Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
70
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 1, DCB Perugia
€ 2.70
08
15 aprile 2011
federalismo
il governo
delle regioni
Libia
il ruolo delle
tribù
Parmalat
la posta in gioco
il declinante
fascino
della laurea
energia
nucleare sì, nucleare no
pianeta coppia
lei e lei, lui e lui
la religione
civile e politica
in vari contesti
Lega Nord
chi comanda
in Italia
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
far conoscere
Rocca
in modo “leggero”
ma completo?
passa ad un amico
i 5 mm di spessore del Cd rom Rocca 2010
perché con un click
spaziando
di articolo
in articolo
possa visionare
tutta un’annata
e si inserisca
nella rete degli abbonati di
Rocca
Rocca
sommario
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15 aprile
2011
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Ci scrivono i lettori
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Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
La monomania della guerra
Maurizio Salvi
Libia
Il ruolo delle tribù
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
I nostri creditori
Ritanna Armeni
Lega Nord
Chi comanda in Italia
Francesco Saverio Festa
Federalismo
Il governo delle regioni
Roberta Carlini
Parmalat
La posta in gioco
Oliviero Motta
Terre di vetro
Il contapassi
Tonio Dell’Olio
Camineiro
L’ora legale
Pietro Greco
Ugo Leone
Energia
Nucleare sì, nucleare no
Inserto
Fiorella Farinelli
Calo matricole
Il declinante fascino della laurea
Rosella De Leonibus
Pianeta coppia
Lei e lei, lui e lui
Vincenzo Andraous
Tempi di guerra
Far West
Marco Gallizioli
Fondamentalismo
La religione civile e politica in vari contesti
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Paul Grice
Il discorso cooperativo
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Giuseppe Moscati
Nuova Antologia
Gilbert Keith Chesterton
Un grande antropologo della letteratura
Filippo Gentiloni
Vizi&virtù
Arturo Paoli
Amorizzare il mondo
Sete di contemplazione
Carlo Molari
Teologia
Il Gesù di Ratzinger e l’espiazione
Lidia Maggi
Giobbe
Fuori luogo
Paolo Vecchi
Cinema
Sorelle Mai
Roberto Carusi
Teatro
C’è modo... e moda
Renzo Salvi
Rf&Tv
Tramate con noi
Mariano Apa
Arte
Wojtyla
Alberto Pellegrino
Spettacoli
A Roma un grande Nabucco
Ernesto Luzi
Spettacoli
Fondazione Pergolesi Spontini
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Crowdsourcing: sfide e ambiguità
Libri
Carlo Timio
Rocca Schede
Paesi in primo piano
Norvegia
Luigina Morsolin
Fraternità
I Progetti: a che punto siamo?
ci scrivonoi lettori
Le solite Poste
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 8 – 15 aprile 2011
70
ANNO
Gruppo di redazione
GINO BULLA
CLAUDIA MAZZETTI
ANNA PORTOGHESE
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ROCCA 15 APRILE 2011
Spedizione in abbonamento postale 50%
Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c.
Selci-Lama Sangiustino (Pg)
Responsabile per la legge: Gesuino Bulla
Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948
Numero di iscrizione al ROC: 5196
Codice fiscale e P. Iva: 00164990541
Editore: Pro Civitate Christiana
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 02/04/2011 e spedito da
Città di Castello il 05/04/2011
4
Sono felice abbonata, scrivo per segnalare anche a
nome di Marina Buda, anche lei abbonata soddisfatta, che il n. 6 della rivista
(spedito da voi l’8 marzo)
ci è giunto rispettivamente il 28 e 29 marzo.
L’astinenza da letture significanti è pesante!
Sappiamo che non dipende da Voi, ma reclamate
con chi è responsabile di
questo disservizio.
Grazie per il Vostro impegno che ci aiuta a discernere in questi tempi oscuri e tempestosi,
Antonietta Del Brocco
Roma
Lo facciamo continuamente con le Poste Centrali.
Ma è ancora più utile reclamare con il proprio
Ufficio postale da cui
spesso dipende il ritardo
nella distribuzione locale.
Un passo falso
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Egregi amici, disappunto o
sgomento che sia, non riesco a trovare su Rocca una
mia lettera aperta trasmessa il 19 ottobre nell’immediato seguito della Settimana sociale di Reggio Calabria. Mi era sembrato giusto, allora, sollevare alcuni
quesiti: A) un mancato
messaggio finale al Paese,
che poteva essere prosecuzione delle sollecitatrici
parole del card. Bagnasco
(«... Ai cattolici con doti di
mente e di cuore... A loro
diciamo di buttarsi nell’agone... ecc.») rimpiazzato dal «burocratico» annuncio tramite Avvenire del
prof. Diotallevi che il comitato scientifico pubblicherà gli atti della Settimana;
B) Il silenzio assoluto della
stampa nazionale; C) Il suggerimento all’alta sovrintendenza di inoltrarsi con
metodo inventivo anche in
un «viceversa», un dialogo
con il laicato nazionale
CI SCRIVONO I LETTORI
Giorgio Grigolli
Trento
Non abbiamo ricevuto
comunicati significativi
al termine della Settimana Sociale dei cattolici di
Reggio Calabria. È uscita solo ora «un’agenda di
speranza per il futuro del
Paese», presentata dai
vescovi a conclusione
della suddetta Settimana.
Ne ha scritto Raniero La
Valle nel n. 7.
17 marzo 2011
Ho provato una forte emozione nel vedere alla televisione la partenza dei nostri aerei per una azione di
guerra.
Credevo, alla mia avanzata età di oltre ottanta anni,
di non assistere più a «fatti» bellici.
Quando sono nato nel
1928 ho trascorso i primi
anni presso i nonni paterni che nel 1913 andarono
a Tripoli a portare i primi
segni della civiltà. Il nonno fu il primo capostazione delle Ferrovie dello Stato a Tripoli, e avevano un
ricordo positivo di quegli
anni trascorsi nella «quarta sponda».
Dopo ho assistito, attraverso la radio, alla guerra in
Etiopia e ho segnato sulla
carta geografica di quel paese lontano con le bandierine l’avanzata delle nostre
truppe fino a Addis Abeba
e alla proclamazione dell’Impero.
Nel 1939 ho assistito, sempre attraverso la radio, alla
dichiarazione di guerra
contro le nazioni «demoplutocratiche» e ho seguito tutte le fasi attraverso il
bollettino di guerra delle
ore 13 trasmesso dalla radio.
L’otto settembre 1943 fu
un giorno triste mentre le
campane suonavano a
stormo. L’armistizio.
La Liberazione da parte
degli angloamericani fu celebrata come speranza di
non più guerre.
La Costituzione del 1948
all’art. 11 dichiara che l’Italia ripudia la guerra.
Ci ho creduto.
E da allora, quando ho assistito a Livorno – città che
conserva il nome di Tripoli, Bengasi, Misurata e Derna, come targhe stradali –
alla partenza delle nostre
truppe verso la Somalia e
al ritorno dal Libano «in
missione di pace» mi sono
commosso così come mi
commossi quando a Kindu
gli aviatori della 46a aereobrigata di Pisa furono trucidati da quelle popolazioni che non avevano capito
il valore della loro missione di pace. Poi i caduti in
missione di pace sono stati parecchi, troppi.
Negli ultimi trenta anni
quando ho avuto occasione, ho organizzato concorsi di disegno, aventi come
tema La pace, nelle scuole
contribuendo a far crescere le nuove generazioni nel
rispetto della vita e della
tolleranza soprattutto. E la
bandiera della pace spesso
si affiancava a quella nazionale.
Oggi, 17 marzo 2011 ore
17, 45 nostri aerei decollano per bombardare.
Non mi ha assolutamente
convinto il Presidente della
Repubblica.
Resto convinto che l’art. 11
non sia stato rispettato.
Mario Lorenzini
Livorno
Libia che fare?
«Sembra che la capacità di
ragionare ci sia venuta
meno», scriveva Rossana
Rossanda sul Manifesto del
20 marzo.
Non solo, ci viene meno anche la forza e la capacità di
agire.
Gli avvenimenti sono così
repentini, così violenti, così
mediaticamente predeterminati e necessitati che noi,
semplici cittadini, restiamo
schiacciati dall’«evento», inchiodati alla nostra impotenza, e, nel caso della Libia, strattonati tra opposte
sponde. Ho comunque l’impressione che noi ci si ritrovi sempre di fronte a dei
nodi intrigati e complessi
che la politica sporca dell’interesse ha nel tempo costruito e solo la spada, a breve
termine, può sciogliere,
magari costruendone altri e
peggiori.
Quando ci si domanda sul
«che fare?» è sempre troppo tardi. I problemi, purtroppo, si propongono o si
impongono sempre quando
sono già diventati cancrenosi. Purtroppo «si affrontano
le questioni quando diventano insolubili» denuncia
Gino Strada nell’intervista
che vi allego e, aggiunge, la
guerra rischia di diventare
una necessità «quando non
si fa nulla per anni, anzi per
decenni»!
Leggo su un giornale locale: È bufera sulla trasmissione Forum, condotta da Rita
Dalla Chiesa, dopo che nella puntata di venerdì una
finta terremotata aquilana
ha raccontato davanti a milioni di telespettatori che
«L’Aquila è stata ricostruita», «Ci sono case con giardini e garage», «La vita è ricominciata», e «Chi si lamenta lo fa per mangiare e
dormire gratis».
La donna, Marina Villa, 50
anni, abruzzese, è stata pagata 300 euro per interpretare una finta terremotata
che sta per separarsi dal
marito Gualtiero. Durante
la trasmissione ha raccontato in Tv che «durante il
terremoto sembrava la fine
del mondo» ma adesso tutto è tornato alla normalità
e chi sta ancora in hotel ci
sta «a spese dello Stato:
mangiano, bevono e non
pagano, pure io ci vorrei
andare». Poi ha ringraziato il presidente del Consiglio, il governo e il capo
della Protezione civile,
Guido Bertolaso.
Lottiamo e speriamo per
tempi migliori.
Aldo Antonelli
Antrosano (Aq)
La guerra
e il Vangelo
Scrivo in merito alla guerra che si sta consumando
sul territorio libico in questi giorni ed al comportamento e posizioni della gerarchia della chiesa italiana che stanno maturando.
Ho detto posizioni, ma
contrariamente a tutti gli
interventi sulla situazione
italiana politica e non sulla quale vengono quotidianamente fatti, più o meno
indebitamente, saccenti
interventi, su questo tema
basilare viene glissato con
un semplice «speriamo
duri poco» e di «si rispettino i civili» senza prendere una posizione, che a mio
parere dovrebbe essere
non diplomatica o di convenienza, ma chiara presa
di distanza da qualunque
intervento armato, anche
diretto a «nobili» fini.
Sono innanzitutto un credente nel messaggio evangelico e sono anche cristiano e cattolico romano (credo fermamente alla successione apostolica) e la mia
crisi di coscienza nel constatare questo comportamento di fronte ad un fatto, questo sì «non negoziabile», diviene fortissima.
ROCCA 15 APRILE 2011
(una tavola rotonda nella
Settimana, «come noi (laici) vediamo voi (cattolici)»;
D) Un qualche ripensamento per «consegnare» a un
laico eminente la presidenza della Settimana, fin qui
stabilizzata sulla presidenza (meritoria ecc.) di un vescovo.
Mi sembravano spunti di
confronto. La Settimana la
vedo confinata adesso in
una considerazione occasionale (per quanto condivisibile) di Giancarlo Zizola nel numero del 15 novembre. Mi sembra in sé
poco comprensibile che
Rocca, come tale, non abbia dedicato un titolo riepilogativo di analisi alla
Settimana in quanto tale.
Segnalo il punto di vista.
Senza chiedere peraltro
pubblicazione. È una seconda o terza volta. Assicuro, tuttavia, che da
«scrittore» persisterò cordialmente in «lettore».
5
CI SCRIVONO I LETTORI
Giovanni Paolo II condannò senza indugio l’intervento in Iraq.
Perché in questo caso non
si fa altrettanto? Il Tg1 di
questa sera (20/3) ha citato il card. Bagnasco che
avrebbe detto, durante una
liturgia, che il Vangelo
chiede di intervenire. Forse in Liguria è adottato un
vangelo diverso ma mi
sembra una aberrazione.
Un’affermazione di chi
oramai è talmente impastato di contiguità con il
potere che non può più
permettersi di gridare con
libertà quello che veramente il Vangelo dice e
chiede a ciascuno. No alla
violenza. Allora perché la
teologia della liberazione è
considerata eretica?
Si dice che c’è un dittatore
e per i diritti umani si deve
intervenire per mandarlo
via ed instaurare uno Stato diverso.
Ma se questo discorso già è
poco e male sostenibile sotto l’aspetto laico può al limite essere sostenuto dal
Presidente della Repubblica o dai politici, ma che
centra con il Vangelo? Ed i
vescovi non devono parlare con il Vangelo in mano?
Se i popoli tunisini, egiziani e speriamo altri riusciranno a liberarsi dei loro
tiranni, dovremo aiutarli
nel loro processo di costruzione di una nuova società, come loro la vorranno e
non come noi la vorremmo.
Se di conseguenza invece
il popolo libico non riuscirà in questa occasione a
fare altrettanto, perché evidentemente una grossa fetta di popolazione sta da
un’altra parte, dovrà attendere un’altra opportunità,
ma deve dipendere sempre
da loro stessi, dovranno
farcela da sé.
ROCCA 15 APRILE 2011
Paolo Barbieri
Vaiano (Po)
Illusi?
Ma almeno sinceri
Siamo abituati da tanto
tempo a condividere con figli, nipoti, amici, piccole
6
comunità di cui facciamo
parte, gli avvenimenti personali, locali, e universali
che viviamo nella Chiesa e
nel mondo.
Da parecchio tempo, e in
questo periodo molto di più,
viviamo davvero con angoscia il fatto di avere un capo
di governo che non sa più
cosa fare per squalificarsi,
per confermarci quello che
aveva detto di lui la ormai
ex seconda moglie. «È un
uomo malato, frequenta le
minorenni...» ecc. ecc. A 73
anni, nonno, è talmente
malato che ha dichiarato
alla televisione e alla stampa: «A me piacciono le donne; non ho nessuna intenzione di cambiare vita».
Di fronte a Dio e agli uomini onesti, non lo salva neanche il pentimento, perché
non lo invoca. Quello che ci
angoscia di più è che molti
capi della gerarchia attuale
della nostra Chiesa cattolica, bene o male, più palesemente, o meno, continuano
a sostenerlo, non solo lui,
ma tutta la sua cricca, Lega
Nord compresa, xenofoba e
razzista.
Quel «Che piacere incontrarla!» lo vorremmo cancellare, ma è difficile.
Capiamo benissimo che
come interessi materiali
abbiate molto da guadagnarci, ma non in termini di
credibilità. Ci viene seriamente da chiederci: «ma
queste persone credono
davvero in Dio, nel Suo Regno, in Gesù di Nazareth,
nel suo Vangelo che predicano, o di Dio e di Gesù se
ne servono per costruirsi il
loro regno qui?». E siamo
ancora più preoccupati e indignati, perché in non pochi avete operato per eliminare dalla scena politica un
uomo come Romano Prodi
che almeno ci ha dimostrato serietà e coerenza, che
agli attuali governanti manca del tutto e anche sfacciatamente.
E non vi lamentate poi se in
molti lasciano la Chiesa cattolica, domandatevi piuttosto se non sia l’ora di cambiare strada, oppure di lasciare ai veri credenti in
Gesù di Nazareth e nel suo
Vangelo la guida del Vaticano, anche a costo di impoverirlo materialmente, facendo memoria che ogni
ricchezza puzza di ingiustizia...
Vale per la mia, la nostra, e
la vostra.
Lo sentiamo «anche» un
dovere informarvi dal vero,
lo sdegno che proviamo di
fronte ad avvenimenti nauseanti e che fanno riflettere
a molti di noi se sia ancora
il caso di impegnarci con
voi, o di lasciarvi andare per
la vostra e loro strada; e noi
cercare la nostra con fratelli impegnati nella costruzione «del Regno, che non è di
questo mondo».
Ci considerate degli illusi?
Ma almeno sinceri.
Luigi Gallino
Genova
Nonviolenza
La celebrazione del 50° anniversario della Marcia per
la pace Perugia-Assisi è una
grande occasione per riflettere su quella straordinaria
iniziativa e sull’energia che
ha generato e per riscoprire
la figura e il messaggio di
Aldo Capitini. Nonviolenza
è la prima delle sette parole
che abbiamo posto al centro del percorso che ci porterà alla Marcia PerugiaAssisi del 25 settembre
2011. Una parola e un valore che abbiamo bisogno di
riscoprire, rivalutare e ricollocare nella nostra vita
come nella società. «La nonviolenza è il punto della tensione più profonda tesa al
sovvertimento di una società inadeguata» (Aldo Capitini). Con questo spirito, la
Tavola della pace e il Movimento Nonviolento lavoreranno insieme per organizzare la prossima Marcia Perugia-Assisi per la pace e la
fratellanza dei popoli, per
fare in modo che possa essere la più larga, popolare e
aperta a tutti e per riproporre la straordinaria attualità
e urgenza della nonviolen-
za. «La nonviolenza è per
l’Italia e per tutti via di
uscita dalla difesa di posizioni insufficienti, strumento di liberazione, prova suprema di amore, varco a uomo, società e realtà
migliori» (Aldo Capitini).
Tavola della Pace
Perugia
Movimento Nonviolento
Verona
Tatic Samuel
Ruiz
Alcuni veronesi l’hanno conosciuto. Con Pax Christi,
come risulta dalle parole di
Alberto Vitali e Tonio Dell’Olio (che riprendo per un
comunicato), aveva molta
sintonia. In questi giorni,
anche noi siamo tristi
come la selva Lacandona
dove i suoi alberi si inchinano per salutarlo. Mons.
Samuel Ruiz dormirà tra
la sua gente vivendo sempre nelle sue speranze e
nelle sue lotte nonviolente,
nella sua-nostra storia di
liberazione, nel nostro
cuore, nella gloria del Cristo risorto. Il vescovo Ruiz
era un uomo innamorato
della verità e la cercava
nelle case dei campesinos
e nelle comunità indigene
emarginate. Profeta umile
della pace, ha coordinato
lunghe e defatiganti mediazioni per «la riconciliazione nella verità e nella
giustizia». Per il suo popolo era soltanto «padreamico», uomo forte solo
della nonviolenza. «Per
questo un contadino lascerà cadere del mais nella
sua tomba. A cantare l’inno della vita scenderanno
dagli altopiani i zotil e itzeltal, si uniranno ai tojolabal, ai ch’ol e ai lacandoni per dirgli arrivederci».
Lo ricorderemo con gratitudine e affetto sviluppando a modo nostro il suo
spirito di quotidiana profezia. La pace cammina.
Sergio Paronetto
Verona
Brescia
perché
le religioni
a scuola?
Potenza
fare memoria
delle vittime
di tutte le mafie
Si svolge a Brescia, presso i
missionari saveriani, un convegno promosso dalla rivista
«Cem Mondialità», con il patrocinio dell’Università La Sapienza (Roma), per discutere
su «Perché le religioni a scuola?» Competenze, buone pratiche e laicità (9 aprile 2011).
Lo sfondo: il pluralismo religioso è lo scenario abituale
della nostra vita quotidiana e
sociale. Una condizione normale, per un paese europeo.
La scuola italiana, però, per
molti motivi, non riesce a
prenderne atto, e a rispondervi con efficaci azioni educative.
L’iniziativa ha l’obiettivo di rilanciare il dibattito sulle religioni a scuola, a partire da
quanto sostiene l’Osservatorio
nazionale per l’integrazione
degli alunni stranieri e l’educazione interculturale del Ministero della Pubblica Istruzione nel documento del 2007
«La via italiana alla scuola interculturale», in cui si parla
dell’opportunità «di allargare
lo sguardo degli alunni stessi
in chiave multireligiosa, consapevoli del pluralismo religioso che caratterizza le nostre società e le nostre istituzioni educative e della rilevanza della dimensione religiosa
in ambito interculturale». Il
tutto, sulla falsariga di quella
che, da un convegno bresciano di nove anni fa, fu definita
«l’ora delle religioni», sulla
base del metodo Bradford, in
una prospettiva a-confessionale e interculturale. In conclusione, viene diffusa la «Carta di Brescia», per stilare i
prossimi passi su cui sfidare
il mondo politico e le chiese
su questi argomenti. Tra i relatori: M. Dal Corso, C.C. Canta, M.L. Damini, G.M. Gillio,
M.C. Giorda, A. Jabbar, G. La
Torre, M. Menin, P. Naso, E.
Pace, F. Pajer, L. Pedrali, A.
Saggioro, B. Salvarani, G. Tacconi, A. Tosolini, G. Vertova.
19 marzo. Provenienti da tutta Italia, circa 80mila persone
sfilano sotto la pioggia a Potenza, alla marcia organizzata
dall’Associazione ‘Libera’ per
la celebrazione della 16° Giornata della Memoria e dell’Impegno. Il lungo corteo parte da
piazza Bologna, si snoda per
le vie del centro del capoluogo
lucano, si conclude a piazzale
Verrastro dove sul palco, in
tanti, si alternano nella lettura dei 900 nomi delle vittime
delle mafie. A iniziare, il fondatore di Emergency, Gino
Strada, seguìto dai familiari
delle vittime e da rappresentanti delle associazioni. Il presidente di Libera,don Luigi
Ciotti, invita a fronteggiare la
mafia «tutti i giorni, perché la
speranza e la libertà devono
essere impegno quotidiano».
Interpretando i sentimenti dei
presenti, aggiunge: «È un’emozione vedere gli occhi e lo
sguardo dei familiari delle vittime, giunti a Potenza da ogni
parte d’Italia e d’Europa. È importante che vi sia un giorno
all’anno in cui ricordiamo tutte le vittime». Poco prima sul
palco era salita anche la mamma di Elisa Claps, la studentessa potentina, ritrovata senza vita il 17 marzo 2010 dopo
17 anni di inutili ricerche, diventata un simbolo della volontà di riscatto di Potenza.
Non possono, poi, mancare
riferimenti all’attuale iter della «riforma» della giustizia.
Senza mezzi termini Don Ciotti grida: «Non si può parlare
di riforma ma di sequestro
della giustizia. Questo progetto indebolisce l’autonomia della magistratura. Non è possibile sottomettere l’indipendenza dei pubblici ministeri al potere politico. Dobbiamo dire
‘no’ alla cancellazione dell’articolo 101 della Costituzione
che deve rimanere uno dei capisaldi del nostro ordinamento. Dobbiamo difendere – conclude – l’indipendenza della
magistratura e l’uguaglianza
dei cittadini davanti alla legge».
Fuggiaschi
un figlio
venuto dal
mare
Il 27 marzo su un barcone di
disperati partiti dalla Libia,
vicino alle nostre coste è nato
un bambino (nella foto). Un
elicottero lo ha preso con sua
madre e lo ha posato sulla
nostra isola di Lampedusa. I
genitori, eritrei in fuga da una
vita impossibile, lo hanno
chiamato Yeabsera che nella
loro lingua significa «Dono di
Dio».
Ci sono centinaia di bambini
in fuga, tra i profughi, soli
perché i genitori sono morti
nel tragitto o non sono mai
partiti, affidandoli alle zattere, alla speranza di un futuro. Qualcuno, Concita De
Gregorio, ha chiesto che Yeabsera diventi subito cittadino italiano, con una legge ad
personam, naturalmente.
Questa persona è un essere
umano piccolo piccolo, una
gemma primaverile. La specificità della nostra vita umana è fatta di quel surplus di
«speranza» che permette di
impegnarsi in opere concrete, di non avere paura della
primavera.
ROCCA 15 APRILE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
7
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
Senegal/Mali
abbandono
delle mutilazioni
genitali
Sud Sudan
l’indipendenza
ha le sue
minacce
Unesco
il rapporto
mondiale
sull’istruzione
I rappresentanti di 89 villaggi
del Senegal e di 19 del Mali si
sono impegnati il 14 marzo ad
abbandonare la pratica dell’escissione genitale femminile. Lo hanno fatto nel corso di
una solenne cerimonia in una
zona dell’est Senegal al confine con il Mali.
Importante questa presa di responsabilità nei confronti dei
diritti femminili, anche per la
maniera con la quale si è assunta, quasi rituale. Si è voluto (crediamo intenzionalmente) evitare di dare una soluzione del problema solo dal punto di vista legislativo o medico, proprio perché le mutilazioni non sono una patologia
ma il risultato di credenze radicate nella coscienza individuale e collettiva dalle quali
non si può prescindere per una
comprensione della persona.
Si stima che in Africa il numero di donne che convivono con
una mutilazione genitale siano tra i 100 e i 140 milioni. Dati
gli attuali trend demografici,
possiamo calcolare che ogni
anno circa tre milioni di bambine si aggiungano a queste
statistiche.
Il referendum del 9 gennaio,
che ha stabilito a larghissima
maggioranza l’indipendenza
del Sud dal Nord del Sudan,
è stato una tappa importantissima. Ma ora, oltre al lavoro di mettere in piedi una nazione multiculturale e multireligiosa nell’uguaglianza e
nel rispetto reciproco, ci sono
problemi non più rinviabili
come la definizione dei confini con il Sudan del Nord, le
questioni del petrolio e dell’acqua.
Purtroppo i dirigenti del Sud
Sudan a fine marzo hanno
sospeso il dialogo con il governo di Kartum, accusando il
presidente Omar Al Bashir di
complottare per far cadere il
loro governo prima dell’indipendenza, prevista a luglio.
Pagan Amum, segretario generale del Movimento di Liberazione del Sud, ha detto di
avere le prove di un piano in
cui sono coinvolti i servizi segreti dell’esercito. Intanto, la
rivista Jeune Afrique parla di
attacchi nelll’Alto Nilo all’esercito sudista da parte di una
milizia ribelle, con almeno 30
morti.
I sistemi educativi in molti dei
paesi più poveri del mondo
stanno risentendo ora degli
effetti della crisi dell’economia
globale e delle guerre. È molto importante leggere il Rapporto Unesco «Education for
All - Global Monitoring Report», pubblicato il 19 gennaio, reperibile integralmente su
Internet. Sostiene che la crisi
potrebbe creare una generazione di bambini smarriti, le
cui opportunità nella vita saranno irrimediabilmente pregiudicate dal fallimento nella
tutela del loro diritto all’istruzione. Il Rapporto, oltre a ricordarci che la mortalità infantile nei 35 Paesi tormentati
dalle guerre è doppia rispetto
agli altri, che quelli esclusi dalle scuole sono il 42% dei 65 milioni di esclusi, ci dice chi sono
questi bambini e il perché siano stati lasciati indietro, mostrando, inoltre, come i costi
di una «Educazione per tutti»
siano molto più alti di quanto
era stato stimato precedentemente. Il Rapporto cerca e indica soluzioni concrete al brutto scenario.
Vaticano
il Papa e i lavoratori di Terni
ROCCA 15 APRILE 2011
Un appassionato discorso sul «vangelo del lavoro» è stato pronunciato da Benedetto XVI il 26 marzo agli ottomila partecipanti della Diocesi di Terni col loro Vescovo, nel 30° anniversario della visita di Giovanni Paolo II alle Acciaierie della città. Il Papa ha affrontato il tema della disoccupazione, della
precarietà giovanile, della piaga degli infortuni sul lavoro. Ha
auspicato che «nella logica della solidarietà» si possa superare
la crisi economica e «assicurare un lavoro» sicuro, dignitoso,
rispettoso della persona, anche perché «le difficili e precarie
condizioni del lavoro rendono difficili e precarie le condizioni
della società stessa». Il lavoro, ha soggiunto, «aiuta a essere
più vicini a Dio e agli altri». Gesù stesso « è stato un lavoratore, anzi ha passato buona parte della vita terrena a Nazaret,
nella bottega di Giuseppe». (Nella foto: S. Consadori, Gesù
divino lavoratore, Galleria d’Arte contemporanea della Pro
Civitate Christiana di Assisi).
8
notizie
seminari
&
convegni
Per la pubblicazione in questa rubrica
occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando
a: a.portoghese@
cittadella.org
Niger. Il 6 aprile è entrato in
carica il nuovo presidente nigeriano Mahamadou Issoufou, il primo civile a ricoprire
quest’incarico dal 1999. Ha
vinto le elezioni presidenziali
del 12 marzo col 57,95% dei
voti.
Stati Uniti. Il 9 marzo il governatore dell’Illinois Pat
Quinn ha firmato il decreto
che abolisce la pena di morte
nello Stato. Le esecuzioni erano state sospese nel 2000,
dopo che 12 persone erano
state condannate ingiustamente. L’Illinois è il 16° Stato
americano ad abolire la pena
capitale.
Norvegia. La signora Helga
Haugland Byfuglien, 60 anni,
vescova luterana, è stata nominata il 25 marzo a capo del-
la Conferenza episcopale della chiesa luterana di Norvegia.
Assumerà la nuova funzione
il 2 ottobre prossimo.
Botswana. La Corte d’Appellodel paese ha riconosciuto il
diritto all’acqua dei Boscimani del Kalahari, annullando la
sentenza del 2010 che negava
l’accesso all’acqua nelle loro
terre ancestrali. Il Governo è
stato ritenuto colpevole di
«trattamento umiliante»; il
caso è stato descritto come
«una storia straziate di sofferenza e disperazione umana».
(Survival International).
Roma. Voti quasi unanimi
alla Camera e al Senato per
l’istituzione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Dovrebbe tutelare in
particolare il rapporto tra de-
tenute madri e figli minori.
Kingston (Giamaica). Si
svolgerà a Kingston (Giamaica) dal 17 al 25 maggio una
nuova Convocazione Ecumenica Internazionale indetta
dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (World Council of
Churches), dedicata al tema
della Pace e intitolata «Gloria
a Dio e pace sulla terra».
L’obiettivo centrale del raduno è affermare insieme l’annuncio della Pace come cuore del Vangelo e la pratica della nonviolenza attiva come stile di vita di ogni cristiano, cercando di identificare e di superare le logiche di violenza
che segnano l’ esistenza e cercando di costruire percorsi
pastorali di supporto nella
vita delle Chiese.
28-29 aprile. Avigliana (To).
A trentacinque anni dall’approvazione della legge 685
sulla droga, il Gruppo Abele
invita a fare un bilancio dei
risultati conseguiti e dei problemi irrisolti, nell’intento di
valutare le letture, le politiche,
le strategie, gli interventi in un
convegno nazionale. La partecipazione è gratuita. Obbligatoria la prenotazione. Informazioni tel. 011 3841083; email: dipendenze consumi
@gruppoabele.org.
29 aprile-1° maggio. Camaldoli (Ar). Convegno nella Comunità monastica sul tema:
«Credere senza appartenere?
Quali forme di appartenenza
per la fede cristiana?». Informazioni: Foresteria del Monastero tel. 0575 556013, fax
0575 556001; e-mail:
[email protected]
1 maggio. Gioia del Colle
(Ba). Ultima giornata della
Rassegna espositiva fotografica «L’uomo e il mare» di Emanuele Savasta e Graziano Milano presso Associazione Culturale Spazio Uno Tre, Via
Barba 13, Gioia del Colle.
e-mail:
[email protected]
2-6 maggio. Magnano (Bi).
Presso il Monastero di Bose
Studium in francese sul tema
«I Padri della chiesa e la liturgia» col prof. François Cassingena-Trévedy. Informazioni:
Comunità monastica di Bose,
13887 Magnano (Bi), tel. 015
678185, fax 015 679294, email: ospiti@monastero
dibose.it.
3 maggio. Genova. Per il ciclo «Preti e cristiani laici.
L’ora della corresponsabilità»
incontro con Luca Mazzinghi,
biblista, parroco, sul tema:
«Preti e laici: ‘collaborazione’
e corresponsabilità». Ore
17.30, presso la sede del
«Gruppo Piccapietra», piazza
S. Marta 2 (ingresso Quadrivium). Informazioni: 010
218074/010 216149.
6-8 maggio. Assisi (Pg). Alla
Cittadella cristiana 9° Convegno Terza età sul tema «Il mal
d’amore: di tutte le età?. La
rinascita degli anziani per invecchiare con grazia». Relazioni (sociologo Segatori, antropologo Seppilli, psicologi
De Leonibus e Bovo, teologo
Di Sante), confronti di esperienze (Sciamanna, Alicino,
Natalizi, Galli, Menculini),
Laboratori, Dibattiti, Cori,
Ensemble musicale, Celebrazione liturgica.
Informazioni: Cittadella ospitalità, Convegno Terza età
06081
Assisi,
e-mail:
[email protected];
[email protected]
Tel. 075 813231, 075 812308.
Fax 075 812445.
6-8 maggio. Camaldoli (Ar).
7° Convegno di Nuovi orizzonti di ricerca sul tema «Evoluzione antropologica. Rapporti tra homo sapiens e
homo religiosus?». Relazioni
di Roberto Tagliaferro, Remo
Pievani, Aldo N. Terrin. Informazioni: Foresteria Monastero 52010 Camaldoli, tel. 0575
556013, fax 0575 556001, email: [email protected]
20 maggio. Bolzano. «La corsa dei miracoli», iniziativa
della Young Caritas della città, coinvolge anche quest’anno gli studenti delle scuole
altoatesine dalle elementari
alle superiori in una corsa
podistica. Così facendo si sostengono progetti Caritas di
aiuto all’infanzia. I giovani
corridori devono trovarsi uno
sponsor disposto a donare un
euro per ogni chilometro percorso. L’anno scoro furono
1.807 e raccolsero 51mila
euro: «allegri, resistenti, generosi».
20-29 maggio. Vicenza e provincia. Settima edizione del
Festival biblico «Di generazione in generazione», articolato
in quattro percorsi.
In sequenza: biblico e teologico (inaugurato dal card. Ravasi), antropologico e spirituale
(con romanzieri, scrittori, psicologi), sociale e pedagogico
(pedagogisti ed educatori), artistico e culturale (con recital,
canti e danze). Sono programmati circa 130 incontri e attività. Informazioni:
www.festivalbiblico.it; Paolo
Pegoraro cell. 335 5458404. La
sera del 29 maggio Vicenza
aprirà gratuitamente al pubblico i propri musei.
ROCCA 15 APRILE 2011
ATTUALITÀ
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ROCCA 15 APRILE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
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Cei
gli eventi
del Nordafrica
e noi
Siria
ribellione
in un nodo
strategico
Sugli eventi che attraversano
i Paesi del Nordafrica ha parlato il 28 marzo il presidente
della Conferenza episcopale
italiana Angelo Bagnasco, che
al vescovo di Tripoli Martinelli aveva espresso la vicinanza
dell’Episcopato italiano e delle nostre comunità. «Ci si è
molto interrogati, ha detto,
sull’incubazione – occulta o
meno – di queste vicende, nello sforzo di individuare l’evento-detonatore in una o l’altra
delle turbolenze precedenti...
In realtà, per registrare esiti
tanto vasti e partecipati, deve
aver a lungo covato qualche
febbre non irrilevante, senza
che sollevasse tuttavia particolari allarmi. Eppure, viene detto oggi, qualche crepitio si sarebbe potuto cogliere se si fosse tenuto lo sguardo rivolto
sulla vitalità dei popoli più che
sull’immobilità dei regimi; se
si fosse stati disposti a considerare gli indici antropologici
più decisivi di quelli politici».
«Cosa fare, dinanzi a simili rivolgimenti?» si chiede il presidente della Cei. «È un’illusione, sottolinea, pensare di vivere in pace tenendo a distanza
popoli giovani, stremati dalle
privazioni, e in cerca di un
soddisfacimento legittimo per
la propria fame. Coinvolgerci,
e sentirci in qualche modo parte, rientra nell’unica strategia
plausibile dal punto di vista
morale ma – riteniamo – anche sotto il profilo economicopolitico. L’interdipendenza è
condizione ormai fuori discussione ed essa si fa ancora più
cruciale e ineluttabile in forza
delle vicinanze geografiche.
Che però, nel nostro caso, riguardano l’Italia alla stessa
stregua con cui riguardano
l’Europa, di cui siamo parte: i
confini costieri della prima
infatti coincidono con i confini meridionali della seconda...
Continuare a ritenere interi
popoli poveri come fastidiosi
importuni non porterà lontano».
I venti della rivolta araba hanno raggiunto anche la Siria,
con le stesse caratteristiche
del Cairo e di Tunisi, e le stesse rivendicazioni. Il potere dittatoriale ondeggia, ben sapendo che nella evoluzione o involuzione della regione esso
detiene un ruolo chiave.
Politicamente è l’unico paese
arabo alleato dell’Iran ed è
nota la sua intransigenza nei
confronti di Israele e la sua
alleanza con i Palestinesi di
Hamas. Americani ed Europei aspettano le prossime
mosse.
Il governo si è dimesso. I presidente Bachar Al-Assad ha
provato a placare gli animi del
popolo, liberando numerosi
prigionieri politici; impiegati
e pensionati hanno ricevuto
un aumento di stipendio e
sono state messe in atto leggi
per contrastare la disoccupazione (il paese di 22 milioni
di abitanti di cui la maggior
parte giovane è senza lavoro).
Ci sarebbero premesse di un
cambiamento, ma il condizionale è d’obbligo anche perché
il 29 marzo si è svolta a Damasco una grande manifestazione a favore del presidente
e il 30 mattina in un atteso
discorso il presidente stesso
dopo aver detto «è nostro dovere ascoltare il popolo», ha
accusato la stampa straniera
di cospirazione. «È un momento eccezionalmente difficile, ha detto, ma ce la faremo, mi dispiace per le vittime» (I morti per le proteste
precedenti sono stati alcune
decine). Basher Assad nel suo
intervento al Parlamento aggiunge: «Siamo stati vittime
di un grande complotto non
solo esterno ma anche interno. Tuttavia, non tutti coloro
che sono scesi nelle strade ne
sono parte». Assad precisa che
«le riforme non sono un processo estemporaneo e improvviso, e un Paese che non si riforma si distrugge». Non revoca però lo stato di emergenza in vigore da 48 anni, né
decide la liberalizzazione della stampa.
Umbria
il dossier
«covo freddo»
della mafia
Un lavoro di ricerca sociale
sta per essere pubblicato in
Umbria; riguarda le infiltrazioni mafiose nel territorio.
Gli studi compiuti in questi
anni da Libera informazione,
Legambiente, Sos impresa,
Cittadinanzattiva e Menteglocale hanno posto in evidenza
«il grande pericolo che gli interessi criminali rappresentano per la nostra democrazia,
a partire dai diritti calpestati,
ma coinvolgendo direttamente e svuotando anche parti essenziali dell’economia e dello
sviluppo». I dati più preoccupanti riguardano la gestione
illegale dei rifiuti, il ciclo del
cemento, la presenza di società finanziarie che operano con
tassi molto alti. Il monitoraggio stima in circa tremila le
persone coinvolte nel rapporto con usurai, che movimentano circa 200 milioni di euro
l’anno.
Il Dossier viene pubblicato
dall’Assessorato delle politiche sociali della Regione col
titolo «Covo freddo».
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da LA REPUBBLICA , 19 marzo
da LA REPUBBLICA, 24 marzo
da IL CORRIERE DELLA SERA, 24 marzo
da IL CORRIERE DELLA SERA, 26 marzo
da L’UNITÀ, 27 marzo
da IL CORRIERE DELLA SERA, 30 marzo
da IL MANIFESTO, 1 aprile
ROCCA 15 APRILE 2011
da IL CORRIERE DELLA SERA, 19 marzo
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convegni e incontri 2011
della cittadella
2-5 giugno
33° seminario coppia
per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali
amorevolmente rivali
competere, concorrere, contendere
La coppia è feriale terreno di match e gare, ci si contendono spazi, successo sul lavoro, affetti… si moltiplicano
esponenzialmente le aree di frizione; l’imperativo dell’autorealizzazione alimenta ansie di riscatto, quando non di ribellione.
Quali forme assume la ‘concorrenza’ tra i due? Invidia, ricatto, gelosia…? Quali scenari di senso apre il racconto della
creazione di Eva?
partecipano: Ritanna ARMENI, giornalista; Luigi BOVO, psicoanalista; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta; Carola
DELLI PAOLI, operatrice shiatsu; Mirella MELEGARI, insegnante di yoga; Nazzareno MARCONI, biblista; Giuseppe
MOSCATI, dottore di ricerca in filosofia; Daniele NOVARA, pedagogista; Beppe SIVELLI, psicologo e psicoterapeuta
È prevista l’animazione dei bimbi-ragazzi da 5 a15 anni.
20-25 agosto
69° corso di studi cristiani
sporgersi ingenui sull’abisso...
il male sfida uomini e religioni
il Corso è in collaborazione con la Comunità ecumenica di Bose e l’Editrice Queriniana
sabato 20
ore 21,15
prolusione di Enzo BIANCHI
domenica 21
male, dove sono i tuoi dèmoni? – Marco POLITI
‘spesso il male di vivere ho incontrato’ – Rosella DE LEONIBUS
maschilismo e violenza –
l’inquietante banalità del male – Giovanni CUCCI
lunedì 22
il bene e il male in Dostoevskij – Sergio GIVONE
‘pongo davanti a te il bene e il male’ – Rosanna VIRGILI
riscoprire il fascino e la forza del bene – Vito MANCUSO
la bellezza dell’arte, terapia del male? – Franco PROSPERI e Svetlana MELNICHENKO
martedì 23
quel confine smarrito tra vero e falso, tra giusto e ingiusto…
Roberta DE MONTICELLI
oltre i fanatismi, i fondamentalismi, le idolatrie – Marco GALLIZIOLI
mercoledì 24
ROCCA 15 APRILE 2011
in ascolto del grido dei popoli e delle coscienze – tavola rotonda interreligiosa
coordinata da Raffaele LUISE
prendersi cura della terra, rigenerare la vita – Simone MORANDINI
sull’orlo dell’abisso… resistere alla vertigine – Ermes RONCHI
‘la mia lettera siete voi’: Paolo ai credenti di oggi – testo di Ermes Ronchi
collaborano: Enzo BIANCHI, priore Comunità ecumenica di Bose; Mariano BORGOGNONI, sociologo; Giovanni CUCCI, filosofo e
psicologo; Tonio DELL’OLIO, di Libera international; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta; Roberta DE MONTICELLI,
filosofa; Izzedin ELZIR, imam; Marco GALLIZIOLI, fenomenologo delle religioni; Sergio GIVONE, filosofo; Elizabeth GREEN, pastora
battista; Tanaka HIROMASA, buddhista giapponese; Giuseppe LARAS, rabbino; Raffaele LUISE, giornalista RAI; Vito MANCUSO, teologo e scrittore; Simone MORANDINI, fisico, teologo; Dipak Raj PANT, antropologo nepalese; Marco POLITI, scrittore e giornalista; Ermes
RONCHI, servita; Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi; Rosanna VIRGILI, biblista
informazioni iscrizioni soggiorno
Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg
e-mail: [email protected]; [email protected]
tel. 075/812308; 075/813231; fax 075/812445; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
12
RESISTENZA E PACE
Raniero
La Valle
I
monarchiani erano quegli eretici dell’antichità cristiana che per affermare l’assoluta unicità di Dio si opponevano alla nascente elaborazione teologica trinitaria; contro
i diversi modi di intendere la distinzione
tra il Padre e il Figlio incarnato, proclamavano: «monarchiam tenemus», donde il nome
di monarchiani. Da lì derivarono tutte le eresie
monistiche: monofisismo, monotelismo, monoenergismo (una sola natura in Cristo, una sola
volontà, una sola energia); vedendo una sola
cosa quegli eretici non riuscivano a vederne e
a concepirne altre, cioè non riuscivano a vedere il cristianesimo; erano maniaci di una sola
cosa, non teisti, ma idolatri.
Anche gli statisti moderni sono monarchiani,
conoscono una sola cosa, sanno fare una sola
cosa, sono maniaci di una sola cosa: la guerra.
Ci vuole il petrolio, bisogna allargare i mercati, c’è un dittatore, i diritti umani sono violati,
un Paese è invaso, gli insorti sono repressi?
Subito è pronta la risposta, quella «fretta della
guerra» che è stata denunciata all’inizio dell’intervento contro la Libia dal vescovo Giudici
presidente di Pax Christi; la monocultura della
guerra non sa produrre altra idea che questa.
Così avvenne con l’Iraq, così con la Iugoslavia,
così con l’Afghanistan, così con la Georgia, per
non parlare dei mille conflitti dimenticati che
fanno della guerra un «continuum» nel succedersi delle stagioni.
È vero che la sovranità moderna nasce con
questo segno di identificazione: sovrano è chi
ha il diritto di guerra, gli Stati sovrani sono
quelli che fanno la guerra; però non è questa la
sola e unica cosa che potrebbero fare, potrebbero inventare e fare dell’altro, soprattutto da
quando la guerra è stata messa al bando dal
diritto internazionale, e la Carta dell’Onu ha
prescritto tutte le cose che si dovrebbero fare
invece della guerra per mantenere la sicurezza
e per costruire un ordine di giustizia e di pace
tra le nazioni, come dice anche la Costituzione
italiana.
Anche questa volta, insorto il problema con la
Libia, la coalizione dei volenterosi non ha saputo fare altro che la guerra; e siccome questa
volta non c’era l’America, la confusione, l’improvvisazione e il caos sono stati ancora maggiori. Anche l’Italia è corsa alle armi; il 36° stormo, di stanza a Trapani Birgi, ha potuto finalmente dare sfogo all’odio contro Gheddafi al
quale era stato addestrato, come potemmo vedere con la Commissione Difesa della Camera
in occasione di una visita che molti anni or sono
facemmo a quella base. Eppure se c’era un Paese al mondo che non avrebbe dovuto fare guerra alla Libia, nemmeno la guerra più sacrosanta, se pur ve ne fosse una, questo Paese era l’Ita-
lia, per la vergogna e il pentimento di ciò che
essa in passato aveva fatto alla Libia, assoggettandosela e violentandola come colonia; e tanto meno avrebbe dovuto farla Berlusconi, che
a Gheddafi aveva giurato amicizia eterna, e con
la Libia aveva stipulato un patto con cui aveva
promesso pace, non aggressione, non ingerenza, rapporti di uguaglianza sovrana, rispetto del
suo diritto ad avere il proprio sistema politico,
sociale, economico e culturale, e aveva assicurato che non avrebbe permesso l’uso delle basi
italiane contro di lei; promesse in cui ne andava dell’onore del Paese e del futuro del Mediterraneo, non come le promesse di fare un campo da golf e un casinò a Lampedusa, o di ridipingere le facciate delle case.
Però, si obietta, c’era la questione degli insorti,
la minaccia del dittatore libico di sterminarli,
l’esigenza di un intervento umanitario. Anche
il centrosinistra si è pronunciato perciò a favore dell’azione militare, e perfino Ingrao, che
pure è noto come pacifista. Ma se l’unica risposta è la guerra, che fare quando altri popoli
insorgeranno, quando altri Stati vorranno reprimere ribellioni e secessioni, quando altri
patrioti e resistenti rischieranno di soccombere? E perché non scendere in guerra per andare a liberare i territori palestinesi occupati, cosa
per cui pur si potrebbe fare appello a centinaia
di risoluzioni delle Nazioni Unite?
Con l’idolatria della guerra, nascostamente penetrata anche nella cultura democratica, e con
il giustificazionismo umanitario che ha sopito
le reazioni, altre volte veementi contro la guerra, anche di uomini di Chiesa, il futuro si presenta assai tormentato. Gli assetti del mondo
stanno infatti cambiando, nuove potenze emergono, altre declinano, popoli nuovi si affacciano sulla scena, perfino le coordinate geopolitiche di Oriente e Occidente, Nord e Sud del
mondo, stanno sfumando in nuove combinazioni e contrapposizioni. Ci vorranno molte
decisioni nuove, molte risposte inedite a problemi mai finora conosciuti. Guai se continuerà a dominare la monocultura della guerra,
guai se le risposte non verranno trovate nella
politica, nel diritto, in un nuovo costituzionalismo internazionale. E bisognerà cominciare
col dare attuazione, nelle parti ancora inadempiute, al cap. VII della Carta dell’Onu, per garantire che eventuali interventi armati condotti in suo nome non siano fatti per interessi di
parte e non giungano mai alla distruttività
della guerra; e, dopo l’esperienza del Giappone, bisognerà che la stessa comunità internazionale sia fatta responsabile dei beni comuni e degli interessi generali della intera famiglia umana.
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ROCCA 15 APRILE 2011
la monomania della guerra
ROCCA 15 APRILE 2011
Maurizio
Salvi
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Q
uando gli storici in futuro rileggeranno le vicende che hanno
portato ai grandi sconvolgimenti politico-istituzionali a cui stiamo assistendo in Medio Oriente
ed in Africa settentrionale, potranno determinare con chiarezza ciò che invece oggi è ancora arduo comprendere sui motivi scatenanti di queste
trasformazioni, ed in particolare sulla strategia adottata dall’Occidente (una sorta di
Blitzkrieg, guerra lampo) nei confronti
della Libia e del suo leader Moammar
Gheddafi. L’elemento che più ha colpito
dopo il 19 marzo, quando i caccia di vari
paesi europei e degli Usa hanno centrato
obiettivi strategici in territorio libico «per
proteggere la popolazione civile», è la politica dei due pesi e delle due misure adottata di fronte a situazioni non del tutto dissimili, come ad esempio quella della stessa Libia da una parte, e del Bahrein e dello
Yemen dall’altra, dove pure le proteste sono
state soffocate con grande spargimento di
sangue. Si deve ammettere che si è trattato di una operazione con pochi precedenti, organizzata con un vasto contributo da
parte dei media internazionali, ha contribuito a creare la forte sensazione nella vi-
cenda libica dell’esistenza di una battaglia
del Bene contro il Male costruita assegnando senza sfumature la parte positiva ai settori libici in rivolta e quella negativa, invece, a Gheddafi e a tutte le azioni dei suoi.
Questa osservazione non va letta come un
tentativo di sminuire le responsabilità del
Rais libico, ma come il desiderio di sottolineare che il manicheismo, soprattutto
quando non suffragato da solidi elementi
di verità indipendenti, non giova all’informazione e può servire solo ad addomesticare l’opinione pubblica che gridando
‘morte al tiranno!’ accompagna inconsapevolmente fini non sempre santi.
dubbi sull’intervento
Che la strategia adottata da Usa, Francia e
Gran Bretagna per eliminare Gheddafi non
sia stata tratta dal Galateo, è fin troppo
evidente. Restano enormi dubbi per il fatto che le preoccupazioni manifestate da
Londra, Parigi e Washington per i diritti
umani violati, fossero prima di tutto motivate dall’ambizione di rimettere le mani
su risorse petrolifere e gasifere esistenti nel
deserto libico – quelle della British Petroleum furono nazionalizzate nel 1973 – in
LIBIA
il ruolo
delle tribù
renza negli affari interni, un concetto quest’ultimo che, nonostante le lezioni di Iraq
e Afghanistan, l’Occidente sembra avere
ormai definitivamente abbandonato. Il
punto più acuto di queste divergenze è stato espresso il 28 marzo scorso dal ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov.
«Noi consideriamo che l’intervento della
coalizione in quella che è essenzialmente
una guerra civile interna – ha dichiarato –
non è stato autorizzato dalla risoluzione
del Consiglio di sicurezza dell’Onu».
Impegnata nel riferire la cronaca quotidiana di massacri e bombardamenti, la stampa europea ed americana non si è soffermata molto a riflettere sul rilievo avanzato
da Lavrov. Lo ha fatto invece con acume
uno dei maggiori esperti indiani di politica
internazionale, Siddharth Varadarajan, che
sul quotidiano The Hindu ha chiarito che
ROCCA 15 APRILE 2011
gran parte operanti nei territori dell’est
controllati dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt). Queste perplessità, che non
hanno trovato lo spazio che avrebbero dovuto nei media, hanno determinato però
l’astensione in Consiglio di sicurezza dell’Onu di Cina, Russia, India, Brasile, oltreché della Germania. Questa salomonica sospensione del giudizio, se da una parte ha
permesso l’approvazione della Risoluzione 1973 senza l’esercizio del veto, ha anche evidenziato per la prima volta chiaramente il consolidamento di un nuovo raggruppamento politico internazionale, conosciuto come Bric, che non è mosso da
logiche di potenze in crisi economica che
cercano di accaparrarsi le risorse energetiche, come è il caso dei paesi occidentali.
Si tratta almeno in questa fase di avvio di
uno spirito di cooperazione e non interfe-
15
ROCCA 15 APRILE 2011
LIBIA
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non vi sono dubbi sul fatto che la Risoluzione 1973 contempli la costituzione di una
‘no fly zone’ ed un ampio uso della forza
quando «autorizza gli Stati membri (...) ad
adottare tutte le misure necessarie (...) per
proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacchi nella Jamahiriya araba libica (...) escludendo comunque
una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma su qualsiasi parte del territorio
libico». Secondo questo analista il problema non risiede nel mandato in sé, ma nel
fatto che una specifica Risoluzione del Consiglio di sicurezza non può essere «ultra vires», ossia non può andare oltre ai limiti
che pone la Carta costitutiva dell’Onu che
questo tipo di iniziative autorizza. E l’articolo 2, comma 7 della Carta è in questo senso abbastanza esplicito: «Nulla contenuto
nella presente Carta autorizza le Nazioni
Unite ad intervenire in affari che sono essenzialmente dentro la giurisdizione interna di ogni singolo Stato». Ovviamente la
prassi del diritto internazionale ha evidenziato che uno Stato che realizzi un genocidio, crimini di guerra o crimini contro
l’umanità non può fare appello all’inviolabilità della giurisdizione nazionale, ed ha
per questo messo a punto il cosiddetto R2P
(Responsability to Protect), ossia un meccanismo sovrannazionale per affrontare
d’urgenza le crisi umanitarie. Ma per quanto
il regime libico sia odioso, antidemocratico e violento, non pare che abbia superato
quella soglia che permette, o per meglio dire
impone, alla comunità internazionale di
intervenire. Altrimenti il criterio avrebbe
dovuto immediatamente essere applicato in
molte altre realtà nel passato remoto e recente in cui, come abbiamo visto più sopra, eserciti hanno sparato sulla popolazione civile in rivolta. Ma in quei casi, trattandosi di paesi alleati dell’Occidente (Bahrein
è sede della V Flotta americana) o mancando il presupposto stringente petrolifero (Yemen), si è preferito chiudere gli occhi.
È ovvio che di fronte alle anomalie che hanno caratterizzato l’azione dell’Onu, altre
anomalie minori hanno relativa importanza, ma vanno comunque segnalate. Fra queste, la passiva posizione della Lega Araba,
prima addirittura favorevole alle operazioni militari contro la Libia e poi ripiegatasi
nelle retrovie con critiche formulate dal suo
segretario generale Amr Moussa per il fatto che «i bombardamenti non erano quello
che avevamo chiesto». Stesso discorso vale
per l’Unione africana (Ua) di cui Gheddafi
è stato uno degli ultimi presidenti, e che ha
brillato per assoluta assenza dal dibattito,
facendo percepire il suo malessere solo di-
sertando l’incontro di Londra della Coalizione il 29 marzo. L’azione di questa organizzazione, chiamata a difendere le ragioni
dei paesi di un continente flagellato dal colonialismo, si è limitata a gestioni umanitarie come i 150.000 dollari donati all’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i
profughi (Unhcr) per le decine di migliaia
di persone ammassate alle frontiere della
Libia con l’Egitto e la Tunisia. Onu, Lega
araba e Ua, in un mondo veramente multipolare e rispettoso dei diritti della gente,
avrebbero dovuto essere protagoniste di una
massiccia e dignitosa offensiva politico-diplomatica, mirante a disinnescare la crisi,
o perlomeno ad incanalarla nell’ambito di
un conflitto interno libico che avrebbe forse ugualmente portato, come avvenuto in
altri paesi della regione, al rinnovamento
della classe politica e governativa, ed al tramonto dopo oltre 40 anni dello stesso Gheddafi.
il peso delle tribù
Perché aldilà delle convinzioni ideologiche
dei membri del Cnt, e della determinazione
politico-militare di Mahmoud Jibril o di
Mustafa Abdel Jalil, il potere del leader libico si è cominciato ad incrinare quando si è
messo in moto una dinamica di sfaldamento dell’equilibrio tribale di quelle stesse tribù che per decenni Tripoli ha manovrato a
proprio piacimento. Al riguardo lo storico
francese Pierre Vermeren ha precisato che
Gheddafi «ha voluto eclissare le tribù per
apparire come la Guida suprema di tutti,
ma sostanzialmente le ha mantenute organizzativamente intatte all’interno come all’esterno del regime, mentre esse erano
scomparse in tutti gli altri paesi del Maghreb». Al momento delle tensioni, anche il
Rais è stato visto come semplice membro
di una tribù (i Khadafas, basati a sud di Sirte) responsabile ai suoi tempi di aver rovesciato il re, a sua volta membro del clan dei
Senousi. Dopo aver conquistato la guida del
paese, Gheddafi ha voluto punire le tribù
ribelli, come i Tubu, disseminati in vari paesi della regione. Ed ha continuato a pagarne alcune, a volte alla stregua di puri mercenari stranieri, per svolgere azioni di ordine pubblico a suo vantaggio. Il gioco ha imboccato una pericolosa china negativa quando gli Al-Warfalla, tradizionalmente vicini
al regime, gli si sono rivoltati contro invitandolo ad andarsene, in questo seguiti dai
Tuareg che si sono uniti rapidamente alle
crescenti manifestazioni popolari.
Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
dello stesso Autore
LE IDEE
CHE DIVENTANO
POLITICA
linee di storia
dalla polis
alla democrazia
partecipativa
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ull’isola di Lampedusa, mentre scrivo, ci sono più immigrati nordafricani che abitanti. È il segno del caos
in cui i sommovimenti che da settimane scuotono Tunisia, Libia e i
paesi dell’area hanno gettato questa
nostra isoletta, il primo approdo in terra italiana per i disperati che fuggono da guerre e
rivolte. Disperati che continuano a essere tali
perché una volta sbarcati, in maggioranza,
sono costretti a vivere all’addiaccio, tra le loro
immondizie, a rischio epidemie, con poco
cibo, entro recinti da campo di concentramento. E non per difetto di accoglienza da
parte dei lampedusani, ma per l’inadeguatezza degli interventi di un Governo dimostratosi non all’altezza dell’evento.
La mancanza di un piano organico fa sì che
i nostri politici, nelle cui competenze ricade
l’emergenza profughi, agiscano e parlino in
ordine sparso, contraddicendosi reciprocamente (Bossi vs Frattini e Maroni a proposito dei 1700 euro da dare a chi torna indietro), facendo proposte assurde (Bossi e Maroni vogliono i rimpatri forzati), millantando piani con la Germania di cui la Cancelliera tedesca non sa nulla, minacciando di fermare per ritorsione i turisti italiani verso la
Tunisia (Brambilla), o piagnucolando per
l’indifferenza dell’Europa (Maroni). Per non
parlare del ministro dell’Economia Tremonti
che attribuisce tutta la colpa alla globalizzazione, il che equivale a far sbrigativamente
risalire al peccato originale tutti i mali del
mondo, senza entrare nel merito delle situazioni. E poi c’è il premier Berlusconi: con
la sua esibizione a Lampedusa ha dato il
meglio di sè come piazzista.
Tra le tante denunce di inadeguatezza del
governo cito quella di Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia: «La vera
emergenza è costituita dalla plateale inadeguatezza di chi la governa».
Ma oltre all’inadeguatezza il dramma dei
profughi mette ancora più a nudo la miope
ed egoistica chiusura degli esponenti della
Lega Nord verso chi è nato a sud del Po. Alla
faccia del federalismo solidale, nessuno stanziamento dei profughi è finora previsto in
Lombardia, Piemonte e Veneto, anzi il ministro «padano» Roberto Calderoli ha paragonato questa tragedia umana a una sorta
di infezione batterica, «il sintomo di una
possibile pandemia».
S
Ancora, questa emergenza evidenzia la poca
credibilità di cui il nostro governo gode a
livello internazionale. Maroni e Frattini vanno in Tunisia e affermano di aver raggiunto
con le autorità di quel paese un accordo per
bloccare le partenze, ma queste non diminuiscono. Maroni, il nostro Ministro degli
Interni, chiede aiuto all’Europa, e la Merkel
gli dice che la Germania ha integrato 400
mila persone fuggite dai Balcani senza fare
tante storie. Per non parlare dello «schiaffo» che Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna ci hanno dato escludendoci dalla videoconferenza sulla Libia. Più che ignorare la situazione italiana Washington e Bruxelles ignorano un governo ridicolo e inaffidabile come il nostro.
Che fare per andare oltre questo clima di
miope ed egoistica paura?
Si deve cambiare prima di tutto l’approccio
mentale al problema.
È illusorio pensare di fermare le migrazioni
istituendo un cordone sanitario attorno ai
nostri paesi. Le migrazioni sono tra i motori
della storia, come le maree e le correnti marine. Non ci si può blindare nelle valli alpine
a mangiare polenta e taleggio e a fare il lancio del tronco.
Interdipendenza e condivisione sono le parole chiave per vivere l’oggi e andare verso il
futuro. Perciò una politica non è lungimirante se non tende a una vera cooperazione tra
popolazioni diverse. I popoli poveri, dice il
cardinale Bagnasco, presidente della Cei, non
sono fastidiosi importuni. Occorre avere l’intelligenza della storia. La difesa dei propri
bastioni è una politica destinata a perdere.
E poi l’Europa deve sentirsi responsabile verso i popoli – specie quelli africani – che hanno subìto il colonialismo storico e subiscono tuttora quello economico, con la complicità dei rais liberticidi da noi sostenuti. Il colonialismo con l’alibi della civilizzazione ha
rotto equilibri sociali ed economici, senza
offrire validi modelli alternativi, se non i nostri basati sulla conflittualità permanente e
lo sfruttamento. Così si sono generati quegli
squilibri che spingono ora molti africani a
cercare da noi nuove condizioni di vita.
Accoglierli e tentare di alleviare le conseguenze del disordine da noi a loro arrecato è il
minimo che possiamo fare per iniziare a
estinguere il nostro debito.
❑
17
ROCCA 15 APRILE 2011
i nostri creditori
LEGA NORD
chi comanda
in Italia
ROCCA 15 APRILE 2011
Ritanna
Armeni
18
e dovessimo fare un bilancio di questi primi tre anni di legislatura, se
dovessimo dire chi finora ha vinto
e chi ha perso, qual è il partito che
in questi anni ha guadagnato in termini di affermazione della sua linea politica e di presa sulla pubblica opinione la conclusione non potrebbe che essere una. La Lega di Umberto Bossi è sicuramente il partito che ha registrato maggiori successi, quello che si può definire
più forte, più capace di determinare le scelte della politica nazionale e di incidere
nelle coscienze dei cittadini. Gli altri per
un motivo o per un altro appaiono fortemente in crisi.
Non è una affermazione esagerata. Guardiamo a queste ultime settimane, alle vicende della guerra in Libia e alla complessa
questione dei migranti che, dalle terre del
Maghreb in fiamme, arrivano sulle nostre
coste. Le scelte della maggioranza di governo in entrambi i casi sono state fortemente
S
determinate dalla Lega. E non solo dalle sue
proposte politiche, ma anche dalla sua ideologia e dai suoi comportamenti.
pacifismo egoista
L’atteggiamento di forte dubbio sull’intervento del governo italiano, la sua ostilità
nei confronti della politica di Francia e
Gran Bretagna è stata voluta in gran parte
dal partito di Umberto Bossi che ha propugnato senza alcuno sconto diplomatico
la linea del «pacifismo egoista». Per pacifismo egoista – è bene precisarlo – si intende l’atteggiamento di coloro che non vogliono alcun coinvolgimento in affari stranieri, che nutrono disinteresse e ostilità nei
confronti di terre lontane e diverse dalla
loro piccola patria. Il «pacifismo egoista»
ha terreno facile in una «Padania» convinta di aver già dato molto allo stato nazionale, di essere stata sfruttata dal sud e da
«Roma ladrona» e decisa a perseguire il
la frontiera della paura
Ma l’influenza della Lega sulla linea del
governo italiano non si è fermata qui. Il
partito di Bossi ha fatto degli sbarchi a
Lampedusa, della possibilità di nuove ondate migratorie dalla Libia e da tutti i paesi del nord Africa uno strumento potente
per aumentare quella «paura dell’immigrato» che è parte integrante della sua politica. Gran parte dell’atteggiamento e delle
risposte del governo agli immigrati che
cercano di sbarcare sulle nostre coste è determinato da Bossi e dai ministri leghisti
che senza alcuna remora hanno alimentato la paura, hanno fatto crescere la confusione. Per settimane la Tv ci ha mostrato
quella che è stata definita un’invasione
epocale. Barconi carichi di disperati che
approdavano sulle nostre coste, l’isola di
Lampedusa vicina alla ribellione, il resto
d’Italia riluttante ad ogni forma di solidarietà. Ma, soprattutto ci hanno mostrato
la sostanziale impotenza di chi avrebbe
dovuto decidere il che fare. Una impotenza troppo esibita per essere credibile. Non
è apparso credibile, infatti, che un paese
come l’Italia che pure si è schierato con la
primavera araba, non fosse in grado di dare
asilo e rifugio a qualche decina di migliaia
di immigrati proveniente da quei paesi.
ROCCA 15 APRILE 2011
proprio benessere. La Lega ha ulteriormente potenziato questo sentimento negativo in occasione dell’intervento in Libia: quel benessere poteva essere ulteriormente ridotto da un’azione militare che
avrebbe convogliato risorse e forze del produttivo nord e nonché dalla prevedibile
nuova ondata migratoria.
L’impegno delle forze armate italiane non
ha impedito ad un ministro della Repubblica come Roberto Maroni di dire che l’intervento era sbagliato confortando e sostenendo la rabbia e il disinteresse dei leghisti pacifici ed egoisti.
19
LEGA
NORD
Non è apparso credibile che alcune migliaia di questi non si potessero spostare da
Lampedusa e che non si riuscisse intanto
a rispondere all’emergenza con alcuni,
anche se provvisori, campi di accoglienza.
Quella confusione e quella impotenza sono
apparse assolutamente strumentali e finalizzate ad aumentare la confusione e la
paura. Il rifiuto di alcune regioni ed alcuni comuni di accogliere profughi e immigrati non è stato governato, ma enfatizzato e sostenuto. La proposta del ministro
degli esteri Frattini, di dare 1500 euro a
testa agli immigrati che accettassero il rimpatrio (certamente discutibile e probabilmente non realistica) è stata rifiutata senza mezzi termini dalla Lega che ha chiarito però senza possibilità di equivoci chi
decide sulla questione. E ha definito ancora una volta la linea politica leghista: fare
della nuova immigrazione la frontiera della
paura su cui costruire nuovi consensi in
un’Italia già impaurita dal degrado e dalla
disoccupazione.
un alleato interessato
ROCCA 15 APRILE 2011
Il partito di Umberto Bossi continua così
in una strategia che in questi tre anni di
governo è stata già perseguita e con buoni
risultati. «Nord contro sud» e «italiani contro immigrati» in un linguaggio semplificato ma assolutamente realistico hanno
rappresentato le linee fondamentali di disegno strategico che è riuscito ad affermarsi persino in anni in cui il governo, per ammissione anche di alcuni suoi più lucidi
sostenitori, non è riuscito a portare avanti
uno straccio di riforma economica e sociale e tanto meno a elaborare un progetto
di crescita e di uscita dalla crisi. La Lega
comunque non ha subìto alcuna crisi. Anzi
proprio questa mancanza di prospettive e
la fermezza assoluta con cui Giulio Tremonti (non a caso ritenuto il più leghista
dei ministri) è riuscito a tenere stretti i
cordoni della borsa hanno agevolato l’affermazione delle politiche leghiste. Le uniche due riforme realizzate o in via di realizzazione sono quelle volute dal partito del
nord: le leggi sulla sicurezza fortemente
penalizzanti nei confronti degli immigrati
e la legge sul federalismo che danneggia le
regioni meridionali, separa la loro condizione da quella delle regioni del nord.
Per ottenere queste due leggi Umberto
Bossi ha agito con duttilità, furbizia, capacità di contrattazione. Non ha mai negato il suo appoggio al premier neppure
quando questi pareva sull’orlo di una crisi
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certa, ma anzi di quella crisi ha fatto il suo
punto di forza per ottenere quanto voleva,
quanto aveva promesso al suo elettorato.
Se il governo in questi mesi ha tenuto, se
Berlusconi ce l’ha fatta è stato grazie a
questo alleato interessato, che ha scambiato abilmente il suo appoggio con le riforme chieste all’inizio della legislatura.
la principale vittoria della Lega
E lo ha fatto senza pagare pegno, senza
alcun penalizzazione da parte del suo elettorato soddisfatto evidentemente dalla fermezza della linea politica, ma anche cementato da una ideologia che altri partiti
hanno buttato alle ortiche, e che la Lega
rafforza con atti simbolici continui e coerenti. La posizione di gran parte dei dirigenti e degli amministratori locali nei confronti delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia ne è un esempio, forse il più
eclatante. I leghisti non hanno partecipato alle cerimonie ufficiali, hanno proclamato la loro estraneità alla festa dell’unità
del paese e hanno, in questo modo, irrobustito l’immagine di un partito del nord,
che punta esclusivamente allo sviluppo e
alla forza delle regioni settentrionali, che
conferma il suo separatismo economico e
sociale. Lo stato nazionale non ci interessa hanno mandato a dire quei leghisti che
pure, spregiudicatamente, del governo continuano a far parte.
E l’immagine del partito nordista, popolare, laborioso, stufo di mantenere coloro
che non hanno contribuito alla crescita di
questa ricchezza emerge rafforzata anche
da simbolici atti di discriminazione nei
confronti degli immigrati compiuti dai
suoi amministratori locali. La Lega ha capito che i messaggi ideologici sono una
parte importante dell’azione di un partito
ed ecco allora le proteste contro gli immigrati che non pagano la mensa scolastica,
le proposte di bus riservati ai milanesi perché non viaggino con gli stranieri, la negazione di spazi per la costruzione delle moschee. Molte delle proposte non passano,
molti degli atti estremisti e discriminatori
vengono criticati e rifiutati, ma la Lega va
avanti con la certezza di aver comunque
inciso sul senso comune, di aver incrinato
alcuni valori che parevano consolidati, di
aver sdoganato posizioni e paure che prima si aveva paura di esporre. Questa, in
fondo, è stata in questi anni la sua principale vittoria.
Ritanna Armeni
FEDERALISMO
il governo delle regioni
È
te dai Cattaneo, Sturzo, Salvemini, Dorso...
il vero punto di partenza
Ma se è giunta l’ora del federalismo, le regioni sono veramente tutte pronte e in grado di
far da sole? Credo che occorra riflettere seriamente sul fatto che se alcune regioni son
pronte al via, altre invece risentono fortemente di ritardi pluridecennali e di ataviche incrostazioni di mentalità nelle infrastrutture
e nell’ordinamento amministrativo, il tutto
«condito» dal ruolo onnipresente della malavita organizzata. Tanto per esser chiari si
trovano in tale situazione le regioni meridionali, che hanno bisogno di una serie di riforme di struttura sì da poter far da sole. Questo è il vero punto di partenza e vale anche
per l’antipasto del federalismo che vuol imporre la Lega: il federalismo fiscale municipale. La Lega al Nord non ha tale problema
«strutturale», in quanto esiste nelle regioni
21
ROCCA 15 APRILE 2011
arrivato il federalismo, sia pur fiscale e municipale? Pare proprio di sì,
ma qualche impedimento c’è ancoFrancesco Saverio
ra, legato anche all’esito della legislatura. Ma cos’è questo tipo di feFesta
deralismo?
Tolta in parte l’Ici, è aumentata, sempre in
parte, l’addizionale Irpef regionale e comunale, mentre ora vi sarà la nuova Imu (imposta municipale) che sostituirà imposte
esistenti per un totale di 11.57 miliardi. Qualche altra tassa resta da convenire con le regioni per sostituire Tosap, Cosap, ed altre
imposte comunali su pubblicità e pubbliche
affissioni, se i comuni hanno sinora dato,
intendono recuperare quel che hanno elargito. Sembra finalmente giunta l’ora di rinsanguare i bilanci comunali, falcidiati da
precedenti scelte populistiche, sì da dare una
prima parvenza di autonomia locale, certo,
però, ben lontana dalle forme di autonomismo delle regioni e degli enti locali ipotizza-
FEDERALISMO
settentrionali, pur con qualche eccezione,
una situazione nettamente migliore rispetto
al resto d’Italia sia per l’ordinamento amministrativo, sia per le infrastrutture industriali, commerciali e dei trasporti, inoltre solo in
alcuni casi queste regioni hanno conosciuto
la morsa di mafia e camorra. Alla Lega Nord,
quindi, basta solo controllare il territorio per
poterlo dirigere senza intoppi di sorta: una
Lega Nord quale sindacato di territorio. Ed
allora come faranno le regioni del Sud a incamminarsi sulla via del federalismo, senza
pagar dazio? Per di più quando, in tempi di
commemorazione dell’unità del Paese, continua il refrain che il Nord ha pagato il prezzo del «ritardo» del Sud, ed ora ha ben ragione a volerne prender le distanze?
il caso Puglia
ROCCA 15 APRILE 2011
Nel generale caos d’arretratezza del Mezzogiorno s’usa ormai dire che esiste comunque un caso interessante: lo sforzo che il duo
Michele Emiliano-Nichi Vendola sta tentando per modificare una città come Bari e una
regione come la Puglia. La scommessa di
«redimere» una grande città e una grande
regione del Sud senza far la fine di Bassolino, di Napoli e di buona parte della Campania sommersi da tonnellate di spazzatura, è
di quelle che fanno tremar le vene e i polsi...
Ed i problemi non son certo mancati: sino a
che punto il governatore Vendola è riuscito
a controllare la struttura sanitaria pugliese,
che presenta i limiti tipici della situazione
sanitaria meridionale? Ed ancora: si è veramente riusciti a avviare, da parte sua e da
parte pure del sindaco Emiliano, una politica amministrativa trasparente capace di tener a bada le solite mentalità affaristiche e
le commistioni clientelari tra governi locali
e le reti malavitose?
Eppure mi risulta che sovente, pure dopo
aver varato, nel segno della legalità, appalti
affidati a professionisti ed imprese vincitrici
di gare non truccate, non si riesce poi a pagare regolarmente professionisti e imprese
scelte fuori del solito giro, per una serie di
ostacoli frapposti dal solito modo tacito, «camorristico», di far saltare dall’interno tutti i
tentativi di «legalizzare» e «moralizzare» il
sistema di appalti e commesse.
Emiliano e Vendola, quindi, son veramente
riusciti a rompere la morsa che stringe le
amministrazioni locali del Sud? Emiliano ha
ammesso che tanti buoni propositi non si è
affatto riusciti a realizzarli, e che i problemi
sul tappeto sono ancora notevoli. Per esempio: a che punto è la ristrutturazione dei porti
della «valigia delle Indie»? Gli immigrati, slavi albanesi e africani, sono finalmente alloggiati fuori dai lager ove venivano rinchiusi
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quando barche, barconi, motoscafi e gommoni li rovesciavano sulle coste pugliesi? Il
centro storico di Taranto, notoriamente considerato una sorta di Far West con frotte di
delinquenti motorizzati che circuiscono a
scopo di rapina i pochi, ormai, malcapitati
turisti, alla stregua dei famigerati quartieri
spagnoli di Napoli, è stato finalmente «bonificato»? Ed il settore edile, divenuto il «porto franco» d’ogni sfrenata speculazione?
Potrà Nichi Vendola riuscire a dominare
questi e tanti altri problemi senza venir tacciato da parte dei soliti accademici da salotto che non sia altro che la faccia progressista del populismo berlusconiano?
Ma Vendola, uomo simpaticamente trasgressivo, non solo non è Bassolino per altra origine politica, ma anche perché dimostra di
aver ben diversa mentalità nell’affrontare
nodi e questioni. Ma sono sufficienti l’impegno intelligente e la buona volontà per trasformare una regione grande e complessa
come la Puglia? In Puglia come in quasi tutto il Sud vi è una dualità nel controllo del
territorio: da una parte quello sottoposto al
potere illegale mafioso e dall’altra quello
soggetto al potere legale dello Stato. L’esperienza delle regioni meridionali ci ha insegnato che governare una regione o una grande o media città del Sud non significa mai
poterne mutare i connotati ab imis, al massimo, nella migliore delle ipotesi, correggerne i problemi più vistosi, persino la spazzatura, ma mai la rete di clientele e corruttele.
Insomma non tocca far altro che gestire correttamente l’ordinaria amministrazione, la
gestione ordinaria delle cose, ma rassegnarsi a non poter espungere affatto da una città
o da una regione del Sud malaffare, malasanità, amministrazioni corrotte, appalti truccati, malavita organizzata, capitali da riciclare, pensioni usurpate, assenteismo atavico sul posto di lavoro, ecc. nel segno di uno
spirito pubblico e di un clima civile del tutto
latitanti?
riforme strutturali
Ecco perchè servirebbero una serie di riforme di struttura che pongano le regioni meridionali in condizione di poter fare da sole,
e questa serie di riforme strutturali preliminari a ogni sorta di federalismo tocca allo
Stato, e all’intera comunità nazionale, di
doverle progettare ed attuare. Solo lo Stato
può dare il via all’autonomia delle singole
regioni creando pure i presupposti di un’interazione tra regioni ricche e meno ricche.
Infatti, dopo la riunificazione delle due Germanie non è stata forse la politica dell’intero Stato federale a far sì che le regioni della
ex Ddr non facessero la fine del Mezzogior-
la Lega sindacato del proprio territorio
Perciò la partita torna a spostarsi dalla periferia al centro e al progetto minimale di federalismo avanzato dalla Lega Nord, che è
tutto in funzione del suo esser partito di tipo
tradizionale radicato sul territorio in misura estesa e capillare, e tale da «sentire» gli
umori della gente. Questa estate, ad esempio, a metà agosto, a Albenga, solo la sezione della Lega Nord era aperta a disposizione dei cittadini che avevano problemi concreti, dalla tutela degli anziani soli al «contenimento» degli immigrati: Lega come sindacato di territorio. Quindi la Lega ha già
«preparato» i propri territori al suo federalismo, ed ovviamente non ha alcun interesse a regioni e città ove non sia egemone. Qui
sta il rapporto tra la quantità della presenza
capillare sul territorio, una sorta di cura e
tutela illimitata, e la qualità di queste scelte
tutt’altro che a favore dell’intera comunità
nazionale. Ma chi sono in realtà i leghisti?
Se sfogliando le pagine de «La Padania» ci
si sofferma sulla rubrica delle lettere, ove
troneggia uno spadone gallico piantato nel
colosseo, si può scoprire il pensare autoctono dei leghisti, tutto spencolato al di là della
«comunità» nazionale e contro «Roma ladrona», a guardia del proprio territorio pretendendo di fissare regole e limiti del vivere
insieme. Vi si scoprirà che per non pochi leghisti il loro territorio si estende dalle Alpi
sino a una linea di demarcazione che va da
Orbetello sul Tirreno a Pesaro e Rimini sull’Adriatico. Dell’odierna Italia rimarrebbero
fuori il Lazio e le terre del vecchio regno delle
Due Sicilie. Per quanto sembri paradossale
i leghisti sono la falange dell’Italia berlusconiana, non a caso segnata dall’asse politico
tra Bossi e il Cavaliere, che par durare almeno sino a una possibile condanna definitiva
del premier. Il leghismo celebra i suoi fasti
invocando periodicamente autonomie e federalismo, eppure – paradossalmente – son
ora costretti a far i conti con celebrazioni di
un’Unità fortemente voluta e attuata da una
parte del Nord a discapito del resto del Paese, ritortasi ora – a loro dire – contro lo stesso Nord, che ha dovuto sin qui pagare le «spese» dell’arretratezza del Sud.
berlusconismo diffuso
In fondo, se si pensa bene, i capi dei leghisti
della prima ora, quelli della Lega Lombarda, sono due: Bossi e Berlusconi, ambedue
affetti dalla pretesa di far perno sulle regioni
che contano, «predilette» per intercettare
modi, opinioni e comportamenti da tempo
vigenti in tutta Italia. Ha scritto Ilvo Diamanti il 31 gennajo su un noto quotidiano: tutto
ciò incarna «un relativismo etico, che riguarda la concezione della donna e del suo ruolo. Nella società, nella famiglia, nelle relazioni di genere. Insieme a un sentimento
omofobo, mai dissimulato. Oltre a una diffidenza radicata verso le istituzioni e le regole
pubbliche. Berlusconi non ha ‘inventato’
questi atteggiamenti e questi modelli etici,
trasferendoli agli italiani attraverso i media.
Li ha, invece, ‘rappresentati’ (ha dato loro
rappresentanza e rappresentazione). E li ha,
inoltre, amplificati. Legittimati. Imposti
come modelli (e consumi) di successo. Liberarsi di Berlusconi, per questo, non basterà
a liberarci dal berlusconismo». Questa è una
anomalia che abita e vegeta nella nostra recente storia patria e nella nostra società: un
relativismo etico di un Paese «indulgente»
che non ha alcuna spina dorsale, dato che
nella sua storia non è mai stato capace di
«appassionarsi» a nulla.... sino alle estreme
conseguenze.
Lega secessionista?
Venerdì scorso ero con l’autore del prossimo
libro sulla Lega Nord in uscita da un grande
editore nazionale, che mi ha «illuminato»
sulle vicende interne leghiste, dalle schiere di
militanti ai loro intellettuali ed ai loro propositi. Alla fine della discussione gli ho posto
una domanda che da tempo mi frulla nella
testa: «dopo tutto quel che dici, è possibile,
allora, che la richiesta insistente dell’approvazione del federalismo fiscale municipale
non sia altro che la prima fase di una vera e
propria secessione? Insomma, è possibile che
Bossi e i suoi possano far quel che ha fatto la
Slovenia nell’ora della crisi irreversibile dell’ex Jugoslavia, cioè comprarsi l’indipendenza quando la crisi istituzionale prodotta dalla dissennata politica di governo berlusconiana getterà sull’orlo dello sfascio il Paese?».
Mi ha guardato sorridendo: «non ho osato
scriverlo, ma non lo escluderei affatto».
Francesco Saverio Festa
ROCCA 15 APRILE 2011
no d’Italia, sanando in meno di vent’anni il
gap tra regioni ricche e regioni povere e riunificando concretamente la Germania? Potrebbe mai risanare da solo la Puglia Vendola pur sventolando emozioni, sentimenti,
una politica che abbia cura delle persone e
non solo degli interessi? Sono sufficienti queste categorie a poter cambiare il Sud, per
altro utilizzate da uno che non ha nemmeno un partito strutturato alle spalle proprio
come Prodi quando era al governo? Non ha
forse ragione Mario Tronti a scrivere: «oggi
l’alternativa non è: partito sì o partito no,
l’alternativa è: politica organizzata o antipolitica»?
23
ROCCA 15 APRILE 2011
Roberta
Carlini
endi, Gucci, Bottega Veneta, Ferrè,
Valentino, Bulgari, per citare solo
i marchi della moda. Galbani, Invernizzi, Locatelli, Bertolli, per passare a quelli dell’alimentare. Telettra, Acciai Terni, Nuovo Pignone,
per parlare anche dell’industria pesante.
Non sono pochi, i gioiellini italiani venduti agli stranieri. Perché Parmalat dovrebbe valere di più? Perché adesso, in occasione della scalata francese all’azienda
agroalimentare di Parma, si cambiano regole e si introducono nuovi strumenti per
proteggere l’italianità dell’impresa? Di
quale italianità parliamo, visto che la più
importante delle industrie italiane, quella che l’italianità ce l’ha anche nel nome
(Fabbrica Italiana Automobili Torino), si
accinge a spostare anche la sua testa all’estero? E con quali strumenti e garanzie, visto che quando il governo è intervenuto in difesa dell’italianità dell’Alitalia
ha finito per spostare solo di pochi mesi
la consegna della compagnia di bandiera
ai francesi, per di più con risanamento a
spese pubbliche?
F
il gioiellino
La vicenda Parmalat è allo stesso tempo
simbolica e terribilmente concreta. Concreta, perché ha a che fare con il cibo, e
24
con un alimento che tutti associamo all’idea del nutrimento primario, indispensabile, pulito: il latte. Simbolica, perché
ha legato al suo nome uno dei più gravi
scandali della storia economica italiana,
quella gigantesca truffa finanziaria il cui
disvelamento ha preceduto e preannunciato il grande crack del 2008. Il suo protagonista era un uomo importante e famoso, Callisto Tanzi, che ha navigato per
decenni nella vita economica e politica
italiana dalla prima alla seconda repubblica – proprio negli stessi giorni in cui la
francese Lactalis andava all’assalto della
proprietà di Parmalat, questa ingloriosa
storia recente sbarcava al cinema con il
film «Il gioiellino». Dopo il crack, l’azienda agroalimentare di Collecchio ha avuto
una cura durata sette anni, per arrivare
al risanamento finanziario ed industriale: gli esperti dicono che ha i conti in ordine, buone prospettive di mercato, e soprattutto che ha molti soldi liquidi in cassaforte, dovuti anche all’abilità del management nel farsi restituire il maltolto dai
complici di Tanzi nella truffa (le banche).
Così, sette anni dopo il fattaccio, Parmalat era lì con 1,5 miliardi nella pancia, un
ruolo di primo piano nel mercato italiano e una posizione non eccelsa, comunque ragguardevole, nella classifica internazionale dei giganti del latte: tredicesi-
PARMALAT
mo posto. Se così stanno le cose, quel che
bisogna chiedersi non è perché si sia fatto avanti il gruppo francese Lactalis (che
già aveva incamerato un bel po’ di marchi italiani), ma perché non si sia fatto
avanti nessun imprenditore italiano. Già,
come mai?
mister Nutella e altri ex-gloriosi
Uno potrebbe pensare che nell’alimentare
non abbiamo grossi nomi, dopo tutto lo
shopping fatto dagli odiati francesi ed altri. Ma sbaglierebbe. Alcuni nomi ci sono
ancora, il più grosso compare in pubblicità in tv quasi tutti i giorni con la sua Nutella, ed è l’italiano più ricco di tutti: lo dice
la classifica Forbes, nella quale Michele
Ferrero, padrone dell’omonimo gruppo, ha
superato persino l’altro più ricco, Silvio
Berlusconi. Il patrimonio personale di Ferrero – secondo Forbes, non secondo il fisco (poi vedremo perché) – è di 13 miliardi di euro. Non solo: anche lui ha una bella liquidità in cassaforte, 2 miliardi e mezzo secondo le fonti finanziarie riportate dai
giornalisti più esperti. Dunque: di qua, un
«gioiellino» ripulito e promettente; di là,
un imprenditore che lavora nello stesso
settore ed è pieno di soldi. Ma le avances
sono durate poco e il matrimonio non s’è
fatto; solo quando sono arrivati i rivali fran-
cesi Ferrero è stato corteggiato, evocato,
adulato perché ci ripensasse, tornasse a
dare uno sguardo all’azienda. Ma nicchia,
tentenna. Così come nicchiano e tentennano le cooperative di Granarolo, molto
ma molto più piccole di tutti gli altri big
che stanno affollando l’agone. Tutti, adesso, aspettano quel che il governo metterà
sul piatto.
Ma torniamo per un attimo a mister Nutella, evocato come il cavaliere che dovrebbe salvare l’impresa.
Come ha notato Vincenzo Comito su
www.sbilanciamoci.info, dire che la Ferrero è un’impresa italiana è una forzatura.
Certo è una grande impresa, e di successo; certo produce (anche) in Italia. Ma
tutto il suo portafoglio è in Lussemburgo. Non solo il tesoretto di famiglia, ma
proprio tutto. È un’impresa che ha il suo
centro direzionale in un paradiso fiscale.
Cosa che non è bella, certo. Ma se dal paradiso scendessero un po’ di miliardi per
re-investire in Italia una parte degli utili
qui fatti, forse non staremmo a cercare il
pelo nell’uovo. E invece – per ora – non è
così. Forse perché Ferrero è più bravo di
altri, e vede altri orizzonti imprenditoriali più convenienti di quelli del latte di Parmalat e suoi derivati; o forse perché non
ha fame di crescere e investire, potendo
vivere della ricca rendita di quel che di
25
ROCCA 15 APRILE 2011
la posta
in gioco
PARMALAT
buono ha fatto finora. Condizione che accomuna molte delle imprese italiane exgloriose, e che forse spiega perché queste
latitano mentre i loro colleghi stranieri
vengono a fare shopping giù nel nostro
maturo paese. Nel quale il rischio è ormai condizione dilagante, estesa a tutti gli
aspetti della vita – la salute, il lavoro, il
salario, la vecchiaia – tranne quello in cui
dovrebbe stare, quello in cui è fisiologico
e utile che sia: l’impresa.
ci conviene bloccare i francesi?
ROCCA 15 APRILE 2011
Ma se quest’ipotesi spiega il comportamento delle imprese, e anche il tardivo allarme
del governo – che ha deciso di muoversi per
evitare il peggio, dando una spintarella a
eventuali cordate italiane –, resta da chiedersi: ci conviene, bloccare i francesi? Perché una Parmalat italiana dovrebbe funzionare meglio di una Parmalat a dominanza
straniera? Non è forse vero che, negli anni
’80, si intervenne per evitare la vendita dell’Alfa Romeo alla Ford, e adesso, visti gli
eventi successivi, molti che si opposero a
quella vendita si mangiano le mani?
Su tali questioni, vediamo scontrarsi spesso posizioni ideologiche, la cui evoluzione
è interessante. Come notava Massimo
Mucchetti sul Corriere della Sera, fino a
pochi anni fa sembrava che tutto ciò che
veniva da fuori, con la caduta di ogni barriera nei mercati, fosse in sé positivo, mentre ora (giustamente, secondo il giornalista) si ripensa a quel modello: il grande
choc del 2008 ha avuto il suo ruolo, nel
crollo del mito del mercato senza confini.
Ma le giravolte spesso sono così repentine
da far venire davvero il mal di testa e creare paradossi clamorosi: per cui (ha notato
l’economista liberista Zingales sul Sole 24
Ore) ci troviamo a far storie per l’ingresso
di un’industria francese nell’alimentare,
mentre abbiamo Gheddafi come socio nell’industria strategica delle armi (Finmeccanica). Allora, forse conviene fare a meno
delle ideologie: di quella liberista, per la
quale mai e per nessun motivo si debbono
intralciare imprese e capitali sui mercati;
ma anche di quella dell’interesse e dell’identità nazionali, nel cui nome sono stati
in passato compiuti atti che non hanno
affatto tutelato i lavoratori e il loro futuro.
Chiediamoci: cos’è in gioco, nel caso dell’industria Parmalat? Di quale interesse
strategico parliamo?
un intero settore a rischio
La risposta ce la danno i produttori di lat26
te italiani, che vedono il loro settore a rischio sparizione. L’Italia è già un importatore netto di latte: l’anno scorso ne abbiamo importato quasi 2 milioni e
600mila tonnellate. Se Parmalat va in
mani francesi, dicono gli allevatori, per
il latte fresco continuerà a rifornirsi da
noi, ma per tutto il resto – latte a lunga
conservazione, e latte che gli serve per le
produzioni industriali – andrà dai fornitori francesi. Non solo: sul mercato italiano del latte «alla stalla», ci sarà un
compratore ancora più potente a fare il
prezzo, contro un esercito di piccoli e
piccolissimi produttori che da anni vedono ridursi i loro compensi e sono al
limite della sopravvivenza. Un intero settore – del quale il governo si è occupato
solo per conquistarsi, a suon di soldi pubblici, i voti di quelli che avevano violato
le «quote latte» e che sono stati risarciti
e premiati, a danno di tutti gli altri che
hanno rispettato le regole – è a rischio. E
mostra in questo frangente tutta la sua
debolezza, e la crisi dell’agricoltura italiana, nel non aver saputo organizzare
una filiera forte, raccordarsi con le industrie di trasformazione, coalizzarsi contro i giganti della grande distribuzione.
È questo che ci dovrebbe interessare, più
che il destino proprietario della società
che fu di Tanzi. Ci dovrebbe interessare
come cittadini, e come bevitori di latte.
Anche se, come consumatori, non siamo
immuni da colpe. Consumiamo, mediamente, 56,7 litri di latte fresco pro capite
all’anno e 60 litri di latte a lunga conservazione. È meno buono e meno nutriente, ma costa meno, dura di più, si può
immagazzinare in casa. È proprio il latte
Uht quello che arriva dall’estero: il latte
fresco, per il deperimento veloce che ha,
non rende conveniente lunghi viaggi in
autocisterna. Richiede, se non il «chilometro zero», una produzione abbastanza vicina.
Un governo può decidere di intervenire
sulla proprietà delle aziende (magari senza riuscirci, per assenza di «campioni nazionali», o buttandoci dentro un sacco di
soldi), può comprare direttamente
un’azienda (nazionalizzare Parmalat?
Può sembrare una bestemmia, un sacrilegio, lasciamola qui come ipotesi teorica), o può porre delle regole che rendono più conveniente quel che è più sensato: consumare latte più sano, prodotto
vicino casa, che non brucia troppo petrolio per arrivare al negozio.
Roberta Carlini
TERRE DI VETRO
Oliviero
Motta
ia le ultime briciole dalla tavola,
rimane solo la bottiglia e qualche
bicchiere. È una serata più che
tranquilla. Prima di andare di là
per le terapie, c’è anche il tempo
per il caffè e una sigaretta da fumare sul balcone, affacciandosi su una
delle prime tiepide serate dell’anno. Oggi
siamo in tanti, arricchiti dal ritorno di Fabrizio per un periodo di ripensamento; e il
gruppo del reinserimento – nome in codice «seconda fase» – conta così sei persone,
record stagionale.
Silvio è decisamente su, nonostante sia
stanco fisicamente; lunedì ha compiuto
quarantacinque anni festeggiato da tutti i
diciannove del gruppo-casa. Gli ingredienti
sono stati quelli consueti di una festa casalinga: auguri, torta, applauso. E il regalo, che quando lo ricevi qui dentro, capisci
un po’ di più il significato della parola sorpresa.
Quattro giorni fa mi sono perso i suoi lucciconi, ma è un bel momento anche questo: lui che arriva con l’andatura ciondolante e i suoi novantadue chili, con in
mano un piccolo contapassi. Il suo regalo. Dice che le istruzioni sono un po’ complicate, non è immediato capire come
impostare le quattro funzioni: orologio,
passi, distanza, calorie bruciate. Mi chiede una mano.
Con Silvio e Fabrizio armeggiamo con il
contapassi e le istruzioni e rimango folgorato dal valore simbolico di questa decina
di minuti; seicento secondi, o giù di lì, in
cui scorgere condensati tanti ingredienti
del lungo percorso in comunità.
Primo passo: guardare. Vedere bene la realtà: com’è fatto questo aggeggio? Quanti
pulsanti ha? A cosa servono?
Secondo: cercare insieme di comprendere
le istruzioni, che qui sono sintetizzate in
immagini teoricamente immediate e, per
così dire, universali, ma che invece hanno
bisogno di essere interpretate. Frecce, numeri, sequenze. Cosa bisogna fare prima e
cosa dopo?
V
Terzo: fare tentativi, cominciare a muoversi. Superare la prima tentazione di piantar lì, perché non ci si capisce un tubo, e
azzardare. Sbagliare, tentare, cercare la
via.
Quarto: sincronizzare l’orologio. E la data.
Che ore sono adesso, esattamente in questo momento? Che giorno è? Collocarsi nel
tempo, darsi un punto di partenza.
Quinto: inserire il proprio peso. Quanto
peso io? Chi sono? Cosa porto di mio?
Come sono fatto?
Sesto: misurare e inserire la dimensione
del proprio passo. Non quello di un altro, proprio il mio; perché per sapere
quanta strada farò, devo dichiarare qual
è la distanza che c’è tra i miei piedi quando mi muovo. L’educatore e l’operatore
di comunità ci sono, sono qui accanto per
capire insieme, per una dritta, stimoli,
qualche punto cardinale; ma l’andatura
con cui cammini non può che essere proprio la tua. Niente imitazioni: misure
troppo piccole o troppo grandi, affaticano allo stesso modo. Come in montagna:
il tuo passo.
Leggiamo insieme le istruzioni per misurare il passo, ma oggi non abbiamo la possibilità di farlo. Lo faranno domani, Silvio
e il Tarci, bindella alla mano, a segnare per
terra i dieci metri e a camminarci sopra,
per ottenere esattamente quel numero, virgole e decimali compresi. Già me li immagino, giù nel cortile, alla ricerca della cifra
giusta.
Solo dopo quest’ultimo atto, il contapassi potrà fare il suo lavoro. Messo alla cintura, sarà in grado di svelare a Silvio
quanti chilometri divora portando a spasso i cani, alle prese col suo primo tirocinio lavorativo dopo due anni di comunità. Uno dei passaggi più importanti sulla
strada per una nuova autonomia personale.
L’unica cosa di cui le istruzioni non parlano e che è tutta, ma proprio tutta, nei tuoi
piedi: la meta.
Passo dopo passo.
27
ROCCA 15 APRILE 2011
il contapassi
CAMINEIRO
l’ora legale
Tonio
Dell’Olio
È
scattata l’ora legale. Fosse vero! Se
scoccasse davvero l’ora legale, la
legge sarebbe finalmente uguale
per tutti. Nessuno attenterebbe
più all’autonomia dei giudici. Tutti
pagherebbero le tasse dovute per
rendere più lieve il prelievo fiscale. Per tutti. La Corte dei conti non dovrebbe più denunciare l’ammontare di 60 miliardi di
euro annui derivanti dall’attività di corruzione e ogni italiano avrebbe mille euro di
più a disposizione. Terminerebbe la corsa
dei capitali verso i paradisi fiscali. Anche
il mio barista farebbe sempre lo scontrino
senza che io glielo chieda e l’idraulico, l’oculista, l’avvocato, il dentista e l’agenzia di
pompe funebri non ci presenterebbero più
due conti separati con e senza fatturazione. Se l’ora legale scattasse davvero, metteremmo le lancette dei nostri orologi un’ora
avanti sulla via della giustizia. L’ora legale
(quella dell’orologio!) è scattata mentre si
bombardava in terra straniera in attuazione di una risoluzione dell’Onu che 66 anni
fa nasceva «per preservare le future generazioni dalla tragedia della guerra». Quale
ora dobbiamo aspettare perché le Nazioni
Unite dichiarino il proprio fallimento o siano messe in grado di funzionare davvero?
In attesa dell’ora legale (quella vera!) ciascuno affretti il tempo dell’onestà e della responsabilità, della lealtà e della fedeltà alla
comunità di cui si è parte.
Anabel Hernandez
ROCCA 15 APRILE 2011
Cinque anni di inchieste giornalistiche serie e documentate per giungere a una pubblicazione poderosa: Los señores del narco. Sfogliando le pagine del libro si scopre, non senza qualche sorpresa, che i signori del narcotraffico non sono soltanto
gli appartenenti ai sanguinari cartelli messicani che hanno provocato più di 35.000
morti ammazzati negli ultimi anni, ma
anche molti membri delle forze di polizia
e delle istituzioni. Testimonianze, documenti e fatti. Sfido che le siano giunte mi28
nacce di morte e che oggi la sua vita sia
in pericolo! Per questa ragione abbiamo
fatto sapere al governo messicano che
Anabel Hernandez non è sola. C’è una comunità internazionale, composta da organizzazioni e gente comune, che riterrebbe responsabile lo stesso governo di
qualunque cosa dovesse capitare anche a
lei come è successo finora a 65 suoi colleghi che hanno pagato con la vita il coraggio della verità. L’informazione corretta è
l’autentica sentinella della verità. Aprire
gli occhi su ciò che ci succede attorno è il
primo passo verso una cittadinanza consapevole.
la cultura
Don Ciotti lo va ripetendo da tempo: «È la
cultura che dà la sveglia alle coscienze».
Anche per questo dovremmo denunciare
come un attentato ogni sottovalutazione
gretta dell’arte e del bello, di ciò che riempie sguardi, menti e cuori. Un quadro, un
libro, un film, un passo di danza… non sono
compiacimento intimo dello spirito ma
un’apertura alla vita che respiriamo al di
là delle nostre mura. È la scommessa di
imparare un alfabeto nuovo che ci fa conoscere quanto infinite siano le strade dell’anima. Senza cultura saremmo tristi fiori appassiti nostalgici di acqua e di aria. E
vivremmo l’afasia della mente, lo sbiadimento della creatività, la paralisi delle intuizioni. Uno scavo archeologico o una
canzone, un ricamo antico o una poesia
sono beni comuni e vanno garantiti come
la sanità e la sicurezza. Le librerie, i musei, i teatri... dovrebbero essere distribuiti
sul territorio come le farmacie: in base al
numero degli abitanti. Si tratta di un diritto. Non costituiscono un vezzo e un dipiù
ma un diritto che a tutti va garantito. Anzi:
promosso e sviluppato. «La Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico
della Nazione» (Art. 9 della Costituzione
Italiana).
ENERGIA
nucleare sì
nucleare no
Pietro Greco
giornalista scientifico, scrittore
Ugo Leone
ROCCA 15 APRILE 2011
docente di Politica dell’Ambiente
Università Federico II, Napoli
29
ENERGIA
il nucleare dopo
Fukushima
Pietro
Greco
rima il sisma, poi in rapida successione le onde di tsunami. Non c’è
dubbio alcuno: quelli che si sono
abbattuti sull’isola di Honsu in Giappone, venerdì 11 marzo, sono stati
due colpi davvero fuori dall’ordinario. Il terremoto ha raggiunto magnitudo
9,0 ed è stato il più forte mai registrato nell’arcipelago nipponico. Il quinto per potenza mai registrato al mondo. Lo tsunami, con
onde alte fino a 15 metri, è avvenuto sottocosta e in pochi secondi ha raggiunto e devastato vasti territori pianeggianti.
Le perdite umane sono state molto alte: si
parla di migliaia di morti. Ma chi conosce i
terremoti e la loro capacità sa che in qualsiasi altra parte del mondo, con analoga
intensità abitativa, le vittime sarebbero state
ben maggiori. Basta ricordare che proprio
lo scorso anno ad Haiti un terremoto di
magnitudo 7,0 – seicento volte meno potente di quello nipponico – e senza tsunami ha
causato quasi 300.000 morti. Pur nella tragedia, il Giappone ha dimostrato che per
capacità tecnologica e cultura della prevenzione non ha pari al mondo.
P
crisi del sistema nucleare
ROCCA 15 APRILE 2011
Tuttavia nelle ore successive al doppio micidiale colpo, il mondo è rimasto col fiato
sospeso a causa di un effetto secondario del
terremoto e dello tsunami: la crisi del sistema nucleare. Non il collasso, si badi bene.
Perché nessun dei 55 reattori che costituiscono il sistema nucleare giapponese è collassato e tutti quelli a rischio sono stati spenti automaticamente non appena è stata registrata la scossa sismica. Ma una crisi del
sistema, quella sì c’è stata. Il sistema ausiliario di refrigerazione non ha funzionato
bene, soprattutto (ma non solo) in alcuni
reattori della centrale di Fukushima. Provocando una crisi seria: quello ai reattori
giapponesi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile dopo
Chernobil. L’Aiea, l’Agenzia Internazionale
per l’Energia Atomica ha classificato l’incidente di Fukushima prima al livello 4, poi
al livello 5 e infine al livello 6 della scala
30
Ines (International Nuclear Event Scale),
che va da 1 a 7.
Il livello 6 è, appunto, quello relativo a un
incidente grave. C’è solo un livello successivo, il 7. Quello, catastrofico, di Chernobil.
Al momento in cui scriviamo – tre settimane dopo il terremoto – le notizie sono ancora frammentarie. Non sappiamo ancora se
c’è stata, in qualcuno dei reattori, fusione
del nocciolo. Non sappiamo neppure se i
giapponesi riusciranno a refrigerare i reattori surriscaldati. Sappiamo però che ci
sono state diverse esplosioni, di natura chimica, che hanno provocato emissioni, più
o meno controllate, di nubi definite nocive
dal governo giapponese.
Non conosciamo né la quantità né la natura della radiazione liberata nell’ambiente.
Sappiamo però che il governo di Tokio ha
deciso di evacuare l’area intorno alla centrale per un raggio prima di 10, poi di 20,
poi di 30 chilometri. E che la autorità americane hanno consigliato ai propri cittadini
di allontanarsi di almeno 80 chilometri da
Fukushima.
Non conosciamo ancora le cause precise
della crisi del sistema ausiliario di refrigerazioni in così tanti reattori. E solo una
conoscenza dettagliata potrà trasformarsi
in una spiegazione significativa.
Tuttavia due cose sono certe. La prima certezza riguarda la mancanza di trasparenza. La carenza di informazioni è stata così
clamorosa (ha protestato non solo l’Aiea ma
persino il primo ministro del Giappone),
inaccettabile e del tutto controproducente
per chi guarda al nucleare come a un’opzione spendibile al mercato dell’energia. A
molti, infatti, è venuta in mente la mancanza di glasnost da parte delle autorità sovietiche al tempo di Chernobil. Facendo sorgere spontanea la domanda: l’omertà è intrinseca al nucleare?
imprevisto o imprevedibile?
La seconda certezza riguarda il sistema
nucleare giapponese: l’incidente di Fukushima ha dimostrato che – almeno, in par-
ROCCA 15 APRILE 2011
te – non è stato progettato e realizzato per
sopportare i due terribili colpi: il terremoto
di altissima intensità e l’arrivo in tempi rapidissimi delle terribili onde di tsunami.
A questo punto bisogna capire se l’imprevisto è risultato tale perché imprevedibile.
Oppure per carenze di progettazione. Il
nodo non è da poco. Perché, in ogni caso,
propone domande cui non è semplice rispondere.
Ammettiamo che il doppio colpo – sisma di
magnitudo 9,0; onde di tsunami che arrivano sulla costa altissime e in pochi secondi –
che non è stato previsto dai costruttori della centrale di Fukushima fosse davvero imprevedibile. Questo non ci deve portare a
rivedere profondamente i fondamenti teorici su cui costruiamo i nostri sistemi di
prevenzione del rischio, nucleare e non?
Se, al contrario, il grave incidente è stato
tale per colpa oggettiva dei progettisti (era
prevedibile e non è stato previsto), il fatto
che questo errore umano sia avvenuto in
un paese tra i più sviluppati tecnologicamente e con maggiore cultura della prevenzione, non è il caso di rivedere in profondità il modo in cui mettiamo in pratica i fondamenti teorici della prevenzione del ri31
ENERGIA
schio, nucleare e non?
Solo dopo che avremo risposto a queste
domande potremo rispondere in maniera
compiuta a quella che tutt’oggi campeggia
sulle prima pagine dei giornali e persino
sulle agende politiche delle cancellerie di
tutto il mondo: nucleare sì o nucleare no?
Non solo il Giappone, l’Europa e l’America
(dove oggi si concentra la maggiore densità di centrali), ma anche la Russia e la Cina,
i paesi con i più vasti programmi di sviluppo nucleare, hanno deciso pause di riflessione e di studio prima di rispondere alla
nostra ultima domanda. Anche l’Italia ha
congelato per un anno il suo recente progetto nucleare (i maligni dicono per aggirare un referendum dall’esito pressoché
scontato). La domanda sulla sicurezza delle centrali è dunque sospesa, in attesa di
capirne di più.
Ciò non toglie che possiamo cercare di individuare gli altri temi su cui coloro che
hanno chiesto una pausa devono riflettere.
ROCCA 15 APRILE 2011
né determinante né indispensabile
Quanto conta e quanto potrebbe contare il
nucleare nel paniere energetico globale? Le
ultime stime proposte dall’Unep, il Programma per l’Ambiente della Nazioni Unite, dicono che il nucleare, con circa 450 centrali attive, attualmente soddisfa appena il
2,8% della domanda energetica mondiale.
Entro il 2035 la domanda di energia, si calcola, aumenterà del 50%. Se anche oggi
partisse un piano globale per quadruplicare il numero delle centrali, e ne costruissimo 1.500 nuove, l’offerta nucleare nel 2035
non potrebbe superare il 7 o 8% della domanda complessiva di energia. Stiamo parlando, dunque, di una fonte minoritaria
destinata a rimanere tale. Anche perché,
prima di Fukushima, nessun paese occidentale aveva vasti programmi di sviluppo nucleare e gli unici paesi che intendevano costruire un numero importante di nuove centrali erano Cina, Russia e India. E, comunque, il numero di nuove centrali previste si
misurava in decine non in migliaia.
Il nucleare è determinante per limitare le
emissioni di gas serra? Uno dei vantaggi del
nucleare è che esso è (quasi) «carbon free».
Ovvero non produce carbonio e altri gas
serra (o, almeno, considerando tutte le sue
fasi di sviluppo, ne produce meno dei combustibili fossili). Recenti studi scientifici,
tuttavia, dimostrano che anche negli scenari più rigorosi di contrasto dei cambiamenti climatici – riduzione dell’80% delle
emissioni antropiche di gas serra entro il
2050 – il nucleare sarebbe certo utile, ma
32
non determinante né indispensabile.
Il nucleare è una fonte rinnovabile? L’uranio è un elemento piuttosto raro e le riserve
sul pianeta sono limitate. Secondo alcuni
non ce n’è abbastanza per alimentare un
programma massiccio di sviluppo. Secondo
un recente rapporto del Mit di Boston, invece, non ci dovrebbero essere problemi da qui
a fine secolo. Resta il fatto che la materia
prima è esauribile e che, dunque, il nucleare
da fissione è un’opzione transitoria, ma non
può essere un’opzione strategica.
Il nucleare conviene? Qui il discorso è, se
possibile, ancora più complicato. Il nucleare comporta grandi investimenti iniziali:
e questo sarebbe, per gli economisti, il motivo principale per cui in Occidente da
trent’anni si è poco sviluppato. Il costo per
unità di energia prodotta è, tuttavia, competitivo con quello di altre fonti. Se, tuttavia, non si tiene conto delle cosiddette esternalità (impatto ambientale, gestione delle
scorie incluse) e non si tiene conto del decommissioning, ovvero dello smantella-
in nucleare militare. Il nucleare civile è associabile a ragione o a torto – basta considerare l’esempio dell’Iran – alla proliferazione delle armi nucleari. La vicenda giapponese, tra l’altro, dimostra che l’Aiea,
l’agenzia della Nazioni Unite che dovrebbe
impedire il processo di proliferazione, non
ha tutti gli strumenti necessari per ottemperare al suo compito.
mento delle centrali giunte a fine ciclo.
le scorie
Il nucleare è ecologicamente sostenibile?
Per quanto riguarda il contrasto ai cambiamenti climatici, ne abbiamo già parlato. È
un’opzione utile, ma non determinante. Il
guaio del nucleare è che produce scorie.
Parte di queste scorie resta attiva e pericolosa per decenni, parte addirittura per migliaia di anni. Ancora oggi non esiste al
mondo un modo sicuro ed economico per
la gestione della scorie. È questo uno dei
motivi che spinge la gran parte degli ambientalisti a rifiutare il nucleare.
Il nucleare è socialmente sostenibile? È
certamente un’opzione per paesi relativamente ricchi e grandi. Non solo a causa
degli enormi investimenti iniziali, ma perché richiede una grande organizzazione.
Ma il maggior rischio sociale del nucleare
civile è associato al fatto che esso può, in
maniera relativamente facile, trasformarsi
Il nucleare è migliorabile? La tecnologia del
nucleare da fissione è, essenzialmente, obsoleta. È la stessa da molti decenni. Questo
non significa che non sia stata migliorata
nel corso del tempo: le centrali di cosiddetta terza generazione plus che dovrebbero
essere costruite in Italia, per esempio, sono
certo dotate di sistemi di sicurezza più evoluti e più affidabili di quelle di seconda generazione entrate in crisi in Giappone. Tuttavia non c’è una differenza qualitativa nel
processo di produzione dell’energia. Le centrali di quarta generazione dovrebbero essere, invece, molto più innovative. Ma sono
in una fase di ricerca e sviluppo così preliminare da non consentire previsioni con un
ragionevole grado di certezza e, in ogni caso,
saranno pronte e utilizzabili solo tra venti
o trent’anni. Conviene investire nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico
del nucleare di quarta generazione, ma non
conviene ancora puntare su di esso per pensare di risolvere o anche solo di lenire il
problema energetico.
Tutte queste argomentazioni e altre ancora
erano valide fino a un paio di mesi fa. Ma
ora lo scenario è completamente cambiato. O meglio, ora l’evoluzione degli scenari
è decisamente accelerata. La crisi libica e,
più in generale, nel Medio Oriente islamico, sta provocando una forte impennata del
costo del petrolio. L’incidente (l’insieme
degli incidenti) di Fukushima sta provocando un forte rallentamento del nucleare. Il
cambiamento del paradigma energetico
fondato sui combustibili fossili è sempre più
urgente; sia per motivi di depletion (esaurimento del petrolio), sia per motivi di pollution (cambiamenti climatici). La strada
sembra definitivamente spianata per le fonti
rinnovabili (biomasse, eolico, geotermico e
soprattutto solare).
Questo è, a giudizio di molti, lo scenario
energetico più probabile e più auspicabile.
Ma, come insegna Fukushima, spesso la
storia si diverte a smentire le previsioni considerate più attendibili e percepite come più
desiderabili.
Pietro Greco
33
ROCCA 15 APRILE 2011
quarta generazione?
ENERGIA
conviene investire
sul nucleare?
Ugo
Leone
ra i tanti insegnamenti che si possono trarre dal multiforme dramma
che ha sconvolto il Giappone, uno
riguarda il rapporto energia/primo
mondo. Ed è la ulteriore sottolineatura della impreparazione con la
quale da oltre cinquant’anni viene affrontato il problema. Impreparazione non solo nei
confronti dei dati reali del problema (disponibilità delle fonti e loro presumibile durata); non solo nei confronti delle possibili alternative tra le varie fonti; non solo nei confronti del modo in cui fronteggiare i rischi
legati alla loro produzione e trasformazione.
È questa una costante da quando la fame di
energia ha cominciato a divorare miliardi
di tonnellate di petrolio nella illusione di
avere a disposizione una fonte praticamente inesauribile e disponibile a prezzi bassi.
Sino a quando, abbastanza inutilmente,
sono suonati i primi campanelli d’allarme.
Il primo suonò nel 1956 con la prima, breve, chiusura del canale di Suez. Allora i Paesi industrializzati si resero conto che sarebbe stato per lo meno prudente cominciare a diversificare la scelta delle fonti di
energia e i paesi di approvvigionamento. Più
Paesi produttori entrarono nel novero dei
possibili fornitori, ma soprattutto si cominciò in modo più deciso e geograficamente
diffuso, a considerare l’energia nucleare
come possibile alternativa. Anche in Italia.
F
alternative al petrolio
ROCCA 15 APRILE 2011
Poi abbastanza rapidamente si ritornò alla
scialacquante originaria situazione. Sino al
1973 quando in seguito alla «guerra del Kippur» ebbe origine la più grave crisi internazionale delle fonti di energia che fu tale soprattutto per l’eccezionale aumento del
prezzo del barile di greggio che mise in profonda crisi le economie dei Paesi industrializzati legate a filo doppio con la disponibilità di petrolio abbondante e a basso prezzo. (Ma già nel 1970, col primo rapporto al
Club di Roma, il Mit aveva messo in guardia circa la disponibilità di petrolio avvertendo che non ce ne sarebbe stato per più
di una cinquantina d’anni ancora). Soprattutto in Italia.
34
Si cominciò a guardare con maggiore attenzione alla necessità di trovare alternative al petrolio. Il nucleare, innanzitutto, ma
anche sole, vento, maree, scisti bituminosi,
idrogeno, fusione «fredda» e via elencando.
Si cominciò anche timidamente a riflettere
sulla opportunità di risparmiare di più e
sprecare di meno nei consumi energetici.
Anche in Italia dove si puntò sulle domeniche senza auto, sul ricorso alle «targhe alterne» nella circolazione automobilistica,
sulla chiusura anticipata dei programmi
televisivi. E sulla bella pensata di un ricorso massiccio alla costruzione di centrali
nucleari con la elaborazione di un Piano
energetico nazionale che di centrali ne ipotizzava una ventina. A quella data erano
operanti nel Paese quattro centrali che complessivamente contribuivano alla produzione dell’1% del totale delle fonti di energia.
Dovunque la ricerca scientifica fu incentivata verso la individuazione di una fonte che
potesse risolvere il problema per sempre e
per tutti.
Ben presto si tornò alla precedente situazione di illusoria disponibilità di molto petrolio e a prezzi convenientemente ristabilizzati. La ricerca fu progressivamente disincentivata e ci si trovò di nuovo sguarniti
quando nel 1979 l’amico Scià di Persia fu
deposto e sostituito dal regime degli ayatollah con un conseguente, più limitato, nuovo incremento dei prezzi del greggio.
I trenta anni successivi sono stati, per così
dire, più tranquilli sul fronte delle oscillazioni del prezzo del barile. Ma più dinamici
sul fronte delle fonti alternative. Innanzitutto il ricorso al nucleare fu scosso da due
incidenti gravi nel 1979 a Three Mile Island
in Pennsylvania e, più grave e più noto, nel
1986 a Chernobyl in Ucraina. Il contraccolpo più sensibile si ebbe in Italia dove in seguito al referendum del 1987 il Paese decise di uscire dal nucleare chiudendo le quattro centrali parzialmente in funzione e bloccando i piani di futuro sviluppo.
la corsa alla denuclearizzazione
E arriviamo ad oggi, in Giappone, dove una
serie di drammatici eventi concomitanti (un
terremoto di violenza inusitata perfino per
questo Paese e, soprattutto, il conseguente
maremoto) hanno infierito sulla popolazione e scoperto un altro fronte sui problemi
del nucleare: quello della incapacità di prevedere il materializzarsi di un rischio come
quello che sta coinvolgendo la centrale di
Fukushima e di avere pronte le misure per
intervenire e minimizzare i danni. Invece
qui, a Fukushima, si è intervenuti come lo
scorso anno in seguito al disastro nella piattaforme petrolifera Deepwater Horizon nel
Golfo del Messico dove si è andato per tentativi, falliti uno dopo l’altro, e sono occorsi
ben quattro mesi per «tappare» la falla dalla quale nel frattempo erano stati sversati
in mare almeno 5 milioni di barili di greggio.
In seguito al drammatico evento nucleare
in Giappone si assiste ad un ripensamento
alla individuazione del nucleare come soluzione risolutiva e c’è una corsa alla denuclearizzazione: nei Paesi dove operano già
molte centrali, alcune delle quali vecchie di
diecine di anni, e nei paesi, come l’Italia
dove il ritorno al nucleare era in immediato programma.
Tutto questo è bene: vale il principio di precauzione. Ma non basta. Perché di grandi
quantità di energia non si può o non si sa
fare a meno. Allora nell’immediato non è
prevedibile altro che una più massiccia domanda di petrolio il cui prezzo aumenterà
e la cui disponibilità si ridurrà agendo come
ulteriore elemento di incremento del prezzo del barile.
Se questi sono i frutti della impreparazione
forse c’è almeno da sperare che una volta
per tutte ciò induca ad intraprendere una
strada più sicura e che le fonti che al momento è legittimo solo definire integrative
diventino progressivamente sostitutive delle
fossili. Facendo anche il dovuto ricorso a
politiche di abbattimento degli sprechi, razionalizzazione dei consumi e sostanziale
risparmio. Tutto anche per dare il tempo
alla ricerca scientifica, opportunamente rifinanziata e incentivata, di prospettare soluzioni veramente durevoli. Anche in Italia.
il rischio Italia
Anche in Italia dove il riferimento alla progettata ripresa dell’avventura nucleare è non
solo spontaneo, ma obbligatorio. Come è
noto nei programmi governativi c’è il proposito di costruire 13 centrali le quali se si
cominciasse a mettere le prime pietre, secondo le previsioni, nel 2013 diventeranno
operative dopo il 2020. Proviamo a ragionare su questi dati e a farlo per assurdo.
L’assurdo è dare per certo che si tratterà di
centrali dell’ultimissima generazione e che
queste siano assolutamente e provatamente sicure.
Se un’ipotesi di questo tipo può consentire
di dimostrare la sempre più limitata peri35
ENERGIA
colosità delle centrali non è, comunque, in
grado di dimostrarne la reale utilità.
Mi spiego. Il rischio, qualunque tipo di rischio, e sappiamo tutti che non esiste rischio
zero, non dipende solo dalla probabilità, per
quanto remota, che si manifesti un evento
capace di far danno a cose e persone, ma
soprattutto dipende, appunto, dalla presenza di cose e persone. Dunque per minimizzare la pericolosità di un impianto a rischio
di incidente è importante la scelta del sito:
che sia il più lontano possibile da persone e
cose. Non solo: è necessario anche che l’impianto sorga in una zona sicura, vale a dire
non sismica e non franosa.
Bene. Bisogna ora chiedersi se e dove esiste
in Italia un insieme di coincidenze come
queste. Se e dove esiste considerando che
1.037 comuni pari al 13% del totale sono
complessivamente interessati dalle norme
previste dalla Direttiva Seveso e, quindi, si
trovano in situazioni di rischio. Di questi 707,
con una popolazione di circa 11,5 milioni di
persone rientrano nelle aree a rischio di crisi
ambientale. Aggiungiamo che l’Italia è un
Paese sismico, vulcanico ed idrogeologicamente dissestato, e ci accorgiamo che su
8.101 comuni, 4.610 sono a rischio sismico,
una trentina a rischio vulcanico e 2.875 quelli
interessati da frane e smottamenti. Tutte tipologie di rischio umano e naturale che in
molti casi si sommano. Aggiungiamo ancora che quasi il 12% del territorio nazionale è
sottoposto ai vincoli derivanti dalla istituzione di Parchi, nazionali, regionali, oasi e altre
forme di protezione della natura. Se confrontiamo e sommiamo tutte queste situazioni, è
lecito chiedersi: ma dove esistono in Italia
siti nei quali sia possibile localizzare in sicurezza impianti a rischio?
una scelta utile?
ROCCA 15 APRILE 2011
Non esistono. O, per lo meno, non esistono
in quantità tali da giustificare l’impegno anche economicamente molto rilevante di un
investimento nel nucleare. Ciò perché questa è una scelta la quale, o si abbraccia in
toto, come ha fatto la Francia o non ha senso. Voglio dire che non ha senso proporsi di
fare un po’ di nucleare vale a dire costruire
una quantità di centrali capace di dare un
contributo all’offerta di energia intorno al 1015% del totale, intorno, cioè a circa 15 milioni di tonnellate di equivalente petrolio (tep).
Non ha senso perché 15-20 milioni di tep si
possono produrre «senza colpo ferire» puntando su fonti di energia via via sostitutive
delle fossili. Prime fra tutte il vento e il sole.
Soprattutto l’energia eolica che è rinnovabile, pulita, matura, e allo stato attuale la
più competitiva.
Si stima che volendo produrre dal nucleare
36
il 20% dell’energia elettrica, secondo
l’obiettivo del Governo, occorrerebbe un
investimento di almeno 25 miliardi di
euro. Con la stessa cifra e in molto minor
tempo si potrebbero installare 500 parchi
eolici da 20 turbine ciascuno. E questa sarebbe una scelta non solo più «rassicurante» in termini di riduzione del rischio, ma
anche coerente con le decisioni dell’Unione Europea di puntare con maggiore convinzione sulle fonti rinnovabili.
Quindi il sole (essenzialmente fotovoltaico) e, soprattutto, il vento. Ma non solo.
la risorsa risparmio
In aggiunta va attentamente esplorato il
troppo trascurato giacimento costituito
dal risparmio. Che non significa restrizione e sacrifici, ma razionalizzazione degli
usi e lotta agli sprechi a tutto vantaggio,
anche, della durata delle energie in via di
esaurimento per quegli usi per i quali è
difficile trovare immediate alternative, del
minor impatto ambientale e del risparmio
economico familiare.
In concreto, risparmio significa drastico
taglio dei consumi di energia per la climatizzazione artificiale degli ambienti costruiti nei quali oggi si bruciano annualmente
oltre 30milioni di tep. E, contemporaneamente, massiccia sostituzione dei combustibili fossili (olio combustibile, ma anche
metano) con il fotovoltaico e con il ricorso ad una «bioedilizia» nella quale le integrazioni per climatizzare gli ambienti siano ridotte al minimo indispensabile: d’inverno come d’estate.
Risparmio significa anche intervenire sui
modi di produzione industriale perché,
come è tecnicamente possibile, diventino
meno energivori.
Risparmio significa, soprattutto, interventi nella politica dei trasporti urbani ed extra urbani che oltre ad essere grandi consumatori di energia da combustibili fossili,
per ciò stesso sono anche i maggiori responsabili dell’inquinamento atmosferico e dell’immissione di gas serra in atmosfera.
In conclusione: sole, vento e sobrietà negli stili di vita sono la ricetta per un futuro
non solo «sostenibile», ma più pulito e più
sicuro.
Sotto la spinta non solo emozionale della
catastrofe nucleare giapponese, molti Paesi hanno deciso di bloccare la loro proliferazione nucleare e di fermare le centrali
di più antica generazione. Ci sarà un ripensamento anche da parte del Governo
italiano anche prima che glielo imponga
un voto referendario?
Ugo Leone
CALO MATRICOLE
Fiorella
Farinelli
i investe di più in istruzione, durante le crisi. Meglio studiare, quando
il lavoro scarseggia. È sempre successo, e sta succedendo anche questa volta. Ma non in Italia. Lo dicono, concordi, tutte le fonti, il consorzio Almalaurea, il Consiglio Universitario Nazionale, il Comitato Nazionale per
la valutazione del sistema universitario.
I dati sono quelli dell’ultimo anno accademico, comparati con gli anni immediatamente precedenti. Sebbene da noi il tasso
della popolazione laureata, anche nelle fasce di età più giovani, sia nettamente al di
sotto della media europea, nell’ultimo anno
le immatricolazioni sono diminuite del 5%,
e il calo negli ultimi quattro anni è del 9,2%.
S
Non dipende dall’andamento demografico
– nel 2009 il numero dei diplomati è anzi
cresciuto di circa 5.000 unità – ma da un
mix di altri fattori. Lo si intuisce osservando che la riduzione delle matricole, che sono
state 293.000 nel 2009-2010 mentre erano
312.000 nel 2008-2009 (e 338.000 nel 20032004), non è omogenea in tutte le aree del
paese né riguarda nello stesso modo tutte
le facoltà. E inoltre non interessa le più costose università private, che invece vedono
in un anno aumentare i propri iscritti del
2%, e le immatricolazioni all’estero. L’emorragia colpisce in modo più vistoso le facoltà delle scienze umane (-16,8%), e più il
Mezzogiorno che il Centro Nord, ma l’analisi per provincia rivela che a nord come a
37
ROCCA 15 APRILE 2011
il declinante fascino
della laurea
CALO MATRICOLE
sud sono i mercati del lavoro locali a fare la
differenza: i diplomati sono più propensi a
non proseguire negli studi universitari dove
sono più alte le probabilità di trovare un’occupazione.
Quali sono le cause di questo crescente
disamore per l’università? Come si spiega
in un mondo del lavoro in cui è del tutto
evidente che i laureati hanno retribuzioni
mediamente più alte (+55%) dei diplomati e che, anche dentro la crisi, sono questi
ultimi a essere colpiti di più dalla disoccupazione?
il calo delle iscrizioni
ROCCA 15 APRILE 2011
Non è un problema, intanto, di tasse universitarie. A differenza del Regno Unito
dove si sono raddoppiate o triplicate nel
giro di pochissimo tempo, da noi non solo
le norme impediscono di superare una certa soglia ma i rettori si sono guardati bene,
per il momento, dal tentare forzature che
avrebbero alienato il consenso degli studenti proprio nella fase calda della protesta contro la riforma Gelmini. Secondo
alcuni dati pare anzi che negli ultimi anni
le entrate contributive per studente sarebbero addirittura diminuite. I costi veri,
quelli che in tempi di crisi possono dissuadere dall’investimento in istruzione terziaria le famiglie di condizioni economiche
più modeste (le altre no, come si vede dall’incremento di iscrizioni a università private come la Luiss di Roma o la Bocconi
di Milano), sono piuttosto quelli connessi
alla frequenza, soprattutto se in sedi universitarie di città diverse dal luogo di residenza. Costi molto alti, tra libri, affitti e
viaggi, su cui si è abbattuto il drastico taglio del 60% delle risorse per il diritto allo
studio.
Oggi gli importi delle borse di studio si
sono ridotti a 4.700 Euro annui per i fuorisede – briciole rispetto a costi effettivi di
20-30.000 Euro annuali – a 2.590 Euro per
i pendolari, a 1.770 per gli studenti in sede,
ma non tutti quelli che avrebbero i requisiti per ottenerle le ricevono davvero. Nelle regioni del Sud, la copertura degli «idonei» non supera il 60%, nel Veneto e nelle
Marche si arriva all’85%. Non solo. Chi riesce ad accedere alle residenze universita38
rie finanziate dalla regioni è appena il 22%
degli aventi diritto. Scoraggiante, inoltre,
il sistema italico dei prestiti «d’onore» a
futura restituzione. Il fondo «Diamogli un
futuro», annunciato con la solita grancassa di enfasi retorica dal ministero della gioventù, prevede prestiti di 5.000 Euro l’anno, da restituire due anni e mezzo dopo la
laurea, anche se ancora non si è trovato
un lavoro. Sono poi 19 milioni di Euro in
tutto, a fare quattro conti si capisce che
non si prevedono più di 700 prestiti, la solita lotteria insomma. Come si fa, come
possono fare le famiglie più tartassate dalla crisi a decidere a cuor leggero che dell’università non si può proprio fare a
meno?
laureati in precariato
Ma se la laurea sta perdendo fascino, non
è solo per questo. La verità è che anche
per i laureati i percorsi di primo inserimento nel lavoro si stanno facendo sempre più
faticosi e accidentati. Soprattutto per chi
ha fatto studi nel comparto umanistico –
non a caso è qui che ci sono i cali più vistosi delle immatricolazioni – un calvario
più o meno lungo di lavori a termine, di
precariato, e anche di lavoro nero è diventato un orizzonte quasi certo. Ma di lauree che assicurino un inserimento professionale rapido, qualificato, e con le caratteristiche del lavoro stabile o facilmente
stabilizzabile, non ce ne sono poi molte,
neppure nei comparti scientifici e tecnologici, tanto più se dopo la laurea ci sono
da superare concorsi per l’iscrizione agli
ordini o per lavorare nel settore pubblico.
I dati di Almalaurea ci dicono che occupati «senza contratto», a due anni dalla laurea, sono il 6% dei laureati di primo livello, il 7% di quelli di secondo, l’11% di quelli
del «ciclo unico», cioè di facoltà come
medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza. Tutto ciò dopo studi che richiedono quasi a tutti un impegno almeno
quinquennale, visto il fallimento delle lauree brevi che avrebbero dovuto assicurare
un rapporto più facile con il lavoro ma a
cui invece il nostro mercato del lavoro non
riconosce un valore maggiore rispetto al
semplice diploma.
importeremo perfino i medici?
Non è giustificabile, invece, che a questo
spingano le politiche pubbliche sull’università. Che sia lo Stato a dissuadere dall’investimento in cultura, sapere, competenze alte e specialistiche, nuovi profili e figure professionali al passo coi tempi che
verranno. In tutte le previsioni di uscita
dalla crisi, infatti, si prefigurano ristrutturazioni degli apparati produttivi e dei
servizi e innovazioni che porteranno in
breve a fabbisogni urgenti di nuove e diverse competenze.
Lo sanno tutti che nel settore produttivo
manifatturiero si stanno restringendo drasticamente i lavori a bassa qualificazione
e che sopravvivranno solo quelli ad alta
qualificazione e che nella stessa direzione
vanno le nuove opportunità di impiego nel
settore dei servizi di interesse pubblico e
di quelli alle imprese (mentre per i lavori a
più basso spessore professionale sarà sempre più forte la concorrenza dei lavoratori
appartenenti alla realtà dell’immigrazione).
Lo dicono gli analisti industriali, lo scrivono
gli studi del Cedefop, lo indicano le strategie
dell’Unione Europea. Non ci sarà sviluppo
senza risorse professionali pregiate, senza
ricercatori, senza esperti nelle nuove tecnologie. Non si possono correre rischi soprattutto in un paese dove il peso specifico dei
giovani sull’insieme della popolazione si è
dimezzato dagli anni sessanta a oggi e dove
una parte consistente delle nuove generazioni, in quanto figli di immigrati stranieri, entrerà ancora per qualche tempo con più difficoltà nei rami alti dell’istruzione.
E invece nel nostro paese si è deciso di disinvestire sull’università e sull’alta formazione. Tra i 28 paesi dell’Ocse, solo la Repubblica Slovacca e l’Ungheria hanno una
spesa pubblica per l’università inferiore a
quella italiana. Che dedica all’università
solo lo 0,88% del Pil contro l’1,07 della
Germania, l’1,27 del Regno Unito, l’1,39
della Francia, il 3,11 degli Usa. Oggi a
mancarci sono gli infermieri professionali, ma tra pochi anni ci mancheranno gli
statistici, gli informatici, i ricercatori, i tecnici ad alta specializzazione. E dal 2020,
confrontando quanti stanno per uscire
dall’esercizio della professione per anzianità e quanti sono oggi gli studenti di medicina, ci mancheranno anche i medici. Lo
sanno bene le facoltà di medicina dell’India che già da oggi propongono nei loro
curricoli formativi anche l’apprendimento della lingua italiana. Non sembra saperlo invece il nostro ministero dell’università. E neppure l’opinione pubblica. E neppure la politica.
ROCCA 15 APRILE 2011
Sono le conseguenze, come è noto, delle
scelte sbagliate di tante università che hanno organizzato i corsi di primo livello guardando più alle convenienze accademiche
che alle figure e alle competenze professionali effettivamente richieste dal mondo produttivo e dei servizi. Ma intanto che
si sta provando a ridisegnarli in modo più
sensato, tanti giovani ritrovandosi tra le
mani titoli poco spendibili sono costretti
dopo i tre anni del primo ciclo a proseguire ancora altri due anni per poter conseguire la laurea «specialistica».
Si può capire, dunque, perché per un numero crescente di giovani e di famiglie gli
studi universitari stiano perdendo di attrattiva. Un lavoro nero o precario o sottopagato annulla il vantaggio delle lauree rispetto ai diplomi. E si può capire anche
perché una parte, la più solida economicamente e culturalmente, cerchi migliori
sicurezze nelle università private di élite
che si sono fatte la fama di essere meglio
collegate con il mondo professionale o in
costosissime trasferte nelle università di
altri paesi.
Anche se resta vero che in prospettiva i
laureati sono e saranno più forti dei diplomati nel mercato del lavoro, è indubbio che chi fatica di più a supportare percorsi di studio lunghi e costosi è oggi spaventato dall’incertezza, o comunque dalla probabilità che il rapporto costi-benefici, almeno a breve termine, sia tutt’altro che favorevole. Ed è comprensibile
che, dove il contesto è più favorevole o
dove le relazioni familiari e sociali possono agevolarlo, si possa preferire un
mestiere concreto oggi a un’incerta professione domani.
Fiorella Farinelli
39
PIANETA COPPIA
ROCCA 15 APRILE 2011
Rosella
De Leonibus
40
lei e lei, lui e lui
F
iamma è laureata in ingegneria
elettronica, è abilitata da tempo.
Finalmente ha potuto sottoscrivere un contratto di lavoro adeguato e tra poco riuscirà a realizzare
quello che da tre anni è diventato
il suo sogno più grande: affittare una casa
in campagna e costruire là, passo dopo passo, il suo nido d’amore con Bianca. Si sono
conosciute in montagna, Bianca era nello
stesso albergo, si erano ritrovate, uniche
ragazze, a fare la ciaspolata notturna sulla
neve. Si sono innamorate a prima vista, ma
solo mesi dopo se lo sono detto, uno dei
tanti fine settimana in cui erano uscite insieme, raggiungendo entrambe la grande
città, rispetto alla quale abitavano una cinquanta chilometri ad est, l’altra novanta
chilometri a sud-ovest.
Adesso Bianca sta aspettando il trasferimento dall’ente pubblico per cui lavora, ma ancora il loro percorso a ostacoli non è finito.
I genitori di Bianca non sanno che la loro
unica figlia è lesbica. Fiamma la sta sollecitando, cosa racconti ai tuoi, la solita balla
che diciamo tutte, che te ne vai a vivere con
un’amica? E il trasferimento come glielo
giustifichi? E poi io non ho nessuna voglia
di nascondere nulla, se volessero venire a
farti visita, che facciamo? Quando vengono loro dormiamo in camere separate?
Fiamma è più avanti su questa strada, è cresciuta in un contesto più aperto, in una famiglia meno stabile, forse, ma sua madre
ha già fatto tutto il percorso, dalla sorpresa
all’angoscia alla rabbia, e ora è dalla sua
parte, la sta aiutando, sotto traccia però,
nella comunicazione col padre, il quale anni
prima aveva chiuso il contatto con la figlia,
appena saputo della sua prima relazione
stabile con una donna.
Sono molto diverse Fiamma e Bianca, un
po’ come i loro nomi, appartengono a temperature e temperamenti abbastanza complementari. Non sono mancate le asperità,
nella loro storia d’amore. Fiamma tendeva,
per la propria natura più intraprendente ed
estroversa, ad oscurare un po’ la compagna,
che però a sua volta si lasciava volentieri trasportare. «Come su un treno ad alta velocità, fino alla stazione principale non si scende. Così non ci penso, tanto lei ha già deciso.
Non mi sento affatto sottomessa, lei mette
in moto cose che io stessa desidero. Quelle
che io farei dopo un anno, lei le pensa e in
una settimana sono fatte, non ero abituata a
questa velocità, ma la mia vita è cambiata,
in meglio». Col tempo il loro rapporto sta
diventando più simmetrico, c’è molta ironia,
moltissima complicità, un feeling evidente
che scalda gli ambienti (pochi e ben selezionati) dove si mostrano come coppia senza
dissimulazioni. Soffrono parecchio di una
cosa: dal loro amore non potrà nascere un
bambino. Tutt’e due si sono dichiarate decisamente contrarie ad attivare altre possibilità esterne alla coppia. E ora che il progetto
di andare a vivere insieme sembra raggiungibile, questo limite le interroga parecchio,
stanno domandando l’una all’altra cosa accadrebbe al loro legame se questa mancanza si dovesse sentire troppo forte.
equilibri riconquistati
Giovanni e Umberto sono insieme da venti
anni. Hanno appena festeggiato questo anniversario, come avevano già fatto allo scadere del decimo anno. Sono stati gli amici a
sollecitarli, Giovanni non ne voleva sapere,
perché, diceva, l’altro festeggiamento, quello dei dieci anni, non aveva portato loro fortuna. La differenza di età e di esperienze, che
nei primi anni era stata un elemento di attrattiva, poi si era fatta sentire, e specialmente Umberto, che pochissimo si era espresso
sul piano affettivo e sessuale prima di legarsi a Giovanni, aveva sentito forte il bisogno
di vivere come il poco più che trentenne che
era: serate in discoteca, parecchi giochi di
corteggiamento, e anche un numero plurale
di avventure, che avevano finito per farlo
sentire sganciato dal patto di fedeltà. La sera
tornava sempre a casa, anzi, la mattina, specificava Giovanni, soffrendo molto di questi
margini troppo ampi di libertà che Umber-
oltre il pregiudizio
Se i nomi non fossero stati entrambi maschili, o entrambi femminili, davvero pochi sarebbero stati gli indizi che avrebbero permesso di attribuire queste vicende a coppie omosessuali invece che a coppie etero.
C’è un pregiudizio che permane, nonostante tanta strada sia stata compiuta dai tempi
in cui l’omosessualità era considerata un reato, e poi una perversione. Il pregiudizio che
sussiste ancora, anche in ambienti insospettabili, è che la relazione di coppia omosessuale debba essere per forza molto diversa
da quella delle coppie composte da un uomo
e una donna. L’accettare una persona gay o
lesbica è meno problematico, per gran parte
dei contesti sociali occidentali contemporanei, di quanto non sia ammettere ed accettare che possano esistere coppie omosessuali, non ai margini, ma col pieno diritto di
manifestarsi con libertà. In mezzo a mille
ostacoli, superando mille contraddizioni, il
diritto di amare ed essere amati all’interno
di una relazione stabile e socialmente visibile è ora qualcosa a cui le coppie omosessuali
non vogliono rinunciare.
Se l’omosessualità sia innata, costituzionale o acquisita, se sia frutto di sistemi educativi falliti, di traumi e abusi o di paura dell’altro sesso, se si tratti di uno sviluppo incompleto e di una libido bloccata nella sua
evoluzione verso l’oggetto «naturale»
d’amore, se l’orientamento sessuale sia la
causa o l’esito del rapporto sempre più intrecciato tra natura, cultura e ambiente sociale, se ci troviamo davanti a corpi malati,
a cervelli che non funzionano, o peggio a
comportamenti devianti da una presunta
«norma», queste domande non hanno finora aiutato a capire e sostenere il bisogno
fondamentale che ogni essere umano ha di
amare e costruire rapporti affettivi stabili e
nutrienti. Tra l’altro le domande sopra elencate, e tutte le altre che si fanno intorno all’omosessualità, non hanno risposte univoche, se non il dato di fatto, che le persone
gay e lesbiche esistono, e non possono avere diritti minori e riconoscimenti parziali
rispetto alla propria umanità.
Se c’è una differenza tra le storie di una
coppia gay o lesbica e quelle di una coppia
etero, sono differenze di sgomento, sofferenza, nascondimenti, vergogna e umiliazione. È diverso il percorso per cui si arriva a vivere la propria scelta affettiva, è diversa la strada per cui si giunge a riconoscere se stessi davanti agli altri, per cui
forse è un po’ più facile per un ragazzo o
una ragazza etero costruire un’identità che
gli altri possano riconoscere e che lui o lei
possa far propria in modo lineare proprio
in virtù di questo riconoscimento.
identità da costruire
Ad un ragazzo gay o ad una ragazza lesbica mancheranno gli sguardi compiaciuti
(più o meno espliciti) dei genitori, quando
manifesteranno la propria affettività verso i coetanei, quando intraprenderanno le
prime esplorazioni nel territorio dell’amore. Riceverà invece occhi sgranati, scenate, minacce, oppure sceglierà di nascondersi, di vivere una vita segreta, col rischio
di costruire una doppia identità, dove quella più autentica è condivisa con persone
meno intime, e nei legami più antichi ed
importanti si recita la commedia, con rischi gravi di frammentazione, parecchio
dolore e un profondo senso di solitudine, il
ROCCA 15 APRILE 2011
to si stava prendendo. Sono stati anni di
dolorosi confronti, di ferite emotive, di chiusure, culminate in due o tre periodi di separazione. Ogni volta però Umberto è tornato,
e la loro storia d’amore ha preso ora una piega diversa. Giovanni è diventato meno paterno e protettivo col suo compagno, gli chiede di più, ha preteso ed ottenuto un impegno comune più forte. E lui, il ragazzo attempato, come si autodefinisce adesso Umberto, ha fatto nel frattempo un bel percorso su di sé, ha guardato meglio dentro se stesso per definire cosa davvero voleva dalla vita
e dalla coppia, quali insicurezze e bisogni di
conferma, e quali rabbie antiche c’erano dietro la sua ricerca di quel tipo di libertà, e con
chi aveva davvero ingaggiato la sua partita
dimostrativa, oltre che con Giovanni. Proprio ora i nostri stanno aprendo una piccola
attività insieme, come secondo lavoro, e se
le cose andranno bene potrà anche diventare la loro unica fonte di reddito. Il loro reciproco ingaggio come coppia si è misurato
anche su questo.
41
.
cui risultato è una maggior vulnerabilità e
una capacità di selezione nelle relazioni affettive che sarà pericolosamente ridotta.
Solo se l’autostima dei ragazzi e delle ragazze omosessuali viene sostenuta, solo se la rete
affettiva primaria costruisce in loro un capitale di bene e di riconoscimento, quella base
sicura che serve per slanciarsi nell’esplorazione amorosa, solo se il cerchio della famiglia e degli amici protegge e sostiene, e difende, l’adolescente
...il prendersi cura dell’altro, oltre a rap- o il giovane omosespresentare una forma di impegno che fa- suale riescono a non
vorisce la realizzazione personale, con- entrare in quel circorre, in misura determinante, alla pro- cuito difensivo che li
mozione della vita sociale, allargando gli porterebbe ad una
orizzonti della solidarietà. L’intervento infelice ed amara opdella legge volto a fornire norme che con- positività, ad eccessi
feriscano all’unione omosessuale una di espressione steremaggiore sicurezza (e solidità) è un atto otipata e potenzialdi civiltà.
mente autodistruttiGiannino Piana, Omosessualità – una va. Tutto sta, per le
proposta etica, Cittadella Editrice, As- famiglie, per la società, per il contesto, nel
sisi 2010
riuscire a compiere
questo importante passaggio: dal concepire
l’omosessualità come inclinazione sessuale,
al pensarla come un modo diverso di amare
ed essere amati.
Le rivendicazioni delle persone gay e lesbiche non a caso si focalizzano proprio su
questo: la relazione affettiva come valore, e
come valore da poter vivere nella comunità
sociale, nel contesto naturale in cui ogni
relazione affettiva può svilupparsi e nutrire d’amore non solo la coppia che la vive,
ma anche il mondo intorno. A revèrse, come
della stessa Autrice può una relazione diventare stabile, attraversare tutti i passaggi che portano dall’innamoramento al riconoscimento reciproco
PSICOLOGIA
DEL
della alterità, alla volontà faticosa di rimaQUOTIDIANO
nere uniti anche attraverso momenti di conpp. 168 - i 20,00
flitto, alla complicità serena della maturità, all’essere linfa e ricchezza per il proprio
COSE
contesto, se deve svilupparsi nella clandeDA GRANDI
stinità, se deve essere negata, dissimulata,
nodi e snodi
nascosta? In tali condizioni di marginalità
dall’adolescenza
non possono facilmente nascere legami proall’età adulta
fondi, mancano i presupposti perché un lepp. 176 - i 20,00
game, attraverso il suo esprimersi non solo
in fugaci incontri sessuali, ma in gite do(vedi Indici
menicali, casa da pulire, amici da invitare,
in RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org) lavoro e poi riposo condiviso, possa diventare quello che deve essere, cioè il compito
per i lettori di Rocca evolutivo principale della prima età adulta.
i 15,00 ciascuno
Sono questi i due elementi importanti che
spedizione compresa fanno la differenza tra una coppia omo e
una etero: la base identitaria dei due partrichiedere a
ner, che si costruisce col feed back positivo
Rocca - Cittadella
del contesto familiare e sociale, e la quota
06081 Assisi
di spazio sociale nel quale alla coppia è pere-mail
[email protected] messo dispiegarsi e maturare il proprio ci-
ROCCA 15 APRILE 2011
PIANETA
COPPIA
42
clo di sviluppo. Dopo di che ogni coppia, di
ogni tipo, avrà gioie e dolori, gelosie, rivalità, difficoltà di comunicazione, anche difficoltà sessuali, problemi con le famiglie d’origine, problemi sulla definizione dello stile
di vita e sulla gestione del denaro, fatica a
costruire il noi senza cancellare l’io e il tu.
dal sesso all’amore
Se si compie un ribaltamento nel modo di
concepire l’omosessualità, e la si guarda non
come un problema di oggetto del desiderio
sessuale, ma come una forma di amore in più,
se non la si confina nella sfera genitale, così
come non ci verrebbe in mente di definire un
uomo o una donna etero come esseri umani
solo in base alle loro abitudini sessuali, né ci
verrebbe in mente di consigliar loro benevolmente di non esprimerle affatto, allora si può
arrivare a dissolvere molti stereotipi e ci si può
allontanare da molti pregiudizi.
Per esempio si potrebbe verificare che solo
una piccolissima percentuale delle persone
omosessuali preferirebbe rapporti occasionali, e meno ancora sceglierebbe una sessualità promiscua, e la percentuale si abbassa ancora di più per le donne lesbiche.
Si potrebbe capire che una coppia di uomini è capace di cura reciproca in modo paritetico, e che la fedeltà emotiva è più forte,
anche in presenza di qualche infedeltà sessuale. Si comprenderebbe che l’espressione
sessuale in una coppia di donne spesso è
fatta di tenerezza, e che magari con gli anni
la sessualità genitale diventa abbastanza
secondaria, mentre è forte il legame affettivo, fino a livelli profondissimi di intimità
emotiva. Si sarebbe più sensibili a ciò che
la mancanza di generatività biologica comporta per la coppia omosessuale, e alla maggiore apertura sociale che è necessaria per
trasformarla su un piano non materiale.
Ma tutto questo è possibile solo a partire
dal riconoscere che l’affettività viene prima della sessualità, sia nella nostra evoluzione come esseri umani, che nelle manifestazioni amorose delle persone omosessuali. L’affettività si lega e si colloca, in
modi sempre diversi, in tutte le possibili
declinazioni delle relazioni, da quelle di
cura a quelle di affliliazione, a quelle sessuali, e quella che si svolge nella coppia
omosessuale non è tanto, o non solo, e non
certo in via principale, una diversa pratica
erotica, ma è un sistema affettivo, complesso e ricco di varianti come per tutti gli esseri umani, un sistema affettivo che cerca
una espressione del Sé attraverso la relazione, e in questo caso è la relazione con
una persona dello stesso sesso biologico.
Rosella De Leonibus
.
TEMPI DI GUERRA
Vincenzo
Andraous
ento e vedo migliaia di persone, di
ogni colore e nazione, diagnosticare terapie politiche e sociali per stabilizzare diritti e democrazie in paesi dilaniati dalla ferocia della povertà, dall’ingiustizia oramai globalizzata, che non sottrae religioni e dal
taglione del mors tua-vita mea.
Guerre e stragi, uomini in armi e bambini depredati di ogni sorriso, terre divise
e derubate dei propri confini, inni alla
pace gridati a tempo di musica, e richieste di giustizia licenziate con qualche
parola travestita di compassione.
L’Africa è in fiamme, il Medioriente tra
le macerie, persone in marcia per la pace,
altrettante in guerra per difenderla, altre circondate e maltrattate, per distribuire equamente il residuo di giustizia.
Specialisti in relazioni spediti qui e là,
equazioni e sottrazioni della comunicazione a supporto delle percentuali e delle statistiche, tutte ben contenute nella
negazione del dato esponenziale, che accerta l’odio e la vendetta covare sotto il
primo strato di pelle, che non si vede, ma
si muove sotto carico, pronto a esplodere a ogni nuovo giorno.
Scacchieri e pedine si muovono lentamente intorno a paesi dimenticati, città
violentate, popolazioni abbandonate in
confini inventati e frontiere frantumate.
Il Far West non è poi così lontano, moltiplicato per mille, nelle sue nefandezze
inenarrabili.
Neppure l’immaginario collettivo riesce
a delinearne i contorni, la proporzione
di quelle macchie, sagome indistinte, ma
in continuo spostamento, il tremore della terra, al suo avanzare e ritrarsi.
Poi, ecco improvvisi i colpi sordi, come i
cannoni di ultima generazione, botti ripetuti, alle spalle, tra le scapole, in mez-
S
zo agli occhi, a liquidarne lo zoccolo,
quello più duro, fino a estinguerne lo
sguardo in alto, la fierezza ridotta a souvenir di tanti uomini stanchi delle catene e dalla costrizione a un silenzio disperante.
Le nazioni, i paesi, le città, ridotte a periferie di oggi, sono un ricordo sbiadito
delle democrazie di domani, schiacciate dalle tante parole che sono state dette, dalle recinzioni che sono sopravvenute, costruite a misura per non ascoltare.
Ma a ben pensarci, delle libertà di ieri,
ne rimangono pochi limpidi esemplari,
ma ci sono ancora, per non farci cadere
all’indietro, nel vuoto della memoria.
Pochi esemplari-riferimenti certi e in bella vista nella prateria dimenticata, a sfidare i fucili, i tanti cuori pavidi, i governi dell’insignificanza sociale, dei poteri
esposti controvento, per meglio difendere la propria inadeguatezza.
Come ho scritto tanto tempo fa, le nazioni dei bisonti non esistono più, bivaccano in una sorta di grande letteratura,
intorno c’è il rumore della carta sfogliata controvoglia, dentro la noia più impaziente, pagine di storia sradicate dalla miserabilità umana.
Da questa maledetta solitudine del sangue, i tanti e troppi paesi in guerra, gli
Stati coinvolti per diffondere la pace e la
democrazia, dovrebbero imparare qualcosa di più davvero da questa assenza,
divenuta presenza costante, un insegnamento a non dissolvere l’opportunità della riflessione (ancor prima dell’azione),
quella che parte dal cuore, per sentire
davvero il bisogno e la necessità di una
libertà che appartenga a tutti, indipendentemente dalla religione e dal portafoglio che ognuno professa.
43
ROCCA 15 APRILE 2011
Far West
FONDAMENTALISMO
la religione civile e po liti
Marco
Gallizioli
econdo l’analisi funzionalistica di E.
Durkheim (1), la religione, in ultima istanza, sarebbe un riflesso della società che venera se stessa. Con
questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il
grande sociologo intendeva sottolineare il
carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale
una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono.
In altre parole, saltando ogni discorso relativo alla spiritualità, per Durkheim la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo
di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella
quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare
il caos e, insieme, di esprimere una forte
carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse, come
sottolinea, in molti studi, Lukes (2).
S
ROCCA 15 APRILE 2011
atei devoti
44
Ma anche volendo lasciare da parte il riduzionismo di Durkheim, per il quale, in
fondo, la religione si riduce solo a funzione della società, è innegabile che esista una
dimensione pubblica delle religioni che
occupa un ruolo centrale nel costruirsi
della vita di gruppo. L’espressione più evidente di questo potere è offerta da quelle
persone che si definiscono come «atei devoti». In questa formula, vi è evidente una
contraddizione che, però, finisce con lo
spiegare meglio il senso e le forme della
religione civile: alcuni individui, infatti,
pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne riconoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti.
In altri termini, le fedi vengono svuotate
del loro proprium, e imbalsamate nella loro
funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica. Di fronte
alle questioni morali più scottanti, dunque,
l’ateo devoto chiama in causa la religione
istituzionale perché, con la forza dei suoi
rituali e della sua organizzazione, districhi la matassa ingarbugliata della realtà e
sistemi in maniera semplice i significati.
Non è lontano dal vero chi sostiene che tale
approccio alla religione sia, in sostanza,
un modo per esasperarne gli aspetti più
rigidi e fondamentalistici, tradendone lo
spirito di fondo, che è quello di essere una
proposta di carattere spirituale per la coscienza di ciascuno. L’ateo devoto, dunque,
nega Dio o, per lo meno, pone la questione
dalla sua presenza tra parentesi, per fermasi al potenziale regolante della religione. Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare
un ruolo decisivo nella politica degli stati,
rischiando di mercificare la sua proposta
spirituale. Strattonata, infatti, per ragioni
meramente utilitaristiche, la religione può
assumere caratteri più netti, correndo il pericolo di identificarsi con la cultura di una
nazione, piuttosto che di rappresentarne
il pungolo. Se è innegabile che ogni religione sia anche espressione delle tradizioni, degli usi, dei linguaggi e dei simboli di
un dato popolo, è anche vero che, nella sua
missionarietà, la maggioranza dei «credo»
contemporanei si propone in maniera universalitistica, ossia come un messaggio
valido per l’uomo di ogni spazio e di ogni
tempo. Quando la religione resta imbrigliata tra le maglie di chi desidera manipolarla, per gestire il potere o per dare compattezza alla società in momenti di confusione, rischia di assumere pericolosi caratteri di intransigenza.
la religione civile americana
In altri contesti, poi, soprattutto anglosassoni e nord-americani, la religione assume una doppia valenza: una prima, più
privata, legata alle scelte individuali o a
quelle di gruppi più o meno limitati che si
riuniscono attorno ad un’idea spirituale; e
una seconda, invece, capace di sorvolare
tutte le differenze che contrappongono le
diverse fedi, per proporre una sorta di grande sentimento religioso nazionale.
Uno dei sociologi più apprezzati della scuo-
po litica in vari contesti
.
gli Usa a nazione prediletta, quella cui affidare la missione civilizzatrice. Questo
elemento non è per nulla da sottovalutare:
nella rappresentazione che di sé operano
gli statunitensi emerge spesso l’idea di essere un popolo contraddistinto da una
missione, da un ruolo esclusivo, che coincide con quello di liberare l’intera umanità dalla schiavitù, sia essa, di volta in volta, identificabile con il blocco comunista,
con l’integralismo islamico o con l’espansionismo economico asiatico.
Anche Martin Luther King, nel criticare
aspramente la conduzione politica istituzionale, finiva col sottolineare la tesi che
gli Usa fossero depositari di una benedizione divina speciale, che, tuttavia, avevano tradito, deviando dalla strada maestra
del bene. In forza di questa eccezionalità,
tuttavia, King sollecitava la religione civile verso battaglie per l’allargamento dei
diritti, per la giustizia sociale, per la redistribuzione della ricchezza, per il miglioramento della sanità e dell’istruzione, con
differenze qualitative evidenti rispetto a chi
ha usato la retorica religiosa per sostenere
guerre di civiltà o per lanciare nuove cacce alle streghe, quali il maccartismo nel dopoguerra.
in Gran Bretagna
Un caso analogo, è rappresentato dalla
Gran Bretagna, nella quale la regina è anche fulcro della religione anglicana. E.
Shils e M. Young (5) hanno studiato nel
dettaglio l’evoluzione del rapporto tra la
monarchia e il popolo nel secondo dopoguerra, rilevandone le ambivalenze. Se la
seconda guerra mondiale si chiudeva con
il trionfo simbolico della monarchia di re
Giorgio VI, amato per non aver abbandonato Londra durante i bombardamenti, e
visto come simbolo della resistenza ai fati
avversi, la cerimonia di incoronazione di
Elisabetta II nel 1953, costituiva il primo
grande evento mediatico, sancendo lo sposalizio della regina con il suo popolo. La
televisione, riprendendo e trasmettendo,
amplificava il valore simbolico di quell’evento, consentendo anche a chi era fi-
ROCCA 15 APRILE 2011
la americana, R. N. Bellah (3), ha compiuto numerosi studi per descrivere e interpretare la cosiddetta «religione civile americana», sintetizzata nell’espressione «in
God we trust» (in Dio noi confidiamo ndr).
Riprendendo le tesi di Rousseau espresse
nel Contratto sociale, Bellah sostiene che
nessuna società si possa reggere senza dogmi di riferimento, dalla forza amalgamante simile a quelli religiosi. «Egli sostiene
che la religione civile è una dimensione religiosa pervasiva della vita politica americana, esistente indipendentemente dalle
chiese» (4). Se il singolo cittadino, infatti,
può esprimere liberamente le sue scelte religiose, riconoscendosi in una delle centinaia di Chiese e di associazioni a sfondo
spirituale presenti sul territorio statunitense, a livello pubblico, però, si sente adepto
di una sorta di grande religione civile, che
stringe gli individui attorno ad una idea di
collettività e di stato. In questo senso, la
religione civile funge da collante delle singole schegge rappresentate dagli individui,
facendo riferimento ad un dio, dai contorni di una divinità patria, che, non coincidendo con nessuna figura specifica, permette a tutti di riconoscersi in lui. Se si
analizzano i discorsi di insediamento dei
presidenti, ci si accorge che il riferimento
a Dio è costante, ma sono assenti cenni a
qualsiasi aspetto della religiosità specifica
del presidente. J.F. Kennedy, cattolico, citò
tre volte il termine «Dio», ma non fece alcun accenno ai santi o alla Madonna, propri del simbolismo cattolico; Reagan, nel
1981, fece riferimento ad un linguaggio più
vicino a quello dell’Antico Testamento, che
a quello del Nuovo, per permettere anche
alla componente ebraica di sentirsi da lui
rappresentata. La religione civile americana, tuttavia, non rinuncia ai suoi santi e
martiri, anche se li desume dalla propria
storia, piuttosto che dalle tradizioni religiose. Lincoln, Washington, Jefferson,
sono eroi-santi cui si tributa un culto di
riconoscenza, attraverso il quale il cittadino si sente parte di una patria e fedele di
un dio, patrio, che viene avvertito come potenza somma e come giudice giusto, capace di retribuire con saggezza e di eleggere
45
FONDAMENTALISMO
sicamente lontano, di partecipare alla manifestazione. Il punto di massima rottura
tra la Corona e il popolo si è registrato, invece, con la morte della principessa Diana
Spencer, nel 1997: «nel sentimento del pubblico rientrava la legittima indignazione
diretta contro l’uso (o la trascuratezza) dei
simboli da parte della famiglia reale» (6).
in Unione Sovietica
ROCCA 15 APRILE 2011
Un altro caso emblematico, poi, è quello
della religione civile e politica atea che si è
diffusa in Unione Sovietica nella seconda
metà del Novecento. Se la religione tradizionale, in quanto tale, era definita da Lenin come una «sbronza dello spirito», ossia come una sorta di nefasta ebbrezza
della coscienza indotta nell’individuo da
chi deteneva il potere, è innegabile che, già
con la morte di Lenin e l’avvento di Stalin,
l’Urss si sta corredando di tutta una serie
di simboliche e di ritualità a sfondo religioso, con l’obiettivo di cementare l’ethos
comunista (7).
In primo luogo, furono istituite nuove festività sovietiche, che si sovrapposero a
quelle tradizionalmente cristiano-ortodosse, come la Pasqua, la Pentecoste o il Capodanno. Inoltre, furono rilette in chiave
partitica alcune cerimonie relative a riti di
passaggio: il battesimo, ad esempio, fu sostituito con la «solenne registrazione del
neonato», e il funerale, con una cerimonia
di commemorazione. Quest’ultima, tuttavia, rappresentò sempre l’anello debole del
sistema di riscrittura civile dei rituali religiosi, segno dell’incapacità di un pensiero
ateo e vuotato di elementi spirituali, di amministrare con successo una questione prodello stesso Autore fonda e inquietante come la morte. Le parate di massa sostituirono i pellegrinaggi
LA RELIGIONE
e il culto dei dirigenti defunti la veneraFAI DA TE
zione dei santi, applicando alle salme lo
il fascino
stesso trattamento che tradizionalmente si
del sacro
riservava ai corpi delle persone morte in
nel postmoderno
odore di santità, quali il processo di impp. 112 - i 13,00
balsamazione e l’esposizione del cadavere. Lane (8), nell’analizzare queste sovrap(vedi Indice
posizioni, poi, descrive con attenzione anin RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org) che i nuovi luoghi di culto e di pellegrinaggio istituiti dal regime.
per i lettori di Rocca
i 10,00 anziché
i 13,00
spedizione compresa
Hitler e Mussolini
Considerazioni simili possono essere estese anche ai regimi fascisti e nazisti. Hitler,
richiedere a
ad esempio, innervò elementi pagani nelle
Rocca - Cittadella ritualità pubbliche per emancipare il suo
06081 Assisi
potere da quello delle chiese cristiane e per
e-mail
[email protected] poter meglio giustificare l’attribuzione alla
46
sua persona di poteri mistici e salvifici. Le
grandi adunate di massa fungevano da
collante sociale, ma erano animate da un
fervore che chiamava in causa un certo irrazionalismo vagamente spirituale, derivato sempre da un paganesimo di bassa lega,
riletto a proprio uso e consumo. La creazione di un nemico-male contro il quale
combattere permise, in chiave quasi manichea, il cementarsi di gran parte della
società, per fare fronte comune contro chi,
si diceva, ne soffocava l’eccezionalità. Per
questo l’antisemitismo e l’anticomunismo
erano funzionali al potere del leader e consentivano a Hitler di dirigere comunità
umane specifiche il senso di frustrazione
collettiva, secondo la strategia del capro
espiatorio, riletta in maniera violentemente e terribilmente innovativa (9).
Gli esempi di un uso più o meno selvaggio
della religione per usi politici si potrebbero
allargare anche ad alcuni casi contemporanei, basti pensare, tra gli altri, all’Iran o a
molti di quei paesi dell’Africa settentrionale, scossi, in questi giorni, da una serie di
manifestazioni libertarie. Ma, senza per forza doversi spingere fino ai casi estremi, sarebbe sufficiente analizzare la propria storia nazionale per verificare come la tentazione di spostare verso accentazioni squisitamente politiche e di potere il potenziale
delle religioni è sempre paurosamente presente, pur con forme e modalità differenti,
con modalità che dovrebbero davvero mettere in allarme chi, nella religione, cerca
qualcosa di diverso da una maniera per contenere un reale che spaventa.
Marco Gallizioli
Note
(1) E. Durkheim, Le forme elementari della vita
religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1971.
(2) S. Lukes, Political Ritual and Social Integration, in «Sociology» 9 (1975), pp. 289-308, p.
291.
(3) R. N. Bellah, Religion and Legitimation in
the American Republic, in T. Robbins – D. Anthony (a cura di), In Gods We Trust, Transaction Publisher, New Brunswick 1990, pp. 411426.
(4) A. Aldridge, La religione nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 198.
(5) E. Shils – M. Young, The Meaning of the Coronation, in «The Sociological Review», 1, n. 2,
(1953) pp 63-82.
(6) A. Aldridge, op. cit., p. 203.
(7) C. Lane, The Rites of Rulers. Ritual in Industrial Society: the Soviet case, Cambridge University Press, Cambridge 1981.
(8) Ib., pp. 243-248.
(9) Z. Bauman, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna 1999.
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Paul Grice
Stefano
Cazzato
o spirito della riflessione di Paul
Grice (Birmingham 1913-Berkeley 1998) è tutto in questa dichiarazione di intenti con cui inizia Logica e conversazione: «Mi limiterò
ad esplorare un’idea, non so se
vorrò sottoscriverla o meno». Proporre idee
ragionevoli, farne oggetto di definizione e
di critica, evitare di sottoscriverle da subito
come verità inappellabili sottratte al giudizio e al confronto: se interpretiamo bene, è
questo che intende dire il filosofo inglese.
Più che cercare la conferma di un’idea nella realtà (come stabiliscono in modi diversi
sia il criterio positivista di verificazione che
quello postpositivista e popperiano di falsificazione) Grice cerca la conferma nell’attività dei parlanti in quanto soggetti razionali capaci di argomentare e sottoscrivere
qualcosa sulla base di motivazioni e di ragioni. Da queste brevi indicazioni di metodo si comprende che centrale nella sua riflessione è l’interesse per il discorso, per i
principi che lo regolano, per le modalità che
gli uomini usano per intendersi e per pervenire a un accordo. Sono questi i contenuti fondamentali di Logica e conversazione, un capolavoro della filosofia analitica
come Le ricerche filosofiche di Wittgenstein
e Come fare cose con le parole di Austin. Proprio da Wittgenstein, da Austin e dalla composita tradizione della filosofia del linguaggio ordinario prende le mosse Grice per formulare la sua teoria discorsiva il cui nucleo fondamentale è rappresentato dal cosiddetto principio di cooperazione.
L
principi, massime e violazioni
Non è detto che tutti i parlanti seguano tale
principio ma, secondo Grice, è razionale che
lo facciano, visto che non avrebbe senso
comunicare per fraintendersi. Il principio
di cooperazione infatti afferma: «conforma
il tuo contributo conversazionale a quanto
è richiesto, nel momento in cui avviene,
dall’intento comune accettato». Per consentirne l’operatività Grice ritiene kantianamente che andrebbero rispettate alcune
massime. La massima della quantità prevede che i parlanti immettano nello scambio in corso né più né meno delle informazioni richieste. La massima della qualità
stabilisce che dicano sempre la verità e che
sostengano con prove adeguate quanto dicono. La massima della relazione esige invece la pertinenza per cui i parlanti non
dovrebbero fare digressioni inutili o immotivatamente cambiare discorso. Massime
della modalità impongono infine la chiarezza, l’ordine e la sintesi. L’osservanza di queste e altre massime cooperative garantisce
che gli scambi verbali vadano a buon fine,
che i parlanti cioè si intendano o facciano
intendere qualcosa. Di norma i parlanti osservano le massime ma può capitare che
massime disattese a livello di quanto viene
detto, siano rispettate a livello di quanto
viene implicato. L’implicatura può essere definita come quello che i parlanti vogliono
dire o far intendere, anche se, per una serie
di ragioni che vanno di volta in volta indagate, non lo dicono esplicitamente. Pur violando occasionalmente una massima, l’implicatura non viola il principio di cooperazione, non impedisce lo scambio e l’intesa.
Anzi, la violazione delle massime (o sfruttamento, come lo definisce Grice) rende la lingua uno strumento plastico, adattabile, ricco di potenzialità supplementari, capace di
dire molto di più e di diverso rispetto ai suoi
significati convenzionali e letterali. Questa
plasticità tuttavia non è illimitata poiché l’interlocutore deve potere essere in grado di
capire e controllare quanto è implicato intenzionalmente dal parlante. Se ciò non avvenisse, il principio di cooperazione sarebbe violato e con esso la funzione stessa della
lingua che ammette la creatività, ma compatibilmente con la comprensibilità. In perfetto stile analitico, Grice fornisce tutta una
serie di esempi di implicatura. Un’implicatura semplice è quella in cui A dice «ho finito la benzina» e B risponde «dietro l’angolo
c’è un garage». B viola la pertinenza, data la
genericità della sua risposta, ma implica la
probabilità che il garage sia aperto e venda
benzina. Altro caso è quello rappresentato
47
.
ROCCA 15 APRILE 2011
il discorso cooperativo
MAESTRI
DEL
NOSTRO
TEMPO
dalle tautologie. Dire che «la guerra è guerra» viola la quantità ma implica un particolare giudizio sulla guerra. Anche l’ironia costituisce un caso di implicatura. A, tradito
da B che ha rivelato un suo segreto, dice «B
è un vero amico», implicando chiaramente
il contrario di quanto ha detto e violando la
chiarezza. Dire di una persona che «è un
fulmine», viola la verità ma implica come
senso metaforico la rapidità e come senso
ironico la lentezza. Infine, se A dice «quella
signora è una vecchia ciabatta» e B risponde «oggi è una bella giornata», persino in un
caso come questo B, pur tradendo la relazione, non sta violando la cooperazione, ma
intende solo dire che il suo interesse comunicativo non è quello di seguire A sul terreno dell’insulto o della chiacchiera. B sta comunque dicendo qualcosa di sensato ad A e
crede che A possa ragionevolmente comprendere le sue intenzioni e comportarsi di
conseguenza, altrimenti non avrebbe senso
dire quello che ha detto. Altra cosa, invece,
sono quelle situazioni in cui «ci si fa beffa»
delle massime e della cooperazione con lo
scopo deliberato di ingannare l’interlocutore come quando (è il caso classico) si racconta il falso, si dà come dimostrato quanto
invece non lo è o si ricorre a qualche trucco
per non far progredire la conversazione.
comunicazione e azione
dello stesso Autore
Stefano Cazzato
Giuseppe Moscati
MAESTRI
DEL NOSTRO
TEMPO
pp. 240 - i 20,00
ROCCA 15 APRILE 2011
(vedi Indice
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e-mail
[email protected]
48
.
Tuttavia, se le implicature hanno un senso,
la questione del significato non sarà sempre una questione di verità/verificazione ma
di appropriatezza: i filosofi non dovranno
solo chiedersi se un enunciato è vero o falso ma se è appropriato alle esigenze dello
scambio, se serve o meno la comunicazione, se «chi lo usa in particolari occasioni»
lo usa correttamente, rispetto agli scopi
perseguiti. Grice parla della correttezza comunicativa come qualcosa di analogo alla
correttezza delle azioni. Anche le azioni
hanno una base cooperativa e comportano
delle massime da rispettare nell’interesse di
tutti. Queste massime possono essere localmente o momentaneamente violate ma ci
deve essere una ragione comprensibile e
condivisa per farlo. Le violazioni sono tollerate solo se sono giustificate, solo se esistono dei motivi validi per mettere tra parentesi una massima riconosciuta. Ad esempio una massima può essere sospesa a vantaggio di un’altra che si ritiene, in una situazione specifica, più vincolante. E il riferimento alla situazione sarà comunque decisivo per comprendere e tollerare l’eventuale violazione da una regola. Si potrebbe
anzi dire che un tale tipo di violazione è
pattuita, prevista e, in un certo senso, regolata essa stessa. In sostanza, come in cam-
po linguistico non esiste solo il vero e il falso così in campo etico non esiste solo il bene
e il male e in entrambi ci si può accontentare di un criterio di comportamento forse
meno assoluto di quello «naturale» ma sicuramente esigente e valido come il criterio di correttezza. Anche in campo etico il
soggetto, pur disponendo di una vasta gamma di azioni e di scelte, pur avendo una libertà teoricamente illimitata, sarà vincolato a comportamenti responsabili, razionali, rispettosi di un sentire comune. Comportamenti che tutti devono poter essere in grado di valutare e controllare sulla base di
codici e credenze generali che sono, in qualche modo, frutto di accordi precedenti. Scrive Grice nel saggio Il significato: «per comprendere le intenzioni linguistiche facciamo affidamento precisamente sugli stessi
criteri cui ci affidiamo nel caso delle intenzioni non linguistiche per le quali esiste un
uso generale. Un parlante deve intendere
comunicare ciò che di norma è comunicato e occorre una buona ragione per accettare che un uso particolare si discosti dall’uso generale... Analogamente nei casi non
linguistici: si presume che ciascuno intenda le conseguenze normali delle proprie
azioni». Non sorprende, alla luce di queste
considerazioni, che dopo gli studi linguistici
Grice si sia occupato soprattutto di temi
etici ma, come era nel suo stile, ha pubblicato solo una minima parte delle sue riflessioni. Sarebbe però interessante valutare
anche questo aspetto poco noto della sua
ricerca, per avere la conferma che egli non
è stato solo un grande tecnico, uno specialista e un innovatore nel campo della comunicazione ma un filosofo sistematico,
con interessi teorici molto solidi, una visione d’insieme dei problemi filosofici e una
capacità non comune di muoversi sul terreno delicato dei rapporti tra natura e cultura, tra principi e saperi situati. Come erano stati, appunto, i due grandi del pensiero
analitico: Austin e Wittgenstein.
Stefano Cazzato
per leggere Grice
P. Grice, Logica e conversazione:saggio su intenzione, significato e comunicazione, Il Mulino, Bologna 1993.
su Grice
G. Cosenza, Intenzioni, significato e comunicazione: la filosofia del linguaggio di Paul Grice,
Clueb, Bologna 1997.
G. Moro, Introduzione all’edizione italiana in Logica e conversazione, Il Mulino, Bologna 1993 (a
cura di D. Fusaro), Paul Grice, www.filosofico.net
NUOVA
ANTOLOGIA
Gilbert Keith Chesterton
un grande antropologo della letteratura
T
la religione tra le maglie
della letteratura
Nei romanzi e nei racconti di Chesterton,
che mantengono spesso un ancoraggio al
mondo delle fiabe (cui egli era molto legato) e che volentieri si sono prestati a una
trasposizione cinematografica (in Italia
agli inizi degli anni Settanta è stato Renato Rascel a impersonare Padre
Brown), incontriamo
qua e là anche diverse
tracce che portano direttamente al cuore della
sua convinzione religiosa, di marcata fede cattolica. Pare sia stata la
lettura del Libro di Giobbe ad alimentare in Chesterton una passione religiosa prima messa a
dura prova da un periodo di forte crisi spirituale; belle poi le pagine dedicate a san Francesco
d’Assisi e a san Domeni-
co (rispettivamente 1923 e ’33). Tali ‘tracce religiose’, peraltro, si intrecciano volentieri con riflessioni sulla politica e sulle
multiformi espressioni di ciò che è (intendiamo per?) cultura; interessante lo scritto autobiografico Ortodossia (1908), dove
l’impianto rimane essenzialmente filosofico.
Alla fine ne esce fuori un panorama, quello
dell’opera chestertoniana, che è insieme un
modello-paradigma di grande letteratura e
una sorta di originale ‘umanesimo letterario’ (contro l’umanitarismo). Non mi sembra infatti fuori luogo considerare Chesterton come un grande antropologo della letteratura, in un certo senso un vero e proprio ricercatore sul campo che attraversa
le strade della letteratura e dell’arte in generale, senza tuttavia nascondere la sua
predilezione – come detto – per il genere
della detective story, e lo fa appunto allo
scopo di meglio comprendere la complessa
rete delle relazioni interumane. I suoi attrezzi di lavoro sono, ovviamente, una eccezionale capacità e una naturale facilità
nello scrivere, ma anche una buona dose di
introspezione, una spiccata abilità nel muoversi tra più registri narrativi e, non ultimo, un certo gusto per il paradossale e il
misterioso, per l’assurdo e per il bizzarro.
un piccolo grande prete
Instancabile indagatore dell’assurdo è proprio il prete detective Padre Brown, un piccolo grande prete che, ogni volta con un nuovo colpo di scena, sconvolge sempre tutte le
apparenze per andare a cogliere quell’elemento nascosto che svela un’altra realtà per
mezzo di una ristrutturazione del contesto.
I racconti con protagonista Padre Brown,
la cui figura è ispirata a un sacerdote irlandese (padre Joseph O’Connor), si caratterizzano così per un umorismo corposo,
un tenace ottimismo di fondo e un costante riferirsi ai sentimenti dell’uomo: ecco
L’innocenza di Padre Brown, La saggezza di
Padre Brown, L’incredulità di Padre Brown,
Il segreto di Padre Brown e Lo scandalo di
49
ROCCA 15 APRILE 2011
Giuseppe
Moscati
utti dovrebbero leggere almeno
una storia con protagonista Padre
Brown, anche chi non è appassionato del genere poliziesco, delle
detective stories o della cosiddetta giallistica. Lui è uno dei più famosi detective della storia della letteratura e nasce dal genio dell’inglese Gilbert
Keith Chesterton (Londra, 1874 – Beaconsfield, 1936), lo scrittore tanto amato tra
gli altri anche da Borges e da Gandhi.
Oltre che romanziere e autore di svariati
racconti, Chesterton si è distinto anche
come artista, poeta, saggista e critico letterario, scrivendo su numerose testate giornalistiche e riviste specializzate, anche sulle nostre «La Ronda» e «Il Frontespizio».
Di famiglia benestante, la sua formazione
artistico-letteraria l’ha potuta sviluppare in
particolare prima alla Slade School of Art e
poi presso l’University College londinese.
NUOVA
ANTOLOGIA
Padre Brown. Egli si immedesima nel criminale per poterne comprendere pensiero
e azioni: cerca di ragionare con la ragione
dell’assassino, di vedere il mondo «con i
suoi stessi biechi occhi» e quindi di «lottare con le sue stesse passioni».
Chesterton, è soprattutto quella mirabile sapienza dell’autore inglese di cogliere i nodi
fondamentali della psicologia del personaggio, in relazione a felicità, volontà, libero
arbitrio, ma di farlo in virtù di una penna
estremamente duttile e spesso potentemente ironica.
non solo Padre Brown
ROCCA 15 APRILE 2011
C’è una data piuttosto significativa nella
biografia di Chesterton ed è quella del 1901:
è l’anno a partire dal quale egli decide di
lasciarsi alle spalle tutte le frequentazioni
dei circoli letterari e lascia la città per una
più tranquilla campagna inglese. Sarà, quest’ultima, la nuova ‘compagna di narrazione’, suggerendogli mille e mille situazioni
nonché efficacissimi personaggi sempre
passati al vaglio di una lettura psicologica
davvero penetrante, di cui Chesterton era
capace come pochi.
Ma è anche vera un’altra cosa e cioè che la
grandezza (e la fama) del personaggio di
Padre Brown ha avuto e probabilmente ha
tuttora un risvolto inevitabile: tutti gli altri
personaggi creati dalla penna di Chesterton
ne sono rimasti – chi più, chi meno – in
qualche modo oscurati, pur essendo anche
loro ben degni di nota. Pensiamo per esempio all’altro detective, quell’Horne Fisher
che è protagonista delle storie raccolte nel
1908 in The man who knew too much (The
club of Queer trades), per la precisione un
detective gentiluomo dagli interessi criminologici che è perennemente alla ricerca
proprio di quei colpevoli che hanno buone
probabilità di farla franca perché magari i
loro delitti non finiscono sulle prime pagine dei giornali. Storie di serie B, insomma,
che d’altra parte hanno tutti i loro intrighi,
il loro carico di mistero, a volte anche le
loro grandi efferatezze e che comunque non
vanno trascurati o dimenticati.
Il romanzo allegorico L’uomo che fu Giovedì (The man who was Thursday, 1922), che
presenta anch’esso scenari caratterizzati
dalla violenza, è al contempo un’occasione
per ragionare – per bocca, tra gli altri, dei
personaggi di Gabriel Syme e Lucian Gregory – su povertà e ricchezza, come pure
più in senso lato sulla società, sulle leggi e
sui rischi dell’anarchia, ma soprattutto sulla contrapposizione tra bene e male e sulle
possibili strade per ricercare la felicità. Il
tutto calato all’interno di una finzione letteraria che ha del grottesco: come si evince
già dal titolo, i membri della setta del Consiglio Centrale Anarchico adottano infatti
ognuno il nome di un giorno della settimana (e il fantomatico presidente si fa chiamare Domenica…).
Quello che rimane, al fondo delle pagine di
50
Giuseppe Moscati
per leggere Chesterton
G.K. Chesterton, Autobiografia, Lindau, Torino 2010.
Id., Ciò che non va nel mondo, Lindau, Torino
2011.
Id., Eretici, Lindau, Torino 2010.
Id., Eugenetica e altri malanni, Cantagalli, Siena
2008.
Id., I racconti di Padre Brown, San Paolo Ed.,
Milano 2010.
Id., Il club dei mestieri stravaganti, Guanda, Milano 2010.
Id., Il Napoleone di Notting Hill, Lindau, Torino 2010.
Id., Il poeta e i pazzi. Sei casi del poeta detective Gabriel Gale, Bompiani, Milano 2010.
Id., Il profilo della ragionevolezza. Distributismo,
sussidiarietà, solidarietà, Lindau, Torino 2011.
Id., Il segreto di Padre Brown, Piemme, Milano
1999; L’incredulità di Padre Brown, Piemme, Milano 1998; L’innocenza di Padre Brown, Mursia,
Milano 2008; La saggezza di Padre Brown,
Rizzoli, Milano 1996; Lo scandalo di Padre
Brown, Piemme, Milano 1999.
Id., La nonna del drago e altre serissime storie,
Macerata Feltria (PU) 2011.
Id., La sfera e la croce, Morganti Ed., Pezzan di
Carbonera (Tv) 2010.
Id., Le avventure di un uomo vivo, Piemme, Milano 1997.
Id., L’osteria volante, Bompiani, Milano 2007.
Id., L’Uomo Eterno, Rubbettino, Soveria
Mannelli (Cz) 2008.
Id., L’uomo che fu Giovedì, Bompiani, Milano
2007.
Id., L’utopia degli usurai, Excelsior 1881, Milano 2007.
Id., Ortodossia, Lindau, Torino 2010.
Id., San Francesco d’Assisi, Lindau, Torino 2008.
Id., San Tommaso d’Aquino, Lindau, Torino
2008.
Id., Uomovivo, Morganti Ed., Pezzan di
Carbonera (Tv) 2009.
su Chesterton
M. Ghezzi, Prefazione, in G.K. Chesterton, L’uomo che fu Giovedì, cit.
R. Brunelli – M. Sermarini, Introduzione, in
G.K. Chesterton, La nonna del drago e altre serissime storie, cit.
Centro per la formazione e l’aggiornamento
Diesse - Didattica e Innovazione Scolastica (Firenze e Toscana), Gilbert Keith Chesterton: la ragione e l’immedesimazione nei racconti di Padre
Brown, ww.diessefirenze.org/uploaded/287.pdf
&
V
VIZI
Filippo
Gentiloni
rotesta. Protestare. Un sostantivo
e un verbo di attualità. Sono fra i
più usati sia nella vita quotidiana
che in quella politica. Virtù o vizio? Forse sia l’uno che l’altro.
Comunque di grande diffusione e
di grande attualità, dovuta in gran parte ai
mass media che hanno portato la protesta
in tutte le case e in tutti gli uffici di questo
mondo. Protestare è diventato uno dei verbi
più diffusi, a tutti i livelli di tutte le società.
Subito la domanda che incalza: serve a qualche cosa? I «protestanti» – sembra offensivo
scomodare i gloriosi «protestanti» della storia del cristianesimo – aumentano a tutti i
livelli, ma sembra, invece, diminuire l’effetto delle proteste. Anche quelle più vistose
nelle principali vie delle grandi città, sembrano spesso inutili: lo stesso termine «manifestazioni» sembra indicare qualche cosa
che è, sì, visibile, ma in sostanza inefficace.
Come far sì che la protesta abbia effetto?
Non basta che la causa per cui si protesta
sia giusta? La giustizia, forse, non basta
più? A questo punto lo sguardo dalla protesta si sposta alla giustizia. E ci si chiede,
prima di tutto, se la causa per cui si protesta sia giusta, ma poi, anche, se i mezzi
con cui si protesta siano efficaci. Non lo
sono, ad esempio, parecchie «manifestazioni». A questo punto nel discorso sulla
P
protesta entra a vele spiegate un altro fattore. Un fattore che, purtroppo, domina
anche la società e la politica, il denaro.
Forse è stato sempre così: comunque oggi
più che mai. Il denaro serve a tutto, non se
ne può mai fare a meno. Serve anche a
protestare, affinché la protesta non sia inutile, ma serva al suo scopo.
Giustizia della causa, dunque, e mezzi.
Sono i due strumenti della protesta, che la
rendono possibile ed efficace. A tutti i livelli, da quello familiare a quello statale e
internazionale.
Ma esiste anche una educazione alla protesta, una vera educazione che oggi forse
si sta perdendo. Anche perché si constata
quotidianamente che la protesta è condizionata dal denaro. Proprio quel denaro
contro cui si protesta è sempre più necessario alla possibilità di protestare. Un sorta di circolo vizioso. Come fare? Come recuperare il valore limpido e sincero della
protesta? È difficile rispondere, immersi
come siamo in forme più o meno sincere
di protesta. Più o meno inefficaci. Bisognerebbe, forse, insistere anche se spesso senza risultati. La protesta ha sempre un valore. Ed è indicatrice di valori. Indica una
strada, anche se non si riesce a percorrerla. Indica una meta. Guai a una società
nella quale non si protesta più.
51
ROCCA 15 APRILE 2011
VIRTÙ
AMORIZZARE IL MONDO
sete di contem pl
ROCCA 15 APRILE 2011
Arturo
Paoli
52
l tempo dell’ultima quaresima è stato
per me particolarmente intenso: mi avvicino al sempre più desiderato incontro con il Volto dell’Amico che mi sedusse al tempo della mia giovinezza.
Esaminando la mia esistenza mi trovo
portato a delle mutazioni mai sognate, mi
vengono spesso incontro le parole che riecheggiano nel finale del vangelo di Giovanni: «ti ho portato dove tu non pensavi e forse
dove tu non volevi». Non è strano perché le
sue parole resteranno vive per sempre e arriveranno a nuove esistenze umane che respirano su questo pianeta terra. Considero
una grazia che le parole mi giungano non
solo affidate dal vangelo al tempo ma anche
affidate da mani di uomo come le mie (1).
Non sono un divoratore di libri; ma li mangio lentamente e mi fermo a quelle pagine
che illuminano le intuizioni che alimentano
la mia vita.
La crisi religiosa di quella parte del mondo che ufficialmente si dice cristiano mi
pare avanzare nel calo dei praticanti ai riti
religiosi e nel calo dei sacerdoti responsabili delle comunità. Confidiamo nelle parole del Cristo che ci ha promesso l’amicizia e siamo sicuri che Egli è fedele alle sue
promesse. Penso sempre a quelle parole:
«voi siete i tralci e io sono la vite» e a quelle più recenti che vengono ripetute negli
scritti del beato Carlo de Foucauld, non
certamente elaborate dal suo cervello non
molto imbevuto di una scienza teologica:
Cristo modello unico e quindi familiare al
pensare dell’uomo. Certo che il territorio
dove è stato seminato il cristianesimo non
è segnato da fatti di pace ma piuttosto di
guerra. E non c’è solo la guerra affidata a
ordigni di sempre maggiore carica esplosiva; ma c’è la guerra silenziosa degli oggetti che si possono definire come antisociali perché sembrano essere ispirati dall’intenzione del «fai da te». Esiste una forza progressiva che possiamo chiamare antisociale o antiamicizia. Possiamo pensare che durando in questo avanzamento
l’uomo del futuro sia privato di quella gioia del vivere insieme e dell’amarsi vicendevolmente.
I
tutto può morire ma non l’amore
Forse questa crisi attuale per l’intervento
provvidenziale di Dio potrà aprirsi a quella
sete di cui parla Gesù nel dialogo alla samaritana: «quell’acqua che io vi darò potrebbe
essere quell’amore che lega il figlio al Padre
e che inevitabilmente scende sull’umanità».
Come credente in Cristo penso che tutto può
morire meno l’amore che non può essere
sostituito da forme artificiali create dall’uomo. A un tempo di aridità è sempre succeduto un tempo di fecondità. Penso che un
cristiano deve divenire un testimone che
l’amore non è morto e l’amore non può morire.
Il senso della nostra esistenza non può essere altro da quello marcato dall’apparizione
di Gesù nel tempo e nella storia. Il Cristo
risorto è l’offerta permanente dell’amore del
Padre e l’amore vero che ha una caratteristica e una sola direzione: da me agli altri e ritorno.
Lascio la mia parola a uno di questi amici
che senza conoscerci offrono il loro linguaggio da trasmettere ai lettori: «ora si comprende la profondità dell’atto compiuto da Gesù
in piena sinagoga quando dopo aver guarito
un infermo chiese ai farisei, ‘se viene prima
osservare le norme della religione o piuttosto soddisfare i bisogni della vita...’. In questo dilemma vediamo il pericolo di distruggere l’etica nella soddisfazione dell’edonismo
di tutti i piaceri che si offrono».
La vita ci viene incontro con molti graffi ma
anche con molte promesse di felicità. Non
sempre abbiamo bisogno di lavorare e di
soffrire duramente; la stessa vita apre spazi
di piaceri sconosciuti che sono a portata di
mano. Allora ci appare troppo lontana, troppo difficile la promessa del Maestro. La domanda che Gesù rivolge ai farisei contiene
questo dilemma, anche il rifugiarsi negli
obblighi religiosi che non sono a prima vista
piacevoli, può servire da giustificazione a
sfuggire l’esigenza dell’amore all’altro che si
manifesta nel soddisfare un bisogno concreto. La crisi attuale della religione è oggi evidente e mi pare che sia una domanda che
circola invisibilmente nella stoffa del tempo
m plazione
a che serve la religione?
A che serve la religione? Spesso questa domanda nasce dalla credenza nella sopravvivenza alla morte. Credo che questa domanda
fluttui nel tempo senza trovare una risposta
sicura che è quella che ha dato praticamente
Gesù quando i farisei avrebbero avuto argomenti per dire a Gesù che il dilemma è falso.
Quest’uomo non aveva una malattia mortale
e quindi si poteva osservare il sabato e rimettere la guarigione al giorno dopo. Quest’uomo poteva certamente rimettere al giorno
dopo una deficienza fisica abbastanza sopportabile perché indolore. Ma a Gesù premeva dire ai farisei che il sabato si celebra soprattutto attraverso atti di amore: il perdono,
la carità ai bisognosi e azioni che fanno crescere nell’amore. Evidentemente Gesù non
nega l’importanza di riti religiosi purché aprano una relazione vera ed essenziale all’uomo,
una crescita nell’amore e quindi una apertura a questa inesauribile fonte, e quindi un incontro del figlio col Padre vero. Gesù stesso è
l’autore unico della fede, non può mai separare queste due forme di vita. Bisogna ritornare sempre al dialogo fondamentale con la
samaritana. Chi beve dell’acqua che io darò non
avrà più sete.
sacerdoti e segni dei tempi
Tornando alla crisi dei sacerdoti cioè di quelli
responsabili della trasmissione dei riti religiosi dovrebbero essere attenti a quelli che
Gesù chiama i segni dei tempi. I tempi attuali mi pare che scoprano con sempre maggiore evidenza che gli atti di religiosità che
non scendono nell’uomo e lo trasformano
da un essere egoista a un essere aperto agli
altri, il cosiddetto uomo per gli altri, e quindi imitatore anche se con molte limitazioni
del modello unico, non hanno certamente
bisogno dell’uomo dei riti e creatore di forme di religiosità. Le conseguenze sono alla
vista: la creazione di quella solitudine di cui
abbiamo parlato sopra, il disseccarsi dell’amore, la qualità più importante umana, e
quindi non c’è bisogno di Dio. E naturalmente chi continua la presenza di Cristo nel tempo, o trasmette amore, aiuta l’altro a desiderare fortemente di essere un portatore di
amore, oppure non si sente il bisogno di un
sacerdote che compia atti incomprensibili e
rinnovi una specie di commedia sempre la
stessa.
Anche la frase pronunziata da Gesù non vi
chiamo più servi ma amici continua ad essere portata dal vento e a inquietare coloro che
hanno preso la responsabilità di accogliere
questa vibrazione, oppure collaborano con
questo fenomeno provocato dalla crescita
permanente di apparecchi meccanici che
producano l’effetto di disgregare la comunità come comunione. Il vero cristiano come
il vero sacerdote dovrebbero collaborare a
fare scendere nel tempo quella voce rimasta
nell’aria. Bisogna soavemente ma con molta energia mantenere vive queste parole perché la persona senza capacità di accogliere
amore e dare amore non può che distruggere la vita e quindi segnare la fine dei tempi.
Ma questo Dio non vuole e la sua volontà è il
solo avvenimento che spegne il limite dei
tempi creando davanti a sé l’eterno.
Ritorno spesso alla profezia di Benedetto
Calati, il monaco di Camaldoli, «nel prossimo futuro esisteranno meno persone religiose e più numerose saranno le persone contemplative». Intendeva per religiosi i praticanti di preghiere e di pratiche religiose. Il
contemplativo è quell’essere che aspira alla
imitazione del Modello unico, che è colui che
può dire come Paolo «non sono più io che
vivo ma è il Cristo che vive in me» (1Cor 11).
Bisognerà attendere che la morte dell’amicizia (o del prossimo) si estenda di più come
avveniva nei tempi delle epidemie finché
questa sete e questa pratica della contemplazione diventi più generalizzata e con più
forza di creare una vera rinascita.
Arturo Paoli
Nota
(1) J. M. Castillo, Dio e la felicità, Cittadella, Assisi
2010, p. 59.
dello stesso Autore
ANCORA CERCATE
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53
ROCCA 15 APRILE 2011
come un bacillo nella carne di un vivente.
TEOLOGIA
il Gesù
di Ratzinger
e l’espiazione
Carlo
Molari
L
a ricchezza spirituale e la profondità teologica del secondo volume
Gesù di Nazaret del Papa avvincono il lettore fin dalle prime pagine e lo conducono passo a passo a
una intensa esperienza interiore.
Tra i numerosi spunti interessanti del libro, dato il periodo liturgico, vorrei soffermarmi a riflettere su un tema discusso: l’interpretazione della morte in croce di Gesù,
come espiazione vicaria. Il Cardinale Marc
Ouellet, Prefetto della Congregazione dei
Vescovi, nella presentazione alla stampa
del libro del Papa, il 10 marzo scorso, l’ha
segnalato tra i cinque punti nodali da approfondire. Egli ha richiamato «le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale», che lo stesso Papa elenca (p. 258), e ha
osservato che «questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere».
Il Papa non vuole rinunciare alle formule
della tradizione, convinto come egli è, che
«il mistero dell’espiazione non dev’essere
sacrificato a nessun razionalismo saccente» (p. 267). Anche se poi, come molti teologi e biblisti, giunge a capovolgere la prospettiva giuridica del passato, con un percorso però diverso da quello di altri teologi, percorso che merita di essere brevemente analizzato.
espiazione nel sangue
ROCCA 15 APRILE 2011
Nell’uso attuale espiazione, in genere, significa: «liberazione e purificazione che
compensa la colpa mediante il sacrificio»
(Devoto G. e Oli G. C., Dizionario illustrato
della lingua italiana, Milano, 1967). In un
senso strettamente giuridico espiazione ha
come corrispettivo il castigo o la pena.
Tutto «il diritto penale ha come propria
finalità specifica l’espiazione della colpa e
di conseguenza il ricupero sociale del reo»
(D’Agostino F., Diritto, VI Giustizia in Teologia, Dizionari S. Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 2002, 471). In senso religioso
54
espiazione significa quindi: «riparazione di
un torto fatto a Dio mediante il pentimento e opportuni atti di contrizione» oppure
«la pena imposta da Dio come punizione
dei peccati e nello stesso tempo mezzo di
purgazione delle colpe» (Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1968
pp. 380, 381).
L’espiazione è detta vicaria quando la prestazione richiesta è offerta o la pena fissata dalla legge è subìta da qualcuno in nome
o al posto di altri.
Il Papa illustra il tema dell’espiazione «più
volte e a diversi livelli». Ne parla a proposito della distruzione del tempio e della
conseguente fine di tutti i sacrifici (pp. 44
ss.), la cui «intenzione» era appunto l’espiazione; essi «nella croce di Cristo… sono portati a compimento... e così Gesù stesso ha
preso il posto del tempio» (p. 50). Vi ritorna quando interpreta la Preghiera sacerdotale di Gesù (Gv. 17), letta «sullo sfondo
della liturgia della festa giudaica dell’espiazione» (pp. 91ss.) e nel commento alle parole dell’ultima cena (pp. 135 ss.), «nella
quale trasforma la sua morte violenta in
un libero atto di autodonazione per gli altri e agli altri» (p. 148). Lo approfondisce
nel commento alla sentenza del Sommo
sacerdote Caifa secondo cui è «meglio che
un uomo solo muoia per il popolo e non
perisca la nazione intera» (Gv 11,50 cfr. 18,
14), e da cui «traspare il mistero della funzione vicaria, che è il contenuto più profondo della missione di Gesù» (p. 195).
Raggiunge il vertice nella riflessione sulla
croce come «riconciliazione (espiazione)
e salvezza» (pp. 255-267) dove «si compie
l’intimo senso dell’Antico Testamento, non
soltanto la critica cultuale dei profeti, ma,
positivamente anche ciò che sempre era
stato il significato e l’intenzione del culto»
(p. 259).
L’approfondimento del Papa si svolge nell’orizzonte giuridico tradizionale della
espiazione, nella convinzione cioè che «il
male deve essere espiato e ristabilita così
la giustizia» (p. 195). «Questo però significa che la croce rispondeva ad una ‘necessità divina’» (p. 193). Nello stesso orizzonte Egli interpreta il culto ebraico soprattutto il rito del giorno dell’espiazione (Yom
Kippùr), descritto nel libro del Levitico (c.
16). In quella circostanza oltre al capro
espiatorio, inviato nel deserto, veniva anche sacrificato un giovenco «come vittima
di espiazione» (p. 50), con il cui sangue il
Sommo sacerdote entrava nel «luogo della misteriosa presenza di Dio» (p. 50) proclamando il nome impronunciabile, lo versava sulla lastra d’oro (kapporet) che copriva l’arca. Il collegamento tra il sangue e
la espiazione è indicato con le parole del
la croce espiazione definitiva
Il Papa nota che «per il giudaismo, la cessazione del sacrificio, la distruzione del tempio dovette essere uno shock tremendo.
Tempio e sacrificio stanno al centro della
Torà. Ora non c’è più nessuna espiazione nel
mondo, niente che potesse far da contrappeso al suo crescente inquinamento in conseguenza del male» (p. 44). Data l’importanza che aveva il culto sacrificale per il giudaismo del tempo di Gesù, la distruzione
del tempio e la fine dei sacrifici hanno rappresentato l’inizio di una fase nuova della
storia ebraica. Da allora è scomparso «il
giudaismo dei sadducei, che era totalmente legato al tempio» e ha preso avvio una
modalità nuova della «fede di Israele», che
ha posto al centro non più il Tempio ma la
Torà. Da allora i rabbini hanno considerato «il canone degli scritti biblici come rivelazione di Dio senza il mondo concreto del
culto del tempio» (p. 44).
Per i cristiani, invece, la scomparsa dei
sacrifici era il segno del loro compimento
realizzato nella croce di Cristo perché
l’espiazione dei peccati era già definitivamente compiuta nella sua morte. «Sorprendentemente, una cosa era chiara fin
dall’inizio: con la croce di Cristo, gli antichi sacrifici del tempio erano definitivamente superati. Era accaduto qualcosa di
nuovo. L’attesa contenuta nella critica dei
profeti… aveva trovato adempimento: Dio
non voleva essere glorificato mediante i
sacrifici di tori e di capri, il cui sangue non
può glorificare l’uomo né espiare per lui.
Il nuovo culto atteso… era diventato una
realtà. Nella croce di Cristo era avvenuto
ciò che nei sacrifici animali era stato tentato invano: il mondo aveva ottenuto
l’espiazione. L’«agnello di Dio» aveva caricato su di sé il peccato del mondo e l’aveva
tolto via... Si era realizzata la riconcilia-
zione» (p. 256). Per questo la croce rappresenta l’anticipazione della fine del tempio e l’avvio della nuova fase della storia
salvifica. Da allora «i sacrifici del tempio…
erano superati. I suoi sacrifici... non erano
più validi per i cristiani... Cristo aveva preso il loro posto» (p. 257). A proposito del
riferimento all’Antico Testamento Reiner
Riesner, biblista protestante di Tubinga, in
una conferenza tenuta a Milano il 15 marzo scorso (Auditorium di Milano di largo
Gustav Mahler) ha detto «Uno dei punti di
forza del libro del Papa è la dimostrazione
che proprio le affermazioni del Nuovo Testamento sulla morte di Gesù come espiazione del peccato dell’uomo diventano comprensibili solo con l’aiuto del Vecchio Testamento e della sua traduzione in ebraico
antico. Le parole di Gesù sono intessute di
allusioni al Vecchio Testamento. Se le si
volesse eliminare tutte, non rimarrebbe
molto».
Il Papa avverte le difficoltà che il riferimento all’espiazione rappresenta per la sensibilità attuale. «Non è forse un Dio crudele
colui che richiede un’espiazione infinita?
Non è questa un’idea indegna di Dio? Non
dobbiamo forse, a difesa della purezza dell’immagine di Dio, rinunciare all’idea di
espiazione?» (p. 258). La risposta è no, perché il male c’è: «per colpa nostra» (p. 258).
La spiegazione offerta però presenta l’esigenza divina in modo più accettabile:
l’espiazione non è offerta dall’uomo, bensì
da Dio stesso nel Figlio. «Egli, il Puro, si
rivela al contempo il più forte. In questo
contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato
mediante il dolore dell’amore infinito… Dio
stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza
su di sé. Dio stesso introduce nel mondo
come dono la sua infinita purezza. Dio stesso «beve il calice» di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la
grandezza del suo amore, che attraverso
la sofferenza trasforma il buio» (pp. 258259).
Resta però un punto difficile da capire: si
tratta ancora di giustizia penale e quindi
di espiazione? Lo stesso soggetto esige e
offre! La sofferenza inoltre sarebbe voluta
da Dio come condizione necessaria! Non
sono meccanismi umani attribuiti indebitamente a Dio? Non sarebbe più semplice
interpretare espiazione nel senso attivo di
purificazione, come diversi esegeti pensano significhi il termine Kippùr? Dio purifica l’uomo senza chiedere nulla, offre gratuitamente perdono.
(continua)
dello stesso Autore
CREDENTI
LAICAMENTE
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55
ROCCA 15 APRILE 2011
biblista Ulrich Wilckens: «la cui [del giovenco] vita viene così offerta a Dio al posto di quella degli uomini peccatori meritevoli di morte». Ratzinger commenta:
«l’idea di fondo è che il sangue del sacrificio, nel quale sono stati assunti tutti i peccati degli uomini, toccando la divinità stessa viene purificato e così, mediante il contatto con Dio, anche gli uomini rappresentati da questo sangue vengono resi mondi:
un pensiero, questo, che nella sua grandezza e, insieme, nella sua insufficienza è commovente, un pensiero che non poteva rimanere l’ultima parola della storia delle
religioni, né l’ultima parola della fede di
Israele» (pp. 50-51). Il sangue di tori e di
capri infatti «non può purificare l’uomo,
né espiare per lui» (p. 256).
GIOBBE
fuori luogo
ROCCA 15 APRILE 2011
Lidia
Maggi
56
l libro di Giobbe è come una rappresentazione teatrale in cui viene messo
in scena il dolore di un uomo. Giobbe, il protagonista, abita un tempo
indefinito, poiché appartiene a ogni
epoca: è nostro contemporaneo, come
lo è stato per coloro che ci hanno preceduto. Inoltre, non è caratterizzato come ebreo
e tantomeno presentato in una linea genealogica che lo colleghi direttamente a questo o a quel clan. Abita una geografia mitica, la terra di Uz, luogo lontano da una
qualsivoglia città singolare per essere vicino a tutti noi. Giobbe è una finzione letteraria. Non è mai esistito perché continua
ad esistere in ogni epoca, in ogni luogo,
nelle pieghe del dolore umano.
Lo abbiamo incontrato come un uomo giusto e un padre attento, anche se un po’ apprensivo e sospettoso. Persona dai saldi principi, dai valori non negoziabili. Vive convinto di poter tenere sotto controllo il male.
Nella prima scena abbiamo incontrato un
uomo sereno che vive una vita armoniosa.
Un quadro idilliaco, troppo perfetto per
non incrinarsi; e, infatti, ecco il cambio di
scena. L’inquadratura si sposta nelle sfere
celesti e, come nella Divina Commedia,
l’autore del dramma ci permette di vedere
nell’oltre, aldilà della selva oscura della storia. Assistiamo a uno strano meeting: il
Signore convoca i figli di Dio e tra questi
anche Satana. Lo scenario è mitico: quello di un cielo in cui vige una realtà parallela a quella terrena. Lì, Dio abita con i suoi
figli, creature misteriose, funzionari che
amministrano il suo regno. C’è anche quel
Satana che noi associamo al maligno. Qui,
invece, è un dipendente alla corte celeste
con autonomia di movimento. È un instancabile viaggiatore. Mentre il Dio sembra
statico e, pur vedendo la realtà terrena, non
la abita, Satana ne fa esperienza diretta:
percorre la terra in lungo e in largo. Il suo
sguardo entra nel dettaglio cogliendone il
disordine, le contraddizioni o, almeno, le
sfumature. Satana, infatti, è la creatura del
dubbio. Smonta la fiducia e destabilizza
insinuando il sospetto. E lo fa in maniera
insidiosa, sottile, attraverso mezze affermazioni. Persino Dio cade nella trappola
I
tesa dall’astuzia di Satana, sembra lasciarsi
«abbindolare».
«Il Signore disse – Hai notato il mio servo
Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra».
«È forse per nulla che Giobbe teme Dio?
Tu hai benedetto l’opera delle sue mani...
ma tocca tutto ciò che possiede e vedrai se
benedirà ancora la tua faccia» (Giobbe 1,811).
Il Dio lontano conosce Giobbe. Sa della
sua vita integra. E Giobbe, da parte sua,
sa che c’è un Dio che lo osserva e a cui
deve rendere conto. Quello che Giobbe non
sa è che sulla sua vita si sta giocando una
partita a dadi e lui è la posta in gioco.
Colui che viene da «fuori» (questo in ebraico significa Uz) farà i conti con un male
che non può controllare perché è stato deciso altrove, al di là delle cause mondane.
All’interno di questa geografia simbolica,
fatta di dentro e fuori, vicino e lontano, si
gioca buona parte del tragico confronto tra
male e bene di cui narra il libro di Giobbe.
Visto da fuori, il dolore sembra avere, nell’economia della vita, un senso; dall’alto è
possibile coglierne un disegno, sia pure insensato, come quello suggerito dalla sfida
tra Dio e Satana. Ma dall’interno, da vicino esso appare senza senso. Paradossalmente, chi suggerisce di guardare più da
vicino è Satana. È lui ad appuntare uno
sguardo ravvicinato su Giobbe, al fine di
coglierlo in fallo. E saranno, poi, gli amici
di Giobbe, portatori di uno sguardo interno all’ortodossia biblica, a parlare in nome
di un Dio vicino, che retribuisce l’uomo in
base al merito. Giobbe, invece, viene da
«fuori». È esterno alle semplificazioni offerte dalle spiegazioni religiose. La sua tragica vicenda fuoriesce dagli schemi che
vorrebbero comprenderla. Ed anche Dio
sembra prediligere un «fuori» che non per
forza significa estraneità e disinteresse per
il dramma della storia. Il grido di Giobbe
contesterà questa estraneità divina ritenuta ingiusta e la confessione di fede finale
leggerà diversamente il «fuori» di Dio. Per
ora, il dramma domanda allo spettatore
di entrare nella storia narrata interrogandosi con più perspicacia su cosa significhi
«da fuori» e «da vicino».
CINEMA
C
Sorelle Mai
abituali collaboratori del
regista, come il musicista
Carlo Crivelli e la montatrice Francesca Calvelli, si
affiancano i giovani allievi
impegnati nel corso. Lo interpretano i familiari di
Bellocchio, le sorelle Letizia e Maria Luisa, il fratello Alberto, i figli Piergiorgio ed Elena e il sempiterno amico dal nome pucciniano, Gianni Schicchi
Gabrieli, ai quali si aggiungono le attrici «vere» Donatella Finocchiaro e Alba
Rohrwacher. I luoghi sono
appunto quelli dell’immutabile «natìo borgo selvaggio», le sue viuzze, il palazzo avìto, i meandri del
Trebbia.
Scarna fino all’essenziale la
vicenda. Sara vive a Milano, ha ambizioni di attrice
che sembra vedere finalmente coronate da un ruolo importante. Ha lasciato
che la figlia Elena cresca a
Bobbio ma da tempo vorrebbe portarla con sé. Giorgio è un giovane frustrato
negli amori e nelle ambizioni. Periodicamente i due
fratelli ritornano e talvolta
si incontrano, per necessità affettive ma anche per
più prosaici motivi contingenti.
Sorelle Mai è dunque strutturato su tre piani. Pur essendo solo in parte auto-
biografico, accumula laboriosamente le stratificazioni di un vissuto, anche cinematografico (e per questo alcune corrispondenze
di luoghi vengono sottolineate da fulminee citazioni del capolavoro d’esordio, I pugni in tasca). In
maniera dolorosa, certo,
ma in una prospettiva di
pacificazione: nel riconoscimento di quella saggezza antica personificata dalle zie, nella rivisitazione
quasi pascoliana di ambienti, profumi e sensazioni, nell’assunzione del fiume come elemento amniotico ma anche luogo della
purificazione (esemplare
la sequenza in cui Sara recita la scena della pazzia di
Lady Macbeth sotto la
pioggia mentre Giorgio
nuota in quelle stesse acque del Trebbia in cui la
sorella cerca di lavarsi forsennatamente le mani).
Pur caratterizzandosi
come ibrido giocato su
immagini ostentatamente
povere, riesce a toccare le
corde profonde dello spettatore con l’esiguità di un
intreccio che abbonda di
rimandi cechoviani e riproponendo quelle accensioni febbrili, sospese, in
qualche modo kleistiane
che costituiscono uno dei
pezzi forti dell’armamenta-
rio poetico del regista (la
ragazza che ha conosciuto
Giorgio tredicenne, con il
quale si è scambiata una
promessa e che lo bacia
non venendo riconosciuta,
l’uscita di scena di Gianni
Schicchi, strepitoso uomo
in frac che si inabissa nel
fiume).
Pur non essendo infine un
vero e proprio film teorico
sul cinema, come lo sono,
ad esempio, La finestra sul
cortile o L’occhio che uccide, per limitarci a due
esempi classici, riesce comunque a riflettere – e a
far riflettere, spettatori e
allievi della scuola – sul
proprio farsi, procedimento miracolosamente risolto in quella che potremmo
chiamare compatta frammentazione, su necessità
di budget che sanno diventare virtù di idee e creatività, equilibrio nella direzione di attori e non attori
che trova il vertice nei risultati ottenuti con Elena
nel percorso reale da bambina ad adolescente.
Vorremmo concludere questa sommaria analisi di Sorelle Mai, a nostro avviso
uno dei momenti alti nella
filmografia prestigiosa ma
altalenante di Bellocchio,
con una annotazione a
margine ma non secondaria. Ci sono infatti qui un
paio di episodi di schietta
comicità, come lo show di
un insegnante che durante
il consiglio di classe recita
l’invettiva del tenente Mahler nel pre-finale di Senso,
o la sequenza in cui zia Letizia si dimostra cocciutamente interessata all’acquisto di una cappella limitrofa a quella di famiglia mentre il notaio sta stipulando
la ben più importante vendita dell’appartamento di
Sara. Quasi che il film, oltre all’approdo a una considerazione più pacificata
di se stesso, significhi per
l’autore il recupero di un
senso dell’umorismo altrove poco praticato.
❑
57
.
ROCCA 15 APRILE 2011
Paolo Vecchi
ome altri colleghi,
italiani e stranieri,
anche Marco Bellocchio alterna film «da sala»
a lavori diversi per natura,
destinazione e formato, in
minore dal punto di vista
produttivo ma spesso tutt’altro che minori sotto il
profilo degli esiti. Di questo côté parallelo del regista piacentino fanno parte
ad esempio il basagliano
Matti da slegare (1975), sull’esperienza antipsichiatrica all’ospedale di Colorno,
firmato insieme a Silvano
Agosti, Sandro Petraglia e
Stefano Rulli e, sempre
con gli stessi collaboratori, La macchina cinema
(1979), cinque puntate per
la televisione sui poco luccicanti retroscena del nostro star system.
In questo ambito è possibile enucleare un filone
che vede Bellocchio tornare sui luoghi dell’infanzia,
nel tormentato quanto necessario recupero di una
stagione con la quale sembrava avere tagliato i ponti in seguito all’esperienza
professionale e politica, filone del quale fanno parte
Vacanze in Val Trebbia
(1980) e Addio del passato
(2002). Ad esso si collega
il laboratorio «Farecinema», una scuola estiva di
regìa e recitazione che si
tiene da anni a Bobbio, affiancata da un piccolo festival le cui proiezioni si
svolgono nel chiostro dell’abbazia di San Colombano.
Sorelle Mai, che ingloba,
modificandolo e integrandolo, il mediometraggio
Sorelle (2006), è un po’ la
sintesi, forse destinata a
ulteriori sviluppi, di questo
work in progress. Girato
con un budget pressoché
inesistente e con mezzi
«leggeri», si articola in sei
movimenti – l’arco di tempo va dal 1999 al 2008 –
che, singolarmente presi,
costituiscono altrettanti
saggi «di scuola» in cui agli
RF&TV
TEATRO
Roberto Carusi
Renzo Salvi
C’è modo ...e moda
ROCCA 15 APRILE 2011
C
’è un modo – registico e interpretativo – di attualizzare,
per così dire, i «classici»
senza tradirne, anzi valorizzandone il significato.
Considerazione che nasce
da una edizione del celebre
Avaro di Molière messa in
scena dal Teatro delle Albe:
diretta da Marco Martinelli, con il protagonista impersonato da un’attrice. Proprio così: Ermanna Montanari. Un avaro – in certo
qual senso – astratto dal
tempo in cui il grande autore/attore visse e riproposto
secondo lo stesso spirito.
Così la iniziale ricostruzione di un teatro nel teatro
permette di smobilitarne
strutture e orpelli inutili per
cogliere l’essenziale tematica del più celebre forse tra i
capolavori di Molière. La
bella traduzione di Cesare
Garboli (moderna eppur fedele), il muoversi incalzante dei personaggi che si affannano intorno al protagonista, vestiti dello stesso tessuto che riveste gli arredi
scenici e spostati a vista da
macchinisti e servi di scena
come oggetti ingombranti
essi stessi, e poi lo stilizzato
ritratto – nero il vestito, pallido il volto – che dell’avaro
fa la Montanari: tutto insomma contribuisce ad una
sublimazione che mira al
simbolico. Con aspetto grottesco, l’attrice domina la
scena impugnando come
uno scettro un microfono
che peraltro potenzia la dizione, ora sciolta ed ora
scandita, evidenziando l’avidità del personaggio.
Il lieto fine, portato in scena dal regista stesso dello
spettacolo che proviene
dalla platea, e la immancabile agnizione consentono
ai figli dell’avaro – invano
blaterante con la voce abilmente resa chioccia – di
58
coronare i loro rispettivi
sogni d’amore.
Modalità, quelle descritte,
che permettono al pubblico, di oggi di sentirsi partecipe in uno spettacolo
nato quattrocento anni fa.
Altrettanto purtroppo non
si può dire per un’altra
compagnia alle prese con
un testo bello e ricco come
La tempesta di Shakespeare, messo in scena dal giovane regista Andrea De
Rosa coinvolgendo un attore di tutto rispetto e solida meritata fama qual è
Umberto Orsini.
Pare una moda, infatti,
quella di tagliare indebitamente il poetico testo originale, di vestire e svestire a
casaccio gli attori, compreso Orsini (Prospero) costretto ad appoggiarsi ad un
bastone con indosso un pesante cappottone. Per non
dire di Ariele – lo spirito
dell’aria – trasformato (chissà perché) in un compassato signore in abito scuro che
di quando in quando piomba dall’alto come una marionetta cui si siano rotti i
fili. Quanto al selvaggio Calibano, questa messinscena
ne fa uno «scemo del villaggio», insistentemente e visibilmente dedito a pratiche
di autoerotismo.
Insomma la vicenda – tra
lo storico e il fantastico –
è raccontata in modo semplicistico eppur confuso.
Così pure è ignorata l’allegoria di Prospero – mago
capace di scatenare e placare i venti – come autobiografico ritratto di
Shakespeare stesso nella
sua opera estrema. Ce n’è
di che domandarsi perché
con certi classici certi registi seguano la brutta
moda di fare di un copione ben costruito uno spettacolo tanto sbrindellato.
❑
Tramate con noi
I
l titolo continua ad avere un suo fascino anche
alla dodicesima annualità di messa in onda: forse per
la fase storica del Paese, o per
una sorta di disponibilità alla
dietrologia che sembra caratterizzare le psicologie individuali e sociali (sempre un
«grande vecchio» dietro
eventi difficili da interpretare...). Ma in questo programma radiofonico – di sabato,
dalle 11.05 e per poco più di
venti minuti; in precedenza
era parte de Il baco del millennio, ma sempre su RaiRadio1 – non si parla di politiche strambe o di comportamenti atti a colpire questo o
quel potente del mondo; si da
campo, invece, ad un’altra
delle «manie» diffuse nel Paese: sicuramente più nobile
del far complotti, di radice
antica almeno quanto il trescar nell’ombra, approdata,
in tempi recenti, all’uso plurimo delle tecnologie offerte
dalla rete e dal digitale: sino
al «pubblica» il tuo libro in
carta commissionandone la
stampa via web...
Le trame di cui si parla sono
quelle del raccontare. In quest’annata, in particolare, ci si
occupa di romanzi mettendone a confronto due in ciascuna puntata in un percorso fatto da otto appuntamenti ad eliminazione diretta più
una finale. Il tutto è iniziato
il 19 marzo.
I testi integrali e inediti possono essere inviati solo in
rete al sito della trasmissione (l’invio in carta avrebbe
per destinazione il cestino:
fisico); in puntata ne viene
letta, da buone voci attorali,
una sintesi e, dopo una valutazione dettata da un autorevole sostenitore (Bruno
Gambarotta o Claudio Gorlier), un arbitro, che cambia
ad ogni appuntamento, decreta e motiva quale sia il testo vincitore.
Per il testo vincitore, tra gli
otto selezionati in puntata,
è previsto l’approdo... in carta: il più classico cioè dei traguardi desiderati dagli autori di narrativa, ad onta del
«tutto in rete» conclamato
da tanta e neo-moderna proposta di fruizione della narrativa futura e del passato:
in e-book, sui più sottili e
manipolabili dei post/pc di
ultima generazione...
Dopo la prima puntata, in
onda da Venaria Reale, e in
attesa dell’ultima (dal Salone del libro a Torino) è già
possibile osservare come i
primi autori non siano proprio giovanissimi: esordiscono 65enni ed ultra nonostante l’accesso da internet; il che
fa anche pensare che l’ascolto della radio (Rai) è ben frequentato da una terza età
che magari incombente d’acciacco ma certamente non
priva di spirito d’iniziativa e
di intrapresa, in nome di un
sogno (letterario).
Infine non si può non rilevare, nelle due proposte,
come uno dei temi portanti
sia l’intreccio tra politica e
Tv: tra un racconto imperniato sull’ipotesi di un reality come strumento per dirimere un’elezione presidenziale ed un altro che osserva un secondo «viaggio»
dell’Alighieri, ma in questo
mondo, non nell’altro, ad
incontrare peccatori pubblici e privati ampiamente collocati in questi ambienti e
nel loro intreccio.
Il che, paradossalmente,
porta alla suggestione d’origine: l’osservar trame, tresche, trucchi e torbide azioni a seguire, col timore e l’intento sospettoso di scoprire
il grande vecchio e la quasi
certezza d’imbattersi in tanti piccoli stupidi: peccatori
narrati, re-incontrati da
Dante, o scioccamente convinti nella realtà dello strumento reality.
❑
SPETTACOLI
ARTE
Mariano Apa
Alberto Pellegrino
C
ome per Paolo VI
così per Giovanni
Paolo II un leggero
vento come soffio di Spirito ha girato le pagine del
Vangelo posato sulla bara
di francescano legno,
messa nuda sul selciato
della piazza in San Pietro.
Ripetendo l’intimità di
una devozione ricca di
spirituale energia e di reale partecipazione, la beatificazione di Papa Karol
Wojtyla ha risistemato nel
nostro cuore di «popolo
in cammino» la regale testimonianza di una Fede
proposta nella Carità e
nella Speranza.
L’epica e dolcissima, severa e teneresissima sua
presenza ha forgiato nei
decenni del magistero generazioni e comunità,
persone e popoli, additando nella bellezza uno spazio della verità. Laureatosi nel romano Studio Domenicano su S. Giovanni
della Croce, incrociando
lo sguardo dell’icona della Madonna di Czestochowa ed edotto alla gestualità performativa di
un teatro praticato e poi
riconosciuto e rivissuto
nella mimica esplicativa
di affreschi e sculture a
decorare pievi romaniche
e cattedrali gotiche, spartiti rinascimentali e trionfi barocchi, il giovane
Karol Wojtyla ha sempre
vissuto e riconosciuto di
quanto l’arte sia una formulazione del sacerdozio
e di come l’arte possa essere la sapienza di una
educazione alla vita che si
intreccia nella libertà che
ha radice nella partecipazione attiva alla santa liturgia del sacramento eucaristico. Possiamo rivedere il filmato della sua
opera per mezzo del vo-
lume di Andrea Riccardi
per la San Paolo – «Giovanni Paolo II. La biografia» – ed entrare nella tematica di «Arte e Beni
Culturali negli insegnamenti di Giovanni Paolo
II» – con il volume del
2008, dalla Libreria Vaticana, curato da Ugo Dovere e con la prefazione
del Cardinale Stanislaw
Dziwisz – per poter assaporare la testimonianza
che informa un magistero che con Giovanni Paolo II, da Papa Pio XI – ricordando del 1932 la rinnovata Pinacoteca Vaticana – al Concilio Vaticano
II – del 4 dicembre 1963 è
«Sacrosanctum Concilium» con lo specifico
Capitolo VII – continua
con Papa Benedetto XVI
– ad esempio nei numerosi suoi interventi per la
musica e per l’esperienza
dell’incontro e per il discorso volto agli artisti in
Cappella Sistina, nel 2010
–. Sia Roncalli che Montini hanno la loro permanente presenza nel nome
che Wojtyla si è dato, dove
nella numerazione viene
associato il terzo Papa, Albino Luciani che iniziò la
causa di beatificazione
per lo scultore Riccardo
Granzotto. La «Lettera
agli artisti» è del 4 aprile
1999 e con il Grande Giubileo del 2000 si è affermata l’arte nella Chiesa e
nel Mondo. Lo scrigno segreto di Wojtyla a cui è necessario ritornare ancor
oggi è il «Trittico Romano.
Meditazioni», del 2003 –
presentato dall’allora Cardinale Ratzinger e dal filosofo Giovanni Reale – :
un autentico breviario per
gli artisti, un perfetto libro
di iniziazione.
❑
A Roma un grande Nabucco
U
n grande Nabucco
ha debuttato il 12
marzo 2011 al Teatro dell’Opera di Roma
nel quadro delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, sotto la direzione del M° Riccardo Muti
che si è confermato il più
grande interprete verdiano del momento. Muti è
stato capace di imprimere all’orchestra ritmi possenti e veloci nei passaggi
drammatici o guerreschi
per poi passare con elegante armonia all’esecuzione dei brani melodici,
ottenendo una straordinaria fusione di effetti,
riuscendo a calibrare la
presenta dei protagonisti
e gli interventi del coro a
sua volta tra i protagonisti assoluti di questa opera grandiosa e solenne del
giovane Verdi. Dopo un
tiepido successo e un insuccesso, il compositore
nel 1842 scrive uno spartito che dà l’avvio alla sua
clamorosa carriera che
d’ora in poi sarà costellata solo di successi. All’affermazione dell’opera
contribuisce il libretto di
Temistocle Solera tratto
dalla tragedia Nabuchodonosor di Auguste Anicet-Bourgeois e Francis
Cornu, nel quale egli sa
rappresentare (pur con
qualche caduta di stile) il
confronto tra gli oppressi
e gli oppressori, la vicenda amorosa di Fenena e
Ismaele, la dura lotta per
il potere tra Nabucco e
Abigaille. Verdi poi ci
mette del suo fin dalla sinfonia basata su possenti
temi di tipo corale per arrivare al celebre «Va pensiero», che colpisce quasi
subito l’immaginario collettivo fino a diventare
uno degli inni più cantati
del nostro Risorgimento. Il
regista Jean-Paul Scarpitta ha puntato sulla drammaticità delle situazioni,
muovendo e collocando
sulla scena interpreti e
masse, messi in risalto dai
costumi tradizionali ma
molto eleganti di Maurizio
Millenotti. La sua scena
minimalista, costituita da
un fondale e da quinte
scorrevoli che riflettono
cieli azzurri e nubi tempestose, appare funzionale
anche per il suo carattere
atemporale e astorico, che
si propone come il contenitore di una vicenda dove
gli Ebrei diventano la metafora di ogni popolo oppresso, collocato al centro
di una vicenda che rappresenta il passato, il presente e il futuro dell’umanità.
Lo stesso disegno delle
luci, studiato da Urs Schonebaum, è riuscito a delineare gli spazi e a creare le
giuste atmosfere in modo
assolutamente efficace. Tra
gli interpreti, Leo Nucci
rimane un grande baritono
verdiano in un mixage di
malvagità e tragica nobiltà (soprattutto nella scena
della follia e nella romanza «Dio di Giuda» che segna la conversione di Nabucco); possente si può definire lo Zaccaria di Dmitry Beloselskij ed efficaci le
presenze di Antonio Poli
(Ismaele) e Anna Malavasi
(Fenena). Infine il soprano Csilia Boross riesce a
calarsi nelle vesti di Abigaille, inflessibile nel perseguire la strada del potere, furiosa di fronte al suo
impossibile amore per
Ismaele, possente nella decisione finale di togliersi la
vita per il fallimento del
suo sogno di gloria e di potenza.
❑
59
.
ROCCA 15 APRILE 2011
Wojtyla
SITI INTERNET
SPETTACOLI
Ernesto Luzi
Giovanni Ruggeri
FondazionePergolesiSpontini Crowdsourcing:sfideeambiguità
ROCCA 15 APRILE 2011
I
n un momento di
notevoli tagli al
mondo dello spettacolo la Fondazione Pergolesi Spontini ha
aperto una collaborazione con Ascoli Piceno ed il teatro Ventidio
Basso per produrre
musica lirica ed una
ottimizzazione delle risorse. Primo spettacolo è stata «Traviata» di
Giuseppe Verdi la celebre «Traviata degli
specchi» messa in scena mercoledì 23 e venerdì 25 marzo al teatro Ventidio Basso in
apertura della stagione
lirica. Nell’allestimento rappresentato a Jesi,
Napoli, Genova, Valencia, Fermo, Treviso,
Brindisi. La regìa è di
Henning Brockhaus, la
direzione di Giampaola Maria Bisanti. Scene
di Josef Svoboda, ha
diretto la Form (l’Orchestra Filarmonica
Marchigiana) il maestro Carlo Morganti,
l’allestimento ha ottenuto il premio Abbiati
1992.
L’allestimento originale di proprietà dell’Associazione Arena Sferisterio di Macerata e riprodotta ad opera della Fondazione Pergolesi Spontini con la riduzione dell’allestimento
scenico a cura di Benito Leonori.
La stagione lirica 2011
al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno avrà
una importante novità:
l’accordo del Comune
di Ascoli Piceno con la
60
Fondazione Pergolesi
Spontini per la gestione
della Stagione lirica per
il triennio 2011/2013.
La collaborazione vedrà
il Comune di Ascoli in
stretto contatto con la
Fondazione Pergolesi
Spontini per allestire
due titoli l’anno. L’intesa consentirà di portare in palcoscenico comuni produzioni operistiche nella prospettiva
della razionalizzazione
ed ottimizzazione delle
risorse garantendo al
contempo alta qualità
artistica.
Questo allestimento riprodotto ad opera della
Fondazione Pergolesi
Spontini è andato in
scena inoltre al Teatro
San Carlo di Napoli, al
Teatro Carlo Felice di
Genova, al Palaude les
arts «Reina Sofia» di
Valencia, Teatro dell’Aquila di Fermo, Teatri Spa di Treviso, Fondazione Nuovo Teatro
Verdi di Brindisi.
Gli interpreti sono Irina Dubrovskaya (Violetta Valery), Leonardo
Caimi (Alfredo Germont), Simone Piazzolla (Giorgio Germont),
Daniela Innamorati
(Flora Bervoix) Mariangela Marini (Annina)
Roberto Jachini Virgili
(Gastone), Mattia Denti (Dottore Grenvil),
Mihail Dogotar (Barone
Douphol), Davide Bartolucci (il Marchese
Flora), Alessio De Vecchi (un commissionario).
❑
S
toricamente parlando, cosa permane – e
non può non permanere – nella configurazione
dell’esperienza personale e
dei processi sociali e produttivi, e che cosa è ineludibilmente suscettibile di mutazione nella medesima esperienza e processi? La nascita e lo sviluppo delle tecnologie informatiche danno
vita a fenomeni che, ben
considerati nella portata di
determinati loro tratti e/o
implicazioni, inducono a
sollevare interrogativi fondamentali sul piano antropologico e sociale, come appunto quello enunciato in
apertura. Accade così, ad
esempio, a proposito del cosiddetto crowdsourcing, ennesimo neologismo di conio
americano nato dalla fusione tra il termine crowd, che
significa «folla», e il termine
outsourcing, che significa
«esternalizzazione» (letteralmente: approvvigionamento
esterno). Detto in breve, si
tratta dell’offerta, via Internet, di micro (o macro) lavori eseguibili via Internet da
casa, per conto di un committente che «appalta» ad un
grande gruppo di persone on
line determinati compiti, retribuiti con (micro o macro)
compensi. Base di possibilità di tutto ciò è il semplice (e
sconcertante) fatto che, in
tutto il mondo, ben tre miliardi di persone sono connesse alla rete digitale: di qui,
come non cogliere l’opportunità – in termini di impiego
e prestazione d’opera – di coordinare e finalizzare al conseguimento di un obiettivo
una tale inimmaginabile
quantità di conoscenze,
competenze, relazioni?
Ad un primo e frettoloso
colpo d’occhio, si potrebbe
considerare il crowdsourcing una variante del telelavoro (cfr. Rocca n. 7/2011),
ma le differenze sono profonde e sostanziali: mentre
con il telelavoro siamo in
presenza di una dislocazione domestica dell’attività
lavorativa, precisamente
configurata e normata, con
il crowdsourcing abbiamo a
che fare con un approccio –
almeno per ora – «selvaggio» al rapporto domanda/
offerta nel mondo del lavoro, perché è facile immaginare come la disciplina in
materia – sul piano previdenziale, fiscale, retributivo
– sia, tanto da noi quanto (figuriamoci!) negli Stati Uniti, ancora agli albori, se non
proprio latitante.
Il lato positivo della questione è l’evidente valorizzazione delle reti sociali
del web per scovare e connettere competenze e innovazioni capaci di ottimizzare processi e funzioni.
Finora il crowdsourcing
viene impiegato per servizi aziendali di assistenza e
supporto al cliente, benché
la formula «pura» di questa modalità di ricerca,
(auto)assegnazione ed effettuazione del lavoro sia
ben esemplificata sia dalla nota Amazon che ha implementato un sito (www.
mturk.com) per l’offerta ed
esecuzione di micro-lavori
(ad esempio compilare brevi test statistici, aggiungere
il campo «descrizione» ad
una foto ecc.), sia dalla Innocentive, che propone e
retribuisce on line compiti
di problem solving molto
complessi sul piano scientifico e/o tecnologico (www.
innocentive.com).
Non ci va di banalizzare argomenti complessi. Una
domanda però vogliamo e
dobbiamo porla: come custodire valori inalienabili
(es. diritti della persona
che lavora) in un mondo
dove tecniche e processi
produttivi ridefiniscono
(auto)percezione, possibilità ed esperienza complessiva delle persone?
❑
Enzo Bianchi
Ogni cosa alla sua stagione.
Einaudi, Torino 2010, pp.
128
Il cuore e la penna di Enzo
Bianchi ci regalano un nuovo volume, una raccolta delicata e suggestiva di ricordi di
un’intera vita. Profumi, colori, musiche si mescolano nel
caleidoscopio della memoria
e compongono un libro capace di confermare i due motivi per i quali, a mio giudizio, la parola del Priore di
Bose continua ad essere
ascoltata con profondo rispetto dai credenti e la sua
figura molto apprezzata anche da chi non crede. Una
Chiesa esperta di umanità: è
questo il volto della Sposa di
Cristo che Enzo Bianchi sa
raccontare al mondo di oggi
con semplicità e coerenza.
Con maestria. Dalla sua cella egli osserva il tempo che
scorre e le stagioni del mondo che si alternano. E tuttavia, sotto il cielo della solitudine, invita al silenzio, alla conoscenza di sé, ma anche all’ascolto reciproco della vita,
in un sussurro eloquente che
ne colga le tonalità intime. E,
appunto, la vita: Enzo Bianchi sa comunicare la bellezza, la fecondità, la maturità e
la pienezza di una vita, anzi,
della vita cristiana. All’acidità dei giudizi morali, alla severità delle condanne e delle
prescrizioni, al fervore talora scomposto delle proposte
pastorali, Bianchi predilige la
serenità di una pagina di vita
che suggerisca il ritaglio di un
luogo altro dentro se stessi,
che ridesti il senso profondo
della convivialità e dell’amicizia, che sproni ad «esercitarsi a pensare in grande, all’amare contemplando l’amore di cui siamo oggetto e
l’amore che può sbocciare dal
nostro cuore». Un’intelligenza delle cose che sgorga dalla
vita di fede e dalla compagnia
della Parola: ecco il sapore
della spiritualità dell’autore,
il motivo della freschezza che
sempre contraddistingue le
sue meditazioni.
Tiziano Torresi
Anselmo Palini
Sui sentieri della profezia.
I rapporti fra G.B. Montini-Paolo VI e Primo
Mazzolari
Messaggero, Padova
2010, pp. 152
Protagonisti di questo testo
sono Giovanni Battista
Montini e Primo Mazzolari, due figure che hanno segnato significativamente la
storia della Chiesa e della
società italiana del Novecento. Nel testo, superando la
spesso sterile contrapposizione tra autorità e profezia,
vengono entrambi presentati come profeti, in quanto,
al di là dei momenti di tensione e frizione, animati dall’amore per Cristo, per il suo
vangelo, per la Chiesa e per
l’uomo, hanno saputo indicare strade nuove alla Chiesa e alla società.
L’autore evidenzia da un lato
quanto li ha accomunati: vissuti entrambi nella provincia
bresciana frequentarono, a
volte, le stesse persone, gli
stessi ambienti, collaborarono nella Fuci e nel Movimento dei laureati cattolici, furono impegnati nelle settimane di Camaldoli. Significative la comune avversione al
fascismo e le riserve sul Concordato. Scrive Mazzolari:
«Il paganesimo ritorna e ci
fa la carezza e pochi ne sentono vergogna... La Chiesa
non ha bisogno di privilegi
ma di libertà»; Montini nel
1958, parlando ai giovani riconosce: «Abbiamo passato
un ventennio, in cui non era
possibile pensare e, soprattutto, esprimere».
D’altro canto, non sorvola
sui motivi di contrasto tra
don Mazzolari e Montini,
diventato cardinale di Milano, sorti, ad esempio, quando don Mazzolari scrisse,
insieme ad altri sacerdoti, la
«Lettera ai vescovi della Val
Padana», per sollecitarli ad
intervenire a favore dei braccianti e dei piccoli contadini
e sul periodico «Adesso» denunciò l’immobilismo ecclesiale di fronte alle grandi
questioni sociali del tempo.
Contrasti che non interrompono il dialogo e l’ascolto,
nella comune tensione alla
fedeltà evangelica e nello spirito di servizio. Infatti, in occasione della missione di
Milano del 1957, l’arcivescovo Montini invitò don Mazzolari a predicare a Milano,
facendosi garante col Sant’Uffizio che gli aveva proibito la predicazione al di fuori
della parrocchia di Bozzolo.
Lo stesso papa Giovanni
XXIII, nel 1959, durante
un’udienza, accoglie don
Mazzolari dicendo: «Ecco la
tromba dello Spirito Santo
in Val Padana».
Infine, nel 1970 Montini, diventato Paolo VI, riconosce
pubblicamente la statura
profetica di don Mazzolari,
affermando: «Camminava
avanti con un passo troppo
lungo e spesso noi non gli si
poteva tener dietro».
Bartolomeo Mainardi
Jürgen Moltmann
Vasto spazio.
Storia di una vita
Queriniana, Brescia
2010, pp. 472
Non una semplice autobiografia. Il percorso, piuttosto,
di una vita dedita alla ricerca dove la figura dell’autorevole teologo tedesco rappresenta una sorta di perno teoretico-pratico, un crocevia di
idee e un terreno di riflessioni aperte su cui è possibile
misurare la cifra essenziale
di buona parte del pensiero
del Novecento. Il «vasto spazio» del titolo è evocativo (cfr.
Salmo 31,9: «Hai guidato i
miei passi nel vasto spazio»),
ma al tempo stesso significativo per far intuire l’ampiezza del raggio d’azione della
ricerca moltmanniana.
La Germania che crolla, il
tragico della Seconda guerra mondiale che miete vittime e acceca gli uomini,
l’esperienza della morte di un
amico e il senso dell’essere e
del vivere da sopravvissuti, le
privazioni degli anni della
prigionia; ma anche la scoperta del cristianesimo (specie quello delle origini, cui rimanda anche un Feuerbach), tra l’altro in un contesto
familiare di tradizione laica,
poi le letture teologiche, i numerosi libri e le varie docenze; ancora, la denuncia delle
ingiustizie, l’energia sprigionata da quella speranza maturata anche grazie al dialogo con Ernst Bloch, e – forse
più di tutto – l’invocazione di
un Dio chiamato a fare i conti con la violenza e il male
non dall’alto della volta celeste, bensì gomito a gomito
con l’uomo: tornano in mente le scritte sui muri di Auschwitz e alcune suggestioni
levinasiane...
Proprio con Bloch, e grazie
a Bloch, Moltmann può realizzare una rivoluzione epocale all’interno della storia
del pensiero teologico: una
rivoluzione che si chiama
apertura (o riapertura) del
cristianesimo. Non deve stupire più di tanto, d’altra parte, che tale rivoluzione pratico-speculativa abbia avuto
origine in virtù di un dialogo intessuto tra un credente
e un ateo. I quali, in realtà,
incarnano entrambi quella
ricerca e quell’interrogativo
che si sostanziano appunto
come proiettati verso l’orizzonte della speranza.
Tutti i luoghi, le categorie e
gli ‘azzardi’ speculativi sopra richiamati animano la
storia di Moltmann, che
appunto è la storia del XX
secolo occidentale, in un
caleidoscopio di immagini
e percezioni e interpretazioni che offrono l’opportunità di muoversi in un davvero vasto spazio, anzi vastissimo, senza perdersi. Un
aggettivo per la prospettiva
di Moltmann? Radicale.
Giuseppe Moscati
61
ROCCA 15 APRILE 2011
LIBRI
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
Norvegia
ROCCA 15 APRILE 2011
S
tato dell’Europa settentrionale, facente
parte dei paesi scandinavi, la Norvegia è il Paese
più a nord d’Europa. È delimitato a est dalla Svezia, a
nord-est dalla Finlandia e
dalla Russia, a ovest si affaccia sul mar di Norvegia
e a sud sul mar del Nord.
Sono comprese anche alcune isole nelle vicinanze del
Polo Nord, delle coste della
Groenlandia e dell’Antartide. Quando i vichinghi giunsero in questo territorio, cominciarono a unificare piccoli regni, dando inizio a un
periodo di espansione e conquistando anche la Groenlandia e l’Islanda. Con il re
Olav Haraldsson, agli inizi
del XI secolo, venne introdotto il cristianesimo. Nel
1380 il Paese venne annesso alla Danimarca e alla
Norvegia, andando a formare l’Unione di Kalmar. Ma
in seguito a un conflitto, nel
1523 la Svezia ne uscì.
Quando nel 1814 la Svezia
attaccò la Danimarca, sconfiggendola, questa fu costretta a cedere la Norvegia,
che passò così sotto l’influenza svedese. L’indipendenza fu proclamata nel
1905; venne scelta la monarchia come forma di stato e
come primo re fu incoronato Haakon VII. Nel corso
delle due guerre mondiali la
Norvegia rimase neutrale,
ma l’occupazione nazista
del Paese nel 1940 costrinse il governo di Oslo ad andare in esilio a Londra. Nel
1945, con l’aiuto di Francia
e Gran Bretagna, un attivo
movimento di resistenza
riuscì a sconfiggere i tedeschi, permettendo al re di
rientrare nel suo Paese. A
partire dagli anni Settanta,
62
la massiccia presenza di giacimenti petroliferi e di gas,
determinò una forte spinta
del reddito nazionale verso
l’alto, trasformando così la
Norvegia in uno dei paesi con
standard di vita più elevati
del mondo. Nel 1994, con un
referendum nazionale, emerse la storica inclinazione della popolazione a non voler
aderire all’Unione europea.
Tuttavia, in seguito all’allargamento dell’Ue nel maggio
2004, sembra che ci sia un’inversione di tendenza nelle
preferenze dei cittadini, la
maggior parte dei quali aderirebbe all’Unione europea.
Una coalizione composta da
Partito laburista, Socialisti e
Partito di Centro, nel 2005,
ha vinto le elezioni politiche.
La stessa coalizione guidata
da Jens Stoltenberg, è stata
riconfermata nella tornata
elettorale del 2009. Nonostante la vittoria del centrosinistra, i conservatori appartenenti alla coalizione di centro-destra, hanno guadagnato svariati seggi.
Popolazione: il numero
complessivo di abitanti si
aggira intorno ai quattro milioni e mezzo di unità. La
maggioranza della popolazione appartiene all’etnia
norvegese. La minoranza più
consistente è quella dei sami
che, per esempio, nella città
di Kautokeino, arrivano quasi al settanta per cento. I finlandesi sono maggiormente
presenti al nord. Oslo, la capitale, è invece un coacervo
di etnie, formato da lapponi,
svedesi, danesi, irakeni e
pakistani, tutti ben integrati
tra di loro. Il buon livello di
interazione e integrazione è
dovuto alle politiche governative degli anni Ottanta, che
miravano a mantenere l’iden-
tità culturale e linguistica
degli immigrati, fornendo,
nel contempo, sostegno in
termini di lavoro e apprendimento della lingua nazionale. A parte la lingua ufficiale che è il norvegese, la popolazione di fatto comprende anche il danese e lo svedese, grazie alla somiglianza tra le tre lingue. Inoltre,
più del settanta per cento
della popolazione parla fluentemente l’inglese. Dopo la
conversione al cristianesimo
avvenuta oltre un millennio
fa, che impedì di praticare
altri culti e confessioni, la
quasi totalità della popolazione appartiene alla religione evangelico-luterana, che
è anche di Stato. Esistono
tuttavia piccole minoranze
di cattolici, musulmani,
buddhisti, a fronte di circa
un sei per cento che si confessa ateo e agnostico.
Economia: la Norvegia, in
poco meno di un secolo, è
passata da Paese di pescatori a secondo Stato più ricco
del mondo per Pil procapite. La grande espansione
economica è dovuta essenzialmente allo sfruttamento
delle risorse naturali (petrolio e gas), all’esportazione di
materie prime, tra cui il legno, il pesce e minerali e alla
produzione di energia elettrica. Il Paese è il settimo
esportatore di petrolio al
mondo in proporzione al
numero di barili esportati al
giorno. Inoltre, l’elevata ricerca nel campo della tecnologia dell’informazione e
delle telecomunicazioni, ha
contribuito a rendere il Paese una delle nazioni più
avanzate anche per indice di
sviluppo umano. In rapporto alla popolazione, il Paese
registra il più alto numero di
rocca
schede
milionari. Si stima che ogni
ottantasei cittadini, ce ne sia
uno con un reddito superiore al milione di dollari. La
qualità della vita è tra le migliori sul pianeta per una serie di motivi: condizioni generali di salute, aspettative di
vita, parità tra i sessi, rispetto dell’ambiente, sicurezza
sul lavoro, presenza di infrastrutture e reddito. Questo
insieme di elementi rende il
tenore di vita dei norvegesi
tra i più elevati al mondo. Da
un punto di vista macroeconomico, l’economia si base
per un cinquanta per cento
sulle esportazioni. Anche il
mare ha da sempre contribuito a fare la sua parte, facilitando lo sviluppo del Paese sia per le importanti risorse che offre, sia perché
ha permesso di perfezionare il settore della navigazione e il trasporto di materie
prime. Anche il turismo è in
crescita, divenendo in poco
tempo un’industria in forte
espansione. L’industria edile,
delle costruzioni e del design riscuote notevoli successi anche a livello internazionale. La politica economica norvegese è sempre
stata un mix di capitalismo
e statalismo. Da un lato
concorrenza e libero mercato e dall’altro presenza di
uno Stato interventista
che, oltre a essere piuttosto generoso in termini di
servizi gratuiti offerti ai cittadini, possiede anche considerevoli partecipazioni
azionarie in aziende nazionali.
Situazione politica e relazioni internazionali: dopo
il secondo conflitto mondiale il Paese rimase neutrale
finché, nel 1949, entrò nella
Nato. Il governo, ormai da
anni, sta investendo molto
sulla difesa e sulla sicurezza, attraverso la ristrutturazione delle forze armate, al
fine di aumentare la cooperazione internazionale. Nelle operazioni multinazionali, infatti, l’intervento delle
Norvegia è sempre più richiesto.
❑
Fraternità
raccontare
proporre
chiedere
i Progetti:
a che punto siamo?
Brevi dal Perù
Dalla telefonata giunta
nei giorni scorsi da
Suor Anna, che ringrazia per il contributo di
10.500 dollari donato
dai benefattori di
Fraternità, riceviamo
un aggiornamento sullo stato dei lavori intorno al «blocco sanitario»
nella Scuola delle Suore Salesiane alla Cité
Militaire: anche la sistemazione dei locali
interni è stata completata. Le bambine/ragazze possono utilizzare i
gabinetti (e l’uso stesso
dello sciacquone è stato per loro una scoperta), lavarsi ai lavandini
e anche farsi la doccia
... e le educatrici faticano non poco a contenere il loro entusiasmo a
fronte di un’acqua abbondante e comoda, subito disponibile tirando
una catenella o girando
una manopola.
Abituate a fare la fila
con il secchio o la tanica quando arriva l’autobotte o a raccogliere e
conservare l’acqua piovana, sono stupite e felici per questa «comodità». Suor Anna fa sapere che i tecnici sono
tuttora impegnati nel
mettere a punto il funzionamento continuo
della pompa dell’acqua,
che viene alimentata da
pannelli fotovoltaici.
Chiquian. Suor Dora
Chavez scrive, nella lettera partita ai primi di marzo, alcune notizie aggiornate sulle attività delle
bambine e preadolescenti
che vivono nell’Hogar San
Vicente de’ Pauli. Durante
le vacanze estive (che in
Perù corrispondono al nostro periodo invernale),
per aiutare la conduzione
dell’Hogar, le ragazze hanno proposto di aumentare
il numero di porcellini
d’India (i cui) che già accudivano e di iniziare l’allevamento di alcuni maiali. Se per crescere i primi
è sufficiente rifornirli di
erbe (cosa che comunque
non è semplice, visto che
per procurarsele devono
salire, superando un dislivello di 500 metri, alla
puna, l’altopiano che si
trova a oltre 4000 metri),
per i maiali è notevole la
quantità e la varietà di cibo
da reperire ogni giorno. Le
ragazze scendono nel centro del paese, domandano
ai piccoli ristoranti di poter raccogliere gli scarti di
cibo, che poi si caricano su
un triciclo e portano agli
animali. Nel loro laboratorio di sartoria, continuano
poi a creare artigianalmente lavori di cucito e ricamo. Per risparmiare nell’acquisto delle stoffe, si
sono rivolte ad una fabbrica di abbigliamento chiedendo – e ottenendo – di
poter raccogliere gratuitamente quei ritagli di tela e
stoffa, accantonati come
scarti di confezionamento.
Nelle mani delle ragazze i
ritagli si trasformano in
abitini per bambole, inserti di cuscini e coperte, trecce di cholitas... e una macchina ricamatrice e una
impunturatrice, che faciliterebbero il lavoro, costano complessivamente e
5900. Le offerte finora pervenute a Fraternità per
questo Progetto arrivano a
4.050 euro. Amici di
Fraternità possiamo aiutare Suor Dora e le» sue» ragazze a raggiungere l’obiettivo?
Brevi dalla
Guinea Conakry
Il miglioramento della situazione generale in
Guinea Conakry, dopo lo
svolgimento delle votazioni presidenziali dello scorso dicembre con l’elezione
di Alpha Condè, storico
oppositore di tutte le dittature succedutesi nel Paese dal 1958, anno dell’indipendenza dalla Francia,
fa ben sperare nella possibilità di modificare le condizioni di democrazia politica e di vita stessa dei
popoli guineani. Alpha
Condé ha dichiarato di
voler essere uomo del cambiamento al servizio di una
Guinea riconciliata, sottolineando che «la Guinea è
da costruire, non da ricostruire», poichè metà della sua popolazione vive
nella povertà e, nonostante la ricchezza di risorse
naturali e le possibilità
agricole, il 70% della sua
gente vive con meno di un
dollaro al giorno. Nel villaggio di Sankama (600
Km a nord della capitale), in una zona rurale
con altissimo tasso di
analfabetismo, l’intervento dell’italiana Associazione Ritmi Urbani ha costruito un edificio scolastico, frequentato da una
novantina di alunni. Se la
scuola verrà completata
con la costruzione di latrine esterne, il rifornimento alla mensa scolastica del riso (cibo-base)
sarà garantito dal Programma Alimentare
Mondiale delle Nazioni
Unite, che interviene nelle zone di «insicurezza
alimentare» ma solo se la
scuola rispetta alcuni definiti parametri, tra cui
l’esistenza dei servizi igienici. Per costruirli la spesa si aggira sui 4mila
euro. I contributi finora
raccolti da Fraternità raggiungono i 2.800 euro.
Amici di Fraternità, possiamo contribuire a completare la scuola di
Sankama?
Luigina Morsolin
Si possono inviare contributi con assegni bancari,
vaglia postali o tramite il
ccp 10635068 Coordinate:
Codice IBAN: IT76J
0760103 0000 0001 0635
068 intestato a Pro Civitate
Christiana – Fraternità –
Assisi.Per comunicazioni,
indirizzo e-mail:
[email protected]
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ROCCA 15 APRILE 2011
Brevi da Haiti
2010
TUTTA
Rocca 2010
cioè quasi 1500 pagine
spessore 5 mm
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i 23 NUMERI integrali
dell’anno
gli INDICI
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la ricerca
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Sono disponibili i
CD-ROM 2004-2005-2006-2007-2008-2009
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richiedere a Rocca ccp 15157068 o con bonifico bancario (vedi p. 4)
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