Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi 70 ANNO periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Perugia € 2.70 08 15 aprile 2011 federalismo il governo delle regioni Libia il ruolo delle tribù Parmalat la posta in gioco il declinante fascino della laurea energia nucleare sì, nucleare no pianeta coppia lei e lei, lui e lui la religione civile e politica in vari contesti Lega Nord chi comanda in Italia TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X far conoscere Rocca in modo “leggero” ma completo? passa ad un amico i 5 mm di spessore del Cd rom Rocca 2010 perché con un click spaziando di articolo in articolo possa visionare tutta un’annata e si inserisca nella rete degli abbonati di Rocca Rocca sommario 4 7 11 13 14 17 18 21 24 27 28 29 15 aprile 2011 37 40 43 08 44 47 Ci scrivono i lettori 49 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace La monomania della guerra Maurizio Salvi Libia Il ruolo delle tribù Romolo Menighetti Oltre la cronaca I nostri creditori Ritanna Armeni Lega Nord Chi comanda in Italia Francesco Saverio Festa Federalismo Il governo delle regioni Roberta Carlini Parmalat La posta in gioco Oliviero Motta Terre di vetro Il contapassi Tonio Dell’Olio Camineiro L’ora legale Pietro Greco Ugo Leone Energia Nucleare sì, nucleare no Inserto Fiorella Farinelli Calo matricole Il declinante fascino della laurea Rosella De Leonibus Pianeta coppia Lei e lei, lui e lui Vincenzo Andraous Tempi di guerra Far West Marco Gallizioli Fondamentalismo La religione civile e politica in vari contesti Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Paul Grice Il discorso cooperativo 51 52 54 56 57 58 58 59 59 60 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Nuova Antologia Gilbert Keith Chesterton Un grande antropologo della letteratura Filippo Gentiloni Vizi&virtù Arturo Paoli Amorizzare il mondo Sete di contemplazione Carlo Molari Teologia Il Gesù di Ratzinger e l’espiazione Lidia Maggi Giobbe Fuori luogo Paolo Vecchi Cinema Sorelle Mai Roberto Carusi Teatro C’è modo... e moda Renzo Salvi Rf&Tv Tramate con noi Mariano Apa Arte Wojtyla Alberto Pellegrino Spettacoli A Roma un grande Nabucco Ernesto Luzi Spettacoli Fondazione Pergolesi Spontini Giovanni Ruggeri Siti Internet Crowdsourcing: sfide e ambiguità Libri Carlo Timio Rocca Schede Paesi in primo piano Norvegia Luigina Morsolin Fraternità I Progetti: a che punto siamo? ci scrivonoi lettori Le solite Poste quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 8 – 15 aprile 2011 70 ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa-LaPresse, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, LaPresse, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Natale G. M., Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione Via Ancaiani, 3 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Fax Redazione 075/3735197 Fax Uff.abbonamenti 075/3735196 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: UniCredit - Assisi intestato a: Pro Civitate Christiana - Rocca IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 (Paese IT Cin 26 Cin A Abi 02008 Cab 38277 n. 0000 41155890) dall’estero IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 BIC (o SWIFT) UNCRITM1J46 Quote abbonamento 2011 Annuale: Italia € 60,00; estero € 85,00; Sostenitore: € 150,00 Semestrale: per l’Italia € 35,00 una copia € 2,70 - numeri arretrati € 4,00 ROCCA 15 APRILE 2011 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Numero di iscrizione al ROC: 5196 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 02/04/2011 e spedito da Città di Castello il 05/04/2011 4 Sono felice abbonata, scrivo per segnalare anche a nome di Marina Buda, anche lei abbonata soddisfatta, che il n. 6 della rivista (spedito da voi l’8 marzo) ci è giunto rispettivamente il 28 e 29 marzo. L’astinenza da letture significanti è pesante! Sappiamo che non dipende da Voi, ma reclamate con chi è responsabile di questo disservizio. Grazie per il Vostro impegno che ci aiuta a discernere in questi tempi oscuri e tempestosi, Antonietta Del Brocco Roma Lo facciamo continuamente con le Poste Centrali. Ma è ancora più utile reclamare con il proprio Ufficio postale da cui spesso dipende il ritardo nella distribuzione locale. Un passo falso Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Egregi amici, disappunto o sgomento che sia, non riesco a trovare su Rocca una mia lettera aperta trasmessa il 19 ottobre nell’immediato seguito della Settimana sociale di Reggio Calabria. Mi era sembrato giusto, allora, sollevare alcuni quesiti: A) un mancato messaggio finale al Paese, che poteva essere prosecuzione delle sollecitatrici parole del card. Bagnasco («... Ai cattolici con doti di mente e di cuore... A loro diciamo di buttarsi nell’agone... ecc.») rimpiazzato dal «burocratico» annuncio tramite Avvenire del prof. Diotallevi che il comitato scientifico pubblicherà gli atti della Settimana; B) Il silenzio assoluto della stampa nazionale; C) Il suggerimento all’alta sovrintendenza di inoltrarsi con metodo inventivo anche in un «viceversa», un dialogo con il laicato nazionale CI SCRIVONO I LETTORI Giorgio Grigolli Trento Non abbiamo ricevuto comunicati significativi al termine della Settimana Sociale dei cattolici di Reggio Calabria. È uscita solo ora «un’agenda di speranza per il futuro del Paese», presentata dai vescovi a conclusione della suddetta Settimana. Ne ha scritto Raniero La Valle nel n. 7. 17 marzo 2011 Ho provato una forte emozione nel vedere alla televisione la partenza dei nostri aerei per una azione di guerra. Credevo, alla mia avanzata età di oltre ottanta anni, di non assistere più a «fatti» bellici. Quando sono nato nel 1928 ho trascorso i primi anni presso i nonni paterni che nel 1913 andarono a Tripoli a portare i primi segni della civiltà. Il nonno fu il primo capostazione delle Ferrovie dello Stato a Tripoli, e avevano un ricordo positivo di quegli anni trascorsi nella «quarta sponda». Dopo ho assistito, attraverso la radio, alla guerra in Etiopia e ho segnato sulla carta geografica di quel paese lontano con le bandierine l’avanzata delle nostre truppe fino a Addis Abeba e alla proclamazione dell’Impero. Nel 1939 ho assistito, sempre attraverso la radio, alla dichiarazione di guerra contro le nazioni «demoplutocratiche» e ho seguito tutte le fasi attraverso il bollettino di guerra delle ore 13 trasmesso dalla radio. L’otto settembre 1943 fu un giorno triste mentre le campane suonavano a stormo. L’armistizio. La Liberazione da parte degli angloamericani fu celebrata come speranza di non più guerre. La Costituzione del 1948 all’art. 11 dichiara che l’Italia ripudia la guerra. Ci ho creduto. E da allora, quando ho assistito a Livorno – città che conserva il nome di Tripoli, Bengasi, Misurata e Derna, come targhe stradali – alla partenza delle nostre truppe verso la Somalia e al ritorno dal Libano «in missione di pace» mi sono commosso così come mi commossi quando a Kindu gli aviatori della 46a aereobrigata di Pisa furono trucidati da quelle popolazioni che non avevano capito il valore della loro missione di pace. Poi i caduti in missione di pace sono stati parecchi, troppi. Negli ultimi trenta anni quando ho avuto occasione, ho organizzato concorsi di disegno, aventi come tema La pace, nelle scuole contribuendo a far crescere le nuove generazioni nel rispetto della vita e della tolleranza soprattutto. E la bandiera della pace spesso si affiancava a quella nazionale. Oggi, 17 marzo 2011 ore 17, 45 nostri aerei decollano per bombardare. Non mi ha assolutamente convinto il Presidente della Repubblica. Resto convinto che l’art. 11 non sia stato rispettato. Mario Lorenzini Livorno Libia che fare? «Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno», scriveva Rossana Rossanda sul Manifesto del 20 marzo. Non solo, ci viene meno anche la forza e la capacità di agire. Gli avvenimenti sono così repentini, così violenti, così mediaticamente predeterminati e necessitati che noi, semplici cittadini, restiamo schiacciati dall’«evento», inchiodati alla nostra impotenza, e, nel caso della Libia, strattonati tra opposte sponde. Ho comunque l’impressione che noi ci si ritrovi sempre di fronte a dei nodi intrigati e complessi che la politica sporca dell’interesse ha nel tempo costruito e solo la spada, a breve termine, può sciogliere, magari costruendone altri e peggiori. Quando ci si domanda sul «che fare?» è sempre troppo tardi. I problemi, purtroppo, si propongono o si impongono sempre quando sono già diventati cancrenosi. Purtroppo «si affrontano le questioni quando diventano insolubili» denuncia Gino Strada nell’intervista che vi allego e, aggiunge, la guerra rischia di diventare una necessità «quando non si fa nulla per anni, anzi per decenni»! Leggo su un giornale locale: È bufera sulla trasmissione Forum, condotta da Rita Dalla Chiesa, dopo che nella puntata di venerdì una finta terremotata aquilana ha raccontato davanti a milioni di telespettatori che «L’Aquila è stata ricostruita», «Ci sono case con giardini e garage», «La vita è ricominciata», e «Chi si lamenta lo fa per mangiare e dormire gratis». La donna, Marina Villa, 50 anni, abruzzese, è stata pagata 300 euro per interpretare una finta terremotata che sta per separarsi dal marito Gualtiero. Durante la trasmissione ha raccontato in Tv che «durante il terremoto sembrava la fine del mondo» ma adesso tutto è tornato alla normalità e chi sta ancora in hotel ci sta «a spese dello Stato: mangiano, bevono e non pagano, pure io ci vorrei andare». Poi ha ringraziato il presidente del Consiglio, il governo e il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Lottiamo e speriamo per tempi migliori. Aldo Antonelli Antrosano (Aq) La guerra e il Vangelo Scrivo in merito alla guerra che si sta consumando sul territorio libico in questi giorni ed al comportamento e posizioni della gerarchia della chiesa italiana che stanno maturando. Ho detto posizioni, ma contrariamente a tutti gli interventi sulla situazione italiana politica e non sulla quale vengono quotidianamente fatti, più o meno indebitamente, saccenti interventi, su questo tema basilare viene glissato con un semplice «speriamo duri poco» e di «si rispettino i civili» senza prendere una posizione, che a mio parere dovrebbe essere non diplomatica o di convenienza, ma chiara presa di distanza da qualunque intervento armato, anche diretto a «nobili» fini. Sono innanzitutto un credente nel messaggio evangelico e sono anche cristiano e cattolico romano (credo fermamente alla successione apostolica) e la mia crisi di coscienza nel constatare questo comportamento di fronte ad un fatto, questo sì «non negoziabile», diviene fortissima. ROCCA 15 APRILE 2011 (una tavola rotonda nella Settimana, «come noi (laici) vediamo voi (cattolici)»; D) Un qualche ripensamento per «consegnare» a un laico eminente la presidenza della Settimana, fin qui stabilizzata sulla presidenza (meritoria ecc.) di un vescovo. Mi sembravano spunti di confronto. La Settimana la vedo confinata adesso in una considerazione occasionale (per quanto condivisibile) di Giancarlo Zizola nel numero del 15 novembre. Mi sembra in sé poco comprensibile che Rocca, come tale, non abbia dedicato un titolo riepilogativo di analisi alla Settimana in quanto tale. Segnalo il punto di vista. Senza chiedere peraltro pubblicazione. È una seconda o terza volta. Assicuro, tuttavia, che da «scrittore» persisterò cordialmente in «lettore». 5 CI SCRIVONO I LETTORI Giovanni Paolo II condannò senza indugio l’intervento in Iraq. Perché in questo caso non si fa altrettanto? Il Tg1 di questa sera (20/3) ha citato il card. Bagnasco che avrebbe detto, durante una liturgia, che il Vangelo chiede di intervenire. Forse in Liguria è adottato un vangelo diverso ma mi sembra una aberrazione. Un’affermazione di chi oramai è talmente impastato di contiguità con il potere che non può più permettersi di gridare con libertà quello che veramente il Vangelo dice e chiede a ciascuno. No alla violenza. Allora perché la teologia della liberazione è considerata eretica? Si dice che c’è un dittatore e per i diritti umani si deve intervenire per mandarlo via ed instaurare uno Stato diverso. Ma se questo discorso già è poco e male sostenibile sotto l’aspetto laico può al limite essere sostenuto dal Presidente della Repubblica o dai politici, ma che centra con il Vangelo? Ed i vescovi non devono parlare con il Vangelo in mano? Se i popoli tunisini, egiziani e speriamo altri riusciranno a liberarsi dei loro tiranni, dovremo aiutarli nel loro processo di costruzione di una nuova società, come loro la vorranno e non come noi la vorremmo. Se di conseguenza invece il popolo libico non riuscirà in questa occasione a fare altrettanto, perché evidentemente una grossa fetta di popolazione sta da un’altra parte, dovrà attendere un’altra opportunità, ma deve dipendere sempre da loro stessi, dovranno farcela da sé. ROCCA 15 APRILE 2011 Paolo Barbieri Vaiano (Po) Illusi? Ma almeno sinceri Siamo abituati da tanto tempo a condividere con figli, nipoti, amici, piccole 6 comunità di cui facciamo parte, gli avvenimenti personali, locali, e universali che viviamo nella Chiesa e nel mondo. Da parecchio tempo, e in questo periodo molto di più, viviamo davvero con angoscia il fatto di avere un capo di governo che non sa più cosa fare per squalificarsi, per confermarci quello che aveva detto di lui la ormai ex seconda moglie. «È un uomo malato, frequenta le minorenni...» ecc. ecc. A 73 anni, nonno, è talmente malato che ha dichiarato alla televisione e alla stampa: «A me piacciono le donne; non ho nessuna intenzione di cambiare vita». Di fronte a Dio e agli uomini onesti, non lo salva neanche il pentimento, perché non lo invoca. Quello che ci angoscia di più è che molti capi della gerarchia attuale della nostra Chiesa cattolica, bene o male, più palesemente, o meno, continuano a sostenerlo, non solo lui, ma tutta la sua cricca, Lega Nord compresa, xenofoba e razzista. Quel «Che piacere incontrarla!» lo vorremmo cancellare, ma è difficile. Capiamo benissimo che come interessi materiali abbiate molto da guadagnarci, ma non in termini di credibilità. Ci viene seriamente da chiederci: «ma queste persone credono davvero in Dio, nel Suo Regno, in Gesù di Nazareth, nel suo Vangelo che predicano, o di Dio e di Gesù se ne servono per costruirsi il loro regno qui?». E siamo ancora più preoccupati e indignati, perché in non pochi avete operato per eliminare dalla scena politica un uomo come Romano Prodi che almeno ci ha dimostrato serietà e coerenza, che agli attuali governanti manca del tutto e anche sfacciatamente. E non vi lamentate poi se in molti lasciano la Chiesa cattolica, domandatevi piuttosto se non sia l’ora di cambiare strada, oppure di lasciare ai veri credenti in Gesù di Nazareth e nel suo Vangelo la guida del Vaticano, anche a costo di impoverirlo materialmente, facendo memoria che ogni ricchezza puzza di ingiustizia... Vale per la mia, la nostra, e la vostra. Lo sentiamo «anche» un dovere informarvi dal vero, lo sdegno che proviamo di fronte ad avvenimenti nauseanti e che fanno riflettere a molti di noi se sia ancora il caso di impegnarci con voi, o di lasciarvi andare per la vostra e loro strada; e noi cercare la nostra con fratelli impegnati nella costruzione «del Regno, che non è di questo mondo». Ci considerate degli illusi? Ma almeno sinceri. Luigi Gallino Genova Nonviolenza La celebrazione del 50° anniversario della Marcia per la pace Perugia-Assisi è una grande occasione per riflettere su quella straordinaria iniziativa e sull’energia che ha generato e per riscoprire la figura e il messaggio di Aldo Capitini. Nonviolenza è la prima delle sette parole che abbiamo posto al centro del percorso che ci porterà alla Marcia PerugiaAssisi del 25 settembre 2011. Una parola e un valore che abbiamo bisogno di riscoprire, rivalutare e ricollocare nella nostra vita come nella società. «La nonviolenza è il punto della tensione più profonda tesa al sovvertimento di una società inadeguata» (Aldo Capitini). Con questo spirito, la Tavola della pace e il Movimento Nonviolento lavoreranno insieme per organizzare la prossima Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli, per fare in modo che possa essere la più larga, popolare e aperta a tutti e per riproporre la straordinaria attualità e urgenza della nonviolen- za. «La nonviolenza è per l’Italia e per tutti via di uscita dalla difesa di posizioni insufficienti, strumento di liberazione, prova suprema di amore, varco a uomo, società e realtà migliori» (Aldo Capitini). Tavola della Pace Perugia Movimento Nonviolento Verona Tatic Samuel Ruiz Alcuni veronesi l’hanno conosciuto. Con Pax Christi, come risulta dalle parole di Alberto Vitali e Tonio Dell’Olio (che riprendo per un comunicato), aveva molta sintonia. In questi giorni, anche noi siamo tristi come la selva Lacandona dove i suoi alberi si inchinano per salutarlo. Mons. Samuel Ruiz dormirà tra la sua gente vivendo sempre nelle sue speranze e nelle sue lotte nonviolente, nella sua-nostra storia di liberazione, nel nostro cuore, nella gloria del Cristo risorto. Il vescovo Ruiz era un uomo innamorato della verità e la cercava nelle case dei campesinos e nelle comunità indigene emarginate. Profeta umile della pace, ha coordinato lunghe e defatiganti mediazioni per «la riconciliazione nella verità e nella giustizia». Per il suo popolo era soltanto «padreamico», uomo forte solo della nonviolenza. «Per questo un contadino lascerà cadere del mais nella sua tomba. A cantare l’inno della vita scenderanno dagli altopiani i zotil e itzeltal, si uniranno ai tojolabal, ai ch’ol e ai lacandoni per dirgli arrivederci». Lo ricorderemo con gratitudine e affetto sviluppando a modo nostro il suo spirito di quotidiana profezia. La pace cammina. Sergio Paronetto Verona Brescia perché le religioni a scuola? Potenza fare memoria delle vittime di tutte le mafie Si svolge a Brescia, presso i missionari saveriani, un convegno promosso dalla rivista «Cem Mondialità», con il patrocinio dell’Università La Sapienza (Roma), per discutere su «Perché le religioni a scuola?» Competenze, buone pratiche e laicità (9 aprile 2011). Lo sfondo: il pluralismo religioso è lo scenario abituale della nostra vita quotidiana e sociale. Una condizione normale, per un paese europeo. La scuola italiana, però, per molti motivi, non riesce a prenderne atto, e a rispondervi con efficaci azioni educative. L’iniziativa ha l’obiettivo di rilanciare il dibattito sulle religioni a scuola, a partire da quanto sostiene l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale del Ministero della Pubblica Istruzione nel documento del 2007 «La via italiana alla scuola interculturale», in cui si parla dell’opportunità «di allargare lo sguardo degli alunni stessi in chiave multireligiosa, consapevoli del pluralismo religioso che caratterizza le nostre società e le nostre istituzioni educative e della rilevanza della dimensione religiosa in ambito interculturale». Il tutto, sulla falsariga di quella che, da un convegno bresciano di nove anni fa, fu definita «l’ora delle religioni», sulla base del metodo Bradford, in una prospettiva a-confessionale e interculturale. In conclusione, viene diffusa la «Carta di Brescia», per stilare i prossimi passi su cui sfidare il mondo politico e le chiese su questi argomenti. Tra i relatori: M. Dal Corso, C.C. Canta, M.L. Damini, G.M. Gillio, M.C. Giorda, A. Jabbar, G. La Torre, M. Menin, P. Naso, E. Pace, F. Pajer, L. Pedrali, A. Saggioro, B. Salvarani, G. Tacconi, A. Tosolini, G. Vertova. 19 marzo. Provenienti da tutta Italia, circa 80mila persone sfilano sotto la pioggia a Potenza, alla marcia organizzata dall’Associazione ‘Libera’ per la celebrazione della 16° Giornata della Memoria e dell’Impegno. Il lungo corteo parte da piazza Bologna, si snoda per le vie del centro del capoluogo lucano, si conclude a piazzale Verrastro dove sul palco, in tanti, si alternano nella lettura dei 900 nomi delle vittime delle mafie. A iniziare, il fondatore di Emergency, Gino Strada, seguìto dai familiari delle vittime e da rappresentanti delle associazioni. Il presidente di Libera,don Luigi Ciotti, invita a fronteggiare la mafia «tutti i giorni, perché la speranza e la libertà devono essere impegno quotidiano». Interpretando i sentimenti dei presenti, aggiunge: «È un’emozione vedere gli occhi e lo sguardo dei familiari delle vittime, giunti a Potenza da ogni parte d’Italia e d’Europa. È importante che vi sia un giorno all’anno in cui ricordiamo tutte le vittime». Poco prima sul palco era salita anche la mamma di Elisa Claps, la studentessa potentina, ritrovata senza vita il 17 marzo 2010 dopo 17 anni di inutili ricerche, diventata un simbolo della volontà di riscatto di Potenza. Non possono, poi, mancare riferimenti all’attuale iter della «riforma» della giustizia. Senza mezzi termini Don Ciotti grida: «Non si può parlare di riforma ma di sequestro della giustizia. Questo progetto indebolisce l’autonomia della magistratura. Non è possibile sottomettere l’indipendenza dei pubblici ministeri al potere politico. Dobbiamo dire ‘no’ alla cancellazione dell’articolo 101 della Costituzione che deve rimanere uno dei capisaldi del nostro ordinamento. Dobbiamo difendere – conclude – l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge». Fuggiaschi un figlio venuto dal mare Il 27 marzo su un barcone di disperati partiti dalla Libia, vicino alle nostre coste è nato un bambino (nella foto). Un elicottero lo ha preso con sua madre e lo ha posato sulla nostra isola di Lampedusa. I genitori, eritrei in fuga da una vita impossibile, lo hanno chiamato Yeabsera che nella loro lingua significa «Dono di Dio». Ci sono centinaia di bambini in fuga, tra i profughi, soli perché i genitori sono morti nel tragitto o non sono mai partiti, affidandoli alle zattere, alla speranza di un futuro. Qualcuno, Concita De Gregorio, ha chiesto che Yeabsera diventi subito cittadino italiano, con una legge ad personam, naturalmente. Questa persona è un essere umano piccolo piccolo, una gemma primaverile. La specificità della nostra vita umana è fatta di quel surplus di «speranza» che permette di impegnarsi in opere concrete, di non avere paura della primavera. ROCCA 15 APRILE 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 7 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ Senegal/Mali abbandono delle mutilazioni genitali Sud Sudan l’indipendenza ha le sue minacce Unesco il rapporto mondiale sull’istruzione I rappresentanti di 89 villaggi del Senegal e di 19 del Mali si sono impegnati il 14 marzo ad abbandonare la pratica dell’escissione genitale femminile. Lo hanno fatto nel corso di una solenne cerimonia in una zona dell’est Senegal al confine con il Mali. Importante questa presa di responsabilità nei confronti dei diritti femminili, anche per la maniera con la quale si è assunta, quasi rituale. Si è voluto (crediamo intenzionalmente) evitare di dare una soluzione del problema solo dal punto di vista legislativo o medico, proprio perché le mutilazioni non sono una patologia ma il risultato di credenze radicate nella coscienza individuale e collettiva dalle quali non si può prescindere per una comprensione della persona. Si stima che in Africa il numero di donne che convivono con una mutilazione genitale siano tra i 100 e i 140 milioni. Dati gli attuali trend demografici, possiamo calcolare che ogni anno circa tre milioni di bambine si aggiungano a queste statistiche. Il referendum del 9 gennaio, che ha stabilito a larghissima maggioranza l’indipendenza del Sud dal Nord del Sudan, è stato una tappa importantissima. Ma ora, oltre al lavoro di mettere in piedi una nazione multiculturale e multireligiosa nell’uguaglianza e nel rispetto reciproco, ci sono problemi non più rinviabili come la definizione dei confini con il Sudan del Nord, le questioni del petrolio e dell’acqua. Purtroppo i dirigenti del Sud Sudan a fine marzo hanno sospeso il dialogo con il governo di Kartum, accusando il presidente Omar Al Bashir di complottare per far cadere il loro governo prima dell’indipendenza, prevista a luglio. Pagan Amum, segretario generale del Movimento di Liberazione del Sud, ha detto di avere le prove di un piano in cui sono coinvolti i servizi segreti dell’esercito. Intanto, la rivista Jeune Afrique parla di attacchi nelll’Alto Nilo all’esercito sudista da parte di una milizia ribelle, con almeno 30 morti. I sistemi educativi in molti dei paesi più poveri del mondo stanno risentendo ora degli effetti della crisi dell’economia globale e delle guerre. È molto importante leggere il Rapporto Unesco «Education for All - Global Monitoring Report», pubblicato il 19 gennaio, reperibile integralmente su Internet. Sostiene che la crisi potrebbe creare una generazione di bambini smarriti, le cui opportunità nella vita saranno irrimediabilmente pregiudicate dal fallimento nella tutela del loro diritto all’istruzione. Il Rapporto, oltre a ricordarci che la mortalità infantile nei 35 Paesi tormentati dalle guerre è doppia rispetto agli altri, che quelli esclusi dalle scuole sono il 42% dei 65 milioni di esclusi, ci dice chi sono questi bambini e il perché siano stati lasciati indietro, mostrando, inoltre, come i costi di una «Educazione per tutti» siano molto più alti di quanto era stato stimato precedentemente. Il Rapporto cerca e indica soluzioni concrete al brutto scenario. Vaticano il Papa e i lavoratori di Terni ROCCA 15 APRILE 2011 Un appassionato discorso sul «vangelo del lavoro» è stato pronunciato da Benedetto XVI il 26 marzo agli ottomila partecipanti della Diocesi di Terni col loro Vescovo, nel 30° anniversario della visita di Giovanni Paolo II alle Acciaierie della città. Il Papa ha affrontato il tema della disoccupazione, della precarietà giovanile, della piaga degli infortuni sul lavoro. Ha auspicato che «nella logica della solidarietà» si possa superare la crisi economica e «assicurare un lavoro» sicuro, dignitoso, rispettoso della persona, anche perché «le difficili e precarie condizioni del lavoro rendono difficili e precarie le condizioni della società stessa». Il lavoro, ha soggiunto, «aiuta a essere più vicini a Dio e agli altri». Gesù stesso « è stato un lavoratore, anzi ha passato buona parte della vita terrena a Nazaret, nella bottega di Giuseppe». (Nella foto: S. Consadori, Gesù divino lavoratore, Galleria d’Arte contemporanea della Pro Civitate Christiana di Assisi). 8 notizie seminari & convegni Per la pubblicazione in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a: a.portoghese@ cittadella.org Niger. Il 6 aprile è entrato in carica il nuovo presidente nigeriano Mahamadou Issoufou, il primo civile a ricoprire quest’incarico dal 1999. Ha vinto le elezioni presidenziali del 12 marzo col 57,95% dei voti. Stati Uniti. Il 9 marzo il governatore dell’Illinois Pat Quinn ha firmato il decreto che abolisce la pena di morte nello Stato. Le esecuzioni erano state sospese nel 2000, dopo che 12 persone erano state condannate ingiustamente. L’Illinois è il 16° Stato americano ad abolire la pena capitale. Norvegia. La signora Helga Haugland Byfuglien, 60 anni, vescova luterana, è stata nominata il 25 marzo a capo del- la Conferenza episcopale della chiesa luterana di Norvegia. Assumerà la nuova funzione il 2 ottobre prossimo. Botswana. La Corte d’Appellodel paese ha riconosciuto il diritto all’acqua dei Boscimani del Kalahari, annullando la sentenza del 2010 che negava l’accesso all’acqua nelle loro terre ancestrali. Il Governo è stato ritenuto colpevole di «trattamento umiliante»; il caso è stato descritto come «una storia straziate di sofferenza e disperazione umana». (Survival International). Roma. Voti quasi unanimi alla Camera e al Senato per l’istituzione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Dovrebbe tutelare in particolare il rapporto tra de- tenute madri e figli minori. Kingston (Giamaica). Si svolgerà a Kingston (Giamaica) dal 17 al 25 maggio una nuova Convocazione Ecumenica Internazionale indetta dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (World Council of Churches), dedicata al tema della Pace e intitolata «Gloria a Dio e pace sulla terra». L’obiettivo centrale del raduno è affermare insieme l’annuncio della Pace come cuore del Vangelo e la pratica della nonviolenza attiva come stile di vita di ogni cristiano, cercando di identificare e di superare le logiche di violenza che segnano l’ esistenza e cercando di costruire percorsi pastorali di supporto nella vita delle Chiese. 28-29 aprile. Avigliana (To). A trentacinque anni dall’approvazione della legge 685 sulla droga, il Gruppo Abele invita a fare un bilancio dei risultati conseguiti e dei problemi irrisolti, nell’intento di valutare le letture, le politiche, le strategie, gli interventi in un convegno nazionale. La partecipazione è gratuita. Obbligatoria la prenotazione. Informazioni tel. 011 3841083; email: dipendenze consumi @gruppoabele.org. 29 aprile-1° maggio. Camaldoli (Ar). Convegno nella Comunità monastica sul tema: «Credere senza appartenere? Quali forme di appartenenza per la fede cristiana?». Informazioni: Foresteria del Monastero tel. 0575 556013, fax 0575 556001; e-mail: [email protected] 1 maggio. Gioia del Colle (Ba). Ultima giornata della Rassegna espositiva fotografica «L’uomo e il mare» di Emanuele Savasta e Graziano Milano presso Associazione Culturale Spazio Uno Tre, Via Barba 13, Gioia del Colle. e-mail: [email protected] 2-6 maggio. Magnano (Bi). Presso il Monastero di Bose Studium in francese sul tema «I Padri della chiesa e la liturgia» col prof. François Cassingena-Trévedy. Informazioni: Comunità monastica di Bose, 13887 Magnano (Bi), tel. 015 678185, fax 015 679294, email: ospiti@monastero dibose.it. 3 maggio. Genova. Per il ciclo «Preti e cristiani laici. L’ora della corresponsabilità» incontro con Luca Mazzinghi, biblista, parroco, sul tema: «Preti e laici: ‘collaborazione’ e corresponsabilità». Ore 17.30, presso la sede del «Gruppo Piccapietra», piazza S. Marta 2 (ingresso Quadrivium). Informazioni: 010 218074/010 216149. 6-8 maggio. Assisi (Pg). Alla Cittadella cristiana 9° Convegno Terza età sul tema «Il mal d’amore: di tutte le età?. La rinascita degli anziani per invecchiare con grazia». Relazioni (sociologo Segatori, antropologo Seppilli, psicologi De Leonibus e Bovo, teologo Di Sante), confronti di esperienze (Sciamanna, Alicino, Natalizi, Galli, Menculini), Laboratori, Dibattiti, Cori, Ensemble musicale, Celebrazione liturgica. Informazioni: Cittadella ospitalità, Convegno Terza età 06081 Assisi, e-mail: [email protected]; [email protected] Tel. 075 813231, 075 812308. Fax 075 812445. 6-8 maggio. Camaldoli (Ar). 7° Convegno di Nuovi orizzonti di ricerca sul tema «Evoluzione antropologica. Rapporti tra homo sapiens e homo religiosus?». Relazioni di Roberto Tagliaferro, Remo Pievani, Aldo N. Terrin. Informazioni: Foresteria Monastero 52010 Camaldoli, tel. 0575 556013, fax 0575 556001, email: [email protected] 20 maggio. Bolzano. «La corsa dei miracoli», iniziativa della Young Caritas della città, coinvolge anche quest’anno gli studenti delle scuole altoatesine dalle elementari alle superiori in una corsa podistica. Così facendo si sostengono progetti Caritas di aiuto all’infanzia. I giovani corridori devono trovarsi uno sponsor disposto a donare un euro per ogni chilometro percorso. L’anno scoro furono 1.807 e raccolsero 51mila euro: «allegri, resistenti, generosi». 20-29 maggio. Vicenza e provincia. Settima edizione del Festival biblico «Di generazione in generazione», articolato in quattro percorsi. In sequenza: biblico e teologico (inaugurato dal card. Ravasi), antropologico e spirituale (con romanzieri, scrittori, psicologi), sociale e pedagogico (pedagogisti ed educatori), artistico e culturale (con recital, canti e danze). Sono programmati circa 130 incontri e attività. Informazioni: www.festivalbiblico.it; Paolo Pegoraro cell. 335 5458404. La sera del 29 maggio Vicenza aprirà gratuitamente al pubblico i propri musei. ROCCA 15 APRILE 2011 ATTUALITÀ 9 ROCCA 15 APRILE 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 10 Cei gli eventi del Nordafrica e noi Siria ribellione in un nodo strategico Sugli eventi che attraversano i Paesi del Nordafrica ha parlato il 28 marzo il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco, che al vescovo di Tripoli Martinelli aveva espresso la vicinanza dell’Episcopato italiano e delle nostre comunità. «Ci si è molto interrogati, ha detto, sull’incubazione – occulta o meno – di queste vicende, nello sforzo di individuare l’evento-detonatore in una o l’altra delle turbolenze precedenti... In realtà, per registrare esiti tanto vasti e partecipati, deve aver a lungo covato qualche febbre non irrilevante, senza che sollevasse tuttavia particolari allarmi. Eppure, viene detto oggi, qualche crepitio si sarebbe potuto cogliere se si fosse tenuto lo sguardo rivolto sulla vitalità dei popoli più che sull’immobilità dei regimi; se si fosse stati disposti a considerare gli indici antropologici più decisivi di quelli politici». «Cosa fare, dinanzi a simili rivolgimenti?» si chiede il presidente della Cei. «È un’illusione, sottolinea, pensare di vivere in pace tenendo a distanza popoli giovani, stremati dalle privazioni, e in cerca di un soddisfacimento legittimo per la propria fame. Coinvolgerci, e sentirci in qualche modo parte, rientra nell’unica strategia plausibile dal punto di vista morale ma – riteniamo – anche sotto il profilo economicopolitico. L’interdipendenza è condizione ormai fuori discussione ed essa si fa ancora più cruciale e ineluttabile in forza delle vicinanze geografiche. Che però, nel nostro caso, riguardano l’Italia alla stessa stregua con cui riguardano l’Europa, di cui siamo parte: i confini costieri della prima infatti coincidono con i confini meridionali della seconda... Continuare a ritenere interi popoli poveri come fastidiosi importuni non porterà lontano». I venti della rivolta araba hanno raggiunto anche la Siria, con le stesse caratteristiche del Cairo e di Tunisi, e le stesse rivendicazioni. Il potere dittatoriale ondeggia, ben sapendo che nella evoluzione o involuzione della regione esso detiene un ruolo chiave. Politicamente è l’unico paese arabo alleato dell’Iran ed è nota la sua intransigenza nei confronti di Israele e la sua alleanza con i Palestinesi di Hamas. Americani ed Europei aspettano le prossime mosse. Il governo si è dimesso. I presidente Bachar Al-Assad ha provato a placare gli animi del popolo, liberando numerosi prigionieri politici; impiegati e pensionati hanno ricevuto un aumento di stipendio e sono state messe in atto leggi per contrastare la disoccupazione (il paese di 22 milioni di abitanti di cui la maggior parte giovane è senza lavoro). Ci sarebbero premesse di un cambiamento, ma il condizionale è d’obbligo anche perché il 29 marzo si è svolta a Damasco una grande manifestazione a favore del presidente e il 30 mattina in un atteso discorso il presidente stesso dopo aver detto «è nostro dovere ascoltare il popolo», ha accusato la stampa straniera di cospirazione. «È un momento eccezionalmente difficile, ha detto, ma ce la faremo, mi dispiace per le vittime» (I morti per le proteste precedenti sono stati alcune decine). Basher Assad nel suo intervento al Parlamento aggiunge: «Siamo stati vittime di un grande complotto non solo esterno ma anche interno. Tuttavia, non tutti coloro che sono scesi nelle strade ne sono parte». Assad precisa che «le riforme non sono un processo estemporaneo e improvviso, e un Paese che non si riforma si distrugge». Non revoca però lo stato di emergenza in vigore da 48 anni, né decide la liberalizzazione della stampa. Umbria il dossier «covo freddo» della mafia Un lavoro di ricerca sociale sta per essere pubblicato in Umbria; riguarda le infiltrazioni mafiose nel territorio. Gli studi compiuti in questi anni da Libera informazione, Legambiente, Sos impresa, Cittadinanzattiva e Menteglocale hanno posto in evidenza «il grande pericolo che gli interessi criminali rappresentano per la nostra democrazia, a partire dai diritti calpestati, ma coinvolgendo direttamente e svuotando anche parti essenziali dell’economia e dello sviluppo». I dati più preoccupanti riguardano la gestione illegale dei rifiuti, il ciclo del cemento, la presenza di società finanziarie che operano con tassi molto alti. Il monitoraggio stima in circa tremila le persone coinvolte nel rapporto con usurai, che movimentano circa 200 milioni di euro l’anno. Il Dossier viene pubblicato dall’Assessorato delle politiche sociali della Regione col titolo «Covo freddo». il meglio della quindicina vignette ATTUALITÀ da LA REPUBBLICA , 19 marzo da LA REPUBBLICA, 24 marzo da IL CORRIERE DELLA SERA, 24 marzo da IL CORRIERE DELLA SERA, 26 marzo da L’UNITÀ, 27 marzo da IL CORRIERE DELLA SERA, 30 marzo da IL MANIFESTO, 1 aprile ROCCA 15 APRILE 2011 da IL CORRIERE DELLA SERA, 19 marzo 11 convegni e incontri 2011 della cittadella 2-5 giugno 33° seminario coppia per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali amorevolmente rivali competere, concorrere, contendere La coppia è feriale terreno di match e gare, ci si contendono spazi, successo sul lavoro, affetti… si moltiplicano esponenzialmente le aree di frizione; l’imperativo dell’autorealizzazione alimenta ansie di riscatto, quando non di ribellione. Quali forme assume la ‘concorrenza’ tra i due? Invidia, ricatto, gelosia…? Quali scenari di senso apre il racconto della creazione di Eva? partecipano: Ritanna ARMENI, giornalista; Luigi BOVO, psicoanalista; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta; Carola DELLI PAOLI, operatrice shiatsu; Mirella MELEGARI, insegnante di yoga; Nazzareno MARCONI, biblista; Giuseppe MOSCATI, dottore di ricerca in filosofia; Daniele NOVARA, pedagogista; Beppe SIVELLI, psicologo e psicoterapeuta È prevista l’animazione dei bimbi-ragazzi da 5 a15 anni. 20-25 agosto 69° corso di studi cristiani sporgersi ingenui sull’abisso... il male sfida uomini e religioni il Corso è in collaborazione con la Comunità ecumenica di Bose e l’Editrice Queriniana sabato 20 ore 21,15 prolusione di Enzo BIANCHI domenica 21 male, dove sono i tuoi dèmoni? – Marco POLITI ‘spesso il male di vivere ho incontrato’ – Rosella DE LEONIBUS maschilismo e violenza – l’inquietante banalità del male – Giovanni CUCCI lunedì 22 il bene e il male in Dostoevskij – Sergio GIVONE ‘pongo davanti a te il bene e il male’ – Rosanna VIRGILI riscoprire il fascino e la forza del bene – Vito MANCUSO la bellezza dell’arte, terapia del male? – Franco PROSPERI e Svetlana MELNICHENKO martedì 23 quel confine smarrito tra vero e falso, tra giusto e ingiusto… Roberta DE MONTICELLI oltre i fanatismi, i fondamentalismi, le idolatrie – Marco GALLIZIOLI mercoledì 24 ROCCA 15 APRILE 2011 in ascolto del grido dei popoli e delle coscienze – tavola rotonda interreligiosa coordinata da Raffaele LUISE prendersi cura della terra, rigenerare la vita – Simone MORANDINI sull’orlo dell’abisso… resistere alla vertigine – Ermes RONCHI ‘la mia lettera siete voi’: Paolo ai credenti di oggi – testo di Ermes Ronchi collaborano: Enzo BIANCHI, priore Comunità ecumenica di Bose; Mariano BORGOGNONI, sociologo; Giovanni CUCCI, filosofo e psicologo; Tonio DELL’OLIO, di Libera international; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta; Roberta DE MONTICELLI, filosofa; Izzedin ELZIR, imam; Marco GALLIZIOLI, fenomenologo delle religioni; Sergio GIVONE, filosofo; Elizabeth GREEN, pastora battista; Tanaka HIROMASA, buddhista giapponese; Giuseppe LARAS, rabbino; Raffaele LUISE, giornalista RAI; Vito MANCUSO, teologo e scrittore; Simone MORANDINI, fisico, teologo; Dipak Raj PANT, antropologo nepalese; Marco POLITI, scrittore e giornalista; Ermes RONCHI, servita; Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi; Rosanna VIRGILI, biblista informazioni iscrizioni soggiorno Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg e-mail: [email protected]; [email protected] tel. 075/812308; 075/813231; fax 075/812445; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org 12 RESISTENZA E PACE Raniero La Valle I monarchiani erano quegli eretici dell’antichità cristiana che per affermare l’assoluta unicità di Dio si opponevano alla nascente elaborazione teologica trinitaria; contro i diversi modi di intendere la distinzione tra il Padre e il Figlio incarnato, proclamavano: «monarchiam tenemus», donde il nome di monarchiani. Da lì derivarono tutte le eresie monistiche: monofisismo, monotelismo, monoenergismo (una sola natura in Cristo, una sola volontà, una sola energia); vedendo una sola cosa quegli eretici non riuscivano a vederne e a concepirne altre, cioè non riuscivano a vedere il cristianesimo; erano maniaci di una sola cosa, non teisti, ma idolatri. Anche gli statisti moderni sono monarchiani, conoscono una sola cosa, sanno fare una sola cosa, sono maniaci di una sola cosa: la guerra. Ci vuole il petrolio, bisogna allargare i mercati, c’è un dittatore, i diritti umani sono violati, un Paese è invaso, gli insorti sono repressi? Subito è pronta la risposta, quella «fretta della guerra» che è stata denunciata all’inizio dell’intervento contro la Libia dal vescovo Giudici presidente di Pax Christi; la monocultura della guerra non sa produrre altra idea che questa. Così avvenne con l’Iraq, così con la Iugoslavia, così con l’Afghanistan, così con la Georgia, per non parlare dei mille conflitti dimenticati che fanno della guerra un «continuum» nel succedersi delle stagioni. È vero che la sovranità moderna nasce con questo segno di identificazione: sovrano è chi ha il diritto di guerra, gli Stati sovrani sono quelli che fanno la guerra; però non è questa la sola e unica cosa che potrebbero fare, potrebbero inventare e fare dell’altro, soprattutto da quando la guerra è stata messa al bando dal diritto internazionale, e la Carta dell’Onu ha prescritto tutte le cose che si dovrebbero fare invece della guerra per mantenere la sicurezza e per costruire un ordine di giustizia e di pace tra le nazioni, come dice anche la Costituzione italiana. Anche questa volta, insorto il problema con la Libia, la coalizione dei volenterosi non ha saputo fare altro che la guerra; e siccome questa volta non c’era l’America, la confusione, l’improvvisazione e il caos sono stati ancora maggiori. Anche l’Italia è corsa alle armi; il 36° stormo, di stanza a Trapani Birgi, ha potuto finalmente dare sfogo all’odio contro Gheddafi al quale era stato addestrato, come potemmo vedere con la Commissione Difesa della Camera in occasione di una visita che molti anni or sono facemmo a quella base. Eppure se c’era un Paese al mondo che non avrebbe dovuto fare guerra alla Libia, nemmeno la guerra più sacrosanta, se pur ve ne fosse una, questo Paese era l’Ita- lia, per la vergogna e il pentimento di ciò che essa in passato aveva fatto alla Libia, assoggettandosela e violentandola come colonia; e tanto meno avrebbe dovuto farla Berlusconi, che a Gheddafi aveva giurato amicizia eterna, e con la Libia aveva stipulato un patto con cui aveva promesso pace, non aggressione, non ingerenza, rapporti di uguaglianza sovrana, rispetto del suo diritto ad avere il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale, e aveva assicurato che non avrebbe permesso l’uso delle basi italiane contro di lei; promesse in cui ne andava dell’onore del Paese e del futuro del Mediterraneo, non come le promesse di fare un campo da golf e un casinò a Lampedusa, o di ridipingere le facciate delle case. Però, si obietta, c’era la questione degli insorti, la minaccia del dittatore libico di sterminarli, l’esigenza di un intervento umanitario. Anche il centrosinistra si è pronunciato perciò a favore dell’azione militare, e perfino Ingrao, che pure è noto come pacifista. Ma se l’unica risposta è la guerra, che fare quando altri popoli insorgeranno, quando altri Stati vorranno reprimere ribellioni e secessioni, quando altri patrioti e resistenti rischieranno di soccombere? E perché non scendere in guerra per andare a liberare i territori palestinesi occupati, cosa per cui pur si potrebbe fare appello a centinaia di risoluzioni delle Nazioni Unite? Con l’idolatria della guerra, nascostamente penetrata anche nella cultura democratica, e con il giustificazionismo umanitario che ha sopito le reazioni, altre volte veementi contro la guerra, anche di uomini di Chiesa, il futuro si presenta assai tormentato. Gli assetti del mondo stanno infatti cambiando, nuove potenze emergono, altre declinano, popoli nuovi si affacciano sulla scena, perfino le coordinate geopolitiche di Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo, stanno sfumando in nuove combinazioni e contrapposizioni. Ci vorranno molte decisioni nuove, molte risposte inedite a problemi mai finora conosciuti. Guai se continuerà a dominare la monocultura della guerra, guai se le risposte non verranno trovate nella politica, nel diritto, in un nuovo costituzionalismo internazionale. E bisognerà cominciare col dare attuazione, nelle parti ancora inadempiute, al cap. VII della Carta dell’Onu, per garantire che eventuali interventi armati condotti in suo nome non siano fatti per interessi di parte e non giungano mai alla distruttività della guerra; e, dopo l’esperienza del Giappone, bisognerà che la stessa comunità internazionale sia fatta responsabile dei beni comuni e degli interessi generali della intera famiglia umana. ❑ 13 ROCCA 15 APRILE 2011 la monomania della guerra ROCCA 15 APRILE 2011 Maurizio Salvi 14 Q uando gli storici in futuro rileggeranno le vicende che hanno portato ai grandi sconvolgimenti politico-istituzionali a cui stiamo assistendo in Medio Oriente ed in Africa settentrionale, potranno determinare con chiarezza ciò che invece oggi è ancora arduo comprendere sui motivi scatenanti di queste trasformazioni, ed in particolare sulla strategia adottata dall’Occidente (una sorta di Blitzkrieg, guerra lampo) nei confronti della Libia e del suo leader Moammar Gheddafi. L’elemento che più ha colpito dopo il 19 marzo, quando i caccia di vari paesi europei e degli Usa hanno centrato obiettivi strategici in territorio libico «per proteggere la popolazione civile», è la politica dei due pesi e delle due misure adottata di fronte a situazioni non del tutto dissimili, come ad esempio quella della stessa Libia da una parte, e del Bahrein e dello Yemen dall’altra, dove pure le proteste sono state soffocate con grande spargimento di sangue. Si deve ammettere che si è trattato di una operazione con pochi precedenti, organizzata con un vasto contributo da parte dei media internazionali, ha contribuito a creare la forte sensazione nella vi- cenda libica dell’esistenza di una battaglia del Bene contro il Male costruita assegnando senza sfumature la parte positiva ai settori libici in rivolta e quella negativa, invece, a Gheddafi e a tutte le azioni dei suoi. Questa osservazione non va letta come un tentativo di sminuire le responsabilità del Rais libico, ma come il desiderio di sottolineare che il manicheismo, soprattutto quando non suffragato da solidi elementi di verità indipendenti, non giova all’informazione e può servire solo ad addomesticare l’opinione pubblica che gridando ‘morte al tiranno!’ accompagna inconsapevolmente fini non sempre santi. dubbi sull’intervento Che la strategia adottata da Usa, Francia e Gran Bretagna per eliminare Gheddafi non sia stata tratta dal Galateo, è fin troppo evidente. Restano enormi dubbi per il fatto che le preoccupazioni manifestate da Londra, Parigi e Washington per i diritti umani violati, fossero prima di tutto motivate dall’ambizione di rimettere le mani su risorse petrolifere e gasifere esistenti nel deserto libico – quelle della British Petroleum furono nazionalizzate nel 1973 – in LIBIA il ruolo delle tribù renza negli affari interni, un concetto quest’ultimo che, nonostante le lezioni di Iraq e Afghanistan, l’Occidente sembra avere ormai definitivamente abbandonato. Il punto più acuto di queste divergenze è stato espresso il 28 marzo scorso dal ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov. «Noi consideriamo che l’intervento della coalizione in quella che è essenzialmente una guerra civile interna – ha dichiarato – non è stato autorizzato dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Impegnata nel riferire la cronaca quotidiana di massacri e bombardamenti, la stampa europea ed americana non si è soffermata molto a riflettere sul rilievo avanzato da Lavrov. Lo ha fatto invece con acume uno dei maggiori esperti indiani di politica internazionale, Siddharth Varadarajan, che sul quotidiano The Hindu ha chiarito che ROCCA 15 APRILE 2011 gran parte operanti nei territori dell’est controllati dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt). Queste perplessità, che non hanno trovato lo spazio che avrebbero dovuto nei media, hanno determinato però l’astensione in Consiglio di sicurezza dell’Onu di Cina, Russia, India, Brasile, oltreché della Germania. Questa salomonica sospensione del giudizio, se da una parte ha permesso l’approvazione della Risoluzione 1973 senza l’esercizio del veto, ha anche evidenziato per la prima volta chiaramente il consolidamento di un nuovo raggruppamento politico internazionale, conosciuto come Bric, che non è mosso da logiche di potenze in crisi economica che cercano di accaparrarsi le risorse energetiche, come è il caso dei paesi occidentali. Si tratta almeno in questa fase di avvio di uno spirito di cooperazione e non interfe- 15 ROCCA 15 APRILE 2011 LIBIA 16 non vi sono dubbi sul fatto che la Risoluzione 1973 contempli la costituzione di una ‘no fly zone’ ed un ampio uso della forza quando «autorizza gli Stati membri (...) ad adottare tutte le misure necessarie (...) per proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacchi nella Jamahiriya araba libica (...) escludendo comunque una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma su qualsiasi parte del territorio libico». Secondo questo analista il problema non risiede nel mandato in sé, ma nel fatto che una specifica Risoluzione del Consiglio di sicurezza non può essere «ultra vires», ossia non può andare oltre ai limiti che pone la Carta costitutiva dell’Onu che questo tipo di iniziative autorizza. E l’articolo 2, comma 7 della Carta è in questo senso abbastanza esplicito: «Nulla contenuto nella presente Carta autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in affari che sono essenzialmente dentro la giurisdizione interna di ogni singolo Stato». Ovviamente la prassi del diritto internazionale ha evidenziato che uno Stato che realizzi un genocidio, crimini di guerra o crimini contro l’umanità non può fare appello all’inviolabilità della giurisdizione nazionale, ed ha per questo messo a punto il cosiddetto R2P (Responsability to Protect), ossia un meccanismo sovrannazionale per affrontare d’urgenza le crisi umanitarie. Ma per quanto il regime libico sia odioso, antidemocratico e violento, non pare che abbia superato quella soglia che permette, o per meglio dire impone, alla comunità internazionale di intervenire. Altrimenti il criterio avrebbe dovuto immediatamente essere applicato in molte altre realtà nel passato remoto e recente in cui, come abbiamo visto più sopra, eserciti hanno sparato sulla popolazione civile in rivolta. Ma in quei casi, trattandosi di paesi alleati dell’Occidente (Bahrein è sede della V Flotta americana) o mancando il presupposto stringente petrolifero (Yemen), si è preferito chiudere gli occhi. È ovvio che di fronte alle anomalie che hanno caratterizzato l’azione dell’Onu, altre anomalie minori hanno relativa importanza, ma vanno comunque segnalate. Fra queste, la passiva posizione della Lega Araba, prima addirittura favorevole alle operazioni militari contro la Libia e poi ripiegatasi nelle retrovie con critiche formulate dal suo segretario generale Amr Moussa per il fatto che «i bombardamenti non erano quello che avevamo chiesto». Stesso discorso vale per l’Unione africana (Ua) di cui Gheddafi è stato uno degli ultimi presidenti, e che ha brillato per assoluta assenza dal dibattito, facendo percepire il suo malessere solo di- sertando l’incontro di Londra della Coalizione il 29 marzo. L’azione di questa organizzazione, chiamata a difendere le ragioni dei paesi di un continente flagellato dal colonialismo, si è limitata a gestioni umanitarie come i 150.000 dollari donati all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i profughi (Unhcr) per le decine di migliaia di persone ammassate alle frontiere della Libia con l’Egitto e la Tunisia. Onu, Lega araba e Ua, in un mondo veramente multipolare e rispettoso dei diritti della gente, avrebbero dovuto essere protagoniste di una massiccia e dignitosa offensiva politico-diplomatica, mirante a disinnescare la crisi, o perlomeno ad incanalarla nell’ambito di un conflitto interno libico che avrebbe forse ugualmente portato, come avvenuto in altri paesi della regione, al rinnovamento della classe politica e governativa, ed al tramonto dopo oltre 40 anni dello stesso Gheddafi. il peso delle tribù Perché aldilà delle convinzioni ideologiche dei membri del Cnt, e della determinazione politico-militare di Mahmoud Jibril o di Mustafa Abdel Jalil, il potere del leader libico si è cominciato ad incrinare quando si è messo in moto una dinamica di sfaldamento dell’equilibrio tribale di quelle stesse tribù che per decenni Tripoli ha manovrato a proprio piacimento. Al riguardo lo storico francese Pierre Vermeren ha precisato che Gheddafi «ha voluto eclissare le tribù per apparire come la Guida suprema di tutti, ma sostanzialmente le ha mantenute organizzativamente intatte all’interno come all’esterno del regime, mentre esse erano scomparse in tutti gli altri paesi del Maghreb». Al momento delle tensioni, anche il Rais è stato visto come semplice membro di una tribù (i Khadafas, basati a sud di Sirte) responsabile ai suoi tempi di aver rovesciato il re, a sua volta membro del clan dei Senousi. Dopo aver conquistato la guida del paese, Gheddafi ha voluto punire le tribù ribelli, come i Tubu, disseminati in vari paesi della regione. Ed ha continuato a pagarne alcune, a volte alla stregua di puri mercenari stranieri, per svolgere azioni di ordine pubblico a suo vantaggio. Il gioco ha imboccato una pericolosa china negativa quando gli Al-Warfalla, tradizionalmente vicini al regime, gli si sono rivoltati contro invitandolo ad andarsene, in questo seguiti dai Tuareg che si sono uniti rapidamente alle crescenti manifestazioni popolari. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA Romolo Menighetti dello stesso Autore LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa pagg. 112 - € 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca € 10,00 anziché € 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] ull’isola di Lampedusa, mentre scrivo, ci sono più immigrati nordafricani che abitanti. È il segno del caos in cui i sommovimenti che da settimane scuotono Tunisia, Libia e i paesi dell’area hanno gettato questa nostra isoletta, il primo approdo in terra italiana per i disperati che fuggono da guerre e rivolte. Disperati che continuano a essere tali perché una volta sbarcati, in maggioranza, sono costretti a vivere all’addiaccio, tra le loro immondizie, a rischio epidemie, con poco cibo, entro recinti da campo di concentramento. E non per difetto di accoglienza da parte dei lampedusani, ma per l’inadeguatezza degli interventi di un Governo dimostratosi non all’altezza dell’evento. La mancanza di un piano organico fa sì che i nostri politici, nelle cui competenze ricade l’emergenza profughi, agiscano e parlino in ordine sparso, contraddicendosi reciprocamente (Bossi vs Frattini e Maroni a proposito dei 1700 euro da dare a chi torna indietro), facendo proposte assurde (Bossi e Maroni vogliono i rimpatri forzati), millantando piani con la Germania di cui la Cancelliera tedesca non sa nulla, minacciando di fermare per ritorsione i turisti italiani verso la Tunisia (Brambilla), o piagnucolando per l’indifferenza dell’Europa (Maroni). Per non parlare del ministro dell’Economia Tremonti che attribuisce tutta la colpa alla globalizzazione, il che equivale a far sbrigativamente risalire al peccato originale tutti i mali del mondo, senza entrare nel merito delle situazioni. E poi c’è il premier Berlusconi: con la sua esibizione a Lampedusa ha dato il meglio di sè come piazzista. Tra le tante denunce di inadeguatezza del governo cito quella di Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia: «La vera emergenza è costituita dalla plateale inadeguatezza di chi la governa». Ma oltre all’inadeguatezza il dramma dei profughi mette ancora più a nudo la miope ed egoistica chiusura degli esponenti della Lega Nord verso chi è nato a sud del Po. Alla faccia del federalismo solidale, nessuno stanziamento dei profughi è finora previsto in Lombardia, Piemonte e Veneto, anzi il ministro «padano» Roberto Calderoli ha paragonato questa tragedia umana a una sorta di infezione batterica, «il sintomo di una possibile pandemia». S Ancora, questa emergenza evidenzia la poca credibilità di cui il nostro governo gode a livello internazionale. Maroni e Frattini vanno in Tunisia e affermano di aver raggiunto con le autorità di quel paese un accordo per bloccare le partenze, ma queste non diminuiscono. Maroni, il nostro Ministro degli Interni, chiede aiuto all’Europa, e la Merkel gli dice che la Germania ha integrato 400 mila persone fuggite dai Balcani senza fare tante storie. Per non parlare dello «schiaffo» che Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna ci hanno dato escludendoci dalla videoconferenza sulla Libia. Più che ignorare la situazione italiana Washington e Bruxelles ignorano un governo ridicolo e inaffidabile come il nostro. Che fare per andare oltre questo clima di miope ed egoistica paura? Si deve cambiare prima di tutto l’approccio mentale al problema. È illusorio pensare di fermare le migrazioni istituendo un cordone sanitario attorno ai nostri paesi. Le migrazioni sono tra i motori della storia, come le maree e le correnti marine. Non ci si può blindare nelle valli alpine a mangiare polenta e taleggio e a fare il lancio del tronco. Interdipendenza e condivisione sono le parole chiave per vivere l’oggi e andare verso il futuro. Perciò una politica non è lungimirante se non tende a una vera cooperazione tra popolazioni diverse. I popoli poveri, dice il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, non sono fastidiosi importuni. Occorre avere l’intelligenza della storia. La difesa dei propri bastioni è una politica destinata a perdere. E poi l’Europa deve sentirsi responsabile verso i popoli – specie quelli africani – che hanno subìto il colonialismo storico e subiscono tuttora quello economico, con la complicità dei rais liberticidi da noi sostenuti. Il colonialismo con l’alibi della civilizzazione ha rotto equilibri sociali ed economici, senza offrire validi modelli alternativi, se non i nostri basati sulla conflittualità permanente e lo sfruttamento. Così si sono generati quegli squilibri che spingono ora molti africani a cercare da noi nuove condizioni di vita. Accoglierli e tentare di alleviare le conseguenze del disordine da noi a loro arrecato è il minimo che possiamo fare per iniziare a estinguere il nostro debito. ❑ 17 ROCCA 15 APRILE 2011 i nostri creditori LEGA NORD chi comanda in Italia ROCCA 15 APRILE 2011 Ritanna Armeni 18 e dovessimo fare un bilancio di questi primi tre anni di legislatura, se dovessimo dire chi finora ha vinto e chi ha perso, qual è il partito che in questi anni ha guadagnato in termini di affermazione della sua linea politica e di presa sulla pubblica opinione la conclusione non potrebbe che essere una. La Lega di Umberto Bossi è sicuramente il partito che ha registrato maggiori successi, quello che si può definire più forte, più capace di determinare le scelte della politica nazionale e di incidere nelle coscienze dei cittadini. Gli altri per un motivo o per un altro appaiono fortemente in crisi. Non è una affermazione esagerata. Guardiamo a queste ultime settimane, alle vicende della guerra in Libia e alla complessa questione dei migranti che, dalle terre del Maghreb in fiamme, arrivano sulle nostre coste. Le scelte della maggioranza di governo in entrambi i casi sono state fortemente S determinate dalla Lega. E non solo dalle sue proposte politiche, ma anche dalla sua ideologia e dai suoi comportamenti. pacifismo egoista L’atteggiamento di forte dubbio sull’intervento del governo italiano, la sua ostilità nei confronti della politica di Francia e Gran Bretagna è stata voluta in gran parte dal partito di Umberto Bossi che ha propugnato senza alcuno sconto diplomatico la linea del «pacifismo egoista». Per pacifismo egoista – è bene precisarlo – si intende l’atteggiamento di coloro che non vogliono alcun coinvolgimento in affari stranieri, che nutrono disinteresse e ostilità nei confronti di terre lontane e diverse dalla loro piccola patria. Il «pacifismo egoista» ha terreno facile in una «Padania» convinta di aver già dato molto allo stato nazionale, di essere stata sfruttata dal sud e da «Roma ladrona» e decisa a perseguire il la frontiera della paura Ma l’influenza della Lega sulla linea del governo italiano non si è fermata qui. Il partito di Bossi ha fatto degli sbarchi a Lampedusa, della possibilità di nuove ondate migratorie dalla Libia e da tutti i paesi del nord Africa uno strumento potente per aumentare quella «paura dell’immigrato» che è parte integrante della sua politica. Gran parte dell’atteggiamento e delle risposte del governo agli immigrati che cercano di sbarcare sulle nostre coste è determinato da Bossi e dai ministri leghisti che senza alcuna remora hanno alimentato la paura, hanno fatto crescere la confusione. Per settimane la Tv ci ha mostrato quella che è stata definita un’invasione epocale. Barconi carichi di disperati che approdavano sulle nostre coste, l’isola di Lampedusa vicina alla ribellione, il resto d’Italia riluttante ad ogni forma di solidarietà. Ma, soprattutto ci hanno mostrato la sostanziale impotenza di chi avrebbe dovuto decidere il che fare. Una impotenza troppo esibita per essere credibile. Non è apparso credibile, infatti, che un paese come l’Italia che pure si è schierato con la primavera araba, non fosse in grado di dare asilo e rifugio a qualche decina di migliaia di immigrati proveniente da quei paesi. ROCCA 15 APRILE 2011 proprio benessere. La Lega ha ulteriormente potenziato questo sentimento negativo in occasione dell’intervento in Libia: quel benessere poteva essere ulteriormente ridotto da un’azione militare che avrebbe convogliato risorse e forze del produttivo nord e nonché dalla prevedibile nuova ondata migratoria. L’impegno delle forze armate italiane non ha impedito ad un ministro della Repubblica come Roberto Maroni di dire che l’intervento era sbagliato confortando e sostenendo la rabbia e il disinteresse dei leghisti pacifici ed egoisti. 19 LEGA NORD Non è apparso credibile che alcune migliaia di questi non si potessero spostare da Lampedusa e che non si riuscisse intanto a rispondere all’emergenza con alcuni, anche se provvisori, campi di accoglienza. Quella confusione e quella impotenza sono apparse assolutamente strumentali e finalizzate ad aumentare la confusione e la paura. Il rifiuto di alcune regioni ed alcuni comuni di accogliere profughi e immigrati non è stato governato, ma enfatizzato e sostenuto. La proposta del ministro degli esteri Frattini, di dare 1500 euro a testa agli immigrati che accettassero il rimpatrio (certamente discutibile e probabilmente non realistica) è stata rifiutata senza mezzi termini dalla Lega che ha chiarito però senza possibilità di equivoci chi decide sulla questione. E ha definito ancora una volta la linea politica leghista: fare della nuova immigrazione la frontiera della paura su cui costruire nuovi consensi in un’Italia già impaurita dal degrado e dalla disoccupazione. un alleato interessato ROCCA 15 APRILE 2011 Il partito di Umberto Bossi continua così in una strategia che in questi tre anni di governo è stata già perseguita e con buoni risultati. «Nord contro sud» e «italiani contro immigrati» in un linguaggio semplificato ma assolutamente realistico hanno rappresentato le linee fondamentali di disegno strategico che è riuscito ad affermarsi persino in anni in cui il governo, per ammissione anche di alcuni suoi più lucidi sostenitori, non è riuscito a portare avanti uno straccio di riforma economica e sociale e tanto meno a elaborare un progetto di crescita e di uscita dalla crisi. La Lega comunque non ha subìto alcuna crisi. Anzi proprio questa mancanza di prospettive e la fermezza assoluta con cui Giulio Tremonti (non a caso ritenuto il più leghista dei ministri) è riuscito a tenere stretti i cordoni della borsa hanno agevolato l’affermazione delle politiche leghiste. Le uniche due riforme realizzate o in via di realizzazione sono quelle volute dal partito del nord: le leggi sulla sicurezza fortemente penalizzanti nei confronti degli immigrati e la legge sul federalismo che danneggia le regioni meridionali, separa la loro condizione da quella delle regioni del nord. Per ottenere queste due leggi Umberto Bossi ha agito con duttilità, furbizia, capacità di contrattazione. Non ha mai negato il suo appoggio al premier neppure quando questi pareva sull’orlo di una crisi 20 certa, ma anzi di quella crisi ha fatto il suo punto di forza per ottenere quanto voleva, quanto aveva promesso al suo elettorato. Se il governo in questi mesi ha tenuto, se Berlusconi ce l’ha fatta è stato grazie a questo alleato interessato, che ha scambiato abilmente il suo appoggio con le riforme chieste all’inizio della legislatura. la principale vittoria della Lega E lo ha fatto senza pagare pegno, senza alcun penalizzazione da parte del suo elettorato soddisfatto evidentemente dalla fermezza della linea politica, ma anche cementato da una ideologia che altri partiti hanno buttato alle ortiche, e che la Lega rafforza con atti simbolici continui e coerenti. La posizione di gran parte dei dirigenti e degli amministratori locali nei confronti delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia ne è un esempio, forse il più eclatante. I leghisti non hanno partecipato alle cerimonie ufficiali, hanno proclamato la loro estraneità alla festa dell’unità del paese e hanno, in questo modo, irrobustito l’immagine di un partito del nord, che punta esclusivamente allo sviluppo e alla forza delle regioni settentrionali, che conferma il suo separatismo economico e sociale. Lo stato nazionale non ci interessa hanno mandato a dire quei leghisti che pure, spregiudicatamente, del governo continuano a far parte. E l’immagine del partito nordista, popolare, laborioso, stufo di mantenere coloro che non hanno contribuito alla crescita di questa ricchezza emerge rafforzata anche da simbolici atti di discriminazione nei confronti degli immigrati compiuti dai suoi amministratori locali. La Lega ha capito che i messaggi ideologici sono una parte importante dell’azione di un partito ed ecco allora le proteste contro gli immigrati che non pagano la mensa scolastica, le proposte di bus riservati ai milanesi perché non viaggino con gli stranieri, la negazione di spazi per la costruzione delle moschee. Molte delle proposte non passano, molti degli atti estremisti e discriminatori vengono criticati e rifiutati, ma la Lega va avanti con la certezza di aver comunque inciso sul senso comune, di aver incrinato alcuni valori che parevano consolidati, di aver sdoganato posizioni e paure che prima si aveva paura di esporre. Questa, in fondo, è stata in questi anni la sua principale vittoria. Ritanna Armeni FEDERALISMO il governo delle regioni È te dai Cattaneo, Sturzo, Salvemini, Dorso... il vero punto di partenza Ma se è giunta l’ora del federalismo, le regioni sono veramente tutte pronte e in grado di far da sole? Credo che occorra riflettere seriamente sul fatto che se alcune regioni son pronte al via, altre invece risentono fortemente di ritardi pluridecennali e di ataviche incrostazioni di mentalità nelle infrastrutture e nell’ordinamento amministrativo, il tutto «condito» dal ruolo onnipresente della malavita organizzata. Tanto per esser chiari si trovano in tale situazione le regioni meridionali, che hanno bisogno di una serie di riforme di struttura sì da poter far da sole. Questo è il vero punto di partenza e vale anche per l’antipasto del federalismo che vuol imporre la Lega: il federalismo fiscale municipale. La Lega al Nord non ha tale problema «strutturale», in quanto esiste nelle regioni 21 ROCCA 15 APRILE 2011 arrivato il federalismo, sia pur fiscale e municipale? Pare proprio di sì, ma qualche impedimento c’è ancoFrancesco Saverio ra, legato anche all’esito della legislatura. Ma cos’è questo tipo di feFesta deralismo? Tolta in parte l’Ici, è aumentata, sempre in parte, l’addizionale Irpef regionale e comunale, mentre ora vi sarà la nuova Imu (imposta municipale) che sostituirà imposte esistenti per un totale di 11.57 miliardi. Qualche altra tassa resta da convenire con le regioni per sostituire Tosap, Cosap, ed altre imposte comunali su pubblicità e pubbliche affissioni, se i comuni hanno sinora dato, intendono recuperare quel che hanno elargito. Sembra finalmente giunta l’ora di rinsanguare i bilanci comunali, falcidiati da precedenti scelte populistiche, sì da dare una prima parvenza di autonomia locale, certo, però, ben lontana dalle forme di autonomismo delle regioni e degli enti locali ipotizza- FEDERALISMO settentrionali, pur con qualche eccezione, una situazione nettamente migliore rispetto al resto d’Italia sia per l’ordinamento amministrativo, sia per le infrastrutture industriali, commerciali e dei trasporti, inoltre solo in alcuni casi queste regioni hanno conosciuto la morsa di mafia e camorra. Alla Lega Nord, quindi, basta solo controllare il territorio per poterlo dirigere senza intoppi di sorta: una Lega Nord quale sindacato di territorio. Ed allora come faranno le regioni del Sud a incamminarsi sulla via del federalismo, senza pagar dazio? Per di più quando, in tempi di commemorazione dell’unità del Paese, continua il refrain che il Nord ha pagato il prezzo del «ritardo» del Sud, ed ora ha ben ragione a volerne prender le distanze? il caso Puglia ROCCA 15 APRILE 2011 Nel generale caos d’arretratezza del Mezzogiorno s’usa ormai dire che esiste comunque un caso interessante: lo sforzo che il duo Michele Emiliano-Nichi Vendola sta tentando per modificare una città come Bari e una regione come la Puglia. La scommessa di «redimere» una grande città e una grande regione del Sud senza far la fine di Bassolino, di Napoli e di buona parte della Campania sommersi da tonnellate di spazzatura, è di quelle che fanno tremar le vene e i polsi... Ed i problemi non son certo mancati: sino a che punto il governatore Vendola è riuscito a controllare la struttura sanitaria pugliese, che presenta i limiti tipici della situazione sanitaria meridionale? Ed ancora: si è veramente riusciti a avviare, da parte sua e da parte pure del sindaco Emiliano, una politica amministrativa trasparente capace di tener a bada le solite mentalità affaristiche e le commistioni clientelari tra governi locali e le reti malavitose? Eppure mi risulta che sovente, pure dopo aver varato, nel segno della legalità, appalti affidati a professionisti ed imprese vincitrici di gare non truccate, non si riesce poi a pagare regolarmente professionisti e imprese scelte fuori del solito giro, per una serie di ostacoli frapposti dal solito modo tacito, «camorristico», di far saltare dall’interno tutti i tentativi di «legalizzare» e «moralizzare» il sistema di appalti e commesse. Emiliano e Vendola, quindi, son veramente riusciti a rompere la morsa che stringe le amministrazioni locali del Sud? Emiliano ha ammesso che tanti buoni propositi non si è affatto riusciti a realizzarli, e che i problemi sul tappeto sono ancora notevoli. Per esempio: a che punto è la ristrutturazione dei porti della «valigia delle Indie»? Gli immigrati, slavi albanesi e africani, sono finalmente alloggiati fuori dai lager ove venivano rinchiusi 22 quando barche, barconi, motoscafi e gommoni li rovesciavano sulle coste pugliesi? Il centro storico di Taranto, notoriamente considerato una sorta di Far West con frotte di delinquenti motorizzati che circuiscono a scopo di rapina i pochi, ormai, malcapitati turisti, alla stregua dei famigerati quartieri spagnoli di Napoli, è stato finalmente «bonificato»? Ed il settore edile, divenuto il «porto franco» d’ogni sfrenata speculazione? Potrà Nichi Vendola riuscire a dominare questi e tanti altri problemi senza venir tacciato da parte dei soliti accademici da salotto che non sia altro che la faccia progressista del populismo berlusconiano? Ma Vendola, uomo simpaticamente trasgressivo, non solo non è Bassolino per altra origine politica, ma anche perché dimostra di aver ben diversa mentalità nell’affrontare nodi e questioni. Ma sono sufficienti l’impegno intelligente e la buona volontà per trasformare una regione grande e complessa come la Puglia? In Puglia come in quasi tutto il Sud vi è una dualità nel controllo del territorio: da una parte quello sottoposto al potere illegale mafioso e dall’altra quello soggetto al potere legale dello Stato. L’esperienza delle regioni meridionali ci ha insegnato che governare una regione o una grande o media città del Sud non significa mai poterne mutare i connotati ab imis, al massimo, nella migliore delle ipotesi, correggerne i problemi più vistosi, persino la spazzatura, ma mai la rete di clientele e corruttele. Insomma non tocca far altro che gestire correttamente l’ordinaria amministrazione, la gestione ordinaria delle cose, ma rassegnarsi a non poter espungere affatto da una città o da una regione del Sud malaffare, malasanità, amministrazioni corrotte, appalti truccati, malavita organizzata, capitali da riciclare, pensioni usurpate, assenteismo atavico sul posto di lavoro, ecc. nel segno di uno spirito pubblico e di un clima civile del tutto latitanti? riforme strutturali Ecco perchè servirebbero una serie di riforme di struttura che pongano le regioni meridionali in condizione di poter fare da sole, e questa serie di riforme strutturali preliminari a ogni sorta di federalismo tocca allo Stato, e all’intera comunità nazionale, di doverle progettare ed attuare. Solo lo Stato può dare il via all’autonomia delle singole regioni creando pure i presupposti di un’interazione tra regioni ricche e meno ricche. Infatti, dopo la riunificazione delle due Germanie non è stata forse la politica dell’intero Stato federale a far sì che le regioni della ex Ddr non facessero la fine del Mezzogior- la Lega sindacato del proprio territorio Perciò la partita torna a spostarsi dalla periferia al centro e al progetto minimale di federalismo avanzato dalla Lega Nord, che è tutto in funzione del suo esser partito di tipo tradizionale radicato sul territorio in misura estesa e capillare, e tale da «sentire» gli umori della gente. Questa estate, ad esempio, a metà agosto, a Albenga, solo la sezione della Lega Nord era aperta a disposizione dei cittadini che avevano problemi concreti, dalla tutela degli anziani soli al «contenimento» degli immigrati: Lega come sindacato di territorio. Quindi la Lega ha già «preparato» i propri territori al suo federalismo, ed ovviamente non ha alcun interesse a regioni e città ove non sia egemone. Qui sta il rapporto tra la quantità della presenza capillare sul territorio, una sorta di cura e tutela illimitata, e la qualità di queste scelte tutt’altro che a favore dell’intera comunità nazionale. Ma chi sono in realtà i leghisti? Se sfogliando le pagine de «La Padania» ci si sofferma sulla rubrica delle lettere, ove troneggia uno spadone gallico piantato nel colosseo, si può scoprire il pensare autoctono dei leghisti, tutto spencolato al di là della «comunità» nazionale e contro «Roma ladrona», a guardia del proprio territorio pretendendo di fissare regole e limiti del vivere insieme. Vi si scoprirà che per non pochi leghisti il loro territorio si estende dalle Alpi sino a una linea di demarcazione che va da Orbetello sul Tirreno a Pesaro e Rimini sull’Adriatico. Dell’odierna Italia rimarrebbero fuori il Lazio e le terre del vecchio regno delle Due Sicilie. Per quanto sembri paradossale i leghisti sono la falange dell’Italia berlusconiana, non a caso segnata dall’asse politico tra Bossi e il Cavaliere, che par durare almeno sino a una possibile condanna definitiva del premier. Il leghismo celebra i suoi fasti invocando periodicamente autonomie e federalismo, eppure – paradossalmente – son ora costretti a far i conti con celebrazioni di un’Unità fortemente voluta e attuata da una parte del Nord a discapito del resto del Paese, ritortasi ora – a loro dire – contro lo stesso Nord, che ha dovuto sin qui pagare le «spese» dell’arretratezza del Sud. berlusconismo diffuso In fondo, se si pensa bene, i capi dei leghisti della prima ora, quelli della Lega Lombarda, sono due: Bossi e Berlusconi, ambedue affetti dalla pretesa di far perno sulle regioni che contano, «predilette» per intercettare modi, opinioni e comportamenti da tempo vigenti in tutta Italia. Ha scritto Ilvo Diamanti il 31 gennajo su un noto quotidiano: tutto ciò incarna «un relativismo etico, che riguarda la concezione della donna e del suo ruolo. Nella società, nella famiglia, nelle relazioni di genere. Insieme a un sentimento omofobo, mai dissimulato. Oltre a una diffidenza radicata verso le istituzioni e le regole pubbliche. Berlusconi non ha ‘inventato’ questi atteggiamenti e questi modelli etici, trasferendoli agli italiani attraverso i media. Li ha, invece, ‘rappresentati’ (ha dato loro rappresentanza e rappresentazione). E li ha, inoltre, amplificati. Legittimati. Imposti come modelli (e consumi) di successo. Liberarsi di Berlusconi, per questo, non basterà a liberarci dal berlusconismo». Questa è una anomalia che abita e vegeta nella nostra recente storia patria e nella nostra società: un relativismo etico di un Paese «indulgente» che non ha alcuna spina dorsale, dato che nella sua storia non è mai stato capace di «appassionarsi» a nulla.... sino alle estreme conseguenze. Lega secessionista? Venerdì scorso ero con l’autore del prossimo libro sulla Lega Nord in uscita da un grande editore nazionale, che mi ha «illuminato» sulle vicende interne leghiste, dalle schiere di militanti ai loro intellettuali ed ai loro propositi. Alla fine della discussione gli ho posto una domanda che da tempo mi frulla nella testa: «dopo tutto quel che dici, è possibile, allora, che la richiesta insistente dell’approvazione del federalismo fiscale municipale non sia altro che la prima fase di una vera e propria secessione? Insomma, è possibile che Bossi e i suoi possano far quel che ha fatto la Slovenia nell’ora della crisi irreversibile dell’ex Jugoslavia, cioè comprarsi l’indipendenza quando la crisi istituzionale prodotta dalla dissennata politica di governo berlusconiana getterà sull’orlo dello sfascio il Paese?». Mi ha guardato sorridendo: «non ho osato scriverlo, ma non lo escluderei affatto». Francesco Saverio Festa ROCCA 15 APRILE 2011 no d’Italia, sanando in meno di vent’anni il gap tra regioni ricche e regioni povere e riunificando concretamente la Germania? Potrebbe mai risanare da solo la Puglia Vendola pur sventolando emozioni, sentimenti, una politica che abbia cura delle persone e non solo degli interessi? Sono sufficienti queste categorie a poter cambiare il Sud, per altro utilizzate da uno che non ha nemmeno un partito strutturato alle spalle proprio come Prodi quando era al governo? Non ha forse ragione Mario Tronti a scrivere: «oggi l’alternativa non è: partito sì o partito no, l’alternativa è: politica organizzata o antipolitica»? 23 ROCCA 15 APRILE 2011 Roberta Carlini endi, Gucci, Bottega Veneta, Ferrè, Valentino, Bulgari, per citare solo i marchi della moda. Galbani, Invernizzi, Locatelli, Bertolli, per passare a quelli dell’alimentare. Telettra, Acciai Terni, Nuovo Pignone, per parlare anche dell’industria pesante. Non sono pochi, i gioiellini italiani venduti agli stranieri. Perché Parmalat dovrebbe valere di più? Perché adesso, in occasione della scalata francese all’azienda agroalimentare di Parma, si cambiano regole e si introducono nuovi strumenti per proteggere l’italianità dell’impresa? Di quale italianità parliamo, visto che la più importante delle industrie italiane, quella che l’italianità ce l’ha anche nel nome (Fabbrica Italiana Automobili Torino), si accinge a spostare anche la sua testa all’estero? E con quali strumenti e garanzie, visto che quando il governo è intervenuto in difesa dell’italianità dell’Alitalia ha finito per spostare solo di pochi mesi la consegna della compagnia di bandiera ai francesi, per di più con risanamento a spese pubbliche? F il gioiellino La vicenda Parmalat è allo stesso tempo simbolica e terribilmente concreta. Concreta, perché ha a che fare con il cibo, e 24 con un alimento che tutti associamo all’idea del nutrimento primario, indispensabile, pulito: il latte. Simbolica, perché ha legato al suo nome uno dei più gravi scandali della storia economica italiana, quella gigantesca truffa finanziaria il cui disvelamento ha preceduto e preannunciato il grande crack del 2008. Il suo protagonista era un uomo importante e famoso, Callisto Tanzi, che ha navigato per decenni nella vita economica e politica italiana dalla prima alla seconda repubblica – proprio negli stessi giorni in cui la francese Lactalis andava all’assalto della proprietà di Parmalat, questa ingloriosa storia recente sbarcava al cinema con il film «Il gioiellino». Dopo il crack, l’azienda agroalimentare di Collecchio ha avuto una cura durata sette anni, per arrivare al risanamento finanziario ed industriale: gli esperti dicono che ha i conti in ordine, buone prospettive di mercato, e soprattutto che ha molti soldi liquidi in cassaforte, dovuti anche all’abilità del management nel farsi restituire il maltolto dai complici di Tanzi nella truffa (le banche). Così, sette anni dopo il fattaccio, Parmalat era lì con 1,5 miliardi nella pancia, un ruolo di primo piano nel mercato italiano e una posizione non eccelsa, comunque ragguardevole, nella classifica internazionale dei giganti del latte: tredicesi- PARMALAT mo posto. Se così stanno le cose, quel che bisogna chiedersi non è perché si sia fatto avanti il gruppo francese Lactalis (che già aveva incamerato un bel po’ di marchi italiani), ma perché non si sia fatto avanti nessun imprenditore italiano. Già, come mai? mister Nutella e altri ex-gloriosi Uno potrebbe pensare che nell’alimentare non abbiamo grossi nomi, dopo tutto lo shopping fatto dagli odiati francesi ed altri. Ma sbaglierebbe. Alcuni nomi ci sono ancora, il più grosso compare in pubblicità in tv quasi tutti i giorni con la sua Nutella, ed è l’italiano più ricco di tutti: lo dice la classifica Forbes, nella quale Michele Ferrero, padrone dell’omonimo gruppo, ha superato persino l’altro più ricco, Silvio Berlusconi. Il patrimonio personale di Ferrero – secondo Forbes, non secondo il fisco (poi vedremo perché) – è di 13 miliardi di euro. Non solo: anche lui ha una bella liquidità in cassaforte, 2 miliardi e mezzo secondo le fonti finanziarie riportate dai giornalisti più esperti. Dunque: di qua, un «gioiellino» ripulito e promettente; di là, un imprenditore che lavora nello stesso settore ed è pieno di soldi. Ma le avances sono durate poco e il matrimonio non s’è fatto; solo quando sono arrivati i rivali fran- cesi Ferrero è stato corteggiato, evocato, adulato perché ci ripensasse, tornasse a dare uno sguardo all’azienda. Ma nicchia, tentenna. Così come nicchiano e tentennano le cooperative di Granarolo, molto ma molto più piccole di tutti gli altri big che stanno affollando l’agone. Tutti, adesso, aspettano quel che il governo metterà sul piatto. Ma torniamo per un attimo a mister Nutella, evocato come il cavaliere che dovrebbe salvare l’impresa. Come ha notato Vincenzo Comito su www.sbilanciamoci.info, dire che la Ferrero è un’impresa italiana è una forzatura. Certo è una grande impresa, e di successo; certo produce (anche) in Italia. Ma tutto il suo portafoglio è in Lussemburgo. Non solo il tesoretto di famiglia, ma proprio tutto. È un’impresa che ha il suo centro direzionale in un paradiso fiscale. Cosa che non è bella, certo. Ma se dal paradiso scendessero un po’ di miliardi per re-investire in Italia una parte degli utili qui fatti, forse non staremmo a cercare il pelo nell’uovo. E invece – per ora – non è così. Forse perché Ferrero è più bravo di altri, e vede altri orizzonti imprenditoriali più convenienti di quelli del latte di Parmalat e suoi derivati; o forse perché non ha fame di crescere e investire, potendo vivere della ricca rendita di quel che di 25 ROCCA 15 APRILE 2011 la posta in gioco PARMALAT buono ha fatto finora. Condizione che accomuna molte delle imprese italiane exgloriose, e che forse spiega perché queste latitano mentre i loro colleghi stranieri vengono a fare shopping giù nel nostro maturo paese. Nel quale il rischio è ormai condizione dilagante, estesa a tutti gli aspetti della vita – la salute, il lavoro, il salario, la vecchiaia – tranne quello in cui dovrebbe stare, quello in cui è fisiologico e utile che sia: l’impresa. ci conviene bloccare i francesi? ROCCA 15 APRILE 2011 Ma se quest’ipotesi spiega il comportamento delle imprese, e anche il tardivo allarme del governo – che ha deciso di muoversi per evitare il peggio, dando una spintarella a eventuali cordate italiane –, resta da chiedersi: ci conviene, bloccare i francesi? Perché una Parmalat italiana dovrebbe funzionare meglio di una Parmalat a dominanza straniera? Non è forse vero che, negli anni ’80, si intervenne per evitare la vendita dell’Alfa Romeo alla Ford, e adesso, visti gli eventi successivi, molti che si opposero a quella vendita si mangiano le mani? Su tali questioni, vediamo scontrarsi spesso posizioni ideologiche, la cui evoluzione è interessante. Come notava Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, fino a pochi anni fa sembrava che tutto ciò che veniva da fuori, con la caduta di ogni barriera nei mercati, fosse in sé positivo, mentre ora (giustamente, secondo il giornalista) si ripensa a quel modello: il grande choc del 2008 ha avuto il suo ruolo, nel crollo del mito del mercato senza confini. Ma le giravolte spesso sono così repentine da far venire davvero il mal di testa e creare paradossi clamorosi: per cui (ha notato l’economista liberista Zingales sul Sole 24 Ore) ci troviamo a far storie per l’ingresso di un’industria francese nell’alimentare, mentre abbiamo Gheddafi come socio nell’industria strategica delle armi (Finmeccanica). Allora, forse conviene fare a meno delle ideologie: di quella liberista, per la quale mai e per nessun motivo si debbono intralciare imprese e capitali sui mercati; ma anche di quella dell’interesse e dell’identità nazionali, nel cui nome sono stati in passato compiuti atti che non hanno affatto tutelato i lavoratori e il loro futuro. Chiediamoci: cos’è in gioco, nel caso dell’industria Parmalat? Di quale interesse strategico parliamo? un intero settore a rischio La risposta ce la danno i produttori di lat26 te italiani, che vedono il loro settore a rischio sparizione. L’Italia è già un importatore netto di latte: l’anno scorso ne abbiamo importato quasi 2 milioni e 600mila tonnellate. Se Parmalat va in mani francesi, dicono gli allevatori, per il latte fresco continuerà a rifornirsi da noi, ma per tutto il resto – latte a lunga conservazione, e latte che gli serve per le produzioni industriali – andrà dai fornitori francesi. Non solo: sul mercato italiano del latte «alla stalla», ci sarà un compratore ancora più potente a fare il prezzo, contro un esercito di piccoli e piccolissimi produttori che da anni vedono ridursi i loro compensi e sono al limite della sopravvivenza. Un intero settore – del quale il governo si è occupato solo per conquistarsi, a suon di soldi pubblici, i voti di quelli che avevano violato le «quote latte» e che sono stati risarciti e premiati, a danno di tutti gli altri che hanno rispettato le regole – è a rischio. E mostra in questo frangente tutta la sua debolezza, e la crisi dell’agricoltura italiana, nel non aver saputo organizzare una filiera forte, raccordarsi con le industrie di trasformazione, coalizzarsi contro i giganti della grande distribuzione. È questo che ci dovrebbe interessare, più che il destino proprietario della società che fu di Tanzi. Ci dovrebbe interessare come cittadini, e come bevitori di latte. Anche se, come consumatori, non siamo immuni da colpe. Consumiamo, mediamente, 56,7 litri di latte fresco pro capite all’anno e 60 litri di latte a lunga conservazione. È meno buono e meno nutriente, ma costa meno, dura di più, si può immagazzinare in casa. È proprio il latte Uht quello che arriva dall’estero: il latte fresco, per il deperimento veloce che ha, non rende conveniente lunghi viaggi in autocisterna. Richiede, se non il «chilometro zero», una produzione abbastanza vicina. Un governo può decidere di intervenire sulla proprietà delle aziende (magari senza riuscirci, per assenza di «campioni nazionali», o buttandoci dentro un sacco di soldi), può comprare direttamente un’azienda (nazionalizzare Parmalat? Può sembrare una bestemmia, un sacrilegio, lasciamola qui come ipotesi teorica), o può porre delle regole che rendono più conveniente quel che è più sensato: consumare latte più sano, prodotto vicino casa, che non brucia troppo petrolio per arrivare al negozio. Roberta Carlini TERRE DI VETRO Oliviero Motta ia le ultime briciole dalla tavola, rimane solo la bottiglia e qualche bicchiere. È una serata più che tranquilla. Prima di andare di là per le terapie, c’è anche il tempo per il caffè e una sigaretta da fumare sul balcone, affacciandosi su una delle prime tiepide serate dell’anno. Oggi siamo in tanti, arricchiti dal ritorno di Fabrizio per un periodo di ripensamento; e il gruppo del reinserimento – nome in codice «seconda fase» – conta così sei persone, record stagionale. Silvio è decisamente su, nonostante sia stanco fisicamente; lunedì ha compiuto quarantacinque anni festeggiato da tutti i diciannove del gruppo-casa. Gli ingredienti sono stati quelli consueti di una festa casalinga: auguri, torta, applauso. E il regalo, che quando lo ricevi qui dentro, capisci un po’ di più il significato della parola sorpresa. Quattro giorni fa mi sono perso i suoi lucciconi, ma è un bel momento anche questo: lui che arriva con l’andatura ciondolante e i suoi novantadue chili, con in mano un piccolo contapassi. Il suo regalo. Dice che le istruzioni sono un po’ complicate, non è immediato capire come impostare le quattro funzioni: orologio, passi, distanza, calorie bruciate. Mi chiede una mano. Con Silvio e Fabrizio armeggiamo con il contapassi e le istruzioni e rimango folgorato dal valore simbolico di questa decina di minuti; seicento secondi, o giù di lì, in cui scorgere condensati tanti ingredienti del lungo percorso in comunità. Primo passo: guardare. Vedere bene la realtà: com’è fatto questo aggeggio? Quanti pulsanti ha? A cosa servono? Secondo: cercare insieme di comprendere le istruzioni, che qui sono sintetizzate in immagini teoricamente immediate e, per così dire, universali, ma che invece hanno bisogno di essere interpretate. Frecce, numeri, sequenze. Cosa bisogna fare prima e cosa dopo? V Terzo: fare tentativi, cominciare a muoversi. Superare la prima tentazione di piantar lì, perché non ci si capisce un tubo, e azzardare. Sbagliare, tentare, cercare la via. Quarto: sincronizzare l’orologio. E la data. Che ore sono adesso, esattamente in questo momento? Che giorno è? Collocarsi nel tempo, darsi un punto di partenza. Quinto: inserire il proprio peso. Quanto peso io? Chi sono? Cosa porto di mio? Come sono fatto? Sesto: misurare e inserire la dimensione del proprio passo. Non quello di un altro, proprio il mio; perché per sapere quanta strada farò, devo dichiarare qual è la distanza che c’è tra i miei piedi quando mi muovo. L’educatore e l’operatore di comunità ci sono, sono qui accanto per capire insieme, per una dritta, stimoli, qualche punto cardinale; ma l’andatura con cui cammini non può che essere proprio la tua. Niente imitazioni: misure troppo piccole o troppo grandi, affaticano allo stesso modo. Come in montagna: il tuo passo. Leggiamo insieme le istruzioni per misurare il passo, ma oggi non abbiamo la possibilità di farlo. Lo faranno domani, Silvio e il Tarci, bindella alla mano, a segnare per terra i dieci metri e a camminarci sopra, per ottenere esattamente quel numero, virgole e decimali compresi. Già me li immagino, giù nel cortile, alla ricerca della cifra giusta. Solo dopo quest’ultimo atto, il contapassi potrà fare il suo lavoro. Messo alla cintura, sarà in grado di svelare a Silvio quanti chilometri divora portando a spasso i cani, alle prese col suo primo tirocinio lavorativo dopo due anni di comunità. Uno dei passaggi più importanti sulla strada per una nuova autonomia personale. L’unica cosa di cui le istruzioni non parlano e che è tutta, ma proprio tutta, nei tuoi piedi: la meta. Passo dopo passo. 27 ROCCA 15 APRILE 2011 il contapassi CAMINEIRO l’ora legale Tonio Dell’Olio È scattata l’ora legale. Fosse vero! Se scoccasse davvero l’ora legale, la legge sarebbe finalmente uguale per tutti. Nessuno attenterebbe più all’autonomia dei giudici. Tutti pagherebbero le tasse dovute per rendere più lieve il prelievo fiscale. Per tutti. La Corte dei conti non dovrebbe più denunciare l’ammontare di 60 miliardi di euro annui derivanti dall’attività di corruzione e ogni italiano avrebbe mille euro di più a disposizione. Terminerebbe la corsa dei capitali verso i paradisi fiscali. Anche il mio barista farebbe sempre lo scontrino senza che io glielo chieda e l’idraulico, l’oculista, l’avvocato, il dentista e l’agenzia di pompe funebri non ci presenterebbero più due conti separati con e senza fatturazione. Se l’ora legale scattasse davvero, metteremmo le lancette dei nostri orologi un’ora avanti sulla via della giustizia. L’ora legale (quella dell’orologio!) è scattata mentre si bombardava in terra straniera in attuazione di una risoluzione dell’Onu che 66 anni fa nasceva «per preservare le future generazioni dalla tragedia della guerra». Quale ora dobbiamo aspettare perché le Nazioni Unite dichiarino il proprio fallimento o siano messe in grado di funzionare davvero? In attesa dell’ora legale (quella vera!) ciascuno affretti il tempo dell’onestà e della responsabilità, della lealtà e della fedeltà alla comunità di cui si è parte. Anabel Hernandez ROCCA 15 APRILE 2011 Cinque anni di inchieste giornalistiche serie e documentate per giungere a una pubblicazione poderosa: Los señores del narco. Sfogliando le pagine del libro si scopre, non senza qualche sorpresa, che i signori del narcotraffico non sono soltanto gli appartenenti ai sanguinari cartelli messicani che hanno provocato più di 35.000 morti ammazzati negli ultimi anni, ma anche molti membri delle forze di polizia e delle istituzioni. Testimonianze, documenti e fatti. Sfido che le siano giunte mi28 nacce di morte e che oggi la sua vita sia in pericolo! Per questa ragione abbiamo fatto sapere al governo messicano che Anabel Hernandez non è sola. C’è una comunità internazionale, composta da organizzazioni e gente comune, che riterrebbe responsabile lo stesso governo di qualunque cosa dovesse capitare anche a lei come è successo finora a 65 suoi colleghi che hanno pagato con la vita il coraggio della verità. L’informazione corretta è l’autentica sentinella della verità. Aprire gli occhi su ciò che ci succede attorno è il primo passo verso una cittadinanza consapevole. la cultura Don Ciotti lo va ripetendo da tempo: «È la cultura che dà la sveglia alle coscienze». Anche per questo dovremmo denunciare come un attentato ogni sottovalutazione gretta dell’arte e del bello, di ciò che riempie sguardi, menti e cuori. Un quadro, un libro, un film, un passo di danza… non sono compiacimento intimo dello spirito ma un’apertura alla vita che respiriamo al di là delle nostre mura. È la scommessa di imparare un alfabeto nuovo che ci fa conoscere quanto infinite siano le strade dell’anima. Senza cultura saremmo tristi fiori appassiti nostalgici di acqua e di aria. E vivremmo l’afasia della mente, lo sbiadimento della creatività, la paralisi delle intuizioni. Uno scavo archeologico o una canzone, un ricamo antico o una poesia sono beni comuni e vanno garantiti come la sanità e la sicurezza. Le librerie, i musei, i teatri... dovrebbero essere distribuiti sul territorio come le farmacie: in base al numero degli abitanti. Si tratta di un diritto. Non costituiscono un vezzo e un dipiù ma un diritto che a tutti va garantito. Anzi: promosso e sviluppato. «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» (Art. 9 della Costituzione Italiana). ENERGIA nucleare sì nucleare no Pietro Greco giornalista scientifico, scrittore Ugo Leone ROCCA 15 APRILE 2011 docente di Politica dell’Ambiente Università Federico II, Napoli 29 ENERGIA il nucleare dopo Fukushima Pietro Greco rima il sisma, poi in rapida successione le onde di tsunami. Non c’è dubbio alcuno: quelli che si sono abbattuti sull’isola di Honsu in Giappone, venerdì 11 marzo, sono stati due colpi davvero fuori dall’ordinario. Il terremoto ha raggiunto magnitudo 9,0 ed è stato il più forte mai registrato nell’arcipelago nipponico. Il quinto per potenza mai registrato al mondo. Lo tsunami, con onde alte fino a 15 metri, è avvenuto sottocosta e in pochi secondi ha raggiunto e devastato vasti territori pianeggianti. Le perdite umane sono state molto alte: si parla di migliaia di morti. Ma chi conosce i terremoti e la loro capacità sa che in qualsiasi altra parte del mondo, con analoga intensità abitativa, le vittime sarebbero state ben maggiori. Basta ricordare che proprio lo scorso anno ad Haiti un terremoto di magnitudo 7,0 – seicento volte meno potente di quello nipponico – e senza tsunami ha causato quasi 300.000 morti. Pur nella tragedia, il Giappone ha dimostrato che per capacità tecnologica e cultura della prevenzione non ha pari al mondo. P crisi del sistema nucleare ROCCA 15 APRILE 2011 Tuttavia nelle ore successive al doppio micidiale colpo, il mondo è rimasto col fiato sospeso a causa di un effetto secondario del terremoto e dello tsunami: la crisi del sistema nucleare. Non il collasso, si badi bene. Perché nessun dei 55 reattori che costituiscono il sistema nucleare giapponese è collassato e tutti quelli a rischio sono stati spenti automaticamente non appena è stata registrata la scossa sismica. Ma una crisi del sistema, quella sì c’è stata. Il sistema ausiliario di refrigerazione non ha funzionato bene, soprattutto (ma non solo) in alcuni reattori della centrale di Fukushima. Provocando una crisi seria: quello ai reattori giapponesi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile dopo Chernobil. L’Aiea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha classificato l’incidente di Fukushima prima al livello 4, poi al livello 5 e infine al livello 6 della scala 30 Ines (International Nuclear Event Scale), che va da 1 a 7. Il livello 6 è, appunto, quello relativo a un incidente grave. C’è solo un livello successivo, il 7. Quello, catastrofico, di Chernobil. Al momento in cui scriviamo – tre settimane dopo il terremoto – le notizie sono ancora frammentarie. Non sappiamo ancora se c’è stata, in qualcuno dei reattori, fusione del nocciolo. Non sappiamo neppure se i giapponesi riusciranno a refrigerare i reattori surriscaldati. Sappiamo però che ci sono state diverse esplosioni, di natura chimica, che hanno provocato emissioni, più o meno controllate, di nubi definite nocive dal governo giapponese. Non conosciamo né la quantità né la natura della radiazione liberata nell’ambiente. Sappiamo però che il governo di Tokio ha deciso di evacuare l’area intorno alla centrale per un raggio prima di 10, poi di 20, poi di 30 chilometri. E che la autorità americane hanno consigliato ai propri cittadini di allontanarsi di almeno 80 chilometri da Fukushima. Non conosciamo ancora le cause precise della crisi del sistema ausiliario di refrigerazioni in così tanti reattori. E solo una conoscenza dettagliata potrà trasformarsi in una spiegazione significativa. Tuttavia due cose sono certe. La prima certezza riguarda la mancanza di trasparenza. La carenza di informazioni è stata così clamorosa (ha protestato non solo l’Aiea ma persino il primo ministro del Giappone), inaccettabile e del tutto controproducente per chi guarda al nucleare come a un’opzione spendibile al mercato dell’energia. A molti, infatti, è venuta in mente la mancanza di glasnost da parte delle autorità sovietiche al tempo di Chernobil. Facendo sorgere spontanea la domanda: l’omertà è intrinseca al nucleare? imprevisto o imprevedibile? La seconda certezza riguarda il sistema nucleare giapponese: l’incidente di Fukushima ha dimostrato che – almeno, in par- ROCCA 15 APRILE 2011 te – non è stato progettato e realizzato per sopportare i due terribili colpi: il terremoto di altissima intensità e l’arrivo in tempi rapidissimi delle terribili onde di tsunami. A questo punto bisogna capire se l’imprevisto è risultato tale perché imprevedibile. Oppure per carenze di progettazione. Il nodo non è da poco. Perché, in ogni caso, propone domande cui non è semplice rispondere. Ammettiamo che il doppio colpo – sisma di magnitudo 9,0; onde di tsunami che arrivano sulla costa altissime e in pochi secondi – che non è stato previsto dai costruttori della centrale di Fukushima fosse davvero imprevedibile. Questo non ci deve portare a rivedere profondamente i fondamenti teorici su cui costruiamo i nostri sistemi di prevenzione del rischio, nucleare e non? Se, al contrario, il grave incidente è stato tale per colpa oggettiva dei progettisti (era prevedibile e non è stato previsto), il fatto che questo errore umano sia avvenuto in un paese tra i più sviluppati tecnologicamente e con maggiore cultura della prevenzione, non è il caso di rivedere in profondità il modo in cui mettiamo in pratica i fondamenti teorici della prevenzione del ri31 ENERGIA schio, nucleare e non? Solo dopo che avremo risposto a queste domande potremo rispondere in maniera compiuta a quella che tutt’oggi campeggia sulle prima pagine dei giornali e persino sulle agende politiche delle cancellerie di tutto il mondo: nucleare sì o nucleare no? Non solo il Giappone, l’Europa e l’America (dove oggi si concentra la maggiore densità di centrali), ma anche la Russia e la Cina, i paesi con i più vasti programmi di sviluppo nucleare, hanno deciso pause di riflessione e di studio prima di rispondere alla nostra ultima domanda. Anche l’Italia ha congelato per un anno il suo recente progetto nucleare (i maligni dicono per aggirare un referendum dall’esito pressoché scontato). La domanda sulla sicurezza delle centrali è dunque sospesa, in attesa di capirne di più. Ciò non toglie che possiamo cercare di individuare gli altri temi su cui coloro che hanno chiesto una pausa devono riflettere. ROCCA 15 APRILE 2011 né determinante né indispensabile Quanto conta e quanto potrebbe contare il nucleare nel paniere energetico globale? Le ultime stime proposte dall’Unep, il Programma per l’Ambiente della Nazioni Unite, dicono che il nucleare, con circa 450 centrali attive, attualmente soddisfa appena il 2,8% della domanda energetica mondiale. Entro il 2035 la domanda di energia, si calcola, aumenterà del 50%. Se anche oggi partisse un piano globale per quadruplicare il numero delle centrali, e ne costruissimo 1.500 nuove, l’offerta nucleare nel 2035 non potrebbe superare il 7 o 8% della domanda complessiva di energia. Stiamo parlando, dunque, di una fonte minoritaria destinata a rimanere tale. Anche perché, prima di Fukushima, nessun paese occidentale aveva vasti programmi di sviluppo nucleare e gli unici paesi che intendevano costruire un numero importante di nuove centrali erano Cina, Russia e India. E, comunque, il numero di nuove centrali previste si misurava in decine non in migliaia. Il nucleare è determinante per limitare le emissioni di gas serra? Uno dei vantaggi del nucleare è che esso è (quasi) «carbon free». Ovvero non produce carbonio e altri gas serra (o, almeno, considerando tutte le sue fasi di sviluppo, ne produce meno dei combustibili fossili). Recenti studi scientifici, tuttavia, dimostrano che anche negli scenari più rigorosi di contrasto dei cambiamenti climatici – riduzione dell’80% delle emissioni antropiche di gas serra entro il 2050 – il nucleare sarebbe certo utile, ma 32 non determinante né indispensabile. Il nucleare è una fonte rinnovabile? L’uranio è un elemento piuttosto raro e le riserve sul pianeta sono limitate. Secondo alcuni non ce n’è abbastanza per alimentare un programma massiccio di sviluppo. Secondo un recente rapporto del Mit di Boston, invece, non ci dovrebbero essere problemi da qui a fine secolo. Resta il fatto che la materia prima è esauribile e che, dunque, il nucleare da fissione è un’opzione transitoria, ma non può essere un’opzione strategica. Il nucleare conviene? Qui il discorso è, se possibile, ancora più complicato. Il nucleare comporta grandi investimenti iniziali: e questo sarebbe, per gli economisti, il motivo principale per cui in Occidente da trent’anni si è poco sviluppato. Il costo per unità di energia prodotta è, tuttavia, competitivo con quello di altre fonti. Se, tuttavia, non si tiene conto delle cosiddette esternalità (impatto ambientale, gestione delle scorie incluse) e non si tiene conto del decommissioning, ovvero dello smantella- in nucleare militare. Il nucleare civile è associabile a ragione o a torto – basta considerare l’esempio dell’Iran – alla proliferazione delle armi nucleari. La vicenda giapponese, tra l’altro, dimostra che l’Aiea, l’agenzia della Nazioni Unite che dovrebbe impedire il processo di proliferazione, non ha tutti gli strumenti necessari per ottemperare al suo compito. mento delle centrali giunte a fine ciclo. le scorie Il nucleare è ecologicamente sostenibile? Per quanto riguarda il contrasto ai cambiamenti climatici, ne abbiamo già parlato. È un’opzione utile, ma non determinante. Il guaio del nucleare è che produce scorie. Parte di queste scorie resta attiva e pericolosa per decenni, parte addirittura per migliaia di anni. Ancora oggi non esiste al mondo un modo sicuro ed economico per la gestione della scorie. È questo uno dei motivi che spinge la gran parte degli ambientalisti a rifiutare il nucleare. Il nucleare è socialmente sostenibile? È certamente un’opzione per paesi relativamente ricchi e grandi. Non solo a causa degli enormi investimenti iniziali, ma perché richiede una grande organizzazione. Ma il maggior rischio sociale del nucleare civile è associato al fatto che esso può, in maniera relativamente facile, trasformarsi Il nucleare è migliorabile? La tecnologia del nucleare da fissione è, essenzialmente, obsoleta. È la stessa da molti decenni. Questo non significa che non sia stata migliorata nel corso del tempo: le centrali di cosiddetta terza generazione plus che dovrebbero essere costruite in Italia, per esempio, sono certo dotate di sistemi di sicurezza più evoluti e più affidabili di quelle di seconda generazione entrate in crisi in Giappone. Tuttavia non c’è una differenza qualitativa nel processo di produzione dell’energia. Le centrali di quarta generazione dovrebbero essere, invece, molto più innovative. Ma sono in una fase di ricerca e sviluppo così preliminare da non consentire previsioni con un ragionevole grado di certezza e, in ogni caso, saranno pronte e utilizzabili solo tra venti o trent’anni. Conviene investire nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico del nucleare di quarta generazione, ma non conviene ancora puntare su di esso per pensare di risolvere o anche solo di lenire il problema energetico. Tutte queste argomentazioni e altre ancora erano valide fino a un paio di mesi fa. Ma ora lo scenario è completamente cambiato. O meglio, ora l’evoluzione degli scenari è decisamente accelerata. La crisi libica e, più in generale, nel Medio Oriente islamico, sta provocando una forte impennata del costo del petrolio. L’incidente (l’insieme degli incidenti) di Fukushima sta provocando un forte rallentamento del nucleare. Il cambiamento del paradigma energetico fondato sui combustibili fossili è sempre più urgente; sia per motivi di depletion (esaurimento del petrolio), sia per motivi di pollution (cambiamenti climatici). La strada sembra definitivamente spianata per le fonti rinnovabili (biomasse, eolico, geotermico e soprattutto solare). Questo è, a giudizio di molti, lo scenario energetico più probabile e più auspicabile. Ma, come insegna Fukushima, spesso la storia si diverte a smentire le previsioni considerate più attendibili e percepite come più desiderabili. Pietro Greco 33 ROCCA 15 APRILE 2011 quarta generazione? ENERGIA conviene investire sul nucleare? Ugo Leone ra i tanti insegnamenti che si possono trarre dal multiforme dramma che ha sconvolto il Giappone, uno riguarda il rapporto energia/primo mondo. Ed è la ulteriore sottolineatura della impreparazione con la quale da oltre cinquant’anni viene affrontato il problema. Impreparazione non solo nei confronti dei dati reali del problema (disponibilità delle fonti e loro presumibile durata); non solo nei confronti delle possibili alternative tra le varie fonti; non solo nei confronti del modo in cui fronteggiare i rischi legati alla loro produzione e trasformazione. È questa una costante da quando la fame di energia ha cominciato a divorare miliardi di tonnellate di petrolio nella illusione di avere a disposizione una fonte praticamente inesauribile e disponibile a prezzi bassi. Sino a quando, abbastanza inutilmente, sono suonati i primi campanelli d’allarme. Il primo suonò nel 1956 con la prima, breve, chiusura del canale di Suez. Allora i Paesi industrializzati si resero conto che sarebbe stato per lo meno prudente cominciare a diversificare la scelta delle fonti di energia e i paesi di approvvigionamento. Più Paesi produttori entrarono nel novero dei possibili fornitori, ma soprattutto si cominciò in modo più deciso e geograficamente diffuso, a considerare l’energia nucleare come possibile alternativa. Anche in Italia. F alternative al petrolio ROCCA 15 APRILE 2011 Poi abbastanza rapidamente si ritornò alla scialacquante originaria situazione. Sino al 1973 quando in seguito alla «guerra del Kippur» ebbe origine la più grave crisi internazionale delle fonti di energia che fu tale soprattutto per l’eccezionale aumento del prezzo del barile di greggio che mise in profonda crisi le economie dei Paesi industrializzati legate a filo doppio con la disponibilità di petrolio abbondante e a basso prezzo. (Ma già nel 1970, col primo rapporto al Club di Roma, il Mit aveva messo in guardia circa la disponibilità di petrolio avvertendo che non ce ne sarebbe stato per più di una cinquantina d’anni ancora). Soprattutto in Italia. 34 Si cominciò a guardare con maggiore attenzione alla necessità di trovare alternative al petrolio. Il nucleare, innanzitutto, ma anche sole, vento, maree, scisti bituminosi, idrogeno, fusione «fredda» e via elencando. Si cominciò anche timidamente a riflettere sulla opportunità di risparmiare di più e sprecare di meno nei consumi energetici. Anche in Italia dove si puntò sulle domeniche senza auto, sul ricorso alle «targhe alterne» nella circolazione automobilistica, sulla chiusura anticipata dei programmi televisivi. E sulla bella pensata di un ricorso massiccio alla costruzione di centrali nucleari con la elaborazione di un Piano energetico nazionale che di centrali ne ipotizzava una ventina. A quella data erano operanti nel Paese quattro centrali che complessivamente contribuivano alla produzione dell’1% del totale delle fonti di energia. Dovunque la ricerca scientifica fu incentivata verso la individuazione di una fonte che potesse risolvere il problema per sempre e per tutti. Ben presto si tornò alla precedente situazione di illusoria disponibilità di molto petrolio e a prezzi convenientemente ristabilizzati. La ricerca fu progressivamente disincentivata e ci si trovò di nuovo sguarniti quando nel 1979 l’amico Scià di Persia fu deposto e sostituito dal regime degli ayatollah con un conseguente, più limitato, nuovo incremento dei prezzi del greggio. I trenta anni successivi sono stati, per così dire, più tranquilli sul fronte delle oscillazioni del prezzo del barile. Ma più dinamici sul fronte delle fonti alternative. Innanzitutto il ricorso al nucleare fu scosso da due incidenti gravi nel 1979 a Three Mile Island in Pennsylvania e, più grave e più noto, nel 1986 a Chernobyl in Ucraina. Il contraccolpo più sensibile si ebbe in Italia dove in seguito al referendum del 1987 il Paese decise di uscire dal nucleare chiudendo le quattro centrali parzialmente in funzione e bloccando i piani di futuro sviluppo. la corsa alla denuclearizzazione E arriviamo ad oggi, in Giappone, dove una serie di drammatici eventi concomitanti (un terremoto di violenza inusitata perfino per questo Paese e, soprattutto, il conseguente maremoto) hanno infierito sulla popolazione e scoperto un altro fronte sui problemi del nucleare: quello della incapacità di prevedere il materializzarsi di un rischio come quello che sta coinvolgendo la centrale di Fukushima e di avere pronte le misure per intervenire e minimizzare i danni. Invece qui, a Fukushima, si è intervenuti come lo scorso anno in seguito al disastro nella piattaforme petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico dove si è andato per tentativi, falliti uno dopo l’altro, e sono occorsi ben quattro mesi per «tappare» la falla dalla quale nel frattempo erano stati sversati in mare almeno 5 milioni di barili di greggio. In seguito al drammatico evento nucleare in Giappone si assiste ad un ripensamento alla individuazione del nucleare come soluzione risolutiva e c’è una corsa alla denuclearizzazione: nei Paesi dove operano già molte centrali, alcune delle quali vecchie di diecine di anni, e nei paesi, come l’Italia dove il ritorno al nucleare era in immediato programma. Tutto questo è bene: vale il principio di precauzione. Ma non basta. Perché di grandi quantità di energia non si può o non si sa fare a meno. Allora nell’immediato non è prevedibile altro che una più massiccia domanda di petrolio il cui prezzo aumenterà e la cui disponibilità si ridurrà agendo come ulteriore elemento di incremento del prezzo del barile. Se questi sono i frutti della impreparazione forse c’è almeno da sperare che una volta per tutte ciò induca ad intraprendere una strada più sicura e che le fonti che al momento è legittimo solo definire integrative diventino progressivamente sostitutive delle fossili. Facendo anche il dovuto ricorso a politiche di abbattimento degli sprechi, razionalizzazione dei consumi e sostanziale risparmio. Tutto anche per dare il tempo alla ricerca scientifica, opportunamente rifinanziata e incentivata, di prospettare soluzioni veramente durevoli. Anche in Italia. il rischio Italia Anche in Italia dove il riferimento alla progettata ripresa dell’avventura nucleare è non solo spontaneo, ma obbligatorio. Come è noto nei programmi governativi c’è il proposito di costruire 13 centrali le quali se si cominciasse a mettere le prime pietre, secondo le previsioni, nel 2013 diventeranno operative dopo il 2020. Proviamo a ragionare su questi dati e a farlo per assurdo. L’assurdo è dare per certo che si tratterà di centrali dell’ultimissima generazione e che queste siano assolutamente e provatamente sicure. Se un’ipotesi di questo tipo può consentire di dimostrare la sempre più limitata peri35 ENERGIA colosità delle centrali non è, comunque, in grado di dimostrarne la reale utilità. Mi spiego. Il rischio, qualunque tipo di rischio, e sappiamo tutti che non esiste rischio zero, non dipende solo dalla probabilità, per quanto remota, che si manifesti un evento capace di far danno a cose e persone, ma soprattutto dipende, appunto, dalla presenza di cose e persone. Dunque per minimizzare la pericolosità di un impianto a rischio di incidente è importante la scelta del sito: che sia il più lontano possibile da persone e cose. Non solo: è necessario anche che l’impianto sorga in una zona sicura, vale a dire non sismica e non franosa. Bene. Bisogna ora chiedersi se e dove esiste in Italia un insieme di coincidenze come queste. Se e dove esiste considerando che 1.037 comuni pari al 13% del totale sono complessivamente interessati dalle norme previste dalla Direttiva Seveso e, quindi, si trovano in situazioni di rischio. Di questi 707, con una popolazione di circa 11,5 milioni di persone rientrano nelle aree a rischio di crisi ambientale. Aggiungiamo che l’Italia è un Paese sismico, vulcanico ed idrogeologicamente dissestato, e ci accorgiamo che su 8.101 comuni, 4.610 sono a rischio sismico, una trentina a rischio vulcanico e 2.875 quelli interessati da frane e smottamenti. Tutte tipologie di rischio umano e naturale che in molti casi si sommano. Aggiungiamo ancora che quasi il 12% del territorio nazionale è sottoposto ai vincoli derivanti dalla istituzione di Parchi, nazionali, regionali, oasi e altre forme di protezione della natura. Se confrontiamo e sommiamo tutte queste situazioni, è lecito chiedersi: ma dove esistono in Italia siti nei quali sia possibile localizzare in sicurezza impianti a rischio? una scelta utile? ROCCA 15 APRILE 2011 Non esistono. O, per lo meno, non esistono in quantità tali da giustificare l’impegno anche economicamente molto rilevante di un investimento nel nucleare. Ciò perché questa è una scelta la quale, o si abbraccia in toto, come ha fatto la Francia o non ha senso. Voglio dire che non ha senso proporsi di fare un po’ di nucleare vale a dire costruire una quantità di centrali capace di dare un contributo all’offerta di energia intorno al 1015% del totale, intorno, cioè a circa 15 milioni di tonnellate di equivalente petrolio (tep). Non ha senso perché 15-20 milioni di tep si possono produrre «senza colpo ferire» puntando su fonti di energia via via sostitutive delle fossili. Prime fra tutte il vento e il sole. Soprattutto l’energia eolica che è rinnovabile, pulita, matura, e allo stato attuale la più competitiva. Si stima che volendo produrre dal nucleare 36 il 20% dell’energia elettrica, secondo l’obiettivo del Governo, occorrerebbe un investimento di almeno 25 miliardi di euro. Con la stessa cifra e in molto minor tempo si potrebbero installare 500 parchi eolici da 20 turbine ciascuno. E questa sarebbe una scelta non solo più «rassicurante» in termini di riduzione del rischio, ma anche coerente con le decisioni dell’Unione Europea di puntare con maggiore convinzione sulle fonti rinnovabili. Quindi il sole (essenzialmente fotovoltaico) e, soprattutto, il vento. Ma non solo. la risorsa risparmio In aggiunta va attentamente esplorato il troppo trascurato giacimento costituito dal risparmio. Che non significa restrizione e sacrifici, ma razionalizzazione degli usi e lotta agli sprechi a tutto vantaggio, anche, della durata delle energie in via di esaurimento per quegli usi per i quali è difficile trovare immediate alternative, del minor impatto ambientale e del risparmio economico familiare. In concreto, risparmio significa drastico taglio dei consumi di energia per la climatizzazione artificiale degli ambienti costruiti nei quali oggi si bruciano annualmente oltre 30milioni di tep. E, contemporaneamente, massiccia sostituzione dei combustibili fossili (olio combustibile, ma anche metano) con il fotovoltaico e con il ricorso ad una «bioedilizia» nella quale le integrazioni per climatizzare gli ambienti siano ridotte al minimo indispensabile: d’inverno come d’estate. Risparmio significa anche intervenire sui modi di produzione industriale perché, come è tecnicamente possibile, diventino meno energivori. Risparmio significa, soprattutto, interventi nella politica dei trasporti urbani ed extra urbani che oltre ad essere grandi consumatori di energia da combustibili fossili, per ciò stesso sono anche i maggiori responsabili dell’inquinamento atmosferico e dell’immissione di gas serra in atmosfera. In conclusione: sole, vento e sobrietà negli stili di vita sono la ricetta per un futuro non solo «sostenibile», ma più pulito e più sicuro. Sotto la spinta non solo emozionale della catastrofe nucleare giapponese, molti Paesi hanno deciso di bloccare la loro proliferazione nucleare e di fermare le centrali di più antica generazione. Ci sarà un ripensamento anche da parte del Governo italiano anche prima che glielo imponga un voto referendario? Ugo Leone CALO MATRICOLE Fiorella Farinelli i investe di più in istruzione, durante le crisi. Meglio studiare, quando il lavoro scarseggia. È sempre successo, e sta succedendo anche questa volta. Ma non in Italia. Lo dicono, concordi, tutte le fonti, il consorzio Almalaurea, il Consiglio Universitario Nazionale, il Comitato Nazionale per la valutazione del sistema universitario. I dati sono quelli dell’ultimo anno accademico, comparati con gli anni immediatamente precedenti. Sebbene da noi il tasso della popolazione laureata, anche nelle fasce di età più giovani, sia nettamente al di sotto della media europea, nell’ultimo anno le immatricolazioni sono diminuite del 5%, e il calo negli ultimi quattro anni è del 9,2%. S Non dipende dall’andamento demografico – nel 2009 il numero dei diplomati è anzi cresciuto di circa 5.000 unità – ma da un mix di altri fattori. Lo si intuisce osservando che la riduzione delle matricole, che sono state 293.000 nel 2009-2010 mentre erano 312.000 nel 2008-2009 (e 338.000 nel 20032004), non è omogenea in tutte le aree del paese né riguarda nello stesso modo tutte le facoltà. E inoltre non interessa le più costose università private, che invece vedono in un anno aumentare i propri iscritti del 2%, e le immatricolazioni all’estero. L’emorragia colpisce in modo più vistoso le facoltà delle scienze umane (-16,8%), e più il Mezzogiorno che il Centro Nord, ma l’analisi per provincia rivela che a nord come a 37 ROCCA 15 APRILE 2011 il declinante fascino della laurea CALO MATRICOLE sud sono i mercati del lavoro locali a fare la differenza: i diplomati sono più propensi a non proseguire negli studi universitari dove sono più alte le probabilità di trovare un’occupazione. Quali sono le cause di questo crescente disamore per l’università? Come si spiega in un mondo del lavoro in cui è del tutto evidente che i laureati hanno retribuzioni mediamente più alte (+55%) dei diplomati e che, anche dentro la crisi, sono questi ultimi a essere colpiti di più dalla disoccupazione? il calo delle iscrizioni ROCCA 15 APRILE 2011 Non è un problema, intanto, di tasse universitarie. A differenza del Regno Unito dove si sono raddoppiate o triplicate nel giro di pochissimo tempo, da noi non solo le norme impediscono di superare una certa soglia ma i rettori si sono guardati bene, per il momento, dal tentare forzature che avrebbero alienato il consenso degli studenti proprio nella fase calda della protesta contro la riforma Gelmini. Secondo alcuni dati pare anzi che negli ultimi anni le entrate contributive per studente sarebbero addirittura diminuite. I costi veri, quelli che in tempi di crisi possono dissuadere dall’investimento in istruzione terziaria le famiglie di condizioni economiche più modeste (le altre no, come si vede dall’incremento di iscrizioni a università private come la Luiss di Roma o la Bocconi di Milano), sono piuttosto quelli connessi alla frequenza, soprattutto se in sedi universitarie di città diverse dal luogo di residenza. Costi molto alti, tra libri, affitti e viaggi, su cui si è abbattuto il drastico taglio del 60% delle risorse per il diritto allo studio. Oggi gli importi delle borse di studio si sono ridotti a 4.700 Euro annui per i fuorisede – briciole rispetto a costi effettivi di 20-30.000 Euro annuali – a 2.590 Euro per i pendolari, a 1.770 per gli studenti in sede, ma non tutti quelli che avrebbero i requisiti per ottenerle le ricevono davvero. Nelle regioni del Sud, la copertura degli «idonei» non supera il 60%, nel Veneto e nelle Marche si arriva all’85%. Non solo. Chi riesce ad accedere alle residenze universita38 rie finanziate dalla regioni è appena il 22% degli aventi diritto. Scoraggiante, inoltre, il sistema italico dei prestiti «d’onore» a futura restituzione. Il fondo «Diamogli un futuro», annunciato con la solita grancassa di enfasi retorica dal ministero della gioventù, prevede prestiti di 5.000 Euro l’anno, da restituire due anni e mezzo dopo la laurea, anche se ancora non si è trovato un lavoro. Sono poi 19 milioni di Euro in tutto, a fare quattro conti si capisce che non si prevedono più di 700 prestiti, la solita lotteria insomma. Come si fa, come possono fare le famiglie più tartassate dalla crisi a decidere a cuor leggero che dell’università non si può proprio fare a meno? laureati in precariato Ma se la laurea sta perdendo fascino, non è solo per questo. La verità è che anche per i laureati i percorsi di primo inserimento nel lavoro si stanno facendo sempre più faticosi e accidentati. Soprattutto per chi ha fatto studi nel comparto umanistico – non a caso è qui che ci sono i cali più vistosi delle immatricolazioni – un calvario più o meno lungo di lavori a termine, di precariato, e anche di lavoro nero è diventato un orizzonte quasi certo. Ma di lauree che assicurino un inserimento professionale rapido, qualificato, e con le caratteristiche del lavoro stabile o facilmente stabilizzabile, non ce ne sono poi molte, neppure nei comparti scientifici e tecnologici, tanto più se dopo la laurea ci sono da superare concorsi per l’iscrizione agli ordini o per lavorare nel settore pubblico. I dati di Almalaurea ci dicono che occupati «senza contratto», a due anni dalla laurea, sono il 6% dei laureati di primo livello, il 7% di quelli di secondo, l’11% di quelli del «ciclo unico», cioè di facoltà come medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza. Tutto ciò dopo studi che richiedono quasi a tutti un impegno almeno quinquennale, visto il fallimento delle lauree brevi che avrebbero dovuto assicurare un rapporto più facile con il lavoro ma a cui invece il nostro mercato del lavoro non riconosce un valore maggiore rispetto al semplice diploma. importeremo perfino i medici? Non è giustificabile, invece, che a questo spingano le politiche pubbliche sull’università. Che sia lo Stato a dissuadere dall’investimento in cultura, sapere, competenze alte e specialistiche, nuovi profili e figure professionali al passo coi tempi che verranno. In tutte le previsioni di uscita dalla crisi, infatti, si prefigurano ristrutturazioni degli apparati produttivi e dei servizi e innovazioni che porteranno in breve a fabbisogni urgenti di nuove e diverse competenze. Lo sanno tutti che nel settore produttivo manifatturiero si stanno restringendo drasticamente i lavori a bassa qualificazione e che sopravvivranno solo quelli ad alta qualificazione e che nella stessa direzione vanno le nuove opportunità di impiego nel settore dei servizi di interesse pubblico e di quelli alle imprese (mentre per i lavori a più basso spessore professionale sarà sempre più forte la concorrenza dei lavoratori appartenenti alla realtà dell’immigrazione). Lo dicono gli analisti industriali, lo scrivono gli studi del Cedefop, lo indicano le strategie dell’Unione Europea. Non ci sarà sviluppo senza risorse professionali pregiate, senza ricercatori, senza esperti nelle nuove tecnologie. Non si possono correre rischi soprattutto in un paese dove il peso specifico dei giovani sull’insieme della popolazione si è dimezzato dagli anni sessanta a oggi e dove una parte consistente delle nuove generazioni, in quanto figli di immigrati stranieri, entrerà ancora per qualche tempo con più difficoltà nei rami alti dell’istruzione. E invece nel nostro paese si è deciso di disinvestire sull’università e sull’alta formazione. Tra i 28 paesi dell’Ocse, solo la Repubblica Slovacca e l’Ungheria hanno una spesa pubblica per l’università inferiore a quella italiana. Che dedica all’università solo lo 0,88% del Pil contro l’1,07 della Germania, l’1,27 del Regno Unito, l’1,39 della Francia, il 3,11 degli Usa. Oggi a mancarci sono gli infermieri professionali, ma tra pochi anni ci mancheranno gli statistici, gli informatici, i ricercatori, i tecnici ad alta specializzazione. E dal 2020, confrontando quanti stanno per uscire dall’esercizio della professione per anzianità e quanti sono oggi gli studenti di medicina, ci mancheranno anche i medici. Lo sanno bene le facoltà di medicina dell’India che già da oggi propongono nei loro curricoli formativi anche l’apprendimento della lingua italiana. Non sembra saperlo invece il nostro ministero dell’università. E neppure l’opinione pubblica. E neppure la politica. ROCCA 15 APRILE 2011 Sono le conseguenze, come è noto, delle scelte sbagliate di tante università che hanno organizzato i corsi di primo livello guardando più alle convenienze accademiche che alle figure e alle competenze professionali effettivamente richieste dal mondo produttivo e dei servizi. Ma intanto che si sta provando a ridisegnarli in modo più sensato, tanti giovani ritrovandosi tra le mani titoli poco spendibili sono costretti dopo i tre anni del primo ciclo a proseguire ancora altri due anni per poter conseguire la laurea «specialistica». Si può capire, dunque, perché per un numero crescente di giovani e di famiglie gli studi universitari stiano perdendo di attrattiva. Un lavoro nero o precario o sottopagato annulla il vantaggio delle lauree rispetto ai diplomi. E si può capire anche perché una parte, la più solida economicamente e culturalmente, cerchi migliori sicurezze nelle università private di élite che si sono fatte la fama di essere meglio collegate con il mondo professionale o in costosissime trasferte nelle università di altri paesi. Anche se resta vero che in prospettiva i laureati sono e saranno più forti dei diplomati nel mercato del lavoro, è indubbio che chi fatica di più a supportare percorsi di studio lunghi e costosi è oggi spaventato dall’incertezza, o comunque dalla probabilità che il rapporto costi-benefici, almeno a breve termine, sia tutt’altro che favorevole. Ed è comprensibile che, dove il contesto è più favorevole o dove le relazioni familiari e sociali possono agevolarlo, si possa preferire un mestiere concreto oggi a un’incerta professione domani. Fiorella Farinelli 39 PIANETA COPPIA ROCCA 15 APRILE 2011 Rosella De Leonibus 40 lei e lei, lui e lui F iamma è laureata in ingegneria elettronica, è abilitata da tempo. Finalmente ha potuto sottoscrivere un contratto di lavoro adeguato e tra poco riuscirà a realizzare quello che da tre anni è diventato il suo sogno più grande: affittare una casa in campagna e costruire là, passo dopo passo, il suo nido d’amore con Bianca. Si sono conosciute in montagna, Bianca era nello stesso albergo, si erano ritrovate, uniche ragazze, a fare la ciaspolata notturna sulla neve. Si sono innamorate a prima vista, ma solo mesi dopo se lo sono detto, uno dei tanti fine settimana in cui erano uscite insieme, raggiungendo entrambe la grande città, rispetto alla quale abitavano una cinquanta chilometri ad est, l’altra novanta chilometri a sud-ovest. Adesso Bianca sta aspettando il trasferimento dall’ente pubblico per cui lavora, ma ancora il loro percorso a ostacoli non è finito. I genitori di Bianca non sanno che la loro unica figlia è lesbica. Fiamma la sta sollecitando, cosa racconti ai tuoi, la solita balla che diciamo tutte, che te ne vai a vivere con un’amica? E il trasferimento come glielo giustifichi? E poi io non ho nessuna voglia di nascondere nulla, se volessero venire a farti visita, che facciamo? Quando vengono loro dormiamo in camere separate? Fiamma è più avanti su questa strada, è cresciuta in un contesto più aperto, in una famiglia meno stabile, forse, ma sua madre ha già fatto tutto il percorso, dalla sorpresa all’angoscia alla rabbia, e ora è dalla sua parte, la sta aiutando, sotto traccia però, nella comunicazione col padre, il quale anni prima aveva chiuso il contatto con la figlia, appena saputo della sua prima relazione stabile con una donna. Sono molto diverse Fiamma e Bianca, un po’ come i loro nomi, appartengono a temperature e temperamenti abbastanza complementari. Non sono mancate le asperità, nella loro storia d’amore. Fiamma tendeva, per la propria natura più intraprendente ed estroversa, ad oscurare un po’ la compagna, che però a sua volta si lasciava volentieri trasportare. «Come su un treno ad alta velocità, fino alla stazione principale non si scende. Così non ci penso, tanto lei ha già deciso. Non mi sento affatto sottomessa, lei mette in moto cose che io stessa desidero. Quelle che io farei dopo un anno, lei le pensa e in una settimana sono fatte, non ero abituata a questa velocità, ma la mia vita è cambiata, in meglio». Col tempo il loro rapporto sta diventando più simmetrico, c’è molta ironia, moltissima complicità, un feeling evidente che scalda gli ambienti (pochi e ben selezionati) dove si mostrano come coppia senza dissimulazioni. Soffrono parecchio di una cosa: dal loro amore non potrà nascere un bambino. Tutt’e due si sono dichiarate decisamente contrarie ad attivare altre possibilità esterne alla coppia. E ora che il progetto di andare a vivere insieme sembra raggiungibile, questo limite le interroga parecchio, stanno domandando l’una all’altra cosa accadrebbe al loro legame se questa mancanza si dovesse sentire troppo forte. equilibri riconquistati Giovanni e Umberto sono insieme da venti anni. Hanno appena festeggiato questo anniversario, come avevano già fatto allo scadere del decimo anno. Sono stati gli amici a sollecitarli, Giovanni non ne voleva sapere, perché, diceva, l’altro festeggiamento, quello dei dieci anni, non aveva portato loro fortuna. La differenza di età e di esperienze, che nei primi anni era stata un elemento di attrattiva, poi si era fatta sentire, e specialmente Umberto, che pochissimo si era espresso sul piano affettivo e sessuale prima di legarsi a Giovanni, aveva sentito forte il bisogno di vivere come il poco più che trentenne che era: serate in discoteca, parecchi giochi di corteggiamento, e anche un numero plurale di avventure, che avevano finito per farlo sentire sganciato dal patto di fedeltà. La sera tornava sempre a casa, anzi, la mattina, specificava Giovanni, soffrendo molto di questi margini troppo ampi di libertà che Umber- oltre il pregiudizio Se i nomi non fossero stati entrambi maschili, o entrambi femminili, davvero pochi sarebbero stati gli indizi che avrebbero permesso di attribuire queste vicende a coppie omosessuali invece che a coppie etero. C’è un pregiudizio che permane, nonostante tanta strada sia stata compiuta dai tempi in cui l’omosessualità era considerata un reato, e poi una perversione. Il pregiudizio che sussiste ancora, anche in ambienti insospettabili, è che la relazione di coppia omosessuale debba essere per forza molto diversa da quella delle coppie composte da un uomo e una donna. L’accettare una persona gay o lesbica è meno problematico, per gran parte dei contesti sociali occidentali contemporanei, di quanto non sia ammettere ed accettare che possano esistere coppie omosessuali, non ai margini, ma col pieno diritto di manifestarsi con libertà. In mezzo a mille ostacoli, superando mille contraddizioni, il diritto di amare ed essere amati all’interno di una relazione stabile e socialmente visibile è ora qualcosa a cui le coppie omosessuali non vogliono rinunciare. Se l’omosessualità sia innata, costituzionale o acquisita, se sia frutto di sistemi educativi falliti, di traumi e abusi o di paura dell’altro sesso, se si tratti di uno sviluppo incompleto e di una libido bloccata nella sua evoluzione verso l’oggetto «naturale» d’amore, se l’orientamento sessuale sia la causa o l’esito del rapporto sempre più intrecciato tra natura, cultura e ambiente sociale, se ci troviamo davanti a corpi malati, a cervelli che non funzionano, o peggio a comportamenti devianti da una presunta «norma», queste domande non hanno finora aiutato a capire e sostenere il bisogno fondamentale che ogni essere umano ha di amare e costruire rapporti affettivi stabili e nutrienti. Tra l’altro le domande sopra elencate, e tutte le altre che si fanno intorno all’omosessualità, non hanno risposte univoche, se non il dato di fatto, che le persone gay e lesbiche esistono, e non possono avere diritti minori e riconoscimenti parziali rispetto alla propria umanità. Se c’è una differenza tra le storie di una coppia gay o lesbica e quelle di una coppia etero, sono differenze di sgomento, sofferenza, nascondimenti, vergogna e umiliazione. È diverso il percorso per cui si arriva a vivere la propria scelta affettiva, è diversa la strada per cui si giunge a riconoscere se stessi davanti agli altri, per cui forse è un po’ più facile per un ragazzo o una ragazza etero costruire un’identità che gli altri possano riconoscere e che lui o lei possa far propria in modo lineare proprio in virtù di questo riconoscimento. identità da costruire Ad un ragazzo gay o ad una ragazza lesbica mancheranno gli sguardi compiaciuti (più o meno espliciti) dei genitori, quando manifesteranno la propria affettività verso i coetanei, quando intraprenderanno le prime esplorazioni nel territorio dell’amore. Riceverà invece occhi sgranati, scenate, minacce, oppure sceglierà di nascondersi, di vivere una vita segreta, col rischio di costruire una doppia identità, dove quella più autentica è condivisa con persone meno intime, e nei legami più antichi ed importanti si recita la commedia, con rischi gravi di frammentazione, parecchio dolore e un profondo senso di solitudine, il ROCCA 15 APRILE 2011 to si stava prendendo. Sono stati anni di dolorosi confronti, di ferite emotive, di chiusure, culminate in due o tre periodi di separazione. Ogni volta però Umberto è tornato, e la loro storia d’amore ha preso ora una piega diversa. Giovanni è diventato meno paterno e protettivo col suo compagno, gli chiede di più, ha preteso ed ottenuto un impegno comune più forte. E lui, il ragazzo attempato, come si autodefinisce adesso Umberto, ha fatto nel frattempo un bel percorso su di sé, ha guardato meglio dentro se stesso per definire cosa davvero voleva dalla vita e dalla coppia, quali insicurezze e bisogni di conferma, e quali rabbie antiche c’erano dietro la sua ricerca di quel tipo di libertà, e con chi aveva davvero ingaggiato la sua partita dimostrativa, oltre che con Giovanni. Proprio ora i nostri stanno aprendo una piccola attività insieme, come secondo lavoro, e se le cose andranno bene potrà anche diventare la loro unica fonte di reddito. Il loro reciproco ingaggio come coppia si è misurato anche su questo. 41 . cui risultato è una maggior vulnerabilità e una capacità di selezione nelle relazioni affettive che sarà pericolosamente ridotta. Solo se l’autostima dei ragazzi e delle ragazze omosessuali viene sostenuta, solo se la rete affettiva primaria costruisce in loro un capitale di bene e di riconoscimento, quella base sicura che serve per slanciarsi nell’esplorazione amorosa, solo se il cerchio della famiglia e degli amici protegge e sostiene, e difende, l’adolescente ...il prendersi cura dell’altro, oltre a rap- o il giovane omosespresentare una forma di impegno che fa- suale riescono a non vorisce la realizzazione personale, con- entrare in quel circorre, in misura determinante, alla pro- cuito difensivo che li mozione della vita sociale, allargando gli porterebbe ad una orizzonti della solidarietà. L’intervento infelice ed amara opdella legge volto a fornire norme che con- positività, ad eccessi feriscano all’unione omosessuale una di espressione steremaggiore sicurezza (e solidità) è un atto otipata e potenzialdi civiltà. mente autodistruttiGiannino Piana, Omosessualità – una va. Tutto sta, per le proposta etica, Cittadella Editrice, As- famiglie, per la società, per il contesto, nel sisi 2010 riuscire a compiere questo importante passaggio: dal concepire l’omosessualità come inclinazione sessuale, al pensarla come un modo diverso di amare ed essere amati. Le rivendicazioni delle persone gay e lesbiche non a caso si focalizzano proprio su questo: la relazione affettiva come valore, e come valore da poter vivere nella comunità sociale, nel contesto naturale in cui ogni relazione affettiva può svilupparsi e nutrire d’amore non solo la coppia che la vive, ma anche il mondo intorno. A revèrse, come della stessa Autrice può una relazione diventare stabile, attraversare tutti i passaggi che portano dall’innamoramento al riconoscimento reciproco PSICOLOGIA DEL della alterità, alla volontà faticosa di rimaQUOTIDIANO nere uniti anche attraverso momenti di conpp. 168 - i 20,00 flitto, alla complicità serena della maturità, all’essere linfa e ricchezza per il proprio COSE contesto, se deve svilupparsi nella clandeDA GRANDI stinità, se deve essere negata, dissimulata, nodi e snodi nascosta? In tali condizioni di marginalità dall’adolescenza non possono facilmente nascere legami proall’età adulta fondi, mancano i presupposti perché un lepp. 176 - i 20,00 game, attraverso il suo esprimersi non solo in fugaci incontri sessuali, ma in gite do(vedi Indici menicali, casa da pulire, amici da invitare, in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) lavoro e poi riposo condiviso, possa diventare quello che deve essere, cioè il compito per i lettori di Rocca evolutivo principale della prima età adulta. i 15,00 ciascuno Sono questi i due elementi importanti che spedizione compresa fanno la differenza tra una coppia omo e una etero: la base identitaria dei due partrichiedere a ner, che si costruisce col feed back positivo Rocca - Cittadella del contesto familiare e sociale, e la quota 06081 Assisi di spazio sociale nel quale alla coppia è pere-mail [email protected] messo dispiegarsi e maturare il proprio ci- ROCCA 15 APRILE 2011 PIANETA COPPIA 42 clo di sviluppo. Dopo di che ogni coppia, di ogni tipo, avrà gioie e dolori, gelosie, rivalità, difficoltà di comunicazione, anche difficoltà sessuali, problemi con le famiglie d’origine, problemi sulla definizione dello stile di vita e sulla gestione del denaro, fatica a costruire il noi senza cancellare l’io e il tu. dal sesso all’amore Se si compie un ribaltamento nel modo di concepire l’omosessualità, e la si guarda non come un problema di oggetto del desiderio sessuale, ma come una forma di amore in più, se non la si confina nella sfera genitale, così come non ci verrebbe in mente di definire un uomo o una donna etero come esseri umani solo in base alle loro abitudini sessuali, né ci verrebbe in mente di consigliar loro benevolmente di non esprimerle affatto, allora si può arrivare a dissolvere molti stereotipi e ci si può allontanare da molti pregiudizi. Per esempio si potrebbe verificare che solo una piccolissima percentuale delle persone omosessuali preferirebbe rapporti occasionali, e meno ancora sceglierebbe una sessualità promiscua, e la percentuale si abbassa ancora di più per le donne lesbiche. Si potrebbe capire che una coppia di uomini è capace di cura reciproca in modo paritetico, e che la fedeltà emotiva è più forte, anche in presenza di qualche infedeltà sessuale. Si comprenderebbe che l’espressione sessuale in una coppia di donne spesso è fatta di tenerezza, e che magari con gli anni la sessualità genitale diventa abbastanza secondaria, mentre è forte il legame affettivo, fino a livelli profondissimi di intimità emotiva. Si sarebbe più sensibili a ciò che la mancanza di generatività biologica comporta per la coppia omosessuale, e alla maggiore apertura sociale che è necessaria per trasformarla su un piano non materiale. Ma tutto questo è possibile solo a partire dal riconoscere che l’affettività viene prima della sessualità, sia nella nostra evoluzione come esseri umani, che nelle manifestazioni amorose delle persone omosessuali. L’affettività si lega e si colloca, in modi sempre diversi, in tutte le possibili declinazioni delle relazioni, da quelle di cura a quelle di affliliazione, a quelle sessuali, e quella che si svolge nella coppia omosessuale non è tanto, o non solo, e non certo in via principale, una diversa pratica erotica, ma è un sistema affettivo, complesso e ricco di varianti come per tutti gli esseri umani, un sistema affettivo che cerca una espressione del Sé attraverso la relazione, e in questo caso è la relazione con una persona dello stesso sesso biologico. Rosella De Leonibus . TEMPI DI GUERRA Vincenzo Andraous ento e vedo migliaia di persone, di ogni colore e nazione, diagnosticare terapie politiche e sociali per stabilizzare diritti e democrazie in paesi dilaniati dalla ferocia della povertà, dall’ingiustizia oramai globalizzata, che non sottrae religioni e dal taglione del mors tua-vita mea. Guerre e stragi, uomini in armi e bambini depredati di ogni sorriso, terre divise e derubate dei propri confini, inni alla pace gridati a tempo di musica, e richieste di giustizia licenziate con qualche parola travestita di compassione. L’Africa è in fiamme, il Medioriente tra le macerie, persone in marcia per la pace, altrettante in guerra per difenderla, altre circondate e maltrattate, per distribuire equamente il residuo di giustizia. Specialisti in relazioni spediti qui e là, equazioni e sottrazioni della comunicazione a supporto delle percentuali e delle statistiche, tutte ben contenute nella negazione del dato esponenziale, che accerta l’odio e la vendetta covare sotto il primo strato di pelle, che non si vede, ma si muove sotto carico, pronto a esplodere a ogni nuovo giorno. Scacchieri e pedine si muovono lentamente intorno a paesi dimenticati, città violentate, popolazioni abbandonate in confini inventati e frontiere frantumate. Il Far West non è poi così lontano, moltiplicato per mille, nelle sue nefandezze inenarrabili. Neppure l’immaginario collettivo riesce a delinearne i contorni, la proporzione di quelle macchie, sagome indistinte, ma in continuo spostamento, il tremore della terra, al suo avanzare e ritrarsi. Poi, ecco improvvisi i colpi sordi, come i cannoni di ultima generazione, botti ripetuti, alle spalle, tra le scapole, in mez- S zo agli occhi, a liquidarne lo zoccolo, quello più duro, fino a estinguerne lo sguardo in alto, la fierezza ridotta a souvenir di tanti uomini stanchi delle catene e dalla costrizione a un silenzio disperante. Le nazioni, i paesi, le città, ridotte a periferie di oggi, sono un ricordo sbiadito delle democrazie di domani, schiacciate dalle tante parole che sono state dette, dalle recinzioni che sono sopravvenute, costruite a misura per non ascoltare. Ma a ben pensarci, delle libertà di ieri, ne rimangono pochi limpidi esemplari, ma ci sono ancora, per non farci cadere all’indietro, nel vuoto della memoria. Pochi esemplari-riferimenti certi e in bella vista nella prateria dimenticata, a sfidare i fucili, i tanti cuori pavidi, i governi dell’insignificanza sociale, dei poteri esposti controvento, per meglio difendere la propria inadeguatezza. Come ho scritto tanto tempo fa, le nazioni dei bisonti non esistono più, bivaccano in una sorta di grande letteratura, intorno c’è il rumore della carta sfogliata controvoglia, dentro la noia più impaziente, pagine di storia sradicate dalla miserabilità umana. Da questa maledetta solitudine del sangue, i tanti e troppi paesi in guerra, gli Stati coinvolti per diffondere la pace e la democrazia, dovrebbero imparare qualcosa di più davvero da questa assenza, divenuta presenza costante, un insegnamento a non dissolvere l’opportunità della riflessione (ancor prima dell’azione), quella che parte dal cuore, per sentire davvero il bisogno e la necessità di una libertà che appartenga a tutti, indipendentemente dalla religione e dal portafoglio che ognuno professa. 43 ROCCA 15 APRILE 2011 Far West FONDAMENTALISMO la religione civile e po liti Marco Gallizioli econdo l’analisi funzionalistica di E. Durkheim (1), la religione, in ultima istanza, sarebbe un riflesso della società che venera se stessa. Con questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il grande sociologo intendeva sottolineare il carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono. In altre parole, saltando ogni discorso relativo alla spiritualità, per Durkheim la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare il caos e, insieme, di esprimere una forte carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse, come sottolinea, in molti studi, Lukes (2). S ROCCA 15 APRILE 2011 atei devoti 44 Ma anche volendo lasciare da parte il riduzionismo di Durkheim, per il quale, in fondo, la religione si riduce solo a funzione della società, è innegabile che esista una dimensione pubblica delle religioni che occupa un ruolo centrale nel costruirsi della vita di gruppo. L’espressione più evidente di questo potere è offerta da quelle persone che si definiscono come «atei devoti». In questa formula, vi è evidente una contraddizione che, però, finisce con lo spiegare meglio il senso e le forme della religione civile: alcuni individui, infatti, pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne riconoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti. In altri termini, le fedi vengono svuotate del loro proprium, e imbalsamate nella loro funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica. Di fronte alle questioni morali più scottanti, dunque, l’ateo devoto chiama in causa la religione istituzionale perché, con la forza dei suoi rituali e della sua organizzazione, districhi la matassa ingarbugliata della realtà e sistemi in maniera semplice i significati. Non è lontano dal vero chi sostiene che tale approccio alla religione sia, in sostanza, un modo per esasperarne gli aspetti più rigidi e fondamentalistici, tradendone lo spirito di fondo, che è quello di essere una proposta di carattere spirituale per la coscienza di ciascuno. L’ateo devoto, dunque, nega Dio o, per lo meno, pone la questione dalla sua presenza tra parentesi, per fermasi al potenziale regolante della religione. Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare un ruolo decisivo nella politica degli stati, rischiando di mercificare la sua proposta spirituale. Strattonata, infatti, per ragioni meramente utilitaristiche, la religione può assumere caratteri più netti, correndo il pericolo di identificarsi con la cultura di una nazione, piuttosto che di rappresentarne il pungolo. Se è innegabile che ogni religione sia anche espressione delle tradizioni, degli usi, dei linguaggi e dei simboli di un dato popolo, è anche vero che, nella sua missionarietà, la maggioranza dei «credo» contemporanei si propone in maniera universalitistica, ossia come un messaggio valido per l’uomo di ogni spazio e di ogni tempo. Quando la religione resta imbrigliata tra le maglie di chi desidera manipolarla, per gestire il potere o per dare compattezza alla società in momenti di confusione, rischia di assumere pericolosi caratteri di intransigenza. la religione civile americana In altri contesti, poi, soprattutto anglosassoni e nord-americani, la religione assume una doppia valenza: una prima, più privata, legata alle scelte individuali o a quelle di gruppi più o meno limitati che si riuniscono attorno ad un’idea spirituale; e una seconda, invece, capace di sorvolare tutte le differenze che contrappongono le diverse fedi, per proporre una sorta di grande sentimento religioso nazionale. Uno dei sociologi più apprezzati della scuo- po litica in vari contesti . gli Usa a nazione prediletta, quella cui affidare la missione civilizzatrice. Questo elemento non è per nulla da sottovalutare: nella rappresentazione che di sé operano gli statunitensi emerge spesso l’idea di essere un popolo contraddistinto da una missione, da un ruolo esclusivo, che coincide con quello di liberare l’intera umanità dalla schiavitù, sia essa, di volta in volta, identificabile con il blocco comunista, con l’integralismo islamico o con l’espansionismo economico asiatico. Anche Martin Luther King, nel criticare aspramente la conduzione politica istituzionale, finiva col sottolineare la tesi che gli Usa fossero depositari di una benedizione divina speciale, che, tuttavia, avevano tradito, deviando dalla strada maestra del bene. In forza di questa eccezionalità, tuttavia, King sollecitava la religione civile verso battaglie per l’allargamento dei diritti, per la giustizia sociale, per la redistribuzione della ricchezza, per il miglioramento della sanità e dell’istruzione, con differenze qualitative evidenti rispetto a chi ha usato la retorica religiosa per sostenere guerre di civiltà o per lanciare nuove cacce alle streghe, quali il maccartismo nel dopoguerra. in Gran Bretagna Un caso analogo, è rappresentato dalla Gran Bretagna, nella quale la regina è anche fulcro della religione anglicana. E. Shils e M. Young (5) hanno studiato nel dettaglio l’evoluzione del rapporto tra la monarchia e il popolo nel secondo dopoguerra, rilevandone le ambivalenze. Se la seconda guerra mondiale si chiudeva con il trionfo simbolico della monarchia di re Giorgio VI, amato per non aver abbandonato Londra durante i bombardamenti, e visto come simbolo della resistenza ai fati avversi, la cerimonia di incoronazione di Elisabetta II nel 1953, costituiva il primo grande evento mediatico, sancendo lo sposalizio della regina con il suo popolo. La televisione, riprendendo e trasmettendo, amplificava il valore simbolico di quell’evento, consentendo anche a chi era fi- ROCCA 15 APRILE 2011 la americana, R. N. Bellah (3), ha compiuto numerosi studi per descrivere e interpretare la cosiddetta «religione civile americana», sintetizzata nell’espressione «in God we trust» (in Dio noi confidiamo ndr). Riprendendo le tesi di Rousseau espresse nel Contratto sociale, Bellah sostiene che nessuna società si possa reggere senza dogmi di riferimento, dalla forza amalgamante simile a quelli religiosi. «Egli sostiene che la religione civile è una dimensione religiosa pervasiva della vita politica americana, esistente indipendentemente dalle chiese» (4). Se il singolo cittadino, infatti, può esprimere liberamente le sue scelte religiose, riconoscendosi in una delle centinaia di Chiese e di associazioni a sfondo spirituale presenti sul territorio statunitense, a livello pubblico, però, si sente adepto di una sorta di grande religione civile, che stringe gli individui attorno ad una idea di collettività e di stato. In questo senso, la religione civile funge da collante delle singole schegge rappresentate dagli individui, facendo riferimento ad un dio, dai contorni di una divinità patria, che, non coincidendo con nessuna figura specifica, permette a tutti di riconoscersi in lui. Se si analizzano i discorsi di insediamento dei presidenti, ci si accorge che il riferimento a Dio è costante, ma sono assenti cenni a qualsiasi aspetto della religiosità specifica del presidente. J.F. Kennedy, cattolico, citò tre volte il termine «Dio», ma non fece alcun accenno ai santi o alla Madonna, propri del simbolismo cattolico; Reagan, nel 1981, fece riferimento ad un linguaggio più vicino a quello dell’Antico Testamento, che a quello del Nuovo, per permettere anche alla componente ebraica di sentirsi da lui rappresentata. La religione civile americana, tuttavia, non rinuncia ai suoi santi e martiri, anche se li desume dalla propria storia, piuttosto che dalle tradizioni religiose. Lincoln, Washington, Jefferson, sono eroi-santi cui si tributa un culto di riconoscenza, attraverso il quale il cittadino si sente parte di una patria e fedele di un dio, patrio, che viene avvertito come potenza somma e come giudice giusto, capace di retribuire con saggezza e di eleggere 45 FONDAMENTALISMO sicamente lontano, di partecipare alla manifestazione. Il punto di massima rottura tra la Corona e il popolo si è registrato, invece, con la morte della principessa Diana Spencer, nel 1997: «nel sentimento del pubblico rientrava la legittima indignazione diretta contro l’uso (o la trascuratezza) dei simboli da parte della famiglia reale» (6). in Unione Sovietica ROCCA 15 APRILE 2011 Un altro caso emblematico, poi, è quello della religione civile e politica atea che si è diffusa in Unione Sovietica nella seconda metà del Novecento. Se la religione tradizionale, in quanto tale, era definita da Lenin come una «sbronza dello spirito», ossia come una sorta di nefasta ebbrezza della coscienza indotta nell’individuo da chi deteneva il potere, è innegabile che, già con la morte di Lenin e l’avvento di Stalin, l’Urss si sta corredando di tutta una serie di simboliche e di ritualità a sfondo religioso, con l’obiettivo di cementare l’ethos comunista (7). In primo luogo, furono istituite nuove festività sovietiche, che si sovrapposero a quelle tradizionalmente cristiano-ortodosse, come la Pasqua, la Pentecoste o il Capodanno. Inoltre, furono rilette in chiave partitica alcune cerimonie relative a riti di passaggio: il battesimo, ad esempio, fu sostituito con la «solenne registrazione del neonato», e il funerale, con una cerimonia di commemorazione. Quest’ultima, tuttavia, rappresentò sempre l’anello debole del sistema di riscrittura civile dei rituali religiosi, segno dell’incapacità di un pensiero ateo e vuotato di elementi spirituali, di amministrare con successo una questione prodello stesso Autore fonda e inquietante come la morte. Le parate di massa sostituirono i pellegrinaggi LA RELIGIONE e il culto dei dirigenti defunti la veneraFAI DA TE zione dei santi, applicando alle salme lo il fascino stesso trattamento che tradizionalmente si del sacro riservava ai corpi delle persone morte in nel postmoderno odore di santità, quali il processo di impp. 112 - i 13,00 balsamazione e l’esposizione del cadavere. Lane (8), nell’analizzare queste sovrap(vedi Indice posizioni, poi, descrive con attenzione anin RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) che i nuovi luoghi di culto e di pellegrinaggio istituiti dal regime. per i lettori di Rocca i 10,00 anziché i 13,00 spedizione compresa Hitler e Mussolini Considerazioni simili possono essere estese anche ai regimi fascisti e nazisti. Hitler, richiedere a ad esempio, innervò elementi pagani nelle Rocca - Cittadella ritualità pubbliche per emancipare il suo 06081 Assisi potere da quello delle chiese cristiane e per e-mail [email protected] poter meglio giustificare l’attribuzione alla 46 sua persona di poteri mistici e salvifici. Le grandi adunate di massa fungevano da collante sociale, ma erano animate da un fervore che chiamava in causa un certo irrazionalismo vagamente spirituale, derivato sempre da un paganesimo di bassa lega, riletto a proprio uso e consumo. La creazione di un nemico-male contro il quale combattere permise, in chiave quasi manichea, il cementarsi di gran parte della società, per fare fronte comune contro chi, si diceva, ne soffocava l’eccezionalità. Per questo l’antisemitismo e l’anticomunismo erano funzionali al potere del leader e consentivano a Hitler di dirigere comunità umane specifiche il senso di frustrazione collettiva, secondo la strategia del capro espiatorio, riletta in maniera violentemente e terribilmente innovativa (9). Gli esempi di un uso più o meno selvaggio della religione per usi politici si potrebbero allargare anche ad alcuni casi contemporanei, basti pensare, tra gli altri, all’Iran o a molti di quei paesi dell’Africa settentrionale, scossi, in questi giorni, da una serie di manifestazioni libertarie. Ma, senza per forza doversi spingere fino ai casi estremi, sarebbe sufficiente analizzare la propria storia nazionale per verificare come la tentazione di spostare verso accentazioni squisitamente politiche e di potere il potenziale delle religioni è sempre paurosamente presente, pur con forme e modalità differenti, con modalità che dovrebbero davvero mettere in allarme chi, nella religione, cerca qualcosa di diverso da una maniera per contenere un reale che spaventa. Marco Gallizioli Note (1) E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1971. (2) S. Lukes, Political Ritual and Social Integration, in «Sociology» 9 (1975), pp. 289-308, p. 291. (3) R. N. Bellah, Religion and Legitimation in the American Republic, in T. Robbins – D. Anthony (a cura di), In Gods We Trust, Transaction Publisher, New Brunswick 1990, pp. 411426. (4) A. Aldridge, La religione nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 198. (5) E. Shils – M. Young, The Meaning of the Coronation, in «The Sociological Review», 1, n. 2, (1953) pp 63-82. (6) A. Aldridge, op. cit., p. 203. (7) C. Lane, The Rites of Rulers. Ritual in Industrial Society: the Soviet case, Cambridge University Press, Cambridge 1981. (8) Ib., pp. 243-248. (9) Z. Bauman, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna 1999. MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO Paul Grice Stefano Cazzato o spirito della riflessione di Paul Grice (Birmingham 1913-Berkeley 1998) è tutto in questa dichiarazione di intenti con cui inizia Logica e conversazione: «Mi limiterò ad esplorare un’idea, non so se vorrò sottoscriverla o meno». Proporre idee ragionevoli, farne oggetto di definizione e di critica, evitare di sottoscriverle da subito come verità inappellabili sottratte al giudizio e al confronto: se interpretiamo bene, è questo che intende dire il filosofo inglese. Più che cercare la conferma di un’idea nella realtà (come stabiliscono in modi diversi sia il criterio positivista di verificazione che quello postpositivista e popperiano di falsificazione) Grice cerca la conferma nell’attività dei parlanti in quanto soggetti razionali capaci di argomentare e sottoscrivere qualcosa sulla base di motivazioni e di ragioni. Da queste brevi indicazioni di metodo si comprende che centrale nella sua riflessione è l’interesse per il discorso, per i principi che lo regolano, per le modalità che gli uomini usano per intendersi e per pervenire a un accordo. Sono questi i contenuti fondamentali di Logica e conversazione, un capolavoro della filosofia analitica come Le ricerche filosofiche di Wittgenstein e Come fare cose con le parole di Austin. Proprio da Wittgenstein, da Austin e dalla composita tradizione della filosofia del linguaggio ordinario prende le mosse Grice per formulare la sua teoria discorsiva il cui nucleo fondamentale è rappresentato dal cosiddetto principio di cooperazione. L principi, massime e violazioni Non è detto che tutti i parlanti seguano tale principio ma, secondo Grice, è razionale che lo facciano, visto che non avrebbe senso comunicare per fraintendersi. Il principio di cooperazione infatti afferma: «conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato». Per consentirne l’operatività Grice ritiene kantianamente che andrebbero rispettate alcune massime. La massima della quantità prevede che i parlanti immettano nello scambio in corso né più né meno delle informazioni richieste. La massima della qualità stabilisce che dicano sempre la verità e che sostengano con prove adeguate quanto dicono. La massima della relazione esige invece la pertinenza per cui i parlanti non dovrebbero fare digressioni inutili o immotivatamente cambiare discorso. Massime della modalità impongono infine la chiarezza, l’ordine e la sintesi. L’osservanza di queste e altre massime cooperative garantisce che gli scambi verbali vadano a buon fine, che i parlanti cioè si intendano o facciano intendere qualcosa. Di norma i parlanti osservano le massime ma può capitare che massime disattese a livello di quanto viene detto, siano rispettate a livello di quanto viene implicato. L’implicatura può essere definita come quello che i parlanti vogliono dire o far intendere, anche se, per una serie di ragioni che vanno di volta in volta indagate, non lo dicono esplicitamente. Pur violando occasionalmente una massima, l’implicatura non viola il principio di cooperazione, non impedisce lo scambio e l’intesa. Anzi, la violazione delle massime (o sfruttamento, come lo definisce Grice) rende la lingua uno strumento plastico, adattabile, ricco di potenzialità supplementari, capace di dire molto di più e di diverso rispetto ai suoi significati convenzionali e letterali. Questa plasticità tuttavia non è illimitata poiché l’interlocutore deve potere essere in grado di capire e controllare quanto è implicato intenzionalmente dal parlante. Se ciò non avvenisse, il principio di cooperazione sarebbe violato e con esso la funzione stessa della lingua che ammette la creatività, ma compatibilmente con la comprensibilità. In perfetto stile analitico, Grice fornisce tutta una serie di esempi di implicatura. Un’implicatura semplice è quella in cui A dice «ho finito la benzina» e B risponde «dietro l’angolo c’è un garage». B viola la pertinenza, data la genericità della sua risposta, ma implica la probabilità che il garage sia aperto e venda benzina. Altro caso è quello rappresentato 47 . ROCCA 15 APRILE 2011 il discorso cooperativo MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO dalle tautologie. Dire che «la guerra è guerra» viola la quantità ma implica un particolare giudizio sulla guerra. Anche l’ironia costituisce un caso di implicatura. A, tradito da B che ha rivelato un suo segreto, dice «B è un vero amico», implicando chiaramente il contrario di quanto ha detto e violando la chiarezza. Dire di una persona che «è un fulmine», viola la verità ma implica come senso metaforico la rapidità e come senso ironico la lentezza. Infine, se A dice «quella signora è una vecchia ciabatta» e B risponde «oggi è una bella giornata», persino in un caso come questo B, pur tradendo la relazione, non sta violando la cooperazione, ma intende solo dire che il suo interesse comunicativo non è quello di seguire A sul terreno dell’insulto o della chiacchiera. B sta comunque dicendo qualcosa di sensato ad A e crede che A possa ragionevolmente comprendere le sue intenzioni e comportarsi di conseguenza, altrimenti non avrebbe senso dire quello che ha detto. Altra cosa, invece, sono quelle situazioni in cui «ci si fa beffa» delle massime e della cooperazione con lo scopo deliberato di ingannare l’interlocutore come quando (è il caso classico) si racconta il falso, si dà come dimostrato quanto invece non lo è o si ricorre a qualche trucco per non far progredire la conversazione. comunicazione e azione dello stesso Autore Stefano Cazzato Giuseppe Moscati MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO pp. 240 - i 20,00 ROCCA 15 APRILE 2011 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 48 . Tuttavia, se le implicature hanno un senso, la questione del significato non sarà sempre una questione di verità/verificazione ma di appropriatezza: i filosofi non dovranno solo chiedersi se un enunciato è vero o falso ma se è appropriato alle esigenze dello scambio, se serve o meno la comunicazione, se «chi lo usa in particolari occasioni» lo usa correttamente, rispetto agli scopi perseguiti. Grice parla della correttezza comunicativa come qualcosa di analogo alla correttezza delle azioni. Anche le azioni hanno una base cooperativa e comportano delle massime da rispettare nell’interesse di tutti. Queste massime possono essere localmente o momentaneamente violate ma ci deve essere una ragione comprensibile e condivisa per farlo. Le violazioni sono tollerate solo se sono giustificate, solo se esistono dei motivi validi per mettere tra parentesi una massima riconosciuta. Ad esempio una massima può essere sospesa a vantaggio di un’altra che si ritiene, in una situazione specifica, più vincolante. E il riferimento alla situazione sarà comunque decisivo per comprendere e tollerare l’eventuale violazione da una regola. Si potrebbe anzi dire che un tale tipo di violazione è pattuita, prevista e, in un certo senso, regolata essa stessa. In sostanza, come in cam- po linguistico non esiste solo il vero e il falso così in campo etico non esiste solo il bene e il male e in entrambi ci si può accontentare di un criterio di comportamento forse meno assoluto di quello «naturale» ma sicuramente esigente e valido come il criterio di correttezza. Anche in campo etico il soggetto, pur disponendo di una vasta gamma di azioni e di scelte, pur avendo una libertà teoricamente illimitata, sarà vincolato a comportamenti responsabili, razionali, rispettosi di un sentire comune. Comportamenti che tutti devono poter essere in grado di valutare e controllare sulla base di codici e credenze generali che sono, in qualche modo, frutto di accordi precedenti. Scrive Grice nel saggio Il significato: «per comprendere le intenzioni linguistiche facciamo affidamento precisamente sugli stessi criteri cui ci affidiamo nel caso delle intenzioni non linguistiche per le quali esiste un uso generale. Un parlante deve intendere comunicare ciò che di norma è comunicato e occorre una buona ragione per accettare che un uso particolare si discosti dall’uso generale... Analogamente nei casi non linguistici: si presume che ciascuno intenda le conseguenze normali delle proprie azioni». Non sorprende, alla luce di queste considerazioni, che dopo gli studi linguistici Grice si sia occupato soprattutto di temi etici ma, come era nel suo stile, ha pubblicato solo una minima parte delle sue riflessioni. Sarebbe però interessante valutare anche questo aspetto poco noto della sua ricerca, per avere la conferma che egli non è stato solo un grande tecnico, uno specialista e un innovatore nel campo della comunicazione ma un filosofo sistematico, con interessi teorici molto solidi, una visione d’insieme dei problemi filosofici e una capacità non comune di muoversi sul terreno delicato dei rapporti tra natura e cultura, tra principi e saperi situati. Come erano stati, appunto, i due grandi del pensiero analitico: Austin e Wittgenstein. Stefano Cazzato per leggere Grice P. Grice, Logica e conversazione:saggio su intenzione, significato e comunicazione, Il Mulino, Bologna 1993. su Grice G. Cosenza, Intenzioni, significato e comunicazione: la filosofia del linguaggio di Paul Grice, Clueb, Bologna 1997. G. Moro, Introduzione all’edizione italiana in Logica e conversazione, Il Mulino, Bologna 1993 (a cura di D. Fusaro), Paul Grice, www.filosofico.net NUOVA ANTOLOGIA Gilbert Keith Chesterton un grande antropologo della letteratura T la religione tra le maglie della letteratura Nei romanzi e nei racconti di Chesterton, che mantengono spesso un ancoraggio al mondo delle fiabe (cui egli era molto legato) e che volentieri si sono prestati a una trasposizione cinematografica (in Italia agli inizi degli anni Settanta è stato Renato Rascel a impersonare Padre Brown), incontriamo qua e là anche diverse tracce che portano direttamente al cuore della sua convinzione religiosa, di marcata fede cattolica. Pare sia stata la lettura del Libro di Giobbe ad alimentare in Chesterton una passione religiosa prima messa a dura prova da un periodo di forte crisi spirituale; belle poi le pagine dedicate a san Francesco d’Assisi e a san Domeni- co (rispettivamente 1923 e ’33). Tali ‘tracce religiose’, peraltro, si intrecciano volentieri con riflessioni sulla politica e sulle multiformi espressioni di ciò che è (intendiamo per?) cultura; interessante lo scritto autobiografico Ortodossia (1908), dove l’impianto rimane essenzialmente filosofico. Alla fine ne esce fuori un panorama, quello dell’opera chestertoniana, che è insieme un modello-paradigma di grande letteratura e una sorta di originale ‘umanesimo letterario’ (contro l’umanitarismo). Non mi sembra infatti fuori luogo considerare Chesterton come un grande antropologo della letteratura, in un certo senso un vero e proprio ricercatore sul campo che attraversa le strade della letteratura e dell’arte in generale, senza tuttavia nascondere la sua predilezione – come detto – per il genere della detective story, e lo fa appunto allo scopo di meglio comprendere la complessa rete delle relazioni interumane. I suoi attrezzi di lavoro sono, ovviamente, una eccezionale capacità e una naturale facilità nello scrivere, ma anche una buona dose di introspezione, una spiccata abilità nel muoversi tra più registri narrativi e, non ultimo, un certo gusto per il paradossale e il misterioso, per l’assurdo e per il bizzarro. un piccolo grande prete Instancabile indagatore dell’assurdo è proprio il prete detective Padre Brown, un piccolo grande prete che, ogni volta con un nuovo colpo di scena, sconvolge sempre tutte le apparenze per andare a cogliere quell’elemento nascosto che svela un’altra realtà per mezzo di una ristrutturazione del contesto. I racconti con protagonista Padre Brown, la cui figura è ispirata a un sacerdote irlandese (padre Joseph O’Connor), si caratterizzano così per un umorismo corposo, un tenace ottimismo di fondo e un costante riferirsi ai sentimenti dell’uomo: ecco L’innocenza di Padre Brown, La saggezza di Padre Brown, L’incredulità di Padre Brown, Il segreto di Padre Brown e Lo scandalo di 49 ROCCA 15 APRILE 2011 Giuseppe Moscati utti dovrebbero leggere almeno una storia con protagonista Padre Brown, anche chi non è appassionato del genere poliziesco, delle detective stories o della cosiddetta giallistica. Lui è uno dei più famosi detective della storia della letteratura e nasce dal genio dell’inglese Gilbert Keith Chesterton (Londra, 1874 – Beaconsfield, 1936), lo scrittore tanto amato tra gli altri anche da Borges e da Gandhi. Oltre che romanziere e autore di svariati racconti, Chesterton si è distinto anche come artista, poeta, saggista e critico letterario, scrivendo su numerose testate giornalistiche e riviste specializzate, anche sulle nostre «La Ronda» e «Il Frontespizio». Di famiglia benestante, la sua formazione artistico-letteraria l’ha potuta sviluppare in particolare prima alla Slade School of Art e poi presso l’University College londinese. NUOVA ANTOLOGIA Padre Brown. Egli si immedesima nel criminale per poterne comprendere pensiero e azioni: cerca di ragionare con la ragione dell’assassino, di vedere il mondo «con i suoi stessi biechi occhi» e quindi di «lottare con le sue stesse passioni». Chesterton, è soprattutto quella mirabile sapienza dell’autore inglese di cogliere i nodi fondamentali della psicologia del personaggio, in relazione a felicità, volontà, libero arbitrio, ma di farlo in virtù di una penna estremamente duttile e spesso potentemente ironica. non solo Padre Brown ROCCA 15 APRILE 2011 C’è una data piuttosto significativa nella biografia di Chesterton ed è quella del 1901: è l’anno a partire dal quale egli decide di lasciarsi alle spalle tutte le frequentazioni dei circoli letterari e lascia la città per una più tranquilla campagna inglese. Sarà, quest’ultima, la nuova ‘compagna di narrazione’, suggerendogli mille e mille situazioni nonché efficacissimi personaggi sempre passati al vaglio di una lettura psicologica davvero penetrante, di cui Chesterton era capace come pochi. Ma è anche vera un’altra cosa e cioè che la grandezza (e la fama) del personaggio di Padre Brown ha avuto e probabilmente ha tuttora un risvolto inevitabile: tutti gli altri personaggi creati dalla penna di Chesterton ne sono rimasti – chi più, chi meno – in qualche modo oscurati, pur essendo anche loro ben degni di nota. Pensiamo per esempio all’altro detective, quell’Horne Fisher che è protagonista delle storie raccolte nel 1908 in The man who knew too much (The club of Queer trades), per la precisione un detective gentiluomo dagli interessi criminologici che è perennemente alla ricerca proprio di quei colpevoli che hanno buone probabilità di farla franca perché magari i loro delitti non finiscono sulle prime pagine dei giornali. Storie di serie B, insomma, che d’altra parte hanno tutti i loro intrighi, il loro carico di mistero, a volte anche le loro grandi efferatezze e che comunque non vanno trascurati o dimenticati. Il romanzo allegorico L’uomo che fu Giovedì (The man who was Thursday, 1922), che presenta anch’esso scenari caratterizzati dalla violenza, è al contempo un’occasione per ragionare – per bocca, tra gli altri, dei personaggi di Gabriel Syme e Lucian Gregory – su povertà e ricchezza, come pure più in senso lato sulla società, sulle leggi e sui rischi dell’anarchia, ma soprattutto sulla contrapposizione tra bene e male e sulle possibili strade per ricercare la felicità. Il tutto calato all’interno di una finzione letteraria che ha del grottesco: come si evince già dal titolo, i membri della setta del Consiglio Centrale Anarchico adottano infatti ognuno il nome di un giorno della settimana (e il fantomatico presidente si fa chiamare Domenica…). Quello che rimane, al fondo delle pagine di 50 Giuseppe Moscati per leggere Chesterton G.K. Chesterton, Autobiografia, Lindau, Torino 2010. Id., Ciò che non va nel mondo, Lindau, Torino 2011. Id., Eretici, Lindau, Torino 2010. Id., Eugenetica e altri malanni, Cantagalli, Siena 2008. Id., I racconti di Padre Brown, San Paolo Ed., Milano 2010. Id., Il club dei mestieri stravaganti, Guanda, Milano 2010. Id., Il Napoleone di Notting Hill, Lindau, Torino 2010. Id., Il poeta e i pazzi. Sei casi del poeta detective Gabriel Gale, Bompiani, Milano 2010. Id., Il profilo della ragionevolezza. Distributismo, sussidiarietà, solidarietà, Lindau, Torino 2011. Id., Il segreto di Padre Brown, Piemme, Milano 1999; L’incredulità di Padre Brown, Piemme, Milano 1998; L’innocenza di Padre Brown, Mursia, Milano 2008; La saggezza di Padre Brown, Rizzoli, Milano 1996; Lo scandalo di Padre Brown, Piemme, Milano 1999. Id., La nonna del drago e altre serissime storie, Macerata Feltria (PU) 2011. Id., La sfera e la croce, Morganti Ed., Pezzan di Carbonera (Tv) 2010. Id., Le avventure di un uomo vivo, Piemme, Milano 1997. Id., L’osteria volante, Bompiani, Milano 2007. Id., L’Uomo Eterno, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2008. Id., L’uomo che fu Giovedì, Bompiani, Milano 2007. Id., L’utopia degli usurai, Excelsior 1881, Milano 2007. Id., Ortodossia, Lindau, Torino 2010. Id., San Francesco d’Assisi, Lindau, Torino 2008. Id., San Tommaso d’Aquino, Lindau, Torino 2008. Id., Uomovivo, Morganti Ed., Pezzan di Carbonera (Tv) 2009. su Chesterton M. Ghezzi, Prefazione, in G.K. Chesterton, L’uomo che fu Giovedì, cit. R. Brunelli – M. Sermarini, Introduzione, in G.K. Chesterton, La nonna del drago e altre serissime storie, cit. Centro per la formazione e l’aggiornamento Diesse - Didattica e Innovazione Scolastica (Firenze e Toscana), Gilbert Keith Chesterton: la ragione e l’immedesimazione nei racconti di Padre Brown, ww.diessefirenze.org/uploaded/287.pdf & V VIZI Filippo Gentiloni rotesta. Protestare. Un sostantivo e un verbo di attualità. Sono fra i più usati sia nella vita quotidiana che in quella politica. Virtù o vizio? Forse sia l’uno che l’altro. Comunque di grande diffusione e di grande attualità, dovuta in gran parte ai mass media che hanno portato la protesta in tutte le case e in tutti gli uffici di questo mondo. Protestare è diventato uno dei verbi più diffusi, a tutti i livelli di tutte le società. Subito la domanda che incalza: serve a qualche cosa? I «protestanti» – sembra offensivo scomodare i gloriosi «protestanti» della storia del cristianesimo – aumentano a tutti i livelli, ma sembra, invece, diminuire l’effetto delle proteste. Anche quelle più vistose nelle principali vie delle grandi città, sembrano spesso inutili: lo stesso termine «manifestazioni» sembra indicare qualche cosa che è, sì, visibile, ma in sostanza inefficace. Come far sì che la protesta abbia effetto? Non basta che la causa per cui si protesta sia giusta? La giustizia, forse, non basta più? A questo punto lo sguardo dalla protesta si sposta alla giustizia. E ci si chiede, prima di tutto, se la causa per cui si protesta sia giusta, ma poi, anche, se i mezzi con cui si protesta siano efficaci. Non lo sono, ad esempio, parecchie «manifestazioni». A questo punto nel discorso sulla P protesta entra a vele spiegate un altro fattore. Un fattore che, purtroppo, domina anche la società e la politica, il denaro. Forse è stato sempre così: comunque oggi più che mai. Il denaro serve a tutto, non se ne può mai fare a meno. Serve anche a protestare, affinché la protesta non sia inutile, ma serva al suo scopo. Giustizia della causa, dunque, e mezzi. Sono i due strumenti della protesta, che la rendono possibile ed efficace. A tutti i livelli, da quello familiare a quello statale e internazionale. Ma esiste anche una educazione alla protesta, una vera educazione che oggi forse si sta perdendo. Anche perché si constata quotidianamente che la protesta è condizionata dal denaro. Proprio quel denaro contro cui si protesta è sempre più necessario alla possibilità di protestare. Un sorta di circolo vizioso. Come fare? Come recuperare il valore limpido e sincero della protesta? È difficile rispondere, immersi come siamo in forme più o meno sincere di protesta. Più o meno inefficaci. Bisognerebbe, forse, insistere anche se spesso senza risultati. La protesta ha sempre un valore. Ed è indicatrice di valori. Indica una strada, anche se non si riesce a percorrerla. Indica una meta. Guai a una società nella quale non si protesta più. 51 ROCCA 15 APRILE 2011 VIRTÙ AMORIZZARE IL MONDO sete di contem pl ROCCA 15 APRILE 2011 Arturo Paoli 52 l tempo dell’ultima quaresima è stato per me particolarmente intenso: mi avvicino al sempre più desiderato incontro con il Volto dell’Amico che mi sedusse al tempo della mia giovinezza. Esaminando la mia esistenza mi trovo portato a delle mutazioni mai sognate, mi vengono spesso incontro le parole che riecheggiano nel finale del vangelo di Giovanni: «ti ho portato dove tu non pensavi e forse dove tu non volevi». Non è strano perché le sue parole resteranno vive per sempre e arriveranno a nuove esistenze umane che respirano su questo pianeta terra. Considero una grazia che le parole mi giungano non solo affidate dal vangelo al tempo ma anche affidate da mani di uomo come le mie (1). Non sono un divoratore di libri; ma li mangio lentamente e mi fermo a quelle pagine che illuminano le intuizioni che alimentano la mia vita. La crisi religiosa di quella parte del mondo che ufficialmente si dice cristiano mi pare avanzare nel calo dei praticanti ai riti religiosi e nel calo dei sacerdoti responsabili delle comunità. Confidiamo nelle parole del Cristo che ci ha promesso l’amicizia e siamo sicuri che Egli è fedele alle sue promesse. Penso sempre a quelle parole: «voi siete i tralci e io sono la vite» e a quelle più recenti che vengono ripetute negli scritti del beato Carlo de Foucauld, non certamente elaborate dal suo cervello non molto imbevuto di una scienza teologica: Cristo modello unico e quindi familiare al pensare dell’uomo. Certo che il territorio dove è stato seminato il cristianesimo non è segnato da fatti di pace ma piuttosto di guerra. E non c’è solo la guerra affidata a ordigni di sempre maggiore carica esplosiva; ma c’è la guerra silenziosa degli oggetti che si possono definire come antisociali perché sembrano essere ispirati dall’intenzione del «fai da te». Esiste una forza progressiva che possiamo chiamare antisociale o antiamicizia. Possiamo pensare che durando in questo avanzamento l’uomo del futuro sia privato di quella gioia del vivere insieme e dell’amarsi vicendevolmente. I tutto può morire ma non l’amore Forse questa crisi attuale per l’intervento provvidenziale di Dio potrà aprirsi a quella sete di cui parla Gesù nel dialogo alla samaritana: «quell’acqua che io vi darò potrebbe essere quell’amore che lega il figlio al Padre e che inevitabilmente scende sull’umanità». Come credente in Cristo penso che tutto può morire meno l’amore che non può essere sostituito da forme artificiali create dall’uomo. A un tempo di aridità è sempre succeduto un tempo di fecondità. Penso che un cristiano deve divenire un testimone che l’amore non è morto e l’amore non può morire. Il senso della nostra esistenza non può essere altro da quello marcato dall’apparizione di Gesù nel tempo e nella storia. Il Cristo risorto è l’offerta permanente dell’amore del Padre e l’amore vero che ha una caratteristica e una sola direzione: da me agli altri e ritorno. Lascio la mia parola a uno di questi amici che senza conoscerci offrono il loro linguaggio da trasmettere ai lettori: «ora si comprende la profondità dell’atto compiuto da Gesù in piena sinagoga quando dopo aver guarito un infermo chiese ai farisei, ‘se viene prima osservare le norme della religione o piuttosto soddisfare i bisogni della vita...’. In questo dilemma vediamo il pericolo di distruggere l’etica nella soddisfazione dell’edonismo di tutti i piaceri che si offrono». La vita ci viene incontro con molti graffi ma anche con molte promesse di felicità. Non sempre abbiamo bisogno di lavorare e di soffrire duramente; la stessa vita apre spazi di piaceri sconosciuti che sono a portata di mano. Allora ci appare troppo lontana, troppo difficile la promessa del Maestro. La domanda che Gesù rivolge ai farisei contiene questo dilemma, anche il rifugiarsi negli obblighi religiosi che non sono a prima vista piacevoli, può servire da giustificazione a sfuggire l’esigenza dell’amore all’altro che si manifesta nel soddisfare un bisogno concreto. La crisi attuale della religione è oggi evidente e mi pare che sia una domanda che circola invisibilmente nella stoffa del tempo m plazione a che serve la religione? A che serve la religione? Spesso questa domanda nasce dalla credenza nella sopravvivenza alla morte. Credo che questa domanda fluttui nel tempo senza trovare una risposta sicura che è quella che ha dato praticamente Gesù quando i farisei avrebbero avuto argomenti per dire a Gesù che il dilemma è falso. Quest’uomo non aveva una malattia mortale e quindi si poteva osservare il sabato e rimettere la guarigione al giorno dopo. Quest’uomo poteva certamente rimettere al giorno dopo una deficienza fisica abbastanza sopportabile perché indolore. Ma a Gesù premeva dire ai farisei che il sabato si celebra soprattutto attraverso atti di amore: il perdono, la carità ai bisognosi e azioni che fanno crescere nell’amore. Evidentemente Gesù non nega l’importanza di riti religiosi purché aprano una relazione vera ed essenziale all’uomo, una crescita nell’amore e quindi una apertura a questa inesauribile fonte, e quindi un incontro del figlio col Padre vero. Gesù stesso è l’autore unico della fede, non può mai separare queste due forme di vita. Bisogna ritornare sempre al dialogo fondamentale con la samaritana. Chi beve dell’acqua che io darò non avrà più sete. sacerdoti e segni dei tempi Tornando alla crisi dei sacerdoti cioè di quelli responsabili della trasmissione dei riti religiosi dovrebbero essere attenti a quelli che Gesù chiama i segni dei tempi. I tempi attuali mi pare che scoprano con sempre maggiore evidenza che gli atti di religiosità che non scendono nell’uomo e lo trasformano da un essere egoista a un essere aperto agli altri, il cosiddetto uomo per gli altri, e quindi imitatore anche se con molte limitazioni del modello unico, non hanno certamente bisogno dell’uomo dei riti e creatore di forme di religiosità. Le conseguenze sono alla vista: la creazione di quella solitudine di cui abbiamo parlato sopra, il disseccarsi dell’amore, la qualità più importante umana, e quindi non c’è bisogno di Dio. E naturalmente chi continua la presenza di Cristo nel tempo, o trasmette amore, aiuta l’altro a desiderare fortemente di essere un portatore di amore, oppure non si sente il bisogno di un sacerdote che compia atti incomprensibili e rinnovi una specie di commedia sempre la stessa. Anche la frase pronunziata da Gesù non vi chiamo più servi ma amici continua ad essere portata dal vento e a inquietare coloro che hanno preso la responsabilità di accogliere questa vibrazione, oppure collaborano con questo fenomeno provocato dalla crescita permanente di apparecchi meccanici che producano l’effetto di disgregare la comunità come comunione. Il vero cristiano come il vero sacerdote dovrebbero collaborare a fare scendere nel tempo quella voce rimasta nell’aria. Bisogna soavemente ma con molta energia mantenere vive queste parole perché la persona senza capacità di accogliere amore e dare amore non può che distruggere la vita e quindi segnare la fine dei tempi. Ma questo Dio non vuole e la sua volontà è il solo avvenimento che spegne il limite dei tempi creando davanti a sé l’eterno. Ritorno spesso alla profezia di Benedetto Calati, il monaco di Camaldoli, «nel prossimo futuro esisteranno meno persone religiose e più numerose saranno le persone contemplative». Intendeva per religiosi i praticanti di preghiere e di pratiche religiose. Il contemplativo è quell’essere che aspira alla imitazione del Modello unico, che è colui che può dire come Paolo «non sono più io che vivo ma è il Cristo che vive in me» (1Cor 11). Bisognerà attendere che la morte dell’amicizia (o del prossimo) si estenda di più come avveniva nei tempi delle epidemie finché questa sete e questa pratica della contemplazione diventi più generalizzata e con più forza di creare una vera rinascita. Arturo Paoli Nota (1) J. M. Castillo, Dio e la felicità, Cittadella, Assisi 2010, p. 59. dello stesso Autore ANCORA CERCATE ANCORA pagg. 160 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 53 ROCCA 15 APRILE 2011 come un bacillo nella carne di un vivente. TEOLOGIA il Gesù di Ratzinger e l’espiazione Carlo Molari L a ricchezza spirituale e la profondità teologica del secondo volume Gesù di Nazaret del Papa avvincono il lettore fin dalle prime pagine e lo conducono passo a passo a una intensa esperienza interiore. Tra i numerosi spunti interessanti del libro, dato il periodo liturgico, vorrei soffermarmi a riflettere su un tema discusso: l’interpretazione della morte in croce di Gesù, come espiazione vicaria. Il Cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione dei Vescovi, nella presentazione alla stampa del libro del Papa, il 10 marzo scorso, l’ha segnalato tra i cinque punti nodali da approfondire. Egli ha richiamato «le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale», che lo stesso Papa elenca (p. 258), e ha osservato che «questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere». Il Papa non vuole rinunciare alle formule della tradizione, convinto come egli è, che «il mistero dell’espiazione non dev’essere sacrificato a nessun razionalismo saccente» (p. 267). Anche se poi, come molti teologi e biblisti, giunge a capovolgere la prospettiva giuridica del passato, con un percorso però diverso da quello di altri teologi, percorso che merita di essere brevemente analizzato. espiazione nel sangue ROCCA 15 APRILE 2011 Nell’uso attuale espiazione, in genere, significa: «liberazione e purificazione che compensa la colpa mediante il sacrificio» (Devoto G. e Oli G. C., Dizionario illustrato della lingua italiana, Milano, 1967). In un senso strettamente giuridico espiazione ha come corrispettivo il castigo o la pena. Tutto «il diritto penale ha come propria finalità specifica l’espiazione della colpa e di conseguenza il ricupero sociale del reo» (D’Agostino F., Diritto, VI Giustizia in Teologia, Dizionari S. Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 2002, 471). In senso religioso 54 espiazione significa quindi: «riparazione di un torto fatto a Dio mediante il pentimento e opportuni atti di contrizione» oppure «la pena imposta da Dio come punizione dei peccati e nello stesso tempo mezzo di purgazione delle colpe» (Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1968 pp. 380, 381). L’espiazione è detta vicaria quando la prestazione richiesta è offerta o la pena fissata dalla legge è subìta da qualcuno in nome o al posto di altri. Il Papa illustra il tema dell’espiazione «più volte e a diversi livelli». Ne parla a proposito della distruzione del tempio e della conseguente fine di tutti i sacrifici (pp. 44 ss.), la cui «intenzione» era appunto l’espiazione; essi «nella croce di Cristo… sono portati a compimento... e così Gesù stesso ha preso il posto del tempio» (p. 50). Vi ritorna quando interpreta la Preghiera sacerdotale di Gesù (Gv. 17), letta «sullo sfondo della liturgia della festa giudaica dell’espiazione» (pp. 91ss.) e nel commento alle parole dell’ultima cena (pp. 135 ss.), «nella quale trasforma la sua morte violenta in un libero atto di autodonazione per gli altri e agli altri» (p. 148). Lo approfondisce nel commento alla sentenza del Sommo sacerdote Caifa secondo cui è «meglio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11,50 cfr. 18, 14), e da cui «traspare il mistero della funzione vicaria, che è il contenuto più profondo della missione di Gesù» (p. 195). Raggiunge il vertice nella riflessione sulla croce come «riconciliazione (espiazione) e salvezza» (pp. 255-267) dove «si compie l’intimo senso dell’Antico Testamento, non soltanto la critica cultuale dei profeti, ma, positivamente anche ciò che sempre era stato il significato e l’intenzione del culto» (p. 259). L’approfondimento del Papa si svolge nell’orizzonte giuridico tradizionale della espiazione, nella convinzione cioè che «il male deve essere espiato e ristabilita così la giustizia» (p. 195). «Questo però significa che la croce rispondeva ad una ‘necessità divina’» (p. 193). Nello stesso orizzonte Egli interpreta il culto ebraico soprattutto il rito del giorno dell’espiazione (Yom Kippùr), descritto nel libro del Levitico (c. 16). In quella circostanza oltre al capro espiatorio, inviato nel deserto, veniva anche sacrificato un giovenco «come vittima di espiazione» (p. 50), con il cui sangue il Sommo sacerdote entrava nel «luogo della misteriosa presenza di Dio» (p. 50) proclamando il nome impronunciabile, lo versava sulla lastra d’oro (kapporet) che copriva l’arca. Il collegamento tra il sangue e la espiazione è indicato con le parole del la croce espiazione definitiva Il Papa nota che «per il giudaismo, la cessazione del sacrificio, la distruzione del tempio dovette essere uno shock tremendo. Tempio e sacrificio stanno al centro della Torà. Ora non c’è più nessuna espiazione nel mondo, niente che potesse far da contrappeso al suo crescente inquinamento in conseguenza del male» (p. 44). Data l’importanza che aveva il culto sacrificale per il giudaismo del tempo di Gesù, la distruzione del tempio e la fine dei sacrifici hanno rappresentato l’inizio di una fase nuova della storia ebraica. Da allora è scomparso «il giudaismo dei sadducei, che era totalmente legato al tempio» e ha preso avvio una modalità nuova della «fede di Israele», che ha posto al centro non più il Tempio ma la Torà. Da allora i rabbini hanno considerato «il canone degli scritti biblici come rivelazione di Dio senza il mondo concreto del culto del tempio» (p. 44). Per i cristiani, invece, la scomparsa dei sacrifici era il segno del loro compimento realizzato nella croce di Cristo perché l’espiazione dei peccati era già definitivamente compiuta nella sua morte. «Sorprendentemente, una cosa era chiara fin dall’inizio: con la croce di Cristo, gli antichi sacrifici del tempio erano definitivamente superati. Era accaduto qualcosa di nuovo. L’attesa contenuta nella critica dei profeti… aveva trovato adempimento: Dio non voleva essere glorificato mediante i sacrifici di tori e di capri, il cui sangue non può glorificare l’uomo né espiare per lui. Il nuovo culto atteso… era diventato una realtà. Nella croce di Cristo era avvenuto ciò che nei sacrifici animali era stato tentato invano: il mondo aveva ottenuto l’espiazione. L’«agnello di Dio» aveva caricato su di sé il peccato del mondo e l’aveva tolto via... Si era realizzata la riconcilia- zione» (p. 256). Per questo la croce rappresenta l’anticipazione della fine del tempio e l’avvio della nuova fase della storia salvifica. Da allora «i sacrifici del tempio… erano superati. I suoi sacrifici... non erano più validi per i cristiani... Cristo aveva preso il loro posto» (p. 257). A proposito del riferimento all’Antico Testamento Reiner Riesner, biblista protestante di Tubinga, in una conferenza tenuta a Milano il 15 marzo scorso (Auditorium di Milano di largo Gustav Mahler) ha detto «Uno dei punti di forza del libro del Papa è la dimostrazione che proprio le affermazioni del Nuovo Testamento sulla morte di Gesù come espiazione del peccato dell’uomo diventano comprensibili solo con l’aiuto del Vecchio Testamento e della sua traduzione in ebraico antico. Le parole di Gesù sono intessute di allusioni al Vecchio Testamento. Se le si volesse eliminare tutte, non rimarrebbe molto». Il Papa avverte le difficoltà che il riferimento all’espiazione rappresenta per la sensibilità attuale. «Non è forse un Dio crudele colui che richiede un’espiazione infinita? Non è questa un’idea indegna di Dio? Non dobbiamo forse, a difesa della purezza dell’immagine di Dio, rinunciare all’idea di espiazione?» (p. 258). La risposta è no, perché il male c’è: «per colpa nostra» (p. 258). La spiegazione offerta però presenta l’esigenza divina in modo più accettabile: l’espiazione non è offerta dall’uomo, bensì da Dio stesso nel Figlio. «Egli, il Puro, si rivela al contempo il più forte. In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell’amore infinito… Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza. Dio stesso «beve il calice» di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore, che attraverso la sofferenza trasforma il buio» (pp. 258259). Resta però un punto difficile da capire: si tratta ancora di giustizia penale e quindi di espiazione? Lo stesso soggetto esige e offre! La sofferenza inoltre sarebbe voluta da Dio come condizione necessaria! Non sono meccanismi umani attribuiti indebitamente a Dio? Non sarebbe più semplice interpretare espiazione nel senso attivo di purificazione, come diversi esegeti pensano significhi il termine Kippùr? Dio purifica l’uomo senza chiedere nulla, offre gratuitamente perdono. (continua) dello stesso Autore CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pp. 168 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail Carlo Molari [email protected] 55 ROCCA 15 APRILE 2011 biblista Ulrich Wilckens: «la cui [del giovenco] vita viene così offerta a Dio al posto di quella degli uomini peccatori meritevoli di morte». Ratzinger commenta: «l’idea di fondo è che il sangue del sacrificio, nel quale sono stati assunti tutti i peccati degli uomini, toccando la divinità stessa viene purificato e così, mediante il contatto con Dio, anche gli uomini rappresentati da questo sangue vengono resi mondi: un pensiero, questo, che nella sua grandezza e, insieme, nella sua insufficienza è commovente, un pensiero che non poteva rimanere l’ultima parola della storia delle religioni, né l’ultima parola della fede di Israele» (pp. 50-51). Il sangue di tori e di capri infatti «non può purificare l’uomo, né espiare per lui» (p. 256). GIOBBE fuori luogo ROCCA 15 APRILE 2011 Lidia Maggi 56 l libro di Giobbe è come una rappresentazione teatrale in cui viene messo in scena il dolore di un uomo. Giobbe, il protagonista, abita un tempo indefinito, poiché appartiene a ogni epoca: è nostro contemporaneo, come lo è stato per coloro che ci hanno preceduto. Inoltre, non è caratterizzato come ebreo e tantomeno presentato in una linea genealogica che lo colleghi direttamente a questo o a quel clan. Abita una geografia mitica, la terra di Uz, luogo lontano da una qualsivoglia città singolare per essere vicino a tutti noi. Giobbe è una finzione letteraria. Non è mai esistito perché continua ad esistere in ogni epoca, in ogni luogo, nelle pieghe del dolore umano. Lo abbiamo incontrato come un uomo giusto e un padre attento, anche se un po’ apprensivo e sospettoso. Persona dai saldi principi, dai valori non negoziabili. Vive convinto di poter tenere sotto controllo il male. Nella prima scena abbiamo incontrato un uomo sereno che vive una vita armoniosa. Un quadro idilliaco, troppo perfetto per non incrinarsi; e, infatti, ecco il cambio di scena. L’inquadratura si sposta nelle sfere celesti e, come nella Divina Commedia, l’autore del dramma ci permette di vedere nell’oltre, aldilà della selva oscura della storia. Assistiamo a uno strano meeting: il Signore convoca i figli di Dio e tra questi anche Satana. Lo scenario è mitico: quello di un cielo in cui vige una realtà parallela a quella terrena. Lì, Dio abita con i suoi figli, creature misteriose, funzionari che amministrano il suo regno. C’è anche quel Satana che noi associamo al maligno. Qui, invece, è un dipendente alla corte celeste con autonomia di movimento. È un instancabile viaggiatore. Mentre il Dio sembra statico e, pur vedendo la realtà terrena, non la abita, Satana ne fa esperienza diretta: percorre la terra in lungo e in largo. Il suo sguardo entra nel dettaglio cogliendone il disordine, le contraddizioni o, almeno, le sfumature. Satana, infatti, è la creatura del dubbio. Smonta la fiducia e destabilizza insinuando il sospetto. E lo fa in maniera insidiosa, sottile, attraverso mezze affermazioni. Persino Dio cade nella trappola I tesa dall’astuzia di Satana, sembra lasciarsi «abbindolare». «Il Signore disse – Hai notato il mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra». «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? Tu hai benedetto l’opera delle sue mani... ma tocca tutto ciò che possiede e vedrai se benedirà ancora la tua faccia» (Giobbe 1,811). Il Dio lontano conosce Giobbe. Sa della sua vita integra. E Giobbe, da parte sua, sa che c’è un Dio che lo osserva e a cui deve rendere conto. Quello che Giobbe non sa è che sulla sua vita si sta giocando una partita a dadi e lui è la posta in gioco. Colui che viene da «fuori» (questo in ebraico significa Uz) farà i conti con un male che non può controllare perché è stato deciso altrove, al di là delle cause mondane. All’interno di questa geografia simbolica, fatta di dentro e fuori, vicino e lontano, si gioca buona parte del tragico confronto tra male e bene di cui narra il libro di Giobbe. Visto da fuori, il dolore sembra avere, nell’economia della vita, un senso; dall’alto è possibile coglierne un disegno, sia pure insensato, come quello suggerito dalla sfida tra Dio e Satana. Ma dall’interno, da vicino esso appare senza senso. Paradossalmente, chi suggerisce di guardare più da vicino è Satana. È lui ad appuntare uno sguardo ravvicinato su Giobbe, al fine di coglierlo in fallo. E saranno, poi, gli amici di Giobbe, portatori di uno sguardo interno all’ortodossia biblica, a parlare in nome di un Dio vicino, che retribuisce l’uomo in base al merito. Giobbe, invece, viene da «fuori». È esterno alle semplificazioni offerte dalle spiegazioni religiose. La sua tragica vicenda fuoriesce dagli schemi che vorrebbero comprenderla. Ed anche Dio sembra prediligere un «fuori» che non per forza significa estraneità e disinteresse per il dramma della storia. Il grido di Giobbe contesterà questa estraneità divina ritenuta ingiusta e la confessione di fede finale leggerà diversamente il «fuori» di Dio. Per ora, il dramma domanda allo spettatore di entrare nella storia narrata interrogandosi con più perspicacia su cosa significhi «da fuori» e «da vicino». CINEMA C Sorelle Mai abituali collaboratori del regista, come il musicista Carlo Crivelli e la montatrice Francesca Calvelli, si affiancano i giovani allievi impegnati nel corso. Lo interpretano i familiari di Bellocchio, le sorelle Letizia e Maria Luisa, il fratello Alberto, i figli Piergiorgio ed Elena e il sempiterno amico dal nome pucciniano, Gianni Schicchi Gabrieli, ai quali si aggiungono le attrici «vere» Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher. I luoghi sono appunto quelli dell’immutabile «natìo borgo selvaggio», le sue viuzze, il palazzo avìto, i meandri del Trebbia. Scarna fino all’essenziale la vicenda. Sara vive a Milano, ha ambizioni di attrice che sembra vedere finalmente coronate da un ruolo importante. Ha lasciato che la figlia Elena cresca a Bobbio ma da tempo vorrebbe portarla con sé. Giorgio è un giovane frustrato negli amori e nelle ambizioni. Periodicamente i due fratelli ritornano e talvolta si incontrano, per necessità affettive ma anche per più prosaici motivi contingenti. Sorelle Mai è dunque strutturato su tre piani. Pur essendo solo in parte auto- biografico, accumula laboriosamente le stratificazioni di un vissuto, anche cinematografico (e per questo alcune corrispondenze di luoghi vengono sottolineate da fulminee citazioni del capolavoro d’esordio, I pugni in tasca). In maniera dolorosa, certo, ma in una prospettiva di pacificazione: nel riconoscimento di quella saggezza antica personificata dalle zie, nella rivisitazione quasi pascoliana di ambienti, profumi e sensazioni, nell’assunzione del fiume come elemento amniotico ma anche luogo della purificazione (esemplare la sequenza in cui Sara recita la scena della pazzia di Lady Macbeth sotto la pioggia mentre Giorgio nuota in quelle stesse acque del Trebbia in cui la sorella cerca di lavarsi forsennatamente le mani). Pur caratterizzandosi come ibrido giocato su immagini ostentatamente povere, riesce a toccare le corde profonde dello spettatore con l’esiguità di un intreccio che abbonda di rimandi cechoviani e riproponendo quelle accensioni febbrili, sospese, in qualche modo kleistiane che costituiscono uno dei pezzi forti dell’armamenta- rio poetico del regista (la ragazza che ha conosciuto Giorgio tredicenne, con il quale si è scambiata una promessa e che lo bacia non venendo riconosciuta, l’uscita di scena di Gianni Schicchi, strepitoso uomo in frac che si inabissa nel fiume). Pur non essendo infine un vero e proprio film teorico sul cinema, come lo sono, ad esempio, La finestra sul cortile o L’occhio che uccide, per limitarci a due esempi classici, riesce comunque a riflettere – e a far riflettere, spettatori e allievi della scuola – sul proprio farsi, procedimento miracolosamente risolto in quella che potremmo chiamare compatta frammentazione, su necessità di budget che sanno diventare virtù di idee e creatività, equilibrio nella direzione di attori e non attori che trova il vertice nei risultati ottenuti con Elena nel percorso reale da bambina ad adolescente. Vorremmo concludere questa sommaria analisi di Sorelle Mai, a nostro avviso uno dei momenti alti nella filmografia prestigiosa ma altalenante di Bellocchio, con una annotazione a margine ma non secondaria. Ci sono infatti qui un paio di episodi di schietta comicità, come lo show di un insegnante che durante il consiglio di classe recita l’invettiva del tenente Mahler nel pre-finale di Senso, o la sequenza in cui zia Letizia si dimostra cocciutamente interessata all’acquisto di una cappella limitrofa a quella di famiglia mentre il notaio sta stipulando la ben più importante vendita dell’appartamento di Sara. Quasi che il film, oltre all’approdo a una considerazione più pacificata di se stesso, significhi per l’autore il recupero di un senso dell’umorismo altrove poco praticato. ❑ 57 . ROCCA 15 APRILE 2011 Paolo Vecchi ome altri colleghi, italiani e stranieri, anche Marco Bellocchio alterna film «da sala» a lavori diversi per natura, destinazione e formato, in minore dal punto di vista produttivo ma spesso tutt’altro che minori sotto il profilo degli esiti. Di questo côté parallelo del regista piacentino fanno parte ad esempio il basagliano Matti da slegare (1975), sull’esperienza antipsichiatrica all’ospedale di Colorno, firmato insieme a Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli e, sempre con gli stessi collaboratori, La macchina cinema (1979), cinque puntate per la televisione sui poco luccicanti retroscena del nostro star system. In questo ambito è possibile enucleare un filone che vede Bellocchio tornare sui luoghi dell’infanzia, nel tormentato quanto necessario recupero di una stagione con la quale sembrava avere tagliato i ponti in seguito all’esperienza professionale e politica, filone del quale fanno parte Vacanze in Val Trebbia (1980) e Addio del passato (2002). Ad esso si collega il laboratorio «Farecinema», una scuola estiva di regìa e recitazione che si tiene da anni a Bobbio, affiancata da un piccolo festival le cui proiezioni si svolgono nel chiostro dell’abbazia di San Colombano. Sorelle Mai, che ingloba, modificandolo e integrandolo, il mediometraggio Sorelle (2006), è un po’ la sintesi, forse destinata a ulteriori sviluppi, di questo work in progress. Girato con un budget pressoché inesistente e con mezzi «leggeri», si articola in sei movimenti – l’arco di tempo va dal 1999 al 2008 – che, singolarmente presi, costituiscono altrettanti saggi «di scuola» in cui agli RF&TV TEATRO Roberto Carusi Renzo Salvi C’è modo ...e moda ROCCA 15 APRILE 2011 C ’è un modo – registico e interpretativo – di attualizzare, per così dire, i «classici» senza tradirne, anzi valorizzandone il significato. Considerazione che nasce da una edizione del celebre Avaro di Molière messa in scena dal Teatro delle Albe: diretta da Marco Martinelli, con il protagonista impersonato da un’attrice. Proprio così: Ermanna Montanari. Un avaro – in certo qual senso – astratto dal tempo in cui il grande autore/attore visse e riproposto secondo lo stesso spirito. Così la iniziale ricostruzione di un teatro nel teatro permette di smobilitarne strutture e orpelli inutili per cogliere l’essenziale tematica del più celebre forse tra i capolavori di Molière. La bella traduzione di Cesare Garboli (moderna eppur fedele), il muoversi incalzante dei personaggi che si affannano intorno al protagonista, vestiti dello stesso tessuto che riveste gli arredi scenici e spostati a vista da macchinisti e servi di scena come oggetti ingombranti essi stessi, e poi lo stilizzato ritratto – nero il vestito, pallido il volto – che dell’avaro fa la Montanari: tutto insomma contribuisce ad una sublimazione che mira al simbolico. Con aspetto grottesco, l’attrice domina la scena impugnando come uno scettro un microfono che peraltro potenzia la dizione, ora sciolta ed ora scandita, evidenziando l’avidità del personaggio. Il lieto fine, portato in scena dal regista stesso dello spettacolo che proviene dalla platea, e la immancabile agnizione consentono ai figli dell’avaro – invano blaterante con la voce abilmente resa chioccia – di 58 coronare i loro rispettivi sogni d’amore. Modalità, quelle descritte, che permettono al pubblico, di oggi di sentirsi partecipe in uno spettacolo nato quattrocento anni fa. Altrettanto purtroppo non si può dire per un’altra compagnia alle prese con un testo bello e ricco come La tempesta di Shakespeare, messo in scena dal giovane regista Andrea De Rosa coinvolgendo un attore di tutto rispetto e solida meritata fama qual è Umberto Orsini. Pare una moda, infatti, quella di tagliare indebitamente il poetico testo originale, di vestire e svestire a casaccio gli attori, compreso Orsini (Prospero) costretto ad appoggiarsi ad un bastone con indosso un pesante cappottone. Per non dire di Ariele – lo spirito dell’aria – trasformato (chissà perché) in un compassato signore in abito scuro che di quando in quando piomba dall’alto come una marionetta cui si siano rotti i fili. Quanto al selvaggio Calibano, questa messinscena ne fa uno «scemo del villaggio», insistentemente e visibilmente dedito a pratiche di autoerotismo. Insomma la vicenda – tra lo storico e il fantastico – è raccontata in modo semplicistico eppur confuso. Così pure è ignorata l’allegoria di Prospero – mago capace di scatenare e placare i venti – come autobiografico ritratto di Shakespeare stesso nella sua opera estrema. Ce n’è di che domandarsi perché con certi classici certi registi seguano la brutta moda di fare di un copione ben costruito uno spettacolo tanto sbrindellato. ❑ Tramate con noi I l titolo continua ad avere un suo fascino anche alla dodicesima annualità di messa in onda: forse per la fase storica del Paese, o per una sorta di disponibilità alla dietrologia che sembra caratterizzare le psicologie individuali e sociali (sempre un «grande vecchio» dietro eventi difficili da interpretare...). Ma in questo programma radiofonico – di sabato, dalle 11.05 e per poco più di venti minuti; in precedenza era parte de Il baco del millennio, ma sempre su RaiRadio1 – non si parla di politiche strambe o di comportamenti atti a colpire questo o quel potente del mondo; si da campo, invece, ad un’altra delle «manie» diffuse nel Paese: sicuramente più nobile del far complotti, di radice antica almeno quanto il trescar nell’ombra, approdata, in tempi recenti, all’uso plurimo delle tecnologie offerte dalla rete e dal digitale: sino al «pubblica» il tuo libro in carta commissionandone la stampa via web... Le trame di cui si parla sono quelle del raccontare. In quest’annata, in particolare, ci si occupa di romanzi mettendone a confronto due in ciascuna puntata in un percorso fatto da otto appuntamenti ad eliminazione diretta più una finale. Il tutto è iniziato il 19 marzo. I testi integrali e inediti possono essere inviati solo in rete al sito della trasmissione (l’invio in carta avrebbe per destinazione il cestino: fisico); in puntata ne viene letta, da buone voci attorali, una sintesi e, dopo una valutazione dettata da un autorevole sostenitore (Bruno Gambarotta o Claudio Gorlier), un arbitro, che cambia ad ogni appuntamento, decreta e motiva quale sia il testo vincitore. Per il testo vincitore, tra gli otto selezionati in puntata, è previsto l’approdo... in carta: il più classico cioè dei traguardi desiderati dagli autori di narrativa, ad onta del «tutto in rete» conclamato da tanta e neo-moderna proposta di fruizione della narrativa futura e del passato: in e-book, sui più sottili e manipolabili dei post/pc di ultima generazione... Dopo la prima puntata, in onda da Venaria Reale, e in attesa dell’ultima (dal Salone del libro a Torino) è già possibile osservare come i primi autori non siano proprio giovanissimi: esordiscono 65enni ed ultra nonostante l’accesso da internet; il che fa anche pensare che l’ascolto della radio (Rai) è ben frequentato da una terza età che magari incombente d’acciacco ma certamente non priva di spirito d’iniziativa e di intrapresa, in nome di un sogno (letterario). Infine non si può non rilevare, nelle due proposte, come uno dei temi portanti sia l’intreccio tra politica e Tv: tra un racconto imperniato sull’ipotesi di un reality come strumento per dirimere un’elezione presidenziale ed un altro che osserva un secondo «viaggio» dell’Alighieri, ma in questo mondo, non nell’altro, ad incontrare peccatori pubblici e privati ampiamente collocati in questi ambienti e nel loro intreccio. Il che, paradossalmente, porta alla suggestione d’origine: l’osservar trame, tresche, trucchi e torbide azioni a seguire, col timore e l’intento sospettoso di scoprire il grande vecchio e la quasi certezza d’imbattersi in tanti piccoli stupidi: peccatori narrati, re-incontrati da Dante, o scioccamente convinti nella realtà dello strumento reality. ❑ SPETTACOLI ARTE Mariano Apa Alberto Pellegrino C ome per Paolo VI così per Giovanni Paolo II un leggero vento come soffio di Spirito ha girato le pagine del Vangelo posato sulla bara di francescano legno, messa nuda sul selciato della piazza in San Pietro. Ripetendo l’intimità di una devozione ricca di spirituale energia e di reale partecipazione, la beatificazione di Papa Karol Wojtyla ha risistemato nel nostro cuore di «popolo in cammino» la regale testimonianza di una Fede proposta nella Carità e nella Speranza. L’epica e dolcissima, severa e teneresissima sua presenza ha forgiato nei decenni del magistero generazioni e comunità, persone e popoli, additando nella bellezza uno spazio della verità. Laureatosi nel romano Studio Domenicano su S. Giovanni della Croce, incrociando lo sguardo dell’icona della Madonna di Czestochowa ed edotto alla gestualità performativa di un teatro praticato e poi riconosciuto e rivissuto nella mimica esplicativa di affreschi e sculture a decorare pievi romaniche e cattedrali gotiche, spartiti rinascimentali e trionfi barocchi, il giovane Karol Wojtyla ha sempre vissuto e riconosciuto di quanto l’arte sia una formulazione del sacerdozio e di come l’arte possa essere la sapienza di una educazione alla vita che si intreccia nella libertà che ha radice nella partecipazione attiva alla santa liturgia del sacramento eucaristico. Possiamo rivedere il filmato della sua opera per mezzo del vo- lume di Andrea Riccardi per la San Paolo – «Giovanni Paolo II. La biografia» – ed entrare nella tematica di «Arte e Beni Culturali negli insegnamenti di Giovanni Paolo II» – con il volume del 2008, dalla Libreria Vaticana, curato da Ugo Dovere e con la prefazione del Cardinale Stanislaw Dziwisz – per poter assaporare la testimonianza che informa un magistero che con Giovanni Paolo II, da Papa Pio XI – ricordando del 1932 la rinnovata Pinacoteca Vaticana – al Concilio Vaticano II – del 4 dicembre 1963 è «Sacrosanctum Concilium» con lo specifico Capitolo VII – continua con Papa Benedetto XVI – ad esempio nei numerosi suoi interventi per la musica e per l’esperienza dell’incontro e per il discorso volto agli artisti in Cappella Sistina, nel 2010 –. Sia Roncalli che Montini hanno la loro permanente presenza nel nome che Wojtyla si è dato, dove nella numerazione viene associato il terzo Papa, Albino Luciani che iniziò la causa di beatificazione per lo scultore Riccardo Granzotto. La «Lettera agli artisti» è del 4 aprile 1999 e con il Grande Giubileo del 2000 si è affermata l’arte nella Chiesa e nel Mondo. Lo scrigno segreto di Wojtyla a cui è necessario ritornare ancor oggi è il «Trittico Romano. Meditazioni», del 2003 – presentato dall’allora Cardinale Ratzinger e dal filosofo Giovanni Reale – : un autentico breviario per gli artisti, un perfetto libro di iniziazione. ❑ A Roma un grande Nabucco U n grande Nabucco ha debuttato il 12 marzo 2011 al Teatro dell’Opera di Roma nel quadro delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, sotto la direzione del M° Riccardo Muti che si è confermato il più grande interprete verdiano del momento. Muti è stato capace di imprimere all’orchestra ritmi possenti e veloci nei passaggi drammatici o guerreschi per poi passare con elegante armonia all’esecuzione dei brani melodici, ottenendo una straordinaria fusione di effetti, riuscendo a calibrare la presenta dei protagonisti e gli interventi del coro a sua volta tra i protagonisti assoluti di questa opera grandiosa e solenne del giovane Verdi. Dopo un tiepido successo e un insuccesso, il compositore nel 1842 scrive uno spartito che dà l’avvio alla sua clamorosa carriera che d’ora in poi sarà costellata solo di successi. All’affermazione dell’opera contribuisce il libretto di Temistocle Solera tratto dalla tragedia Nabuchodonosor di Auguste Anicet-Bourgeois e Francis Cornu, nel quale egli sa rappresentare (pur con qualche caduta di stile) il confronto tra gli oppressi e gli oppressori, la vicenda amorosa di Fenena e Ismaele, la dura lotta per il potere tra Nabucco e Abigaille. Verdi poi ci mette del suo fin dalla sinfonia basata su possenti temi di tipo corale per arrivare al celebre «Va pensiero», che colpisce quasi subito l’immaginario collettivo fino a diventare uno degli inni più cantati del nostro Risorgimento. Il regista Jean-Paul Scarpitta ha puntato sulla drammaticità delle situazioni, muovendo e collocando sulla scena interpreti e masse, messi in risalto dai costumi tradizionali ma molto eleganti di Maurizio Millenotti. La sua scena minimalista, costituita da un fondale e da quinte scorrevoli che riflettono cieli azzurri e nubi tempestose, appare funzionale anche per il suo carattere atemporale e astorico, che si propone come il contenitore di una vicenda dove gli Ebrei diventano la metafora di ogni popolo oppresso, collocato al centro di una vicenda che rappresenta il passato, il presente e il futuro dell’umanità. Lo stesso disegno delle luci, studiato da Urs Schonebaum, è riuscito a delineare gli spazi e a creare le giuste atmosfere in modo assolutamente efficace. Tra gli interpreti, Leo Nucci rimane un grande baritono verdiano in un mixage di malvagità e tragica nobiltà (soprattutto nella scena della follia e nella romanza «Dio di Giuda» che segna la conversione di Nabucco); possente si può definire lo Zaccaria di Dmitry Beloselskij ed efficaci le presenze di Antonio Poli (Ismaele) e Anna Malavasi (Fenena). Infine il soprano Csilia Boross riesce a calarsi nelle vesti di Abigaille, inflessibile nel perseguire la strada del potere, furiosa di fronte al suo impossibile amore per Ismaele, possente nella decisione finale di togliersi la vita per il fallimento del suo sogno di gloria e di potenza. ❑ 59 . ROCCA 15 APRILE 2011 Wojtyla SITI INTERNET SPETTACOLI Ernesto Luzi Giovanni Ruggeri FondazionePergolesiSpontini Crowdsourcing:sfideeambiguità ROCCA 15 APRILE 2011 I n un momento di notevoli tagli al mondo dello spettacolo la Fondazione Pergolesi Spontini ha aperto una collaborazione con Ascoli Piceno ed il teatro Ventidio Basso per produrre musica lirica ed una ottimizzazione delle risorse. Primo spettacolo è stata «Traviata» di Giuseppe Verdi la celebre «Traviata degli specchi» messa in scena mercoledì 23 e venerdì 25 marzo al teatro Ventidio Basso in apertura della stagione lirica. Nell’allestimento rappresentato a Jesi, Napoli, Genova, Valencia, Fermo, Treviso, Brindisi. La regìa è di Henning Brockhaus, la direzione di Giampaola Maria Bisanti. Scene di Josef Svoboda, ha diretto la Form (l’Orchestra Filarmonica Marchigiana) il maestro Carlo Morganti, l’allestimento ha ottenuto il premio Abbiati 1992. L’allestimento originale di proprietà dell’Associazione Arena Sferisterio di Macerata e riprodotta ad opera della Fondazione Pergolesi Spontini con la riduzione dell’allestimento scenico a cura di Benito Leonori. La stagione lirica 2011 al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno avrà una importante novità: l’accordo del Comune di Ascoli Piceno con la 60 Fondazione Pergolesi Spontini per la gestione della Stagione lirica per il triennio 2011/2013. La collaborazione vedrà il Comune di Ascoli in stretto contatto con la Fondazione Pergolesi Spontini per allestire due titoli l’anno. L’intesa consentirà di portare in palcoscenico comuni produzioni operistiche nella prospettiva della razionalizzazione ed ottimizzazione delle risorse garantendo al contempo alta qualità artistica. Questo allestimento riprodotto ad opera della Fondazione Pergolesi Spontini è andato in scena inoltre al Teatro San Carlo di Napoli, al Teatro Carlo Felice di Genova, al Palaude les arts «Reina Sofia» di Valencia, Teatro dell’Aquila di Fermo, Teatri Spa di Treviso, Fondazione Nuovo Teatro Verdi di Brindisi. Gli interpreti sono Irina Dubrovskaya (Violetta Valery), Leonardo Caimi (Alfredo Germont), Simone Piazzolla (Giorgio Germont), Daniela Innamorati (Flora Bervoix) Mariangela Marini (Annina) Roberto Jachini Virgili (Gastone), Mattia Denti (Dottore Grenvil), Mihail Dogotar (Barone Douphol), Davide Bartolucci (il Marchese Flora), Alessio De Vecchi (un commissionario). ❑ S toricamente parlando, cosa permane – e non può non permanere – nella configurazione dell’esperienza personale e dei processi sociali e produttivi, e che cosa è ineludibilmente suscettibile di mutazione nella medesima esperienza e processi? La nascita e lo sviluppo delle tecnologie informatiche danno vita a fenomeni che, ben considerati nella portata di determinati loro tratti e/o implicazioni, inducono a sollevare interrogativi fondamentali sul piano antropologico e sociale, come appunto quello enunciato in apertura. Accade così, ad esempio, a proposito del cosiddetto crowdsourcing, ennesimo neologismo di conio americano nato dalla fusione tra il termine crowd, che significa «folla», e il termine outsourcing, che significa «esternalizzazione» (letteralmente: approvvigionamento esterno). Detto in breve, si tratta dell’offerta, via Internet, di micro (o macro) lavori eseguibili via Internet da casa, per conto di un committente che «appalta» ad un grande gruppo di persone on line determinati compiti, retribuiti con (micro o macro) compensi. Base di possibilità di tutto ciò è il semplice (e sconcertante) fatto che, in tutto il mondo, ben tre miliardi di persone sono connesse alla rete digitale: di qui, come non cogliere l’opportunità – in termini di impiego e prestazione d’opera – di coordinare e finalizzare al conseguimento di un obiettivo una tale inimmaginabile quantità di conoscenze, competenze, relazioni? Ad un primo e frettoloso colpo d’occhio, si potrebbe considerare il crowdsourcing una variante del telelavoro (cfr. Rocca n. 7/2011), ma le differenze sono profonde e sostanziali: mentre con il telelavoro siamo in presenza di una dislocazione domestica dell’attività lavorativa, precisamente configurata e normata, con il crowdsourcing abbiamo a che fare con un approccio – almeno per ora – «selvaggio» al rapporto domanda/ offerta nel mondo del lavoro, perché è facile immaginare come la disciplina in materia – sul piano previdenziale, fiscale, retributivo – sia, tanto da noi quanto (figuriamoci!) negli Stati Uniti, ancora agli albori, se non proprio latitante. Il lato positivo della questione è l’evidente valorizzazione delle reti sociali del web per scovare e connettere competenze e innovazioni capaci di ottimizzare processi e funzioni. Finora il crowdsourcing viene impiegato per servizi aziendali di assistenza e supporto al cliente, benché la formula «pura» di questa modalità di ricerca, (auto)assegnazione ed effettuazione del lavoro sia ben esemplificata sia dalla nota Amazon che ha implementato un sito (www. mturk.com) per l’offerta ed esecuzione di micro-lavori (ad esempio compilare brevi test statistici, aggiungere il campo «descrizione» ad una foto ecc.), sia dalla Innocentive, che propone e retribuisce on line compiti di problem solving molto complessi sul piano scientifico e/o tecnologico (www. innocentive.com). Non ci va di banalizzare argomenti complessi. Una domanda però vogliamo e dobbiamo porla: come custodire valori inalienabili (es. diritti della persona che lavora) in un mondo dove tecniche e processi produttivi ridefiniscono (auto)percezione, possibilità ed esperienza complessiva delle persone? ❑ Enzo Bianchi Ogni cosa alla sua stagione. Einaudi, Torino 2010, pp. 128 Il cuore e la penna di Enzo Bianchi ci regalano un nuovo volume, una raccolta delicata e suggestiva di ricordi di un’intera vita. Profumi, colori, musiche si mescolano nel caleidoscopio della memoria e compongono un libro capace di confermare i due motivi per i quali, a mio giudizio, la parola del Priore di Bose continua ad essere ascoltata con profondo rispetto dai credenti e la sua figura molto apprezzata anche da chi non crede. Una Chiesa esperta di umanità: è questo il volto della Sposa di Cristo che Enzo Bianchi sa raccontare al mondo di oggi con semplicità e coerenza. Con maestria. Dalla sua cella egli osserva il tempo che scorre e le stagioni del mondo che si alternano. E tuttavia, sotto il cielo della solitudine, invita al silenzio, alla conoscenza di sé, ma anche all’ascolto reciproco della vita, in un sussurro eloquente che ne colga le tonalità intime. E, appunto, la vita: Enzo Bianchi sa comunicare la bellezza, la fecondità, la maturità e la pienezza di una vita, anzi, della vita cristiana. All’acidità dei giudizi morali, alla severità delle condanne e delle prescrizioni, al fervore talora scomposto delle proposte pastorali, Bianchi predilige la serenità di una pagina di vita che suggerisca il ritaglio di un luogo altro dentro se stessi, che ridesti il senso profondo della convivialità e dell’amicizia, che sproni ad «esercitarsi a pensare in grande, all’amare contemplando l’amore di cui siamo oggetto e l’amore che può sbocciare dal nostro cuore». Un’intelligenza delle cose che sgorga dalla vita di fede e dalla compagnia della Parola: ecco il sapore della spiritualità dell’autore, il motivo della freschezza che sempre contraddistingue le sue meditazioni. Tiziano Torresi Anselmo Palini Sui sentieri della profezia. I rapporti fra G.B. Montini-Paolo VI e Primo Mazzolari Messaggero, Padova 2010, pp. 152 Protagonisti di questo testo sono Giovanni Battista Montini e Primo Mazzolari, due figure che hanno segnato significativamente la storia della Chiesa e della società italiana del Novecento. Nel testo, superando la spesso sterile contrapposizione tra autorità e profezia, vengono entrambi presentati come profeti, in quanto, al di là dei momenti di tensione e frizione, animati dall’amore per Cristo, per il suo vangelo, per la Chiesa e per l’uomo, hanno saputo indicare strade nuove alla Chiesa e alla società. L’autore evidenzia da un lato quanto li ha accomunati: vissuti entrambi nella provincia bresciana frequentarono, a volte, le stesse persone, gli stessi ambienti, collaborarono nella Fuci e nel Movimento dei laureati cattolici, furono impegnati nelle settimane di Camaldoli. Significative la comune avversione al fascismo e le riserve sul Concordato. Scrive Mazzolari: «Il paganesimo ritorna e ci fa la carezza e pochi ne sentono vergogna... La Chiesa non ha bisogno di privilegi ma di libertà»; Montini nel 1958, parlando ai giovani riconosce: «Abbiamo passato un ventennio, in cui non era possibile pensare e, soprattutto, esprimere». D’altro canto, non sorvola sui motivi di contrasto tra don Mazzolari e Montini, diventato cardinale di Milano, sorti, ad esempio, quando don Mazzolari scrisse, insieme ad altri sacerdoti, la «Lettera ai vescovi della Val Padana», per sollecitarli ad intervenire a favore dei braccianti e dei piccoli contadini e sul periodico «Adesso» denunciò l’immobilismo ecclesiale di fronte alle grandi questioni sociali del tempo. Contrasti che non interrompono il dialogo e l’ascolto, nella comune tensione alla fedeltà evangelica e nello spirito di servizio. Infatti, in occasione della missione di Milano del 1957, l’arcivescovo Montini invitò don Mazzolari a predicare a Milano, facendosi garante col Sant’Uffizio che gli aveva proibito la predicazione al di fuori della parrocchia di Bozzolo. Lo stesso papa Giovanni XXIII, nel 1959, durante un’udienza, accoglie don Mazzolari dicendo: «Ecco la tromba dello Spirito Santo in Val Padana». Infine, nel 1970 Montini, diventato Paolo VI, riconosce pubblicamente la statura profetica di don Mazzolari, affermando: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tener dietro». Bartolomeo Mainardi Jürgen Moltmann Vasto spazio. Storia di una vita Queriniana, Brescia 2010, pp. 472 Non una semplice autobiografia. Il percorso, piuttosto, di una vita dedita alla ricerca dove la figura dell’autorevole teologo tedesco rappresenta una sorta di perno teoretico-pratico, un crocevia di idee e un terreno di riflessioni aperte su cui è possibile misurare la cifra essenziale di buona parte del pensiero del Novecento. Il «vasto spazio» del titolo è evocativo (cfr. Salmo 31,9: «Hai guidato i miei passi nel vasto spazio»), ma al tempo stesso significativo per far intuire l’ampiezza del raggio d’azione della ricerca moltmanniana. La Germania che crolla, il tragico della Seconda guerra mondiale che miete vittime e acceca gli uomini, l’esperienza della morte di un amico e il senso dell’essere e del vivere da sopravvissuti, le privazioni degli anni della prigionia; ma anche la scoperta del cristianesimo (specie quello delle origini, cui rimanda anche un Feuerbach), tra l’altro in un contesto familiare di tradizione laica, poi le letture teologiche, i numerosi libri e le varie docenze; ancora, la denuncia delle ingiustizie, l’energia sprigionata da quella speranza maturata anche grazie al dialogo con Ernst Bloch, e – forse più di tutto – l’invocazione di un Dio chiamato a fare i conti con la violenza e il male non dall’alto della volta celeste, bensì gomito a gomito con l’uomo: tornano in mente le scritte sui muri di Auschwitz e alcune suggestioni levinasiane... Proprio con Bloch, e grazie a Bloch, Moltmann può realizzare una rivoluzione epocale all’interno della storia del pensiero teologico: una rivoluzione che si chiama apertura (o riapertura) del cristianesimo. Non deve stupire più di tanto, d’altra parte, che tale rivoluzione pratico-speculativa abbia avuto origine in virtù di un dialogo intessuto tra un credente e un ateo. I quali, in realtà, incarnano entrambi quella ricerca e quell’interrogativo che si sostanziano appunto come proiettati verso l’orizzonte della speranza. Tutti i luoghi, le categorie e gli ‘azzardi’ speculativi sopra richiamati animano la storia di Moltmann, che appunto è la storia del XX secolo occidentale, in un caleidoscopio di immagini e percezioni e interpretazioni che offrono l’opportunità di muoversi in un davvero vasto spazio, anzi vastissimo, senza perdersi. Un aggettivo per la prospettiva di Moltmann? Radicale. Giuseppe Moscati 61 ROCCA 15 APRILE 2011 LIBRI paesi in primo piano Carlo Timio Norvegia ROCCA 15 APRILE 2011 S tato dell’Europa settentrionale, facente parte dei paesi scandinavi, la Norvegia è il Paese più a nord d’Europa. È delimitato a est dalla Svezia, a nord-est dalla Finlandia e dalla Russia, a ovest si affaccia sul mar di Norvegia e a sud sul mar del Nord. Sono comprese anche alcune isole nelle vicinanze del Polo Nord, delle coste della Groenlandia e dell’Antartide. Quando i vichinghi giunsero in questo territorio, cominciarono a unificare piccoli regni, dando inizio a un periodo di espansione e conquistando anche la Groenlandia e l’Islanda. Con il re Olav Haraldsson, agli inizi del XI secolo, venne introdotto il cristianesimo. Nel 1380 il Paese venne annesso alla Danimarca e alla Norvegia, andando a formare l’Unione di Kalmar. Ma in seguito a un conflitto, nel 1523 la Svezia ne uscì. Quando nel 1814 la Svezia attaccò la Danimarca, sconfiggendola, questa fu costretta a cedere la Norvegia, che passò così sotto l’influenza svedese. L’indipendenza fu proclamata nel 1905; venne scelta la monarchia come forma di stato e come primo re fu incoronato Haakon VII. Nel corso delle due guerre mondiali la Norvegia rimase neutrale, ma l’occupazione nazista del Paese nel 1940 costrinse il governo di Oslo ad andare in esilio a Londra. Nel 1945, con l’aiuto di Francia e Gran Bretagna, un attivo movimento di resistenza riuscì a sconfiggere i tedeschi, permettendo al re di rientrare nel suo Paese. A partire dagli anni Settanta, 62 la massiccia presenza di giacimenti petroliferi e di gas, determinò una forte spinta del reddito nazionale verso l’alto, trasformando così la Norvegia in uno dei paesi con standard di vita più elevati del mondo. Nel 1994, con un referendum nazionale, emerse la storica inclinazione della popolazione a non voler aderire all’Unione europea. Tuttavia, in seguito all’allargamento dell’Ue nel maggio 2004, sembra che ci sia un’inversione di tendenza nelle preferenze dei cittadini, la maggior parte dei quali aderirebbe all’Unione europea. Una coalizione composta da Partito laburista, Socialisti e Partito di Centro, nel 2005, ha vinto le elezioni politiche. La stessa coalizione guidata da Jens Stoltenberg, è stata riconfermata nella tornata elettorale del 2009. Nonostante la vittoria del centrosinistra, i conservatori appartenenti alla coalizione di centro-destra, hanno guadagnato svariati seggi. Popolazione: il numero complessivo di abitanti si aggira intorno ai quattro milioni e mezzo di unità. La maggioranza della popolazione appartiene all’etnia norvegese. La minoranza più consistente è quella dei sami che, per esempio, nella città di Kautokeino, arrivano quasi al settanta per cento. I finlandesi sono maggiormente presenti al nord. Oslo, la capitale, è invece un coacervo di etnie, formato da lapponi, svedesi, danesi, irakeni e pakistani, tutti ben integrati tra di loro. Il buon livello di interazione e integrazione è dovuto alle politiche governative degli anni Ottanta, che miravano a mantenere l’iden- tità culturale e linguistica degli immigrati, fornendo, nel contempo, sostegno in termini di lavoro e apprendimento della lingua nazionale. A parte la lingua ufficiale che è il norvegese, la popolazione di fatto comprende anche il danese e lo svedese, grazie alla somiglianza tra le tre lingue. Inoltre, più del settanta per cento della popolazione parla fluentemente l’inglese. Dopo la conversione al cristianesimo avvenuta oltre un millennio fa, che impedì di praticare altri culti e confessioni, la quasi totalità della popolazione appartiene alla religione evangelico-luterana, che è anche di Stato. Esistono tuttavia piccole minoranze di cattolici, musulmani, buddhisti, a fronte di circa un sei per cento che si confessa ateo e agnostico. Economia: la Norvegia, in poco meno di un secolo, è passata da Paese di pescatori a secondo Stato più ricco del mondo per Pil procapite. La grande espansione economica è dovuta essenzialmente allo sfruttamento delle risorse naturali (petrolio e gas), all’esportazione di materie prime, tra cui il legno, il pesce e minerali e alla produzione di energia elettrica. Il Paese è il settimo esportatore di petrolio al mondo in proporzione al numero di barili esportati al giorno. Inoltre, l’elevata ricerca nel campo della tecnologia dell’informazione e delle telecomunicazioni, ha contribuito a rendere il Paese una delle nazioni più avanzate anche per indice di sviluppo umano. In rapporto alla popolazione, il Paese registra il più alto numero di rocca schede milionari. Si stima che ogni ottantasei cittadini, ce ne sia uno con un reddito superiore al milione di dollari. La qualità della vita è tra le migliori sul pianeta per una serie di motivi: condizioni generali di salute, aspettative di vita, parità tra i sessi, rispetto dell’ambiente, sicurezza sul lavoro, presenza di infrastrutture e reddito. Questo insieme di elementi rende il tenore di vita dei norvegesi tra i più elevati al mondo. Da un punto di vista macroeconomico, l’economia si base per un cinquanta per cento sulle esportazioni. Anche il mare ha da sempre contribuito a fare la sua parte, facilitando lo sviluppo del Paese sia per le importanti risorse che offre, sia perché ha permesso di perfezionare il settore della navigazione e il trasporto di materie prime. Anche il turismo è in crescita, divenendo in poco tempo un’industria in forte espansione. L’industria edile, delle costruzioni e del design riscuote notevoli successi anche a livello internazionale. La politica economica norvegese è sempre stata un mix di capitalismo e statalismo. Da un lato concorrenza e libero mercato e dall’altro presenza di uno Stato interventista che, oltre a essere piuttosto generoso in termini di servizi gratuiti offerti ai cittadini, possiede anche considerevoli partecipazioni azionarie in aziende nazionali. Situazione politica e relazioni internazionali: dopo il secondo conflitto mondiale il Paese rimase neutrale finché, nel 1949, entrò nella Nato. Il governo, ormai da anni, sta investendo molto sulla difesa e sulla sicurezza, attraverso la ristrutturazione delle forze armate, al fine di aumentare la cooperazione internazionale. Nelle operazioni multinazionali, infatti, l’intervento delle Norvegia è sempre più richiesto. ❑ Fraternità raccontare proporre chiedere i Progetti: a che punto siamo? Brevi dal Perù Dalla telefonata giunta nei giorni scorsi da Suor Anna, che ringrazia per il contributo di 10.500 dollari donato dai benefattori di Fraternità, riceviamo un aggiornamento sullo stato dei lavori intorno al «blocco sanitario» nella Scuola delle Suore Salesiane alla Cité Militaire: anche la sistemazione dei locali interni è stata completata. Le bambine/ragazze possono utilizzare i gabinetti (e l’uso stesso dello sciacquone è stato per loro una scoperta), lavarsi ai lavandini e anche farsi la doccia ... e le educatrici faticano non poco a contenere il loro entusiasmo a fronte di un’acqua abbondante e comoda, subito disponibile tirando una catenella o girando una manopola. Abituate a fare la fila con il secchio o la tanica quando arriva l’autobotte o a raccogliere e conservare l’acqua piovana, sono stupite e felici per questa «comodità». Suor Anna fa sapere che i tecnici sono tuttora impegnati nel mettere a punto il funzionamento continuo della pompa dell’acqua, che viene alimentata da pannelli fotovoltaici. Chiquian. Suor Dora Chavez scrive, nella lettera partita ai primi di marzo, alcune notizie aggiornate sulle attività delle bambine e preadolescenti che vivono nell’Hogar San Vicente de’ Pauli. Durante le vacanze estive (che in Perù corrispondono al nostro periodo invernale), per aiutare la conduzione dell’Hogar, le ragazze hanno proposto di aumentare il numero di porcellini d’India (i cui) che già accudivano e di iniziare l’allevamento di alcuni maiali. Se per crescere i primi è sufficiente rifornirli di erbe (cosa che comunque non è semplice, visto che per procurarsele devono salire, superando un dislivello di 500 metri, alla puna, l’altopiano che si trova a oltre 4000 metri), per i maiali è notevole la quantità e la varietà di cibo da reperire ogni giorno. Le ragazze scendono nel centro del paese, domandano ai piccoli ristoranti di poter raccogliere gli scarti di cibo, che poi si caricano su un triciclo e portano agli animali. Nel loro laboratorio di sartoria, continuano poi a creare artigianalmente lavori di cucito e ricamo. Per risparmiare nell’acquisto delle stoffe, si sono rivolte ad una fabbrica di abbigliamento chiedendo – e ottenendo – di poter raccogliere gratuitamente quei ritagli di tela e stoffa, accantonati come scarti di confezionamento. Nelle mani delle ragazze i ritagli si trasformano in abitini per bambole, inserti di cuscini e coperte, trecce di cholitas... e una macchina ricamatrice e una impunturatrice, che faciliterebbero il lavoro, costano complessivamente e 5900. Le offerte finora pervenute a Fraternità per questo Progetto arrivano a 4.050 euro. Amici di Fraternità possiamo aiutare Suor Dora e le» sue» ragazze a raggiungere l’obiettivo? Brevi dalla Guinea Conakry Il miglioramento della situazione generale in Guinea Conakry, dopo lo svolgimento delle votazioni presidenziali dello scorso dicembre con l’elezione di Alpha Condè, storico oppositore di tutte le dittature succedutesi nel Paese dal 1958, anno dell’indipendenza dalla Francia, fa ben sperare nella possibilità di modificare le condizioni di democrazia politica e di vita stessa dei popoli guineani. Alpha Condé ha dichiarato di voler essere uomo del cambiamento al servizio di una Guinea riconciliata, sottolineando che «la Guinea è da costruire, non da ricostruire», poichè metà della sua popolazione vive nella povertà e, nonostante la ricchezza di risorse naturali e le possibilità agricole, il 70% della sua gente vive con meno di un dollaro al giorno. Nel villaggio di Sankama (600 Km a nord della capitale), in una zona rurale con altissimo tasso di analfabetismo, l’intervento dell’italiana Associazione Ritmi Urbani ha costruito un edificio scolastico, frequentato da una novantina di alunni. Se la scuola verrà completata con la costruzione di latrine esterne, il rifornimento alla mensa scolastica del riso (cibo-base) sarà garantito dal Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, che interviene nelle zone di «insicurezza alimentare» ma solo se la scuola rispetta alcuni definiti parametri, tra cui l’esistenza dei servizi igienici. Per costruirli la spesa si aggira sui 4mila euro. I contributi finora raccolti da Fraternità raggiungono i 2.800 euro. Amici di Fraternità, possiamo contribuire a completare la scuola di Sankama? Luigina Morsolin Si possono inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o tramite il ccp 10635068 Coordinate: Codice IBAN: IT76J 0760103 0000 0001 0635 068 intestato a Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi.Per comunicazioni, indirizzo e-mail: [email protected] 63 . ROCCA 15 APRILE 2011 Brevi da Haiti 2010 TUTTA Rocca 2010 cioè quasi 1500 pagine spessore 5 mm la comodità di trovare nel CD-rom i 23 NUMERI integrali dell’anno gli INDICI per numero per autore per rubrica per tematiche principali uno strumento funzionale per l’informazione la ricerca lo studio la documentazione TUTTA ROCCA con € 15,00 spedizione compresa PUOI SCEGLIERE IN OMAGGIO IL CD ROM SE DONI O PROCURI UN NUOVO ABBONAMENTO ANNUALE Sono disponibili i CD-ROM 2004-2005-2006-2007-2008-2009 € 10,00 ciascuno spedizione compresa richiedere a Rocca ccp 15157068 o con bonifico bancario (vedi p. 4) DCOER0874 con un click cerchi un autore scegli un articolo stampi quello che ti serve