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Sommario
Le Cento Città
*
Direttore Editoriale
Mario Canti
Comitato Editoriale
Fabio Brisighelli
Romano Folicaldi
Natale G. Frega
Giuseppe Oresti
Giancarlo Polidori
Direzione, redazione,
amministrazione
Associazione Le Cento Città
[email protected]
Direttore Responsabile
Edoardo Danieli
Prezzo a copia
Euro 10,00
Abb. a tre numeri annui
Euro 25,00
Spedizione in abb. post.,
70%. - Filiale di Ancona
Reg. del Tribunale di Ancona
n. 20 del 10/7/1995
Stampa
Errebi Grafiche Ripesi
Falconara M.ma
Periodico quadrimestrale de
Le Cento Città,
Associa­zione per le Marche
Sede, Piazza del Senato 9,
60121 Ancona. Tel. 071/2070443,
fax 071/205955
[email protected]
www.lecentocitta.it
*
Hanno collaborato a questo numero:
MarioCanti,SilviaCecchi,AdrianoCiaffi,
Luca Maria Cristini, Giovanni Danieli,
Romano Folicaldi, Alfredo Luzi, Giorgio
Mangani,CinziaMaroni,AlbertoPellegrino
3Editoriale
Ricordo di Enrico Paciaroni
di Giovanni Danieli
5Primo Piano
L’atleta confiscato
di Silvia Cecchi
Convegno Padrò e Contadì
9 La terra, tra storia, politica e immaginario
di Cinzia Maroni
11 Mezzadria, strumento e fine
di Adriano Ciaffi
16 L’addioall’agricolturaelatrasformazionedelpaesaggio
di Mario Canti
20 Marche, il giardino fiorito
di Giorgio Mangani
25 Portfolio
Il mondo fotografico di Adriana Argalia
di Alberto Pellegrino
29 Arte
LacittàdiAnconaeilMuseoOmerocelebranol’operadi
Valeriano Trubbiani con una grande antologica
di Luca Maria Cristini
32 Scienza e letteratura
Unoscienziatoallospecchio.RenzoTomatiseillaboratorio
Bovino
di Alfredo Luzi
37 Libri ed Eventi
di Alberto Pellegrino
45 Vita dell’Associazione
di Giovanni Danieli
In copertina
Le sorgenti del Nera. Foto Canti
Le Cento Città, n. 48
TVS è fermamente convinta dell’importanza
di saper riconoscere la bellezza in tutte
le sue forme. Per questo, da sempre è impegnata
nella produzione di articoli per la cottura
che si distinguono per design e funzionalità.
Ma l’amore per il bello di TVS si esprime
anche nella collezione di opere d’arte,
che conta opere di pregio realizzate
dai più importanti autori del periodo
dal XIV secolo al XIX secolo.
L’opera qui presentata ne è solo un esempio.
Floriano Bodini, Cavallo e Nudo di donna
(Gemonio di Varese 1933 - Milano 2005)
www.tvs-spa.it | TVS Spa_Via Galileo Galilei, 2_ Fermignano (PU) Italy
AD
Amore per il bello,
passione per l’utile.
Editoriale
3
Ricordo di Enrico Paciaroni
di Giovanni Danieli
sue numerose iniziative,
nessuno di noi ha dimenticato il forum, alle
Muse, su La musica nelle Marche, il sistema che
non c’è, primo di una serie di incontri sul tema,
o i numerosi dibattiti su
La Sanità che cambia o
il convegno Ambrosetti
su La città dei creativi,
realizzato con Catervo
Cangiotti,
convegno
che aveva raccolto in
rettorato molti dei più
prestigiosi capitani d’industria della regione.
Poco prima di Natale
Enrico Paciaroni ci ha
lasciato; il ritorno inaspettato di una malattia
che aveva già incontrato
e con grande forza di
volontà superato, lo ha
sottratto definitivamente all’affetto dei familiari, degli allievi e dei suoi
tanti amici.
Medico, cardiologo,
geriatra, era stato il principale artefice, l’anima
scientifica, l’animatore
culturale di quell’incredibile processo che doveva
portare, anno dopo anno,
un ospizio per anziani disabili a diventare un centro di ricerca e di cura nel
campo geriatrico, punto
di riferimento e di coordinamento nazionale.
Giunto al pensionamento, aveva continuato instancabile la sua
attività di medico e di
ricercatore, di promotore di eventi culturali; Il Prof. Enrico Paciaroni.
aveva scoperta la felicità
di scrivere e negli ultimi
Amava il teatro, ed in partitre anni aveva prodotto due vo- colare quello della sua città, Le
lumi, uno sulla storia dell’Inrca, Muse, che tuttavia non perceche solo lui poteva scrivere così
piva come un’isola felice, ma
bene perché solo lui l’aveva così
come nodo di una rete regionale
intensamente e completamente
vissuta, ed uno sulla longevità che avrebbe assicurato a tutti,
attiva, nel quale aveva riversato attraverso un miglior utilizzo
tutta la sua esperienza e cono- delle risorse disponibili, visibiscenza dei processi di invecchia- lità e attrazione; era Presidente
mento e dei comportamenti da degli Amici delle Muse ed anche
seguire per restare attivi malgra- in questo ruolo aveva profuso
creatività, generosità, genuino
do gli anni.
entusiasmo.
Persona dotata di grande senDella nostra Associazione
so civico, interpretava la propria
vita come un servizio reso per era stato Presidente negli anni
contribuire a risolvere i proble- 2005-2006, realizzando un programma di ampio respiro; tra le
mi del territorio.
Le Cento Città, n. 48
Dopo il periodo di
presidenza, Enrico aveva continuato ad essere sempre attivo nella
vita dell’associazione,
portando il suo genuino entusiasmo, la freschezza delle sue idee, il
suo fervore innovativo;
questo anche quando la
malattia ne aveva fiaccato il fisico, non certo la
progettualità.
La sua natura era gentile, affabili i suoi modi, vivo e profondo il suo amore per la medicina,
intensa la sua partecipazione
alle vicende regionali; non aveva sovrastrutture, era quello che
appariva, un uomo ricco di cultura e di entusiasmo, assai legato
a moglie e figlie, alle quali ora
mancherà moltissimo.
Non omnis moriar, aveva scritto Orazio, multaque pars mei vitabit Libitinam: così Enrico non
se ne è andato del tutto, molta
parte di lui, il suo spirito, è presente tra noi.
Silvia Cecchi
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L’Atleta di Fano attribuito a Lisippo.
Le Cento Città, n. 48
Primo piano
5
L’atleta confiscato
di Silvia Cecchi
La statua attribuita a Lisippo
è divenuta italiana per effetto di
meccanismi acquisitivi (taluno
semplice, altri più complessi)
ampiamente dibattuti e avallati da due conformi ordinanze
emesse da due diversi Giudici
pesaresi (ordinanze 10.2.2010 e
3.5.2012), le quali, accertata la
proprietà statuale sul bene, ne
dispongono la confisca.
La questione dell’‘italianità’del bronzo, contestata a oltranza (attualmente mediante
ricorso per Cassazione contro
l’ordinanza) dall’attuale detentore (il Paul Getty Trust), presenta dunque un profilo eminentemente giuridico.
Come è noto, contemporaneamente alla vicenda dell’esportazione illecita e per le stesse finalità, la statua subì un periodo di
clandestinità che va dai sei agli
otto anni, dapprima in Italia, in
condizioni tali da comprometterne l’integrità di conservazione, ed quindi una (prima) serie
di interventi selvaggi di disincrostazione e ‘restauro’ all’estero (in Germania) che le hanno
procurato danni gravi, indelebili
e irreversibili (né emendati dagli
interventi della seconda fase di
trattamento): vulnus ampiamente riconosciuto dagli esperti dello stesso museo californiano che
acquisì la statua nell’agosto del
1977 dal restauratore-venditore
tedesco.
Tali danni sono gli effetti di
danno ‘secondario’ rispetto alle
condotte contestate nel procedimento penale da poco concluso,
e l’oggetto diretto e ‘primario’ di
altro procedimento penale tuttora pendente presso l’Ufficio
della Procura di Pesaro (il reato
in questo caso è di natura permanente e come tale imprescrittibile): giacché non vi è dubbio
che simili danni sarebbero ben
stati impediti dagli organi pubblici italiani preposti alla conservazione e restauro dei beni
artistici e del patrimonio arche-
Il Pm Silvia Cecchi.
ologico, ove il bene non fosse
stato sottratto illecitamente alla
loro competenza: la circostanza
assume un rilievo indiscutibile,
di fronte a qualunque obiezione
contraria, non solo nel nome del
rispetto dovuto alle istituzioni,
ma per chiunque condivida comuni sentimenti di responsabilità (di tutela, cura) riguardo
ai beni archeologici o di valore
artistico.
La risonanza della vertenza
giudiziaria è stata assai grande,
come è noto, e ha suscitato un
dibattito tra i sostenitori del ritorno della statua nell’ambiente
da cui storicamente proviene e
i sostenitori di una indifferenza per il sito (sia pure remoto
ed eccentrico) in cui un’opera
d’arte finisca per ‘stabilizzarsi’ all’esito di peripezie dettate
da illeciti traffici e da condotte
censurate dal diritto penale nazionale ed internazionale: indifferenza giustificata nel nome di
un quid ‘assoluto’che renderebbe l’opera d’arte per così dire
‘ubiqua’ e affrancata da vincoli
di contesto.
A questi soli aspetti (culturali
ed etici insieme) dedico qui alcune brevi riflessioni, avendo
già avvertito che in nessun caso
esse potrebbero oscurare il primato giuridico che compete alla
vicenda.
Le Cento Città, n. 48
1 - Nella relazione inviata al
Governo italiano nel 2006 da
parte della Direzione del Getty
Museum (e poi più volte, successivamente) si sostiene intanto
la tesi del ‘legame tenue’ tra la
statua e il nostro Paese, con evidente riferimento, per antitesi,
al criterio del ‘legame rilevante’
menzionato nella Convenzione
Unesco del 2001. Si obiettò in
quella circostanza, e già più volte in precedenza, che la statua è
di indubbia origine greca e che
l’Italia non può rivendicare di
essa né un’origine italica o vetero-romana, né l’esistenza di un
sito archeologico inscritto con
sicurezza nel proprio ambito
territoriale.
Ma intanto è certo che il collegamento tra la statua e l’Italia
non deriva da scavo abusivo o
furto in terra greca, non da un
bottino di guerra né da un saccheggio, giacché è necessario
comunque distinguere, in fatto
di trasferimento e provenienza
di beni, tra canali commerciali
legali e bottini bellici, tra requisizioni di Imperi o di Stati invasori-occupanti e regolari transazioni intercorse tra soggetti
privati o pubblici, tra canali neri
ed eventi storici in senso lato.
Nel nostro caso per vero non
sappiamo con certezza neppure quale fosse la direzione della
rotta della nave che trasportava la statua di bronzo prima
del naufragio, se dalla Grecia
all’Italia o viceversa (la seconda
ipotesi oggi sembra guadagnare
maggiori consensi), né sappiamo
con certezza se si tratti davvero
di un originale (tesi peraltro assolutamente prevalente) ovvero
di copia romana di statua greca.
Sappiamo che era consuetudine nel periodo del tardo impero
portare in esposizione di luogo
in luogo esemplari di particolare pregio di statue greche a
guisa di modello da imitare, in
varie località dell’Impero, a scopi di pedagogia etico-estetica,
Silvia Cecchi
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Il peschereccio fanese su cui fu imbarcato il Lisippo.
per dire così. D’altronde grande fu la notorietà che la statua
ebbe nell’antichità (addirittura
esiste una copia conservata al
museo archeologico di Costantinopoli): ciò che rende ancor
più plausibile la congettura che
essa abbia svolto il ruolo di modello itinerante in varie località
dell’Impero, per la sua straordinaria bellezza: quella levità della
figura in rotazione, quel peso ed
energia concentrati su un lato
della figura ove è una gamba a
reggere l’intero peso del corpo e
del braccio.
Connubio commovente e straordinario tra finitezza ed immortalità, tra caducità dell’attimo e
sopravvivenza della materia, sia
pure còlti nella bellezza di un
giovane corpo di uomo.
Dobbiamo però presumere
fondatamente che la statua sia
stata oggetto di legittima committenza o di altra disposizione
di trasferimento che la portò in
Italia, ovvero che analoga disposizione ne abbia deliberato il
‘ritorno’ in Grecia o a Costantinopoli, e infine che in entrambi
i casi sia naufragata a causa di
tempesta marina o avaria della
nave che la trasportava. Sappiamo in ogni caso con certezza che
il trasferimento era in corso fra
due località dell’Impero, in esso
essendo ricompresi sia il luogo
di destinazione quanto quello di
provenienza.
Poco più di un secolo dopo la
morte di Lisippo, la Grecia, già
‘romana’, diviene governatorato
e poi provincia romana: la Grecia era dunque tornata territorio
romano, qualora si ritenga che
la statua sia opera di discepoli
di Lisippo e appartenga al c.d.
periodo ellenistico, fin dal momento della sua creazione.
D’altronde è pur sempre l’opera del tempo e della storia,
così come la profondità della
fusione tra civiltà, ad autorizzare
espressioni quali ‘civiltà grecoromana’o civiltà ‘romano-bizantina’, e così via.
Se così stanno le cose, conosciamo un solo ‘legame forte’: la
civiltà greco-romana (ma quando giunse la statua in Italia per
la prima volta? durante il primo
impero o nella tarda antichità?
in periodo bizantino o addirittura in età medievale?).
Secondo le congetture più accreditate degli studiosi, la statua
avrebbe goduto dunque di una
permanenza in Italia variabile
fra i due e i dodici secoli: ciò
Le Cento Città, n. 48
che significa che “il naufragio è
avvenuto quando la lezione (della
statua di Lisippo) era così diffusa
e radicata nella prassi figurativa
(in terra italiana) da non potersi più smarrire”, come sostiene
acutamente Paolo Moreno. In
altre parole, secondo l’Autore,
la lezione era così profondamente metabolizzata in terra italica
che ne troviamo dimostrazione
in talune pitture pompeiane, in
lcune sculture medievali e rinascimentali, e addirittura in figure
tratte dagli affreschi michelangioleschi.
Non dovremmo allora più
dubitare che lo Stato italiano
sia davvero il soggetto culturalpolitico erede della civiltà di cui
lo splendido esemplare bronzeo
attribuito a Lisippo è figlio; in
questa prospettiva, l’opera ci si
presenta come elemento (chiave
di volta, secondo i critici del’arte) di una millenaria e complessa genealogia procedente fino a
noi, che di quella civiltà siamo
senza dubbio gli eredi.
Allora e per converso non vi
è alcun dubbio – in ciò consta
l’oggetto specifico della vicenda
giudiziaria - che nessuna vicenda se non di tipo affaristico- criminale, poté condurre oltre ven-
Primo piano
ti secoli dopo quella statua sulle
coste della California.
2- I pescatori fanesi si trovarono così di fronte ad una res
inventa, conservata per quasi
due millenni dagli abissi marini,
dopo essere naufragata in corso
di viaggio. La fortuna la perse e
la fortuna la riportò alla luce.
Il luogo del rinvenimento è
stato individuato con una certa
approssimazione ma è possibile asseverare che esso ricada in
zona di acque internazionali,
secondo la mappatura geo-giuridica delle ‘zone marine’ di cui
alle convenzioni internazionali
(Convenzioni Unesco - Montego-bay), in una fascia del mare
Adriatico al largo di Pedaso, per
modo che la nazionalizzazione
del bene è l’effetto delle analizzate vicende giuridiche che
concorrono univocamente verso
tale conclusione.
Si tratta certamente di un sito
archeologico marino tuttora
aperto ed in gran parte ancora
inesplorato. Una sorta di sito archeologico ‘di fortuna’, nel senso
anche di ‘fortuito’, sottomarino,
che attende di essere ulteriormente indagato ed esplorato,
ma che non smentisce affatto la
pertinenza originaria della statua all’area italico-romana, giacché ogni ipotesi interpretativa
sul punto converge sulla conclusione che il reperto non solo
gravitava in tale area, ma, fino a
prova contraria, vi gravitava e vi
si muoveva ‘legalmente’.
È dunque in questa area che
la statua può essere capita (dirò
meglio: può continuare ad essere
capita, dato che a tutt’oggi non è
completata la sua disamina storica, archeologica ed estetica) e
studiata, contestualizzata, comparata e goduta.
D’altronde il luogo di un naufragio è spesso l’unica traccia
e prova di un itinerario storico
interrotto, altrimenti destinato
all’oblio.
Per questo esso appartiene
alla storia. Ben sappiamo quante volte le civiltà abbiano fatto di un approdo di fortuna, di
un ‘provvidenziale’ naufragio, il
luogo leggendario delle proprie
origini, e vi abbiano imbastito
il proprio mito di fondazione: è
7
accaduto al grandi città- civiltà
(a Roma stessa) come a cittàsantuario sorte dall’approdo
fortunoso di una reliquia, dallo
sbarco di un santo scampato a
peggior fine. Combinazione di
storia e destino, d’immaginario
e di leggendario, che così spesso
alla storia si mescolano: nel nostro caso luogo di eventi storici
documentati e ulteriormente documentabili.
3- Ognuno sa quanto l’espressione artistica in generale abbia
a che vedere con i dati paesaggistici, con le forme di natura,
con gli altri segni dell’uomo e i
rispettivi reciproci rinvii (ben
sappiamo che non vi sarebbe
Raffaello senza la soave dolcezza
delle colline urbinati, né Mantegna, Piero o Leonardo senza i
metafisici sfondi umbro-toscani,
né Vermeer senza il borghese
interno borghese-fiammingo, né
la Venere di Cranach senza l’allegorismo metafisico germanico,
né il fondo-oro di Giotto senza il
mistico paesaggio umbro e senza
i segni contigui dell’influsso bizantino; si potrebbe proseguire
senza fine).
Allo stesso proposito, mi viene spontaneo aggiungere quanto scrisse il celebre ‘positivista’
francese Hyppolite Taine: “Anche l’opera d’arte, come i mari, i
fiumi, i laghi, si colora del cielo
che riflette”: l’affermazione piacque ad Alberto Savinio che così
la commenta “sono gli elementi
ambientali che finiscono per fare
corpo con l’opera d’arte pur restandole esterni”.
Meno intuitivo forse è immaginare che anche l’intelligenza
di un’opera d’arte, dalla parte
di chi la guarda e intenda recuperare il senso di quelle stesse
relazioni, implica di veder conservati i medesimi legami con
l’ambiente.
Nella recisione dei segni contestuali, delle misure e proporzioni reciproche fra un’opera e
quanto l’opera circonda, nella
recisione della storicità delle
tracce del prima e dell’ora, è il
vulnus della decontestualizzazione. La lettura integrata, congiunta degli elementi interni ed
esterni dell’opera è quel senso
intero che l’opera è capace di reLe Cento Città, n. 48
stituire all’osservatore che sappia leggerlo.
Ciò è vero per ogni oggetto
d’arte. Massimamente però ciò
è vero per una statua che, per
destinazione e proporzioni, era
sicuramente destinata, come nel
nostro caso, ad una collocazione
in externo, e per di più tendenzialmente fissa: circostanza che
impone riflessioni diverse da
quelle che competono al rapporto fra un quadro, per esempio,
ed il suo ambiente.
Che un’opera d’arte muti di
fuori del suo ambiente d’origine ben sapeva anche Cicerone,
quando rifletteva su come una
statua greca già a Roma mutasse
di bellezza e di significato (“le
statue greche una volta portate a
Roma non sono più le stesse”). Se
tale perdita oggi si è in un certo
senso attenuata, per effetto della dilatata prospettiva storica,
nella comparazione tra bene in
Grecia e bene in Roma, quello
‘spaesamento’ che già avvertiva Cicerone, siamo però ben in
grado di coglierlo noi tra mondo greco-romano e California:
e d’altra parte il tema di un’appartenenza culturale, eventualmente condivisa, di quest’opera
tra Stato italiano e Stato greco,
è aspetto che potrà essere rivalutato, a tempo debito, e ciò a
riprova, ancora una volta, che
non si tratta di difendere pregiudizi ‘patriottici’ o di campanile,
bensì ragioni di diritto e riflessioni implicate nell’intelligenza
di un’opera d’arte.
Non possiamo non credere
che a Malibu si perda irrimediabilmente ogni riferimento, in assenza di qualsiasi modulo esterno di confronto: non una scala
di beni contemporanei o prossimi nel tempo, non una stratificazione di testimonianze oggettive
storicamente collegabili all’opera, non un universo segnico di
contorno e di riferimento che
siano in grado di posizionare il
bronzo e darne la sua vera misura artistica, senza la quale va perduto proprio quell’ideale umano
che la statua esprime ed insegna.
Lo sappiamo anche noi, che
stupiamo della ‘piccola misura’
di una statua greca confrontata
con la grande misura delle statue
romane o rinascimentali italiane.
Silvia Cecchi
Nel momento in cui l’opera
nasce e viene posta in un luogo, da quel momento inizia il
suo colloquio ininterrotto con il
mondo circostante, con l’insieme dei segni in cui è immersa.
Vogliamo rivederla anche noi,
fin dove possibile, proprio così
come la videro con i propri occhi: l’artefice, il committente, i
primi e i molti successivi ammiratori, i visitatori, i viandanti, gli
oziosi, i viaggiatori, i sedenti.
Vogliamo celebrare il rito
dell’osservare e dell’ammirare:
rito della memoria, della storia,
della bellezza, dell’identificazione, della sublimazione.
Davanti all’osservatore che
voglia immedesimarsi con i suoi
predecessori, l’opera avrà il potere di rimettere in vita un organismo vivente storico-culturale
e l’universo di relazioni che gli
appartiene: potere della forma
formante e della fitta rete ‘magica’ dei rinvii che l’oggetto d’arte
tesse e l’ambiente conserva (tanto quanto il reato li spezza una
volta per sempre, finché non sia
riparata l’offesa).
4- Non altro è il senso profondo dei codici deontologici museali e trasfusi nelle convenzioni
internazionali, se non quello di
impedire che un museo sia ricettacolo di fatti di speculazione
finanziaria e di malaffare, l’asilo
dato a criminali comuni, anziché
il risultato e il vertice di un’operazione culturale.
Taluno vorrebbe concedere
all’Italia (il Paese fra tutti che
più ha fatto le spese delle logiche
speculative ed affaristiche dei
sodalizi criminali specializzati
nel settore) un premio di consolazione: le opere d’arte italiane
sono pur un ottimo ‘biglietto
da visita’ dell’Italia all’estero.
Riflessione piuttosto spicciola
e stretta. Prendiamo nondimeno l’argomento per quello che
è, pur nel suo modesto pregio:
ebbene, non vi è dubbio che la
ben nota e invalsa politica degli
imprestiti, delle mostre itineranti, delle esposizioni ‘tematiche’
organizzate nelle sedi più disparate del globo, sarebbero state
(e sono) il mezzo più adeguato
e sufficiente al medesimo scopo,
8
senza alcun bisogno di colludere
col (o plaudire al) crimine, nella
specie con il contrabbando, l’esportazione illecita delle opere
d’arte, la ricettazione, le associazioni per delinquere costituite agli stessi fini, con il reato di
interventi abusivi in spregio e a
sfregio delle opere dì’arte, condotte la cui mira, come ognuno
ben sa, è solo quella di conseguire il maggior lucro possibile
e non certo quello a diffondere
biglietti da visita dell’arte italiana, anche a costo di danneggiare
irreparabilmente (o spezzare nel
maggior numero di frammenti
autonomamente vendibili) manufatti di inestimabile valore.
Vi è da temere d’altra parte
che il Grand Tour ricordato da
alcuni pubblicisti d’oggi e di
cui l’Italia può vantarsi ancor
oggi di essere mèta, resterebbe
in pochi anni vanificato dalla
massiccia evacuazione di opere
d’arte avvenuta con il ritmo intensificato degli ultimi decenni e
che può anche valersi dell’irresponsabile apologia che si è letta
recentemente in alcuni articoli
di giornale.
Né il prestigio artistico dell’Italia sarebbe mai minorato da
un’ampia diffusione di ottime
copie, di cui sono ricchi i migliori musei d’Oltralpe e di tutto il
mondo.
4bis- Si è molte volte ricordato, nelle sedi in cui il discorso
è caduto su questo tema, che
difendere la conservazione di
un’opera d’arte nei siti di provenienza o di altra appartenenza
vuol dire difendere l’identità di
un luogo e l’identità culturale
e civica della collettività che lo
abita: ciò postula l’ampio enunciato dell’art. 9 della Costituzione italiana. La dichiarazione
è potente e autoevidente, ma
qualche parola dobbiamo pur
aggiungere perché ne sia meglio
inteso il senso, solo apparentemente semplice. L’identità,
declinata in questo caso come
consapevolezza di appartenere
ad un luogo e come benessere di riconoscersi in esso, è un
sentimento che deve molto agli
elementi dell’ambiente e soprattutto agli oggetti d’arte che
lo abitano e simbolicamente lo
Le Cento Città, n. 48
esprimono.
L’identità è un’entità dialogica, come il bello estetico.
Entrambe richiedono un certo
grado di libertà nei collocutori, entrambe esigono la dignità
di ciascuno, del soggetto come
dell’oggetto: ma la cattività di
una statua trafugata è nemica
del delicato colloquio che essa
instaura tra soggetto ed oggetto.
L’offesa (e più che mai l’‘offesa penale’) è sempre nemica del
dialogo identitario ed estetico.
Importa aggiungere che, tra
gli altri compiti, il diritto ha anche il quello assai nobile di restituire dignità a persone e cose.
5-Una parola infine va spesa
circa la nozione di “patrimonio dell’umanità” così spesso
invocata ma sulla quale non ci
si intende bene. Giustamente
è stato a questo proposito citato (da Fabio Isman) il grande
Quatremère de Quincy, (17551849) laddove il filosofo afferma
che un’opera d’arte deriva la
sua universalità dal radicamento
nelle condizioni originarie. Profonda intuizione di un connubio
tra universalità e particolarità,
che è il segreto dell’opera d’arte nel suo momento genetico,
nel momento del suo linguaggio espressivo (la sua ‘poetica’)
e infine nel momento della sua
fruizione estetica.
Non vi è alcuna antinomia
tra i due termini: in quanto
patrimonio dell’umanità, tutti
hanno l’interesse e il dovere di
tutelare il significato dell’opera
salvaguardandone le sue radici
storico-culturali, all’interno del
relativo ambiente.
Superfluo aggiungere che il
principio di una globalizzazione
culturale non significa affatto
una perdita di un’identità e di
una radice, bensì contiene l’idea di una interconnessione tra
identità e realtà culturalmente
definite.
Un’importante lezione deve
essere allora tratta da queste
brevi considerazioni: la piena
coincidenza tra le conclusioni a
cui perviene la cultura giuridica
e quelle a cui ci conducono i codici etici e culturali oggi universalmente condivisi.
Convegno Padrò e Contadì
9
La terra, tra storia, politica e immaginario
di Cinzia Maroni
Il convegno Padrò e Contadì
è stato organizzato da Le Cento
Città che sono una “Associazione per le Marche”. Non poteva
mancare allora un nostro contributo ad un fenomeno come
quello della mezzadria che è
stato uno degli elementi caratterizzanti la nostra regione.
A 30 anni dall’abolizione del
patto mezzadrile Le Cento Città
hanno voluto offrire un contributo riteniamo “originale” all’analisi di questo fenomeno.
Il convegno che si è svolto
il mese scorso all’Università,
organizzato da Annalisa Cegna,
ci esime dall’affrontare i temi
“classici” della mezzadria e della
legge che l’ha abolita, e ci permette di concentrarci su di una
serie di questioni particolari,
magari meno visitate dalla storiografica ufficiale, ma che sono
altrettanto importanti per capire
il fenomeno.
Il filmato che accompagna le
relazioni è un documento che
si riferisce al 1964, quando una
legge cominciò a smantellare i
patti mezzadrili. In esso sono
perfettamente riconoscibili i
protagonisti del nostro convegno: li padrò e li contadì dell’immaginario collettivo; i cattivi ed
i buoni in lotta per la terra.
Il rapporto tra queste due
figure è stato molto più complesso e complicato e soprattutto “inscindibile” nel senso
che i loro destini si sono intrecciati e, come vedremo, la fine
della mezzadria ha realizzato un
allontanamento di entrambi dal
rapporto “diretto” con la terra.
La prima cosa da dire e sulla
quale tutti gli studiosi sono d’accordo è che la legge del 1982 di
abolizione appunto della mezzadria, interveniva in una situazione nella quale “sostanzialmente” la mezzadria non c’era più.
La maggior parte dei contadini si era già inurbata e si era da
tempo interrotto il loro rapporto
diretto e costante con l’attività
agricola. Con la legge del 1982
Il tradizionale paesaggio marchigiano. Foto Canti.
non si è avuta una inversione del
rapporto tra padrò e contadì in
quanto questi ultimi non rimasero sulla terra da “padroni”.
Che è successo allora? Quali
sono stati i veri obiettivi della
legge del 1982? Se questa legge
era di retroguardia, come dice
Sergio Anselmi nel suo bellissimo saggio sulla Storia d’Italia
Einaudi relativo alle Marche,
cosa c’era dietro?
È vero o no, come disse la
Corte Costituzionale deliberando su tutta una serie di ricorsi
presentati dai padrò (molti sono
marchigiani) che accusavano la
legge di costituire un vero e
proprio “esproprio” delle loro
Le Cento Città, n. 48
terre, che l’obiettivo era più che
altro ‘politico’, anzi di politica
economica, nel senso che venivano puniti i proprietari agrari assenteisti a favore di quei
soggetti che invece la terra la
lavoravano?
Un intervento economico che
distrusse la proprietà terriera e
cambiò radicalmente anche il
volto delle campagne in quanto
i contadini “affittuari” se utilizzarono la terra “da padrò”, lo
fecero per obiettivi molto diversi da quello di “dare la terra a
chi la lavora”.
Quindi la prima domanda è
questa: dato che la mezzadria
era bella che finita all’arrivo
Cinzia Maroni
della legge del 1982 cosa successe effettivamente nelle campagne con il passagg+io all’affitto?
Come sono cambiate le coltivazioni e l’intero paesaggio agrario
marchigiano? Questa una delle
domande a cui cercheremo di
dare risposta.
La data del 1982 è solo una
data “formale” dalla quale facciamo partire tutta una serie di
avvenimenti che invece erano
già da tempo presenti nella realtà delle nostre campagne.
Era finito quel mondo “agreste”, quel mondo che non ritornerà più dopo la sconfitta dei
cosiddetti “padrò”.
Non era il patto mezzadrile
quello che impediva lo sviluppo
dell’agricoltura e la fine della
mezzadria ha costituito una
forma di ‘liberazione’ anche per
i contadini dalla schiavitù della
terra. Si era interrotto quel rapporto diretto ed esclusivo a cui
li costringeva il patto agrario
(se la famiglia mezzadrile voleva “campare” tutto il terreno
doveva essere sfruttato e in tutte
10
le forme possibili e tutti i componenti la famiglia dovevano
lavorare: da sole a sole tutti i
giorni). Con la monetizzazione
del rapporto i contadini cominciano ad organizzarsi in altra
maniera, magari si associano per
comprare i macchinari e sfruttare in maniera intensiva e monoculturale i terreni o lavorando
solo part-time la terra. La casa
colonica non è più l’abitazione principale ed esclusiva. Si
costruiscono case civili vicino a
quella o ci si trasferisce in città.
Quali sono le conseguenze di
questa sorta di “abbandono”
delle campagne da parte dei
contadini? Ecco un’altra questione centrale.
Ne parlano l’on. Adriano
Ciaffi che è stato uno dei firmatari di questa legge; l’architetto
Mario Canti, studioso del paesaggio marchigiano e Giorgio
Mangani, forse lo studioso più
sottile ed originale, della cosiddetta “marchigianità”. Con la
sua casa editrice e i suoi saggi è
l’intellettuale che si è più occu-
Le Cento Città, n. 48
pato di “fare le Marche”. Da
sempre sostiene che le Marche
sono l’Arcadia e quindi nessuno
meglio di lui può raccontarci dei rapporti tra l’immagine
dell’Arcadia e il paesaggio marchigiano.
Era meglio quando era peggio?
Certo che no. Le condizioni
delle famiglie mezzadrili erano
disumane ed era giusto liberare
i contadini dal rapporto ‘osmotico’ con la terra.
Era giusto quindi eliminare il
peggio; ma il meglio?
Con la mezzadria sono anche
finiti gli “orti fioriti” del paesaggio marchigiano, la cura amorevole del terreno, l’organizzazione scientifica del suo sfruttamento, il regolare deflusso delle
acque, la diversificazione delle
culture, la scienza delle potature, insomma la grande cultura
materiale agraria.
Il peggio andava dunque
eliminato ma il meglio per la
nostra agricoltura non l’abbiamo ancora visto.
Convegno Padrò e Contadì
11
Mezzadria, strumento e non fine
di Adriano Ciaffi
Io ringrazio l’Associazione
Le Cento Città perché dopo
trent’anni, 1982 e 2012, ci offre
l’occasione di una riflessione
su un grande fenomeno che ha
caratterizzato la trasformazione,
forse la più grande nella storia
delle Marche e delle regioni italiane agricole; perché nel giro di
una generazione è avvenuta una
trasformazione enorme, sotto
tutti gli aspetti; dalla società
rurale si è passati alla società
industriale e post-industriale,
il tutto in sostanza in mezzo
secolo. Se voi prendete un altro
mezzo secolo dei millenni della
nostra storia, al di là dei cambiamenti politici e di potere,
sul piano della trasformazione
individuale, culturale e socioeconomica, periodi così brevi
e così rivoluzionari è difficile
trovarli.
Questo per inquadrare la
mezzadria, la mezzadria è uno
strumento e non un fine, è un
contratto e quindi va vista in
relazione a fenomeni più grandi
di trasformazione economica,
dentro cui vi era la società agricola prima e una società postagricola dopo. I contratti sono i
legami che più hanno fatto forza
in questo processo di trasformazione; secondo quali valori?
È chiaro che i cambiamenti
nella società hanno sempre dei
momenti dialettici, hanno sempre dei momenti di polemica, a
volte anche di rottura e quindi i
processi, quelli veri, sono quelli
riformistici, quelli graduali che
maturano processi di trasformazione profonda e la trasformazione della mezzadria, come
diceva la nostra Presidente, è
uno di questi, non si è risolto
con ius o iudicis o per ordine
della legge, ma si è realizzato
socialmente attraverso tanti fattori, però la politica ha governato queste trasformazioni.
Direi che non è neanche un
fenomeno dell’ultimo mezzo
secolo del novecento, perché
in fondo la fine dell’ottocento
era caratterizzata con la nascita
del movimento operaio, con il
movimento agricolo-contadino,
sia socialista, sia repubblicano,
sia cattolico; le Marche erano
rispetto a questo fenomeno un
momento di crogiolo pluralistico di queste tendenze che hanno
coinvolto, pochi lo sanno, ma
anche l’agricoltura.
Tutto il movimento murriano, si è caratterizzato popolarmente attraverso l’introduzione
dell’associazionismo agricolo,
delle università agricole, della
cooperazione, fino a far diventare le Marche nel secondo
dopoguerra, proprio attraverso
le battaglie mezzadrili, la terza
regione dopo Veneto, Emilia,
come diffusione cooperativa; in
specie quella agricola, perché
ho ho ricordato l’Emilia, ma in
sostanza il processo cooperativo
dell’Emilia è fondato nell’associazione per la trasformazione salariale, mentre le Marche
come la Toscana, regioni dov’era più diffusa la mezzadria puntano sulla trasformazione della
stessa.
Quindi questi processi di trasformazione verso una società
non più rurale ma urbana, hanno
incrociato il divenire dell’istituto mezzadrile, un istituto di
progresso, nel senso che la mezzadria è l’origine del medaiage
francese, che è poi la mezzadria
portata in Italia dai cistercensi
benedettini. Ogni nostra vallata
fu trasformata da area paludosa
in area fertile e agricola, più nei
versante adriatico, ma anche in
quello tirrenico; poi chi parlerà del paesaggio ci potrà dire
qualcosa, attraverso appunto
la trasformazione della servitù
della gleba in contadini che in
una certa misura come si è detto
all’inizio partecipavano anche,
si è detto in posizioni paritarie,
ma la parità è solo nel nome, è
solo nella divisione dei prodotti
a metà, in realtà poi la direzione
d’impresa restava all concedente, tanto che la figura del fattore
Le Cento Città, n. 48
è una figura tipica nei rapporti di impresa, un nominato da
chi possedeva la proprietà che
a volte, senza essere assenteista, pur sempre stava in città e
non poteva curare la direzione
dell’impresa. Di conseguenza
si affidava al il fattore, il che
accomunava diversi incarichi e
poi svolgeva tutto il rapporto
produttivo e mercantile con l’esecuzione, non passiva naturalmente, del mezzadro.
Tutte le battaglie di fine secolo, specie in Umbria e nelle
Marche sulla mezzadria, leggete
il bel volume di Radi sui mezzadri, riguardano il superamento di patti colonici superati, le
onoranze agrarie cosiddette, o
le corrisposte, le tante uova al
mese, i capponi durante le feste,
le verdure e così via, le onoranze
agrarie che erano delle obbligazioni che si traducevano nel
capitolato colonico, che fu sempre ammodernato, fino al capitolato del ’42, e che in sostanza
è una forma che gli studiosi di
diritto agrario ancora approfondiscono perché si era un po’
perfezionata, ma all’interno di
un rapporto, di una cultura, di
un tipo di società, ecco il punto.
È nel dopoguerra che la controversia proprietari e contadini
si fa conflittuale, ancor più di
quando si era alla fine del secolo
XX e diventa riforma solo per il
latifondo; la riforma dei primi
governi De Gasperi mise cultura
nei nuovi suoli agricoli soprattutto nel sud, perché l’area mezzadrile non aveva latifondi, non
tanto in senso tecnico perché
le mezzadrie erano all’interno
di una proprietà grande, ma
erano organizzate autonomamente, ciascun fondo con un
mezzadro,nell’Italia Centrale
non vi era il latifondo che si
era affermato soprattutto nelle
regioni del sud. Quindi da noi
questa fase sindacale aprì invece
la fase sostanziale di trasformazione del contratto.
Naturalmente a me ha incu-
Adriano Ciaffi
12
Un orto nella campagna marchigiana. Foto Canti.
riosito un po’ il padrone e il
contadino perché in questa
divisione c’è quasi una visione
sociologica, non certo romanzata, dei rapporti un po’ di interdipendenza o di insubordinazione
del mezzadro rispetto al proprietario; padrò e contadì già
ha i sintomi di una caratteristica subesina, cioè Marche basse,
perché se andiamo sopra la linea
del fiume Esino già parleremmo
di contadini e il padron, cioè
non c’è la fine con la vocale
accentuata, ma c’è la fine con la
consonante, questo per dirvi che
anche i dialetti si sono formati
nel mondo contadino e paesano,
non per nulla l’Europa parla
di zona rurale, accomunando il
piccolo paese e la mezzadria.
Ecco approfitto per evidenziare una caratteristica della
mezzadria che è quella del rapporto, quasi curtense, fra la produzione e il mercato, il mercato
di paese. Quindi, la conformazione degli insediamenti, nonostante le mura che li cingevano e
l’essere posti in cima alle colline,
in realtà aveva una comunica-
zione con la campagna, oltre la
pieve, perché i prodotti della
campagna venivano in città e la
direzione dei campi proveniva
dalla città.
È questo il quadro di riferimento, allora noi dobbiamo
prendere due estremi, due estremi e direi che queste nostre
Marche ovviamente come altre
regioni, ma forse più delle altre
regioni, perché il discorso della
caratteristica mezzadrile delle
Marche è un discorso da approfondire, anche quando c’è una
mezzadria classica che è quella
che abbiamo visto in questo film
che è un filmato del dopoguerra; in relazione ad un contratto
di mezzadria che la legge del
1964 sui contratti agrari, la 756,
stabiliva per motivi economici e
sociali, valori costituzionali inadeguati e senza tutela giuridica i
contratti di mezzadria.
E si apre appunto quella tematica un po’ controversa esposta
nel film fra chi dice: ‘ma chi
l’ha detto, si può sempre fare’,
mancava la tutela giuridica con
la legge del ‘64. Quali erano
Le Cento Città, n. 48
gli sbocchi? Gli sbocchi allora,
i pioli del progresso contadino erano prima della proprietà,
si partiva dal salariato che nel
mondo mezzadrile non era un
contratto evoluto, era ancora un
contratto di dipendenza rispetto alla mezzadria che veniva
ritenuta superiore perché c’era
una sorta di compartecipazione almeno sulla divisione degli
utili, per capirci del prodotto,
anche se non della direzione
d’impresa, anche perché non
era impresa a volte, perché il
più delle volte la proprietà
era proprietaria del reddito ma
non imprenditrice ;e questa sarà
una ragione delle deroghe alla
trasformazione quando il proprietario è imprenditore e va a
coltivarla direttamente.
Poi si è passati alla legge n. 11
dell’affitto che è quella che ha
trasformato questo atto, un po’
giovanile che io feci nel 1969,
poi trasformata in una proposta
di legge del ’70 di trasformare
su richiesta il contratto di mezzadria in affitto.
L’affitto era il secondo piolo
Padrò e Contadì
dopo il salariato e il terzo era la
proprietà contadina e il quarto
era le proprietà contadina associata e la cooperazione. Questi filoni prima che nella legge
erano in sviluppo sul piano pratico dell’associazionismo, i contadini erano ancora un soggetto
politico, oggi non sono più né
un soggetto politico, né culturale, perché il processo di integrazione urbana ha trasformato,
ha normalizzato, diciamo così,
le diverse culture, mentre la cultura contadina era una cultura,
se non la vogliamo considerare
subalterna, certo era una cultura
diversa da quella urbana, questo
è importante.
Quando è scomparsa questa cultura subalterna è divenuta importante la memoria e
qui divengono importanti’ gli
approfondimenti che adesso a
distanza si fanno per vedere di
salvare questa cultura, che non è
solo una cultura di folklore, ma
è una cultura profonda, anche
economica.
Appunto dicevo dagli Spadoni, campagne e campagnoli,
questa biblioteca intitolata agli
Spadoni, a Bruno Ciaffi, volto
agricolo delle Marche, quindi
la tecnicità anche dell’organizzazione aziendale, pensate
alla casa colonica, pensate alla
rotazione delle culture, fino ai
laghetti artificiali, fino all’introduzione delle colture specializzate, pensate il ciclo della
barbabietola, siamo arrivati ad
essere il secondo produttore
nazionale, superando anche il
Veneto, quando il Veneto cambiava la coltura della bietola in
pianura con il granoturco, noi
scoprivamo che la gradazione
della barbabietola poteva venire
anche meglio, anche se era più
piccola, più ridotta come peso,
nella zona collinare.
Sono tutti questi contributi
scientifici o tecnici del processo culturale che hanno diradato il panorama delle nostre
campagne perché l’introduzione
della meccanizzazione ha tagliato tutta la piantagione, quindi
è cambiato l’ambiente, diciamo
così il paesaggio agricolo, pur
tuttavia ha conservato, specie in
una zona collinare, come è quel-
13
la marchigiana rispetto a quella
veneta dominante o a quella
emiliana, una caratteristica tutta
sua.
Concludo dicendo che dopo
che ho dichiarato nullo questo
contratto vi è una seconda legge,
quella dell’affitto, che ha un
po’ esasperato la polemica tra
mezzadri e proprietari perché
il canone era un canone insufficiente e inadeguato per la limitazione del diritto del proprietario,
tanto che la Corte Costituzionale è intervenuta censurando la
legge n. 11 e siamo appunto al
‘71 quando già la proposta di
legge stava andando avanti, ma
poi movimenti anche contrapposti l’hanno un po’ bloccata
con manifestazioni sulle piazze,
con simulacri di noi protagonisti bruciati sulle piazze, lancio
di uova, ecc., una sorta di provinciale, diciamo così, contrasto
ma molto profondo perché era
in fondo era difficile trovare
un professionista o una famiglia
borghese della città che non
avesse il terrenuccio a mezzadria
e viceversa non era facile trovare
nelle campagne una mezzadria,
però questo fenomeno, al di là
di queste leggi, fino ad arrivare
al 1982, ecco dal 1960 al 1980 si
è sviluppato fino ad arrivare dal
60% di addetti all’agricoltura
al 3,5 dell’attuale censimento
ancora in corso.
Quindi capite che trasformazione, stiamo parlando di
100.000 aziende di cui la mezzadria in fondo aveva solo 1/3,
gli altri 2/3 erano di proprieta
diretto coltivatrice, la maggior
parte a conduzione salariale,
per esempio, io mi riferisco alle
Marche, intanto siamo ad una
superficie, ed ad un numero di
contratti superiori a quelli della
Toscana, che è rimasta con la
fattoria, con la mezzadria classica. L’industrializzazione dell’Emilia e della Toscana, anche
nelle province più mezzadrili
come Arezzo, Siena, ecc. è precedente agli anni ’50, le Marche
hanno avuto una trasformazione più diluita e successiva al
processo di trasformazione della
mezzadria in queste regioni più
pianeggianti.
Noi avevamo nel censimento
Le Cento Città, n. 48
del ‘70-’71, trentunomila aziende appoderate a mezzadria, a
fronte di 61.000, quindi 2/3 di
aziende proprietarie, già dieci
anni dopo, nel 1981 questa percentuale era diminuita al 7,4%
di aziende rispetto all’11% della
mezzadria, come superficie, al
numero di aziende al 38, ecc.,
quindi la mezzadria è rimasta
con una molteplicità di aziende
numerose, ma sempre di meno
delle coltivatrici dirette che
sono andate sempre aumentando, anche se la dimensione degli
8 ettari dell’azienda mezzadrile
è doppia, come media naturalmente, alla dimensione di 4 ettari della mezzadria.
Ecco che si arriva a questa
legge di cui celebriamo i trenta
anni, che questa eredità giacente
della legge del ‘64 di contratti
non più tutelati dalla legge, dice:
chi vuole faccia la domanda e
trasforma in affitto, che nel frattempo si era trasformato con un
canone, tra l’altro aggiornabile
presso l’Ispettorato dell’Agricoltura con la rappresentanza
delle parti ogni volta che ci fossero processi di svalutazione o il
limite dei prezzi medi dovesse
oscillare.
Quindi a quel tempo, nel
1982, già eravamo ad un 10-15%
di addetti all’agricoltura, quindi
immaginate la mezzadria che
cosa era rimasto, così è finita
la mezzadria per trasformazione, naturalmente ci sono degli
esempi interessanti, se ci fosse
stato Massi, e concludo con un
saluto e un augurio all’amico
Massi, perché quando stava alla
Commissione Agricoltura si fece
questa grande fondazione, la
Fondazione Bandini e Roberto
Massi è stato il rappresentante, quindi è permanente la sua
rappresentanza, degli interessi
originari di Giustiniani Bandini,
nello statuto misi appunto che
due erano, siccome Sigismondo diceva lascio 1.500 ettari se
poi ci si aggiunge la fondazione
della Sofia a Lanciano, si arriva
a 2.000 ettari, sono 55 mezzadri
ancora rimasti sui 60-70, perché
la conduzione a salariati man
mano che vanno via è rimasta,
però sono mezzadri che stavano
Adriano Ciaffi
da centinaia di anni nella proprietà dei Giustiniani-Bandini
e si sono perpetuati con i figli e
i nipoti ancora tuttora e hanno
usufruito della trasformazione
della mezzadria in affitto tutti,
prima ancora che venisse la
legge, 1975 rispetto al 1982,
hanno usufruito del premio di
rapporto strutturale quando le
Marche recepirono le tre direttive comunitarie, la 159, la 160
e la 161 che dava il premio del
rapporto strutturale a che trasformasse la mezzadria in affitto
perché era individuata dalla vecchia conferenza dell’agricoltura
italiana, pensate del 1961, la trasformazione della mezzadria in
affitto come la prima fase verso
la proprietà associata, ecc.
Cioè c’è il lungo percorso
della trasformazione dall’azienda in impresa, questo è il punto
e allora il mezzadro, che non
era imprenditore, e il proprietario il più delle volte assente
dalla direzione, è cambiata oggi
in un’impresa agricola, oggi si
parla di un’impresa agricola al
di là del contratto liberamente
fatto, perché è caduta anche la
proroga legale dei contratti, che
era sì questo un provvedimento
sociale, la proroga legale dei
contratti per mantenere e drenare l’occupazione e l’esodo dalle
campagne.
Quindi nel celebrare questo
trentennio penso che è questo il
momento di una riflessione più
vera, più insinuante, diciamo
così, per capire questo grande
processo di trasformazione delle
nostre terre, naturalmente alla
mezzadria si aggiungono anche
i livelli, si aggiungono anche
le varie forme di patti agrari
appoderati che in ogni regione,
dal Lazio alla Sicilia, cambiano
rispetto alla mezzadria classica,
che a questo punto non considero più toscana, ma umbro
pugliese e veneta.
Secondo intervento di Adriano
Ciaffi in sede di replica.
Cercherò di essere breve nel
formulare alcune osservazioni
che mi sono venute in mente
ascoltando le ottime relazione
dei colleghi. Sì, la divisione si
era verificata nel periodo delle
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vertenze sindacali che ho precedentemente distinto rispetto al
periodo delle riforme.
Quindi stiamo prescindendo
dalle prime battaglie sindacali della fine dell’ottocento, ho
accennato in quel clima alla questione della ripartizione dei prodotti, che interessavano anche
piccoli valori, le verdure, il cortile e così via.
Il lodo De Gasperi significò
l’intervento sui contratti agrari
attuato nell’immediato dopoguerra insieme alla riforma agraria, che riguardava la divisione
del latifondo ed i primi accenni
ala di bonifica. Quindi la attribuzione del 53% del prodotto
al mezzadro fu introdotta dal
Lodo De Gasperi e su questo
riconoscimento del 3% in più
si sviluppò il primo contenzioso
agrario, con processi esecutivi da una parte e dall’altra e
anche con momenti di cripto,
di nascondimento, diciamo così,
della produzione, come si calcolava, come non si calcolava, se
era al netto delle semine, delle
scorte di semina che dovevano essere garantite per l’anno
successivo. Successivamente si
passò al 58% attorno alla fine
degli anni cinquanta, attraverso
altri provvedimenti che, all’inizio degli anni sessanta, settanta,
arrivarono a conferire al mezzadro la quota del 63 %.
C’era in sostanza questa tendenza al riequilibrio del contributo del lavoro che sul piano
delle prime statistiche agrarie
aveva una remunerazione inferiore rispetto alla remunerazione che il lavoratore dipendente
aveva in altri settori. Anche allora c’erano le statistiche, c’erano i calcoli del reddito agrario,
della distribuzione del reddito agrario complessivo, certo
andava in crisi la comunione
tacita familiare, che aveva una
legislazione ormai secolare ed
entrava in vigore la parità fra
le unità lavorative, il diritto del
giovane ad andare a studiare,
perché prima non poteva andare
a studiare se sottraeva una unità
necessaria a quella comunione
tacita familiare che nell’insieme
doveva garantire la coltivazione
secondo la diligenza a media,
Le Cento Città, n. 48
diciamo così, del corrente.
Quindi andava in crisi anche
la distinzione tra la capacità
lavorativa della donna e dell’uomo, che concorrevano con lo
0,60% la donna e l’1% l’uomo
a creare quel minimo di unità
popolare.
Arrivo quindi alla seconda
domanda, perché tanta conflittualità. Fin dalle origini c’era e
c’è stata fino all’entrata in vigore
della legge, perché la pronuncia
del superamento del contratto
di mezzadria del ‘64-’65, lasciava in vita i contratti dichiarati
nulli e superati, tanto che se ne
facevano anche altri nelle Marche, nella provincia di Macerata
arrivavano anche al 25% quelli
che si facevano senza la tutela
della legge e quindi i casi di
disdetta da parte del proprietario fioccavano con motivazioni,
le più diverse, passando attraverso la casistica del proprietario che andava a coltivarlo,
del figlio che voleva andare ad
insediarsi e di questa conflittualità sulla distribuzione, fino ad
arrivare alle norme di legge sui
contratti agrari, quindi relativi
un po’, siamo già nella legge
degli affitti, quindi il 1971 in cui
si comincia ad introdurre il concetto che con l’assistenza delle
organizzazioni sindacali si fanno
i contratti in deroga.
Ora, la legge del 1982 prevede
appunto, dopo la legge del ‘71
sull’affitto, il perfezionamento
di questa possibilità, una volta
abolita la proroga legale dei
contratti per non poter mandar
via il contadino salvo che non
dovesse andarci direttamente,
a risolvere di comune accordo, con l’assistenza, specie per
la parte più debole che era il
mezzadro, dei sindacati. Oggi
la trasformazione è diventata
tale, dicevo nell’ultimo convegno, che la stessa organizzazione
sindacale che prima si chiamava
Federmezzadri, si chiamavano
così tutti i titolari alla difesa del
mezzadro, oggi sono organizzazioni che con due timbri assistono sia il concedente, sia l’affittuario, due timbri, due realtà
diverse, ma la stessa organizzazione proprio a garanzia che
ci sia questa tutela obbligatoria
Padrò e Contadì
che la legge impone.
Concludo dicendo, non
abbiamo toccato a proposito
della posizione subalterna ai
contadini, attenti bene che questo processo di trasformazione
che va al di là del superamento
della mezzadria, si concretizza
anche nell’urbanizzazione delle
campagne, cioè fino agli anni
del dopoguerra, la casa colonica
si riscaldava con il fiato della
stalla che stava sotto, oggi sotto
c’è il locale per le cene, per
gli invitati, la tavernetta, non
la cantina, la cantina e la stalla
erano tradizionalmente dentro
grotta, luoghi più umidi e così
via, ma la sostanza è che si
riscaldavano con la stalla perché i pavimenti erano mattoni lunghi che da trave a trave
poggiavano e creavano diciamo
il cosiddetto biancito, bastava
sollevare un mattone sopra la
stalla e veniva l’aria calda. A
questo poi si è sostituita la casa
nuova con il cemento, questo
lo dico perché se voi andate in
tanti ristoranti di agriturismo
in genere queste belle stanze
con i travi di legno di quercia
ben fatti, ecc., corrispondono
alla vecchia stalla, ancora con le
finestrelle limitate, tanto quanto
servisse per far respirare con le
finestre di cemento, allora erano
fatte di cemento con l’anima di
ferro, l’aria perché il respiro, il
ruminaggio delle bestie creava
un calore e altre cose, creava
diciamo così aria calda che serviva a scaldare le famiglie.
Da questa fase l’acquedotto, l’elettrodotto, le linee telefoniche, la strada consorziale
e poi comunale sono le linee
del processo di urbanizzazione,
oggi con il valore della distanza
che cade rispetto ai computer,
rispetto appunto alle linee di
comunicazione via radio ecc.,
questa difficoltà della distanza,
del vivere in campagna è stata
rovesciata. Oggi si vive meglio
in campagna da parte di tutti,
perché si ha attraverso la televisione, la radio la comunicazione
in tempo reale che hanno tutti
quelli della città, ecco perché
15
l’integrazione città - campagna
che è storica, che è anche ideologica, pensate alla campagna
del mondo, la città, la rivoluzione cinese e così via, oggi in realtà lo spazio è rurale, dice l’Europa, e quindi il piccolo comune è
uguale alla campagna, solo che
il mercato non è più il mercato
delle erbe, struttura tipicamente
mezzadrile e contadina, io direi
più che mezzadrile contadina,
perché la parola contado rende
meglio in questo discorso che
adesso sto facendo il complesso
architettonico della città murata
con il contado, la pieve è qualcosa di diverso dalla parrocchia,
la pieve era la chiesa che stava
fuori porta e che era in fondo il
punto di incontro, di ritrovo per
tanti motivi della campagna.
In fine un accenno all’emigrazione, attenti bene, negli anni
‘70 in parallelo al processo di
trasformazione della mezzadria
in termini formali di legge, ma
anche in termini sostanziali, c’è
l’inversione di tendenza della
demografia nelle Marche, ricordo ero Presidente della Regione
nel ‘77 quando ci fu il primo
saldo attivo, quindi il segnale
della fine dell’emigrazione biblica degli anni ‘50.
Non parlo solo della fine ottocento e dei primi anni dieci
del novecento, l’epopea della
famosa valigia con lo spago che
vedeva i nostri mezzadri, contadini ad andare in Argentina,
nel Venezuela, negli Stati Uniti
e così via, ma anche dell’altra
degli anni del secondo dopoguerra.
Ad esempio i nostri emigranti
andarono a lavorare anche nelle
miniere belghe, la tragedia di
Marcinelle ci ricorda 60-65 marchigiani morti nel crollo della
miniera; nel ‘75 vi è un inizio di ritorno, di rientro e non
dimentichiamo un fenomeno
che è stato importante ai fini
dei giudizi a volte poco veritieri,
poco umani, diciamo così, sulla
subcultura contadina, vi era nel
mondo contadino una grande
cultura, era una cultura di analfabeti, cioè l’analfabetismo che
Le Cento Città, n. 48
in campagna aveva anche questi legami che costringevano la
mezzadria ad essere subalterna
e ad essere arretrata e da superare, ho detto il caso di quanto
valeva un giovane che allora
la scuola d’obbligo c’era sì e
no, non c’erano neanche tutti e
cinque gli anni delle elementari,
questa è tutta roba del dopoguerra, prima portare un ragazzo fuori dall’azienda significava
violazione contrattuale, specie
per chi aveva pochi figli.
Questa tradizione si è mantenuta anche nel periodo della
trasformazione; il concetto del
metalmezzadro ha creato un’economia di scala dentro la famiglia numerosa perché insieme
alle pensioni dei vecchi, le prime
pensione obbligatorie dei vecchi, c’era il salario del figlio che
aveva lasciato la campagna ed
era andato a lavorare in fabbrica
o a fare il commerciante o a
fare il dipendente dell’artigianato; artigianato di servizi, pensate alle carrozzerie e pensate
alle fabbriche, al servizio che ha
dato. Queste 100 mila persone
che nel giro di un decennio sono
passate all’attività di lavoro autonomo o dell’industria nascente
nelle Marche, tra l’altro non
è vero che è il fenomeno che
ha arricchito la fascia costiera,
il progresso di popolazione c’è
stato ma non ha evitato di creare
per esempio attorno al centro
fabrianese la più grossa zona
industriale delle Marche, cioè il
fenomeno Merloni, il fenomeno
Elica, il fenomeno industrie di
servizio a queste altre industrie
ormai europee, è stato molto
maggiore che non ecc. ecc. e
quando Ardigò, un sociologo,
negli anni ‘70-‘80, parla di capitalismo del sottoscala, si riferisce ad una forma di lavoro
autonomo che in tutta la zona
calzaturiera, quindi parlo anche
dell’entroterra, Montegiorgio,
Monte Urano, parlo di Montegranaro, Monte San Giusto, ecc.
paesi che non stanno sul mare
e, diciamo, neppure nella fascia
costiera, che è il risultato dell’emigrazione dalle campagne.
Convegno Padrò e Contadì
16
L’addio all’agricoltura e la trasformazione del paesaggio
di Mario Canti
Dalle cose che ha detto Ciaffi e anche dall’introduzione
di Maroni colgo un atteggiamento di fondo espressione di
una cultura prevalentemente di
carattere politico-sociologico. A
mio avviso in quegli anni c’erano anche altri attori, o meglio,
altre discipline, in campo, come
esperto di pianificazione del territorio in quegli anni ho incrociato più volte il lavoro degli
economisti, in particolare mi
ricordo che nelle Marche, negli
anni precedenti all’istituzione
della Regione, esisteva un istituto che si chiamava ISSEM (Istituto per lo Sviluppo Economico
delle Marche) che propose un
piano di sviluppo agricolo per
l’intera regione e arrivò addirittura a redigere dei piani zonali
operatici per l’agricoltura.
Ricordare quell’approccio che
vedeva al lavoro esperti di agricoltura, di economia e di territorio vuol porre in evidenza che
dietro a quei cambiamenti che
si cercava di proporre, e che si
sono poi parzialmente realizzati,
sia pure con esiti e attraverso
strade diverse da quelle proposte allora, c’era una esigenza
economica, oltre a quella sociale
e c’era l’aspirazione a realizzare una situazione insediativa ed
ambientale sostenibile.
Sono d’accordo con Adriano
nel riconoscere che la approvazione della legge di cui oggi
parliamo è stato un momento importante, che ha concluso
un’annosa battaglia condotta
dalle forze socialiste e cattoliche
per la emancipazione del mezzadro; per portarlo a vivere una
situazione diversa da quella del
‘padrò e contadì’.
Le cose erano già avvenute prima, diceva giustamente
Adriano, e nel seguito si sono
completate e verificate al di là
delle previsioni della legge e
qualche volta anche contro la
legge, ed in forme diverse da
quelle programmate, perché,
per fortuna, anche nel territorio
e nell’economia la fantasia, la
versatilità esistono e sono attori
importanti.
Vorrei sottolineare alcuni problemi che la scomparsa della
mezzadria ha messo in luce: il
primo di questi, al quale è stato
già accennato, pone in evidenza come rileggere la mezzadria
nella sua struttura insediativa e
nella sua organizzazione economica significa sottolineare quanto, sotto questi aspetti,vi fosse in
comune tra la stessa e la piccola
e media proprietà contadina,
l’esodo dalla campagna infatti riguarda il mezzadro come
il piccolo proprietario diretto
coltivatore; l’uno e l’altro colgono le occasioni offerte dalla
motorizzazione e dallo sviluppo
dell’industria manifatturiera sui
nostri territori; migliori condizioni di vita e libertà nell’agire
costituiscono richiami irresistibili per un gruppo sociale
che negli anni immediatamente
precedenti alla trasformazione
socio economica delle Marche
cercava di sfuggire alle dure
condizioni di vita del contadino
anche mediante l’emigrazione.
Una quota significativa della
popolazione delle Marche scelse allora di partire, di abbandonare la agricoltura ed, in termini
generali, l’insediamento rurale
per rivolgersi alle attività industriali e alle modalità di vite
proprie della città.
Bisogna riconoscere che la
spinta all’esodo fu sostanzialmente di carattere economico,
come dimostrano i forti flussi migratori rivolti anche verso
l’estero alla ricerca di lavoro
nell’agricoltura ma non solo in
questa.
Quando io sono venuto a
lavorare nelle Marche, sto parlando della metà degli anni sessanta, questa regione era, dopo
il Veneto, l’area del Paese con
il più alto tasso di emigrazione.
Non sto riferendomi solo
ai movimenti migratori interni, verso le aree costiere dove
Le Cento Città, n. 48
veniva affermandosi lo sviluppo
industriale o verso le aree cittadine di maggiore urbanizzazione, ma all’emigrazione rivolta verso altri paesi europei ed
anche verso altri continenti.
I nostri minatori che estraevano lo zolfo dalle miniere
dell’alto pesarese sono andati a
lavorare, e talvolta purtroppo a
morire, nelle miniere di carbone
del Belgio, così come i nostri
contadini, mezzadri o no, hanno
scelto l’emigrazione in Argentina, verso la quale si è verificato
un afflusso formidabile che ha
lasciato una eredità di comune
sentire tra questi emigrati e i
marchigiani residenti.
Qualche anno or sono siamo
riusciti a stabilire dei rapporti meravigliosi con le associazioni dei marchigiani residenti
in Argentina, che talora sono
ormai costituite dai figli degli
emigranti di allora. A riprova
che quella emigrazione era stata
‘subita’ per necessità economiche sta il fatto che questi marchigiani e i loro figli, che vivono
oggi a Rosario, a Santa Fè, ed in
molti altri paesi agricoli dell’Argentina furono felici per l’essere
stati cercati e riconosciuti dalla
loro Regione d’origine.
Loro erano andati via perché le
condizioni di vita non erano così
rosee come oggi possono apparire, le condizioni di lavoro erano
dure ed anche socialmente, forse,
si sentiva la oppressione della
famiglia mezzadrile, la costrizione dello stare in quel determinato ambiente per tutta la esistenza;
e così sono andati via.
Ancora più intensi furono i
movimenti migratori all’interno
dell’Italia, verso i centri urbani più attrattivi, e, all’interno
della regione, verso la costa ed
i fondovalle dove veniva affermandosi gradualmente la nuova
attività industriale manifatturiera, così in poche decenni la agricoltura marchigiana ha avuto
stabilizzato un numero di addetti di livello europeo, certo non
Padrò e Contadì
per la legge sulla mezzadria, ma
per lo sviluppo industriale, per
l’emigrazione, la motorizzazione
diffusa, e altri fattori di vario
genere.
Questa profonda trasformazione che ha interessato il
mondo rurale marchigiano presenta oggi dei risvolti critici, sia
sul piano sociale che su quello ambientale, mi riferisco al
mondo dell’agricoltura nel suo
complesso perché, a mio avviso, sotto il profilo insediativo e
sociale le condizioni della piccola proprietà diretto coltivatrice e quelle della mezzadria
non erano poi sostanzialmente
diverse: dimensioni ridotte dei
poderi, isolamento delle residenze, prevalenza delle culture
promiscue, erano fattori costitutivi dell’intero mondo agricolo
marchigiano, semmai le differenze erano segnate da fattori
geofisici e climatici.
Può apparire paradossale ma
l’isolamento del podere portava
a stabilire forti vincoli di solidarietà e di interdipendenza tra i
residenti nelle diverse comunità
agrarie: le famiglie mezzadrili
intervenivano di comune accordo nella manutenzione dei suoli
sotto il profilo idrogeologico (la
rete di canali e fossi che oggi
rimpiangiamo ad ogni alluvione piccola o grande), per la
raccolta e la prima lavorazione
dei prodotti, in genere per tutti
quegli interventi occasionali che
richiedevano forze lavoro superiori per numero ed intensità a
quelle normalmente disponibili
nell’ambito della famiglia, mezzadrile o coltivatrice che fosse.
La solidarietà sorta e sviluppata nell’ambiente rurale resta
uno dei patrimoni più preziosi che siano stati tramandati,
presenti a lungo nelle Marche,
come dimostrano le particolari modalità organizzative che
hanno caratterizzato il sorgere e
lo sviluppo della piccola impresa manifatturiera: familismo,
integrazione delle lavorazioni,
rapporti fiduciari tra membri
del distretto, questi sono stati i
fattori di successo che avevano
ed hanno origine dall’ambiente
contadino.
La scomparsa dell’azienda
agricola isolata e delle coltu-
17
L’ordine e il decoro della campagna marchigiana.
re promiscue dell’ordinamento
agrario mezzadrile, congiunta
alla realizzazioni di nuovi insediamenti residenziali e produttivi, ha peraltro trasformato in
modo significativo il paesaggio
stesso della regione.
Il mezzadro aveva dalla proprietà una concessione di terreno che ovviamente tentava di
sfruttare sotto ogni aspetto, per
cui, ad esempio, se c’era una
sponda troppo ripida per essere
dissodata e coltivata su di essa
si faceva crescere il bosco, dal
quale veniva ricavato il legname
per tutti i bisogni della casa e
dell’azienda, se c’era un fiume
o una zona palustre andava
bene lo stesso, perché da esse
si ricavavano le canne e i vimini
per tutte le manifatture familiari; di conseguenza non esisteva
un pezzo di terra che venisse
abbandonato, tutto era coltivato, con tante diverse tipologie di
Le Cento Città, n. 48
produzioni perché se bisognava
garantire un risultato economico al ‘padrò’, occorreva pure
sopperire ai fabbisogni alimentari della famiglia
È da questa organizzazione
produttiva che nasce il “bel giardino d’Europa”, questo ordinamento produttivo comune
a gran parte dell’Italia Centrale rispondeva ad una comune
motivazione storico-economica,
che poi esprimeva, ovviamente,
in forme diverse, il paesaggio, in
relazione della diversità: dei luoghi, dei caratteri orografici, del
climatici o anche di particolari
eventi storici.
Personalmente ritengo che
certuni caratteri del nostro paesaggio agrario, la sua amenità, il suo equilibrio, quel certo
carattere che definirei ‘eleganza’, derivino in larga misura da
fattori culturali propri dell’ambiente contadino: la consape-
I beni culturali
18
Le Cento Città, n. 46
Padrò e Contadì
volezza di appartenenza ad una
comunità, di partecipare ad una
tradizione ed ad un costume, di
possedere ed esercitare saperi
specifici ed indispensabili per la
vita dei potenti così come degli
umili.
Con la scomparsa di questo
contadino residente sul fondo,
che lo gestiva totalmente con gli
strumenti di una cultura materiale di antica tradizione , il “bel
giardino” è diventato un po’
noioso, non c’è più la varietà
degli elementi insediativi e colturali; il paesaggio non è più
così bello, movimentato e ricco
di occasioni e di osservazioni
soggetto come è alle variabili
esigenze del mercato che si presentano identiche a se stesse in
ogni parte del territorio.
Se, per fare un esempio, in
un determinato anno il mercato
richiede semi di girasole allora
tutti si mettono a piantare il
girasole, e di conseguenza le
colline marchigiane, che di per
se restano splendide, divengono
un poco noiose, sono tutte verdi
prima, gialle dopo e marroni
nella fase successiva, quel paesaggio vario ed articolato che
era il prodotto di una precisa
situazione storica non esiste più.
Per conseguenza quando si
sente parlare di tutela e conservazione del paesaggio credo sia
necessario fare un atto di onestà,
e riconoscere che esistono territori sui quali la storia ha creato,
anche sul piano naturalistico e
paesistico, delle situazioni eccezionali, irripetibili, allora su
queste, e solo su queste, bisogna
intervenire adottando criteri per
la conservazione dello statu quo,
il che in agricoltura significa fare
“colture di manutenzione” ma
non abbandonare il territorio.
Il che comporta per la proprietà una riduzione di proventi economici che, in qualche
modo ed in una qualche misura,
andrebbe risarcita, come avviene (dovrebbe avvenire?) il patrimonio edilizio storico.
Per illustrare questa situazione attinente alla conservazione
19
del paesaggio agrario mi riferisco spesso alla Adorazione dei
Magi di Gentile da Fabriano
conservata agli Uffizi di Firenze,
dove al centro è rappresentata
la scena sacra e nella parte alta
è dipinta la cavalcata dei Magi
che si dirigono a Gerusalemme, a fianco di questa cavalcata, nell’angolo alto a sinistra, è
dipinta una casa isolata, con il
suo recinto che la isola dal contesto, con l’orto, con i campi,
con i filari, con la vite maritata
e con sul davanti un porticato,
vale a dire che il pittore ha
rappresentato un tipico insediamento mezzadrile; stiamo
parlando di Gentile da Fabriano, quindi nella prima metà del
quattrocento quel tipo di insediamento era già codificato, poi
con l’espandersi della mezzadria
e della piccola proprietà contadina, sarebbe divenuto l’elemento fondante del paesaggio
umbro-marchigiano e, in parte,
toscano.
Due piccole considerazioni
aggiuntive; vorrei riprendere
l’accenno fatto al senso di solidarietà che pervadeva l’ambiente rurale e confermare che nella
prima fase dell’industrializzazione marchigiana viene trasferito
nel nuovo ambito operativo, in
termini di familismo ambientale,
di partecipazione della famiglia
all’impresa, di rapporti tra le
diverse imprese.
Ad esempio nelle aree del calzaturiero si è mantenuto a lungo
una organizzazione di fatto che
consentiva l’integrazione tra
piccole imprese specializzate: quella che faceva la tomaia,
quell’altra che produceva i tacchi o le suole, e così via; il tutto
connesso sul piano logistico da
una motocarrozzetta che correva da un capannone (o da un
sottoscala) all’altro.
Questa forma di integrazione
non richiedeva contratti formali
ma intese di fatto che venivano
rispettate da tutti, fondate come
erano dalla reciproca fiducia e
rispetto come era sempre avve-
Le Cento Città, n. 48
nuto nel mercato agricolo.
Tornando un momento al
discorso sul paesaggio vorrei
confermare che ritengo che
quel “bel paesaggio”, quello del
“giardino d’Europa” per intenderci, è irrimidiabilmente condannato a scomparire in quanto
prodotto da condizioni economiche e sociali ormai inesistenti;
quelle parti dello stesso che si
volessero conservare dovrebbero trovare un sostegno, economico e culturale, nell’intervento
pubblico, ma del vecchio modello dobbiamo recuperare alcuni
valori di fondo: la salvaguardia
e la sapiente gestione dei suoli,
il contenimento dell’espansione
edilizia, l’introduzione di criteri
compositivi nel nuovo assetto
rurale in analogia con quanto
dovrebbe avvenire in ambito
urbano.
Occorre introdurre anche
nella gestione dei territori agricoli obiettivi qualitativi che
modifichino gradualmente la
tendenza alla valutazione meramente economicistici e di breve
periodo che caratterizza i nostri
tempi, secondo la quale il valore
del costruito si misura in metri
cubi cosi come quello dell’agricoltura in quintali; ricordando
che l’Europa richiede attenzione e cura per ogni possibile
situazione paesaggistica, vedi
la Convenzione sul paesaggio
adottata nel 2000 a Firenze,
recepita dallo Stato italiano nel
2004, ma ancora non operante
in molte Regioni comprese le
Marche.
Ricordando anche che il vecchio piano paesistico adottato
dalla nostra regione nel 1984,
sulla base della legge nazionale
del 1975 (la legge Galasso) è di
fatto risultato inattuato perché
rinviava ai Comuni la applicazione delle sue norme e questi,
posti davanti alla alternativa di
far costruire o di rispettare i
valori del paesaggio, sia pure in
maniera generica, hanno privilegiato, ovviamente, il costruire.
Convegno Padrò e Contadì
20
Marche, il giardino fiorito
di Giorgio Mangani
Vorrei affrontare questo tema
dal punto di vista non necessariamente storico; è chiaro in una
prospettiva storica, ma più di
antropologia culturale, di antropologia geografica. L’Arcadia è
il sottotitolo di questo dibattito;
la mezzadria è stata sicuramente
anche un istituto che potremmo
definire antropologico, un istituto di relazione interculturale,
perché ha messo storicamente,
sociologicamente in relazione il
mondo dei proprietari terrieri
e il mondo dei contadini; poi
magari qualche famiglia proprietaria marchigiana abitava a
Roma, ma altre erano di più
piccole dimensioni e soffiavano di più sul collo del fattore
o direttamente del mezzadro;
ma insomma è stata comunque, indipendentemente dalla
prossimità, un istituto di relazione antropologica. L’Arcadia
mi sembra possa rappresentare
bene alcuni argomenti, alcuni
ingredienti di questa relazione,
che poi è chiaramente anche
una relazione servo-padrone,
ma è una relazione più complessa di quella diciamo tradizionalmente rappresentata da questo
concetto.
Intanto cos’è l’Arcadia. L’Arcadia è stata storicamente una
metafora all’origine della teorizzazione della vita urbana;
l’Arcadia è un altro luogo, più
o meno ideale, che viene teorizzato: una regione finta, un po’
teatrale, che viene teorizzata già
alla fine della classicità ed è centrale per la storia della cultura
romana. L’Arcadia produce per
esempio tutta la storia dell’eremitaggio, le forme di eremitaggio che nascono alla fine del
mondo antico. Questo tipo di
atteggiamento è tipicamente
antiurbano, cioè l’eremita, come
succede poi anche nell’Arcadia
della tarda classicità, rappresenta tutta una serie di valori totalmente antiurbani, è un asociale;
ma questi valori vengono rappresentati in un altro luogo per
dialogare con il mondo urbano,
perché sono talmente il contrario della vita urbana che è
evidente che dialogano, devono
dialogare con quella. L’Arcadia è anche qualche cosa di
più complesso ancora, perché
rappresenta un mito fondativo
della comunità urbana. È caratterizzata da l’innamoramento,
le belle storie dei rapporti d’amore, amore mancato, amore
fisico, amore idealizzato, tra le
ninfe, i pastori e i satiri e quindi
comprende evidentemente tutto
il segmento dell’amore carnale,
anche dello stupro, perché poi il
satiro lega Aminta, nel racconto
di Tasso, ad un albero perché la
vuole violentare, quindi questo
tipo di filone del rapporto fisico, del rapporto violento confrontato invece con il modello
dell’amore più sentimentale,
più familiare, più alla genesi del
rapporto familiare, della nascita della famiglia ai fini della
comunità urbana del pastore.
Questo comportamento è per
esempio centrale per il filone di
studi femminista della ‘Gender
History’ che ha cercato di spiegare come sia stata fondativa
per esempio della storia della
città romana. Roma nasce con
il famoso ratto delle Sabine; i
romani organizzano una rappresentazione teatrale per attirare
le Sabine e le rapiscono, e poi
c’è, e questo è l’atto fondativo
della romanità, del regno romano, insomma della serie dei re,
lo stupro, quindi dietro questa
Arcadia ci sono anche cose piuttosto oscure, dietro la civiltà si
cela un rimosso.
L’altro momento, la nascita
della Roma repubblicana, invece
è ben rappresentato dalla castità. La matrona Lucrezia viene
infastidita, diciamo qualcosa di
più, da Tarquinio il Superbo e
si uccide, un po’ come la nostra
santa Maria Goretti. Non è che
siamo andati tanto lontani; la
vita urbana è fondata su un processo che porta alla valorizzaLe Cento Città, n. 48
zione della castità femminile che
è evidentemente la celebrazione del matrimonio, paradigma
del nucleo fondativo della città,
della comunità urbana, della
comunità organizzata rispetto
all’amore occasionale e violento.
Anche nel mondo greco c’erano
storie di questo genere o fondative di questi due modelli,
c’erano le ‘Tesmoforie’, le feste
che rappresentavano il frumento, la vita agricola, la produzione del grano, legate alla vita
familiare, alla celebrazione dei
riti della famiglia, e le ‘Adonie’
che duravano una settimana, si
facevano dei coccioletti, delle
cocciole con dei fiori, i cosiddetti ‘Giardini di Adone’, che erano
dei minigiardini che duravano
tre giorni, nel corso dei quali
c’erano le feste e le cocciole poi,
i fiori piantati, non avendo radici, sfiorivano esattamente come
sotto metafora gli amori occasionali non infrastrutturati nella
relazione coniugale urbana.
Dietro la metafora di questo
altro luogo idealizzato si agitano modelli culturali, sensazioni,
ambizioni, pulsioni molto più
complesse di quello che possiamo immaginare. Allora questa
Arcadia ha anche qualche cosa
a che fare molto strettamente con le Marche, potrei dire,
ribaltando il concetto, che forse
le Marche hanno qualche cosa
a che fare con questa Arcadia,
perché in un certo senso hanno
contribuito in Italia, nella storia
della cultura italiana moderna,
a codificare proprio il modello dell’Arcadia come l’abbiamo
concepito non solo le Marche,
in questa regione questa cosa è
molto ben documentata e molto
insistita. Intanto ancora il teatro:
c’è una grande tradizione da
noi, i tanti teatri che non solo
dall’Ottocento, ma anche dal
Cinquecento vengono costruiti
in legno, fatti in casa. Venivano allestiti nelle nostre dimore
urbane, per trecento anni vi si
pratica il dramma pastorale, nel
Padrò e Contadì
quale la dimensione dell’Arcadia è quella classica, nella quale
i nobili, che recitano per altri
nobili di famiglia, si travestono
da pastori imitando in qualche
maniera il comportamento, il
modo di vestire, ovviamente letterario, dei loro mezzadri, dei
loro subalterni, di coloro che
consentono la sopravvivenza
fisica del loro modello di vita.
Nello stesso tempo le Marche,
l’ha detto Mario Canti molto
bene, sono rappresentate come
un grande giardino, le Marche
sono davvero il giardino d’Italia,
ma in una maniera talmente insistita nella documentazione che
abbiamo, che la cosa qualche
significato deve averlo avuto.
Tutti i viaggiatori raccontano
che è un grande giardino, pieno
di alberi da fiore, da frutto,
Michel de Montaigne, Ortensio
Lando, tutti quei viaggiatori di
cui ha scritto Nando Cecini che
anch’io ho pubblicato. Non è
probabilmente una sensazione
empirica, ma è qualche cosa
che loro sentono dire, essendo ospitati nelle famiglie nobili
marchigiane, poi c’è la Santa
Casa di Nazareth che si sposta
in volo, nella narrazione, e va,
con una piccola deviazione a
Tersatto (che era una specie di
città collegata a Recanati, come
dire un pieno di benzina, per
arrivare nel Laureto di Recanati). E Nazareth vuol dire ‘fiore’
in ebraico.
È chiaro che le Marche diventano un giardino fiorito sacro
a Maria di Nazareth, perché il
giardino è uno degli appellativi classici di Maria e quindi
tutto questo filone, i nobili marchigiani, persino gli studiosi di
astronomia (perché la casetta è
venuta tenuta dagli gli angeli)
scrivono poemi sulla Santa Casa
di Loreto; lo fa Giulio Aquaticci
di Treia che faceva l’astronomo
e il matematico, lo fa anche Vincenzo Nolfi di Fano, che aveva
anche tradotto il ‘De coelo’ di
Aristotele. Insomma c’è tutto
un fiorire di interessi, anche
seri, per questo rapporto selvagiardino, che nelle Marche è
strutturale.
Pesaro viene chiamata la ‘città
giardino’ e si riempie di ville
21
La grande suggestione della montagna marchigiana. Foto Canti.
come quelle famose del Colle
San Bartolo, nelle quali la corte,
che già si è trasferita da Urbino
a Pesaro nei primi decenni del
Cinquecento, in maniera protoarcadica, si riunisce. Non più le
sale del Palazzo Ducale raccontate da ‘Il cortigiano’, ma le ville
del San Bartolo, ‘il ben vive tra i
boschi’ dice il cortigiano Ludovico Agostini (sec. XVI), e c’è
un fiorire di rappresentazioni
fiorite anche nelle decorazioni
di quelle ville. Quindi la città
giardino, ‘Pesaro giardino’ dice
un verso di città del Seicento,
e ‘Ancona dal bel porto pellegrino’. Allora tutto questo ci fa
arrivare alla fine del Seicento.
La regione è stata già ben connotata nella storia della cultura
italiana come una regione dal
forte ruralismo, ma non solo dal
ruralismo che ha studiato Sergio Anselmi in tanti anni, fatto
di rendite agricole, di dimensione economica, il granaio di
Roma, ma di un ruralismo che è
diventato rappresentazione politica, estetica, artistica, teatrale,
musicale, sociale, e persino turistica, proto-turistica, quella dei
viaggiatori come Montaigne.
Allora quando si riuniscono a
Roma, nel XVII secolo, i fondatori della Accademia dell’Arcadia, che hanno un obiettivo di
tipo letterario, cioè il rinnovamento dello stile e della lingua,
l’obiettivo è diventato quasi un
modello gramsciano di controlLe Cento Città, n. 48
lo delle coscienze, di controllo
degli intellettuali italiani, non
solo intellettuali letterati, ma
degli scienziati, degli studiosi
che si riuniscono a Roma vestiti
da pastori, prendono dei nomi
arcadici, appunto pastorali.
Ancora una volta si crea un
altro posto, un altro luogo dove
viene sceneggiato un modello
che però, invece di essere il
modello dell’utopia della società
rovesciata, è il modello perfetto
della rappresentazione territoriale, sociale marchigiana dello
Stato pontificio. Nelle Marche
questa cosa è particolarmente
evidente, non si può accedere
all’Arcadia, quella finta, quella metaforica, senza avere lottizzato un pezzo di territorio,
tanto che racconta uno storico
dell’Arcadia, poi lo stesso G.M.
Crescimbeni, non è bastata l’Arcadia e si è dovuto noleggiare
un pezzo della Beozia. C’è una
specie di umorismo involontario
e si scopre, sotto questo aspetto,
che questi fondatori sono quasi
tutti marchigiani o comunque
una gran parte, e il papa che
favorisce questa istituzione è un
papa urbinate, papa Clemente
Albani, e il Custode, il primo e
per tutta la vita dell’Arcadia, è il
maceratese Giovanni Maria Crescimbeni, grande proprietario
agrario, anche se fa l’avvocato
concistoriale. E la seconda colonia fondata dopo Roma è quella
di Macerata, che si chiama Elvia,
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Padrò e Contadì
tre anni dopo; sono sei le colonie in tutto negli anni successivi
su un totale di trenta, quaranta, quindi se pensate che sono
Cagli, Urbino, Cupramontana
rispetto a Volterra e altri posti
di questo genere, voi capite che
il peso specifico delle Marche è
molto alto rispetto al dato generale. Poi confluisce nell’Arcadia
tutta l’Accademia reale della
regina Cristina di Svezia che era
stata nel frattempo fondata anni
prima e stava a Palazzo Riario
a Roma. La Regina Cristina di
Svezia aveva abdicato perché
era passata alla religione cattolica dopo essere stata monarca
di uno stato protestante, quindi
la cosa non poteva funzionare, e
viene ospitata a Roma dal papa;
però ha un rapporto stretto,
particolare, qualcuno dice che
sia l’amante, ma è gossip storico,
con il cardinale Decio Azzolino
di Fermo, potentissimo Segretario di Stato vaticano, e l’Accademia della Regina Cristina di
Svezia a Roma era praticamente
un po’ come l’Eni di Mattei a
Milano, costituita tutta da marchigiani: insomma, il classico
tira-tira, il trenino delle relazioni
amicali per cui io ho un posto e
suggerisco la cosa a un amico;
l’Arcadia offre alla regina anche
il ruolo di ‘Basilissa’, di presidente onorario dell’Accademia,
perché il presidente vero era
papa Albani, e il peso specifico
dei marchigiani aumenta anche
di più.
Si potrebbe dire dunque che
l’Arcadia, quella vera, quella
romana, presenta molte caratteristiche della cultura marchigiana storica e non sceneggia
soltanto un modello utopistico,
ma in qualche maniera descrive
una realtà anche sociale. Allora
dietro questa Arcadia ci sono
dei valori pan-ruralisti che poi
troveremo in tutta la nostra tra-
23
dizione culturale, per esempio
papa Albani è all’origine della
celebrazione della piccola proprietà terriera che sarà un cardine della cultura politica cattolica
moderna. Vedete bene che questo modello pan-ruralista combacia perfettamente sul piano
della politica economica pontificia, nel senso che da una parte
di celebra la ruralità, la idealità
di questa relazione culturalesociale-economica e poi dall’altra si agisce anche sul piano,
sulla leva economica, poi questo
modello passa al fascismo, arriva
fino alla cultura dello Strapaese di cui le Marche, penso a
Luigi Bartolini, sono una capitale, dove ancora una volta le
donne sono belle perché hanno
i fianchi larghi e gli occhi bovini,
è evidente che siamo più sul versante ‘Tesmoforie’ che sul versante dei ‘giardini di Adone’, su
una relazione familiare fondata
sulla fertilità, sulla ‘stabilitas’,
cioè la vita residente, la famiglia
(poi magari l’amante può anche
aiutare alla stabilitas) e tutto
questo rappresenta un modello
che per noi è rimasto vivo fino
ai nostri giorni e che ha contaminato diverse sottoculture.
Basta pensare a Paolo Volponi
e a tutta la sua celebrazione per
l’industria, per la tecnologia, e
dall’altra alla sua mitizzazione
del mondo rurale. Lui voleva
che la tecnologia aiutasse i contadini a non faticare tanto e a
non sudare, a non spaccarsi la
schiena, ma alla fine della fiera
la sua idea non era tanto diversa
dal modello di papa Albani; vi
striscia anche un atteggiamento
in fondo caritativamente antimoderno. Si potrebbe dire: le
Marche non è che sono arretrate; le Marche sono contrarie alla
modernizzazione, non è neanche una forma di reazionarietà,
è una forma di antimodernità
Le Cento Città, n. 48
che ci costringe sempre a vivere
in una condizione o di arretratezza o di post-modernità; non
riusciamo mai a centrare una
sana modernizzazione: o siamo
la regione della globalizzazione,
della internazionalizzazione più
vivace, delle aziende che dialogano con i cinesi, oppure siamo
contrari statutariamente ad ogni
forma di modernità.
Questo c’era già, e finisco
con questo, c’era già nella tradizione dell’Arcadia, perché era
un movimento fondatamente
antiborghese, cioè nonostante
si valorizzasse la proprietà, era
contrario ai processi di laicizzazione che erano anche in corso
in quella fine del Seicento, primi
del Settecento, tant’è vero che
un Arcade qualche decennio
dopo, scienziato galileiano come
Lorenzo Malagotti (1637-1712)
va a fare un viaggio in Inghilterra, partecipa agli esperimenti
della Royal Society dove il più
modesto era un granduca di
qualche cosa e torna scandalizzato dicendo: ma questi fanno
esperimenti con l’intenzione di
mettere in pratica queste scoperte, esperimenti che potevano
consentire la valorizzazione di
macchine o di protomacchine,
di brevetti, ecc. per i quali la
nobiltà anglosassone, come è
noto, non aveva la puzza sotto
il naso, mentre la nobiltà italiana vedeva come assolutamente
indecoroso praticare.
Ecco, su questa cosa, sulla
mitologia di questa ruralità,
del pan-ruralismo marchigiano
ci sono tante belle cose, per
esempio il nostro paesaggio, che
siamo tutti impegnati a conservare e valorizzare, ma dietro il
quale si agitano anche pulsioni
e repressioni come quelle che
tradizionalmente stavano sotto
il tappeto, sotto la polvere della
tradizione arcadica.
Alberto Pellegrino
24
Qui sopra e nelle pagine seguenti l’arte fotografica di Adriana Argalia.
Le Cento Città, n. 48
Portfolio
25
Il mondo fotografico di Adriana Argalia
di Alberto Pellegrino
Adriana Argalia è nata nel
1948 a Jesi, dove ha insegnato materie letterarie nella scuola
media superiore e dove vive e
lavora, coltivando da sempre una
grande passione per la fotografia, che ha praticato con dedizione e tenacia, con impegno
culturale e artistico, senza mai
trascurare la ricerca tecnica e
gli approfondimenti linguistici.
Per merito di questo costante
e “testardo” impegno artistico,
sempre esercitato come Mario
Giacomelli nella feconda provincia italiana, l’Argalia ha saputo
conquistato una sua precisa collocazione nel panorama italiano
della fotografia accanto ad altre
fotografe-donne come Letizia
Battaglia, Maria Mulas, Elisabetta Catalano, Emanuela Sforza.
Ha partecipato a mostre collettive e ha tenuto diverse personali a
Roma, Firenze, Bari, Siena, Pesaro, Fermo, Ancona, Spilimbergo,
Milano, Trieste, Messico, Parigi,
Stoccarda, Francoforte; le sue
immagini sono apparse in diverse pubblicazioni e sono entrate
in collezioni importanti come la
Biblioteca Nazionale di Francia
a Parigi, l’Ikonos Centre (museo
virtuale della fotografia ideato
dal Craf), il Fox Talbot Museum
in Inghilterra, l’Erich Lessing
Culture and Fine Arts Archives
di Vienna. La sua prima pubblicazione risale al 1998 ed è intitolata Jesi (Comune di Jesi/Banca
Nazionale del Lavoro), seguita
poi da Fluisce alla terra il cielo
(Banca Marche, 1999), Ritratti.
Orizzonti femminili (Federazione
Italiana Donne Arti Professioni Affari, 2005), una m@meil
dalla luna (Banca Marche, 2006),
Castelbellino (Comune di Castelbellino, 2009).
Una raffinata interprete della
realtà
L’Argalia si è affermata grazie
a uno stile personale e libero
da schemi, sorretto da un’ottima
tecnica fotografica che le ha consentito di raggiungere risultati
di grande spessore nel bianco e
nero, usato spesso in modo molto
intenso secondo la lezione di un
maestro come Mario Giacomelli.
Un’altra cifra della sua fotografia
è la raffinatezza compositiva che
diventa espressione di una carica
di un lirismo evidenziato dalla
scansione poetica delle varie
tonalità della scala cromatica che
vanno dal nero assoluto al bianco assoluto attraverso le varie
gradazioni dei grigi. Molto riservata e mai aggressiva, Argalia
ama muoversi con circospezione
dentro la realtà quotidiana per
osservate persone e cose, per fissare momenti di vita, per cogliere
riflessi di luce e frammenti di
architetture, per raccontare la
città segnata dalla luce solare o
immersa nelle ombre artificiali
della notte, per “catturare” lo
scorrere delle stagioni sopra le
variegate modulazioni della campagna marchigiana.
Argalia è riuscita negli anni a
mettere a punto una personale
“poetica del dettaglio”, che nasce
da uno speciale culto dei particolari, dalla capacità di cogliere i
segnali che arrivano dalle piccole cose: fiori che sbocciano
sulla terra o nei vasi, vecchie
carte abbandonate e stropicciate,
pareti di canne tesi come sipari
tra le quinte urbane, panni appesi tra i vicoli, gabbiani in volo o
immobili sulla riva del mare, un
universo femminile e maschile
che ingloba tutte le età e tutte
le condizioni sociali, che viene
rappresentato con un’intensità
psicologica e un’acutezza sociologica che non trascurano mai
l’aspetto umano e il risvolto poetico dell’esistenza, in una continua ricerca di libertà espressiva
e di esaltazione della fantasia.
Dietro questa visione apparentemente “minimalista”, si scopre
attraverso un secondo livello di
lettura una ricerca più profonda
che tende a dare una personale interpretazione di una realtà
fatta di ambienti naturali, contesti urbani, oggetti inanimati, presenze umane o animali, a volte
Le Cento Città, n. 48
rappresentati attraverso ingrandimenti lenticolari che tendono a
scavare nella profondità dei vari
soggetti. In questo modo Argalia
riesce a provocare un coinvolgimento sentimentale ed estetico
che va ben oltre una pur evidente
eleganza formale, a trasmettere
la consapevolezza di trovarsi di
fronte a opere che hanno un loro
individuale e preciso significato,
ma che nello stesso tempo collegate fra loro da un’evidente
unità stilistica e tematica, per
cui si possono individuare dei
precisi e ben strutturati percorsi
narrativi che formano un universo iconografico di grande respiro
lirico, all’interno del quale trova
una sua collocazione anche il
ritratto con una predilezione per
il mondo infantile e femminile,
riuscendo a cogliere l’esuberanza del gioco, la grazia di un
atteggiamento, la dolcezza di uno
sguardo, la fluida armonia di un
movimento.
Una fotografa e il lirismo degli
spazi urbani
Adriana Argalia è affascinata anche da un’idea di città
che ricorda le “città invisibili”
di Italo Calvino: “La città non
dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano,
scritto negli spigoli delle vie,
nelle griglie delle finestre, negli
scorrimano delle scale, nelle
antenne dei parafulmini, nelle
aste delle bandiere”. L’autrice
ama vedere la città attraverso
cortine di vetro, tendaggi sinuosi
e irreali, terrazze dove il sole
scivola sui panni stesi ad asciugare, vicoli e strade segnate dalla
luce o immerse nelle ombre della
notte, presenze umane quasi mai
dichiarate ma spesso ridotte a
misteriosi dettagli, foglie e rami
di giardini impenetrabili ridotti a ombre appena decifrabili,
squarci urbani metaforicamente riflessi nello specchio di una
pozzanghera. A questa visionaria rappresentazione della città
rientra anche un degrado urbano fatto di vecchie case, palazzi
Alberto Pellegrino
26
Le Cento Città, n. 48
Portfolio
abbandonati, armature rivestite
da cortine di plastica per nascondere un doloroso decadimento,
capannoni dismessi e lasciati lì
come segni inquietanti di una
civiltà del lavoro ormai agonizzante. Siamo di fronte a una sorta
di “lirismo degli spazi” che affonda le sue radici in un realismo
fiabesco che penetra con pudore nel quotidiano e lo avvolge
in un climax di mistero, dove
la fantasia si perde nel volo di
un gabbiano o nell’inseguire una
nuvola che corre libera nel cielo,
un lirismo che Italo Zannier così
definisce: “Il racconto di Argalia
percorre un suo itinerario privato, dettato spesso da fugaci effetti
di luce, da presenze misteriose,
inquietanti, irripetibili; ombre di
maschere naturali create dal Sole,
che emergono da un paesaggio
dove le architetture sono osservate come totem stagliati nel cielo o
appiattiti nella luce abbacinante
della strada”.
La fotografia teatrale è la sua
ultima “avventura” artistica
Nel 2005 l’Argalia ha incontrato nel 2005 il Teatro ed è stato un
amore a prima vista, una passione
che ha portato a un sodalizio artistico con la Fondazione PergolesiSpontini di Jesi per conto della
quale ha documentato fotograficamente tutti gli spettacoli di
prosa, opera lirica e danza classica che sono andati in scena nel
Teatro Pergolesi e nel Sistema di
teatri della Vallesina. Diverse di
queste fotografie sono servite per
realizzare i manifesti delle stagioni
di prosa dal 2006 al 2012 e per le
campagne di comunicazione promosse dalla Fondazione Pergolesi-Spontini, la quale alla fine del
2012 ha pubblicato, unitamente
alla Banca Popolare di Ancona,
un’ampia antologia delle immagini scattate dall’Argalia. Il volume
di grande formato, che raccoglie
numerose immagini in bianconero e a colori, s’intitola Trac! Lo
spettacolo cominci, facendo riferimento all’espressione Avoir le
trac usata nel gergo teatrale per
esprimere l’emozione paralizzante
che l’attore prova alcuni istanti
prima di entrare in scena.
Si tratta di un’opera che segna
a pieno diritto l’ingresso dell’Argalia del complesso e difficile
mondo della fotografia teatra-
27
le, finora praticata ad alto livello da pochissimi professionisti.
L’autrice ha sentito il bisogno
di fissare nelle immagini quella
straordinaria metafora della vita
che è il teatro, un mondo irreale
che si trasforma in realtà visiva
sulla scena. L’Argalia si propone
di trasferire nelle fotografie, che
sono di per sé materia inerte,
quelle emozioni, quelle sensazioni, quei giochi della fantasia che
si materializzano sul palcoscenico
e lo fa con un guizzo di colore,
un gioco di ombre, lo sfavillio di
un velo, la forza cinetica trasmessa da figure in movimento con
la consueta eleganza compositiva delle inquadrature, con l’uso
funzionale del “mosso” e dello
“sfocato”. Lo stesso contenitore teatrale diventa protagonista
attraverso la suggestione di una
scena o di una platea vuote, il
fremito dell’orchestra, la presenza sensibile degli spettatori in
un gioco di colori che vanno dal
rosso profondo al blu intenso
senza mai rinunciare a un’armonica padronanza dei cromatismi.
In quest’antologia troviamo
l’armonia della danza che spazia
dal balletto classico al flamenco;
la vivacità delle opere buffe di
Pergolesi, Cimarosa e Rossini;
il fascino di grandi rappresentazioni teatrali come Gli uccelli di
Federico Tiezzi, Anna Karenina
di Nekrosius o Giorni felici di
Bob Wilson; le magiche atmosfere del melodramma: il Macbeth
di Svoboda con le sue maschere
inquietanti e violente che emergono dal buio come fantasmi, il
supremo sacrificio di Madama
Butterfly avvolta nel gelo di un
candore lunare; le cupe ombre
della follia di Lucia di Lammermoor. Vi sono poi i ritratti in
bianco e nero che mettono in
risalto l’umanità e la psicologia di
attori, cantanti e danzatori, rappresentati con incisività e ironia
in una serie d’immagini di grande
eleganza compositiva nelle quali
sono fissati il significativo movimento di un corpo, l’espressione
di un volto, la liberazione di un
grido, la smorfia di un dolore,
formando quell’affascinante universo che Maurizio Buscarino,
indiscusso maestro della fotografia teatrale, ha chiamato il “popolo del teatro”.
Le Cento Città, n. 48
I particolari di Tre opere di Adriana
Argalia.
Luca Maria Cristini
28
Historia pontis a suinis, 2006, bronzo, bronzo ramato.
Le Cento Città, n. 48
Arte
29
La città di Ancona e il Museo Omero celebrano l’opera di Valeriano
Trubbiani con una grande antologica
di Luca Maria Cristini
La Mole Vanvitelliana ospita in questi mesi una grande
mostra antologica a cura di
Enrico Crispolti che la città
di Ancona e il Museo Tattile
Omero hanno voluto dedicare a Valeriano Trebbiani per
celebrarne la lunga vicenda creativa. Per completezza e organicità De rerum fabula supera le
pur imponenti mostre Oficina
Mundi, organizzata a Macerata
nel 1997 (con opere a Palazzo
Ricci, nella Chiesa di S. Paolo
e nel contesto urbano), Il Mare
Scolpito, tenutasi a Jesi nel 2004,
e Fabula Terribilis allestita a
Roma nel 2006.
Sviluppata in diverse grandi
sale dell’imponente ex Lazzaretto progettato dell’architetto
settecentesco Luigi Vanvitelli,
De rerum fabula è una “laica
rappresentazione” - così è stata
definita - sviluppata in venti
scene; un singolare spettacolo
teatrale in cui i ruoli si invertono. È infatti lo spettatore che,
invece di assistere allo spettacolo nella consueta statica
modalità del teatro, percorre e
attraversa le scene allestite dagli
architetti Massimo Di Matteo e
Mauro Tarsetti.
Così De rerum fabula documenta un buon mezzo secolo
di lavoro di Trubbiani, fra sculture, ambientazioni, disegni e
pirografie, dagli anni Sessanta
al primo decennio del Duemila,
secondo una rigorosa successione cronologica.
Come ogni opera teatrale che
si richiama alla classicità, la successione delle scene è introdotta
da un Prologo e conclusa da
un Epilogo, interamente costruiti su testi selezionati a cura di
Simone Dubrovic dagli scritti di
Trebbiani; altre analoghe citazioni accompagnano lo sviluppo
delle scene, caratterizzandole e
fornendo spunti allo spettatore
per la lettura delle opere.
Le venti scene documentano cicli di sculture riproposte
per l’occasione in installazione come: “Macchine belliche”,
1965-67; “Aruspici”, 1968-1974;
“T’amo pio bove”, 1976-1978;
“Putti, giochi di mare, giochi
di cielo”, 1980-1982; “Mare,
Corazzate, e Federico Fellini”,
1982-2001; “Città, Dimore,
Turris”, 1990-1992 e 19992004; “Elmi, caschi, scafandri,
borgognotte”, 1993-1998 e
2004. Altre scene propongono vere e proprie installazioni spazialmente reimmaginate
per questo nuovo allestimento, come in particolare: “Stato
d’assedio”, 1971-72; “Le morte
stagioni”, 1973;“Ractus, ractus:
stato d’assedio”, 1976-1979; “Il
silenzio del giorno”, 1979; “Turrita urbis pugnandi”,1981-1984;
“Colosseo”, 1994-1997. Infine
alcune altre scene documentano
cicli di disegni come quelli per
Ciriaco Pizzecolli o di pirografie come quelle celebri ispirate a
Leopardi.
Il titolo “De rerum fabula”
- caro all’autore come i molti
latinismi, più o meno filologici,
ricorrenti nelle sue intitolazioni
- appare quantomai azzeccato
in quanto, riassumendo i traguardi maggiori dell’immaginazione dell’artista marchigiano
lungo quasi mezzo secolo di
lavoro, sottolinea un aspetto che
è emerso con particolare chiarezza soprattutto negli ultimi
decenni. Ovvero un’affabulazione fiabesca, che sempre più
sembra avvolgere la sua dimensione narrativa.
L’opera di Trubbiani, secondo Enrico Crispolti - curatore
della mostra e del catalogo, e
critico che meglio di altri ne
conosce la vicenda creativa ha sviluppato sostanzialmente
un’affabulatoria dimensione
narrativa attraverso l’assemblaggio poetico e sempre rinnovato
di icone plastiche, effettuato con
rara sapienza di manipolazione
metallurgica, nella quale affluiscono, di volta in volta, con
Le Cento Città, n. 48
diverso richiamo, componenti
da molteplici matrici. Anzitutto
l’ancestrale patrimonio di cultura fabrile familiare, originalmente nel tempo elaborato a livello
quasi virtuosistico nella modulazione materica e nella combinazione cromatica dei metalli.
Proprio in un recente dialogo
con Marco Tonelli, che è riportato nel catalogo della mostra,
è lo stesso Trubbiani a spiegare
questo suo rapporto privilegiato
e quasi esclusivo con il metallo:
“Credo che ogni scultore abbia
un destino materico. Non saprei
mai lavorare il legno o il marmo,
ma solo i metalli e questo perché
ho ereditato la passione per i
metalli da mio padre, che era
un fabbro ferraio. Quindi ecco
il materiale come destino presente e futuro di ogni scultore, il
destino prefigurato e delineato
dal materiale. Ricordo una bellissima frase di Fellini quando
mi disse: mi piace molto il tuo
lavoro perché tu hai rispetto per
i materiali, non li stravolgi, non
li offendi, cerchi di migliorarli,
gli togli la pelle, l’epidermide, li
metti a nudo”.
L’artista nasce a Macerata nel
1937 e il padre è un “fabbro
ferraio di macchine agricole e
maniscalco”, proprio come il
nonno paterno: da essi riceve un
bagaglio pratico presto coniugato con eredità prossime di
antropologia agraria di questa
sua terra marchigiana e di un
domestico patrimonio di memorie classiche che derivano da
Helvia Recina - colonia romana
progenitrice della Villa Potenza dei suoi anni giovanili - e
dall’aulica Ancona, coniugata
com’è alle imprese oltramarine
dell’imperatore Traiano e alle
peregrinazioni di Ciriaco Pizzecolli. Dopo gli studi all’istituto
d’arte maceratese, Trubbiani
ha frequentato l’Accademia di
belle arti a Roma e, dal 1968
vive e opera ad Ancona. Nonostante riconosca un importante
Luca Maria Cristini
30
Le morte stagioni, part. 03.
Turrita urbis pugnandi, part. 01. A destra Colosseo part. 01.
Le Cento Città, n. 48
Arte
ruolo agli anni che egli stesso
ha definito del “dirozzamento
romano”, anni di frequentazione di importanti gallerie come la
Tartaruga, l’Attico, La Salita e di
relazioni con artisti quali Ceroli,
Pascali, Marotta, Festa, Angeli,
Schifano, è dal serrato dialogo
con la terra marchigiana e con
la propria città d’elezione che la
sua arte trova primario spunto.
E la mostra, con un tavolo interattivo posto in chiusura della
“laica rappresentazione”, suggerisce un ideale percorso complementare alla grande antologica
attraverso i luoghi di Trubbiani
nel capoluogo marchigiano. Il
visitatore è invitato a percorrere
un itinerario esterno alla Mole,
fra il gruppo scultoreo Mater
amabilis, in Piazza Pertini, il
Sipario tagliafuoco nel Teatro
delle Muse, il rilievo e la cultura
nella Facoltà d’Ingegneria, la
Croce del Millenario nella Cattedrale di San Ciriaco, e i componenti plastici realizzati per il
presbiterio della Chiesa dei santi
Cosma e Damiano.
In tutto la grande antologica “De rerum fabula” propone circa 160 opere fra sculture
riunite in installazioni o componenti di ambientazioni, pirografie su legno e disegni, fruibili
da visitatori vedenti e non. Le
opere, infatti, possono essere
anche toccate, così come tutte
quelle ospitate nella ricca collezione permanente del contiguo
Museo Tattile Statale Omero.
L’osservazione tattile è infatti il
principale canale di conoscenza
del museo, fondato nel 1993
ad Ancona per volontà dell’Unione Italiana Ciechi, grazie al
31
Barbuto scafandro ocaiolo, 1993-94, rame bronzo ramato.
Comune di Ancona e grazie a
un finanziamento della Regione
Marche. Istituito con l’intenzione di colmare un vuoto nel
panorama dei servizi culturali
per disabili visivi, ma anche per
permettere a tutti un’esperienza
innovativa attraverso suggestioni plurisensoriali extra-visive si
è di recente trasferito nella sua
Le Cento Città, n. 48
nuova sede proprio all’interno
della Mole.
La grande antologica su Trubbiani si inserisce nella scia di
altre importanti iniziative dedicate negli anni scorsi dal Museo
Omero a Francesco Messina, Giacomo Manzù, Loreno
Sguanci e Walter Valentini.
Scienza e letteratura
32
Uno scienziato allo specchio
Renzo Tomatis e il laboratorio Bovino
di Alfredo Luzi
Nota metodologica
L’analisi del rapporto vitaopera e il concetto di Erlebnis
(esperienza vissuta) attraversano
tutta l’ermeneutica letteraria che
da Dilthey giunge fino ad Heidegger, e propongono una metodologia a cui si può riconoscere
una qualche valenza euristica.
Nel saggio Das Erlebnis und
die Dichtung (Lessing – Goethe –
Novalis – Hölderlin), (Esperienza
vissuta e poesia) pubblicato nel
1922, il filosofo berlinese esplicita la dinamica tra biografia e produzione artistica, evidenziandone, da una parte, le connessioni:
“L’opera d’arte non ha l’intenzione di essere espressione o rappresentazione della vita. Essa isola il
suo oggetto dal nesso reale della
vita e gli dà una totalità in se stessa. […] Essa eleva il sentimento
della sua esistenza. […] L’opera
d’arte infatti gli schiude la vista di
un mondo più alto e più ricco di
energia. E mentre gli fa rivivere
quel mondo, mette in attività e
impegna tutto l’essere del poeta,
provocando un’adeguata vicenda
di sensazioni psichiche che vanno
dalla gioia dell’armonia, del ritmo
e della perspicuità intuitiva fino
alla comprensione più profonda
dei fatti ch’egli rappresenta nei
loro rapporti con tutta la vastità
della vita” (Dilthey 1999: 198);
e dall’altra, il conseguente processo d’interiorizzazione psicologica:
“Così, nel substrato della creazione poetica sono contenuti
un’interiore esperienza personale, la comprensione di situazioni
altrui, l’allargamento e l’approfondimento di esperienze intellettuali. La creazione poetica muove
sempre dall’esperienza della vita
quale intima esperienza personale
o intelligenza di altri uomini, sia
presenti che passati, e degli avvenimenti cui essi ebbero parte. Ciascuna delle tante situazioni della
vita attraverso le quali passa il
poeta può essere psicologicamente
definita un’esperienza interiore:
Lorenzo Tomatis.
un rapporto più profondo con la
sua opera di poesia compete però
solo a quei momenti della sua esistenza che gli rivelano un aspetto
della vita” (Dilthey 1999: 199).
A distanza di mezzo secolo,
nel 1976, il geografo francese
Armand Frémont, d’altro canto,
recuperando un concetto filosofico già enucleato da Husserl,
quello di Lebenswelt (mondo
della vita), ha elaborato l’idea
di espace vécu (spazio vissuto).
Per Frémont gli uomini non
vivono nello spazio così com’è
ma nello spazio che essi stessi
si autorappresentano e che percepiscono sul piano psicologico. Egli distingue tra spazio di
vita (lo spazio euclideo anche
estremamente vasto, attraversato
materialmente nel corso di un’esistenza, toccato, calpestato, percorso effettivamente nella quotidianità) e spazio sociale (quello
più ristretto, che viene elaborato
interiormente perché predisposto a farsi assimilare: lo spazio
vissuto, capace di fondersi con
lo spazio interiore, di coincidere
con la sfera dei valori di cui l’individuo è portatore). Egli, sulla
base anche delle ricerche degli
psicologi Abraham André Moles
ed Elisabeth Rohmer, valorizza
cioè la percezione, in rapporto ai
valori psicologici ad esso attribuiti, del territorio in cui un gruppo
Le Cento Città, n. 48
umano si muove ed intrattiene relazioni sociali. In questo
spazio l’io scrivente instaura il
suo contatto con l’alterità, individuale o collettiva, stabilendo
una dialettica interna tra folla
e città che proietta la visibilità della sua dimensione umana
esterna nel luogo interno psichico, in un continuo gioco tra
reale e immaginario. Frémont,
sottolinea i rapporti di scala nella
padronanza spaziale degli individui e dei gruppi, tanto da parlare
di “gusci dell’uomo”, involucri
che corrispondono all’ampiezza
dello spazio esperito e che si rivelano flessibili in relazione all’età,
all’evoluzione lavorativa e sociale
degli individui (Frémont 1978:
29-39).
È significativo il fatto che il
geografo francese, nell’elencare
i quattro fattori che costituiscono la percezione dello spazio da
parte del soggetto (età, sesso,
classe sociale, cultura), illustri la
sua tesi attraverso un’originale
analisi del romanzo di Flaubert,
Madame Bovary, che egli considera una vera e propria rappresentazione della geografia del
nostro mondo.
Questa prospettiva è tanto più
valida se proiettata sulla produzione di Renzo Tomatis, caratterizzata da una linea binaria di
interessi, la ricerca di laboratorio
sulla cancerogenesi sperimentale
e la scrittura letteraria, accentrata
sul canone del diario. Questi due
campi della conoscenza si incrociano costantemente nella vita
dello scienziato-scrittore nato
nelle Marche nel 1929, avendo
egli la capacità, come ha scritto
Claudio Magris nella introduzione al romanzo postumo L’ombra
del dubbio, pubblicato da Sironi
nel marzo 2008, a sei mesi dalla
scomparsa dell’autore avvenuta
a Lione il 21 settembre 2007, “di
trasformare l’esperienza scientifica, l’ethos della ricerca o la sua
violazione, in struttura narrativa,
in racconto della vita, delle sue
Scienza e letteratura
passioni, dei suoi compromessi,
dei suoi tradimenti”.
Il combinato disposto delle
proposte metodologiche di Dilthey e di Frémont sollecita dunque una ulteriore riflessione sul
carattere anfibologico del concetto di “autobiografia”. Se sulla
scorta del pensiero di Léjeune
sulla dinamica del patto autobiografico l’accento è stato posto
sulla “scrittura della propria vita”
forse potremmo individuare suggestioni efficaci sul piano euristico, in particolare nell’ambito
della diaristica di scienziati, se
privilegiassimo un ordine inverso degli elementi etimologici
interpretando l’”autobiografia”
come un modo di “vivere la
propria scrittura”, una esperienza vissuta appunto nell’ambito
del proprio spazio individuale
e sociale che porta luce nella
dimensione entropica dell’esistenza così come l’esperimento
scientifico ha il fine di espandere
le conoscenze. Scrivere, seppur
attraverso la finzione narrativa,
e condurre ricerche di laboratorio hanno in comune l’“esperire”,
cioè una costante attitudine gnoseologica che dà senso alla quotidianità. Ed è forse la dimensione
pragmatica della ricerca scientifica a spingere tanti scienziati
a registrare nello spazio ristretto delle pagine di diario eventi,
incontri, personaggi, successi e
insuccessi sperimentali, sensazioni, riflessioni esistenziali, che
determinano un reticolato autorappresentativo del proprio io, il
cui valore veritativo, soprattutto,
come nel caso di Tomatis, in cui
questo emerge da un substrato
fittizio, è all’incrocio tra proiezione soggettiva del “mirage” e
riflessione oggettiva del “miroir”.
Attraverso le strategie narrative
del racconto in prima persona,
che annulla la percezione nel lettore della distanza tra io storico e
io narrante, delle effemeridi che
ritmano la diacronia biografica e
testuale, degli indicatori spaziali
e temporali che creano l’epoché
entro cui si sviluppa l’insieme
narrativo, agisce il meccanismo
della identificazione empatica tramite la lettura. Di questo
processo di autoriconoscimento
1
33
mascherato è ben consapevole
Renzo Tomatis che, nella nota
apposta in conclusione del Laboratorio, scrive:
Questo libro è frutto dell’elaborazione di mie personali esperienze e, nella sostanza, situazioni e
persone sono vere, per quel tanto
di verità almeno che io sono riuscito a scorgervi.
Ma naturalmente mi sono preso
parecchie libertà, e non solo ho
usato quasi sempre nomi immaginari, ma ho anche messo una
certa cura nell’alterare i rapporti
tra persone e situazioni in modo
da scoraggiare ogni tentativo di
identificazione.
Che ciò nonostante qualcuno
possa fare degli accostamenti tra
quanto è raccontato in queste
pagine e sue proprie esperienze
personali, può anche essere inevitabile.1
Ritengo che l’effetto di coinvolgimento del lettore e di percezione di realtà, pur nell’occultamento strategico dei dati evenemenziali da parte dell’autore,
presente nel canone del diario
letterario, abbia spinto Tomatis
ad optare per questa forma di
narrazione, più o meno romanzata, in tutta la sua produzione letteraria, la cui invariabile tematica
resta il rapporto tra ricerca scientifica e società contemporanea.
Il laboratorio, pubblicato in
prima edizione da Einaudi nel
1965, La ricerca illimitata (Feltrinelli 1974), Visto dall’interno
(Garzanti 1976), Storia naturale
del ricercatore (Garzanti 1992),
La rielezione (Sellerio 1996), Il
fuoruscito (Sironi 2005), L’ombra
del dubbio (Sironi 2008), sono
opere tutte centrate sulle implicazioni tra supposta neutralità
della ricerca e interessi economici, tra scienza e medicina, tra
responsabilità sociali ed etica
individuale, la cui ontogenesi
rinvia alla biografia professionale
dell’autore, studioso e medico di
fama internazionale, noto soprattutto per aver dedicato 26 anni
della sua vita alla direzione prima
della Unità di Cancerogenesi e
poi dell’Agenzia Internazionale
di Ricerca sul Cancro (IARC) a
Lione.
E proprio un grande scien-
Renzo Tomatis, Il laboratorio, Sellerio, Palermo 1993, p.183
Le Cento Città, n. 48
ziato come Giulio Maccacaro
ha saputo individuare in alcune
righe della sua introduzione a
La ricerca illimitata il gioco di
riflessi, diffrazioni, configurazioni dell’immaginario, agnizioni,
sdoppiamenti e raddoppiamenti
del soggetto, in cui si imbatte il
lettore delle opere di Tomatis:
Tomatis è uno di quei timidi
che han sempre l’aria di voler
scomparire ma – assidui testimoni di in apparenti vicende
– coltivano l’arte di una vibratile
presenza appena defilandosi dietro uno schermo d’occasione o
di stile. E lui si faceva schermo
di uno specchio: così, chi allunga
lo sguardo si ritrova con la propria immagine e con molte altrui,
riflesse e rifratte in una luce un
po’ scialitica. Questo specchio
– dove appaiono molti altri volti
ma un solo profilo dell’autore –
è il diario che Tomatis tiene da
molto tempo e del quale concede
rare letture.
Breve nota biografica
Tomatis è nato a Sassoferrato
nelle Marche nel 1929 da padre
torinese e madre triestina.
Laureatosi in medicina all’università di Torino, nel 1959 si
trasferisce a Chicago dove rimane fino al 1967, dedicandosi alla
sperimentazione delle culture in
vitro e della cancerogenesi chimica.
Tornato in Europa, dal 1967 al
1993 lavora a Lione presso l’Agenzia Internazionale di Ricerca
sul Cancro ( IARC) da lui diretta
negli ultimi dodici anni.
Andato in pensione nel dicembre 1993, si stabilisce ad Aurisina,
cittadina a due passi da Trieste,
città d’origine della madre, ma
continua fino alla morte, avvenuta a Lione il 21 settembre 2007,
a dedicare la sua competenza e la
sua intelligenza ai problemi della
prevenzione ambientale e in particolare al rapporto tra salute e
società industrializzata.
Il laboratorio
L’occasione di scrittura del
Laboratorio (Einaudi 1965) ha
una marca fortemente autobiografica. Si tratta del diario, sotto-
Alfredo Luzi
posto successivamente a rielaborazione letteraria, tenuto durante
un anno (dal 15 ottobre 1962 al
15 ottobre 1963) nel laboratorio di Philippe Shubik presso la
Medical School di Chicago.
Tomatis vi era approdato fin
dal 1959, desideroso di ampliare le proprie opportunità di
ricerca entrando a far parte di
un gruppo che godeva di una
grande reputazione internazionale e consapevole della pigrizia
culturale e della povertà etica
dell’università italiana, in cui,
come egli scrive nel racconto La
grande tela, “si sapeva con notevole anticipo chi sarebbe stato il
candidato vincente per i posti che
si liberavano di anno in anno con
il contagocce e anche chi era stato
designato come seconda scelta nel
caso l’eletto rinunciasse, o che so,
morisse improvvisamente”2.
Una lettera dattiloscritta, datata 9 giugno 1964, di Italo Calvino, allora consulente editoriale
esterno della Einaudi, documenta il parere favorevole dello scrittore alla pubblicazione del Laboratorio nella collana “I coralli” e
nello stesso tempo rappresenta
una prima puntuale ed esaustiva
recensione al libro.
Caro Tomatis,
ricordo la sera passata insieme
a Chicago e con piacere ho letto il
tuo Diario di laboratorio.
La mia reazione è stata: Finalmente! Finalmente anche la ricerca scientifica ha qualcuno che scrive del proprio lavoro e dei propri
problemi, tutte cose di cui si sente
parlare continuamente mentre
nessuno ne scrive se non in termini generici, nessuno ne scrive in
questo modo minuto come fai tu,
mostrando gli uomini e le giornate e lo spirito con cui si fanno le
cose e le delusioni e i perché.
Viviamo in un’epoca in cui
tutto viene raccontato, analizzato,
seguito in ogni minimo cambiamento: tutto tranne il mondo del
laboratorio. Mi pare che il tuo
libro venga al momento giusto.
La struttura ideale del libro – la
sospensione tra le piccole miserie
della vita scientifica in Italia e le
miserie ingigantite e dorate della
34
vita scientifica in America – prende con forza.
Il diario è troppo ricco e minuzioso? No, io credo che deva [sic]
agire così, per accumulazione. E il
tuo talento è in questa attenzione
umana un po’ diffidente, che non
lascia mai la preda.
Dovrebbe essere un libro che la
gente legge. Ma in questo non si
può mai essere profeti. Certo, la
lettura “a chiave” farà rumore nel
mondo accademico: ed era ora.
Oltretutto è un bel libro sull’America: l’unico tipo di libro sull’America che può scrivere un europeo senza contar balle: partendo
da un’esperienza di lavoro, e poi
tutto il resto come contorno […].2
In effetti la dominante della
scrittura del Laboratorio, quella
che appunto in musica porta un
senso di sospensione, è l’idea
di dislocazione, in una continua
migrazione fisica e intellettuale tra Italia e Stati Uniti, senza
nessuna possibilità di un ubi
consistam. Il soggetto narrante
è costantemente dimidiato tra
la nostalgia intesa sul piano etimologico come sofferenza del
ritorno e volontà di permanenza, sempre tuttavia revocata in
dubbio. La cristallizzazione delle
immagini del passato e l’impossibilità di mettere a fuoco lo
sguardo sul futuro confliggono
e determinano una condizione
psicologica di estraneità, di sradicamento, di mancato equilibrio
tra spazio vitale e spazio sociale.
Proprio nell’imminente ricorrenza delle festività che rappresentano momenti di autoidentificazione collettiva la malinconia e
l’incertezza traboccano:
12 dicembre
Una di quelle giornate che si
disfano senza lasciar niente nelle
mani, ci si trova la sera stanchi e
irrequieti.
Ho traversato il centro per tornare a casa e la gran luminaria
natalizia non ha fatto che aumentare la mia inquietudine. Ora ho
solo una gran voglia di non esser
qui, ma a casa. Nella casa di un
tempo, con i rumori che conosco,
l’aria di festa, la bella aria del
2
Italo Calvino, I libri degli altri, Einaudi, Torino 1991, p.481
Renzo Tomatis, Il laboratorio, Sellerio, Palermo 1993, pp.46-47.
4 Ivi, p.57
3
Le Cento Città, n. 48
dicembre con la speranza di neve,
e fuori le strade nebbiose, piene
di incanto.
È come una reazione a catena:
la voglia di essere a casa e perché
mai sono qui; se avevo da venire
qui perché ci sono ancora, è davvero valido il motivo che mi ha
spinto a venire, e se era valido
tre anni fa lo è forse ancora, son
davvero convinto di fare delle cose
importanti?3
Tomatis dissemina nei frammenti diaristici sciami isotopici
della sua condizione di spaesato,
trapiantato, sradicato, straniero,
migrante. La nostalgia spesso
si manifesta con l’irrompere di
ricordi sensoriali legati agli odori
(“Per qualche attimo sulla soglia
di casa ho avuto nel naso odori
famigliari, di stufe, di lana strinata, di minestrone” p.71) magari in
funzione compensativa dell’aria
dell’istituto (“Un’aria che porta
con sé odori di muffa, di formalina, di polvere” p.145). Ma
quando la nostalgia lo prende
alla gola lo scrittore si rifugia nel
recupero del rapporto euforico
con la natura, il paesaggio:
Prima di andare a lavorare sono
andato a camminare in riva. Era
quasi tiepido, un po’ di foschia, il
lago era quieto. La luce, benché
il sole fosse già abbastanza alto,
pareva venire da qualche punto
basso oltre l’orizzonte, illuminava
intensamente l’acqua e un tratto
di cielo. In alto c’era un grigiore
contro cui la luce si smorzava.
Una sensazione visiva che suggeriva il silenzio.4
La condizione disforica tra io
e spazio collettivo viene compensata da uno spostamento patemico con il ricorso alla dimensione idillica sottolineata dalla
adozione di immagini con valenza archetipica e psicoanalitica,
come quella della neve:
Uscendo, ho trovato la neve, ne
era caduta più di dieci centimetri e
continuava a venir giù fine fine. A
causa del freddo intenso i fiocchi
luccicavano come diamanti. Doveva nevicare da parecchie ore. Ma
io, chiuso in laboratorio, non me
ne ero accorto, durante l’intero
pomeriggio non avevo guardato
Scienza e letteratura
una sola volta fuori dalla finestra.
Prima di tornare a casa ho fatto
un giro nel parco in riva al lago.
La neve era intatta, non c’erano
altre orme che le mie. Fatti pochi
passi i rumori della strada erano
spariti. Si sentiva il vento tra gli
alberi e in qualche pausa del vento
il picchiettio minuto della neve
ghiacciata contro i rami. Sulla riva
si erano formate alte dune di
ghiaccio, piccoli vortici di vento
alzavano la neve a mulinello sulle
loro cime.5
Oppure attraverso il ripetersi,
in spazi geograficamente diversi,
delle stesse condizioni climatiche, che favorisce l’emergere dei
ricordi e insieme il conflitto irrisolto tra ieri e oggi:
Un pigro lunedì, grigio e caldo.
Uno di quei giorni di luglio come
ne vengono anche da noi. Nemmeno l’aria condizionata e le finestre
sigillate impedivano di sentirlo.
Lavorare costa più fatica del solito,
bisogna scegliere lavoretti facili,
cui non applicarsi troppo. E lasciare che la giornata passi.
Ma come amavo queste giornate
quand’ero a casa. Non importava
se per esse trascuravo il lavoro o
lo studio. C’erano dei posti in riva
al fiume e in collina dove ogni
anno tornavo, e al tramonto passeggiavo per le strade e le piazze
della città, da solo o con gli amici
mentre le rondini riempivano il
cielo con le loro grida.6
Un brano descrittivo d’ambientazione torinese, tra le rondini gozzaniane e i luoghi di
Pavese.
Una scrittura, quella del Laboratorio, sempre sostenuta da una
motivazione analitico-riflessiva,
una sorta di critica del giudizio su se stesso e sugli altri che
si concretizza nella ricerca delle
motivazioni profonde che presiedono all’ethos individuale e
collettivo, in una sorta di rigorosa, ma non per questo impietosa,
ermeneutica morale. L’uso della
prima persona favorisce la dina-
35
mica relazionale tra l’io e gli altri
e dilata le capacità autoriflessive del soggetto che si mette in
discussione guardando dentro di
sé come in uno specchio e nello
stesso tempo cercando di far luce
nella psicologia dei personaggi
che incontra. Così nella pagina
si equilibrano, in un suggestivo
gioco tra fuori e dentro, la narrazione evenemenziale e realistica
e quella dell’introspezione psicologica. Il sentimento prevalente
è il pessimismo, generato da una
lucida analisi della condizione
della ricerca scientifica in Italia
e dai timori dell’insuccesso nella
sperimentazione di laboratorio.
Ne consegue che il ricercatore
non riesce mai a liberarsi da una
inquietudine che però è l’elemento dinamico della attitudine all’indagine scientifica. Il personaggio
Spencer, in un colloquio con l’io
narrante sulla possibilità di errore insita in una sperimentazione,
ammonisce: “Se vuoi basare la tua
felicità o la pace con te stesso sui
risultati del tuo lavoro né felicità
né pace troverai, mai”.7
Ma, forse in pari dosi, la speranza e la fiducia riescono ad
attutire la negatività del pessimismo che rischierebbe di spingere il soggetto verso l’inerzia
intellettuale e pragmatica.
Tomatis si interroga costantemente sul ruolo dello scienziato nella società contemporanea
e sulla efficacia delle ricerche
di laboratorio. Preso atto della
presenza dell’errore nell’edificio
della scienza esatta, come già
Max Planck aveva dichiarato
nel primo decennio del secolo
e come avrebbero confermato
le riflessioni di Heisenberg sul
principio di indeterminazione,
lo scrittore-scienziato si sente
inadeguato difronte al compito di collaborare con la propria
ricerca a liberare l’uomo dalla
sofferenza ma sa che, per avvicinare il mondo della scienza a
quello dell’umanità, davanti ad
5
Ivi, p.76
Ivi, p.160
7 Ivi, p.154
8 Ivi, p.160
9 Ivi, pp.112-113
10 Ivi, p.133
11 Ivi, p.149
6
Le Cento Città, n. 48
un insuccesso, si dovrebbe esser
capaci di acquistare una certa
dose di umiltà nel superare prove
del genere. Questa benedetta
umiltà che così spesso vorrei predicare agli altri e così raramente
trovo in me stesso. […] Il nostro
lavoro non può che essere un
impegno costante, condotto con
precisione e onestà come un’infinità di altri lavori.8
E critica, sul piano etico e
sociale, chi, invece di mettere
a disposizione della comunità scientifica i propri risultati
della ricerca, ne riduce la valenza
ermeneutica tenendoli nascosti,
come fa il personaggio Flowers:
Questo ardito comandante
rischia di scambiare per nemico
chiunque si avvicini alle sue posizioni, dimentico che altri come
lui potrebbero voler solo passargli
accanto e procedere oltre nel gran
deserto che attende. E di costoro alcuni certamente sono stati
fermati nel loro slancio, delusi
perché invece di un amico che
avrebbe potuto fornire importanti
notizie sull’ignoto che attende,
hanno trovato un inatteso nemico; di costoro alcuni costruiranno
lì accanto altri fortilizi buoni sia
all’offesa che alla difesa. E spenderanno il resto della loro esistenza
in combattimenti locali finendo
di preferire l’inutile lotta contro
un nemico noto all’altra contro
l’ignoto.9
Tomatis è contrario alla conflittualità che regola, soprattutto
negli Stati Uniti, i rapporti tra
gruppi di ricerca:
Ci sono regole del gioco nel
mondo della ricerca che in parte
non ho ancora capito, in parte
mi rifiuto di capire. Lo spirito
di corpo, quello che Stephen ha
messo in evidenza l’altro giorno, è
una di queste ultime.10
Ma riconosce che “non c’è cosa
più stimolante del percepire questa
spinta in profondità della ricerca”11,
attribuendo così al proprio lavoro
una ampia potenzialità euristica.
Alfredo Luzi
La contestualizzazione storica dell’esperienza autobiografica, sia quella del laboratorio sia
quella del diario, è garantita da
riferimenti ad eventi che hanno
segnato gli anni 60 in Italia e nel
mondo.
C’è traccia, nelle brevi sequenze narrative conformi alla essenzialità delle note diaristiche, della
crisi di Cuba dell’ottobre 1962,
del trattato Kruscev – Kennedy
sulla riduzione degli armamenti
nucleari del 1963, della morte
di papa Giovanni XXIII, della
morte di Tambroni e delle elezioni politiche in Italia.
Ma la dinamica cronotopica
del libro ha un duplice andamento che definirei “diasistematico”,
muovendosi alternativamente, a
livello macrostrutturale, tra Italia
e Stati Uniti, messi sempre a confronto sul piano della organizzazione sociale e di quella scientifica, e, a livello microstrutturale,
tra lo spazio chiuso del laboratorio e quello collettivo della vita
socializzata e del paesaggio.
L’ambiente accademico e
scientifico italiano, visto da lontano, e dunque in una prospettiva di minor coinvolgimento emotivo, appare dominato da una
totale anomia etica, “corroso e
corrotto” (sono lemmi utilizzati
dall’autore) dalle raccomandazioni, dal baronaggio dei professori universitari, dall’immobilismo scientifico, dalla routine
assunta come valore meritocratico. Un sistema sociale e culturale
in cui non si fa ricerca ma si è
attenti ai meccanismi consolidati
ed accettati dalla comunità che
permettano di fare carriera, alle
camarille, al pettegolezzo.
Mi ha scritto anche Git. oggi. Mi
dice: “in Italia nulla cambia, non ti
muovere da dove sei”. Me ne ero
già accorto la scorsa estate in Italia:
coloro che più caldamente mi consigliano di restare dove sono, son
quelli che mai si sono mossi o che
più tenacemente sono attaccatti al
cadreghino che occupano.12
36
Certo, negli Stati Uniti, i finanziamenti e le attrezzature disponibili per fare ricerca liberano lo
scienziato da quel senso di precarietà che impedisce a chi vuol
fare sperimentazione in Italia di
programmare il futuro. Ma ciò
non vieta a Tomatis di gettare il
suo sguardo critico sulle miserie
morali che tarlano anche l’efficiente sistema scientifico americano in cui “essenziale è vincere, i
mezzi per cui si arriva al successo
contano meno”13, e sulla settorialità delle competenze che limita
un prospettiva d’insieme delle
finalità di un progetto di ricerca, spesso caratterizzato da una
“desolante unilateralità di interessi che accomuna la maggioranza
dei ricercatori di qui”.14
Sul piano stilistico la condizione di sdoppiamento dell’io narrante che non ha prospettive di
carriera in Italia ma nello stesso
tempo ha dubbi sulla definitiva permanenza negli Stati Uniti
è evidenziata dal ricorrente uso
della metafora ossessiva del parlare, del raccontare, che fa da
tessuto connettivo alle sequenze che descrivono gli incontri
tra italiani. Si realizza così una
sorta di mise en abîme, costituita
da parole chiave come “racconto, narrare, chiacchiera, parlare,
conversare, scrivere una lettera,
scrivere un romanzo”, attraverso
la quale l’autore esorcizza, con
una procedura autoironica di
distanza, il potere comunicativo
del proprio atto di scrivere.
Nel Laboratorio, diario di una
ricerca scientifica, è però presente, inattesa per il lettore, anche
la letteratura. Il personaggio
English traduce Montale, gli studenti dell’ University of Chicago
leggono Robbe - Grillet, Beckett,
Ferlinghetti, si parla di Pasternak, si fa riferimento ad una visita a Mosca di Carlo Levi, autore
di un libro sulla Russia, Il futuro
ha un cuore antico, pubblicato
in Italia nel 1956, proprio nei
giorni in cui esce in traduzione
12
russa Cristo si è fermato a Eboli.
Giustamente Paolo Vineis, noto
studioso delle connessioni tra
ambiente ed elementi cancerogeni, ha scritto:
In una concezione a trecentosessanta gradi della cultura, Renzo
non faceva una distinzione netta
tra scienza e umanesimo: per lui si
trattava sempre di attività dell’uomo a servizio dell’uomo.15
A distanza di ventotto anni Il
laboratorio conosce una nuova
edizione presso Sellerio.
E Tomatis riavvia il suo colloquio con il lettore apponendovi una post-fazione dal titolo
Trent’anni dopo.
Egli osserva che, nonostante le sollecitazioni utopiche del
’68, nell’Italia degli anni novanta
nulla è cambiato nella dinamica
della ricerca scientifica. Anzi, il
sistema si è incancrenito e la
scienza è “sempre più centralizzata, sempre più al servizio di
interessi accentrati nelle mani di
chi tiene i cordoni della borsa. Gli
orientamenti della ricerca dipendono pesantemente dai canali di
finanziamento”16. Ma nonostante il “pessimismo della ragione”
che informa non solo le pagine
del Laboratorio ma anche quelle
delle successive opere letterarie
Tomatis intravvede uno spiraglio di nuova consapevolezza in
coloro che dovrebbero sempre
tener presente che la scienza,
pur nella sua supposta neutralità,
deve essere al servizio dell’uomo
per aiutarlo a capir eil mondo in
cui vive:
Rimane da vedere (scrive
Tomatis) fino a qual punto i ricercatori che sono attivi oggi e quelli
che si stanno formando per esserlo
in un prossimo domani, sapranno
contrastare una soffocante manipolazione della scienza da parte
di chi detiene le fila del potere
economico.17
Ivi, p.163
Ivi, p.47
14 Ivi, p.72
15 Paolo Vineis, Un uomo coerente, in Renzo Tomatis, L’ombra del dubbio, cit., pp.14-15
16 Renzo Tomatis, Il laboratorio, cit., p.196
17 Ivi, p.197
13
Le Cento Città, n. 48
Libri ed eventi
37
di Alberto Pellegrino
LIBRI
Il Romanico nelle Marche
La Banca delle Marche ha pubblicato nel dicembre 2012, come
strenna natalizia, un bellissimo
volume intitolato Il Romanico
nelle Marche a cura di Cristiano
Cerioni, un ricercatore che ha
collaborato con l’Università di
Firenze e che ha redatto anche
l’Atlante dell’edilizia medioevale
nel Montefeltro. Il testo è opera
del prof. Paolo Piva, docente
di storia dell’arte medioevale
presso lì Università di Milano
e autore di numerose opere sul
Medioevo. Il volume, che è corredato di un apparato fotografico di grande valore, si apre
con un saggio intitolato Architettura e integrazioni figurative.
Dalla tarda antichità ai secoli
del Romanico che presenta gli
obiettivi e i confini della ricerca
condotta sul territorio, la storiografia e lo stato degli studi, per
poi passare all’analisi dei centri paleocristiani marchigiani,
prendendo in esame cattedrali,
santuari e testimonianze figurative. Successivamente si passa a
esaminare l’architettura protoromanica e lo straordinario contributo fornito dall’architettura
farfense per arrivare al rinnovamento dell’XI, XII e XIII secolo
con la costruzione di cattedrali
e chiese urbane. Il saggio si
conclude con un’accurata analisi delle tecniche costruttive,
delle tipologie degli edifici religiosi e degli edifici annessi, della
scultura e della pittura romaniche. Si passa quindi a un esame
dettagliato e preciso dell’intera
civiltà romanica regionale attraverso una razionale suddivisione
del territorio ripartito per le
vallate nelle quali sono collocati
i vari monumenti: il Montefeltro
e la valle del Foglia, le Valli del
Metauro, del Cesano, dell’Esino; il percorso s’interrompe per
prendere in esame le chiese di
Ancona, per poi riprendere con
le Valli del Musone e del Potenza, del Chienti, del Tenna, per
concludersi infine con le Chiese
di Ascoli e Grottamare. Il volume si chiude con un’accurata
documentazione iconografica e
un aggiornamento storico critico a cura di cristiano Cerioni e
con un’ampia bibliografia.
Segni di gloria. Una storia del
nostro Risorgimento attraverso
la satira
E’ uscito nel dicembre 2012
un bellissimo volume intitolato
Segni di gloria. Storia d’Italia
nellastampasatiricadalRisorgimentoallaGrandeGuerra18481918 a cura di Fabio Santilli,
presidente del Centro Studi
Gabriele Galantara. Si tratta del
catalogo che ha accompagnato
l’omonima mostra che si tenuta
presso il Complesso del Vittoriano a Roma dal 13 dicembre
2012 al 2 febbraio 2013 sempre a cura del Centro Studi
di Montelupone e dell’Istituto
per la Storia del Risorgimento
Italiano. È stato possibile realizzare la mostra e la stampa
del volume grazie al contributo
del Ministero del Consiglio dei
Ministri. Dipartimento per la
Gioventù, del Ministero per i
Beni e le Attività Culturali, della
Regione Marche, della Provincia
Le Cento Città, n. 48
di Macerata e di numerose altre
istituzioni fra cui la Biblioteca
Nazionale Centrale di Roma,
le Università di Roma Tre e di
Macerata, la Fondazione Carima e Banca delle Marche. Il
volume di 400 pagine è caratterizzato da un’accurata analisi
storica della satira e da una
straordinaria documentazione
iconografica a cura di Fabio
Santilli ed è suddiviso in tre
parti: 1848-1871. Un’espressione geografica: aspirazioni e unificazione con l’introduzione di
Mario Belardinelli, docente di
Storia contemporanea dell’Università di Roma; 1871-1911.
Trasformazioni e trasformismi
nell’Italia liberale con l’introduzione di Fulvio Cammarano,
docente di Storia contemporanea dell’Università di Bologna;
1911-1918. Deflagrazioni: dal
sogno libico alla Grande Guerra con l’introduzione di Paola
Magnarelli, docente di storia
contemporanea dell’Università
di Macerata. Il volume si chiude con un saggio del sociologo
Alberto Pellegrino su La stampa
satirica e la formazione dell’opinione pubblica. Si prevede che
per la prossima estate la mostra
sarà trasferita preso il Comune
di Montelupone.
Lo spettacolo dal vivo nelle
Marche
Alberto Pellegrino
L’11 febbraio presso il ridotto
del Teatro delle Muse è stato
presentato il volume Lo spettacolo dal vivo nelle Marche (il
lavoro editoriale) edito dall’assessorato ai beni e alle Attività
Culturali della Regione Marche e dal Consorzio Marche
Spettacolo. Si tratta del primo
censimento di tutte le attività
riguardanti ogni tipo di spettacolo che hanno avuto luogo
nella regione nel triennio 20082010 attraverso un lungo lavoro
di ricerca coordinato da Renato
Pasqualetti e svolto dai borsisti
Giorgia Berardinelli e Stefano
Silvi.
Tutte le informazioni statistiche
sono state raccolte in un anno
e mezzo di lavoro per mezzo
di due schede-questionario
rispettivamente indirizzate ai
soggetti pubblici e ai soggetti
con natura giuridica privata.
In questo modo è stato possibile raccogliere tutte le informazioni riguardanti i soggetti
che operano nelle Marche, gli
eventi dello spettacolo dal vivo,
il numero dei lavorati addetti
al settore, il bilancio costi e
ricavi dei vari soggetti pubblici
e privati, il numero di spettatori
relativi ai vari comparti dello
spettacolo.
Sono state predisposte e pubblicate le schede tecniche dei
teatri marchigiani operanti
nelle cinque provincie con tutti
i dati riguardanti ogni singolo
teatro che sono finalmente a
disposizioni dei vari operatori
dello spettacolo; in appendice
sono anche elencati in ordine
cronologico tutti i teatri storici delle Marche. Nella prima
parte del volume si è voluto
ricordare con una serie di saggi
quanto sia profonda e diffusa
la tradizione teatrale nelle Marche: Spettacolo e società nelle
Marche tra Seicento e Ottocento
di Alberto Pellegrino; Rossini e
il Rossini Festival di Gianfranco Mariotti; Giovanni Battista
Pergolesi di Giovanni Tangucci; Una voce poco fa (i grandi cantanti lirici) di Gabriele
Cesaretti; La tradizione del teatro di prosa nelle marche: autori,
attori, esperienze di Pierfrancesco Giannangeli.
38
Un’Antigone marchigiana
Da qualche tempo il quotidiano
La Repubblica ha varato una collana di libri intitolata “Save the
story”, che è considerata “una
scialuppa che porta in salvo, nel
nostro millennio, qualcosa che
sta naufragando nel passato. Gli
oggetti che, come questo libro,
sono specie in via di estinzione”.
L’idea è stata non solo quella
di proporre dei volumi a basso
costo, rilegati, con un’elegante
veste tipografica e delle belle
illustrazioni, ma una riduzione
di una serie di capolavori della
letteratura e del teatro, opportunamente ridotti e “riscritti” con
un linguaggio agile e moderno,
in modo da richiamare l’attenzione anche di una generazione
di lettori più giovani. La riduzione di questi classici (da contenersi entro le cento pagine) è
stata affidata a importanti scrittori come Umberto Eco, Stefano Benni, Alessandro Baricco,
Andrea Camilleri. Il numero
nove della collana è stato affidato alla scrittrice e poetessa scozzese Ali Smith, cui è stato assegnato il compito di riproporre il
mito di Antigone, a suo tempo
definita la più grande tragedia
di tutti i tempi. La vicenda della
fanciulla che ha il coraggio di
violare la legge dello Stato (che
le proibisce si seppellire il corpo
del fratello) in nome di una più
alta legge morale è presentata
attraverso gli occhi di una cornacchia che osserva lo svolgersi
degli eventi dall’alto delle mura
di Tebe. La cosa che ci riguarda
da vicino è che le illustrazioni di
Le Cento Città, n. 48
questo libro sono state affidate a
Laura Paoletti, una giovanissima
artista maceratese laureata in
pittura che nel 2012 è stata selezionata a Bologna per la mostra
La Grammatica delle Figure e
che quest’anno realizza la sua
opera prima.
Un saggio sulla letteratura italiana al femminile
Carla Carotenuto, che insegna
letteratura italiana moderna e
contemporanea nell’Università
di Macerata, ha dato recentemente alle stampe il volume
Identità femminile e conflittualità nella relazione madre-figlia.
Sondaggi sulla letteratura italiana contemporanea: Durante,
Sanvitale e Sereni (Metauro Edizioni, Pesaro, 2012). L’autrice
studia alcuni aspetti fondamentali della letteratura al femminile
con particolare riferimento alla
relazione madre-figlia vista l’importanza che questo rapporto
continua ad avere nella narrativa contemporanea prodotta da
autrice con opera che sono in
grado di richiamare l’attenzione
e l’interesse del pubblico e della
critica. È opportuno sottolineare che nella seconda meta del
Novecento si è registrato un
graduale interesse nei confronti delle opere di scrittrici che
hanno fornito apporti originali
in grado di rinnovare il contesto
culturale del paese. Non solo si
è proceduto al recupero di scrittrici dimenticate dalla storia ma
che hanno avuto una notevole
importanza artistica e sociologica, ma vi è stata anche una maggiore attenzione nei confronti
della produzione letteraria contemporanea per cui si sono pubblicate molte opere di scrittrici,
le cui pagine sono entrare anche
nelle antologie scolastiche. Inoltre questi libri sono stati affiancati da saggi, articoli di critica,
interviste che hanno risvegliato
l’attenzione del pubblico. Oggi,
pertanto, il panorama della letteratura femminile si presenta
quanto mai vasto, comprendendo fiabe e favole, racconti e
romanzi, opere teatrali e raccolte di poesia, sceneggiature
cinematografiche e televisive.
La Carotenuto, partendo dal
Libri ed eventi
microcosmo familiare e dall’identità femminile, concentra la
sua ricerca sull’incontro critico
e spesso conflittuale tra madre
e figlia, che implica un confronto tra due femminilità con
implicazioni che provocano sofferenza, legami di amore-odio,
sensi di colpa e con esiti differenti (subordinazione, simbiosi,
identificazione, conflittualità,
armonia, nostalgia, rifiuto, ecc.).
L’autrice, per esaminare a fondo
questo aspetto così problematico della vita familiare, propone
un’analisi approfondita delle
opere di tre autrici contemporanee (Francesca Duranti, Francesca Sanvitale e Clara Sereni),
basandosi su alcuni criteri generali come l’individuazione dei
caratteri e della specificità della
scrittura femminile, dei legami e
dei rapporti tra ragione e sentimenti, l’attenzione ai contributi
della psicologia e della psicoanalisi con particolare riferimenti
alle opere di Freud e alle teorie
di post-freudiani.
“Pesaro damare MMXIII”
Il fotografo pesarese Luciano
Dolcini ha pensato di festeggiare i 45 anni di attività fotografica
realizzando una pubblicazione
Pesaro damare MMXIII che è
riduttivo definire un calendario,
perché intorno a questa iniziativa si è riunito un team di notevole valore, formato dalla storica dell’arte Anna Maria Benedetti Pieretti, dal pittore Franco Fiorucci, dal poeta Franco
Ampollini, dal grafico Daniele
Felicioni, tutti uniti dalla stessa
passione per la loro città natale e
per il mare su cui essa si affaccia.
Sui dodici fogli del calendario
si alternano le foto di Dolcini e
gli acquarelli di Fiorucci (tutti
accompagnati dai testi poetici
di Ampollini), due diversi lin-
39
guaggi iconografici che riescono
tuttavia a segnare l’avvicendarsi delle stagioni e soprattutto
a restituire tutto il fascino del
mare che rimane il tema conduttore dell’iniziativa. Abbiamo
trovato particolarmente suggestive almeno tre immagini: il
mese di aprile esprime una sua
forma di elementare lirismo con
i rami fioriti di mandorlo che
ricorda certe immagini giapponesi; completamente diverso il
mese di giugno con le file di
ombrelloni schierati come un
piccolo esercito un gioco cromatico contrassegnato da un rigoroso geometrismo; infine il mese
di agosto con la sua esplosione
cromatica di bianchi e di azzurri
vuole celebrare tutto il fascino
del mare nel trionfo luministico
dell’estate.
GLI EVENTI
La stagione lirica 2013 alle
Muse
Stagione lirica ridotta ma certamente valida quella proposta
nel Teatro delle Muse dal direttore artistico Alessio Vlad che
voluto mettere a confronto tre
composizioni tutte nate tra la
fine dell’Ottocento e il primo
Novecento. La prima è la cantata L’enfant prodigue (1884) di
Claude Debussy L’autore del
libretto Edouard Guinand si è
ispirato alla parabola evangelica
del Figliol Prodigo, collocando
la vicenda in un villaggio nei
pressi di Nazareth dal quale il
giovane Azael si è allontanato
senza dare più notizie al padre
(Siméon) e alla madre (Lia), la
quale invoca disperata l’aiuto
di Dio senza tuttavia perdere la
speranza di rivedere il figlio che
ritorna povero, lacero, affamato.
I genitori lo accolgono felici, lo
perdonano e invitano tutto il
villaggio a festeggiare la pecorella smarrita. Il francese Arnaud
Bernard, che ha curato regia,
scenografia e costumi, ha eliminato ogni riferimento religioso
e ha messo in scena una pièce
laica ambientata nel 1884 con
una forte impronta freudiana
(siamo nel periodo in cui Freud
inizia gli studi di psicanalisi).
Le Cento Città, n. 48
All’interno di una camera completamente nera, in un grande
letto matrimoniale dorme una
coppia borghese e tutto sembra
assumere da quel momento le
dimensioni del sogno, quando
questa giovane madre si sveglia
e, avvolta in una bianca camicia
da notte, vede materializzarsi
davanti a sé il figlio, che ha
amato in modo appassionato e
morboso; quindi lo abbraccia e
lo ascolta rievocare un “tempo
per sempre perduto”, un tempo
della gioia e della purezza, ma
anche il tempo di un impossibile ritorno. Invano trattenuta dalla madre, l’immagine si
dissolve e lascia la donna nella
disperazione per poi riapparire
come un ectoplasma sulla grande parete nera che diventa lo
schermo su cui si proiettano sia
le pulsioni materne, sia la voglia
di pentimento e di riscatto del
figlio. Quando però il padre si
appresta a festeggiare il ritorno
del giovane, tutto sparisce e alla
coppia non resta che ritornare
nel letto-rifugio dove cercare
conforto nel sonno e forse ancora nel sogno. Bernard ha condotto in porto con pieno successo questo progetto di spettacolarizzazione della cantata, grazie
anche alla puntuale direzione di
Carla Delfrate, cui si aggiunge
l’appassionata interpretazione
di Elisabetta Martorana bene
affiancata dal giovane tenore
Davide Giusti.
Con un originale accostamento al fianco della cantata viene
propostalaCavalleriarusticana
(1890) di Pietro Mascagni. Il
regista Arnaud Bernard, anche
in questo caso, abbandona la
strada maestra del Verismo per
seguire le vie tortuose della psicanalisi, mettendo in scena una
originale e del tutto inedita lettura dell’opera di Mascagni. Il
regista ha voluto sottolineare
il rapporto viscerale e sensuale
che lega la carnalità di un plurimo tradimento alla religiosità
della Pasqua-Resurrezione del
Cristo e, pur nel rispetto delle
unità di luogo, tempo e azione, ha tolto dalla vicenda ogni
riferimento alla sicilianità, ai
campi dalle spighe d’oro, al sole
che acceca e riscalda le menti,
Alberto Pellegrino
40
Madama Butterfly, stagione lirica Teatro delle Muse, Ancona, 2013.
Le Cento Città, n. 48
Libri ed eventi
per trasportare la vicenda in
un cupo ambiente claustrofobico, dove l’azione si svolge
alla luce delle candele, mentre
al centro della scena domina il
cero pasquale intorno al quale
ruota quasi tutta la vicenda.
Egli abbandona il mondo contadino di fine Ottocento per
collocare la storia nei primi
anni Sessanta più liberi, anche
se ancora legati alle tradizioni
popolari e al culto dell’onore,
indicando come chiave di lettura una commistione di erotismo e sacralità che si manifesta
fin dall’inizio con l’amplesso
in scena tra Turiddu e Lola,
subito seguito dalla presenza di
Mamma Lucia che prega con
il rosario in mano (elemento
ricorrente per tutto lo spettacolo) dinanzi alla fotografia del
Crocefisso, la prima di una serie
di immagini-metafora che il filo
conduttore di tutta la rappresentazione. Sulla scena passano
prima una schiera di sacerdoti,
poi una lunga fila di donne e
uomini, bambine e chierichetti
che si apprestano ad arredare
la chiesa per i riti della Pasqua
con fasci di fiori e bianche lenzuola in un passaggio dall’esterno all’interno segnato dall’immagine del Vangelo con sopra
un Crocefisso, mentre alcuni
sacerdoti introducono il grande
cero pasquale. La scena si trasforma rapidamente nell’osteria
di Mamma Lucia che diventa
il luogo deputato dell’azione:
le donne che fanno i preparativi per la festa, l’arrivo spavaldo di Alfio, i drammatici
incontri di Santuzza con Lucia,
con Turiddu e infine con Alfio,
con i quali si preannuncia la
“mala pasqua” sotto una splendida foto di giovane donna che
mostra la schiena nuda avvolta in un rosario (Woman with
Large Crucifix di Ellen Denuto).
Ricca di belle suggestioni è la
notturna processione pasquale
con ceri e lumini, che conduce all’interno della chiesa con
un crescendo luministico che
trova la sua centralità nel cero
pasquale, mentre all’esterno si
consuma la tragedia di Santuzza condannata alla solitudine e
all’emarginazione sociale. Da
41
questo momento la scena sarà
dominata da due mani di donna
intrecciate a un rosario (foto di
Stéphane Barthe) in un continuo passaggio dalla sacralità
della chiesa al profano dell’osteria, dove fa la sua apparizione la sensuale Lola, si celebra
il rito del brindisi e della sfida
tra Alfio e Turiddu, si svolge
lo struggente addio del figlio
a Mamma Lucia. Una folla in
chiaroscuro si raduna in attesa
per accogliere sbigottita il grido
di donna che prorompe dalla
platea per annunciare il tragico
epilogo del duello, mentre la
foto delle mani con il rosario
si copre di sangue. Per noi lo
spettacolo termina qui, ma il
regista ha voluto far morire in
scena Turiddu con la bianca
camicia coperta di sangue, un
tocco di contradditorio realismo in un mondo dominato da
una serie di efficaci metafore,
unico neo di uno spettacolo che
rimane bellissimo per originalità e intensità drammaturgica.
La direzione di Carla Delfrate
aggiunge spessore drammatico a tutta l’opera nel pieno
rispetto di quel dominio della
melodia voluto da Mascagni. Di
buon livello la prestazione degli
interpreti: la dolente presenza
di Mamma Lucia (Giovanna
Donadini), la sensualità arrogante di Lola (Aliona Staricova), la violenta presenza di
Alfio (Gianfranco Montresor),
la prorompente e giovanile passionalità di Turiddu (il giovane
Kamen Chamev) e, su tutti,
la splendida Santuzza di Anna
Malavasi che ha saputo esprimere la passione, il dolore, la
ribellione e la voglia di vendetta
del personaggio.
Di un fascino elementare ma
efficace è apparsa la seconda
opera in cartellone Madama
Butterfly (1904) sempre con
la messa in scena di Andrea
Bernard che ha concentrato la
vicenda sopra una piattaforma
sospesa sopra una laguna sulla
quale galleggiava una distesa di
fiori rossi sostituiti nel secondo
atto da un mare di bandierine americane a sottolineare
l’occidentalizzazione di quella
casa, dove anche la protagoLe Cento Città, n. 48
nista veste abiti occidentali.
In un complesso alternarsi di
luci, si arriva alla drammatica
conclusione quando Butterflay
riprende gli abiti tradizionali e si genuflette dinanzi alla
piccola casa-scrigno, custode
delle memorie familiari, prima
di porre fine alla sua dolorosa
esistenza. Come sempre si è
avuto un cast di valore con un
ottimo Luciano Ganci (Pinkerton), un convincente Gianfranco Montresor (Sharpless) e una
bravissima Elena Popovskaya
nei panni di Madama Butterfly.
Un testo teatrale di Elsa
Morante coprodotto dal TSM
Ha debuttato a Torino il 15
gennaio quello che si presenta
come uno dei grandi eventi
teatrali del 2013: grazie alla
collaborazione tra il Teatro Stabile di Torino, l’Associazione
Teatro di Roma e il Teatro Stabile delle Marche è stato messo
in scena il dramma La serata a
Colono, l’unica opera teatrale di
Elsa Morante scritta nel 1968 e
pubblicata nel volume Il mondo
salvato dai ragazzini (ora ripubblicato da Einaudi nella Collezione di teatro). Il testo non è
stato mai rappresentato, anche
se nel 1970 Carmelo Bene, che
considerava questo lavoro “il
capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del
Novecento”, aveva progettato
di farne un film con l’interpretazione di Eduardo De Filippo,
ma il progetto non andò in
porto. Ora finalmente il testo
prende corpo sulla scena con la
regia e la scenografia di Mario
Martone, al suo terzo incontro
con il personaggio di Edipo.
Il regista si avvale di un suggestivo progetto luci di Pasquale
Mari e delle musiche di Nicola
Piovani con un cast particolarmente numeroso nel quale
spiccano i nomi di Carlo Cecchi (Edipo), di Antonia Truppo
(Antigone) e di Angelica Ippolito (La Suora). In un ospedale
fra medici e infermieri arriva,
accompagnato dalla figlia, una
malato grave che manifesta
chiari segni di follia tanto da
dover essere legato mani e piedi
al letto; egli porta anche una
Libri ed eventi
43
benda sugli occhi perché in un
impeto di furore si accecato.
L’autrice ha voluto trasporre in
epoca contemporanea il grande
mito di Edipo fornendo come
chiave di lettura il sottotiolo del
dramma “Parodia”.
Infatti, il protagonista ripercorre per tutto lo spettacolo fino
alla sua morte con le sue ossessioni, la sua vocazione autolesionistica, il suo mondo diviso
tra immaginario e follia, ossessionato da un coro di voci che
si ripercuotono ossessivamente
nella sua mente. Così Edipo
rievoca una vita segnata dal
Fato attraverso un linguaggio
poetico, ma anche esasperato
e ironico, vittima di un destino che è impossibile eludere
(“io sono qua, stretto con le
corde alla sua croce così che
le mie vene s’attorcigliano con
le vene di questo legno…Lui,
non nato, splende impassibile nell’affermazione della sua
morte eterna, mentre io brucio
nella mia negazione disperata”). Lo spettacolo sarà al Teatro delle Muse di Ancona dal 4
al 7 aprile 2013.
La Fondazione Pergolesi
Spontini pubblica le opere pergolesiane
Con la pubblicazione de La
Salustia si è conclusa la serie dei
dvd prodotti dalla Fondazione Pergolesi Spontini e riguardanti i melodrammi messi in
scena nel biennio 2010-2011
in occasione del quanto centenario della nascita del grande
compositore jesino.
La Salustia è la prima opera
composta dal Pergolesi nel
1731 e s’ipotizza che il libretto
sia un adattamento tratto dall’
Alessandro Severo di Apostolo
Zeno scritto probabilmente da
Gennaro Antonio Federico che
è stato per anni il librettista
di fiducia del compositore. Il
Cavalleria Rusticana, stagione lirica Teatro delle Muse, Ancona, 2013.
primo grande successo di Pergolesi arriva con Il prigioniero
superbo (1733) accompagnato
dall’intermezzo La serva padrona, destinato in breve tempo a
diventare la più celebre opera
buffa del Settecento; ambedue
i lavori sono stati composti su
libretto di Gennaro Antonio
Federico.
Il successo si rinnova nel 1734
con Adriano in Siria, opera di
notevole spessore musicale e
sorretta dal libretto del grande Pietro Metastasio; in questo
caso l’intermezzo è Livietta e
Tracollo ovvero La contadina
astuta su libretto di T. Mariani
(?). Il quarto e ultimo dvd contiene Il Flaminio (1735), deliziosa opera buffa scritta dal fedele
Gennaro Antonio Federico che
apre nuove strade nel genere del
melodramma comico.
La pubblicazione de Le Cento Città avviene grazie al generoso contributo di
Bancadell’Adriatico,BancaMarche,Carifano,Carisap,Co.Fer.M.,
Fox Petroli, Gruppo Pieralisi, Santoni, TVS
Le Cento Città, n. 48
Vita dell’Associazione
45
Visite e convegni
di Giovanni Danieli
11 febbraio 2013, Offida
Carnevale ad Offida
Tradizionale appuntamento de
Le Cento Città con Offida, in
occasione del Canevale.
Si è iniziato con la visita di Santa Maria della Rocca, gioiello
dell’arte romanico-gotica, cripta d’epoca longobarda con affreschi attribuiti al Maestro di
Offida, tanto stupendi quanto
insospettati.
Poi l’arte del tombolo, ritorno
al passato, arte tramandata di
generazione in generazione,
incontro con Iolanda Ottavi e
l’ultima evoluzione del tombolo, il merletto gioiello.
Infine, per le strade, contrade
in costume, uomini e donne
in un camicione, qui chiamato
guazzarò, lunghe fascine sulle
spalle, i vlurd, accese alle estremità; accumulo di vlurd nel
centro della piazza, una delle
più belle delle Marche, gran
falò, vino, balli, canti. Allegria
diffusa nell’aria.
Il merletto gioiello di Iolanda Ottavi.
7 dicembre 2012, Macerata
Padrò e contadì
Nella ricorrenza del trentesimo
anniversario dell’approvazione
della legge sull’abolizione della
mezzadria, il convegno, ideato e
realizzato da Cinzia
Maroni, ha affrontato una tematica
originale: la trasformazione del patto
mezzadrile in affitto
vista anche dalla
proprietà agraria.
Una riflessione su
come tale trasformazione abbia interrotto per sempre
il rapporto tra i
proprietari terrieri e la terra, con la
conseguente rovina
della classe agraria
seguita dall’abbandono dei palazzi
nobiliari in città e
delle residenze in
campagna. Dal convegno è emerso che
anche per i contadini la trasformazione
del patto mezzaLe Cento Città, n. 48
drile in affitto ha comportato la
fine del rapporto “totalizzante”
con la terra e l’abbandono, anche
da parte loro, delle campagne.
Si è parlato anche del paesaggio
agrario marchigiano, delle trasformazioni radicali che ha subito dopo la fine della mezzadria e
della necessità attuale della sua
tutela. Relatori Adriano Ciaffi,
presentatore della prima legge
sull’abolizione del patto mezzadrile, l’editore Giorgio Mangani
e l’architetto Mario Canti, moderati da Cinzia Maroni.
Un pensiero affettuoso
per la socia, ed anche collega mia e degli altri architetti
delle Cento Città, Agnese
Corallini, che ci ha prematuramente lasciato.
Spero, Agnese, di strapparti uno dei tuoi luminosi
e indimenticabili sorrisi dicendoti che, lasciandoci nel
pieno della tua giovane età,
hai ulteriormente innalzato
l’età media dei soci de Le
Cento Città, che ti ricorderanno sempre.
Peppe Oresti
Album di Romano Folicaldi
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7 dicembre 2012, Macerata
Convegno Padrò e Contadì
In una delle splendide gallerie della Biblioteca
Mozzi-Borgetti a Macerata, il convegno Padrò e
Contadì, costruito e condotto da Cinzia Maroni,
è stata l’occasione per riandare ai tempi in cui l’agricoltura marchigiana aveva visto come struttura
sociale ed economica nettamente prevalente la
conduzione mezzadrile.
I Relatori Adriano Ciaffi, Giorgio Mangani e
Mario Canti, hanno svolto riflessioni nei campi
ad ognuno di loro più consoni e legati alla loro
attività e al loro impegno: un impegno politico e
retrospettivamente storico, l’attività culturale nel
settore dell’editoria, con un illuminante richiamo
all’esperienza dell’Arcadia, l’evoluzione nel modo
di osservare il territorio, non come contemplazione estetica del paesaggio, ma come analisi dei
cambiamenti che le attività economiche hanno indotto in poco più di mezzo secolo, dalla fine del
secondo conflitto mondiale, con una velocità che
non ha riscontri nel passato.
Sono state riflessioni che pure nella loro rapidità
e concisione non potranno non dare adito, in coloro che sono stati presenti, a una maggiore maturità
con cui guardare e leggere la realtà odierna.
È purtroppo mancato il contributo di Roberto
Massi, uno dei testimoni e attori più importanti
di quel periodo, scomparso a distanza di pochi
giorni.
L’incontro si è concluso al Ristorante Il Pozzo
per una cena che ha ripercorso alcune delle tradizioni gastronomiche marchigiane reinterpretate
alla luce di tempi così differenti dalle epoche in
cui sono nate.
La Galleria della Biblioteca Mozzi-Borgetti e il ristorante Il Pozzo, a Macerata.
Le Cento Città, n. 48
Vita dell’Associazione
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25 gennaio 2013, Fermo
Fermo project
A Fermo, gioiello del buon
vivere marchigiano, si è svolto
il convegno Marche, il centro
storico. Fermo project, verso un
nuovo modello di sviluppo integrato del territorio e dei borghi,
ideato e realizzato da Cecilia
Romani Adami. Una scommessa pubblico/privato dalla posta
alta: nel centro storico, a portata di piede, centri meeting ed
alberghi d’epoca.
A tutto vantaggio del turismo,
settore economico della massima importanza per l’economia,
settore recente nelle Marche
rispetto ai grandi distretti industriali, che vede Regione ed
Enti locali impegnati per studiare ed implementare un nuovo
modello di centro storico e di
vita italiana.,.
Il convegno si è articolato in
due sessioni, la prima delle quali un tavolo di studio coordinato
da Cecilia Romani Adami nella
sede della Camera di commercio; sono intervenuti l’Assessore
Mauro Terzoni e Antonio Minetti, Dirigenti della Regione Marche, Lorenza
Mochi Onori, Direttore Sovrintendenza Regionale.
Marcolini. I funzionari regionali
Mauro Terzoni, Fabio Travagliati, Antonio Minetti, esperti
del settore quali Magda Antonioli Corigliano, Sandra Camicia, Mariano Sartore, Claudia
Bonanno e i giornalisti Silvia
Catalino e Massimo Terracina;
in video-conferenza (?) Gianni
Carbonaro e Francesca Medda.
Nel pomeriggio, nella Sala
dei ritratti del Palazzo dei Priori Presentazione alla città e al
territorio di Fermo project e dichiarazioni di intenti delle istituzioni, con i Relatori del mattino, esperti e numerosi ospiti.
Un convegno di pieno successo, in piena sintonia con la
campagna promozionale che la
Regione Marche promuove in
tutto il mondo.
Cecilia Romani Adami, ideatrice del progetto e moderatore.
Il pubblico in sala.
Pietro Marcolini: Assessore al bilancio e alla cultura.
Tavola Rotonda: da sinistra Silvia Catalino, Massimo
Terracina, Cecilia Romani Adami, Magda Antonioli.
Le Cento Città, n. 48
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