo». Dopo lunghe ricerche, Legrand era arrivato con suprema sagacia alle seguenti conclusioni. Scoprì dapprima, a quattro miglia a nord dell'isola, un vecchio maniero chiamato Castello di Bessop. Era un ammasso di picchi e di rocce con in cima una cavità che era denominata La Seggiola del Diavolo. Il resto era stato semplice: il buon vetro significava un cannocchiale e, puntandolo a 41° 13' nordest quarto di nord, si poteva vedere un grande albero. Nel suo fogliame brillava un punto bianco, il teschio umano. L'enigma era risolto. William raggiunse l'albero, trovò il fusto principale e il settimo ramo lato est e capì che si doveva far passare una palla attraverso l'occhio sinistro del teschio e che una linea retta tracciata dal tronco dell'albero attraverso la «palla» per una distanza di cinquanta piedi al largo gli avrebbe indicato il punto preciso in cui era sepolto il tesoro. Seguendo la sua natura fantastica e volendo punire l'amico con una piccola mistificazione, aveva usato lo scarabeo invece di una palla. E si era così arricchito di più di un milione di dollari. Questa novella curiosa, stupefacente, eccita l'interesse del lettore con effetti nuovi ed insoliti. È piena di osservazioni, di deduzioni di altissima logica e da sola basterebbe ad assicurare allo scrittore americano la celebrità che merita. Secondo me, è la più notevole di tutte le storie straordinarie, quella in cui si manifesta più compiutamente il genere letterario che ora viene definito genere Poe. III LA FROTTOLA DEL PALLONE - L'INCOMPARABILE AVVENTURA DI UN CERTO HANS PFAALL - IL MANOSCRITTO TROVATO IN UNA BOTTIGLIA - UNA DISCESA NEL MAELSTRÖM - LA VERITÀ SUL CASO VALDEMAR - IL GATTO NERO - L'UOMO DELLA FOLLA - LA CADUTA DELLA CASA USHER - TRE DOMENICHE IN UNA SETTIMANA. Parliamo ora della Frottola del pallone. Vi dirò in poche parole che narra di una traversata dell'Atlantico, compiuta in tre giorni da otto persone. Il racconto del viaggio apparve nel New York Sun. Furono in molti a crederci senza nemmeno darsi la pena di leggere il resoconto, perché i mezzi meccanici indicati da Poe (la vite d'Archimede che avrebbe fatto da propulsore e il timone) sono assolutamente insufficienti a dirigere un pallone. Gli aeronauti, partiti dall'Inghilterra per Parigi, sono trascinati in America, all'isola Sullivan. Durante la traversata salgono fino a venticinquemila piedi. La novella è breve e gli incidenti di viaggio risultano più strani che veri. Preferisco la storia intitolata L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall, sulla quale vi intratterrò più a lungo. Ma devo dirvi subito che anche in questo caso le leggi più elementari della fisica e della meccanica sono allegramente trasgredite. E questo mi ha sempre meravigliato in Poe, che avrebbe potuto rendere più verosimile il suo racconto con qualche invenzione. Dopo tutto si tratta di un viaggio sulla Luna e non si deve essere troppo difficili e complicati sui mezzi di trasporto. Questo Hans Pfaall era un criminale stravagante, una specie di assassino sognatore che, per non pagare i suoi debiti, decise di scappare sulla Luna. Partì da Rotterdam un bel mattino, dopo aver fatto saltare in aria i suoi creditori per mezzo di un'apposita mina. Devo raccontarvi adesso come Pfaall compì quel viaggio impossibile. Aveva riempito il suo pallone di un gas di sua invenzione, risultato dalla combinazione di una certa sostanza metallica e semimetallica e di un acido comunissimo. Questo gas era uno dei costituenti dell'azoto, che fino ad allora era considerato irriducibile, e la sua densità era trentasette volte inferiore a quella dell'idrogeno. Eccoci dunque, «fisicamente» parlando, nel regno della fantasia. Ma non è tutto! Sapete bene che la pressione dell'aria fa salire un aerostato. Giunto ai limiti superiori dell'atmosfera, a circa seimila tese, un pallone, se mai potesse arrivarci, si fermerebbe subito e nessuna forza umana potrebbe spingerlo oltre. Ed a questo punto Pfaall, o meglio Poe in persona, si lancia in discussioni molto bizzarre, tese a dimostrare che, al di là dei limiti considerati insuperabili, esiste ancora un ambiente etereo. Queste discussioni sono portate avanti con un notevole aplomb e le argomentazioni si basano quasi sempre su dati falsi, con il rigore più illogico. In breve, egli arriva a concludere che poteva darsi il caso, ed era una forte probabilità, che ad un certo punto della sua ascensione si sarebbe trovato, con i diversi pesi riuniti del suo immenso pallone (del gas estremamente rarefatto che esso conteneva, della navicella e del suo contenuto) ad eguagliare il peso della massa atmosferica spostata. Questo è il punto di partenza, ma andiamo avanti! Va bene salire, salire sempre, ma si deve anche respirare. Pfaall porta allora con sé un certo apparecchio che può condensare l'atmosfera, per quanto sia rarefatta, in quantità sufficiente da permettergli di respirare. Ed ecco che quella stessa atmosfera che deve essere condensata per far funzionare i polmoni, viene considerata abbastanza densa, nel suo stato naturale, da sollevare il pallone. Le contraddizioni sono evidenti! E non voglio insistere oltre. D'altra parte, una volta che si è accettato il punto di partenza, il viaggio di Pfaall è meraviglioso, ricco di osservazioni inattese e singolari. L'aeronauta trascina con sé il lettore nelle zone più elevate dell'atmosfera. Attraversa rapidamente una nube tempestosa; a nove miglia e mezzo di altezza ha l'impressione che gli occhi gli escano dalle orbite e che gli oggetti contenuti nella navicella gli appaiano mostruosamente deformati. Sale sempre; viene preso da uno spasmo; è costretto a praticarsi un salasso aprendosi una vena con un temperino e prova una sensazione immediata di sollievo. A un'altezza di diciassette miglia — dice Pfaall — l'aspetto della Terra era davvero magnifico: «Ad ovest, a nord, a sud, lontano fin dove potevo spingere lo sguardo, scorgevo una distesa sterminata di mare, calmissimo in apparenza, che ad ogni momento diventava di un turchino sempre più cupo. Lontanissimo poi, verso est, si allungavano perfettamente distinguibili le isole britanniche, le coste atlantiche della Francia e della Spagna e persino parte di quelle africane. Non trapelava traccia alcuna di edifici, e le più orgogliose città degli uomini erano completamente scomparse dalla faccia della Terra». Pfaall raggiunge un'altezza di venticinque miglia, per cui il suo campo visivo abbraccia non meno della trecentoventesima parte della superficie terrestre. Prepara il condensatore chiudendo la navicella in un sacco di caucciù. Condensa l'atmosfera e inventa un apparecchio ingegnoso che, bagnandogli il viso, lo fa svegliare ad intervalli regolari di un'ora e gli consente di rinnovare l'aria viziata. Giorno per giorno tiene un diario del viaggio. Era partito il 1° aprile; il 6 si trova sopra al polo; osserva l'immensa banchisa e vede allargarsi il suo orizzonte a causa dello schiacciamento della Terra. Il 7 pensa di trovarsi a un'altezza di settemiladuecentocinquantaquattro miglia. Sotto i suoi occhi si stende il massimo diametro terrestre e l'equatore segna il limite del suo orizzonte. Da quel momento il pianeta natale sembra rimpicciolirsi, ma Pfaall non riesce a vedere la Luna che è al suo zenit ed è nascosta dal pallone. Il 15 è terrorizzato da un rumore spaventoso e pensa di aver sfiorato un immenso aerolito. Il 17 sente di nuovo i morsi della paura: ha l'impressione che il diametro terrestre sia d'improvviso aumentato, che sia tornato di proporzioni enormi. E forse scoppiato il pallone? E sta dunque precipitando a una velocità eccezionale, pazzesca? Gli tremano le ginocchia, gli battono i denti, i capelli gli si rizzano sulla testa. Ma poi cerca di riflettere ed è facile immaginare la sua gioia quando si accorge che sta scendendo velocemente sulla Luna, la Luna che in tutta la sua gloria si stende ai suoi piedi. Mentre stava dormendo, il pallone aveva mutato direzione e ora stava scendendo sul satellite luminoso, le cui montagne vulcaniche erano in continua eruzione. Il 19 aprile, nonostante che le scoperte moderne provino l'assenza completa di atmosfera intorno alla Luna, Pfaall si accorge che l'aria si fa sempre più densa. Il suo apparecchio funziona senza alcuno sforzo e può persino aprire l'involucro di caucciù. Continua a scendere con una rapidità paurosa. Si libera di tutta la zavorra, di ogni oggetto contenuto nella navicella e precipita a capofitto «nel cuore di una città dal fantastico aspetto, in mezzo a una folla di mostruosi omiciattoli i quali rimasero tutti, senza che nessuno pronunziasse una sillaba né si degnasse di aiutarmi, a guardarmi ironicamente». Il viaggio era durato diciannove giorni. Pfaall aveva attraversato all'incirca duecentotrentunomilanovecentoventi miglia. Guardando la Terra, l'aveva vista «come un largo disco opaco di rame, di un diametro di circa due gradi, immobile negli spazi e ornato, da una parte, da una falce d'oro scintillante. Non vi si distingueva alcuna traccia dei continenti o del mare. Si notavano solo delle macchie in movimento e le cinture delle zone tropicali ed equatoriali». Finisce qui la strana avventura di Hans Pfaall. Ma in che modo questo racconto giunse al borgomastro di Rotterdam, Mynheer Superbus von Underduck? Fu per mezzo di un abitante della Luna: Hans chiedeva di poter tornare sulla Terra e di essere graziato del suo delitto. In cambio si impegnava a comunicare le sue curiose osservazioni sul nuovo pianeta: sulle sue «straordinarie alternative di caldo e di freddo»; sulla luce solare implacabile ed ardente anche per quindici giorni di seguito; e sulla temperatura glaciale, più che polare, che si ha nell'altra quindicina; sul trapasso continuo di umidità per distillazione come nel vuoto, dal punto immediatamente sotto il Sole al punto più lontano da esso; sulla razza dei suoi abitanti e sui loro usi, costumi e organizzazione politica; sulla loro singolare struttura fisica, la loro bruttezza, la mancanza di orecchie, inutili in un 'atmosfera così diversa dalla nostra e la conseguente loro ignoranza dell'uso e proprietà del linguaggio; sul modo singolare con cui comunicano tra loro; sull'incomprensibile rapporto che corre tra un dato abitante della Luna e un dato abitante della Terra, analogo a quello, e da esso dipendente, che regola i movimenti del nostro pianeta e del suo satellite, e per effetto del quale esistenza e destino degli abitanti dell'uno sono collegati ad esistenza e destino degli abitanti dell'altro. E avrebbe soprattutto riferito «riguardo agli oscuri, terribili misteri che hanno luogo in quelle regioni della Luna che mai, per la concordanza quasi miracolosa della rotazione del satellite con la sua rivoluzione siderale intorno alla Terra, sono esposte e mai, grazie a Dio, saranno esposte all'osservazione del telescopio umano». Riflettete attentamente su tutto ciò, cari lettori, e meditate sulle pagine magnifiche che Edgar Poe ha scritto su questi strani fatti! Ha preferito fermarsi qui. Conclude addirittura il suo racconto sostenendo che si tratta certamente di una mistificazione. Auspica perciò, e noi con lui, che venga finalmente scritta quella storia etnografica, fisica e morale della Luna che ancora oggi non esiste. Fino a quando qualcuno più ispirato o più audace non compia quell'impresa, dobbiamo rinunciare a sapere in qual modo particolare siano organizzati i lunari, come comunichino tra loro, sprovvisti come sono dell'uso della parola e soprattutto quale correlazione esista fra noi e gli abitanti del nostro satellite. Mi piace credere che, data la condizione d'inferiorità del loro pianeta, saranno buoni tutt'al più a farci da domestici. Vi ho detto che Edgar Poe ricava gli effetti più strani dalla sua bizzarra immaginazione. Vi darò gli esempi più rilevanti citando ancora qualcuno dei suoi racconti. Il manoscritto trovato nella bottiglia, per esempio, un racconto fantastico in cui i superstiti di un naufragio sono raccolti da un vascello impossibile, guidato da ombre; Una discesa nel Maelström, viaggio vertiginoso, tentato da alcuni pescatori di Lofoden; La verità sul caso Valdemar, dove la morte di un agonizzante viene differita mediante il sonno magnetico; Il gatto nero, storia di un assassino il cui delitto viene scoperto a causa di un gatto sotterrato malamente con la vittima. C'è poi L'uomo della folla, personaggio eccezionale, che riesce a vivere solo in mezzo alla folla e che Poe, sorpreso, toccato, attratto contro la sua volontà, segue fin dal mattino tra la pioggia e la nebbia di Londra, nelle strade popolate di gente, nei bazar tumultuosi, nei gruppi rumorosi, nei bassifondi dove si accalcano gli ubriachi, dovunque ci sia folla, che è il suo elemento naturale. E infine La caduta della casa Usher, avventura terrificante di una fanciulla che viene creduta morta, che viene seppellita e che ritorna… Ultima della lista è la novella intitolata Tre domeniche in una settimana. È meno cupa delle altre, ma molto bizzarra. Come può esistere una settimana con tre domeniche? Può esistere eccome: per tre persone e Poe lo dimostra perfettamente. La Terra infatti ha una circonferenza di ventiquattromila miglia e ruota sul suo asse da ovest a est 9 in ventiquattro ore: con una velocità quindi di mille miglia all'ora. Supponiamo che il primo individuo parta da Londra e faccia mille miglia in direzione est. Vedrà il Sole un'ora prima del secondo individuo che non si è mosso. Dopo altre mille miglia, lo vedrà due ore prima. Alla fine del suo giro del mondo, tornato al punto di partenza, sarà in anticipo di un'intera giornata sul secondo individuo. Se un terzo fa lo stesso viaggio, nelle stesse condizioni, ma in senso inverso, in direzione ovest, dopo il suo giro del mondo, sarà in ritardo di una giornata. Ma che succede allora ai tre personaggi riuniti, una bella domenica, al punto di partenza? Succede che per il primo domenica era ieri, per il secondo è oggi e per il terzo è domani. È uno scherzo cosmografico, insomma, espresso in termini molto curiosi. 9 Correggiamo l'errore di Verne che scambia est con ovest e viceversa, basandosi sulla traduzione di Hughes (ed. cit., p.152). L'errore è stato rilevato da F. Lacassin in J. Verne, Textes oubliés, cit., p. 142 e p. 153. IV AVVENTURE DÌ GORDON PYM - AUGUSTUS BARNARD - IL BRIGANTINO GRAMPUS - IL NASCONDIGLIO IN FONDO ALLA STIVA - IL CANE IDROFOBO - LA LETTERA DI SANGUE - RIVOLTA E MASSACRO - UN FANTASMA A BORDO - LA NAVE DEI MORTI - NAUFRAGIO - TORTURE DELLA FAME VIAGGIO AL POLO SUD - UOMINI NUOVI - L'ISOLA STRAORDINARIA - SEPOLTI VIVI - LA GRANDE FIGURA UMANA - CONCLUSIONE. Terminerò questo studio delle opere di Poe parlando del suo romanzo. Si intitola Avventure di Arthur Gordon Pym ed è più lungo dei suoi racconti più lunghi. È forse più umano delle storie straordinarie, ma non per questo meno fuori dal comune. Narra fatti drammatici ed insoliti; ma sarete voi a giudicare. Il romanzo inizia con una lettera del suddetto Gordon Pym che vuol dimostrare che le sue avventure non sono immaginarie come potrebbe lasciar credere la firma ad esse apposta dal signor Poe. Intende provare la loro autenticità e noi, senza andare così lontano, vedremo se è perlomeno probabile, per non dire possibile, che siano realmente accadute. È lo stesso Gordon Pym che racconta. Fin da bambino aveva avuto la passione dei viaggi e malgrado una certa disavventura che stava per costargli la vita, ma che non era valsa a correggere le sue inclinazioni, un giorno progettò, contro il volere e all'insaputa della famiglia, d'imbarcarsi sul brigantino Grampus, attrezzato per la caccia alla balena. Un suo amico, Augustus Barnard, che faceva parte dell'equipaggio, avrebbe favorito il progetto preparando un nascondiglio nella stiva dove Arthur sarebbe rimasto fino al momento della partenza. Tutto procede senza alcuna difficoltà e il nostro eroe sente il brigantino mettersi in moto. Ma dopo tre giorni di cattività, la sua mente comincia a confondersi, ha dei crampi alle gambe e le provviste di cibo vanno a male. Passano le ore, Augustus non si fa vedere e il prigioniero è tormentato da una nera inquietudine. Poe descrive con immagini estremamente vigorose e con parole efficaci le allucinazioni, i sogni, i miraggi bizzarri dell'infelice e le sue sofferenze fisiche e morali. Ha perso la parola, ha la testa annebbiata e in quel momento di disperazione sente che le zampe di un mostro enorme gli opprimono il petto e ne vede scintillare gli occhi come globi infuocati. Il cervello in fiamme, sta per uscir di senno, quando il mostro tenebroso si mette a fargli delle carezze, con le più pazze dimostrazioni di affetto e di gioia. Non era altri che Tiger, il suo terranova, che lo aveva seguito a bordo. Era suo amico e compagno da sette anni. Arthur ritorna a sperare e tenta di riannodare il filo delle idee. Ha smarrito la sensazione del tempo: da quanti giorni è immerso in quella inerzia morbosa? È agitato dalla febbre e per colmo di sventura la brocca d'acqua è vuota. Decide allora di raggiungere, a qualunque costo, la botola, ma i rollii e i beccheggi del brigantino urtano e spostano la merce stipata nella cala. Ad ogni momento c'è il rischio che si blocchi l'unica via d'uscita. Tuttavia, dopo mille sforzi dolorosi, raggiunge lo sportello della botola. Ma cerca invano di forzarlo con la lama del coltello: è tutto inutile! Pazzo di disperazione, si trascina di nuovo spossato, esausto, al suo nascondiglio e si butta sul materasso. Tiger cerca di consolarlo con le sue carezze. Il suo comportamento però spaventa il padrone: il cane emette sordi lamenti ed ogni volta che Arthur allunga la mano per toccarlo lo trova disteso sul dorso, con le zampe in aria. Notate la sequenza di eventi attraverso cui Poe ha preparato il lettore a credere a tutto, ad aspettarsi di tutto. Ma vi sentite lo stesso rabbrividire al titolo del capitolo successivo: Tiger idrofobo! 10 Avete la tentazione di interrompere la lettura. Ma prima di provare l'orrore supremo, il nostro fa un'altra scoperta: accarezzando Tiger si accorge che sotto la sua spalla sinistra è legata con una cordicella una strisciolina di carta. Va alla ricerca disperata dei suoi zolfanelli e stropicciando forte un po' di zolfo ottiene una luce pallidissima che si estingue rapidamente. A questa specie di chiarore riesce a leggere solo queste parole:… sangue — Rimani nascosto, ne va della tua vita. Sangue! Quella parola! in quella situazione! E proprio allora, al chiarore del fosforo, avverte un singolare mutamento nel comportamento di Tiger! Senza dubbio la mancanza d'acqua lo aveva reso idrofobo. Adesso se il padrone cercava di uscire dal suo nascondiglio, il cane sembrava volergli sbarrare la strada. Allora questi, terrorizzato, avviluppandosi nel mantello per proteggersi dai morsi, lotta disperatamente con l'animale. Ha la meglio e riesce a chiuderlo nella cassa che gli serviva da nascondiglio. Perde i sensi. Un rumore, un mormorio, il suo nome pronunciato a voce bassa ed esitante lo risvegliano dal torpore in cui è precipitato. Augustus gli è accanto e gli accosta alle labbra una bottiglia d'acqua. Ma cosa era successo a bordo? L'equipaggio si era ammutinato e il capitano e ventuno uomini erano stati eliminati. Augustus era stato risparmiato grazie alla protezione inattesa di un certo Peters, un marinaio dalla forza prodigiosa. Dopo la spaventosa carneficina, il Grampus aveva continuato 10 È Baudelaire che, nella sua versione, mette i titoli ai capitoli del romanzo. la sua navigazione e il racconto delle sue avventure, ci dice il narratore, «conterrà, nella sua ultima parte, episodi di natura così eccezionale e così fuori dai limiti dell'umana credibilità che io, nel continuarlo, dispero di poter essere mai creduto e non confido che nel tempo e nel progresso della scienza affinché talune delle mie più rilevanti e meno plausibili affermazioni trovino conferma». Ma procedo rapidamente. I capi della rivolta erano due, il secondo e il cuoco Peters. Fra i due esisteva una sorda rivalità. Barnard decide di approfittarne e rivela a Peters, i cui sostenitori fra gli ammutinati diminuiscono sempre più, la presenza di Gordon Pym a bordo. Meditano d'impadronirsi della nave. L'occasione favorevole è la morte di un marinaio. Arthur fingerà di essere il suo fantasma e i congiurati approfitteranno del panico provocato dalla sua apparizione. La messinscena produce un terrore agghiacciante; inizia lo scontro e Peters e compagni, aiutati da Tiger, hanno la meglio. Rimangono soli a bordo con un marinaio di nome Parker, che era sopravvissuto e che si unisce a loro. C'è una tempesta spaventosa! La nave, dopo una rollata paurosa, s'inclina sulla fiancata e, poiché lo stivaggio è scivolato da una parte, rischia di capovolgersi del tutto. Ma si riassesta in qualche modo. Sopravvengono le torture della fame e falliscono miseramente tutti i tentativi di arrivare alla cambusa: sono descritti con ritmo incalzante. Quando più atroci diventano le sofferenze avviene un fatto terrificante, fra i più congeniali al talento di Poe. Una nave è in vista dei naufraghi, un grosso brigantino costruito all'olandese, dipinto di nero e con una pomposa polena dorata. Si avvicina lentamente, poi si allontana e infine torna indietro. Sembra seguire una rotta incerta. In un'ultima imbardata passa a soli venti piedi dal Grampus e i naufraghi possono finalmente abbracciare con lo sguardo tutto il ponte della nave. Che orrore! È coperto di cadaveri ed a bordo non c'è un solo essere vivente! Ma sì, c'è un corvo 11 che volteggia su tutti quei morti. Poi lo strano vascello scompare, portando con sé il suo orrendo e insondabile mistero. Nei giorni seguenti i tormenti della fame e della sete diventarono intollerabili. Le torture della zattera della Medusa non potrebbero dare che un'idea imperfetta di ciò che accadde a bordo; si discusse freddamente di cannibalismo e si tirò a sorte. Parker non ebbe fortuna. Gli sventurati andarono avanti così fino al 4 agosto. Barnard, stremato, era morto. La nave, per un moto irresistibile, si capovolge a poco a poco e rimane con la chiglia in aria. I naufraghi vi si aggrappano e riescono a sfamarsi con delle grosse ostriche che avevano ricoperto la chiglia e che si rivelano un cibo eccellente. Ma non hanno più acqua. Infine, il 6 agosto, dopo nuovi angosciosi patimenti, nell'alternarsi di speranze e delusioni, sono raccolti dalla goletta Jane Guy di Liverpool, comandata dal capitano Guy. Sono andati alla deriva per non meno di venticinque gradi da nord a sud. La Jane Guy era diretta nei mari del sud in cerca di vitelli marini e il 18 ottobre gettò l'ancora a Christmas Harbour, nell'Isola della Desolazione. Il 12 novembre salpò da Christmas Harbour e raggiunse, in 11 Il testo originale parla di un gabbiano. Qui c'è forse una suggestione del Corvo di Poe. una quindicina di giorni, le isole di Tristan da Cunha. Il 12 dicembre il capitano Guy decise di spingersi verso il polo sud. A questo punto il narratore si trasforma in un curioso erudito e racconta le scoperte avvenute in quei mari parlandoci dei tentativi del celebre Weddell, i cui errori sono stati rettificati dal nostro Dumont d'Urville durante i suoi viaggi sull'Astrolabe e la Zélée 12 . Il 26 dicembre la Jane Guy superava il 63° parallelo e si trovava in mezzo alla banchisa. Il 18 gennaio l'equipaggio pescava la carcassa di un animale terrestre di aspetto singolarissimo: «Era lungo tre piedi e alto non più di sei pollici, con le gambe cortissime e i piedi muniti di lunghi artigli di un rosso acceso che parevano corallo. Aveva il corpo tutto rivestito d'un fitto pelame come di seta, perfettamente bianco. Aveva la coda sottile come quella di un ratto e lunga circa un piede e mezzo. La testa somigliava a quella di un gatto, fuorché per le orecchie che gli pendevano come quelle di un cane. I denti li aveva dello stesso colore rosso vivo degli artigli». Il 19 gennaio fu segnalata di nuovo terra sull'83° grado di latitudine. Dei selvaggi, degli uomini mai visti, con la pelle nera come il carbone, si avvicinarono alla goletta. Credevano che la Jane fosse una creatura vivente. Il capitano, incoraggiato dal comportamento amichevole degli indigeni, decise di visitare l'interno dell'isola. Con una dozzina di marinai armati fino ai denti arrivò al villaggio di Klock-Klock dopo tre ore di marcia. Arthur faceva parte della spedizione. «A mano a mano che ci si inoltrò nel paese, sempre più andammo convincendoci di trovarci su una terra in tutto e per tutto diversa da quelle sino allora visitate dagli uomini civili. Nulla di quanto vedevamo ci 12 In Le Sphinx des glaces Verne riprenderà e svilupperà la storia delle esplorazioni antartiche, partendo dalle pagine ad esse dedicate nel Gordon Pym. Ai viaggi di Dumont d'Urville si accenna nel capitolo X della I parte del romanzo verniano. tornava familiare». Gli alberi infatti non somigliavano a nessuno di quelli caratteristici delle zone torride, le rocce riuscivano nuove nella massa e nella stratificazione e l'acqua presentava fenomeni ancora più singolari! «Sebbene fosse limpida non meno di ogni altra acqua calcarea esistente, non aveva l'aspetto abituale della limpidezza. Dispiegava all'occhio tutte le possibili sfumature della porpora, come una seta cangiante» con le sue sfumature e i suoi riflessi. Anche gli animali di quella regione differivano dagli animali conosciuti, almeno per il loro aspetto. I marinai della Jane Guy e gli indigeni avevano rapporti molto amichevoli. Si decise perciò un secondo viaggio all'interno dell'isola: sei uomini rimasero a bordo della goletta e tutti gli altri si misero in marcia. Il gruppo, accompagnato dai selvaggi, si inoltrò per valli strette e tortuose. Incontrò ad un certo momento un'alta parete di roccia, striata da fenditure, che attirò l'attenzione di Arthur. Mentre questi stava esaminando una delle spaccature insieme a Peters e a un certo Wilson, avvertì — come dice — «una scossa che non avevo mai provato e che mi diede una vaga idea […] di qualcosa che crollava alla base del globo terrestre come se fosse arrivato il giorno della distruzione universale». Erano sepolti vivi. Dopo essere tornati in sé, Peters e Arthur si accorsero che Wilson era rimasto schiacciato. I due sventurati si trovavano in mezzo a una collina costituita da una roccia morbida, una specie di pietra-sapone. Erano stati investiti da una frana, ma da una frana artificiale: i selvaggi avevano fatto precipitare la parete rocciosa sull'equipaggio della Jane Guy. Erano morti tutti, eccetto loro due. Scavando un passaggio nella roccia tenera, raggiunsero allora un'apertura da cui riuscirono a vedere il territorio circostante che brulicava di indigeni. Stavano attaccando la nave e i marinai si difendevano a colpi di cannone. Alla fine gli attaccanti ebbero la meglio e incendiarono la goletta che saltò in aria in una terribile esplosione. Molte migliaia di uomini vi persero la vita. Per parecchi giorni Arthur e Peters rimasero nel labirinto sotterraneo nutrendosi di nocciole. Il nostro eroe rilevò con esattezza la forma del labirinto che finiva in tre burroni. Nel suo racconto ce ne dà addirittura il disegno e riproduce certi segni che sembravano incisi sulla roccia. Dopo tentativi sovrumani, i due riuscirono a scendere nella pianura. Inseguiti da un'orda di selvaggi urlanti, s'impadronirono di una canoa, dove si era rifugiato un indigeno, e presero il largo. Si trovarono allora in mezzo all'oceano Antartico «a più di ottantaquattro gradi di latitudine, su una fragile canoa, e senza altre provviste che tre tartarughe» Usarono le loro camicie per farsi una specie di vela. Ma la vista della tela impressionò stranamente il prigioniero che sembrava aver orrore del bianco. Continuarono a navigare verso sud ed entrarono in una regione di novità e meraviglia: «Un'alta barriera di vapore grigio si stendeva lungo l'orizzonte sud e a tratti s'illuminava di lunghe strisce tremolanti che correvano ora da est a ovest e ora da ovest a est per poi raccogliersi tutte in una sola linea uniforme». Fenomeno ancora più strano: la temperatura dell'acqua aumentava e presto divenne insopportabile. Il mare assunse una tinta opaca e lattiginosa. Arthur e Peters appresero dal loro prigioniero che l'isola che era stata teatro del disastro si chiamava Tsalal. Il povero diavolo era in preda a violente convulsioni quando vedeva un qualunque oggetto bianco. Ad un tratto il mare si agitò e il fenomeno fu accompagnato da uno strano balenio del vapore in superficie. «Una finissima polvere bianca, simile a cenere ma che non era affatto cenere, cadde sull'imbarcazione e su un largo tratto di mare mentre il balenio luminoso del vapore svaniva e l'acqua ritornava calma dappertutto». Andò avanti così per qualche giorno; i tre infelici erano intorpiditi nel corpo e nello spirito e ormai l'acqua era tanto calda che non era possibile immergervi la mano. E cito adesso per intero la pagina finale di questo stupefacente racconto: «9 marzo. La strana sostanza come di cenere continuava a pioverci attorno in enorme quantità. La barriera di vapore era salita sull'orizzonte sud a un'altezza prodigiosa e cominciava ad assumere una forma distinta. Io non sapevo paragonarla ad altro che ad un'immane cateratta la quale precipitasse silenziosamente in mare dall'alto di qualche favolosa montagna perduta nel cielo. La gigantesca cortina occupava l'orizzonte in tutta la sua estensione. Da essa non veniva alcun rumore. «21 marzo. Una funebre oscurità aleggiava su di noi, ma dai lattiginosi recessi dell'oceano scaturiva un fulgore che riverberava sui fianchi della barca. Eravamo quasi soffocati dal tempestare della cenere bianca che si accumulava su di noi e riempiva l'imbarcazione, mentre nell'acqua si scioglieva. La sommità della cateratta si perdeva nell'oscurità della distanza. Nel frattempo risultava evidente che correvamo diritto su di essa ad una impressionante velocità. A tratti, su quella cortina sterminata si aprivano larghe fenditure, che però subito si richiudevano, attraverso le quali, dal caos di indistinte forme vaganti che si agitava al di là, scaturivano possenti ma silenziose correnti d'aria che sconvolgevano, nel loro volo, l'oceano infiammato. «22 marzo. L'oscurità si era fatta più intensa e solo il luminoso riflettersi nelle acque della bianca cortina tesa dinnanzi a noi ormai la rischiarava. Una moltitudine di uccelli giganteschi, di un livido color bianco, si alzava a volo incessantemente dietro a quel velo singolare […]. Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della Terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve». Con queste parole il racconto viene interrotto. E chi mai lo riprenderà? Qualcuno più audace di me e più ardito nell'avventurarsi nei dominii dell'impossibile. Devo credere peraltro che Arthur Gordon Pym si sia salvato perché fu lui in persona a scrivere questo strano libro; ma morì prima di aver terminato la sua opera. Poe sembra rammaricarsene vivamente e dichiara di non volerne colmare le lacune. Vi ho così riassunto le opere principali dello scrittore americano. Sono andato forse troppo lontano considerandole strane e soprannaturali? Ma sono convinto che egli abbia realmente creato una nuova forma letteraria che trae origine dalla sensibilità della sua mente eccessiva, per usare uno dei suoi termini preferiti. Lasciando da parte l'incomprensibile, ciò che dobbiamo ammirare nelle opere di Poe è la novità delle situazioni, la discussione di fatti quasi del tutto ignoti, l'analisi delle facoltà morbose dell'uomo, la scelta degli argomenti, la personalità sempre strana dei suoi eroi, il loro temperamento ipersensibile e nervoso, la loro maniera d'esprimersi per bizzarre interiezioni. Eppure talvolta l'impossibile è presentato al lettore in modo credibile e verosimile. Mi sia consentito infine di richiamare l'attenzione sul carattere materialistico di questi racconti: non vi avvertiamo mai un intervento provvidenziale. Poe non sembra ammetterlo e vuole spiegare tutto mediante le leggi fisiche che arriva ad inventare quando sia necessario. Non sentiamo in lui la fede che dovrebbe essergli comunicata dalla contemplazione incessante del soprannaturale. Fa del fantastico a freddo, se posso esprimermi così, e quello sventurato è ancora un apostolo del materialismo. Ma io penso che ciò non dipenda tanto dal suo temperamento quanto dall'influenza della società pratica e industriale degli Stati Uniti. Ha scritto, pensato, sognato da americano, da uomo positivo. Pur constatando questa tendenza, ammiriamo le sue opere. Questi racconti straordinari ci fanno intravedere lo stato di continua sovreccitazione nel quale Edgar Poe viveva. Sfortunatamente la sua natura non gli bastava e i suoi eccessi lo indussero alla spaventosa malattia dell'alcool che ha raccontato così bene e di cui è morto.