Un tempo nuovo
Quinto Rapporto sull’immigrazione e i processi
di inclusione in provincia di Arezzo
a cura di
Lorenzo Luatti, Giovanna Tizzi, Marco La Mastra
Con interventi di
Graziella Favaro, Fabio Berti, Giovanna Dallari, Erika Cellini, Luca Raffini,
Giuseppe Cirinei, Alessia Belli, Niccolò Sirleto.
Postfazione di Maurizio Ambrosini
1
Provincia di Arezzo – Assessorato alle Politiche Sociali
Osservatorio sulle Politiche Sociali – Sezione Immigrazione
Piazza della Libertà, 3 – 52100 Arezzo
tel. 0575.316239 – www.provincia.arezzo.it
Responsabile Osservatorio: Marco La Mastra ([email protected])
Oxfam Italia
Via Concino Concini, 19 – 52100 Arezzo
tel. 0575.401780 – fax 0575.401772 – www.oxfamitalia.it
Responsabile
progetto
“Sezione
Immigrazione”:
([email protected])
Giovanna
Tizzi
Si ringraziano:
Anagrafi comunali, Istat, Osservatorio scolastico della Provincia di Arezzo,
Camera di Commercio, Prefettura di Arezzo, ASL 8 di Arezzo, INPS, Istituti
scolastici.
Un sentito ringraziamento a Demostenes Uscamayta Ayvar per averci
accompagnato, con il suo segno grafico, nei quindici anni di pubblicazioni sul
tema immigratorio. A lui si devono l’ideazione e la realizzazione grafica della
copertina di questo volume, degli altri quattro che lo hanno preceduto e del logo
della Sezione Immigrazione.
Le pubblicazioni della Sezione Immigrazione sono pubblicati nei siti internet della
Provincia di Arezzo, alla pagina dell’Osservatorio Provinciale sulle Politiche
Sociali (www.provincia.arezzo.it) e di Oxfam Italia, alla pagina relativa alle
attività dell’Ufficio Immigrazione (www.oxfamitalia.org).
Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 presso la Tipografia Litograf, Città
di Castello (Pg)
Distribuzione gratuita
2
INDICE
Presentazioni
Eleonora Ducci, Vice Presidente della Provincia Arezzo
Alessandro Bechini, Direttore di Oxfam Italia Intercultura
p. 7
p. 9
Introduzione
L’integrazione “liquida”, di Fabio Berti
p. 11
Prima parte
La presenza: evoluzione, caratteristiche, specificità
Cap. 1. Migranti e figli dell’immigrazione in provincia di Arezzo, di Marco La
Mastra
p. 19
1. Introduzione
2. Il bilancio demografico nazionale
3. La presenza in provincia di Arezzo
4. La distribuzione territoriale
5. Il genere e l’età
6. Le nazionalità
7. Le famiglie
8. I matrimoni misti in provincia di Arezzo (di G. Tizzi)
Riferimenti bibliografici
Cap. 2. Richiedenti asilo e titolari di protezione in provincia di Arezzo, di
Giovanna Tizzi
p. 37
1. Introduzione
2. Il contesto: sbarchi, richieste di asilo e accoglienza in Italia
3. Dimensioni e caratteristiche dell’accoglienza in provincia di Arezzo
4. Gli usciti dal programma e i “transitati”
5. Il profilo degli accolti
6. Conclusioni
Riferimenti bibliografici
3
Seconda parte
I percorsi scolastici degli allievi stranieri e la scuola dell’inclusione
Cap. 1. Plurale fa rima con “normale”. Il punto di vista sulla scuola multiculturale
e sui suoi protagonisti, di Graziella Favaro
p. 59
1. Due priorità un “modello asistematico”
2. Bisogni educativi specifici o speciali?
3. Tra ostacoli e attese
4. L’italiano di scolarità: la tigre sul cammino
5. I fattori collegati al rischio della dispersione scolastica
6. I più piccoli, i più grandi
Riferimenti bibliografici
Cap. 2. Gli allievi di origine straniera in provincia di Arezzo: dati di presenza e
nodi critici, di Lorenzo Luatti
p. 76
1. Scuola multiculturale o scuola internazionale?
2. Distribuzione per livello d’istruzione, territorio e cittadinanza
3. Il peso del fattore immigrazione nelle scelte scolastiche. Il ritardo e gli esiti
scolastici
4. La seconda generazione a scuola
Bibliografia
Cap. 3. La scuola e i “nuovi” italiani: accogliente, integrativa e inclusiva? Una
ricerca esplorativa in provincia di Arezzo, di Lorenzo Luatti
p. 93
1. L’indagine provinciale: metodologia, strumenti, attori
2. Inclusività e attenzione alle “diversità” a partire dall’organizzazione scolastica e
degli spazi
3. I dispositivi per l’apprendimento e l’insegnamento dell’italiano L2 e la
valorizzazione del plurilinguismo in una ottica interculturale
4. La partecipazione delle famiglie straniere alla vita scolastica
5. Osservazioni conclusive
Riferimenti bibliografici
Terza parte
La salute e il lavoro dei migranti
Cap. 1. Stranieri e servizi per la salute, di Giovanna Dallari
1. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale
2. Alcuni elementi numerici
3. Conclusioni
4
p. 121
Cap. 2. Accesso degli stranieri ai servizi sanitari in provincia di Arezzo, di
Giuseppe Cirinei
p. 130
1. Popolazione straniera e salute
2. L’accesso ai servizi sanitari
3. Conclusioni
Cap. 3. Cittadini stranieri e uso dei farmaci in provincia di Arezzo, di Giuseppe
Cirinei e Giovanna Dallari
p. 144
1. Introduzione
2. I dati nazionali sul consumo di farmaci
3. Le prescrizioni farmaceutiche per cittadini stranieri in provincia di Arezzo
4. Le prescrizioni per alcune categorie di farmaci
5. Conclusioni
Bibliografia
Cap. 4. Il lavoro autonomo e le rimesse dei migranti, di Lorenzo Luatti p. 162
1. Come leggere i dati
2. I “numeri” dell’imprenditoria straniera in provincia di Arezzo
3. Distribuzione dell’imprenditoria immigrata nel territorio aretino
4. Provenienza nazionale ed età dei titolari di imprese individuali
5. Settori di attività delle imprese individuali
6. Le rimesse dei migranti: uno sguardo ai dati mondiali e nazionali
7. L’andamento delle rimesse in Toscana e in provincia di Arezzo
Riferimenti bibliografici
Quarta parte
Il contributo della ricerca qualitativa negli studi dell’Osservatorio
Cap. 1. La ricerca qualitativa per studiare i fenomeni migratori nella città, di
Erika Cellini
p. 187
1. L’approccio quantitativo e quello qualitativo
2. La ricerca qualitativa per lo studio delle migrazioni in un osservatorio
3. Le ricerche qualitative della Sezione Immigrazione
Riferimenti bibliografici
Cap. 2. «O vai in Italia, o studi o ti sposi»: il caso studio di Monte San Savino, di
Giovanna Tizzi
p. 206
1. Introduzione
2. Il disegno della ricerca
5
3. Le donne intervistate
4. Alcune voci di donne
5. Donne della migrazione: tra bisogni, simboli e desideri
Riferimenti bibliografici
Cap. 3. Che genere di città? Parole femminili migranti svelano Arezzo, di Alessia
Belli
p. 230
1. Introduzione
2. Vivere ad Arezzo
3. Io che parlo, io che dico: narrative migranti
4. Le figlie dell’immigrazione
5. Che genere di integrazione?
6. Forze centripete e centrifughe: come orientarsi nel labirinto degli uffici?
7. Di sinergie e commistioni
8. Una donna in politica, la politica per una donna
9. Sanità e lavoro: i volti della cittadinanza
10. Lavoro
11. Il protagonismo delle donne: una questione di agency
12. Conclusioni
Riferimenti bibliografici
Cap. 4. L’osservazione nel quartiere Saione ad Arezzo, di Niccolò Sirleto p. 249
1. L’osservazione e gli strumenti utilizzati
2. Cosa è stato osservato
Bibliografia
Cap. 5. Verso un possibile modello di accoglienza? Tre buone pratiche a
confronto, di Giovanna Tizzi e Luca Raffini
p. 257
1. Rifugiati e richiedenti protezione internazionale: alcuni dati di uno scenario in
movimento
2. Il sistema italiano di accoglienza
3. I tre casi studio: In Migrazione (Casa Benvenuto), CIAC e GUS
Bibliografia
Postfazione
Le contraddizioni delle politiche migratorie: perché la chiusura delle frontiere è
una promessa irrealizzabile, di Maurizio Ambrosini
p. 283
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Presentazioni
Migrare significa dare una risposta coraggiosa alle questioni legate al proprio
benessere e a quello della propria famiglia. Una scelta rischiosa che comporta
sacrifici: sono migranti quelle donne e quegli uomini che decidono di separarsi dal
proprio contesto socio-culturale, lasciare i luoghi di nascita, allontanarsi dagli
affetti. Si intraprende questa strada per varie ragioni. Volendo astrarre,
potremmo dire che si migra o per fuggire da qualcosa o per raggiungere qualcosa.
Il motore della scelta può essere alle spalle (una guerra, una persecuzione, un
evento catastrofico) oppure può essere davanti (il miraggio di un benessere
maggiore, opportunità che non si trovano altrove, maggiori libertà, etc.).
Storicamente le migrazioni hanno determinato un continuo mescolarsi di etnie,
religioni, culture ed hanno contribuito ad annodare tra loro territori lontani,
legati ora da reti invisibili, percorsi imprevedibili e possibili tra razze e culture.
Gli orientamenti dei flussi migratori che hanno interessato il territorio aretino nel
tempo hanno subito numerose trasformazioni. Negli ultimi vent’anni, le
migrazioni sono divenute una componente essenziale nel determinare riequilibri
economici e sociali e il mercato del lavoro è divenuto il terreno sul quale si
regolano buona parte dei meccanismi che determinano le migrazioni: nel tempo,
la domanda e l’offerta di lavoro hanno guidato dinamiche che hanno inciso
profondamente sulle sorti individuali e collettive delle popolazioni interessate.
I più importanti organismi internazionali (tra cui le Nazioni Unite per primo)
concordano nel ribadire costantemente e riaffermare la valenza positiva del
fenomeno migratorio. Esso facilita lo scambio di conoscenze e di competenze e
contribuisce all’arricchimento culturale delle società coinvolte. Tuttavia,
questioni legate al crescente timore di attacchi terroristici e, prima ancora, delle
conseguenze negative dell’immigrazione sulla sostenibilità di regimi di welfare
inclusivi, che sappiano provvedere tanto alle necessità degli autoctoni quanto a
quelli stranieri senza diluire le risorse in un più ampio bacino di soggetti
bisognosi, ha condotto verso un atteggiamento diffuso e radicato di diffidenza
verso l’arrivo di questi nuovi cittadini.
Tentare di comprendere in profondità l’immigrazione non è certo semplice, ma
con il passare degli anni si è rilevata una necessità sempre più impellente. Le
storie, i racconti, i percorsi che contraddistinguono le esperienze di ogni
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migrante compongono un mosaico sfaccettato ed eterogeneo, troppo spesso
annientato dallo sguardo superficiale che crea stereotipi ed alimenta false verità.
Trattare la questione come se esistesse un unico prototipo di migrante sarebbe
quindi del tutto inadatto all’analisi del problema. Va inoltre sottolineato che con
il continuo e progressivo aumento dell'immigrazione femminile, la componente
straniera della nostra società si diversifica sempre più e, anche da un punto di
vista politico, questo dato deve essere tenuto debitamente in conto, in particolare
in considerazione del fatto che le donne migranti costituiscono la categoria più
vulnerabile in assoluto, poiché possono essere oggetto di una doppia
discriminazione basata e sull'origine etnica e sul sesso.
In un momento come questo, in cui il nostro territorio continua a vivere un
periodo di incertezza economica e interi settori subiscono la precarietà della crisi,
il rischio di regressione anche nell’accoglienza e nell’integrazione degli immigrati
è un rischio reale. Un rischio che si deve e si può evitare se tutti insieme,
Istituzioni e cittadini lavoriamo per la piena integrazione, rafforzando la rete delle
relazioni e promuovendo politiche attive in tutti i settori. Ma per fare ciò occorre
in primo luogo conoscere il fenomeno migratorio, occorre monitorarlo
costantemente, con la consapevolezza che gli immigrati non sono una categoria
astratta: basti pensare che nel territorio aretino sono ben 134 le nazionalità
presenti (ed ogni nazionalità ha al suo interno molteplici differenze) e che
comunque ogni immigrato/a è prima di tutto una persona con la sua storia e i
suoi progetti.
L’Osservatorio Provinciale sulle Politiche Sociale, funzionante dal 1997, ha
strutturato al suo interno una Sezione specifica sull’immigrazione, proprio con
l’intento di aiutare tutti i soggetti programmatori, in primo luogo a conoscere
tutte le sfaccettature dell’immigrazione (dagli inserimenti scolastici, al lavoro,
alla salute, etc.) al fine di orientare in modo efficace le proprie scelte di politiche
e servizi per l’integrazione. Questa pubblicazione raccoglie gli ultimi
approfondimenti tematici della Sezione Immigrazione, della cui cura ringrazio i
redattori, che con grande professionalità ci offrono uno strumento indispensabile
che, nel contempo sottolinea la forte volontà della Provincia di Arezzo di lavorare
a vasto raggio e permanentemente per l’inclusione e la coesione sociale, per la
promozione dei diritti di ognuno e di tutti.
Eleonora Ducci
Vice Presidente della Provincia di Arezzo
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Il ruolo della ricerca, dell’acquisizione di dati e casi studio, dell’osservazione di
trend e dinamiche, dovrebbero stare alla base della definizione delle politiche di
integrazioni che, nei diversi territori, gestiscono il tema della convivenza tra
vecchi e nuovi cittadini. L’Osservatorio delle politiche sociali, Sezione
immigrazione, in Provincia di Arezzo ha fornito nel corso di oltre un decennio
una quantità enorme di dati, offrendo ai cittadini, agli addetti ai lavori e ai
decisori politici un quadro ampio e complesso del fenomeno migratorio in
provincia di Arezzo.
Anche questo volume, come i precedenti Rapporti provinciali offre una visione
estremamente aggiornata e ampia del fenomeno migratorio e dei percorsi di
integrazione; include, inoltre, alcuni approfondimenti sul tema dell’accoglienza
dei richiedenti asilo presenti sul nostro territorio (e a livello nazionale), giacché
trattasi ormai di un fenomeno stabile, che richiederebbe la predisposizione di
efficaci politiche di integrazione per rendere la presenza di queste persone un
valore per l’intera comunità ospitante.
Un capitolo importante nel lavoro di quest’anno è stato perciò dedicato al
crescente fenomeno dei richiedenti asilo nella nostra provincia. Lungi dall’essere
catalogata come “invasione”, come ripetuto in maniera totalmente fuorviante da
alcuni mezzi di informazione nazionale, il numero dei richiedenti asilo nella
nostra provincia è diventato una realtà di un certo rilievo, che pone nuove sfide di
integrazione in un contesto sia interno che esterno particolarmente fragile e con
un orizzonte temporale limitato.
La scuola, anche in questo Rapporto, ricopre un ruolo centrale, è cuore del
processo di integrazione e passaggio chiave per molti dei nuovi arrivati nel nostro
territorio e per i figli dei migranti da tempo residenti. Mi permetto di segnalare,
in questa mia introduzione, il lavoro svolto da L. Luatti nell’analizzare il rapporto
tra la scuola e i “nuovi italiani” che offrirà al lettore una serie di spunti per riuscire
a comprendere il delicato ma fondamentale ruolo che la scuola ha, o dovrebbe
avere, nei processi di inclusione sociale dei “nuovi cittadini”.
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Il Quinto Rapporto, come i precedenti, ha il merito di non essere un semplice
elenco di dati, ma di sviluppare intorno ad essi analisi qualitative, che permettono
di decifrare il fenomeno migratorio in maniera davvero adeguata e completa.
Merito, indubbiamente, dei ricercatori che in questi anni hanno lavorato con
grande professionalità e passione (Marco La Mastra, Lorenzo Luatti, Giovanna
Tizzi), dei tanti collaboratori che hanno arricchito i contenuti del rapporto.
Merito anche di chi questo modello di Osservatorio e di lavoro ha promosso e
sostenuto, come l’Amministrazione provinciale di Arezzo che nel corso di circa
vent’anni ha dimostrato di credere in questo strumento, acquisendo dati
fondamentali per la costruzione delle politiche.
Nel futuro incerto del nuovo ruolo e delle nuove competenze delle province il
ruolo dell’Osservatorio rischia di sparire e con esso quello straordinario portato
di esperienze e analisi che ha arricchito il dibattito pubblico del nostro territorio,
combattendo stereotipi e luoghi comuni, diffidenze e ipocrisie. Un patrimonio da
difendere e da sviluppare anche per i prossimi anni.
Alessandro Bechini
Direttore di Oxfam Italia Intercultura
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L’integrazione liquida
di Fabio Berti
1. Immigrazione: un fatto sociale totale
I processi migratori rappresentano sicuramente uno dei fenomeni sociali più
rilevanti dell’ultimo mezzo secolo, non solo per la rilevanza quantitativa, ma
soprattutto per le sue implicazioni qualitative nei più importanti settori della vita:
in primo luogo le migrazioni hanno condizionato l’economia e la politica, per
citare i due sistemi che forse più di altri colpiscono l’immaginario collettivo, ma
hanno inciso anche sulla psicologia delle persone e sulle relazioni sociali.
L’immigrazione è davvero “un fatto sociale totale”, come scrive Sayad (1999) in
uno dei suoi passaggi più celebri.
Per citare ancora Sayad, occorre ricordare che le conseguenze dell’immigrazioni
sono vissute non solo nel paese di destinazione ma anche in quello di origine; per
conoscere davvero le migrazioni è necessario tenere costantemente sotto
controllo le due dimensioni che le caratterizzano: l’emigrazione, e quindi le
caratteristiche del paese di origine dell’immigrato, la sua storia, il suo lavoro, la
sua famiglia, le condizioni socio-economiche generali e le relazioni con il paese di
immigrazione, quasi sempre relazioni asimmetriche, e l’immigrazione, cioè il paese
di destinazione, la nuova vita, i nuovi habitat socio-culturali, i nuovi lavori e le
nuove relazioni, i bisogni materiali e spirituali nel contesto di arrivo.
Per questo le migrazioni acquistano una straordinaria “funzione specchio”,
rivelando le caratteristiche della società di origine e di quella di arrivo, della loro
organizzazione politica e delle loro relazioni. Come altri fatti sociali, le
migrazioni contribuiscono ai mutamenti sociali e, in alcuni casi e per certi aspetti,
sono anche state e sono ancora il fatto più importante da ogni punto di vista
(Palidda, 2008).
In realtà anche nel nostro Paese ci siamo concentrati quasi esclusivamente
sull’immigrazione, ovvero su cosa accade al momento dell’arrivo in Italia
rinunciando a capire cosa è accaduto e cosa continua ad accadere dall’altra parte,
nel “loro” paese di provenienza.
Ciò spiega perché da decenni siamo concentrati sull’integrazione, questa parolamantra divenuta la chiave di volta del rapporto tra autoctoni e immigrati. Sia
chiaro, non c’è da stupirsi e per certi versi è anche naturale: da sempre l’arrivo di
popolazione “straniera” su un territorio precedentemente abitato e vissuto come il
“proprio” territorio ha generato grandi interrogativi e grandi conflitti, sia con i
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nuovi arrivati, sia tra quanti si dimostravano rispettosi ed accoglienti e quelli che
invece si facevano promotori della salvaguardia di interessi consolidati. I conflitti,
quindi, non chiamano in causa solo il rapporto con gli stranieri ma si è sviluppato
un intenso dibattito anche tra gli stessi autoctoni, divisi tra chi si rivelava
rispettoso e accogliente e coloro che invece non ne vogliono sapere di
immigrazione e immigrati. In mezzo a questi due poli opposti e apparentemente
inconciliabili si collocano tutta una serie di posizioni: alcune si concentrano sulla
convenienza della presenza immigrata per il nostro sistema economico, altre
muovono da ragioni di opportunità politica, altre ancora sono il risultato
dell’intreccio di diverse variabili, da quelle di natura religiosa a quelle legate a
situazioni personali o familiari.
2. I limiti dell’integrazione
Da quando l’immigrazione è divenuto uno dei fenomeni sociali più rilevanti del
nostro paese, la questione dell’integrazione è non solo “il” tema principale a cui si
guarda con grande attenzione ma anche un percorso irrinunciabile per rendere
accettabile la presenza del migrante. In effetti è come se gli immigrati fossero
portatori di una sorta di peccato originario dovuto al fatto di essere arrivati senza
che nessuno li abbia invitati: l’integrazione diventa il percorso salvifico che
permette l’espiazione del peccato, cancella la colpa e legittima la presenza.
Tuttavia, nonostante all’integrazione venga riconosciuto un tributo così
importante, non sempre è chiaro cosa si debba intendere con tale termine, quali
siano i contenuti di questo processo né tanto meno come si possa riuscire a
cogliere le sue performance. Molte sono le ambiguità e le contraddizioni che
ruotano intorno al concetto di integrazione ed altre interessano la sua pratica.
Nella maggior parte dei casi, almeno a livello di opinione pubblica, anche quando
si pronuncia la parola “integrazione” in realtà si pensa o ci si augura che questa
prenda la forma dell’assimilazione riproducendo il grande equivoco che da
sempre accompagna l’integrazione: quello di riuscire a garantire il massimo di
omogeneità culturale a partire dalle ragioni – e dalle tradizioni – del gruppo
autoctono, nella convinzione che la diversità porta inevitabilmente scompiglio
all’interno di società già sofferenti per ragioni del tutto interne.
Ovviamente i teorici dell’integrazione non la pensano quasi mai così: esiste una
vasta letteratura internazionale e nazionale che descrive quale forma far assumere
all’integrazione, rinunciando alla ricerca di un modello come è stato fatto in
passato e guardando con maggiore flessibilità alle opportunità offerte
dall’immigrazione; a livello di senso comune, invece, la maggioranza
dell’opinione pubblica – anche quella più illuminata – è scarsamente propensa a
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fare concessioni agli immigrati. La politica, dal canto suo, nel tentativo di
mediare tra queste diverse posizioni e nella consapevolezza che su questi temi
sono a rischio i risultati elettorali, si dimostra incerta e avanza con grande cautela,
producendo soluzioni maldestre e contribuendo ad alimentare i dubbi dei
cittadini, come dimostra il testo di legge approvato alla Camera nell’ottobre del
2015 destinato a modificare i passaggi per acquisire la cittadinanza. Il Parlamento
ha evidentemente riconosciuto la necessità di favorire la naturalizzazione dei figli
degli immigrati ma non ha avuto la forza per prendere una decisione netta,
introducendo quello che è stato ribattezzato uno jus sanguinis “temperato” (1)
accompagnato dalla novità dello jus culturae (2).
In ogni modo ciò che emerge con chiarezza è che l’integrazione è sempre a senso
unico: sono gli immigrati che devono integrarsi anche se poi mancano percorsi e
strategie definiti; l’integrazione, per quanto auspicata, rimane un obiettivo
difficile da raggiungere. Il cammino per l’integrazione ha finito così per
trasformarsi in una sorta di “gioco dell’oca”, fatto di una serie infinita di stop and
go all’interno del quale anche gli immigrati si muovono con grandi difficoltà
legate alle contingenze del momento. Questa situazione, che porta a scaricare
sugli immigrati molte delle ansie vissute dalla società italiana, è il risultato di
problemi ben più profondi dovuti al fatto che “non abbiamo nel nostro Paese un
modello sociale e culturale unitario, condiviso e convissuto sia sul piano
normativo e istituzionale sia di valori, siamo i primi a non avere una fiducia
‘forte’ nel nostro sistema e in troppe realtà a rispettare le regole e le autorità”
(De Vita, 2008).
3. Un’immigrazione in rapida trasformazione
La difficoltà di riuscire a declinare i contenuti teorici e pratici dell’integrazione
dipende anche dall’immigrazione che, nonostante le modalità semplicistiche
spesso utilizzate per rappresentarla, si presenta come fenomeno altrettanto
complesso e articolato. Soprattutto negli ultimi anni le caratteristiche
dell’immigrazione sono profondamente mutate: da un lato abbiamo un quadro
internazionale sempre più instabile e violento, dall’altro una situazione
economica nazionale con livelli di disoccupazione non più fisiologici ma
sintomatici di una difficoltà dell’intero sistema sociale nazionale.
Nel giro di pochi anni gli immigrati attratti dalle opportunità di lavoro sono stati
sostituiti da quelli espulsi dai conflitti e dall’invivibilità di intere aree del pianeta.
Molti autori continuano a ribadire la differenza tra profughi e rifugiati da un lato
(3) e migranti dall’altro: i primi sono migranti forzati che abbandonano le loro
case per sfuggire alla persecuzione e al conflitto e i secondi sono migranti
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volontari che si muovono per ragioni economiche o per altri vantaggi (Castels,
Miller, 2009). Si tratta di una tesi non priva di fondamento; tuttavia passate
esperienze e situazioni per certi versi analoghe – su tutte le vicende dei Balcani e
dell’Albania di metà anni ‘90 – ci mostrano che i profughi si trasformano
rapidamente in migranti; Essed, Frerks e Schrijvers nell’introduzione al loro
volume scrivono che la fuga “rappresenta una variante del più generale fenomeno
della migrazione, contiene molte delle caratteristiche delle esperienze che anche
gli altri migranti attraversano quando si separano fisicamente dalle loro regioni e
dai loro Paesi” (Essed, Frerks, Schrijvers, 2004).
Le garanzie riconosciute dal diritto internazionale ai rifugiati, fatte proprie dai
singoli governi nazionali, non sono quindi sufficienti a distinguerli dal punto di
vista sostanziale dai migranti economici; solo nel breve periodo, nell’attesa di
comparire presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della
protezione internazionale i rifugiati godono di tutele e assistenze specifiche ma
dopo, magari dopo un diniego, cosa accade? In cosa si differenzieranno dai più
comuni “immigrati irregolari”?
Se da un lato abbiamo una sorta di dovere morale nell’accoglienza anche in
relazione alle molte responsabilità dei nostri Paesi per lo stato di turbolenza dei
luoghi di origini, dall’altro c’è anche una questione di opportunità e di
convenienza: senza una accoglienza efficace c’è un rischio concreto di assistere
alla formazione di sacche di marginalità, di ghetti, di zone franche che nel lungo
periodo potrebbero causare problemi ben più seri, comprese dinamiche legate
alla stessa sicurezza, come mostrano tante vicende delle banlieue francesi, belghe,
ecc.
Molti di questi immigrati – o rifugiati – è probabile che rientreranno nel loro
Paesi ma molti resteranno e allora diventa necessario pensare a cosa fare: tra la
semplice accoglienza, che in molti casi serve appena a garantire le funzioni vitali –
un tetto, il cibo, gli abiti e poco più – e l’acquisizione della cittadinanza, epilogo
di una piena e definitiva stabilizzazione, occorre pensare a quali dinamiche di
integrazione costruire, magari proprio insieme a loro.
4. Poche riflessioni conclusive
Nelle pagine precedenti è stato messo in evidenza come l’immigrazione risulti
sempre più spesso caratterizzata da esperienze differenziate che riproducono e
rispecchiano la complessità del sistema internazionale. Le vicende degli ultimi
anni ci mostrano che non sarebbe del tutto fuori luogo parlare di una
“immigrazione liquida”, rifacendosi alla nota teoria descritta da Bauman (2002).
Ai migranti classici, stabilizzati, spesso naturalizzati, si aggiungono non solo le
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esperienze di trasnazionalismo ormai ampiamente descritte da tante ricerche, ma
anche una pluralità di situazioni che non sono né definite né definitive e che però
non possono però essere lasciate a se stesse.
In questo contesto la riflessione provocatoria è che se l’immigrazione diventa
davvero liquida anche l’integrazione dovrà assumere dei connotati nuovi e
probabilmente assumere a sua volta uno stato liquido.
In effetti parlare di integrazione significa prendere in considerazione tre
dimensioni: la prima è quella della processualità, che significa che l’integrazione
non si dà mai una volta per tutte, né tanto meno si acquista con un decreto, ma è
prima di tutto un processo che richiede tempo e che avviene nel tempo. Le
politiche migratorie dovranno quindi imparare anche ad essere flessibili e a
rispondere a progetti migratori ancora in divenire: per quanto possa apparire
paradossale e anche contraddittorio, questo aspetto risulterà decisivo nei prossimi
anni. Il secondo elemento caratterizzante è la multidimensionalità: l’integrazione
riguarda una pluralità di aspetti della vita della persona migrante, da quelli
economici a quelli sociali e culturali e non è detto che tutti corrano alla stessa
velocità. L’integrazione può avvenire con modalità e con tempi diversi rispetto a
ciascuno di questi aspetti; per esempio può verificarsi una rapida integrazione
economica senza un altrettanto incisivo percorso sul piano culturale e sociale e
viceversa e non è neppure detto che tutti, migranti e autoctoni, auspichino una
piena assimilazione. Infine, ed è l’aspetto più importante, è indispensabile
riflettere sulla cosiddetta bidirezionalità dell’integrazione nel senso che oltre a
coinvolgere gli immigrati nel processo di inserimento nella società di arrivo
coinvolge anche i cittadini della società di approdo che non solo si confrontano
con i nuovi arrivati, ma modificano i loro atteggiamenti e i loro valori, seppur in
modo più o meno consapevole.
Per favorire percorsi di coesione sociale i cittadini delle società riceventi
dovranno divenire protagonisti dell’integrazione invece di limitarsi a guardare
con sospetto alla società multiculturale.
Note
(1) Secondo il testo di riforma della legge sulla cittadinanza approvata alla Camera a ottobre 2015
e (mentre scriviamo) in attesa di essere approvata al Senato, acquista la cittadinanza per nascita chi
è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del
permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza c’è
bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità
genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento
della maggiore età. Se il genitore non ha reso tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di
acquisto della cittadinanza entro due anni dal raggiungimento della maggiore età.
(2) In questo modo può ottenere la cittadinanza il minore straniero, che sia nato in Italia o sia
entrato nel nostro paese entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato
regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale uno o più cicli presso istituti
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appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale
triennali o quadriennali idonei al conseguimento di una qualifica professionale.
(3) I termini rifugiato e profugo vengono spesso utilizzati come sinonimi, ma è lo status di
rifugiato l’unico sancito e definito nel diritto internazionale fin dalla Convenzione di Ginevra del
1951 mentre il profugo è colui che per diverse ragioni non è nelle condizioni di chiedere la
protezione internazionale.
Riferimenti bibliografici
Bauman Z. (2002), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari.
Castels S., Miller M.J. (2009), The Age of Migration, Palgrave Macmillan,
Basingstoke & New York.
De Vita R. (2008), Convivere nel pluralismo, Cantagalli, Siena.
Essed P., Frerks G. and Schrijvers J. (eds) (2004), Refugees and the
Transformation of Societies: Agency, Policies, Ethics and Politics, Berghahn, Oxford.
Palidda S. (2008), Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni,
Raffaello Cortina, Milano.
Sayad A. (1999), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano.
16
Prima parte
La presenza: evoluzione, caratteristiche, specificità
17
18
Capitolo 1
Migranti e figli dell’immigrazione in provincia di Arezzo
di Marco La Mastra
1. Introduzione
A quasi 15 anni di distanza dal primo rapporto sull’immigrazione in provincia di
Arezzo, la presenza straniera nel territorio aretino, così come nel resto del Paese,
si è completamente trasformata, alimentando, in egual misura, il bisogno di
conoscerne e comprenderne le varie caratteristiche, anche in relazione
all’evoluzione del fenomeno migratorio e alle mutevoli esigenze che esso pone in
termini quantitativi e qualitativi. Quella straniera rappresenta, infatti, una realtà
imprescindibile nel tessuto locale, non solo dal punto di vista della consistenza
numerica, ma anche per il peso che esercita nella realtà imprenditoriale e
occupazionale del territorio e per la pluralità dei temi che essa pone sul piano
sociale, culturale e del welfare.
La distribuzione e le peculiarità della popolazione straniera residente continuano a
rappresentare un determinante fattore nell’evoluzione del sistema socioeconomico aretino, oltre che per gli equilibri demografici complessivi. È quindi
importante riuscire a delineare un quadro che metta in rilievo le caratteristiche
dell’immigrazione in provincia di Arezzo dal punto di vista dell’insediamento
territoriale, monitorando e analizzando i dati delle presenze, prendendone in
esame anche l’evoluzione temporale. La Sezione Immigrazione, attiva da alcuni
anni all’interno dell’Osservatorio per le Politiche Sociali della Provincia di
Arezzo, registra periodicamente nei suoi rapporti i cambiamenti demografici
prodottisi nel territorio aretino per effetto delle migrazioni internazionali: la
percezione quotidiana di un territorio multiculturale di fatto, caratterizzato dalla
compresenza di una pluralità di culture, religioni e lingue, è qui supportata da
dati e analisi quantitative. L’analisi delle dinamiche migratorie avvenute
nell’ultimo decennio inoltre appare alquanto significativa al fine di dimostrare
quanto sia cambiata la composizione dei flussi dal punto di vista della provenienza
geografica. L’obiettivo è quello di fotografare le traiettorie seguite dalle comunità
straniere che nel corso del tempo sono divenute una presenza sempre più
significativa e un segmento sempre più consistente della popolazione complessiva
provinciale.
In questo approfondimento vengono presi in considerazione alcuni aspetti relativi
alla struttura della popolazione immigrata dal punto di vista demografico,
19
raffrontando, laddove possibile, i dati con quelli della popolazione totale, al fine
di evidenziare le peculiarità dei due aggregati. L’analisi mira inoltre a verificare se
l’immigrazione nella sua distribuzione geografica ricalchi quella della popolazione
generale o, viceversa, se le modalità di insediamento dei due aggregati presentino
significative differenze, cercando di indagare i possibili fattori che possono
determinare la concentrazione della comunità immigrata in particolari territori
della provincia o, al contrario la sua diffusione più o meno omogenea.
2. Il bilancio demografico nazionale
Introdurremo le informazioni relative ad alcune peculiarità generali del fenomeno
migratorio partendo dal dato nazionale, per poi declinare quello locale relativo al
territorio aretino.
Al 31 dicembre 2014 risiedono in Italia 60.795.612 persone, di cui più di 5
milioni di cittadinanza straniera. Nel corso del 2014 il numero dei residenti nel
nostro Paese è rimasto praticamente stabile. Il (seppur piccolo) aumento è
relativo alla sola componente maschile della popolazione (+17.026), mentre la
popolazione femminile è in diminuzione (-4.082). Lo stesso calcolo, effettuato
per la popolazione straniera, ha fatto registrare un incremento di 92.352 unità,
portando i cittadini stranieri residenti a 5.014.437, pari all’8,2% dei residenti. La
variazione reale, dovuta cioè alla dinamica naturale e migratoria, registra un
aumento di appena 2.075 unità. Il movimento naturale della popolazione (nati
meno morti) ha fatto registrare un saldo negativo di quasi 100 mila unità, che
segna un picco mai raggiunto in Italia dal biennio 1917-1918 (primo conflitto
mondiale) e ancora più elevato di quello del 2012, quando la mortalità fece
registrare valori particolarmente elevati nei mesi invernali.
La popolazione straniera risiede prevalentemente nel Nord e nel Centro. Il
primato delle presenze, sia in termini assoluti che percentuali, va alle regioni del
Nord-ovest dove abita il 34,4% dei residenti stranieri in totale (10,7 ogni 100
abitanti). Stessa percentuale di presenza sul totale della popolazione si ha nelle
regioni del Nord-est, dove si contano 1.252.013 cittadini stranieri, pari al 25,0%
del totale degli stranieri presenti in Italia, anche se il Nord-est è l’unica
ripartizione italiana in cui si rileva un decremento della popolazione straniera
residente (-0,1%). Nelle regioni del Centro si registrano quote analoghe di
popolazione straniera sia in termini di incidenza (10,6%) sia di quota sulla
popolazione straniera complessiva a livello nazionale (25,4%), mentre nel Sud e
nelle Isole la presenza straniera, seppure in crescita, risulta ancora ridotta.
Si può osservare che la popolazione residente nel nostro Paese è in realtà arrivata
alla crescita zero e che i flussi migratori riescono a malapena a compensare il calo
20
demografico dovuto alla dinamica naturale. Se i residenti si scompongono in base
alla loro cittadinanza (italiana e straniera), la componente italiana risulta in
diminuzione (-83.616), seppur mitigata dall’acquisizione della cittadinanza
italiana: la diminuzione dei residenti con cittadinanza italiana sarebbe ancora più
marcata se non si tenesse conto delle acquisizioni di cittadinanza registrate dai
Comuni nel corso del 2014, durante il quale circa 130 mila cittadini stranieri
hanno acquisito la cittadinanza italiana a vario titolo (per matrimonio,
naturalizzazione, riconoscimento iure sanguinis per aver avuto avi italiani, ecc.).
Per la sola popolazione straniera l’aumento è di 85.691 unità (+1,7%).
Analizzando il bilancio per le due componenti di popolazione residente, italiana e
straniera, si osserva che i saldi del movimento naturale e migratorio sono sempre
negativi per i residenti con cittadinanza italiana e positivi per quelli con
cittadinanza straniera. Il saldo naturale negativo relativo ai soli italiani (-165.043)
è quasi il doppio di quello totale, in parte bilanciato dal saldo naturale positivo
della popolazione straniera residente (+69.275). Anche per quanto riguarda il
saldo migratorio estero, quello relativo alla popolazione di cittadinanza italiana fa
registrare una perdita di 59.580 abitanti, mentre il saldo riferito alla componente
straniera mostra un guadagno di 200.891 abitanti.
Gli stranieri residenti in Italia sono cittadini di un Paese europeo per oltre il 50%
(oltre 2,6 milioni di individui), di cui di un Paese dell’Unione per poco meno del
30% (1,5 milioni), mentre gli Stati africani sono rappresentati per un ulteriore
20%, prevalentemente da cittadini di Paesi dell’Africa settentrionale (13,5%) e
occidentale (5,7%). Più o meno la stessa quota sul totale (20%) spetta ai cittadini
dei paesi asiatici: si tratta per entrambi i continenti di circa 1 milione di persone.
Il continente americano conta meno di 400 mila residenti in Italia (7,7%), quasi
tutti cittadini di Paesi dell’America centro meridionale (7,4%).
Complessivamente, il numero delle diverse nazionalità residenti presenti è di
poco inferiore a 200; le prime dieci cittadinanze in ordine di importanza
numerica da sole raggruppano quasi il 65% del totale dei residenti stranieri. A
livello nazionale la collettività più numerosa è quella rumena con 1.131.839
residenti, il 22,6% del totale. Seguono i cittadini dell’Albania (490.483, il 9,8%),
del Marocco (449.058, il 9,0%), della Cina (265.820, il 5,3%) e dell’Ucraina
(226.060, il 4,5%). A livello territoriale disaggregato, almeno nei comuni con
una certa presenza straniera, il ventaglio delle cittadinanze rappresentate risulta
normalmente piuttosto ampio. Le diverse collettività mostrano del resto modelli
insediativi molto differenti tra loro, con riferimento alla distribuzione sul
territorio, alla composizione per genere, alla dimensione dei nuclei familiari e
spesso anche all’attività lavorativa svolta nel nostro Paese (tanto che per alcune
collettività si parla di vere e proprie “specializzazioni produttive”).
21
3. La presenza in provincia di Arezzo
Dopo aver registrato nel 2013, per la prima volta, dopo circa 30 anni di crescenti
flussi immigratori dall’estero, un calo nella presenza di cittadini stranieri in
provincia di Arezzo, nell’anno 2014 tale declino non ha avuto ulteriore conferma
e il numero di stranieri residenti al 31.12.2014 si è attestato a 37.786 (contro i
37.598 dell’anno precedente). In pratica, si è tornati al dato assoluto di quattro
anni fa (2010), quando il numero dei residenti stranieri era pressoché identico
all’attuale. Corrispondentemente, anche il dato di incidenza è invariato: oggi i
cittadini stranieri sono il 10,9% della popolazione complessivamente residente sul
territorio provinciale. Per gli effetti della crisi economica e sociale globale, i flussi
in entrata di cittadini stranieri si sono progressivamente ridimensionati ogni anno
(vedi Tabella 1 e Grafico 1), fino ad arrestarsi nel 2012: si consideri, difatti, che
negli ultimi anni gli incrementi di tale presenza sono stati sostanzialmente
alimentati dalle nuove nascite da nuclei familiari stranieri (le cosiddette “seconde
generazioni”).
Nel 2014 le nascite da coniugi stranieri residenti, tornate a crescere dopo l’“annus
horribilis” 2013, sono state sufficienti ad arginare il diffuso decremento, generato
da nuovi flussi in uscita di individui e di interi nuclei familiari, sia verso i paesi di
origine, sia verso altre regioni italiane, sia infine verso Paesi stranieri, soprattutto
europei, visto che a fronte di mutate condizioni economiche la risposta da parte
di alcuni migranti è stata una rinnovata mobilità interna e internazionale. Queste
cifre evidenziano, per altro verso, che permane una certa attrazione (anche se in
attenuazione) degli stranieri verso la nostra provincia: l’afflusso sempre costante
di giovani immigrati che nel territorio aretino cercano un’opportunità di vita e di
lavoro, che nel 2013 ha subito un forte rallentamento, sembra essersi comunque
(temporaneamente) ridimensionato.
Tabella 1 - Stranieri residenti in provincia di Arezzo. Serie storica ultimi 10 anni
Anno
2003
2007
2009
2010
2011
2012
2013
2014
Stranieri residenti
17.322
29.278
35.516
37.691
39.480
40.326
37.598
37.786
Incrementi % annuali
26,9
21,8
7,4
6,1
4,7
2,1
-6,8
0,5
22
Incidenza %
5,2
8,6
10,2
10,8
11,5
10,8
10,9
Grafico 1- Serie storica dell’immigrazione in provincia di Arezzo
39'480
40'000
40'326
37'598 37'786
37'691
35'516
35'000
33'074
29'278
30'000
24'041
25'000
22'526
20'263
20'000
17'322
13'283 13'647
15'000
11'626
10'000
5'000
0
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
4. La distribuzione territoriale
La popolazione straniera si distribuisce tra i comuni della provincia di Arezzo in
maniera sempre più simile alla popolazione complessiva: si registra maggiore
incidenza percentuale nelle municipalità più grandi del territorio, anche se
persistono in alcuni comuni montani come Pratovecchio Stia e Poppi presenze
intorno al 12%. Tre sono i comuni con un’incidenza superiore al 15%: Foiano
della Chiana, Montevarchi e Bibbiena (si segnala che quest’ultimo comune, che da
vari anni registrava il primato percentuale delle presenze, nell’arco di due anni ha
visto ridursi di circa 300 unità la popolazione straniera residente). La città di
Arezzo, benché sia la più popolata da cittadini stranieri con una comunità di quasi
12.000 unità (la zona Aretina concentra il 38,4% di tutti gli stranieri), ha
un’incidenza dell’11,8% sulla popolazione complessiva residente (Tabella 2).
L’incidenza della popolazione immigrata sul totale della popolazione residente
varia tra le cinque zone socio sanitarie: il Casentino da molti anni si conferma la
vallata con la maggiore concentrazione di cittadini non italiani, pari al 12,1%, una
percentuale molto alta se si considera la media nazionale (8,2%) e quella
provinciale (10,9%). Seguono con un valore pari all’11,5% la Valdichiana,
l’11,1% la zona Aretina, ed infine il Valdarno e la Valtiberina con il 10,0% circa
(Tabella 3).
Rispetto allo scorso anno, il dato della presenza risulta sostanzialmente
confermato nelle varie zone: si va dal decremento più vistoso nel Casentino (2,7%), che negli ultimi anni ha visto contrarsi la popolazione straniera,
23
all’incremento del Valdarno che, invece, negli ultimi anni ha visto
progressivamente aumentare le presenze (+2,0% nel 2014). Nel panorama
comunale, abbiamo 17 territori che registrano un decremento (con un valore
massimo di -11,0% di Caprese Michelangelo) e 20 comuni che invece hanno un
incremento annuale positivo, con Laterina e Bucine che segnalano incrementi
superiori all’8%.
Tabella 2 - Comuni della provincia di Arezzo con la più alta incidenza di residenti stranieri all’1/1/2015
Comuni
Foiano della Chiana
Montevarchi
Bibbiena
Pratovecchio Stia
San Giovanni
Poppi
Arezzo
Cast. Fiorentino
Sansepolcro
Pieve S. Stefano
Cortona
Castiglion Fibocchi
Sestino
Chitignano
Talla
Laterina
Cast. Focognano
Stranieri
residenti
1.550
3.829
1.869
715
2.061
743
11.773
1.528
1.788
349
2.405
230
140
92
110
358
Totale
popolazione
9.644
24.454
12.403
5.891
17.118
6.251
99.434
13.317
16.012
3.200
22.566
2.201
1.371
903
1.083
3.544
% Stranieri
su residenti
16,1
15,7
15,1
12,1
12,0
11,9
11,8
11,5
11,2
10,9
10,7
10,4
10,2
10,2
10,2
10,1
320
3.197
10,0
Incremento %
2013/2014
5,4
0,1
-6,1
-1,7
2,3
2,3
0,8
-1,0
-1,4
-1,0
0,9
-8,4
-3,4
-3,2
-0,9
9,1
0,9
Tabella 3 - Distribuzione zonale residenti stranieri. Percentuali di presenza, incidenza e decremento
Zone
Casentino
Valdarno
Valdichiana
Valtiberina
Aretina
Stranieri
residenti
2012
4.752
9.940
6.443
3.113
16.078
Stranieri
residenti
2013
4.472
9.610
5.984
3.051
14.481
Stranieri
residenti
2014
4.351
9.801
6.064
3.043
14.527
Totale
popolaz.
2014
35.960
95.978
52.658
30.545
131.301
Stranieri
residenti
(% di col)
(2014)
11,5
25,9
16,0
8,1
38,4
Provincia di Arezzo
40.326
37.598
37.786
346.442
100,0
24
Incidenza
% 2014
Incremento
% 2013-14
12,1
10,2
11,5
10,0
11,1
-2,7
2,0
1,3
-0,3
0,3
10,9
0,5
5. Il genere e l’età
Prosegue in provincia di Arezzo la crescente femminilizzazione della popolazione
straniera. Nel nostro territorio gli uomini e le donne rappresentano
rispettivamente il 46,1% (17.419 uomini) e il 53,9% (20.367 donne). Questo
dato non rappresenta una sorpresa: da quando nel 2006 si è prodotto un
sostanziale allineamento tra la componente maschile dell’immigrazione,
inizialmente maggioritaria, e quella femminile, quest’ultima è sempre stata
avanti, aumentando progressivamente il primato ogni anno, seppure con piccole
frazioni percentuali.
Il quadro che emerge mette in evidenza quanto le differenze di genere
rappresentino un fattore determinante nei flussi degli immigrati e
nell’inserimento delle comunità straniere nella società di accoglienza,
contribuendo all’evoluzione e alla caratterizzazione dei percorsi migratori in
provincia di Arezzo.
Grafico 2 - Componenti maschile e femminile della popolazione straniera residente
M
20000
F
15000
10000
5000
0
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
Dall’esame della struttura per età degli stranieri residenti, emerge una
popolazione molto giovane: si registra uno scarto di più di 15 anni sull’età media
tra autoctoni e stranieri, poiché per i migranti è di 33,1 anni (un dato che dopo
vari anni di crescita, si sta stabilizzando), mentre per gli italiani arriva a 48,4 anni.
25
Tra gli italiani gli anziani ultrasettantenni sono il 19,7% contro il 2,2% degli
stranieri; all’opposto i bambini sotto i 10 anni sono molto più numerosi in
proporzione tra gli stranieri (13,0%) in confronto agli italiani (7,9%). Discorso
analogo possiamo riscontrarlo per le fasce d’età, infatti tra gli stranieri la fascia
d’età più rappresentata è quella dei 30-34enni, mentre per gli italiani si attesta tra
i 45-49 anni.
Tabella 4 - Distribuzione di genere della popolazione straniera relativa alle 15 nazionalità più numerose
all’1/1/2015
Nazionalità
Aretina
Casentino
Valdarno
M
M
M
F
F
F
Valdichiana
M
F
Valtiberina
Provincia
M
M
F
F
Romania
39,1 60,9 46,5 53,5 35,9 64,1 41,5 58,5 31,1
68,9 40,0 60,0
Albania
India
51,9 48,1 42,7 57,3 51,4 48,6 50,9 49,1 55,8
59,0 41,0 50,0 50,0 58,2 41,8 54,0 46,0 61,3
44,2 51,7 48,3
38,7 57,4 42,6
Marocco
Bangladesh
54,0 46,0 45,2 54,8 54,6 45,4 52,2 47,8 49,6
61,3 38,7 47,1 52,9 63,3 36,7 60,0 40,0
-
50,4 52,3 47,7
60,1 39,9
Cina
Pakistan
53,4 46,6 45,5 54,5 49,1 50,9 55,2 44,8 48,0
68,4 31,6 68,4 31,6 70,6 29,4 45,5 54,5 72,0
52,0 52,0 48,0
28,0 68,4 31,6
Polonia
Macedonia
20,7 79,3 32,0 68,0 22,8 77,2 39,0 61,0 33,0
51,8 48,2 56,9 43,1 54,2 45,8 56,4 43,6 61,2
67,0 27,5 72,5
38,8 55,8 44,2
Kosovo
Filippine
56,5 43,5 56,6 43,4 53,3 46,7 54,4
46,0 54,0 75,0 25,0 55,9 44,1 45,2 54,8 44,7
45,6 54,9 45,1
55,3 46,8 53,2
Dominicana Rep.
Ucraina
42,6 57,4 33,3 66,7 42,7 57,3 45,5 54,5 40,0
23,9 76,1 16,7 83,3 18,9 81,1 9,1 90,9 25,2
60,0 42,6 57,4
74,8 20,7 79,3
Germania
40,0 60,0 46,6 53,4 41,3 58,7 40,2 59,8 40,0
60,0 41,9 58,1
Regno Unito
37,7 62,3 48,6 51,4 31,9 68,1 41,6 58,4 50,4
49,6 42,5 57,5
Con il passare degli anni, la curva di anzianità dei cittadini stranieri si sta
progressivamente abbassando a vantaggio delle fasce d’età più alte. Difatti, se
confrontiamo la struttura della popolazione in 4 annualità (1997, 2003, 2008,
2014: Grafico 4) si nota come le basi delle piramidi per classe di età siano
incrementate e, al contempo, continua lo spostamento della popolazione verso le
età più adulte. La popolazione in età lavorativa non è in grado di compensare lo
stabilizzarsi delle generazioni arrivate da più tempo, che tra l’altro contribuiscono
all’evoluzione delle nascite.
Nonostante ciò, tali modificazioni della struttura demografica della popolazione
immigrata, continuano comunque a contribuire al ringiovanimento della struttura
per età della popolazione: da una parte perché gli immigrati stessi sono per la
maggior parte giovani, dall’altra per la loro più alta prolificità.
26
Grafico 3 - Distribuzione fasce di età: confronto italiani e stranieri (1/1/2015)
100 e +
95-99
90-94
stranieri
85-89
Italiani
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
5-9
0-4
-15.00%
-10.00%
-5.00%
0.00%
5.00%
10.00%
15.00%
Grafico 4 - Evoluzione struttura popolazione straniera rispetto all’età
20
18
% sul totale della popolazione
16
1997
2003
2008
2014
14
12
10
8
6
4
2
0
0-4
5-9
1014
1519
2024
2529
3034
3539
4044
4549
5054
5559
6064
6569
7074
7579
8084
85- 90 e
89
+
Fasce età
Tabella 5 - Distribuzione fasce età cittadini stranieri. Valori percentuali (1/1/2015)
Fascia
età
2014
(%)
0-4
5-9
1014
1519
2024
2529
3034
3539
4044
4549
5054
5569
Oltre
60
7,1
5,9
4,8
4,9
6,8
10,8
12,1
11,7
10,1
8,3
6.0
4,7
6,7
27
6. Le nazionalità
Nella provincia di Arezzo all’1/1/2015 risiedevano cittadini di 134 stati esteri,
benché la metà provenivano da due stati europei, Romania e Albania. I rumeni
residenti sono 13.345 e rappresentano il 35,3% del totale complessivo; gli
albanesi, collettività con una storia migratoria consolidata nella nostra provincia
ammontano a 5.387 unità (il 14,3%). A seguire, tutte le altre nazionalità estere
come indicato nella Tabella 6, benché nessuna superi una presenza del 6%.
Tabella 6 - Principali nazionalità stranieri residenti (1/1/2015)
Cittadinanza
Romania
Albania
India
Marocco
Bangladesh
Cina
Pakistan
Polonia
Macedonia
Kossovo
Filippine
Ucraina
Dominicana Rep.
Germania
Regno Unito
Nigeria
Tunisia
Bulgaria
Sri Lanka
Moldova
Altre nazionalità
2008
11880
5409
1348
1899
1694
606
786
1070
714
252
452
452
447
521
569
161
389
325
301
143
3654
2009
12621
5720
1595
2056
1805
688
897
1149
766
390
500
498
501
527
602
190
413
343
315
174
3766
2010
13366
5904
1781
2153
1922
843
1011
1251
722
395
538
537
524
536
558
233
428
370
351
204
4064
2011 2012
14150 14479
5995 5916
1947 2071
2277 2311
2022 2094
978
1112
1085 1198
1289 1293
750
737
606
650
574
621
558
558
534
531
524
520
560
535
270
352
432
425
375
383
354
350
213
219
3987 3971
2013
13219
5525
2080
2120
1801
1218
1258
1170
767
777
654
528
486
482
475
343
378
350
308
208
3451
2014
13345
5387
2152
2057
1716
1339
1259
1158
769
750
679
523
523
488
464
394
377
356
325
218
3507
2014 - %
su totale
35,3
14,3
5,7
5,4
4,5
3,5
3,3
3,1
2,0
2,0
1,8
1,4
1,4
1,3
1,2
1,0
1,0
0,9
0,9
0,6
9,3
Incr. %
13/14
1,0
-2,5
3,5
-3,0
-4,7
9,9
0,1
-1,0
0,3
-3,5
3,8
-0,9
7,6
1,2
-2,3
14,9
-0,3
1,7
5,5
4,8
1,6
Totale
33072
35516
37691
39480 40326
37598
37786
100,0
0,5
La graduatoria dei primi cinque Paesi di cittadinanza degli stranieri residenti resta
immutata rispetto all’anno precedente, tuttavia le diverse collettività nel corso
del 2014 hanno subito incrementi di entità e a volte anche di segno differenti.
Interessante notare l’andamento delle presenze per le nazionalità più presenti,
infatti mentre rumeni e indiani registrano una crescita nell’ultimo anno, gli
albanesi e le altre due che seguono nella graduatoria, storicamente presenti sul
territorio provinciale, ovvero i marocchini e i bangladesi proseguono la discesa
iniziata nel 2013. La collettività del Bangladesh, molto forte numericamente nella
28
città di Arezzo, ha fatto registrare nel breve giro di due anni, una riduzione di
circa il 18%, doppia rispetto al decremento medio provinciale nello stesso
biennio. In controtendenza, invece, i cinesi la cui presenza cresce nell’ultimo
biennio del 20,0%. È interessante notare che la collettività straniera più giovane
rimane la bangladese con un’età media intorno ai 25 anni.
7. Le famiglie
Anche il contributo positivo alla natalità generato dalle donne straniere mostra i
primi segnali di un’inversione di tendenza. Infatti, se l’incremento delle nascite
registrato negli anni precedenti era dovuto principalmente alle donne straniere,
negli ultimi due anni il numero di bambini stranieri nati ad Arezzo ha iniziato
progressivamente a ridursi, pur restando stabile in termini di incidenza
percentuale. La crescita dei nati stranieri era stata particolarmente rilevante a
partire dall’inizio del nuovo millennio, portando l’incidenza dei nati stranieri sul
totale dei nati al 20%.
L’afflusso migratorio ha permesso (e permette tutt’oggi) al nostro territorio di
“rinverdire” la popolazione residente, che altrimenti sarebbe (stata) destinata al
declino demografico, poiché il calo della natalità e il progressivo invecchiamento
della popolazione viene compensato da una fecondità superiore delle donne di
origine straniera. Nel 2014 (così come per l’annualità precedente) due nati su
dieci in provincia erano stranieri.
Tabella 7 - Numero dei nati stranieri nel 2014 suddivisi per zona
Zona
Aretina
Casentino
Valdarno
Valdichiana
Valtiberina
Totale
Nati Stranieri
194
64
171
62
54
545
Totale nati
1.003
278
798
401
237
2.717
% nati stranieri sul
totale nati
19,3
23,0
21,4
15,5
22,8
20,1
Complessivamente le G2 (seconde generazioni), ovvero gli stranieri nati in Italia
e oggi residenti nella nostra provincia, ammontano a 5.431 unità e rappresentano
il 14,7% di tutti gli stranieri residenti (lo scorso anno erano il 13,5% e quattro
anni fa il 12,8%). Anche per le G2, dunque, si è registrata, dopo la riduzione del
2013, un nuovo aumento, il che evidenzia come la mobilità in uscita abbia
coinvolto in maniera meno consistente nuclei familiari già stabilizzati e le madri
con i figli in tenera età. Le fasce d’età ove si registra il più alto numero di nati in
Italia sono quelle più giovani: siamo al 45,8% nella fascia 0-5 anni e al 31,9%
29
nella fascia 5-9 anni. Anche se tali percentuali si stanno abbassando a favore delle
età superiori, questo significa che le G2 oggi sono in prevalenza a scuola e nei
servizi educativi.
Tabella 8 - Stranieri nati in Italia (G2) residenti in provincia di Arezzo al 1/1/2015 suddivisi per zona
Zona
Aretina
Casentino (*)
Valdarno
Valdichiana
Totale G2
2.123
546
1.482
852
Valtiberina (*)
Totale
G2 % di colonna
39,1
10,1
27,3
15,7
% G2 sul totale stranieri
14,6
15,0
15,1
14,1
428
7,9
14,7
5.431
100,0
14,7
* Il dato del Casentino e della Valtiberina sono parziali, in quanto non è stato possibile rilevare le informazioni dalle
anagrafi dei Comuni di Pratovecchio Stia e Sestino
Tabella 9 - Stranieri nati in Italia (G2) residenti in provincia di Arezzo suddivisi per fasce d'età (1/1/2015)
Fasce d’età
0-4
5-9
10-14
15-19
20-24
25-29
30 e oltre
Totale
Valori assoluti
2.487
1.733
841
219
34
31
86
5.431
%
45,8
31,9
15,5
4,0
0,6
0,6
1,6
100,0
8. I matrimoni misti in provincia di Arezzo (di G. Tizzi)
Un’importante dimensione dei fenomeni migratori che investe le relazioni di
genere e il processo di integrazione è rappresentata dai matrimoni e dalle coppie
miste. La letteratura ha evidenziato come il concetto di matrimonio misto abbia
attraversato nel tempo accentuazioni e versioni differenti, caratterizzandosi a
seconda del contesto sociale e storico. Come sottolinea Ambrosini (2005) perché
si parli di mixité occorre che sia percepita una diversità tra i partner, la cui
connotazione si è modificata nel tempo: qualche anno fa l’unione tra una donna
italiana e un cittadino americano o viceversa aveva molte probabilità di essere
considerata e analizzata come un matrimonio misto, mentre oggi questo non
accade, o si verifica raramente.
Il presente paragrafo prende in esame la così detta “mixitè sentimentale” in
provincia di Arezzo attraverso l’utilizzo dei dati dell’Istat che censisce i
matrimoni completi del dato nazionalità dei partner. Si tratta delle Schede dei
30
Matrimoni e la registrazione è effettuata tramite gli Uffici di Stato Civile dei
Comuni. Leggere oggi le statistiche sui matrimoni misti anche in provincia di
Arezzo ci permette di leggere il volume e la velocità di mescolamento sia a livello
nazionale che locale.
Nel nostro paese come in altri, la maggioranza delle unioni miste legano un uomo
nativo con una donna straniera. Nel 2013 in Italia (Tabella 10) sono stati celebrati
194.057 matrimoni, 13.081 in meno rispetto al 2012. Tale tendenza alla
diminuzione si è particolarmente accentuata negli ultimi cinque anni, registrando
dal 2008 una contrazione di oltre 52mila matrimoni. La minore propensione a
sancire con il vincolo matrimoniale la prima unione è da mettere in relazione
anche con la progressiva diffusione delle unioni di fatto tra partner celibi e nubili.
Tabella 10 - Principali caratteristiche dei matrimoni celebrati in Italia (2008-2013)
2008
2009
2010
2011
2012
2013
Matrimoni totali (valori assoluti)
246.613 230.613
217.700
204.830
207.138
194.057
Variazioni annuali
-3.747
-16.000
-12.913
-12.870
2.308
-13.081
185.749 175.043
168.610
155.395
153.311
145.571
di cui:
Con sposi entrambi italiani
Primi matrimoni (valori assoluti)
Variazione rispetto all'anno
precedente (valori assoluti)
Con almeno uno sposo straniero
Primi matrimoni e successivi
(valori assoluti)
Variazione rispetto all'anno
precedente (valori assoluti)
Matrimoni con rito religioso
(Valori assoluti)
Matrimoni con rito civile
(Valori assoluti)
Matrimoni con rito civile
(per 100 matrimoni totali)
Regime di separazione dei beni
(per 100 matrimoni totali)
-6833
-10.706
-6.433
-13.215
-2.084
-7.740
36.918
32.059
25.082
26.617
30.724
26.080
2.359
-4.859
-6.977
1.535
4.107
-4.644
155.972 144.842
138.199
124.443
122.297
111.545
90.641
85.771
79.501
80.387
84.841
82.512
36,8
37,2
36,5
39,2
41
42,5
62,7
64,2
66,1
66,9
69,5
69,5
Fonte: Istat
Consideriamo ora la situazione in provincia di Arezzo.
Nel 2013 sono stati celebrati 1.065 matrimoni, 139 in meno rispetto al 2012
(Tabella 11). Tra questi 820 sono i matrimoni con entrambi i coniugi italiani e
244 quelli con almeno uno sposo/a straniero/a. Diminuiscono entrambi i gruppi,
ma la contrazione maggiore la registriamo per i matrimoni con almeno un
coniuge straniero con -73.
31
L’età del primo matrimonio è 35,5 anni per le donne e 34,9 anni per gli uomini,
confermandosi così il trend di innalzamento dell’età al primo matrimonio.
Tabella 11 - Principali caratteristiche dei matrimoni celebrati in provincia di Arezzo (2008-2013)
Matrimoni totali (valori assoluti)
2008
2009
2010
2011
2012
2013
1.370
1.267
1.312
1.154
1.204
1.065
5
-103
45
-158
50
-139
1.009
882
922
818
977
855
836
730
860
748
821
706
280
-64
37
-125
18
-42
361
345
335
318
344
244
271
256
249
233
250
177
-15
-7
-16
17
-73
770
688
724
578
608
498
600
579
588
576
596
567
43,8
45,7
44,8
49,9
49,5
53,2
67,2
69,1
58,4
57,8
57,3
54,9
Variazioni annuali
di cui:
Con sposi entrambi italiani
Primi matrimoni (valori assoluti)
Variazione rispetto all'anno
precedente (valori assoluti)
Con almeno uno sposo straniero
Primi matrimoni e successivi
(valori assoluti)
Variazione rispetto all'anno
precedente (valori assoluti)
Matrimoni con rito religioso
(Valori assoluti)
Matrimoni con rito civile
(Valori assoluti)
Matrimoni con rito civile
(per 100 matrimoni totali)
Regime di separazione dei beni
(per 100 matrimoni totali)
Fonte: Istat
Tabella 12 - Principali caratteristiche dei primi matrimoni e degli sposi in provincia di Arezzo (anni 20122013)
Matrimoni tra celibi e nubili
2012
2013
Matrimoni
totali
Quozienti di
nuzialità (per
mille)
1.204
1.065
3,5
3,1
Età media al primo
matrimonio
Valori
assoluti
Valori
percentuali
M
F
998
883
82,9
82,9
34,6
34,9
34,9
35,5
Fonte: Istat
Anche nel territorio aretino i matrimoni celebrati civilmente rappresentano una
fetta significativa del totale: nel 2013 sono il 53,2% (567 su 1.065). Come
possiamo evincere dalla Tabella 13 nell’anno preso in esame su 244 matrimoni
misti l’89% è stato celebrato civilmente e nella stragrande maggioranza si tratta di
prime unioni. Mentre nel caso di coniugi entrambi italiani scelgono il rito civile il
32
42,6% dei 821 matrimoni celebrati. Nel 2013 la percentuale di matrimoni civili
in provincia di Arezzo sul totale è del 53,2%, superiore al dato nazionale di quasi
10 punti percentuali (42,5%). La scelta sempre più frequente del rito civile è da
attribuire in parte alla crescente diffusione sia dei matrimoni successivi al primo
sia dei matrimoni con almeno uno sposo straniero.
Tabella 13 - Matrimoni per tipologia di coppia, rito e tipo di matrimonio in provincia di Arezzo, valori
assoluti e percentuali (anni 2008-2013)
Tipologia di coppia
Entrambi italiani
Almeno uno straniero
Totale
Tipo di matrimonio
Relig.
Civile
Tot.
Relig.
Civile
Tot.
Relig.
Civile
Tot.
Primi matrimoni
Matrimoni success.
Totale
25
2
27
152
65
217
177
67
244
467
4
471
2013
239
111
350
706
115
821
492
6
498
391
176
567
883
182
1.065
Primi matrimoni
Matrimoni success.
Totale
14,1
3,0
11,1
85,9
97,0
88,9
100
38
100
66,1
3,5
57,4
33,9
96,5
42,6
100
100
100
55,7
3,3
46,8
44,3
96,7
53,2
100
100
100
Primi matrimoni
Matrimoni success.
Totale
56
2
58
215
88
303
271
90
361
699
13
712
2008
183
114
297
882
127
1.009
755
15
770
398
202
600
1.153
217
1.370
Primi matrimoni
Matrimoni success.
Totale
20,7
2,2
16,1
79,3
97,8
83,9
100
100
100
79,3
10,2
70,6
20,7
89,8
29,4
100
100
100
65,5
6,9
56,2
34,5
93,1
43,8
100
100
100
Fonte: Istat
Nel 2013 sono stati celebrati 244 matrimoni misti (Tabella 14), di cui 96 con
sposo italiano e sposa straniera, 25 con sposo straniero e sposa italiana e 123 con
entrambi i coniugi stranieri. Rispetto al dato complessivo dei matrimoni con
almeno un coniuge straniero notiamo una diminuzione rispetto al 2012 di 100
matrimoni. Ciò non toglie tuttavia intensità al fenomeno sociale poiché
rappresenta uno dei processi di mutamento provocati dall’immigrazione più
delicati e temuti in quanto concerne proprio la famiglia, una delle strutture
fondanti e più persistenti della società italiana. Di fatto in provincia di Arezzo circa il
23% dei matrimoni celebrati ha almeno uno sposo straniero a differenza del dato
nazionale che si ferma al 13,0%. Ad incidere sul dato complessivo di Arezzo sono
i matrimoni con entrambi i coniugi stranieri che rappresentano l’11,5% del totale
matrimoni e il 50% di quelli con almeno un coniuge straniero. È opportuno
considerare che, come vedremo in seguito, oltre l’80% dei matrimoni tra
33
stranieri riguarda cittadini inglesi, americani, canadesi, irlandesi, finlandesi etc.
(Tabella 15). Quindi se dal totale della mixité aretina (244) sottraiamo questa
quota, la percentuale di incidenza percentuale si riduce molto (13,8%).
Tabella 14 - Matrimoni per tipologia di coppia
Sposi entrambi
italiani
V.A.
Tipologia di coppia
Sposo
Sposo italiano
straniero
sposa straniera
sposa
italiana
V.A.
V.A.
V.A.
%
3.206 1,6 8.612
Matrimoni con
almeno
uno sposo
straniero
V.A.
Italia
Centro
178.213
%
87,0
31.783
82,0
3.581
9,2
777
2,0 2.639
6,8
6.997
18,0
Toscana
9.597
77,0
1.174
9,4
276
2,2 1.416 11,4
2.866
23,0
836
860
821
72,4
71,4
77,1
105
119
96
9,1
9,9
9,0
23
35
25
2,0
2,9
2,3
318
344
244
27,6
28,6
22,9
Provincia AR 2011
Provincia AR 2012
Provincia AR 2013
14.799
%
7,2
Sposi
entrambi
stranieri
190
190
123
%
4,2
26.617
%
13,0
16,5
15,8
11,5
Tabella 15 - Matrimoni con almeno uno sposo stranieri per tipologia di coppia e principali cittadinanze in
provincia di Arezzo. Valori assoluti e percentuali (anno 2013)
Paesi di
cittadinanza
Sposo italiano
Sposa straniera
VA
%
Sposo straniero
Sposa italiana
VA
%
Romania
28
29,2
Albania
4
16,0
Regno Unito
35
28,5
Polonia
11
11,5
Tunisia
4
16,0
Romania
14
11,4
Albania
6
6,3
Dominicana
3
12,0
USA
11
8,9
Dominicana Rep.
4
4,2
Regno U.
2
8,0
Canada
9
7,3
Marocco
4
4,2
Paesi Bassi
2
8,0
Irlanda
8
6,5
Brasile
3
3,1
Pakistan
2
8,0
Norvegia
7
5,7
Cina
3
3,1
-
-
-
Finlandia
6
4,9
Germania
3
3,1
-
-
-
Paesi Bassi
6
4,9
Nigeria
3
3,1
-
-
-
Germania
5
4,1
Russia
3
3,1
-
-
-
Australia
4
3,3
USA
3
3,1
-
-
-
Austria
3
2,4
Ucraina
3
3,1
-
-
-
Francia
3
2,4
Altri paesi
22
22,9
Altri paesi
8
32,0
Altro
9
7,3
Totale
96
100
Totale
25
100
Totale
123
100
Paesi di
cittadinanza
34
Paesi di
cittadinanza
Sposi entrambi
stranieri (a) (b)
VA
%
Ma quali sono le caratteristiche di queste unioni?
- Innanzitutto osserviamo che la mixité le connota in maniera abbastanza decisa.
Nel 2013 su 244 matrimoni misti celebrati 123 sono entrambi stranieri (in
termini percentuali circa il 50%, 96 (39%) sono del tipo uomo italiano e donna
straniera e solo 25 (il 10%) è formato da donna straniera e uomo italiano. A
questo proposito è utile evidenziare che la tipologia familiare “miste-miste” in cui
entrambi i coniugi sono stranieri, e che costituisce una grossa fetta della mixité
aretina è per lo più costituita da cittadini del Regno Unito (28,5%), dalla
Romania (11,4%) e dagli Stati Uniti (8,9%). Escludendo, come abbiamo detto
all’inizio di questo paragrafo il Regno Unito e gli Stati Uniti che oggigiorno
possono non esser considerati e analizzati come un matrimonio misto, risulta
interessante il dato della Romania. La maggior consistenza rispetto agli anni
precedenti segna una stabilizzazione delle famiglie rumene.
- Escludendo questa parte di unioni rileviamo che la maggior parte dei matrimoni
misti è formato da marito italiano e moglie straniera. Nel dettaglio delle
nazionalità, le donne straniere che sposano uomini aretini risultano provenire
sempre più spesso dall’est Europa: prima la Romania con il 29,2% a cui seguono
con notevole distanza la Polonia (11,5%) e l’Albania (6,3%).
- Quando ad essere straniero è il marito, e nel nostro territorio si esprime in
numeri assoluti di gran lunga inferiori rispetto ai precedenti, non si evidenziano
concentrazioni significative nella distribuzione tra le varie nazionalità.
Concludiamo questo paragrafo con alcune considerazioni che gli studiosi del tema
hanno sottolineato in modo da evitare letture semplicistiche e facili ottimismi
sull’avanzamento della mixité. Peruzzi (2008; 2009) ha notato che se da un lato
le unioni miste sono diventate accessibili a tutte le fasce della popolazione
autoctona, e quindi non più solo fenomeno elitario tipico di classi sociali e
professioni privilegiate (ad esempio diplomatici, artisti, insegnati, politici), è però
anche vero che la mescolanza sentimentale è una strategia di integrazione molto
selettiva: uomini e donne stranieri devono portarsi in dote un’età più giovane o
un grado di istruzione più elevato per poter entrare nel gioco delle scelte
matrimoniali. Occorre, inoltre, tenere in considerazione le asimmetrie di età tra i
coniugi che spesso vengono identificate dall’opinione pubblica come matrimoni
combinati, ovvero un retaggio antico basato sul calcolo delle opportunità
piuttosto che sulla passione e sul sentimento, come la morale attuale imporrebbe,
e dunque falso (Peruzzi, 2009, p. 73).
Non stupisce quindi che gli sviluppi di questi matrimoni pongano in rilievo la loro
fragilità e instabilità. Il tasso di divorzio dei matrimoni misti è circa il doppio di
quelli tra italiani e la durata media della convivenza è di 10 anni, contro i 14 delle
unioni fra autoctoni (Peruzzi, 2009, p. 72). Nella maggior parte dei casi è la
coppia uomo italiano e donna straniera che arriva alla separazione (69% dei casi di
35
separazione tra coppie miste), dato ovviamente in linea con la maggior
propensione degli uomini italiani a sposare donne di origine straniera (Centro
Sudi e Ricerche Idos, 2013).
Riferimenti bibliografici
Luatti L., Tizzi G., La Mastra M. (a cura di) (2012), Vivere insieme. Quarto
rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, Provincia di
Arezzo, Oxfam Italia, Arezzo.
ISTAT (2015), Bilancio demografico nazionale – Anno 2014,
http://www.istat.it.
Peruzzi G. (2008), Amori possibili. Le coppie miste nella provincia italiana,
FrancoAngeli, Milano.
Peruzzi G. (2009), “Coppie miste di oggi. La mixité sentimentale nell’Italia
del nuovo millennio”, in Mondi Migranti, n. 1, pp. 67-83.
Centro Sudi e Ricerche Idos (a cura di) (2013), Dossier Statistico Immigrazione
2013, Unar, Roma.
36
Capitolo 2
Richiedenti asilo e titolari di protezione in provincia di Arezzo
di Giovanna Tizzi
1. Introduzione
Il lavoro che presentiamo intende fornire un primo panorama sul fenomeno dei
richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ed umanitaria in provincia
di Arezzo. Questo studio è stato realizzato grazie alla collaborazione fra
Prefettura di Arezzo, Osservatorio delle Politiche Sociali della Provincia di
Arezzo e Oxfam Italia Intercultura.
Gli obiettivi che il lavoro si propone sono due: a) offrire un quadro conoscitivo
sul profilo socio anagrafico dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione
attualmente in carico nei progetti territoriali; b) approfondire il profilo delle
persone uscite dal programma o solamente “transitate”, vale a dire che non hanno
mai formalizzato la domanda di asilo.
Le domande di ricerca alle quali il lavoro ha cercato di rispondere sono: chi sono
le persone in accoglienza nel territorio aretino? Qual è la dimensione reale del
fenomeno?
Trattandosi di uno studio, il lavoro ha innanzitutto una finalità informativa e non
ha mai inteso assumere, né poteva assumerla, una finalità valutativa e di
controllo. L’auspicio che ci prefiggiamo, in linea con le finalità delle attività
dell’Osservatorio Sociale Provinciale, è sia quello di poter contribuire al dibattito
pubblico attraverso una buona conoscenza del fenomeno sia di fornire spunti utili
alla riprogrammazione degli interventi sul campo.
Dal punto di vista metodologico l’indagine è stata organizzata attraverso due
schede: una per le persone in carico ed una seconda per le persone uscite dal
programma. Nel mese di giugno 2015 la Prefettura di Arezzo ha inviato a tutti i
soggetti coinvolti nei sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e titolari del
territorio della provincia di Arezzo una comunicazione scritta contenente le
informazioni sull’indagine e sul funzionamento del sistema di rilevazione.
Come possiamo vedere dalla tabella sinottica qui sotto, solo due soggetti non
hanno aderito ed il tasso di copertura relativo al profilo delle persone in
accoglienza è stato molto alto, pari al 91,5% del totale.
L’arco temporale dell’indagine va dal 1°gennaio 2014 al 15 giugno 2015.
37
Tavola sinottica
Nominativo Soggetto
gestore
Associazione ANOLF
Confraternita delle
misericordia di Badia
Tedalda
Cooperativa Oxfam Italia
Intercultura
Associazione Sichem
(CARITAS)
Cooperativa L’albero del
pane
Fraternità dei laici
Associazione Bangladesh
Cooperativa Koinè
Il canto del fuoco - ESOS
C.R.I.
Associazione Pronto Donna
Consorzio COMARS
Associazione Libera Mente
ARCI
Totale
Tasso di copertura persone
in accoglienza
Tipologia
Sistema accoglienza
CAS
CAS
Numero accolti (15
giugno 2015)
27
43
Adesione all’indagine
CAS
54
Sì
CAS
28
Sì
CAS
35
Sì
CAS
CAS
CAS
CAS
CAS
CAS
CAS
CAS
SPRAR
29
25
22
53
34
2
12
14
50
428
91,5%
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Sì
Fonte: nostra elaborazione
Prima di passare alla lettura dei dati è utile soffermarci su chi sono gli immigrati
di cui trattiamo nel seguente elaborato. Come sappiamo definire chi sono gli
immigrati o meglio quali stranieri debbano essere classificati come tali è sempre
una questione complessa che varia a seconda dei sistemi giuridici, delle vicende
storiche e delle contingenze politiche. Come sottolinea Ambrosini (AmbrosiniBuccarelli, 2009, p. 14) la categoria sociale degli immigrati è definita e costruita
dalla società ricevente che demarca i confini tra noi (la comunità nazionale), i
nostri amici (ossia quelli che accogliamo con favore come residenti) e gli altri (gli
estranei che siamo disposti ad ammettere provvisoriamente ma che difficilmente
li vorremmo come cittadini a pieno titolo).
I rifugiati e i richiedenti asilo sono una componente della popolazione migrante
che è cresciuta negli ultimi anni, seguendo andamenti irregolari influenzati
principalmente da guerre e conflitti. Alcuni parlano in senso più ampio di
migrazioni forzate, includendovi anche le persone che sono obbligate a trasferirsi
a causa di catastrofi naturali o altro che sconvolgono l’ambiente in cui vivono e le
privano dei mezzi di sussistenza (Castels, 1993).
Le due categorie di “rifugiato” e “richiedente asilo” si distinguono per effetto della
Convenzione di Ginevra (1951), in cui il primo è definito come una persona che
risiede al di fuori del suo paese di origine, che non può e non vuole ritornare a
38
causa di un ben fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica. Il
“richiedente asilo” è invece una persona che si sposta attraverso le frontiere in
cerca di protezione, ma che non sempre rientra nei rigidi criteri della
Convenzione di Ginevra. Le istituzioni internazionali e i governi hanno così
dovuto prevedere nuove figure e nuove forme di protezione, poiché molte
persone che chiedevano asilo presentavano motivazioni che non ricadevano sotto
la Convenzione. È il caso della protezione sussidiaria e di quella umanitaria.
Negli ultimi decenni ai piccoli gruppi di perseguitati politici si sono aggiunti
ingenti flussi di profughi di guerra. L’instabilità internazionale e le accresciute
possibilità di mobilità geografica sono tra le cause dell’aumento degli spostamenti
di persone in cerca di asilo. Accanto a ciò va ricordato che le diminuite
opportunità di immigrazione per lavoro hanno provocato indirettamente un
maggior ricorso alla strada del rifugiato politico o umanitario come porta
d’ingresso nei paesi a sviluppo avanzato (Ambrosini, 2005).
I paesi più sviluppati hanno reagito a questo incremento della domanda di asilo
inasprendo i criteri di accesso, varando norme restrittive come il noto
regolamento di Dublino, che prevede che la domanda di asilo va presentata nel
paese sicuro raggiunto dal richiedente e non in quello individuato come
destinazione finale. Anche le recentissime disposizione in materia di procedure di
ricollocazione (1) (relocation) volute dall’Unione Europea, che in Italia trovano
applicazione operativa nella Roadmap (settembre 2015), di fatto “sanano” una
situazione già in atto di gruppi di persone che approdano in Italia come primo
paese sicuro e poi continuano il viaggio verso altre destinazioni, transitando per
pochi giorni nei tanti comuni italiani.
Sono questi i motivi che ci hanno portato a scegliere di analizzare questa
eterogenea categoria distinguendo tra: i) le persone “in carico” ovvero che hanno
formalizzato la domanda in Italia e che sono alla data della rilevazione inseriti nel
sistema di accoglienza aretino; ii) le persone “uscite” dal programma di
accoglienza al cui interno distingueremo un sotto gruppo di persone “transitate”,
vale a dire che non hanno mai presentato la domanda di asilo, pur essendo state
inserite per qualche giorno in una delle strutture temporanee dell’accoglienza.
2. Il contesto: sbarchi, richieste di asilo e accoglienza in Italia
Nell’ultimo biennio il fenomeno degli sbarchi caratterizza e catalizza il dibattito
pubblico italiano sull’immigrazione. Ci siamo abituati a vedere solo gli arrivi
emergenziali, quelli sulle coste del Meridione, attraverso le acque internazionali
che ci separano dal Nord Africa. Ma i recenti fatti hanno evidenziato e forse
ricordato che ci sono persone che attraversano anche altri confini come quelli di
terra (la rotta Balcanica) oppure che richiedono protezione essendo già da tempo
39
in Italia, constatando che la situazione nel loro paese è diventata un rischio per
loro.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno (Ministero dell’Interno, 2015) il 2014 è
stato l’anno degli sbarchi registrando 170 mila arrivi, più della somma dei tre anni
precedenti. Gli ultimi dati del 2015 (al 10 ottobre 2015) mostrano che pur
rimanendo molto elevata l’intensità del fenomeno, non si sono registrati ulteriori
forti aumenti, attestandosi a 136.432 persone sbarcate. È interessante notare la
mutata composizione per Paese di provenienza tra il 2014 e il 2015 frutto dei
cambiamenti delle rotte migratorie e della geografia delle partenze. Nel primo
erano soprattutto persone provenienti dalla Siria, dall’Eritrea e dal Mali mentre
nell’anno in corso i dati evidenziano al primo posto l’Eritrea, seguita dalla Nigeria
e dalla Somalia (Ministero dell’Interno, 2015, pp. 5-6).
Passando all’analisi di coloro che richiedono asilo in Italia notiamo innanzitutto che
nel 2014 sono 64.625, il 38% di tutte le persone sbarcate nello stesso anno. A livello
europeo l’Italia è il terzo paese UE per numero di richiedenti asilo (dopo
Germania e Svezia), ma anche quello che ha registrato il maggior incremento
nell’ultimo anno. Osservando la composizione dei richiedenti asilo si evince una
ridottissima presenza di donne (7,6% del totale) e di minori (6,8% del totale); le
tre nazionalità maggiormente presenti sono la Nigeria, il Mali e il Gambia.
Senza entrare nel merito della normativa che regola il diritto di asilo,
evidenziamo che a tutti è assicurata la possibilità di entrare nell’iter
dell’accoglienza, formalizzandone la domanda di asilo, che termina in seguito alla
decisione della Commissione territoriale ovvero, in caso di ricorso
giurisdizionale, fino all’esito dell’istanza di sospensiva e/o alla definizione del
procedimento di primo grado. La valutazione della domanda di ammissione viene
effettuata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di
rifugiato, competente per territorio. Tale Commissione ha il dovere di convocare
per un’audizione il richiedente, dopo di che dovrà adottare una fra le quattro
decisioni seguenti: riconoscere lo status di rifugiato (con validità di 5 anni,
rinnovabile); riconoscere lo status di protezione sussidiaria (con validità 5 anni,
rinnovabile); rigettare la domanda; rigettare la richiesta ma, allo stesso tempo,
constatata la pericolosità di un eventuale ritorno, richiedere alla Questura
competente territorialmente di rilasciare uno speciale permesso di soggiorno per
motivi di protezione umanitaria, della durata di due anni (rinnovabile). Nel caso
di ottenimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria o umanitaria la
persona può entrare nel sistema SPRAR (Servizio centrale del sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati) (2).
L’ingresso nella procedura di accoglienza in Italia segna allo stesso tempo
l’ingresso in un sistema caratterizzato dal proliferare di centri di accoglienza di
40
diverse tipologie, con differenti funzioni, modelli organizzativi e talvolta con
approcci antitetici.
Così il sistema di piccoli centri diffusi dello SPRAR, gestiti direttamente dagli
enti locali, convive con i CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo,
istituiti dal decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008) e le tante strutture nate
nelle varie emergenze sbarchi e poi “sanate” e stabilizzate come il caso di Mineo,
oggi trasformato in CARA. Accanto a questi centri si aggiungono poi quelli che
gestiscono la maggioranza delle richiedenti asilo, denominati strutture
temporanee o CAS attivati delle Prefetture per conto del Ministero dell’Interno.
Attualmente (Ministero degli Interni, 10 ottobre 2015) il totale delle presenze è
di 99.096 persone di cui:
- 21.814 nei 430 progetti dello SPRAR;
- 7.290 nei 7 centri governativi – CARA;
- 464 persone in 7 CIE;
- 70.918 persone nelle 3.090 strutture temporanee – CAS
È evidente come il sistema italiano dell’accoglienza si regga, nonostante
l’ampliamento dei posti SPRAR, sull’accoglienza straordinaria che gestisce il 72% di
tutte le presenze, distribuite in oltre 3 mila strutture organizzative (sia pubbliche che
private). Se da un lato rileviamo una maggior distribuzione dei migranti su tutto il
territorio nazionale (al primo posto in termini di presenza di strutture
temporanee troviamo la Lombardia con 554, seguita dalla Toscana con 416 e
dall’Emilia Romagna con 376) dall’altro appare lampante la frammentazione e
disomogeneità territoriale in termini di servizi erogati che si traduce in standard
di accoglienza piuttosto differenziati.
Il 10 luglio 2014, a livello istituzionale è stato varato il Piano Operativo
Nazionale che attraverso un sistema piuttosto articolato dovrebbe governare
anche le emergenze. Si tratta di un Piano, redatto dalla conferenza unificata tra
Governo, Regioni e rappresentati degli enti locali, che articola l’accoglienza in tre
distinti livelli:
1) Soccorso e prima assistenza (Hot Spot), con identificazione e primo screening
sanitario in centri governativi, che costituiranno il primo livello di assistenza e
smistamento delle persone nei centri regionali/Hub.
2) Prima accoglienza in centri regionali denominati anche Hub che dovrebbero
offrire l’accoglienza successiva al primo soccorso. In questi centri la persona
dovrebbe presentare la domanda di asilo, attendere l’esame delle Commissioni e
poi essere inviata allo SPRAR. Il documento insiste sul fatto che il periodo
dovrebbe essere breve, ma le condizioni oggettive fanno pensare invece a periodi
prolungati. In queste condizioni i centri dovrebbero ospitare parecchie centinaia
di persone.
41
3) Ultimo livello è il sistema SPRAR che si configura come seconda accoglienza e
passo decisivo per l’integrazione.
La strategia del Piano Nazionale è confermata nella nuova disciplina
dell’accoglienza dei richiedenti asilo (decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142)
che recepisce le ultime direttive europee in materia di procedure di accoglienza
(Direttive UE 2013/33 e 2013/32). Siamo all’inizio di questo “rinnovato”
sistema di accoglienza il cui obiettivo principale è di strutturare in via ordinaria
ma flessibile l’accoglienza in Italia, nonostante ciò diversi appaiono i nodi da
sciogliere per una sua piena messa a regime. Basti pensare, come abbiamo scritto
precedentemente, che oltre il 70% delle persone attualmente presenti nel sistema
accoglienza sono in strutture temporanee o CAS e che, nonostante il raddoppio
del numero delle Commissioni territoriali per l’esame delle istanze dei
richiedenti asilo (3), i tempi degli esiti sono piuttosto lunghi e gli stessi esiti
evidenziano come oltre il 50% delle richieste non vengano riconosciute. Molti a
seguito del diniego presentano ricorso giurisdizionale e sarà pertanto molto
interessante analizzare i risultati e le tempistiche di questa azione.
3. Dimensioni e caratteristiche dell’accoglienza in provincia di
Arezzo
Il territorio della provincia di Arezzo, nonostante la presenza dal 2008 dello
SPRAR a titolarità del Comune di Arezzo (4), è entrato in maniera più
consistente a far parte del sistema di accoglienza italiano a seguito delle
emergenze. Prima di tutto con la cosiddetta emergenza Nord Africa ed il
conseguente modello toscano di accoglienza diffusa (Bracci, 2012), poi dal 2014
con l’attuale sistema di accoglienza CAS che pur con le diverse articolazioni nelle
gestioni, provvede al primo supporto, all’identificazione, alla presentazione della
domanda di asilo e alla contestuale attivazione di servizi dedicati.
Secondo i dati forniteci, tramite la scheda inviata dalla Prefettura agli enti gestori,
dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 le presenze in provincia di Arezzo sono
state 666 di cui quasi il 90% uomini (Tabella 1), ma come vedremo nel paragrafo
successivo molte di queste persone si sono fermate sul territorio aretino per un
brevissimo periodo. La percentuale di persone che hanno formalizzato la richiesta
di asilo o titolari di protezione sul totale delle presenze alla data di rilevazione è
del 58,9%, corrispondete in termini assoluti a 392 persone. Se incrociamo con le
dovute cautele metodologiche questo dato con il numero degli stranieri residenti
al 31/12/2014 in provincia di Arezzo (37.786) si evince che il catalizzante
fenomeno dei richiedenti asilo rappresenta poco più dell’1% del totale degli stranieri
presenti nel territorio. A questo punto viene da chiedersi da dove deriva tanta
attenzione? Sono almeno tre i fattori che secondo chi scrive occorre tener
42
presente: i) innanzitutto le tragedie del mare, i viaggi estenuanti e, la prossimità
geografica hanno sottoposto l’Italia ad una crescente attenzione mediatica; ii) un
secondo aspetto riguarda l’intensità e la velocità con cui nel giro di pochissimo
tempo il sud Italia prima, e tutta la penisola poi, si è trovata a dover gestire un
fenomeno relativamente “nuovo”, con procedure e sistemi di accoglienza assai
disomogenei; iii) infine, non in ordine di importanza, le caratteristiche stesse di
questi flussi, la loro diversità e il senso di alterità che suscitano hanno accentuato
nelle società riceventi il sospetto di un indebito accaparramento di risorse
derivanti dal welfare pubblico.
In virtù di ciò in questo approfondimento vengono presi in considerazione alcuni
aspetti relativi alla struttura demografica e sociale di questa popolazione in modo
da evitare facili scorciatoie interpretative.
Tabella 1 - Presenze dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 in provincia di Arezzo
In carico
Uscite
F
20
48
M
372
226
Totale
392
274
Totale
68
598
666
% in carico sul totale
58,9%
Fonte: nostra elaborazione
Le donne (68 su 598) rappresentano 10,2% del totale delle persone attualmente
in accoglienza e di quelle uscite.
Se prendiamo in considerazione solo quelle in carico la percentuale si abbassa
ulteriormente al 5,3%, dato più basso di circa due punti dal quello nazionale
relativo al 2014 (7,6%). La composizione per genere dei richiedenti asilo
conferma la tradizionale presenza della componente maschile nei flussi per
richiesta di asilo, dato significativo se comparato con quello della popolazione
straniera residente che invece si caratterizza per una crescente femminilizzazione
(al 31/12/2015 in provincia di Arezzo le donne straniere sono il 53,9% del
totale).
L’andamento degli arrivi, come si osserva dal Grafico 2, riflette l’andamento
degli sbarchi: si intensifica dalla primavera all’autunno del 2014 e lo stesso per il
2015. I mesi che registrano il maggior numero di arrivi sono maggio 2015 con 89
arrivi e ottobre 2014 con 80 arrivi.
Il quadro delle persone accolte (Grafico 3) mostra una nettissima prevalenza di
migranti appartenenti all’Africa, le prime cinque nazionalità di tutte le persone
(in carico alla data di rilevazione e gli usciti) sono: Eritrea, Nigeria, Mali, Gambia
e Senegal. Se passiamo al dettaglio delle nazionalità confrontando tra le persone in
carico e quelle uscite rileviamo delle distribuzioni piuttosto diverse. Per le
persone accolte i tre gruppi nazionali con il maggior numero appartengono
all’Africa Occidentale: Nigeria (91 persone), Mali (60) e Gambia (36);
43
diversamente tra le persone uscite osserviamo al primo posto un paese del Corno
d’Africa, l’Eritrea con 94 persone, seguono il Mali (60 persone), la Nigeria (37
persone) e la Somalia (27 persone).
È importante evidenziare come questi dati riflettano lo scenario nazionale:
Nigeria, Mali e Gambia sono le principali provenienze di coloro che richiedono
asilo in Italia ed Eritrea, Nigeria e Somalia quelle di coloro che sono sbarcati, fatta
eccezione per il nostro territorio dal Mali.
Grafico 2 - Mese e anno dell’arrivo in Italia di tutte le presenze
Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 666
Grafico 3 - Persone in carico alla data della rilevazione (15 giugno 2015) e uscite nel periodo 1° gennaio
2014 - 15 giugno 2015 per nazionalità
Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 666
44
4. Gli usciti dal programma e i “transitati”
Dal Grafico 4 si può osservare che la componente femminile assume una maggior
consistenza nel gruppo composito delle persone uscite dal programma di
accoglienza CAS o SPRAR o che non ci sono mai entrate, poiché non hanno
formalizzato la domanda di asilo. Il 18% del totale sono donne mentre la
componente femminile delle donne in accoglienza è poco più 5%.
Grafico 4 - Persone uscite dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 per genere
Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 274
Il dato per fascia d’età mostra una forte concentrazione nella fascia 20-24 anni
(23% del totale). Nonostante il dato di coloro che non hanno compilato questo
campo (in termini assoluti 87), si evince come caratteristica generale la presenza
di una popolazione giovane.
Tabella 2 - Persone uscite dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 per genere ed età
Fascia età
10-14
15-19
20-24
25-29
30-34
35-39
40-44
45-49
F
2
5
8
3
-
N.D.
30
57
87
Totale
48
226
274
Fonte: nostra elaborazione
45
M
4
36
58
35
24
3
4
5
Totale
4
38
63
43
27
3
4
5
Passando all’analisi del motivo dell’uscita per nazionalità (Tabella 3) si nota che
pochissimi sono usciti dalle strutture temporanee per inserimenti nello SPRAR
(13 su 274 corrispondente al 4,7%) o per ottenimento della protezione
internazionale o umanitaria (10 su 274 corrispondenti al 3,6%); mentre la grande
maggioranza dichiara “altro” (200 su 274 corrispondenti al 73%).
Nell’interpretare questi dati è importante tener conto delle caratteristiche dei
flussi in arrivo (il concentrarsi in determinati periodi dell’anno e l’intensità
registrata nel 2014 e 2015), dei tempi piuttosto lunghi degli esiti delle domande
di richiesta asilo ed anche dei 51 “non so”. Ciò nonostante è interessante notare
che dall’incrocio tra chi ha dichiarato in “altro” “l’abbandono della struttura e del
progetto” con “il mese di arrivo e partenza” si deduce una stima delle persone
“transitate” che come abbiamo scritto all’inizio di questo elaborato, sono le
persone che arrivano sul territorio, ma che non fanno la richiesta di asilo, in
questo caso sono 113.
Tabella 3 - Motivo dell’uscita per nazionalità
Nazionalità
Bangladesh
Benin
Camerun
Costa d’Avorio
Eritrea
Gambia
Ghana
Guinea
Guinea Bissau
Iran
Mali
Nigeria
Pakistan
Rep. Centroafr.
Senegal
Siria
Somalia
Sudan
Totale
Inserito nello
SPRAR
1
1
1
1
9
13
Protezione
internazionale
1
1
2
Umanitario
7
1
8
Altro
1
2
1
74
5
3
1
1
39
20
2
1
6
8
27
9
200
Non so
1
20
3
13
1
1
1
11
51
Totale
2
1
2
2
94
8
4
1
1
1
60
32
3
1
7
19
27
9
274
Fonte: nostra elaborazione
Quel che si osserva (Grafico 5) è che tra i 113 persone che hanno abbandonato
volontariamente la struttura e che sono rimasti solo pochi giorni, l’Eritrea è la
nazionalità con il maggior numero seguita dalla Somalia. Lo scenario che si
presenta riflette la situazione nazionale con l’Eritrea in cima alle presenze negli
46
sbarchi, ma non tra i richiedenti asilo. Ad oggi l’Eritrea in proporzione al numero
di abitanti, poco più di 5 milioni, è il paese che produce più profughi al mondo
(Drudi-Omizzolo, 2015). Secondo i dati UNHCR del 2013 i profughi eritrei
sono 338 mila: nel 2014 risulta eritreo circa un terzo delle quasi 170 mila
persone sbarcate in Italia. Le stime dell’UNHCR calcolano una media che varia
dalle 2 alle 3 mila fughe al mese, con punte di 5 mila. In tutto, si arriva, a fine
2014 con 400 mila persone scappate, pari all’8% della popolazione. In accordo
con la letteratura scientifica sulla complessità del tema della diaspora eritrea e
della sua connessione storica con il colonialismo italiano e la successiva guerra
d’indipendenza con l’Etiopia, viene da chiedersi quali sono le direzioni verso cui
quest’esodo si dirige. Sicuramente nella fase attuale non in Italia, nonostante una
storica ed importante presenza (5) gli eritrei in fuga dal regime di Afewerki e
sbarcati in Italia si dirigono per chiedere asilo in Germania, Regno Unito e
Francia, accanto a questi si affiancano paesi come la Svizzera, l’Olanda, la
Danimarca, la Svezia e la Norvegia (UNHCR, 2014).
Grafico 5 - Persone che hanno abbandonato volontariamente le strutture per nazionalità
Fonte: nostra elaborazione - Totale: 113
5. Il profilo degli accolti
Le persone in carico nelle strutture temporanee e nello SPRAR in provincia di
Arezzo alla data della rilevazione (15 giugno 2015) sono 392 di cui il 5% donne
(Tabella 4). Il dato per fascia d’età mostra una forte concentrazione nella fascia
20-24 anni (147 su 392, il 37,5%) e più in generale in quella 20-29 anni che
raccoglie circa il 60% del totale. L’età media complessiva è di 24 anni sia per gli
uomini che per le donne. Se compariamo il dato con l’età media dei migranti
residenti in provincia di Arezzo che è di 33,1 anni, si nota uno scarto di 9 anni.
L’analisi dell’età per nazionalità evidenzia un’età media complessiva più bassa per
i maliani, gambiani e senegalesi (23,1 anni), seguiti dai bengalesi (24 anni) e
47
nigeriani (24,3 anni), mentre l’età più alta registrata è quella dei pakistani (28,4
anni).
Tabella 4 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per genere ed età
Fascia età
0-4
5-9
15-19
20-24
25-29
30-34
35-39
40-44
45-49
50-54
N.D.
Totale
F
2
1
1
5
5
1
1
4
20
M
3
1
79
142
87
37
15
3
2
1
2
372
Totale
5
2
80
147
87
42
15
4
3
1
6
392
Fonte: nostra elaborazione
Grafico 6 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per classi di età
Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 392
Passando al dettaglio per nazionalità (Tabella 5 e Grafico 7) si può osservare la
prevalenza della Nigeria e del Mali che da sole raccolgono il 45,9% di tutte le
presenze. Le nazionalità presenti sono 23 appartenenti, e l’area di origine più
rappresentata è l’Africa Occidentale con: Nigeria (91 persone), il Mali (89),
Gambia (36), Senegal (35), Ghana (19), Costa d’Avorio (15), Guinea (12) etc.
Per quanto riguarda le donne sottolineiamo la prevalenza delle nigeriane (il 50%
del totale).
48
Tabella 5 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per nazionalità e genere
Nazionalità
Nigeria
Mali
Gambia
Senegal
Pakistan
Bangladesh
Ghana
Costa D’Avorio
Guinea
Siria
Guinea Bissau
Afghanistan
Togo
Somalia
Sudan
Benin
Eritrea
India
Iran
Rep. Dem. Congo
Rep. Centrafricana
Sierra Leone
Ucraina
Totale
F
10
1
3
1
2
2
1
20
M
81
88
36
35
29
31
19
14
12
5
6
4
3
2
1
1
1
1
1
1
1
372
Totale
91
89
36
35
32
31
19
15
12
7
6
4
3
2
2
1
1
1
1
1
1
1
1
392
Fonte: nostra elaborazione
Grafico 7 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per nazionalità
Fonte: nostra elaborazione – Totale complessivo: 392
49
Circa lo status giuridico dei beneficiari del programma accoglienza si evince che il
69% è in attesa di audizione in Commissione territoriale, seguono i diniegati in
termini per presentare ricorso con il 17%, mentre i titolari di protezione sono
solo il 6,3% del totale di cui 13 con permessi umanitari e 10 per asilo o
protezione sussidiaria.
Ci sono, inoltre 23 persone (6,3%) in attesa della notifica esito della
Commissione. Questi dati, d’altra parte, rispecchiano una situazione di
rallentamento nel sistema dovuto anche al forte incremento del periodo in esame.
Nonostante la moltiplicazione delle Commissioni territoriali ad oggi si assiste ad
un rallentamento nell’analisi delle domande di asilo, ma quello che appare ancor
più interessante da monitorare in futuro saranno sia i tempi di analisi dei ricorsi
giurisdizionali sia gli esiti degli stessi.
Tabella 6 - Condizione giuridica (al 14 giugno 2015)
Condizione giuridica
Diniegati in termini per presentare ricorso e/o ricorrenti
in attesa dell’audizione in Commissione Territoriale
in attesa di esito
in attesa di formalizzazione C3
Titolare di protezione internazionale
Titolare di protezione umanitaria
Totale
Totale
62
250
23
5
10
13
363
Fonte: nostra elaborazione
Concentrando l’analisi sui titolari di protezione, che per il ridotto numero va
considerata con molta cautela evitando inopportune generalizzazioni,
evidenziamo che tra i dieci che hanno ottenuto la protezione internazionale o
sussidiaria la metà sono pakistani, mentre tra coloro che hanno ottenuto
l’umanitaria è la Nigeria che detiene il numero maggiore.
Grafico 8 - Titolari di protezione in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015)
Fonte: nostra elaborazione - Totale: 23
50
Per quanto riguarda il titolo di studio rileviamo un profilo complessivo piuttosto
basso, con circa un 21% di “nessun titolo” che sommati a coloro che hanno un
titolo equiparabile alla licenza elementare si arriva quasi al 50% del totale. Ciò è
particolarmente rilevante se teniamo conto di quante sono le persone analfabete o
semianalfabete e delle ricadute in termini di complessità che possono avere nella
messa a punto ad esempio di corsi di lingua seconda rispondenti a specifici bisogni
linguistici.
La lingua, in quanto mezzo di comunicazione per eccellenza, costituisce uno degli
elementi essenziali del processo di integrazione dei migranti; essa d’altronde
rappresenta la principale barriera per l’accesso e l’utilizzo consapevole dei servizi.
L’insegnamento della lingua italiana è infatti uno dei servizi che vengono erogati
dalla organizzazioni che si occupano di accoglienza.
Grafico 9 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per titolo di studio
Fonte: nostra elaborazione – Totale complessivo: 392
Abbiamo chiesto se i beneficiari lavoravano prima dell’arrivo in Italia (Tabella 7),
e nonostante una consistente parte di “non so”, che può esser considerato un
indicatore della qualità della relazione tra ospiti ed operatori, assistiamo ad un
61,7% che ha alle spalle esperienze lavorative molto diversificate. Risultano
ricorrenti nelle dichiarazioni i lavori di: “allevatore e/o agricoltore”, “muratore”
(e simili), ed infine i “commercianti e venditori”.
51
Tabella 7 - Condizione lavorativa prima dell’arrivo in Italia
La persona in carico lavorava prima dell’arrivo in Italia?
Si
No
Non so
Totale
F
4
12
4
20
M
238
46
88
372
Totale
242
58
92
392
Fonte: nostra elaborazione
Il rapporto tra titolo di studio e precedente condizione lavorativa non appare
particolarmente collegato. Come osserviamo dal Grafico qui sotto coloro che
sono “senza titolo” e dichiarano di aver lavorato prima dell’arrivo in Italia hanno
la stessa incidenza di coloro che possiedono il diploma superiore.
Grafico 10 - Condizione lavorativa prima dell’arrivo in Italia e titolo di studio
68
67
55
37
20
4 6
Non so
Diploma Superiore
Licenza Media
3
Laurea
11
8
7
Licenza Elementare
14
Nessun Titolo
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Con prec occupazione
Disoccupato
Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 392
Dalla Tabella 8 emerge che c’è un collegamento diretto tra appartenenza religiosa
e paese di provenienza. Nel nostro gruppo la maggioranza sono musulmani con il
68% del totale, seguiti con il 16% dai cattolici. È significativo che in questo caso
il campo dei “non so” sia ridottissimo a differenza di altri campi come quello
relativo al titolo di studio e alla condizione lavorativa, vale a dire non si
conoscono queste informazioni poiché ritenute dagli operatori poco importanti,
mentre l’appartenenza religiosa è imprescindibile non conoscerla. Nonostante la
forte attenzione nei confronti degli immigrati musulmani i dati di una ricerca
effettuata in Toscana qualche anno fa mostrano che i musulmani presentano valori
di integrazione in linea con quelli medi (Berti, Valzania, 2010, pp. 150-153).
52
Tabella 8 - Religione
Religione
Cattolico
Musulmano
Ortodosso
Protestante
Altra religione
Non so
Totale
%
16,1
68,1
0,2
8,9
5,6
1,0
100,0
Totale
63
267
1
35
22
4
392
Fonte: nostra elaborazione
L’87,5% dei migranti accolti in provincia di Arezzo (343) sono soli in Italia. I
nuclei familiari sono pressoché inesistenti nell’attuale sistema.
Tabella 9 - Presenza altri familiari
Le 392 persone sono accolte nel 70% in appartamenti dislocati sul territorio della
provincia con una media di 4,7 persone per appartamento. Questo dato è in linea
con il modello toscano dell’accoglienza diffusa che a partire dall’Emergenza Nord
Africa ha caratterizzato e caratterizza l’attuale sistema straordinario. Le strutture
ricettive (ex alberghi) accolgono circa il 18% del totale con una media di 24,5
persone per struttura, quindi sempre con un modello decentrato volto ad evitare
concentrazioni in grandi strutture (Tabella 10 e Grafico 12).
Tabella 10 - Tipologia di strutture
Appartamento
Centro accoglienza
Struttura ricettiva (ex alberghi)
Altro-Casa di accoglienza
274
30
73
15
Media persone
per struttura
4,7
19,1
24,5
15,8
Totale
392
9,9
Totale
Fonte: nostra elaborazione
53
Sempre in riferimento al decentramento territoriale dalla Tabella sottostante si
evince che il capoluogo Arezzo ha il maggior numero di persone in carico: 173
corrispondenti al 44% del totale distribuite quasi esclusivamente in appartamenti.
Segue il piccolo comune di Badia Tedalda che ospita 43 persone di cui oltre la
metà in un centro accoglienza. È da notare che le tre strutture ricettive (ex
alberghi) sono collocate in due casi in comuni di montagna.
Grafico 12 - Tipologia di strutture
Fonte: nostra elaborazione
Tabella 11- Tipologia di strutture e ubicazioni
Dove è ubicata tale
struttura? Comune
Arezzo
Badia Tedalda
Castiglion Fiorentino
Montemignaio
Chitignano
Foiano della Chiana
Castiglion Fibocchi
Civitella
Montevarchi
Bibbiena
Sansepolcro
Poppi
Bucine
Capolona
Cortona
Totale
Appartamento
158
18
20
14
13
6
11
10
7
5
4
4
4
Centro accoglienza
25
5
-
Struttura ricettiva
(ex alberghi)
20
28
25
-
Altro
15
-
Totale
173
43
40
28
25
14
13
11
11
10
7
5
4
4
4
274
30
73
15
392
54
6. Conclusioni
I dati sottolineano che il fenomeno è prevalentemente a guida maschile,
accogliamo giovani uomini soli provenienti dall’Africa occidentale. Assistiamo ad
una ridottissima presenza di donne, ancor più bassa del livello nazionale. Il
modello di accoglienza prevalente è quello dell’accoglienza in strutture
temporanee (CAS), nel 70% all’interno di appartamenti.
Guardando ai flussi migratori nella loro dinamicità occorre tener presente che ad
oggi la popolazione di riferimento è cresciuta molto: siamo passati da 392 persone
in carico alla data di rilevazione (14 giugno 2015) a 627 (8 novembre 2015).
Una popolazione che, a causa delle lunghe procedure di esame delle domande,
dei ricorsi e della temporaneità della condizione, è stata efficacemente definita da
Ambrosini (2005) dallo status precario, incerto e reversibile, e talvolta direi confinata
dal punto di vista delle relazioni, del territorio dove risiede e dei servizi offerti.
Dunque come abbiamo visto in questo elaborato un fenomeno non emergenziale,
ma complesso, intenso e che muta annualmente. Anche considerando il dato
attuale l’incidenza sulla popolazione straniera residente è del’1,6%.
Non c’è dubbio che tale presenza costituisca un fattore di mutamento sociale che
pone sfide nuove alle forme della convivenza interculturale, e sollecita a ricercare
delle modalità di accoglienza e di integrazione in grado di garantire pari
opportunità, ridurre i rischi di discriminazione ed esclusione sociale. Quando si
parla di rifugiati e richiedenti asilo il senso di alterità e di minaccia raggiunge
punte particolarmente elevate. Il tema dei costi e dell’utilizzo delle risorse del
welfare pubblico nei confronti di benefici per questa popolazione a discapito degli
autoctoni monopolizzano un dibattito pubblico scarsamente accompagnato dalla
reale conoscenza del fenomeno. Ciò risente di scelte politiche che si sono
concentrate principalmente nel dare risposte a carattere quantitativo a situazioni
emergenziali, attraverso l’aumento dei posti d’accoglienza disponibili senza
immaginare i passi successivi. Verso quali politiche di integrazione per
l’accoglienza ci stiamo muovendo? Quali risposte potranno dare i territori, data la
loro centralità nei processi di integrazione?
Note
(1) La procedura di relocation consente il trasferimento dall’Italia, Grecia e Ungheria verso altri
Stati membri, delle persone, in evidente necessità di protezione internazionale, appartenenti a
quelle nazionalità che hanno ottenuto un tasso di riconoscimento di protezione internazionale pari
o superiore al 75% secondo i dati Eurostat. Attualmente siriani, eritrei ed iracheni rientrano in
tali parametri.
(2) La rete del sistema SPRAR si compone di una rete strutturata di enti locali, che per la
realizzazione su progetti territoriali e accoglienza accedono al fondo nazionale per le politiche e i
servizi dell’asilo gestito dal Ministero degli Interni. Nel 2014 l’accoglienza nel sistema SPRAR è
55
articolata su 423 progetti di cui 394 per categorie ordinarie, 52 per minori non accompagnati, 31
per persone con disagio mentale o disabilità.
(3) Le Commissioni sono passate da 20 a 40 (decreto-legge 22 agosto 2014, n.119 convertito con
modificazioni della legge 17 ottobre 2014, n. 146.
(4) Il Comune di Arezzo è attivo nello SPRAR dal gennaio 2008 inizialmente con 15 persone; ad
oggi le persone accolte nel progetto sono 55.
(5) Gli eritrei residenti sono oltre 9 mila concentrati in particolare in Lazio, in Lombardia e in
Emilia-Romagna.
Riferimenti bibliografici
Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna.
Ambrosini M., Buccarelli F. (2009) Ai confini della cittadinanza. Processi
migratori e percorsi di integrazione in Toscana, FrancoAngeli, Milano.
Berti F., Valzania A. (a cura di) (2010), Le nuove frontiere dell’integrazione. Gli
immigrati stranieri in Toscana, FrancoAngeli, Milano.
Bracci F. (2012) (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza
diffusa, Pisa University Press, Pisa.
Castels S., Miller M. (1993), The Age of Migration: International Population
Movements in the Modern World, New York, Guilford Press.
Drudi E., Omizzolo M., (2015), «Ciò che mi spezza il cuore» Eritrea: dalla grande
speranza alla grande delusione, in Omizzolo M., Sodano P. (a cura di), Migranti e
territori. Lavoro diritti accoglienza, Ediesse, Roma, pp. 399-446.
Ministero dell’Interno (2015), Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiato in
Italia. Aspetti, procedure, problemi, Roma.
56
Seconda parte
I percorsi scolastici degli allievi stranieri
e la scuola dell’inclusione
57
58
Capitolo 1
Plurale fa rima con “normale”. Il punto di vista sulla scuola
multiculturale e sui suoi protagonisti
di Graziella Favaro
N. Com’è la tua classe?
E. Normale.
N. Ci sono tanti stranieri?
E. Ma nella mia classe ci sono solo bambini!
Uno sguardo diacronico alla scuola multiculturale ci consente di cogliere le
diverse fasi attraversate in questi anni, il “clima” che si respirava, e si respira,
dentro le aule e di fotografare i percorsi scolastici distinguendo tra gli alunni di
“prima e di seconda” generazione. Vecchi e nuovi temi, attenzioni consolidate e
criticità emergenti si intrecciano e si impongono oggi come prioritari. Mentre il
numero dei bambini e dei ragazzi dell’immigrazione si assesta – e, anzi, tende a
diminuire e si diffonde una “normale eterogeneità” – molte domande restano
ancora senza risposta.
Nelle note che seguono, proviamo a raccontare la scuola multiculturale
evidenziandone le luci e le ombre; cogliamo le rappresentazioni diverse che fanno
da sfondo alla normativa e presentiamo i percorsi scolastici dei bambini e dei
ragazzi “nuovi italiani” che spesso hanno ancora il segno di un’integrazione
rallentata.
1. Due priorità un “modello asistematico”
L’immigrazione ha profondamente cambiato la scuola. Uno sguardo alle classi dei
più piccoli e dei più grandi ci restituisce l’immagine di una scuola fortemente
segnata dall’eterogeneità e che continua a modificarsi, anno dopo anno, in
maniera veloce, rispetto alle storie, ai viaggi, ai volti e alle biografie di coloro che
la abitano. Ci conferma inoltre che la presenza dei figli dell’immigrazione negli
spazi educativi e nei luoghi di aggregazione e di incontro è uno dei tratti più
rilevanti che segnano la fisionomia e il paesaggio sociale delle nostre città e
comunità locali.
I luoghi della formazione e le scuole sono stati, e continuano a essere, i primi e
principali contesti pubblici a vivere il confronto con le differenze di origine,
lingua, bagagli autobiografici, riferimenti culturali. In questi anni, i servizi
educativi e le istituzioni educative hanno accolto un numero crescente di bambini
e ragazzi stranieri, venuti da lontano o nati in Italia. Hanno imparato, in molti
59
casi, ad ascoltare le aspettative e i messaggi, espliciti e impliciti, delle famiglie
straniere e italiane, a tener conto dei loro timori e delle attese, degli impacci e
delle assenze. Hanno sperimentato qua e là azioni innovative, volte a dare risposta
a bisogni linguistici e didattici specifici, a conoscere almeno un po’ la storia che fa
da sfondo ai viaggi e alla migrazione dei minori, a leggere nel loro silenzio il
lavorio sorprendente dell’acquisizione della nuova lingua e, talora, anche il dolore
della perdita e della nostalgia. A volte hanno fatto un po’ di resistenza di fronte ai
cambiamenti inevitabili che le trasformazioni del paesaggio scolastico e sociale
necessariamente comportano. In tutti i casi, le consapevolezze, le acquisizioni, le
modalità didattiche e organizzative innovative e che si sono rivelate
maggiormente efficaci non sono ancora diventate sistema e prassi condivisa.
Due attenzioni pedagogiche e didattiche sono alla base di una scuola
multiculturale e plurilingue efficace e di qualità. Da un lato, vi è l’attenzione
mirata all’accoglienza degli alunni stranieri che si inseriscono per la prima volta
nella scuola italiana; dall’altro lato, vi è la gestione educativa della classe
normalmente eterogenea attraverso un approccio interculturale e plurilingue. Si
tratta quindi di procedere contemporaneamente lungo due direzioni e di tenere
insieme i due percorsi, attivando un doppio sguardo: quello “dedicato”, che ha
carattere transitorio e specifico, e quello ordinario e per tutti.
Chi sono gli alunni neoarrivati? Si tratta ad ogni anno scolastico di circa 30.000
alunni (4,9% sul totale degli stranieri), metà dei quali entra nella scuola primaria.
Essi provengono direttamente dal Paese d’origine per ricongiungimento
famigliare o a causa di esodo e fuga da guerre e condizioni di vita drammatiche. In
altri casi, sono nati qui ma non hanno mai frequentato la scuola dell’infanzia e
sono quindi “nuovi” alla scuola. A proposito di alunni neo-inseriti, uno studio
comparato promosso dall’Unione Europea (2013) ha analizzato la situazione di 15
Paesi dell’Unione, fra i quali vi è l’Italia. Il modello italiano viene definito,
insieme a quello greco, “non sistematico”: “Il modello non sistematico funziona in
maniera random. I Paesi non hanno una politica chiaramente articolata a livello
nazionale e il supporto previsto è molto frammentato. Il sistema scolastico
italiano è fortemente centralizzato, ma le scuole sono lasciate a se stesse nella
scelta dei metodi d’insegnamento e nel far fronte alla diversità della popolazione
scolastica locale. Le linee guida nazionali non prevedono un supporto linguistico e
scolastico strutturato e ben definito per gli alunni migranti…”. Il documento
offre un quadro esaustivo e molto interessante degli approcci e delle misure
realizzate nei diversi contesti e presenta anche alcune pratiche e progetti che
hanno avuto esiti efficaci e positivi. In particolare, sono quattro i dispositivi che lo
studio ritiene centrali per inaugurare un percorso di buona integrazione e sono:
- il supporto linguistico mirato in L2 nella fase iniziale e per tutto il tempo che è
necessario;
60
- l’aiuto allo studio realizzato in maniera duratura e continuativa;
- il coinvolgimento delle famiglie degli alunni neo-inseriti e la collaborazione con
il territorio per una buona integrazione anche nell’extra scuola;
- l’approccio interculturale.
2. Bisogni educativi specifici o speciali?
Più di vent’anni di parole e pratiche d’integrazione dovrebbero costituire ormai
una robusta riserva di esperienze e di risposte educative utili a comporre un
“modello” d’integrazione condiviso e riconoscibile, efficace nel ridurre le
disparità che si registrano tuttora da una scuola all’altra, da una città all’altra. Ma
questo processo non è ancora compiuto e si notano tuttora divari importanti,
scelte differenti, risorse e dispositivi non uniformi da un contesto educativo
all’altro, dando luogo appunto a un “modello non sistematico”.
La normativa stessa, che descrive e regola il tema – e che di fatto contribuisce a
costruire le cornici pedagogiche e di senso del percorso d’integrazione – propone
rappresentazioni a volte tra loro discordanti. In essa si sottolinea infatti, ora la
“normale eterogeneità” delle classi e dei gruppi di apprendimento, ora il carattere
“speciale” delle domande educative provenienti dagli alunni con cittadinanza non
italiana.
Ripercorriamo i documenti più recenti – dal 2010 a oggi – per cogliere le parole
chiave, gli scenari evocati, le risposte previste o sollecitate. Nel gennaio 2010,
una circolare sulle iscrizioni suscitò vivaci prese di posizione e alcune polemiche
poiché introduceva il “tetto” del 30% per gli alunni stranieri nelle classi prime.
Seguirono deroghe, precisazioni, chiarimenti. Ma la rappresentazione che la
circolare ha contribuito a veicolare e a diffondere nella scuola è stata quella degli
alunni non (ancora) italiani, anche se nati in Italia, come un’emergenza da
contenere, un flusso da arginare. Due altri importanti e successivi documenti
propongono la situazione di multiculturalità di fatto in maniera ancora diversa. Il
primo – le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola di base del 2012 –
prende atto che “una molteplicità di lingue e culture è entrata nella scuola” e
sollecita i docenti a “progettare e realizzare percorsi didattici specifici” per lo
sviluppo dell’italiano per comunicare e per lo studio, con l’obiettivo della piena
integrazione (senza tuttavia indicare modalità e risorse sul come fare). Il secondo
documento – la circolare applicativa sui BES, i bisogni educativi speciali, del 6
marzo 2013 – tratta degli alunni più “fragili” e mette insieme coloro che hanno
una disabilità, un DSA (disturbo specifico dell’apprendimento), o disturbi
evolutivi specifici, con chi si colloca “nell’area dello svantaggio socioeconomico,
linguistico e culturale”. Per rispondere a tali bisogni educativi speciali si
61
suggeriscono misure a carattere compensativo e dispensativo. Le Linee guida
sull’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (MIUR 2014) ripropongono uno
sguardo specifico, e non speciale, e sono più attente, rispetto al passato, ai temi
emergenti dell’orientamento e della prosecuzione degli studi, dell’insegnamento
dell’italiano L2 e della valorizzazione della diversità linguistica.
Dalla lettura dei documenti ufficiali, quale rappresentazione si può dunque
cogliere della scuola italiana e dei bambini e dei ragazzi stranieri che la abitano? E
quali scenari, scelte pedagogiche, mosse didattiche essi propongono e sollecitano?
Le categorie presenti nelle descrizioni dei contesti educativi e scolastici
multiculturali e delle attenzioni da promuovere sono, come abbiamo visto,
alquanto differenti. Da un lato, si presenta la situazione di mescolanza ed
eterogeneità come normale (anche se certamente essa necessita di essere gestita e
supportata da attenzioni didattiche e dispositivi mirati). Dall’altro lato, ci si
richiama al carattere di “specialità” delle domande e dei bisogni educativi,
riconducendoli alla categoria della mancanza e del disagio. Si oscilla dunque tra
l’etnicizzazione e l’irrigidimento dei cammini di apprendimento degli alunni non
italiani (il “tetto” del 30%; la contiguità tra l’area dello “svantaggio
socioeconomico, linguistico e culturale” e le situazioni della disabilità) e la
rappresentazione, invece, di una “normale” eterogeneità, pur tuttavia senza
proporre misure e risorse specifiche e a carattere transitorio.
Le esperienze condotte in questi anni, e il confronto con altri contesti educativi
nazionali che sono da tempo multiculturali e plurilingui, suggeriscono che il tema
dell’inserimento scolastico degli alunni che continuiamo a definire “stranieri” ha
carattere specifico – e non speciale – e richiede attenzioni e piani didattici e
linguistici “ordinari”, efficaci e mirati.
Non invisibilità dunque, ma neppure forme di etichettamento che rischiano di
irrigidire le condizioni che si presentano fluide e in movimento e di rendere
permanenti i bisogni transitori con il rischio di creare distanze e forme di microsegregazioni.
62
Un Vademecum per l’integrazione
Nel settembre 2015, un nuovo documento è stato diffuso alle scuole dal MIUR. Si tratta
del Vademecum per l’integrazione “Diversi da chi?”, redatto da chi scrive per conto
dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’intercultura. Dopo una breve
premessa, il documento individua e propone dieci obiettivi e priorità per una scuola
inclusiva, indicando per ciascuna azioni possibili e modalità operative per l’attuazione (il
Vademecum è riportato, più avanti, v. all. 1).
1.Ribadire il diritto all’inserimento immediato degli alunni neoarrivati.
2.Rendere consapevoli dell’importanza della scuola dell’infanzia.
3.Contrastare il ritardo scolastico.
4.Accompagnare i passaggi; adattare il programma e la valutazione.
5.Organizzare un orientamento efficace alla prosecuzione degli studi. Investire sul protagonismo degli
studenti.
6.Sostenere l’apprendimento dell’italiano L2, lingua di scolarità.
7.Valorizzare la diversità linguistica.
8.Prevenire la segregazione scolastica.
9.Coinvolgere le famiglie nel progetto educativo per i loro figli.
10.Promuovere l’educazione interculturale nelle scuole.
3. Tra ostacoli e attese
Se diamo uno sguardo ai percorsi di inserimento scolastico dei minori che hanno
una storia, personale o famigliare, di migrazione, così come essi vengono descritti
e raccontati nei dati nazionali e nelle ricerche locali, vediamo che sono
soprattutto cinque le criticità disseminate lungo un cammino segnato da fatiche,
conquiste e rallentamenti.
Proviamo a descriverli in maniera sintetica. Lo facciamo, proponendo anche i dati
e le storie raccolti in un gruppo/campione significativo, costituito dalle ragazze e
dai ragazzi coinvolti nel progetto di tutoraggio “Almeno una stella”, condotto in
sei diversi territori (1).
Adolescenti sulla soglia: le difficoltà di ingresso nella scuola
Cesar, arrivato dal Peru per ricongiungersi alla madre nel gennaio di due anni fa,
ha potuto entrare a scuola solo a settembre, dopo nove mesi di attesa e di vuoto,
perché in tutte le scuole di zona alle quali ha bussato “non c’era posto”. Xia Feng,
quattordicenne neoarrivato dalla Cina, è stato “rimbalzato” per mesi tra la scuola
secondaria di primo grado vicino a casa e le scuole superiori della zona. Per la
scuola media, era infatti considerato troppo grande; per le scuole secondarie di
secondo grado, era considerato inadatto a causa della sua non conoscenza
63
dell’italiano. Come Cesar e Xia Feng, una parte dei ragazzi stranieri si “disperde”
e non viene inserita nella scuola subito dopo l’arrivo, oppure trascorre un lasso di
tempo considerevole fra il momento del ricongiungimento famigliare e quello
dell’ingresso nella classe.
Quali sono i soggetti più a rischio e i fattori che sono alla base di queste forme di
“descolarizzazione” di fatto, durature o transitorie che esse siano? In alcuni casi,
possono essere le famiglie, sprovviste delle corrette informazioni, ad avere
comportamenti incerti nei confronti dell’inserimento scolastico e a non
promuovere l’ingresso immediato del figlio (o della figlia) nella scuola italiana. In
altri casi, sono invece le scuole a non accogliere la domanda di inserimento – o a
non accoglierla subito – per varie ragioni: il momento dell’anno in cui i minori si
presentano, la situazione sempre più diffusa di saturazione delle classi, la
mancanza di risorse specifiche. Nonostante la normativa preveda “l’inserimento
dell’alunno in qualunque momento dell’anno arrivi”, nella realtà vi sono dunque
ragazze e ragazzi che cercano a lungo un posto a scuola prima di approdare a
destinazione. Sono soprattutto gli adolescenti e coloro che arrivano in Italia in
corso d’anno scolastico (e i maschi più delle femmine) a trovarsi per un po’ “fuori
dalla porta”, con il rischio di perdere del tempo prezioso, allentare la motivazione
ad apprendere, ridurre la possibilità di contatto e scambio con i coetanei italiani.
Indietro di uno o più anni: il ritardo scolastico
Fra i 458 adolescenti coinvolti nel progetto “Almeno una stella” per i quali il dato
risulta disponibile, solo il 35% risulta essere nella condizione di “parità” tra età e
classe frequentata, mentre il 65% si trova in situazione di ritardo: di un anno nel
38,8% dei casi; di due, tre e fino a sei (!) anni nel 26,2%. Una parte consistente
degli alunni stranieri continua infatti a essere inserita al momento dell’arrivo in
Italia in un classe non corrispondente all’età anagrafica. La situazione di ritardo
penalizza in maniera particolare gli alunni inseriti nella scuola secondaria di primo
e secondo grado e pregiudica spesso la possibilità di prosecuzione nella carriera
scolastica. I dati raccolti dal Miur indicano una percentuale ancora preoccupante
di alunni in situazione di ritardo scolastico, anche se essa tende a diminuire in
seguito all’inserimento consistente delle seconde generazioni che registrano una
maggiore corrispondenza tra età e classe.
Sono oggi in questa condizione:
- il 14,7 % degli alunni stranieri nella scuola primaria;
- il 41,5 % nella scuola secondaria di primo grado;
- il 65,1 % nella scuola secondaria di secondo grado.
Le variabili che sono alla base della situazione di ritardo sono sostanzialmente
due. La prima – e oggi più rilevante – ha a che fare con la scelta iniziale della
classe in cui inserire l’alunno straniero. Anche in questo caso, nonostante la
64
normativa preveda che il criterio privilegiato per la determinazione della classe di
inserimento sia quello dell’età anagrafica, si registra di fatto un comportamento di
penalizzazione nei confronti degli alunni con cittadinanza non italiana, i quali
vengono in gran parte retrocessi, come abbiamo visto, di uno, due e a volte anche
tre anni.
Bocciati in prima: l’insuccesso scolastico
La seconda variabile che provoca il ritardo scolastico riguarda invece gli esiti
scolastici a fine anno e il tasso di promozione/bocciatura che si registra fra gli
stranieri. Il divario medio tra allievi italiani e stranieri è rilevante fin dal primo
ciclo di scuola e si presenta inoltre particolarmente pesante nelle prime classi di
ogni ordine di scuola. Nella primaria, ad esempio, la differenza tra i bambini
italiani e stranieri che vengono bocciati alla fine del primo anno è di circa due
punti; nella scuola secondaria di primo grado, alla fine della prima media si
registra un esito negativo per il 3% degli italiani e ben il 10,2 degli alunni
stranieri. Al termine della prima classe delle superiori, viene “fermato” l’8,6%
degli studenti italiani e il 12,2% degli stranieri. Ma in questo anno di scolarità di
registrano anche numerosi ritiri e abbandoni da parte degli allievi non italiani.
Si può costruire dunque nel tempo una sorta di vulnerabilità persistente e di
circolo vizioso che si origina dalla condizione di migrazione e dall’essere
straniero: un inserimento penalizzante in ingresso, che non rispetta la coerenza
tra età e classe frequentata; la probabilità maggiore di avere un esito negativo
soprattutto alla fine del primo anno di ogni tipo di scuola; una marginalità sociale
che diventa anche solitudine relazionale nel tempo extrascolastico; la prossimità
quotidiana nei confronti di altri alunni con scarse performance che crea un effetto
moltiplicatore della vulnerabilità e rischia di produrre demotivazione.
Scelte al ribasso nella prosecuzione degli studi
Una parte consistente degli alunni stranieri ha difficoltà a proseguire gli studi
dopo la secondaria di primo grado: ricerche a livello locale mostrano tassi elevati
di abbandono dopo il primo anno delle superiori, numerosi “scivolamenti” verso
il basso e un addensamento delle presenze nei percorsi di formazione brevi e
meno esigenti. I dati del Miur lo confermano: il 37,9% dei ragazzi stranieri nati
all’estero si orienta verso gli istituti professionali, mentre si indirizza verso questo
percorso di istruzione il 19% circa degli alunni italiani. Viceversa, frequentano
una qualunque classe liceale il 28% circa degli allievi non italiani e quasi il 48%
degli studenti autoctoni. Si osserva inoltre che si orientano verso le scuole a
carattere professionalizzante anche gli alunni stranieri che ottengono buoni
risultati all’esame di terza media. Vi è dunque il rischio che le ragazze e i ragazzi
stranieri facciano (o siano orientati verso) scelte scolastiche al ribasso con la
65
conseguente dispersione di talenti e possibilità che andrebbero invece sostenuti e
valorizzati.
4. L’italiano di scolarità: la tigre sul cammino
Alla base delle criticità descritte sopra viene spesso indicata la non competenza o
una padronanza ridotta nella lingua italiana, non tanto per gli usi comunicativi,
quanto per le abilità di studio (Italstudio). Ed è questo il quinto fattore e ostacolo
che gli alunni stranieri incontrano sul loro cammino: una vera e propria “tigre sul
cammino”, come i cinesi definiscono le difficoltà più ardue. Se infatti
l’acquisizione dell’italiano per comunicare avviene per gran parte degli alunni
stranieri in tempi relativamente brevi – grazie anche ai contatti numerosi e densi
con i pari a scuola e nel tempo libero – l’apprendimento della lingua veicolare
implica tempi lunghi e può avvenire solo all’interno della scuola. Esso richiede
modalità didattiche protratte di facilitazione e semplificazione, materiali didattici
efficaci, attenzioni da parte di tutti gli insegnanti, ognuno dei quali, oltre ai
contenuti disciplinari, trasmette anche la microlingua delle discipline. Dispositivi,
consapevolezze e risorse di cui spesso le scuole non hanno la disponibilità.
A proposito di competenza linguistica degli alunni stranieri, sono disponibili i
risultati delle prove Invalsi, divisi per origine degli alunni e per regione
(www.invalsi.it/snv).
Nella Tab.1 possiamo leggere le differenze fra i punteggi in italiano degli alunni
italiani e non italiani e, fra questi, distinguere tra le performance degli allievi di
prima e di seconda generazione.
Tabella 1 - Differenza % fra AS e alunni italiani nelle risposte al test di italiano, SNV Invalsi
II
primaria
V
primaria
I sec.
I grado
III sec.
I grado
II sec.
II grado
2012/13 I generazione
-27,0
-14,0
-34,0
-22,0
-14,0
II generazione
-15,0
-11,0
-16,0
-6,0
-13,0
2010/11 I generazione
-18,8
-13,7
-21,1
-9,5
-15,3
II generazione
-14,1
-7,3
-11,1
-5,7
-7,7
2009/10 I generazione
-27,4
-21,7
-20,2
n.d.
n.d.
II generazione
-21,5
-11,7
-9,7
n.d.
n.d.
Gruppo
Fonte: elaborazioni su dati Invalsi (2009; 2010; 2013)
Dall’osservazione dei dati, possiamo trarre alcune considerazioni.
- Le differenze di punteggio ottenuto dagli alunni stranieri rimangono nel tempo
significative, rispetto a quello degli autoctoni.
66
- I risultati ottenuti dagli alunni appartenenti alla cosiddetta “seconda
generazione”, costituita dai nati in Italia, sono migliori rispetto a quelli degli
alunni stranieri nati all’estero e inseriti nella scuola italiana ad un certo momento
della loro vita. Le differenze di punteggio ottenuto dagli alunni nati in Italia,
rispetto ai compagni italiani, sono, ad esempio, di 15 punti in seconda primaria
(ma salgono a 27 punti per la “prima generazione”); di circa 11 punti in quinta (e
di 14 punti per i bambini nati all’estero); di 16 punti in prima media (e ben 34
per i nati all’estero); 6 punti in terza media (a fronte di 22 punti per i ragazzi
ricongiunti).
- Si notano dei miglioramenti nel corso degli anni all’interno di uno stesso grado
scolastico: vi è infatti una riduzione del divario fra la seconda e la quinta primaria
e fra la prima media e la terza media.
- I risultati migliorano inoltre con il progredire dell’istruzione all’interno di ogni
tipo di scuola, come abbiamo visto, ma tendono a peggiorare nel passaggio da un
ordine di scuola all’altro. Se osserviamo, ad esempio, i dati 2012/13 relativi alla
cosiddetta seconda generazione, vediamo che vi è un aumento del gap fra la
quinta primaria e la prima media e fra la terza media e la seconda superiore. Il
dato evidenzia ancora una volta la difficoltà che esiste nella scuola italiana nei
passaggi da un grado di scuola all'altro; fra un ciclo di studi e quello successivo.
Le considerazioni che possiamo trarre dai dati INVALSI ci invitano a riflettere
soprattutto su alcuni temi: la competenza in italiano dei più piccoli nati in Italia
(che ottengono risultati inferiori agli italiani in seconda elementare); la necessità
di potenziare l’insegnamento dell’italiano per lo studio; i passaggi da un tipo di
scuola ad un altro, momento in cui si registrano criticità, esiti scolastici negativi e
abbandoni.
5. I fattori collegati al rischio della dispersione scolastica
Un recente studio condotto a Milano sulla dispersione, sulla base dei dati
dell’anagrafe scolastica cittadina, ha evidenziato che il rischio di abbandono della
scuola tra gli alunni stranieri nati all’estero è dieci volte superiore a quello degli
italiani nativi e quattro volte superiore a quello degli studenti non italiani di
seconda generazione (Bugli e altri, 2015). Quali sono gli eventi che sono alla base
della dispersione o che ne acuiscono il rischio? Sono soprattutto tre fattori:
- la ripetenza della classe in corso;
- il ritardo scolastico e il conseguente divario tra età e classe frequentata;
- il non superamento dell’anno.
Il dato del ritardo scolastico pesa dunque in maniera determinante sulla
dispersione ed è inoltre un predittore di altri eventi critici quali: ripetenze,
67
perdita di motivazione, scelte al ribasso nella prosecuzione degli studi, frequenza
saltuaria o abbandono della scuola.
Quali sono le nazionalità per le quali gli eventi connessi al rischio di dispersione
pesano in misura maggiore? La situazione milanese colloca al primo posto gli
alunni romeni. A fronte di una tasso medio di rischio di interruzione scolastica
non formalizzata pari allo 0,38%, i ragazzi romeni registrano il 3,87%; seguono
gli egiziani (1,75%); i singalesi (1,32%), i cinesi (1,29%).
Naturalmente, le storie di migrazione, la situazione famigliare e il capitale
culturale dei genitori pesano anch’essi in maniera determinante sul rischio di
dispersione scolastica dei figli. La ricerca milanese mette tuttavia in luce che
anche quando è disponibile un capitale culturale dei genitori relativamente alto,
con un titolo equivalente al diploma universitario o alla laurea, le differenze di
successo scolastico continuano a permanere, a scapito degli alunni con
cittadinanza non italiana. In altre parole, il fatto di essere straniero, pur se figlio
di laureati, sembra pesare di per sé come condizione di svantaggio alla partenza.
6. I più piccoli, i più grandi
Come abbiamo visto, i percorsi scolastici dei bambini e dei ragazzi stranieri
presentano registrano delle criticità che permangono nel tempo. Ma una scuola
impoverita e priva di risorse rischia di non poter dare risposte efficaci,
continuative e mirate, ai bisogni di accoglienza, di apprendimento linguistico –
per gli usi comunicativi e per quelli scolastici – di orientamento dei “nuovi”
alunni. Alla scarsità dei dispositivi e delle attenzioni per una buona integrazione
che connota la scuola, si deve aggiungere inoltre l’impossibilità di gran parte delle
famiglie immigrate a sostenere i loro figli nello studio, a controllarne il percorso,
a supportare le scelte per il futuro.
I bambini e i ragazzi stranieri sono dunque spesso soli davanti ai compiti di studio
e nel tempo extrascolastico e devono contare soprattutto sulle loro risorse
personali: sui saperi e le capacità consolidati nella scuola precedente,
sull’autodisciplina e il senso del dovere, sulle attitudini personali e la voglia di
riuscire. E i risultati positivi di una parte degli alunni non italiani, registrati anche
alla recente sessione degli esami di terza media e di maturità, lo confermano.
Ma quali priorità dovrebbero essere poste al centro di una scuola che sia davvero
in grado di includere tutti? Ne indichiamo cinque.
- un’attenzione ai più piccoli poiché una buona integrazione si inaugura nella prima
infanzia. Ciò significa la promozione dell’inserimento massiccio e diffuso dei
bimbi stranieri nella scuola dell’infanzia, cosa che oggi non avviene, dal momento
che circa un quarto dei piccoli non italiani non la frequenta, contrariamente a
68
quanto avviene per i bambini autoctoni, i quali vi sono inseriti per la quasi
totalità. Il tempo compreso fra i tre e i sei anni è infatti cruciale ai fini
dell’acquisizione della seconda lingua, della socializzazione fra pari, del successivo
ingresso nella lingua scritta;
- un piano nazionale di accoglienza e di insegnamento dell’italiano come seconda lingua –
per comunicare per studiare – rivolto, in particolare, agli adolescenti che arrivano
per ricongiungimento famigliare, i quali attraversano le difficoltà scolastiche più
evidenti e si trovano ad apprendere il nuovo codice in un’età definita “critica”;
- un’attenzione particolare ai momenti di passaggio, dal momento che le criticità più
rilevanti degli alunni stranieri si collocano, come abbiamo visto, al primo anno di
ogni tipo di scuola;
- una rete di aiuto allo studio, nel tempo scolastico ed extrascolastico, che possa
accompagnare gli alunni stranieri fuori dalla scuola con forme mirate di
tutoraggio, sostegno all’apprendimento, rimotivazione, gestite da volontari
competenti, associazioni educative professionali. Una rete che può coinvolgere
anche studenti universitari, italiani e stranieri, i quali potrebbero svolgere
efficacemente la funzione di tutor o mentore e inoltre vivere concretamente un
ruolo di cittadinanza attiva (vedi il progetto “Bussole” e “Almeno una stella”,
sperimentato con buoni risultati in sei diversi territori);
- un’attenzione mirata all’orientamento scolastico e alle modalità di prosecuzione
degli studi, perché questo momento di scelta può segnare l’inizio di un processo
di marginalizzazione sociale e lavorativa, oltre che scolastica o, viceversa,
rappresentare un’opportunità di mobilità e di promozione e inaugurare un
percorso di inclusione positiva e di riconoscimento di talenti e capacità.
Note
(1) Il progetto di tutoraggio “Almeno una stella. I giovani universitari accompagnano gli
adolescenti stranieri a scuola e nella città” è stato realizzato negli anni scolastici 2013/14 e
2014/15. Finanziato dalla Fondazione “P. Vismara” di Milano e condotto dal Centro Come, ha
interessato sei diversi territori: Milano, Torino, Bologna, Arezzo, provincia di Trento, Friuli
Venezia Giulia (in bibliografia).
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scolastica. Anno scolastico 2013-14, in www.comune.milano.it
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e il ruolo di scuole e Terzo settore, We World Intervista, Associazione Bruno
Trentin, Fondazione Giovanni Agnelli, Ediesse, Roma, 2014.
69
Colombo E. (a cura di) (2010), Figli di migranti in Italia. Identificazioni,
relazioni, pratiche, UTET, Torino.
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immigrati cambieranno il nostro paese?, il Mulino, Bologna.
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multiculturale, Giunti, Firenze, nuova ediz.
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progetto di tutoring scolastico per gli adolescenti stranieri, Centro Come, Milano
(disponibile sul web: www.centrocome.it).
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Miur-Ismu (2015), Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi.
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Queirolo Palmas L. (2006), Prove di seconde generazioni. Giovani di origine
immigrata tra scuole e spazi urbani, FrancoAngeli, Milano.
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studenti di origine immigrata nella scuola superiore, FrancoAngeli, Milano.
Unione Europea (2013), Study on educational support for newly migrant children.
Final report: www.ec.europe.eu/education
****
Allegato. Diversi da chi?, a cura dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli
alunni stranieri e per l’intercultura del Miur (documento elaborato da G. Favaro per
conto dell’Osservatorio).
I. Nella scuola: esercizi di mondo
Una “buona scuola” è una scuola buona per tutti e attenta a ciascuno.
L’approccio universalista della nostra scuola si deve oggi misurare e coniugare con le
specificità e le storie di coloro che la abitano e con le trasformazioni della popolazione
scolastica intervenute in questi anni. Una di queste trasformazioni, forse la più rilevante,
riguarda la presenza crescente nelle aule scolastiche dei bambini e dei ragazzi che hanno
70
una storia, diretta o famigliare, di migrazione. Gli alunni con cittadinanza non italiana
sono più di 800.000 nell’anno scolastico 2013/2014(il 9% sul totale della popolazione
scolastica, più della metà sono nati in Italia. I processi migratori in atto a livello globale
hanno modificato anche la scuola e la sollecitano a nuovi compiti educativi. Dipendono
infatti anche dalla scuola la velocità e la profondità dell’integrazione di una componente
ormai strutturale della popolazione. Dipende dagli esiti dell’esperienza scolastica dei figli
dei migranti la possibilità di un Paese di contare, per il suo sviluppo economico e civile,
anche sulle intelligenze e sui talenti dei “nuovi italiani”. E’ nella scuola che gli studenti
con background migratorio possono imparare una con-cittadinanza ancorata al contesto
nazionale e insieme aperta a un mondo sempre più grande, interdipendente,
interconnesso. Nella scuola infatti tutti questi bambini e i ragazzi si “allenano” a convivere
in una pluralità diffusa. E’ infine anche nella scuola che famiglie e comunità con storie
diverse possono imparare a conoscersi, superare le reciproche diffidenze, sentirsi
responsabili di un futuro comune.
II. Diffondere le buone pratiche
Una “buona scuola” deve contare su insegnanti e dirigenti competenti e saper coinvolgere
tutto il personale scolastico.
Sono molte le istituzioni scolastiche – del primo e del secondo ciclo, così come del
comparto delle scuole per adulti che, da sole o in rete, e spesso col sostegno fattivo di
Enti Locali, Università, terzo settore - hanno negli ultimi anni saputo costruire risposte
efficaci alle nuove esigenze. Queste esperienze, costruite sul campo, offrono un ricco
repertorio di indicazioni e di suggerimenti. Ma non sempre esse sono conosciute e
diffuse: occorre dunque passare dal “brusio” delle buone pratiche a una voce forte e
condivisa, sviluppando una formazione capillare e non sporadica dei dirigenti scolastici e
degli insegnanti, animata in primo luogo da coloro che si sono formati sul campo.
III. Dieci attenzioni e proposte
I percorsi scolastici degli alunni con background migratorio e i loro risultati di
apprendimento presentano criticità diffuse e acute, e comunque una “disparità” rispetto
agli alunni italiani che, sia pure in forme attenuate, riguarda anche i bambini e i ragazzi
nati in Italia o che ci sono arrivati da piccoli. È uno svantaggio che deve essere
contrastato. Citiamo alcune criticità e alcune possibili risposte.
1. Ribadire il diritto all’inserimento immediato degli alunni neoarrivati. Il diritto/dovere di
tutti alla scuola non può più essere compromesso, come talora avviene, dalle inaccettabili
difficoltà di inserimento immediato dei bambini e ragazzi stranieri che arrivano ad anno
scolastico iniziato. E’ necessario che l’amministrazione scolastica acquisisca per tempo
dalle Prefetture tutte le informazioni utili sugli arrivi dei minori “ricongiunti”; è
necessario che in tutte le aree territoriali più interessate dai flussi migratori la formazione
delle classi eviti i livelli di saturazione che impediscono l’accoglienza dei neoarrivati; è
necessario che i dispositivi di ricerca delle scuole e delle classi in cui inserire i nuovi
alunni non comportino “liste di attesa” e trasferimenti da una scuola all’altra che fanno
perdere tempo, motivazione, fiducia nelle istituzioni
71
Nelle situazioni in cui si registra da tempo, e dunque si può prevedere per il futuro, un
rilevante flusso di alunni stranieri, alleggerire il numero degli alunni per classe per
consentire l’inserimento immediato dei nuovi arrivati.
In queste zone e per queste scuole prevedere un organico funzionale aggiuntivo anche
per lo sviluppo di laboratori di L2 per i neoarrivati.
2. Rendere consapevoli dell’importanza della scuola dell’infanzia. La mancata partecipazione di
quasi un quarto dei bambini con origini migratorie, fra i 3 e i 5 anni, residenti in Italia,
alla scuola per l’infanzia, un luogo educativo cruciale ai fini dell’apprendimento
linguistico e di una buona integrazione, deve essere contrastata. Lo si può fare attraverso
il coinvolgimento delle comunità straniere e del privato sociale, con misure che rendano
sostenibili le tariffe di iscrizione alle scuole non gestite dal pubblico, con il
coordinamento locale delle diverse tipologie di scuola per l’infanzia.
Informare e coinvolgere i genitori migranti sull’importanza della scuola dell’infanzia.
Facilitare in maniera concreta ed efficace l’accesso dei bambini e delle famiglie con
origini migratorie all’intero sistema delle scuole dell’infanzia: statali, comunali e
paritarie.
3. Contrastare il ritardo scolastico. La normativa sull’ inserimento scolastico degli alunni con
background migratorio prevede la determinazione della classe sulla base del criterio
dell’età. I dati ministeriali rilevano infatti un tasso preoccupante di “ritardo scolastico” in
ingresso che, non solo non evita, ma in molti casi favorisce ulteriori ritardi dovuti alle
bocciature/ripetenze, con effetti di demotivazione al proseguimento degli studi. Non
costituisce motivo sufficiente di deroga alla normativa la non conoscenza dell’italiano
dell’alunno neo-inserito per il quale occorre, anzi, prevedere piani didattici
personalizzati finalizzati al riallineamento con i comuni obiettivi di apprendimento.
Aggiornare e diffondere indicazioni normative chiare, coerenti e prescrittive sulle
modalità di inserimento e di valutazione degli alunni stranieri neoarrivati.
Attivare, per i neo-arrivati in periodo prescolastico, interventi di formazione linguistica
prima dell’inserimento scolastico.
Predisporre un sito dedicato sul tema dell’inserimento degli alunni neoarrivati
contenente: normative, protocolli di accoglienza; progetti esemplari e buone pratiche
efficaci; esempi positivi di modalità organizzative, materiali didattici e plurilingue
4. Accompagnare i passaggi; adattare il programma e la valutazione. Si osservano esiti scolastici
negativi da parte dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie, anche se nati in Italia,
soprattutto alla fine del primo anno della scuola secondaria di primo grado e della
secondaria di secondo grado. Ogni istituto scolastico deve essere “allenato”, in questi
passaggi nevralgici, alla predisposizione di piani personalizzati che comportino, se
necessario, anche modifiche transitorie e non permanenti dei curricoli. La valutazione
72
di fine anno deve essere coerente con i piani personalizzati e tener conto dei progressi
effettivi registrati a partire dalle situazioni in ingresso.
Definire in maniera chiara - e coerente con “l’adattamento del programma” previsto dalla
normativa - le modalità di valutazione per gli allievi di recente immigrazione,
prevedendo, ove necessarie, deroghe dalla normativa standard e apposite flessibilità agli
esami di fine ciclo per gli allievi inseriti per la prima volta nel sistema scolastico...
Accompagnare con cura i passaggi da un tipo di scuola all’altro.
5. Organizzare un orientamento efficace alla prosecuzione degli studi. Investire sul protagonismo
degli studenti. Le ragazze e i ragazzi con background migratorio tendono a proseguire gli
studi iscrivendosi (o sono orientati a farlo) in larga maggioranza, anche per chi ha
ottenuto buoni risultati negli esami di terza media, ai percorsi o agli istituti professionali.
È opportuno quindi che sia attivato un orientamento agli studi più efficace attraverso
l’informazione plurilingue alle famiglie sulle caratteristiche dei percorsi di studio e,
dove occorre, attraverso misure di diritto allo studio. Sono da tenere sotto controllo
gli eventuali stereotipi di varia natura impliciti nei consigli di orientamento. A fronte,
inoltre, del grande numero di abbandoni precoci (e quindi di giovani adulti privi di
qualifiche e di diplomi) va valorizzato il ruolo delle nostre scuole di seconda
opportunità (CPIA). È importante inoltre sviluppare e promuovere modalità di
coinvolgimento diretto degli studenti, italiani e di background migratorio, attraverso
esperienze di peer education, ricorrendo, per esempio, a studenti delle seconde
generazioni come tutor di studenti neoarrivati, per sostenerli nei laboratori,
nell’apprendimento dell’italiano, nell’orientamento.
Informare in maniera accurata (anche con opuscoli plurilingue) le famiglie e gli alunni
con origini migratorie sul sistema scolastico italiano e sulle opportunità di istruzione
superiore.
Organizzare la fase di orientamento e delle scelte scolastiche coinvolgendo anche i
mediatori linguistico-culturali e giovani tutor di origine migratoria.
6. Sostenere l’apprendimento dell’italiano L2, lingua di scolarità. Alla base dei cammini
scolastici rallentati vi è spesso una competenza ridotta in italiano, anche delle cosiddette
“seconde generazioni”. Le difficoltà linguistiche hanno a che fare, soprattutto, con la
competenza nella lingua per lo studio che è essenziale alla riuscita scolastica. Di qui
l’esigenza di istituire negli istituti scolastici i “laboratori linguistici permanenti”,
animati da insegnanti specializzati nell’insegnamento dell’italiano lingua 2, capaci
anche di coordinare il lavoro di semplificazione linguistica dei contenuti delle diverse
discipline e di facilitare l’apprendimento dei linguaggi specifici delle discipline di
studio. Anche a questa priorità, molto evidente nelle aree maggiormente interessate
alla scolarizzazione dei ragazzi con origini migratorie, deve essere destinata la
predisposizione di un organico “funzionale”. Questa scelta è accompagnata da un
nuovo e sistematico impegno nella formazione dei docenti; in primo luogo, ma non
esclusivamente, degli insegnanti di italiano. Se la loro specializzazione è indispensabile,
73
è però da evitare che venga delegata solo a loro la responsabilità dell’apprendimento
della lingua di scolarità.
Organizzare nelle scuole laboratori linguistici di italiano L2 per le diverse fasi
dell’apprendimento e per livelli e scopi differenti.
Prevedere nel tempo extrascolastico, in collaborazione con le associazioni, il volontariato
e il privato sociale, forme di aiuto allo studio, protratte e continuative.
Formare i docenti sui temi dell’insegnamento/apprendimento dell’italiano come seconda
lingua.
7. Valorizzare la diversità linguistica. L’ integrazione scolastica dei bambini e dei ragazzi con
origini migratorie ha seguito in questi anni modalità prevalentemente di tipo
“compensativo”, sottolineando soprattutto le carenze e i vuoti e riconoscendo molto
poco i saperi acquisiti e le competenze di ciascuno, ad esempio, nella lingua materna. La
diversità linguistica rappresenta infatti un’opportunità di arricchimento per tutti, sia
per i parlanti plurilingue, che per gli autoctoni, i quali possono precocemente
sperimentare la varietà dei codici e crescere più aperti al mondo e alle sue lingue.
Attivare dentro le scuole corsi opzionali di insegnamento delle lingue d’origine, anche in
collaborazione con i governi dei Paesi di provenienza.
Sperimentare l’insegnamento a tutti gli alunni di lingue straniere non comunitarie
(cinese, arabo, russo).
Conoscere, riconoscere e valorizzare le forme di bilinguismo presenti fra gli alunni della
classe.
Formare i docenti sul tema della diversità linguistica e del plurilinguismo.
8. Prevenire la segregazione scolastica. Si riscontrano in alcune scuole fenomeni di
concentrazione della presenza di alunni con origini migratorie. Oltre al dato demografico
e residenziale, legato agli insediamenti abitativi delle famiglie migranti in un determinato
territorio, possono avere un peso le preoccupazioni dei genitori italiani sulla qualità
dell’apprendimento nelle classi (troppo) multiculturali. Si tratta di agire con tutti gli
attori coinvolti per garantire in tutte le scuole una buona qualità dell’insegnamento/
apprendimento, in maniera esplicita e trasparente e investendo maggiori risorse nelle
situazioni più difficili, affinché il diritto alla scuola di qualità valga dovunque e per tutti.
Promuovere accordi a livello locale, al fine di rendere operativi i criteri di equoeterogeneità nella formazione delle classi, evitando o riducendo i casi di concentrazione
delle presenze.
Prevedere interventi specifici per le situazioni dove si registra un’alta presenza di alunni
con background migratorio.
9. Coinvolgere le famiglie nel progetto educativo per i loro figli. Le scuole devono diventare
presidi di socialità, luoghi di scambio e di confronto. Il dialogo costante fra la scuola e le
74
famiglie di origine straniera deve inoltre essere denso e ravvicinato nei momenti topici
della scolarità dei figli: l’ingresso, i momenti della valutazione, l’orientamento e le
scelte. Ma un’attenzione costante va data alle interazioni quotidiane e di routine, che
devono essere quanto più inclusive e facilitate: attraverso i messaggi plurilingue,
attraverso strumenti formali o informali di mediazione linguistico-culturale e soprattutto
attraverso gli atteggiamenti di vicinanza. Le recenti normative sulla regolarizzazione degli
immigrati chiedono inoltre alle istituzioni scolastiche – e non solo ai CPIA – di avere
un’attenzione particolare alla formazione linguistica degli adulti con origini migratorie.
Anche le scuole dei figli, aperte al territorio e ai bisogni della comunità plurale, possono
offrire opportunità in questo senso. Una particolare attenzione va posta sulla
partecipazione scolastica di bambini e ragazzi appartenenti ai gruppi rom e sinti e al
coinvolgimento delle loro famiglie.
Promuovere l’informazione e facilitare la partecipazione delle famiglie di origine
straniera attraverso i messaggi plurilingue e le attività di mediazione linguistico-culturale.
Incoraggiare la rappresentanza dei genitori stranieri.
Attivare opportunità di apprendimento dell’italiano per i genitori di origine straniera,
con particolare attenzione alle madri che non lavorano e hanno minori occasioni di
socialità.
10. Promuovere l’educazione interculturale nelle scuole I giovani di oggi hanno bisogno di
esperienze relazionali e di strumenti culturali per imparare ad interagire senza timori e
con mentalità aperta con una cultura, un’informazione, un’economia sempre più
contrassegnate dalla duplice dimensione del globale e del locale. Le classi multiculturali
sono un contesto prezioso per abituare tutti, fin dai primi anni di vita, a riconoscersi ed
apprezzarsi come uguali e diversi. La presenza degli studenti con background migratorio,
se valorizzata da un approccio educativo interculturale, offre opportunità importanti alla
modernizzazione e all’arricchimento del profilo culturale della scuola italiana.
Sensibilizzare tutti gli insegnanti sul tema della pedagogia e della didattica interculturale.
Sperimentare percorsi di educazione alla concittadinanza.
Gli alunni di origine non italiana occasione di cambiamento per tutta la scuola. Le classi e le
scuole “a colori” sono lo specchio di come sarà l’Italia di domani. Per questo possono
diventare (e in parte già lo sono) laboratori di convivenza e di nuova cittadinanza.
75
Capitolo 2
Gli allievi di origine straniera in provincia di Arezzo: dati di presenza
e nodi critici
di Lorenzo Luatti
1. Scuola multiculturale o scuola internazionale?
La domanda da cui prende avvio il documento ministeriale recante le “Linee guida
per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” (Miur, 2014) – a cui fa
eco il titolo di questo paragrafo – vorrebbe marcare un passaggio o forse indicare
un traguardo che tuttavia resta lontano, incerto e pochissimo supportato. Scuola
multiculturale o scuola internazionale?
Con le scuole multiculturali ci facciamo i conti da oltre 20 anni e se le previsioni
Istat sulla crescita della popolazione verranno confermate – nel 2050 gli stranieri
in Italia rappresenteranno il 20% circa della popolazione residente e i figli degli
stranieri potrebbero essere la maggioranza –, l’eterogeneità nelle classi assumerà
percentuali sempre più alte e diffuse in ogni ordine di scolarità. Allora la “sfida”
da assumere è come coniugare elevate percentuali di allievi stranieri o di origine
straniera con alte aspettative, qualità degli apprendimenti, successo scolastico per
tutti. Ma passare da scuole multiculturali a “scuole internazionali” (o scuole
interculturali di “seconda generazione”, Santerini, 2010) non è uno scherzo:
significa neutralizzare lo stigma sociale e culturale che pesa ancora sui migranti,
agire sulle rappresentazioni più diffuse dello straniero presenti nell’opinione
pubblica e tra le famiglie autoctone, che legittimamente chiedono una scuola di
qualità per i figli, una scuola che offra migliori opportunità formative rispetto al
futuro scolastico e lavorativo. Per fare questo occorre un progetto di scuola e di
Paese, occorrono tempi per perseguirlo, occorrono esempi virtuosi che sappiano
parlare e convincere attraverso fatti, azioni e numeri: dimostrando
concretamente che una scuola con elevate percentuali di figli di migranti è una
realtà dove “si vive bene”, dinamica e aperta, ha un ambiente di apprendimento ad
alta flessibilità, dove le persone si incontrano, lavorano e studiano volentieri e in
modo fruttuoso, dove si costruiscono soluzioni di mutuo gradimento. Una scuola
interculturale e di qualità.
Come trasformare la diversità culturale in risorsa, al di là dei buonismi e degli
allarmismi che ancora sembrano caratterizzare buona parte del dibattito italiano?
Come far sì che le diversità culturali e soprattutto sociali “non facciano più paura”
e possano progressivamente tramutarsi in convenienze collettive, da cui tutti
76
traggono motivo di vantaggio in termini di migliori opportunità nell’investimento
formativo dei figli? All’estero vi sono scuole che hanno fatto della forte
eterogeneità nella composizione della popolazione studentesca, e dell’alta
presenza di studenti “stranieri” un elemento di forza, ribaltando il teorema che se
ci sono alunni stranieri non si impara, perché i docenti perdono tempo a
insegnare la nuova lingua a chi non la sa piuttosto che concentrarsi sulla didattica.
Vi sono paesi dove i buoni risultati sono stati raggiunti aumentando non
solamente la qualità dell’istruzione in generale e adottando misure specifiche di
sostegno ma anche attuando approcci decisamente interculturali e antirazzisti: in
Canada, dove dagli anni Novanta si è investito su politiche multiculturaliste, i
risultati della seconda generazione sono allo stesso livello dei nativi. Ma per
ottenere tali risultati – come ci insegna proprio il modello canadese – occorre
tenere caparbiamente la “barra a dritta”: una progettualità forte e condivisa a vari
livelli (politico, culturale, istituzionale) e intenzionalmente perseguita nel tempo.
In questa prospettiva le scuole ad alta presenza di studenti stranieri sono oggi – o
potrebbero essere – dei laboratori avanzati, palestra di sperimentazione per
l’Italia di domani. Bisognerebbe dotarle di strumenti e risorse adeguate, sostenere
i docenti, gli alunni e le famiglie che le abitano per riqualificarle in molti casi, e
renderle attrattive. Una pedagogia e didattica dell’inclusione costa, richiede una
serie di condizioni economiche e organizzative senza le quali non si può attuare.
Siamo lontani da questa prospettiva se, come rivela l’OCSE-PISA, le scuole
italiane con una maggiore popolazione di studenti svantaggiati tendono ad avere
meno risorse rispetto alle scuole con una popolazione più favorita di studenti
(OECD, 2012). Più che internazionali, le scuole italiane con elevate percentuali
di studenti stranieri spesso sperimentano la solitudine e l’affanno (ci si arrangia
per andare avanti), ma anche forme di resilienza e talvolta evidenziano una non
comune capacità di controllo e di risposta alle condizioni sfavorevoli: attivano e
sviluppano nuove alleanze e solidarietà di gruppo. Quando non sono frutto di
strategie segregative intenzionalmente perseguite, le scuole polarizzate hanno
molto da insegnarci. Si tratta di imparare dalla loro esperienza quotidiana,
prendendola innanzitutto sul serio proprio nella sua concretezza e ambiguità.
2. Distribuzione per livello d’istruzione, territorio e cittadinanza
Il termine che meglio definisce i fenomeni migratori in corso a scuola è
probabilmente “stabilizzazione”. Stabilizzazione rispetto al numero degli allievi
stranieri presenti nelle aule scolastiche, ormai “fermo” al dato di alcuni anni fa.
Stabilizzazione anche rispetto al dato di incidenza percentuale sulla popolazione
scolastica complessiva. A livello nazionale, ad esempio, nel precedente anno
77
scolastico si è registrata una crescita, rispetto all’a.s. 2013/14, molto contenuta e
pari allo 0,4%, che corrisponde a circa 3 mila unità. Gli alunni stranieri erano
805.800 lo scorso anno scolastico (2014/15) e sono pari al 9,2% dell’intera
popolazione scolastica (Miur, 2015).
Nello specifico della provincia di Arezzo, sono altresì frutto di un processo di
stabilizzazione, da un lato, il “sorpasso” – questa sì che è una novità assoluta –
della presenza degli allievi stranieri nati in Italia (le cosiddette G2, seconde
generazioni) sui loro compagni con cittadinanza straniera nati all’estero;
dall’altro, la costante crescita della presenza “straniera” nel livello di istruzione
superiore esprime un processo di scolarizzazione che, seppur tra molte difficoltà e
fragilità, va avanti e si consolida. Vediamo dunque alcuni dati.
Gli allievi stranieri nelle scuole della provincia di Arezzo nell’a.s. 2014/15 erano
6.781 e rappresentavano il 14,7% dell’intera popolazione studentesca. Rispetto al
precedente anno scolastico il dato risulta invariato (gli allievi stranieri erano
6.772): è ormai da un triennio che si assiste ad una stabilizzazione del numero
assoluto delle presenze. La primaria si conferma l’ordine di scolarità a maggiore
presenza: con 2.324 iscritti, essa raccoglie da sola il 34,3% degli studenti
stranieri. Segue la secondaria di II grado, in costante incremento anno dopo anno,
con 1.916 studenti, pari al 28,3%.
Tabella 1 - Presenza Allievi Stranieri (AS). Serie storica
Anno scolastico
1996/1997
1997/1998
1998/1999
1999/2000
2000/2001
2001/2002
2002/2003
2003/2004
2004/2005
2005/2006
2006/2007
2007/2008
2008/2009
2009/2010
2010/2011
2011/2012
2012/2013
2013/2014
2014/2015
Stranieri
438
675
870
1.162
1.450
1.938
2.597
3.039
3.524
4.199
4.765
5.318
5.622
5.715
6.212
6.204
6.664
6.772
6.781
Italiani
41.742
40.953
39.138
42.019
42.273
41.770
41.747
39.626
39.735
39.730
39.295
39.621
39.501
39.773
39.642
39.038
39.158
39.377
39.371
78
Totale alunni
42.180
41.628
40.008
43.181
43.723
43.708
44.344
42.665
43.259
43.929
44.060
44.939
45.123
45.488
45.854
45.242
45.822
46.149
46.152
Rapporto %
stranieri su totale
1,0
1,6
2,2
2,7
3,3
4,4
5,9
7,1
8,1
9,6
10,8
11,8
12,5
12,6
13,5
13,7
14,5
14,7
14,7
Grafico 1 - Andamento della presenza degli
16.0
14.0
14.5 14.7 14.7
13.5 13.7
12.0
11.8
12.5 12.6
10.8
10.0
9.6
8.0
8.1
7.1
6.0
5.9
4.0
4.4
2.0
AS
1.0
2.2
2.7
19
96
/1
99
7
19
97
/1
99
8
19
98
/1
99
9
19
99
/2
00
0
20
00
/2
00
1
20
01
/2
00
2
20
02
/2
00
3
20
03
/2
00
4
20
04
/2
00
5
20
05
/2
00
6
20
06
/2
00
7
20
07
/2
00
8
20
08
/2
00
9
20
09
/2
01
0
20
10
/2
01
1
20
11
/2
01
2
20
12
/2
01
3
20
13
/2
01
4
20
14
/2
01
5
0.0
1.6
3.3
Tabella 2 - Distribuzione degli AS nei diversi ordini di istruzione (a.s. 2014/15)
Livello di istruzione
Scuola Infanzia*
Primaria
Sec. I grado
Alunni stranieri
1.186
2.324
1.355
% di colonna
17,5
34,3
20,0
Alunni totali
6.748
14.662
9.021
% stranieri su tot.
17,6
15,9
15,0
Sec. II grado
1.916
28,3
15.721
12,2
Totale
6.781
100,0
46.152
14,7
* Il dato non include le scuole dell’infanzia parificate
La zona di Arezzo, con il capoluogo, raccoglie il maggior numero di famiglie
immigrate e di istituti superiori e quindi registra, anche per l’a.s. 2014/15, la
percentuale maggiore di presenze: il 36,1%. Tuttavia, in termini relativi,
l’incidenza maggiore si conferma nel distretto scolastico del Casentino con la
percentuale più alta di studenti stranieri sul totale della popolazione studentesca:
il 20,3% difatti non ha cittadinanza italiana. Continuano ad attirare la popolazione
immigrata non solo le città di medie dimensioni, ma anche quelle più piccole.
L’incidenza percentuale più alta di studenti stranieri della zona Aretina si registra
a Castiglion Fibocchi (18,5%); in Casentino a Pratovecchio Stia (24,4%),
Bibbiena (25,7%); in Valdarno a Montevarchi (18,8%); in Valdichiana a Foiano
della Chiana (20,8%) ed infine in Valtiberina a Sestino (22,0%).
79
Tabella 3 - Distribuzione degli AS per distretto scolastico percentuale di riga (a.s. 2014/15)
Distretto
Aretina
Casentino
Valdarno
Valdichiana
Alunni stranieri
2.449
841
1.796
1.089
Alunni totali
18.134
4.142
12.504
7.010
%
13,5
20,3
14,4
15,5
Valtiberina
Totale
606
6.781
4.362
46.152
13,9
14,7
Tabella 4 - Distribuzione e incidenza percentuale (colonna) degli AS per distretto scolastico (a.s. 2014/15)
Distretto
Aretina
Casentino
Valdarno
Valdichiana
Totale
2.449
841
1.796
1.089
Valtiberina
Totale
% di colonna
36,1
12,4
26,5
16,1
606
8,9
6.781
100,0
Tabella 5 - Distribuzione degli AS per distretto scolastico e livello d’istruzione (a.s. 2014/15)
Distretto
Aretina
Casentino
Valdarno
Valdichiana
Valtiberina
Sc. Infanzia
V.a.
% riga
289
11,8
184
21,9
390
21,7
213
19,6
110
18,2
Primaria
V.a.
% riga
866
35,4
316
37,6
613
34,1
344
31,6
185
30,5
Sec. I grado
V.a.
% riga
493
20,1
159
18,9
358
19,9
229
21,0
116
19,1
Sec. II grado
Totale
V.a. % riga V.a.
% riga
801
32,7 2.449 100,0
182
21,6
841
100,0
435
24,2 1.796 100,0
303
27,8 1.089 100,0
195
32,2
606
100,0
Totale
1.186
2.324
1.355
1.916
17,5
34,3
20,0
28,3
6.781
100,0
Tabella 6 - Distribuzione degli allievi stranieri per comune (a.s. 2014/15)
Comune
Arezzo
Capolona
Castiglion Fibocchi
Civitella Val di Chiana
Monte San Savino
Subbiano
Aretina Totale
Bibbiena
Castel Focognano
Castel San Niccolò
Chitignano
Chiusi della Verna
Alunni stranieri
2.056
99
34
104
80
76
2.449
427
50
33
4
36
80
% di
colonna
30,3
1,5
0,5
1,5
1,2
1,1
36,1
6,3
0,7
0,5
0,1
0,5
Alunni totali
15.269
666
184
761
791
463
18.134
1.660
334
193
23
236
Incidenza %
13,5
14,9
18,5
13,7
10,1
16,4
13,5
25,7
15,0
17,1
17,4
15,3
Montemignaio
Ortignano Raggiolo
Poppi
Pratovecchio Stia
Talla
Casentino Totale
Bucine
Castelfranco Pian di Scò
Cavriglia
Laterina
Loro Ciuffenna
Montevarchi
Pergine V.no
San Giovanni V.no
Terranuova B.ni
Valdarno Totale
Castiglion F.no
Cortona
Foiano della Chiana
Lucignano
Marciano della Chiana
Valdichiana Totale
Anghiari
Badia Tedalda
Caprese Michelangelo
Monterchi
Pieve Santo Stefano
Sansepolcro
Sestino
Valtiberina Totale
Totale
2
7
166
111
5
841
52
56
58
55
49
706
36
658
126
1.796
326
448
228
33
54
1.089
33
8
56
17
81
387
24
606
6.781
0,0
0,1
2,4
1,6
0,1
12,4
0,8
0,8
0,9
0,8
0,7
10,4
0,5
9,7
1,9
26,5
4,8
6,6
3,4
0,5
0,8
16,1
0,5
0,1
0,8
0,3
1,2
5,7
0,4
8,9
100,0
27
113
1.040
455
61
4.142
532
814
834
369
559
3.759
350
4.204
1.083
12.504
2.052
3.109
1.094
337
418
7.010
474
93
383
191
527
2.585
109
4.362
46.152
7,4
6,2
16,0
24,4
8,2
20,3
9,8
6,9
7,0
14,9
8,8
18,8
10,3
15,7
11,6
14,4
15,9
14,4
20,8
9,8
12,9
15,5
7,0
8,6
14,6
8,9
15,4
15,0
22,0
13,9
14,7
C’è il mondo nelle scuole della provincia di Arezzo: 92 le nazionalità estere
presenti sui banchi delle classi.
Tabella 7 - Numero nazionalità presenti nelle scuole della provincia di Arezzo (a.s. 2014/15)
UE
18
Europa
Paesi non UE
15
Africa
America
Asia
Oceania
Totale
20
16
22
1
92
Analizzando le provenienze per macro-aree notiamo che gli studenti stranieri
maggiormente rappresentati sono originari (o hanno famiglie provenienti)
principalmente dai Paesi dell’Unione Europea (sono il 32,9% del totale), seguono
81
i Paesi Europei non appartenenti all’Unione Europea (con il 28,2%). Dal
confronto dei dati nel tempo si evidenzia l’attenuarsi della crescita degli alunni
provenienti dai paesi dell’Est Europeo, mentre continua il trend di incremento
per gli alunni provenienti dall’Asia con il 21,9% (due anni fa incidevano per il
16,9%).
Tabella 8 - Principali nazionalità presenti a scuola (a.s. 2014/15)
Alunni stranieri
2014/2015
Incidenza %
Nazionalità
Alunni stranieri
2013/14
Variazione incidenza %
rispetto al 2013/14
Romania
Albania
1.927
1.324
28,4
19,5
1.956
1.317
-1,5
0,5
Marocco
India
604
473
8,9
7,0
592
421
2,0
12,4
Bangladesh
Cina
326
263
4,8
3,9
362
241
-9,9
9,1
Pakistan
Kosovo
254
208
3,7
3,1
257
193
-1,2
7,8
Macedonia
Polonia
182
121
2,7
1,8
174
120
4,6
0,8
Rep. Dominicana
Filippine
101
94
1,5
1,4
98
90
3,1
4,4
Tunisia
Senegal
72
68
1,1
1,0
71
68
1,4
0,0
Altre nazionalità
764
11,3
762
0,3
Totale
6.781
100,0
6.722
0,9
Le prime tre nazionalità maggiormente rappresentate tra i banchi delle nostre
scuole sono la rumena (28,4%), l’albanese (19,5%) e la marocchina (con
l’8,9%). Benché Romania, Albania e Marocco rappresentino da sole, quasi il 60%
della popolazione studentesca complessiva, l’analisi pluriennale evidenzia per loro
un trend di decrescita. Le altre nazionalità numericamente “forti” sono tutte
asiatiche: India (7,0%), Bangladesh (4,8%), Pakistan (3,7%) e Cina (3,9%).
3. Il peso del fattore immigrazione nelle scelte scolastiche. Il ritardo e
gli esiti scolastici
La frequenza della scuola degli alunni stranieri, nonostante il cammino percorso e
i molti passi in avanti compiuti, si connota per una situazione di particolare
svantaggio dovuta alla concentrazione di un insieme di fattori di criticità: risultati
scolastici negativi, ritardo scolastico, forte canalizzazione negli indirizzi di scuola
82
superiore orientati a garantire sbocchi professionali immediati (istituti tecnici e
professionali), fenomeni di abbandono e assenteismo scolastico... Queste criticità
sono tra loro strettamente collegate e disegnano, come è stato osservato (Favaro,
Camarlinghi e D’Angella, 2010; Favaro, 2011), una sorta di “circolo vizioso”:
inserimento penalizzante in ingresso (uno/due anni indietro rispetto all’età
anagrafica) che colpisce soprattutto i neo-arrivati; maggiore probabilità di
riportare esito negativo soprattutto alla fine del primo anno di ogni ciclo di
scolarità; mancanza di adeguate figure di riferimento in grado di aiutare lo
studente nello studio/compiti a casa; difficoltà della famiglia ad accompagnare i
figli nel momento delle scelte scolastiche (spesso orientate “al ribasso”). Una
ricerca curata alcuni anni fa da Paolo Canino (2010) per la Cariplo dal titolo assai
emblematico “Stranieri si nasce… e si rimane?”, utilizzando dati delle rilevazioni
trimestrali Istat sul lavoro 2005-2008 e dati Invalsi (relativamente a sole tre
Regioni), aveva messo in evidenza che oltre alle variabili comuni agli italiani
(occupazione del padre, livello di istruzione dei genitori, condizione lavorativa o
casalinga della madre) resta un residuo di “disuguaglianza” riconducibile proprio
all’essere stranieri, al background migratorio: “a parità delle altre condizioni, si
riscontra una discriminazione specifica nei confronti dei cittadini stranieri che
sono quindi portati a ‘rivedere al ribasso’ i propri percorsi formativi (maggiore
probabilità di abbandonare, minore probabilità di avviare un percorso che possa
proseguire fino all’università). Questa situazione, oltre a rappresentare un fattore
di iniquità sociale, configura un utilizzo inefficiente delle risorse costituite dalle
abilità degli studenti stranieri” (Canino, 2010, p. 10). Si delinea dunque una
situazione scolastica che presenta tratti di iniquità sociale e che rischia lo spreco di
risorse e di talenti, i quali spesso non sono sostenuti e valorizzati in maniera
efficace.
A tali conclusioni, ma con ulteriori spunti di riflessione, è giunta una recente
ricerca da noi condotta, realizzata attraverso questionario e successiva intervista,
nelle scuole secondarie della provincia di Arezzo finalizzata a far emergere le
dinamiche, le motivazioni e gli attori che sottostanno alle scelte sul futuro
scolastico degli studenti frequentanti le classi terza media, e poi
retrospettivamente, la prima superiore (Luatti, 2012). Vediamo qual è la
situazione nelle scuole della provincia di Arezzo.
La distribuzione scolastica degli studenti stranieri e italiani nelle scuole superiori
conferma la netta “preferenza” da parte degli studenti stranieri degli istituti tecnici
e professionali. Ciò nonostante, probabilmente per effetto della progressiva
presenza nell’ordine superiore degli studenti di seconda generazione (ossia nati in
Italia), si assiste ad una graduale redistribuzione nelle varie tipologia di scuole
superiori. Vistosa è la concentrazione di studenti di origine immigrata negli
istituti professionali (39,1%, rispetto al 39,3% dell’a.s. precedente), mentre le
83
iscrizioni nei licei in particolare in quello scientifico sono significativamente
aumentate al 9,4% (rispetto al 7,7% dello scorso anno scolastico).
Diametralmente opposta si presenta la situazione per gli studenti autoctoni, i
quali studiano per il 18,8% allo scientifico e solo il 15,9% è presente
nell’istruzione professionale. Più equilibrate risultano le ripartizioni
nell’istruzione tecnica (il 29% è l’incidenza per italiani e stranieri) e artistica (il
9%).
Tabella 9 - Distribuzione AS per tipologia di istruzione superiore (a.s. 2014/15)
Tipo
Liceale-artistico
Liceale-classico
Liceale-linguistico
Liceale-musicale coreutico
Liceale-scientifico
Liceale-Scienze umane
Professionale
Tecnica
Totale
Italiani Stranieri Totale
1.249
175
1.424
734
15
749
1.072
92
1.164
243
12
255
181
.2954
2.773
1.446
134
1.580
2.195
749
2.944
558
4.651
4.093
13.805 1.916 15.721
% italiani % stranieri % totale
9,0
9,1
9,1
5,3
0,8
4,8
7,8
4,8
7,4
1,8
0,6
1,6
20,1
9,4
18,8
10,5
7,0
10,1
15,9
39,1
18,7
29,6
29,1
29,6
100,0
100,0
100,0
Tutti abbiamo a mente il dato fortemente penalizzante degli esiti scolastici degli
alunni con cittadinanza non italiana che il Miur e la Fondazione Ismu rammentano
ogni anno, e che nel tempo non ha purtroppo conosciuto significativi
ridimensionamenti. È evidente, per chi vuole vedere, che quel dato è specchio e
riflesso delle criticità e delle contraddizioni del “modello” di inclusione adottato
in questo paese, e, se posso aggiungere, dell’insuccesso o della scarsa
penetrazione di buona parte delle azioni e attenzioni diffuse e sperimentate in
tanti anni di lavoro sull’inclusione scolastica. Su quel dato pesano ovviamente
anche le modalità e i criteri seguiti per la valutazione (certificativa) degli alunni
stranieri. A pesare sono innanzitutto le contraddizioni e le approssimazioni della
normativa primaria e delle indicazioni ministeriali in argomento. Norme che
paiono incapaci di affrontare una realtà composita che esce dagli schemi e che
peraltro non è sostenuta da adeguate risorse in termini professionali e
organizzativi. A loro volta, l’assenza di soluzione certe e chiare della normativa,
favoriscono e amplificano, soprattutto nella scuola secondaria, pratiche
discrezionali, generando quel fenomeno peraltro assai noto della “localizzazione
dei diritti”. Così, da una parte, i docenti sono invitati a tener conto della
dimensione formativa della valutazione, a far prevalere considerazioni di carattere
pedagogico (tra cui la necessità di dare tempo), mentre dall’altra le norme
spingono in una direzione contraria se non opposta, finendo per penalizzare
invece di aiutare gli allievi nei loro percorsi di apprendimento. Ma il tema della
84
valutazione degli studenti stranieri si pone in stretta connessione con una
valutazione di ciò che la scuola mette in atto per accompagnarli in un percorso di
apprendimento, in termini di dispositivi adeguati di supporto, sostegno e
accompagnamento. Nello stesso tempo, emerge l’altro tema di forte criticità,
quello della competenza genitoriale (tema affrontato nel successivo contributo) e
della fragilità dei nuclei familiari stranieri (e non solo), soprattutto in ordine alla
possibilità di sostenere e accompagnare i figli nelle incombenze scolastiche. Qui
però dovremmo inserire una ulteriore riflessione – meritevole forse di un futuro
approfondimento – che fa riferimento alla tendenza della scuola e dei docenti di
spostare sempre più sulla famiglia responsabilità e compiti di insegnamento propri
della scuola (si pensi, in primis, a tutto il tema dei compiti a casa che mi pare stia
conoscendo un inedito sviluppo), e che è espressione delle difficoltà oggi
accresciute del “fare scuola” e dell’insegnamento. Ma così facendo non si
amplificano le differenze e le diseguaglianze?
Nella nostra provincia, nell’a.s. 2013/2014, quasi quattro alunni stranieri su dieci
frequentavano una classe inferiore, di uno o più anni, rispetto a quella
corrispondente all’età anagrafica. Si trovano, cioè in una situazione di ritardo
scolastico. Tra gli alunni italiani tale proporzione è di uno su dieci. Gli alunni
stranieri in ritardo scolastico di un anno sono il 23,2%, mentre quelli con due o
più anni di ritardo raggiungono il 14%. Se guardiamo ai dati degli anni passati,
possiamo osservare una costante e graduale riduzione del tasso di ritardo annuale,
mentre sembra mantenersi stabile il ritardo pluriennale. Sicuramente la maggiore
presenza delle G2 è un fattore di riduzione del ritardo scolastico, ma i dati
sembrerebbero disegnare un quadro non univoco.
Il divario crescente negli anni tra età anagrafica degli studenti con cittadinanza
non italiana e classe di inserimento è netto fin dalla primaria (14,2%) e si rafforza
ai livelli di scuola successivi (scuola media: 40,8%) fino a coinvolgere quasi i 2/3
degli studenti iscritti alla secondaria di II grado (63,3%): si conferma il
tendenziale minor ritardo scolastico delle ragazze straniere rispetto ai ragazzi. Si
trovano in una situazione di ritardo il 32,4% delle studentesse contro il 41,5%
degli studenti maschi. Per quest’ultimi sono i ritardi pluriennali ad incidere
maggiormente rispetto alla componente femminile, mentre per i ritardi di un
anno non si evidenziano differenze significative legate al genere (22,5% le
ragazze, 23,8% i ragazzi).
85
Tabella 10 - Percorso scolastico degli AS e italiani. Valori percentuali (a.s. 2013/14)
Risultato
In anticipo
In pari
1 anno
2 anni
3 anni
4 anni e +
Totale ritardi
Totale
Italiani
3,9
85,5
7,4
2,1
0,6
0,4
10,5
100,0
Stranieri
2,4
60,1
23,2
8,9
3,0
2,1
37,2
100,0
Totale
1.452
32.232
3.802
1.238
355
236
5.631
3.9357
Il Casentino è la zona dove si registra la minor incidenza di ritardo scolastico degli
allievi stranieri (30,0%), mentre a detenere il primato delle situazioni di ritardo,
in ragione della maggiore concentrazione di istituti di istruzione superiore è la
zona Aretina (41,0%), a cui fa seguito la Valtiberina con il 40,4%. Anche in
questi casi, i valori zonali sul ritardo evidenziano una diffusa flessione rispetto agli
anni precedenti (eccetto il dato relativo alla Valtiberina che è identico a quello
registrato lo scorso anno). I ritardi scolastici negli istituti professionali e tecnici
sono molto consistenti. Del resto, è qui, come abbiamo visto, che si concentra la
grande maggioranza degli allievi stranieri (quasi l’80%) che proseguono gli studi
superiori. Nei professionali sono in pari 3 studenti stranieri su 10, nei tecnici 5 su
10. Tra le nazionalità numericamente più “forti”, sono i rumeni a registrare una
grave e diffusa situazione di ritardo scolastico: soltanto il 57% è in pari (e in
anticipo) con il curricolo scolastico. Seguono gli allievi pakistani con il 56% e i
dominicani con il 52% di situazione di regolarità. Tra le nazionalità più “virtuose”
rispetto alla situazione di regolarità del curricolo, troviamo gli albanesi e i
marocchini (73%) e i bengalesi (66%).
Tabella 11 - Percorso scolastico degli AS per livello d’istruzione. Valori percentuali (a.s. 2013/14)
Ritardo
Primaria
Sec. I grado
Sec. II grado
Totale
In anticipo
3,5
2,6
0,8
2,4
In pari
82,3
56,4
35,2
60,1
1 anno
12,7
27,9
32,7
23,2
2 anni
1,4
9,6
17,8
8,9
3 anni
2,4
7,2
3,0
4 anni e +
1,0
5,6
2,1
Totale ritardi
14,2
40,8
63,3
37,2
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
86
Tabella 12 - Percorso scolastico degli AS per genere. Valori percentuali (a.s. 2013/14)
Ritardo
In anticipo
In pari
1 anno
2 anni
3 anni
4 anni e +
Totale ritardi
Totale
F
2,6
64,8
22,5
6,9
1,8
1,2
32,4
100,0
M
2,2
56,0
23,8
10,7
4,1
2,9
41,5
100,0
Totale
2,4
60,1
23,2
8,9
3,0
2,1
37,2
100,0
Tabella 13 - Percorso scolastico degli AS per distretto scolastico. Valori percentuali (a.s. 2013/14)
Ritardo
In anticipo
In pari
1 anno
2 anni
3 anni
4 anni e +
Totale ritardi
Totale
Aretina
2,8
55,7
24,8
9,5
3,8
3,0
41,0
100,0
Casentino
2,1
68,0
20,9
6,7
1,8
0,6
30,0
100,0
Valdarno
1,9
63,6
22,8
7,1
2,4
2,1
34,3
100,0
Valdichiana
2,1
61,8
23,9
8,9
2,3
1,1
36,1
100,0
Valtiberina
2,9
56,1
19,6
14,5
3,7
2,6
40,4
100,0
Totale
2,4
60,1
23,2
8,9
3,0
2,1
37,2
100,0
Prendiamo adesso in considerazione i dati sugli esiti scolastici.
Permane un significativo divario tra il dato dei respinti stranieri e quello dei
respinti italiani: i dati relativi all’a.s. 2013/14 confermano una situazione di
svantaggio per i ragazzi e le ragazze straniere. Il primo è quasi tre volte il
secondo: il dato di media segna un 10,7% di respinti per gli stranieri e un 3,9%
per gli italiani. Nell’a.s. 2013/14, rispetto al precedente, la percentuale di
respinti stranieri è cresciuta di 1,3 punti percentuali, mentre i promossi
costituiscono l’87,2%. Le percentuali più alte di successo scolastico si registrano,
ovviamente, nella scuola primaria, mentre, salendo di grado, queste tendono
progressivamente a scendere. Si passa dall’1,5% degli alunni stranieri fermati
nelle primarie, all’8,2% nelle medie, fino al 23,7% nelle secondarie di secondo
grado. Per quanto riguarda il genere si conferma il miglior andamento scolastico
delle ragazze straniere rispetto ai ragazzi: lo scarto è pari a 6 punti percentuali (i
respinti maschi sono il 13,6% mentre le femmine il 7,5%). I passaggi tra un ciclo
scolastico e l’altro evidenziano per tutti gli alunni (anche per gli italiani)
percentuali elevate di respinti che risultano essere particolarmente pesanti per gli
allievi stranieri. Nella prima classe delle secondarie di I grado viene bocciato circa
l’8,8% degli alunni “nati qui” (G2), circa l’11,0% degli allievi stranieri alloctoni
(cioè non nati in Italia) e l’1,4% degli italiani. Il divario cresce ulteriormente nella
87
prima classe delle superiori dove il 36,3% degli alloctoni stranieri e il 24,5%
delle G2 è respinto, mentre per gli italiani la percentuale è del 12,5% circa.
Rispetto agli anni precedenti si registra un netto innalzamento degli insuccessi
scolastici nelle scuole superiori. È evidente che questi fattori di dispersione
scolastica predicono un alto tasso di abbandono scolastico, basta mettere in
relazione il numero degli studenti iscritti al primo e all’ultimo anno delle
superiori per comprendere la gravità del fenomeno: 381 ragazzi e ragazze italiane
sono iscritte alla prima superiori ma solo 75 nella classe quinta; 165 studenti
stranieri ricongiunti (o arrivati al seguito di uno o entrambi i genitori)
frequentano la prima classe mentre solo 22 la classe V; 26 studenti stranieri nati
in Italia (G2) nella prima e soltanto uno nella classe quinta.
Le percentuali più elevate di respinti si registrano nell’Aretino (15,0%) e in
Valtiberina (11,2%). Nei professionali è promosso soltanto il 65,1% degli
studenti stranieri, un dato che segnala un peggioramento di circa 2 punti
percentuali rispetto all’anno precedente. A ciò va sommato il numero di ritirati
(4,5%). Per quanto riguarda la situazione negli istituti tecnici emerge che il
76,9% è promosso e il 20,6% è respinto, mentre i ritirati sono il 2,5%. Sono
soprattutto gli studenti provenienti dalla Repubblica Dominicana a presentare i
dati di insuccesso più negativi: sono promossi solo per il 76,5%, seguono –
sempre tra le nazionalità numericamente più significative – gli studenti bengalesi
(78,6%) e pakistani (79,0%).
Per quanto riguarda la riuscita scolastica delle G2 osserviamo la sostanziale
uguaglianza nei tassi di promozione tra questi alunni (94,5%) e gli studenti italiani
(95,7%). Si ricordi che questi sono valori di media, relativa all’intera ciclo
scolastico primario e secondario. Ben diversi sono i dati sugli esiti relativi alle
scuole superiori. Resta ancora alto il divario tra gli esiti delle G2 e quello degli
alunni stranieri nati all’estero: la forbice si attesta a 13 punti percentuali a
vantaggio delle prime (il 94,5% delle G2 contro l’81,9% degli allievi stranieri
nati all’estero).
Tabella 14 - Esiti scolastici studenti italiani e stranieri. Serie storica, valori percentuali
Anno scol.
2006/07
2007/08
2008/09
2009/10
2010/11
2011/12
2012/13
2013/14
Italiani
95,4
94,0
94,2
94,3
94,8
95,1
95,6
94,7
Totale
Stranieri
89,3
87,8
86,5
85,8
86,3
87,3
86,9
82,6
Primaria
Italiani Stranieri
n.d.
97,4
n.d.
96,8
n.d.
96,0
n.d.
94,6
99,7
96,1
98,6
95,7
99,3
96,6
98,8
91,1
88
Sec. I° grado
Italiani
Stranieri
n.d.
90,9
n.d.
91,9
n.d.
87,5
n.d.
88,3
97,9
88,2
96,5
88,9
96,6
88,1
97,4
84,2
Sec. II° grado
Italiani
Stranieri
n.d.
74,4
n.d.
70,2
n.d.
71,7
n.d.
70,9
88,5
70,1
88,1
74,6
88,3
74,0
89,4
70,6
Tabella 15 - Esiti scolastici alunni/e italiani e stranieri. Valori assoluti e percentuali (a.s. 2013/14)
Esito
Promosso
Respinto
Ritirato
Totale
Italiani
31.989
1.264
196
33.449
Stranieri
4.596
563
113
5.272
Totale
36.585
1.827
309
38.721
Esito
Promosso
Respinto
Ritirato
Totale
Italiani
95,6
3,8
0,6
100,0
Stranieri
87,2
10,7
2,1
100,0
Totale
94,5
4,7
0,8
100,0
Tabella 16 - Esiti scolastici alunni/e stranieri per livello istruzione. Valori assoluti e percentuali
Esito
Promosso
Respinto
Ritirato
Totale
Primaria
97,4
1,5
1,0
100,0
Sec. I grado
89,8
8,2
2,0
100,0
Sec. II grado
72,8
23,7
3,6
100,0
Totale
87,2
10,7
2,1
100,0
Tabella 17 - Esiti scolastici AS per genere. Valori percentuali (a.s. 2013/14)
Esito
Promosso
Respinto
Ritirato
Totale
F
90,5
7,5
2,0
100,0
M
84,2
13,6
2,2
100,0
Totale
87,2
10,7
2,1
100,0
Tabella 18 - Esiti scolastici AS per tipologia istruzione superiore. Valori assoluti e percentuali
Tipo
Artistica
Classica
Lic. Artistica
Lic. Classica
Lic. Linguistica
Lic. Musicale
Lic. Scientifica
Lic. Scienze Umane
Magistrale
Professionale
Scientifica
Tecnica
Totale
Promosso
15
2
110
8
67
8
102
75
14
446
15
430
1.292
% riga
88,2
100,0
73,3
88,9
76,1
80,0
82,3
74,3
87,5
65,1
100,0
76,9
72,8
Respinto
2
40
17
1
16
20
1
208
115
420
89
% riga
11,8
26,7
19,3
10,0
12,9
19,8
6,5
30,4
20,6
23,7
Ritirato
1
4
1
6
6
1
31
14
64
% riga
11,1
4,6
10,0
4,8
5,9
6,3
4,5
2,5
3,6
Totale
17
2
150
9
88
10
124
101
16
685
15
559
1.776
4. La seconda generazione a scuola
Gli alunni “stranieri” nati in Italia (spesso ad Arezzo), le cosiddette G2-seconde
generazioni sono in costante crescita, anno dopo anno, in ogni livello di
istruzione, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. Nell’a.s. 2014/15 le G2, per
la prima volta, hanno superato numericamente (e in percentuale di incidenza) la
componente degli allievi stranieri nati all’estero. Esse rappresentano il 53,8% del
totale alunni stranieri (in termini assoluti sono 3.647 su 6.781). Rispetto
all’intera popolazione studentesca (italiani e stranieri), le G2 rappresentano il
7,9% mentre gli alloctoni stranieri (cioè gli stranieri nati all’estero) sono il 6,8%.
Le G2 tuttavia rappresentano l’87% circa dei bambini e bambine straniere
presenti nelle scuole dell’infanzia della provincia (il dato è tuttavia incompleto,
mancando quello relativo alle presenze nelle scuole paritarie); il 72,0% del totale
degli alunni stranieri frequentanti la scuola primaria, il 43,8% della scuola media
e ancora solo il 18,3% delle scuole superiori (lo scorso anno scolastico “pesavano”
per il 13%).
Tabella 19 - Autoctoni/Alloctoni (a.s. 2014/15)
Autoctono
Alunni dato
assoluto
38.821
Autoctono
Alunni dato
relativo
Autoctoni/alloctoni
Alloctono2°
Italiano
Generazioni
550
3.647
Autoctoni/alloctoni
Alloctono2°
Italiano
Generazioni
84,1%
1,2%
Cittadinanza italiana
85,3%
AlloctonoStraniero
Totale
complessivo
3.134
46.152
AlloctonoStraniero
Totale
complessivo
7,9%
6,8%
Cittadinanza straniera
14,7%
100,0%
Totale
100,0%
Tabella 20 - Autoctoni/Alloctoni nei livelli d’istruzione. Valori assoluti e percentuali (a.s. 2014/15)
Ordine
Infanzia
Primaria
Sec. di I° grado
Sec. di II° grado
Totale
Autoctono
5.528
12.201
7.538
13.554
38.821
Alloctono italiano
34
137
128
251
550
2° Generazioni
1.027
1.676
594
350
3.647
Alloctono straniero
159
648
761
1.566
3.134
Totale
6.748
14.662
9.021
15.721
46.152
Ordine
Infanzia
Primaria
Sec. I° grado
Sec. II° grado
Totale
Autoctono
14,2
31,4
19,4
34,9
100,0
Alloctono italiano
6,2
24,9
23,3
45,6
100,0
2° Generazioni
28,2
46,0
16,3
9,6
100,0
Alloctono straniero
5,1
20,7
24,3
50,0
100,0
Totale
14,6
31,8
19,6
34,1
100,0
90
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92
Capitolo 3
La scuola e i “nuovi” italiani: accogliente, integrativa e inclusiva? Una
ricerca esplorativa in provincia di Arezzo
di Lorenzo Luatti
1. L’indagine provinciale: metodologia, strumenti, attori
A distanza di oltre un decennio dalla prima indagine provinciale sulle
trasformazioni multiculturali prodottesi nelle scuole per effetto delle migrazioni
internazionali (vedi Luatti, 2003, pp. 239-252), la Sezione Immigrazione
dell’Osservatorio Sociale Provinciale di Arezzo ha interpellato gli istituti scolastici
di ogni ordine e grado per fare il punto sullo “stato di salute” della scuola
multiculturale aretina, sui punti di forza e di criticità dei percorsi d’inclusione,
sulle attenzioni da promuovere e da rinnovare per una buona integrazione. Negli
ultimi dieci anni si sono prodotte significative modificazioni nel fenomeno
migratorio e nelle caratteristiche dell’immigrazione in Italia, da una parte, e nel
sistema scolastico, dall’altra, ma anche nelle consapevolezze e nelle acquisizioni,
più o meno diffuse, nella scuola rispetto ai temi dell’inclusione. Il panorama
migratorio negli istituti scolastici della provincia di Arezzo è profondamente
mutato rispetto agli inizi del Duemila, come emerge dalla lettura dei Rapporti
annuali elaborati da questa Sezione.
Nel corso di un quindicennio (e forse più) si è passati dalla scuola dell’accoglienza
alla scuola dell’integrazione, ed oggi alla scuola dell’inclusione: espressioni queste
che possono apparire come delle vere e proprie etichette “vuote”, usate come
slogans bonne à tout faire, eppure consentono, in una dimensione ricostruttivatemporale, di individuare grosso modo differenti fasi del cammino percorso dalla
scuola rispetto all’ampio tema dell’inserimento degli allievi stranieri.
Con l’espressione “scuola inclusiva” si vuole sottolineare una nuova fase in cui,
senza rinunciare alle acquisizioni e alle consapevolezze (pratiche, strumenti e
dispositivi…) maturate negli anni, si riconosce e si fa spazio, anche a scuola, al
contributo attivo dei migranti (allievi e famiglie), intesi non più (e non soltanto)
come beneficiari passivi di interventi, ma come attori protagonisti con proprie
competenze e saperi che chiedono di essere riconosciute e valorizzate. Una
prospettiva, dunque, improntata a creare cittadinanza. Nelle “Indicazioni
nazionali per il curricolo” del 2012, la scuola “che include” viene rappresentata
come lo spazio educativo per tutti e di tutti, nella quale si fa propria “la sfida
universale di apertura verso il mondo, di pratica dell’uguaglianza nel
93
riconoscimento delle differenze”. Un concetto largo di inclusione che si struttura
su piani diversi: richiede infatti una cultura dell’inclusione e una visione della
società coesa; si richiama a politiche e a principi; si basa su pratiche e azioni;
sollecita e promuove atteggiamenti, rappresentazioni e scelte inclusive. Nelle
Indicazioni si legge infatti: “La scuola italiana sviluppa la propria azione educativa
in coerenza con i principi dell’inclusione delle persone e dell’integrazione delle
culture, considerando l’accoglienza della diversità un valore irrinunciabile. La
scuola consolida le pratiche inclusive nei confronti di bambini e ragazzi di
cittadinanza non italiana, promuovendone la piena integrazione”. Come scrive
Graziella Favaro, “una scuola inclusiva è dunque uno spazio educativo che
riconosce e tiene insieme storie e lingue differenti, appartenenze e riferimenti
plurali, bisogni, tappe e cammini di apprendimento comuni e specifici”.
La nuova indagine provinciale, di cui presentiamo una sintesi dei risultati, è stata
realizzata nell’a.s. 2013/14 attraverso una metodologia quanti-qualitativa. In una
prima fase, con la consulente scientifica della Sezione Immigrazione (dott.ssa
Graziella Favaro) è stato messo a punto l’impianto generale della ricerca e il
questionario semi-strutturato che ha costituito il principale, ma non unico,
strumento d’indagine. Il questionario, articolato in 13 domande a risposta chiusa
e aperta, è stato inviato a tutti gli Istituti Comprensivi e agli Istituti di Istruzione
Superiore della provincia di Arezzo.
Le domande del questionario cercavano di esplorare una pluralità diversificata di
aspetti e situazioni relativi, tra l’altro, all’organizzazione scolastica e alla didattica
interculturale e della L2, al rapporto con le famiglie straniere e al sistema di
relazioni e collaborazione con il territorio, in modo da far emergere
consapevolezze e attenzioni maturate e sviluppate nelle scuole in termini di
dispositivi, strumenti, azioni e progettualità (per la batteria di domande, vedi
Tabella 1). Ogni punto di domanda, in realtà, proponeva un preciso “descrittore”
di inclusione; la scuola, nel rispondere ad esso, ha dovuto “posizionarsi”, cioè ha
dovuto esprimere una (auto) valutazione rispetto a ciò che fa, a ciò che è stato
fatto e a ciò che dovrebbe/potrebbe fare per migliorare le proprie performance
in termini di inclusività (dispositivi, atteggiamenti, relazioni).
Ogni domanda, difatti, chiedeva di rispondere con una modalità “chiusa”,
posizionandosi in uno dei tre livelli previsti: si poteva rispondere “sì”, “in parte”
oppure “no”. Non avendo definito a priori, attraverso criteri e parametri chiari e
precisi, il significato di ciascuna di queste tre opzioni, ogni docente o gruppo di
docenti nel rispondere ha svolto una operazione interpretativa a carattere
valutativo e fortemente soggettiva. Questo aspetto è stato, forse, parzialmente
attenuato ogni qual volta la risposta è stata frutto di una condivisione nel gruppo
allargato dei docenti compilatori. Successivamente, per ogni descrittore, si
chiedeva in forma di domanda aperta di illustrare approfonditamente, motivando
94
e sostanziando – ricorrendo ad alcuni esempi significativi –, il “posizionamento”
appena espresso.
Tabella 1 - “La mia scuola è inclusiva?”. Le domande del questionario
La mia scuola….
1)… organizza, promuove e accompagna con dispositivi efficaci l’accoglienza degli alunni non
italiani di recente arrivo? (sì – in parte – no)
Citare / descrivere esempio di buona pratica di accoglienza…
2)… prevede iniziative e moduli per l’apprendimento/ insegnamento dell’italiano L2 per gli alunni
neo arrivati o ancora poco italofoni? (sì – in parte – no)
Specificare quali…
3)… è consapevole della pluralità delle storie e delle differenze culturali presenti nelle classi? E del
carattere strutturale dei cambiamenti in corso? (sì – in parte – no)
Come si manifesta questa consapevolezza? Il tema è indicato nel POF? Citare….
4)… cura i modi e i tempi della comunicazione – anche plurilingue – nei confronti delle famiglie
immigrate? (sì – in parte – no)
Descrivere e allegare degli esempi…
5)… conosce, riconosce e valorizza la diversità linguistica presente nelle classi? (sì – in parte – no)
In quale modo? Descrivere…
6)... è attenta alle relazioni – e a prevenire /riparare le eventuali distanze ed esclusioni – tra i
bambini/ragazzi e tra gli adulti, italiani e stranieri? (sì – in parte – no)
In quale modo? Fare degli esempi…
7)… è attenta alle relazioni e agli scambi anche nel tempo e negli spazi extrascolastici e promuove l’uso
dei luoghi comuni del territorio? (sì – in parte – no)
Citare esempi e iniziative…
8)… conosce il contesto in cui agisce, le sue caratteristiche e registra i cambiamenti che avvengono
nella comunità? (sì – in parte – no)
Quali strumenti e fonti usa per conoscere il contesto…
9)… cerca di facilitare e di accompagnare i passaggi di scuola e di sostenere le scelte scolastiche degli
alunni stranieri? (sì – in parte – no)
Con quali strumenti?....
10)… si basa sulla collegialità delle scelte e dei modi di agire educativo, o invece delega ad uno/ad
alcuni il tema degli alunni stranieri? (sì – in parte – no)
Citare esempi di collegialità…
11)… è in grado di documentare e scambiare metodi, materiali didattici e proposte sperimentati e
realizzati all’interno della scuola? (sì – in parte – no)
Quale documentazione è presente nella scuola ? È accessibile?...
12)… è riconoscibile come spazio educativo interculturale, di tutti e per tutti, anche a partire dagli
oggetti, le immagini, i messaggi, i cartelli plurilingui…? (sì – in parte – no)
Descrivere luoghi, spazi, esempi di visibilità interculturale…
13) …. collabora e lavora in rete con altre scuole, comunità, enti, associazioni... per realizzare
azioni e progetti per attività comuni e dare risposta ai bisogni di inclusione, nel tempo scolastico
ed extrascolastico? (sì – in parte – no)
Quali collaborazioni sono attive?....
95
Va detto subito che la risposta delle scuole all’invito a partecipare all’indagine è
stata immediata e molto positiva: oltre il 90% degli istituti interpellati hanno
compilato il questionario in ogni sua parte. In particolare hanno risposto 37
Istituti Comprensivi e 14 Istituti di Istruzione Superiore della provincia di Arezzo.
Nel complesso, riteniamo che la fotografia – “sulla carta” – delle scuole aretine
che emerge dall’ampia messe di dati raccolti con il questionario, offra molti
spunti di riflessione e alcune indicazioni di prospettiva. Le risposte e i dati vanno
letti anche per quello che non dicono e per le questione aperte che evidenziano o
lasciano solo presagire. L’indagine ha permesso di ricavare dati relativi alle
eventuali trasformazioni nel tempo, alla visione dell’integrazione/intercultura
espresse dalle scuole, alle pratiche pedagogiche e didattiche innovative.
Un lettura complessiva delle risposte alle domande “chiuse” (“sì”, “in parte”, “no”,
per intenderci), sembra far emergere prima facie una diffusa (auto)percezione
positiva da parte delle scuole rispetto al proprio operato nei differenti ambiti
esplorati dal questionario. Questa impressione trova un fondato riscontro nella
lettura – che faremo in queste pagine – delle motivazioni, delle azioni e dei
progetti portati a sostegno del “posizionamento”. Non mancano tuttavia, esempi
isolati di scuole che evidenziano grande cautela e modestia nel “misurare” la
propria azione, posizionandosi con frequenza su un valore mediano (certamente
molto soggettivo e generico, come abbiamo osservato), portando poi a suo
sostegno esempi di azioni, attenzioni e dispositivi adottati che, in realtà,
descrivono una situazione virtuosa, certamente più avanzata e soddisfacente o
comunque non inferiore a quella dichiarata da altre scuole.
Se guardiamo alla frequenza delle risposte affermative, che individuano gli ambiti
su cui le azioni/attenzioni e le consapevolezze delle scuole sembrano più diffusi,
possiamo anche evidenziare chiaramente le aree/ambiti su cui le scuole aretine
mostrano qualche difficoltà o risultano più sprovviste di idee e strumenti.
Possiamo così notare che tanto negli Istituti Comprensivi che negli Istituti
Superiori, i temi della relazioni extrascolastiche e dello spazio educativo
connotato in senso interculturale costituiscono (ancora) aree di forte criticità,
poco esplorati e/o presidiati. Parimenti, è il rapporto con le famiglie straniere, in
particolare, a evidenziare linee di criticità e scarsi risultati, nonché il lavoro
(probabilmente solo agli inizi in alcune scuole) di valorizzazione del
plurilinguismo e di una didattica plurilinguistica e interculturale; il lavoro di rete
tra scuole e con il territorio e, strettamente connesso ad esso, la capacità di
leggere le rapide trasformazioni che si producono nel contesto di riferimento.
Sono questi gli altri ambiti (che sembrano) ancora poco sviluppati.
Da questi primi dati parrebbe dunque emergere una linea di criticità piuttosto
marcata che attraversa la scuola nel suo rapporto con e nel territorio: non solo si
osservano difficoltà a stringere alleanze e collaborazioni, costruire progettazioni
96
comuni e reti, ma difficoltà anche ad acquisire una conoscenza approfondita,
diffusa e costantemente aggiornata rispetto alle trasformazioni intervenute nel
contesto/contesti entro cui si opera. Ovviamente questa è una considerazioni
generalizzata, che emerge dal dato complessivo, ma che non può e non deve
occultare situazioni virtuose che comunque vi sono di scuole che evidenziano una
spiccata proiezione internazionale, per le quali il “territorio di riferimento”, di
azione e condivisione, è ben più vasto di quello ove sono fisicamente ubicate.
2. Inclusività e attenzione alle “diversità”
dall’organizzazione scolastica e degli spazi
a
partire
Come abbiamo osservato, il dato quantitativo che emerge dai questionari delinea
un quadro provinciale avanzato rispetto ad una organizzazione scolastica
rispondente a principi e valori di inclusione e accoglienza. Gli istituti scolastici
complessivamente considerati, nei vari territori/zone in cui si articola la
provincia di Arezzo, ritengono difatti di aver strutturato, con competenza e
qualità, le varie fasi comuni ad ogni inserimento di un nuovo alunno straniero.
Dalle risposte, molto dettagliate e articolate, talvolta anche molto prolisse e
tautologiche alla prima domanda aperta del questionario si evince una diffusa
interiorizzazione e sedimentazione, almeno a livello di conoscenza di pratiche e
dispositivi, di quelle che sono le attenzioni e le azioni da attivare per una gestione
competente e non improvvisata degli aspetti riguardanti la presenza di allievi non
italofoni nelle classi. Insomma, le scuole interpellate sembrano dirci con
determinazione che questa presenza e soprattutto l’arrivo di un nuovo studente
straniero non fa più “paura”, la stagione dell’emergenza è alle spalle, essendo
ormai le risposte strutturate e ben collaudate e trasparenti. Del resto, nel
territorio aretino le scuole sono state sollecitate costantemente nel corso degli
ultimi 15 anni, grazie soprattutto all’azione congiunta degli Enti locali e del
Centro di Documentazione Città di Arezzo, a dotarsi di efficaci e condivisi
dispositivi di base sul versante organizzativo, gestionale e didattico per realizzare
una buona accoglienza, anche attraverso un forte investimento formativo (tuttora
presente).
Nelle risposte alla domanda n. 1 possiamo ritrovare tutto l’ampio e variegato
ventaglio di dispositivi e strumenti promossi in questi ultimi due decenni nelle
scuole: dall’immancabile Protocollo di accoglienza, alla Commissione/gruppo di
docenti sull’intercultura, dalla docente funzione strumentale fino – sebbene
soltanto in alcune scuole – alla figura referente del personale ATA. Ciò è
particolarmente vero negli Istituti Comprensivi, mentre la gamma di risorse
presenti nelle scuole superiori risulta più circoscritta, come emerge visibilmente
97
dalla Tabella 2. In quest’ultimo ordine di scolarità sembrano presidiati gli aspetti
organizzativi dell’accoglienza e dell’inserimento e quelli riguardanti il sostegno
allo sviluppo delle competenze nella nuova lingua; ma, a differenza di quanto
avviene negli Istituti Comprensivi, la realtà delle superiori sembra meno
attrezzata di strumenti e azioni rispetto al rapporto con le famiglie straniere
(ponendosi, in questo ordine di scolarità, in forme diverse rispetto al primo ciclo
e all’infanzia), e di materiali informativi e didattici nelle lingue 1 (lingua madre).
Tabella 2 – Organizzazione scolastica: strumenti e dispositivi più diffusi per l’accoglienza
Istituto Comprensivi
Istituti Superiori
Protocollo accoglienza
Protocollo accoglienza
Commissione Intercultura
Docente FS o docente referente del “Progetto
Docente FS
accoglienza ed inserimento allievi stranieri”
Schede informative scolarità pregressa
Lettera di benvenuto in varie lingue
Libretti illustrativi del sistema scolastico
italiano in lingua da consegnare alla famiglia al
momento dell’iscrizione (anche in lingua
origine)
Scheda presentazione organizzazione scuola
(anche in lingua di origine)
Scaffale “amico” o multiculturale
Schede informative scolarità pregressa
Incontro con famiglie e attivazione tutor
Incontro con alunni e genitori nell’ambito
iniziativa “scuola aperta” nel mese di settembre
(prima inizio a.s.)
Sportello accoglienza e consulenza per famiglie
Comunicazioni scuola-famiglia in lingua
Cartellonistica plurilingue
Incontro con le famiglie (coordinato da
docente referente)
Attivazione di interventi di peer tutoring
Ricorso al mediatore interculturale (eventuale)
Presentazione con “cerchio di benvenuto”
Test di rilevamento delle competenze (A1-A2B1- B2) per assegnazione alunni alle classi
Sillabi grammaticali e programmazioni di
Italiano L2
PPT predisposto dal Cdc
Adattamento o sospensione della valutazione
nella scheda di valutazione
Schede di rilevazione della competenza
linguistica e competenze trasversali
Progettazione
Piano
Personalizzato
Temporaneo (PPT) condiviso e deliberato dal
Cdc
Laboratori linguistici
Materiale didattico facilitato e/o semplificato
Formalizzazione interventi ed eventuali
adattamenti del curricolo (percorsi ponte,
sospensione della valutazione in alcune
discipline, ecc.) con scheda informativa
predisposta per i genitori
98
Si ricordi che la Domanda 1 poneva l’accento sugli alunni stranieri neo-arrivati,
benché oggi questi rappresentino solo una piccola minoranza (intorno al 3%),
rispetto all’universo degli alunni stranieri, in maggioranza nati qui o con un
percorso di scolarizzazione in Italia già avviato. Le scuole, nel rispondere, hanno
tuttavia dimostrato che certi dispositivi, anche se nati in un momento di forti
flussi in entrata e rivolti agli allievi neo-arrivati, mantengono una vitalità ed
efficacia anche in altre situazioni diverse, eppure simili. Fa eccezione un Istituto
Superiore che ha dichiarato di non avere “buone pratiche” di accoglienza in quanto
“nel nostro Liceo non vengono alunni di recente arrivo”.
La Tabella 2 offre una sintesi dei tanti dispositivi, peraltro assai noti, presenti
nelle scuole e dunque non riteniamo di aggiungere molto di più rispetto a quanto
elencato; sembra più interessante “coglierli in azione”, ovvero soffermarsi sul
processo e sulle attenzioni che le scuole dicono attivarsi al loro interno al fine di
promuovere una accoglienza e un inserimento competente degli allievi stranieri.
Rispetto a questi strumenti e dispositivi il coinvolgimento dovrebbe essere ampio
e diffuso tra tutte le componenti (docenti e non docenti) dell’Istituto, per evitare
situazioni di delega e di isolamento, nonché il rischio reale che con il
trasferimento ad altra scuola o il pensionamento della funzione strumentale (FS),
la scuola si ritrovi all’“anno zero”, cioè debba ricominciare a costruire
competenze, saperi e relazioni in argomento. Una domanda del questionario ha
cercato di indagare questo aspetto (D10: La scuola si basa sulla collegialità delle scelte
e dei modi di agire educativo, o invece delega ad uno/ad alcuni il tema degli alunni
stranieri? Citare esempi di collegialità…).
Anche in questo caso si registra una difformità tra IC e IS, osservabile anche nella
compilazione dei questionari medesimi che è stata “plurale” per i primi e molto
“individuale” per i secondi. Tale difformità emerge anche dalle lettura delle
risposte, dove momenti e situazioni ove si sperimentano forme di collegialità
appaiono più “formali” nelle scuole superiori rispetto al ventaglio proposto dagli
IC.
L’isolamento che tuttavia traspare, qua e là, nelle risposte dei docenti delle scuole
superiori è reso esplicito dalle parole di questa docente secondo cui: “alcuni
insegnanti cercano di capire il fenomeno e di affrontare le problematiche che
comporta, altri, la maggioranza, delegano il tema al referente per l’intercultura,
pertanto, le scelte di tipo educativo delineate nel Protocollo di Accoglienza e nel
progetto Intercultura non sempre vengono accolte/applicate in tutti i consigli di
classe”.
Un maggiore allenamento alla collegialità e una pluralità di luoghi e momenti ove
essa si vivifica, sembrano emergere dalle risposte offerte dagli IC. Anche qui si
registrano risposte più circoscritte ad una collegialità consueta “formaleistituzionale”, e risposte più ricche di esemplificazioni e significati. E così la
99
collegialità delle decisioni e delle scelte sui temi dell’integrazione si esprime
attraverso il team docente o il collegio dei docenti, il collegio degli educatori, le
riunioni della commissione intercultura presiedute dal dirigente scolastico, ma
anche nei consigli di interclasse e classe, nelle riunioni di staff e, nelle poche
scuole dove è attiva, nell’operato della Consulta degli Stranieri (tre genitori
stranieri). Vi sono poi quei momenti in cui devono essere prese decisioni o
approvati documenti importanti (progetti per la L2, l’adozione di un piano di
studio personalizzato, protocollo di accoglienza…), ma esiste anche una
collegialità e una condivisione delle scelte che si espande allorché la referente FS
richiede uno o più incontri allo scopo di seguire e monitorare il percorso degli
alunni neo-arrivati.
Accanto al tema dell’organizzazione scolastica possiamo collocare quello relativo
agli spazi scolastici accoglienti che si vorrebbero sempre più connotati in senso
interculturale e plurilinguistico. Il senso e le ragioni dovrebbero risultare noti:
dando visibilità ai contesti di origine e familiari, si autorizzano i bambini e i
ragazzi a non vergognarsi delle appartenenze, li si aiuta a integrare le diverse
dimensioni in cui vivono. In questo scenario si collocano anche le “memorie”
(disegni, foto, oggetti portati dai paesi di origine…) delle esperienze che man
mano si vanno facendo nella scuola quali uscite nel quartiere, partecipazione a
eventi culturali, celebrazioni e festività.
Abbiamo già osservato che questo aspetto ha ottenuto il numero più basso di
risposte affermative, quasi fosse un tema poco esplorato o trattato con sufficienza,
rilegato ad una dimensione simbolica poco considerata. Peraltro, bisogna notare,
che molte scuole pur rispondendo affermativamente (o “in parte”) alla prima
domanda “chiusa” (D12: La scuola è riconoscibile come spazio educativo interculturale,
di tutti e per tutti, anche a partire dagli oggetti, le immagini, i messaggi, i cartelli
plurilingui…? Descrivere luoghi, spazi, esempi di visibilità interculturale…) non sanno
poi dare spiegazioni o portare esempi, e ciò vale soprattutto per le superiori.
Tra le risorse più diffuse vi è l’esposizione di cartelli/avvisi plurilingui che alcuni
segnalano presenti “in ogni plesso scolastico dell’istituto”, per indicare i diversi
ambienti e le loro funzioni, dai bagni, alla segreteria, alla presidenza, alle varie
aule TV, LIM, o computer fino alla mensa e alle uscite d’emergenza. Altri invece
scrivono al passato, come se l’uso di scritte plurilingui rispondesse a un
determinato momento storico: “fino a qualche anno fa erano presenti cartelli,
cartelloni, segnali plurilingui oltre a una precisa sistemazione della sede del
laboratorio linguistico con planisfero e con l’indicazione dei luoghi d’origine degli
alunni, alfabeti diversi da quello italiano”. Non è così per altri, che invece
scrivono: “la cartellonistica è ancora in fase di completamento; alcune scritte già
ci sono, altre vanno integrate”. Ma dobbiamo registrare anche una situazione
paradossale, simile a quella che porta alcune scuole a non festeggiare il Natale per
100
paura che allievi e genitori di altre religioni possano fraintendere l’iniziativa e
viverla come una discriminazione. Scrive questa docente di un IC: “in passato la
scuola utilizzava cartelli plurilingui, con l’esperienza si è visto che gli stessi
potevano determinare delle discriminazioni. Per questo motivo è stata interrotta
questa pratica e per questo anno scolastico si è pensato di utilizzare cartelli in
lingua inglese (veicolo linguistico funzionale per tutti)”. Evidentemente è stato
frainteso il senso e le finalità della cartellonistica pluringue che non è (non è
soltanto) di mera traduzione linguistica di messaggi, ma è quello di dare spazio e
visibilità alle altre lingue e a spezzoni identitari. Nelle scuole superiori non vi è un
uso, tranne in alcuni limitati casi, di cartellonistica plurilingue, come scrive
questa docente referente: “solo occasionalmente vengono realizzati cartelloni ad
uso didattico che hanno caratteristiche interculturali o plurilingui”. Pochi IC
affermano di avere degli spazi interculturali ad hoc (come lo scaffale/biblioteca
multiculturale o il laboratorio/spazio linguistico), ma quando vi sono diventano il
fulcro delle iniziative.
Una scuola che include bambini e ragazzi non italofoni, sa bene che occorrono
momenti dedicati all’apprendimento dell’italiano in luoghi accoglienti e
stimolanti. Il laboratorio/spazio linguistico non può essere perciò uno spazio
residuale e casuale, un contenitore spoglio, come purtroppo succede
frequentemente, ma si presenta come una sorta di teatro interattivo in cui le
scenografie sostengono l’azione dei partecipanti e questi contribuiscono alla loro
continua ricostruzione. La partecipazione dei bambini e ragazzi nel riprogettare,
arredare e mantenere in ordine è un elemento fondamentale di attivazione
linguistica. Si tratta dunque di organizzare gli spazi di un’aula dedicata in modo
che vi trovino posto: a) segni delle provenienze e delle appartenenze culturali
(immagini di luoghi ed eventi, scritture e libri nelle lingue di origini, carte
geografiche e planisferi); b) tracce e segni delle storie personali (fotografie dei
partecipanti, disegni, oggetti quali giochi, libri e quaderni portati dai paesi di
origine); c) strumenti per apprendere l’italiano (alfabetieri murali, lavagne,
cartelli/scritte/elenchi bilingue, dizionari e vocabolari tematici illustrati, testi ed
eserciziari di italiano L2); d) oggetti e materiali che stimolano l’interazione
comunicativa in situazione (quadri di registrazione del tempo atmosferico
quotidiano; piante e piccoli animali da accudire e osservare registrando gli
sviluppi; giochi che favoriscono l’interazione linguistica quali memory e gioco
dell’oca; il teatro dei burattini ecc.).
Piuttosto avvertita è l’esigenza di connotare e abbellire gli spazi comuni della
scuola in senso interculturale: i disegni fatti dagli studenti nei corridoi e nelle
classi, i posters che illustrano momenti di integrazione, che accolgono gli studenti
negli spazi della ricreazione. In occasione di iniziative od eventi anche gli ingressi
di alcune scuole vengono fornite di scritte e immagini per la visibilità all’esterno
101
della comunità. Anche il laboratorio multimediale può divenire uno spazio
educativo interculturale, come ha osservato una docente: “basta un ‘click’ per
vedere concretamente un Paese, le sue tradizioni, modi di vita, etnie diverse e
sentire lingue e linguaggi differenti”. Ma in argomento si registrano opinioni
differenti: una docente osserva che “sono soprattutto i nostri stessi alunni che
rendono ‘colorata’, interculturale e ricca la nostra scuola”, mentre un’altra
ritiene – similmente a quanto affermava una ormai lontana circolare ministeriale
sull’intercultura – che “ogni classe deve essere uno spazio educativo interculturale
permanente anche in caso di assenza di alunni stranieri”.
3. I dispositivi per l’apprendimento e l’insegnamento dell’italiano L2
e la valorizzazione del plurilinguismo in una ottica interculturale
Il tema dell’insegnamento e dell’apprendimento delle nuova lingua agli alunni
non italofoni è, da sempre, “il tema” più avvertito dalla scuola e dai genitori
immigrati. In particolare, rispetto alle discipline, esso è tema centrale che
richiede una rinnovata attenzione e un forte investimento, in collaborazione con il
territorio, in termini di formazione insegnanti, previsione di dispositivi e
interventi specifici, materiali didattici appropriati. Anche nelle recenti “Linee
guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” si sottolinea che “è
giunto il momento di qualificare l’intervento didattico specifico rivolto agli alunni
non italofoni per meglio accompagnare e sostenere lo sviluppo linguistico degli
alunni stranieri” (Miur, 2014).
Abbiamo già toccato l’argomento nel precedente paragrafo soprattutto in
relazione all’organizzazione di laboratori/spazi linguistici dedicati
all’apprendimento della L2. Vediamo adesso con maggiori dettagli cosa hanno
risposto le scuole alla domanda specifica sul tema (D2: La scuola prevede iniziative e
moduli per l’apprendimento/ insegnamento dell’italiano L2 per gli alunni neo arrivati o
ancora poco italofoni? Specificare quali…). Ricordiamo che questo è stato il quesito
che ha ricevuto il più alto numero di risposte affermative, il che sembra dirci
come le scuole, tutte le scuole di ogni ordine e grado, abbiano investito molto in
questi anni – in collaborazione con il territorio – per garantire azioni e supporti in
grado di rispondere agli specifici bisogni linguistici degli allievi non italofoni. Pare
essersi diffusa una consapevolezza rispetto a quelli che sono, in primo luogo, i
bisogni linguistici di tali alunni, nonché gli strumenti, i dispositivi, gli interventi
che occorre attivare nelle diverse fasi che un alunno non italofono attraversa.
Conoscenze e competenze che sul territorio aretino hanno formato oggetto di
tanti corsi di formazioni durante gli anni e che vanno dall’importanza di disegnare
il profilo scolastico e linguistico di un alunno straniero (storia scolastica,
102
alfabetizzazione in L1, conoscenze e competenze disciplinari; repertorio
linguistico; competenza linguistico-comunicativa in italiano) alla articolazione
delle diverse fasi del percorso di apprendimento della L2 per gli allievi neoarrivati (per cui si distinguono: una fase iniziale A1/A2, apprendimento
dell’italiano L2 per comunicare; una fase ponte A2-B1, accesso all’italiano dello
studio; una fase degli apprendimenti comuni B2, mediazione e facilitazione dei
testi di studio delle discipline), alla messa a punto di dispositivi specifici (fase di
avvio con laboratori e corsi di lingua continuativi a scalare, interventi
individualizzati; una fase ponte con moduli laboratoriali, doposcuola, interventi
individualizzati in classe; una terza fase con interventi individualizzati in classe,
doposcuola, tutor di studio).
Nella Tabella 3 riportiamo l‘ampia gamma di risorse censite con il questionario di
ricerca, distinguendo tra dispositivi, risorse professionali e risorse economiche.
Tabella 3 - Dispositivi, risorse professionali ed economiche per l’insegnamento della L2
Istituti Comprensivi
Istituti Superiori
Dispositivi
Laboratori L2 a inizio anno scolastico
Laboratorio di L2 in orario extrascolastico e
progetti di potenziamento/recupero in L2 in
orario scolastico
Laboratori linguistici per gruppi di livello
Facilitazione dei testi
Utilizzo delle nuove tecnologie (Lim, Blog, Chat
e videoconferenze...)
Risorse professionali
Ricorso a docenti di materie letterarie (ore
aggiuntive di insegnamento di italiano L2)
Insegnanti in pensione resisi disponibili a titolo
volontario
Ricorso a facilitatori linguistici esterni e MLC
Attivazione dispositivo di tutoring compagno di
classe a turno
Dopo-scuola come supporto nello studio e nello
svolgimento dei compiti pomeridiani con
l’intervento di tutor
Risorse economiche
Finanziamento Miur per le scuole in zone a forte
processo immigratorio
Collaborazioni con ente pubblico e Privato
sociale
Altre progettualità
103
Dispositivi
Corsi di facilitazione linguistica a livello base
e corsi di facilitazione linguistica e di aiuto
allo studio
Corsi
in
orario
curricolare
ed
extracurricolare di italiano L2 e italiano per
le discipline
Laboratori linguistici
Risorse professionali
Docenti della scuola
Facilitatori esterni
Risorse economiche
Collaborazioni con privato sociale
Tra gli IC vi sono anche coloro che fanno notare come oggi i bisogni linguistici
degli allievi stranieri presentino minore complessità rispetto all’apprendimento
dell’italiano e alla comunicazione, in quanto questi allievi sono in gran parte nati
in Italia.
Se il tema dell’insegnamento e dell’apprendimento dell’italiano come lingua
seconda costituisce fin dagli albori della trasformazione in senso multiculturale
delle scuole il “grande tema” e lo scoglio più urgente e immediato con cui i
docenti e gli allievi non italofoni devono confrontarsi, il riconoscimento e la
valorizzazione del plurilinguismo in chiave interculturale è, al contrario, una
consapevolezza piuttosto recente e ancora poco diffusa nella didattica, benché
presente nelle prime circolari ministeriali (degli anni ’90). La valorizzazione della
pluralità dei repertori linguistici, quindi non solo attraverso azioni di
mantenimento/insegnamento delle lingue materne degli studenti di origine
straniera, è rimasta più frequentemente un tema “opaco”, di sfondo, non ancora
realmente preso in carico da parte della scuola, nella sua generalità.
Vediamo qual è la situazione nelle scuole della provincia di Arezzo. Una apposita
domanda del questionario (D5: La scuola conosce, riconosce e valorizza la diversità
linguistica presente nelle classi? In quale modo? Descrivere) ha inteso esplorare proprio
questi temi. Dal dato quantitativo che discende dalle risposte si conferma il
carattere di “novità” dell’argomento. Sono ancora pochissime le scuole che hanno
assunto con consapevolezza e continuità di azioni il tema del plurilinguismo nella
didattica, all’interno del curricolo scolastico. Alla domanda “aperta”, quasi tutte
le scuole evidenziano ancora una stadio “iniziale” di valorizzazione del
plurilinguismo: esse fanno costante riferimento ai dispositivi più in uso per
facilitare la comunicazione plurilingue con le famiglie straniere, e dunque
vengono menzionati esempi di modulistica plurilingue, materiale informativo di
varia tipologia tradotto nelle lingue 1, la figura del mediatore linguistico, altri
esperti non ben definiti nelle varie lingue (“che svolgono il compito di peer tutor
nei confronti dei genitori degli alunni neo-arrivati”), e così via. Riprenderemo nel
dettaglio l’esame dei dispositivi e delle azioni testé menzionate nel successivo
paragrafo, quando affrontano il rapporto scuola-famiglia. Qui resta da segnalare le
poche risposte “innovative” presenti nei questionari compilati. A parte chi
dichiara una generica attenzione al tema della L1 ma poi riporta un esempio
ancora centrato sulla relazione scuola famiglia (“La valorizzazione delle culture e
delle lingue di origine inizia già nella nostra scuola dell’infanzia, dove peraltro, da
qualche tempo si è formata anche una sorta di rete di genitori di bambini non
italofoni, che si adoperano come mediatori e tutor delle famiglie degli alunni neo
arrivati”), alcune scuole dichiarano di aver lavorato sul tema, nella scuola
dell’infanzia e nella scuola primaria, attraverso un’attività propedeutica di
104
avvicinamento al plurilinguismo centrata sul disegno (come immaginano i
bambini che funzioni la mente plurilingue?) da cui poi è stata allestita una mostra
itinerante; altre scuole hanno menzionato un percorso didattico sulle L1
conclusasi con la preparazione della giornata internazionale della lingua madre
(per la quale “si è cercato di coinvolgere le famiglie, con difficoltà, ma con
risultati abbastanza buoni”). L’esperienza censita più strutturata e continuativa è
quella di un IC del Valdarno che partecipa da un biennio al menzionato progetto
nazionale di ricerca-azione promosso dal Miur, denominato LSCPI (Progetto
Lingue di scolarizzazione e curricolo plurilingue e interculturale).
Una domanda specifica del questionario che ha inteso esplorare questo tema (D3:
La scuola è consapevole della pluralità delle storie e delle differenze culturali presenti nelle
classi? E del carattere strutturale dei cambiamenti in corso? Come si manifesta questa
consapevolezza? Il tema è indicato nel POF? Citare esempi), ha ricevuto tipologie
diverse di risposte: alcune più attente ad una lettura del contesto migratorio a
scuola in continua e rapida trasformazione, e sempre più complesso da gestire,
altre che invece elencano iniziative e progetti di didattica intercultura spesso
finalizzate al coinvolgimento delle famiglie alla vita della scuola (vedi il paragrafo
successivo). Le feste, i cibi, i giochi sono ancora i motivi e le occasioni più
ricorrenti per sviluppare percorsi di interculturalità.
Bisogna tuttavia sottolineare come questa domanda “aperta” abbia fatto registrare
una messe significativa di risposte formali, in cui sono riportati pezzi interi di
POF che sottolineano l’attenzione e il dinamismo (solo sulla carta?) dell’Istituto
rispetto alle differenze culturali e ai bisogni specifici degli allievi stranieri. Dal
complesso delle risposte, pare osservare tuttavia una “stanchezza” e una certa
ripetitività delle iniziative su temi classici, anche se diversamente affrontati, con
cui, fin dagli inizi si è fatta l’accoglienza e l’educazione interculturale – con una
infinità di iniziative caratterizzate da generosi slanci inclusivi, determinazione nel
contrasto al razzismo e pure una certa inclinazione al folklore –, mentre altri, più
innovativi e fecondi, come il plurilinguismo fanno ancora fatica a trovare spazi e
metodi. Insomma, le nuove “Indicazioni nazionali sul curricolo” del 2012, almeno
per il ciclo primario, attendono ancora di essere studiate, assimilate e vivificate
nella pratica didattica quotidiana.
4. La partecipazione delle famiglie straniere alla vita scolastica
Il rapporto con le famiglie straniere è stato esplorato a più riprese attraverso una
specifica domanda nel questionario (la n. 4: La scuola cura i modi e i tempi della
comunicazione – anche plurilingue – nei confronti delle famiglie immigrate? Descrivere e
allegare degli esempi…), da altre domande meno dirette ma che comunque hanno
105
fornito molto materiale in argomento (le D3, riconoscimento delle diversità
culturali e D5, diversità linguistiche), ed è stato oggetto di due focus group (FG)
a cui hanno partecipato educatori dei nidi e docenti di ogni ordine delle scuole di
Arezzo. La traccia seguita nei FG e una sintesi delle principali riflessioni emerse
sono visibili nella Tabella 4.
Tabella 4 - Le risposte fornite da educatrici e insegnanti: quadro di sintesi (aprile 2014)
Punti di attenzione
1. Cause che rendono più
difficile e complesso il
rapporto con i genitori
immigrati
Cosa pensano educatrici e insegnanti di Arezzo (nidi, scuole
dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado)
1. riconducibili alla scuola
- la non conoscenza da parte dell’insegnante delle tradizioni,
cultura, stili di vita, organizzazione scolastica del Paese di
provenienza (I, P)
- atteggiamento “giudicante” degli insegnanti (pregiudizi) (N, I, P)
- difficoltà a mettere in pratica le strategie dell’accoglienza (P)
- difficoltà a far comprendere alcuni aspetti pedagogici-educativi
(N, I)
- le famiglie straniere non “fanno più novità” ed essendo molto
presenti numericamente è difficile che la scuola le gestisca come
situazioni “speciali” (I, P)
2. riconducibili alle famiglie
- scarse o nulle competenze linguistiche in italiano
- orari di lavoro differenti e prolungati
- diversi modi di intendere il “prendersi cura di …” e diversa idea
di bambino e di educazione (N)
- resistenze all’integrazione per motivi di forte disagio cultuale (I)
2. Su quali di queste cause è 1. riconducibili alla scuola
possibile intervenire e come? - predisporre materiale informativo comprensibile alle varie
“provenienze” e rendere più leggibile la scuola (pannelli, foto,
video...) (N, I)
- informare i genitori sui bisogni che la scuola italiana si prefigge
relativi alla formazione e chiedere il coinvolgimento della famiglia
(I, P)
- chiedere aiuto a parenti o amici in veste di “mediatori” (I, P, S)
- rafforzare l’attività di orientamento non solo negli anni di
passaggio ma predisporre iniziative anche negli altri anni scolastici
(S)
- approfondire diverse strategie comunicative (I, P, S)
- rafforzare e aggiornare il bagaglio professionale dei docenti (N, I)
- mettere in rete le varie esperienze dei docenti
- organizzare corsi insieme ai genitori italiani che facilitino
l’integrazione e l’apprendimento della lingua (I, P)
- progettare attività di sostegno alla famiglia
106
2. riconducibile al territorio
- organizzare corsi di L2 per genitori;
- accoglienza dei minori nell’extrascuola;
- arricchire offerta del territorio aperta a tutti
- supporto di mediatore LC
3. Attenzioni da prendere
tra i diversi gradi di scuola
per promuovere
partecipazione/
coinvolgimento dei genitori
1. riconducibili alla scuola
- facilitare accesso concordando orari compatibili con il lavoro
- facilitare accesso agli eventi organizzati dalla scuola (luoghi
raggiungibili anche a piedi)
- promuovere le varie iniziative rendendole prassi consolidate e
condivise e rispettate da tutto il personale
- presentazione del bambino e della famiglia alla scuola del livello
successivo
- laboratori e feste
- coinvolgere i genitori stranieri in attività di mediazione connesse
all’orientamento
- Azioni per scambio di materiali ed esperienze
4. Azioni che possono essere
prese o concordate con altri 1. riconducibili alla scuola
soggetti
- mettersi in rete tra soggetti diversi per obiettivi comuni
territoriali/istituzionali
- attivazione di uno sportello pomeridiano interno all’istituto
2. riconducibile al territorio
- organizzazione di doposcuola
- apertura delle associazioni sportive anche ai ragazzi che vivono
disagio economico/sociale
- assunzione di responsabilità e visione lungimirante delle
istituzioni e della politica
- corsi di lingua e in seguito ad altre attività (letture, racconti,
giornate a tema, passeggiate, sport…)
- gruppi di lavoro per raccontare le diverse esperienze
- invitare l’Asl a scuola per spiegare/presentare alcuni temi e
pratiche (scuole infanzia)
5. L’immagine che i genitori - “Efficiente, rigida, accogliente, che fa richieste difficili ai bambini
stranieri hanno della scuola e alle famiglie”
(secondo le insegnanti)
- “Una immagine positiva, molti genitori immigrati di seconda gen.
considerano la scuola un’opportunità per i figli”
- “Cambia a seconda delle diverse culture, dalla totale delega alla
scuola, all’ostilità fino a una palese sottomissione verso
l’insegnante, al timore di non essere accettati”
- “Talvolta estremamente positiva o viene vissuta con perplessità
ma difficilmente viene messa in discussione”
- “Sono intimoriti, ossequienti, sorpresi ma anche a volte diffidenti
verso la scuola”
- “Hanno spesso un’immagine legata alla singole figure di
107
insegnanti, ma non una percezione univoca della scuola e dei suoi
operatori; di fiducia ma allo stesso tempo non di completa
disponibilità a parteciparvi”
- “Alcune famiglie vedono la scuola come un’opportunità di
riscatto, altre ancora di diffidenza”
- “Non è possibile dare una risposta univoca in quanto dipende
dalla nazionalità e dal tempo di permanenza in Italia e dal
background culturale della famiglia”
Anche a leggere soltanto le risposte offerte alla specifica domanda aperta del
questionario è possibile delineare il quadro multiforme delle criticità che
caratterizzano il rapporto tra scuola e famiglie straniere. Intanto occorre
osservare che non è facile essere genitore nella migrazione, ed esserlo secondo i
modi comunicativi e relazionali che noi consideriamo positivi per un buon
rapporto scuola-famiglia. Atteggiamenti genitoriali che sembrano distanti,
disinteressati, conflittuali o marcati da sfiducia, possono discendere da una scarsa
conoscenza o non comprensione di che cosa significhi, nel nostro contesto scolastico,
la partecipazione dei genitori, soprattutto nei primi gradi scolastici. I genitori
immigrati hanno idee sul rapporto scuola-famiglia, formatesi nei Paesi di origine,
diverse da quelle che a noi sembrano giuste; hanno concezioni più o meno
differenti da quelle della scuola rispetto all’infanzia, alle tecniche di cura e
maternage, ai modelli educativi, alla figura e al ruolo dei docenti, alle differenze di
genere, ai rapporti con il cibo, la disciplina, i divieti, la malattia, l’autonomia …
Questi atteggiamenti e rappresentazioni non sono mai definitivi una volta per
tutte e la relazione quotidiana con chi educa i propri figli contribuisce a
modificarli, a superare barriere comunicative, a costruire spazi condivisi di
ascolto e comprensione reciproca. Inoltre, le condizioni di vita e di lavoro dei
genitori stranieri, spesso non facili, non consentono una presenza continuativa
nella vita scolastica; la scarsa padronanza dell’italiano induce a evitare riunioni e
incontri o ad “attraversarli” con apparente superficialità.
La scuola può semplicemente rilevare tali comportamenti. Può interrogarsi sulle
cause, individuare possibili risposte e decidere di mettere in pratica alcune azioni,
assumendo un ruolo attivo e propositivo, anche in collaborazione con il
territorio. Studi e ricerche ci dicono che tanto più i genitori sono informati,
presenti ad iniziative organizzate dalla scuola quanto più hanno progetti chiari e
ambiziosi sul futuro dei loro figli, e questo atteggiamento di apertura verso
l’istruzione fa percepire e trasmette agli studenti l’importanza dello studio per la
vita e per ottenere un “buon” lavoro. Il successo scolastico e formativo è dunque
fortemente correlato con il grado di coinvolgimento delle famiglie nel progetto
scuola. Le ricerche ci dicono, inoltre, che le famiglie straniere ripongono nella
scuola italiana aspettative alte e vedono in essa il trampolino per il futuro
108
lavorativo e sociale dei loro figli migliore del proprio (Della Zuanna, Farina,
Strozza, 2009; CNEL, 2008). Perché le famiglie migranti possano sostenere i figli
nel loro processo di crescita e nel cammino scolastico, devono poter essere
informate, competenti, riconosciute e valorizzate (Favaro, 2011). Coinvolgere i
genitori immigrati nella vita della scuola, in un rapporto proficuo per
accompagnare insieme i percorsi dei bambini e ragazzi, richiede dunque
intenzionalità, attenzioni e strategie adeguate, superando stereotipi e casualità.
Dagli incontri focus è emerso che alcune scuole promuovono un coinvolgimento
“specifico”, rivolto unicamente alle famiglie immigrate, oppure “diffuso” cioè per
tutte le famiglie, nell’ottica di una valorizzazione della rete dei genitori che
permetta un’integrazione delle famiglie straniere con quelle italiane. Altre scuole
invece adottano entrambe le modalità, a sottolineare il fatto che è possibile
elaborare progetti condivisi per le famiglie e progetti rivolti più direttamente alle
famiglie immigrate e alle loro problematiche specifiche. Quest’ultime possono
essere semplicemente destinatarie oppure co-protagoniste di tali iniziative, in
quanto coinvolte nella co-progettazione e nella realizzazione, portando le loro
competenze, abilità, saperi. Vediamo come si declinano queste attenzioni nelle
esperienze e nelle pratiche scolastiche quotidiane.
Genitori informati. Una chiara informazione sull’organizzazione, le scadenze della
scuola, il ruolo degli operatori e dei genitori costituisce il primo, fondamentale
livello. A volte, l’informazione che viene data è ancora di tipo unidirezionale
(dalla scuola ai genitori), e così passa l’immagine di una scuola cui semplicemente
adattarsi. Più frequentemente, le scuole oggi adottano un ventaglio di strumenti e
dispositivi che cercano di rendere l’informazione bidirezionale, mettendo le
informazioni in relazione con bisogni, aspettative, rappresentazioni dei genitori
stranieri rispetto al servizio/scuola. Non sempre ci riescono, e forse poca
riflessività accompagna gli esiti poco soddisfacenti e gli insuccessi. La
bidirezionalità dell’informazione opera anche su un altro piano: esprime il
bisogno di informazione e conoscenza da parte della scuola/dei docenti rispetto
alle storie, condizioni di vita, bisogni, aspettative e progetti migratori peculiari di
ogni famiglia straniera, che evidentemente influiscono sulle relazioni scuolafamiglia e con il territorio. Strumenti, dispositivi, attenzioni emersi dalle risposte
al questionario e nei FG fanno riferimento alle aree di intervento: a) materiali e
comunicazioni bilingui/plurilingui; b) riunioni con i genitori e l’ausilio di figure
di mediazione.
109
Tabella 5 – Dispositivi per l’informazione e la comunicazione scuola famiglia
Materiali nella L1 o
bilingui
- Libretti/guide in più lingue sul sistema scolastico italiano e di
supporto alla scelta scolastica (orientamento scuola superiore).
- Scheda di “autopresentazione” dell’istituto in più lingue (redatta
e tradotta con il coinvolgimento dei genitori stranieri).
- Lettera di “Benvenuto” in più lingue da consegnare alle famiglie
neo-arrivate al momento dell’iscrizione (redatta dalle insegnanti
in collaborazione con alcuni genitori stranieri, che ne hanno
curato la traduzione).
- Breve scheda bilingue informativa su alcuni elementi essenziali
dell’inserimento dell’alunno.
- “Poffino” in lingua di origine: sono tradotte le linee portanti del
POF, e prende le vesti di un depliant a 6-8 ante. La scuola – o
meglio un apposito gruppo di lavoro “scuola-famiglia” – ha
progettato un POF in L1 tradotto dai genitori stessi.
- Materiali diversi in L1 per la gestione della comunicazione
formale scuola-famiglia (avvisi e comunicazioni relativi agli eventi
più frequenti nella scuola). Le scuole hanno messo a punto negli
anni veri e propri dossier plurilingui (in genere ripresi da alcuni
siti internet, tra cui quelli del MIUR, “Parlo la tua lingua”,
Centro COME).
- Menù della refezione scolastica in più lingue fornito a tutti gli
studenti (su iniziativa del Comune).
- Altri materiali plurilingui (immagini, cartellonistica, avvisi ...)
connotano gli spazi e gli ambienti di molte scuole.
Figure di mediazione
- mediatori linguistico-culturali professionalmente formati, esterni
alla scuola, contattati attraverso Oxfam Italia
- mediatori linguistici “informali”, adulti, spesso trattasi di genitori
stranieri che vivono da più tempo in Italia e vengono coinvolti dalla
scuola per dare indicazioni utili ai genitori non italofono e/o di
recente immigrazione
- studenti-tutor di origine straniere e/o plurilingui, appositamente
formati dalla scuola, che svolgono anche un ruolo a carattere
prettamente informativo con le famiglie straniere
Genitori competenti. La competenza genitoriale, nei modi che la nostra scuola
richiede e con le necessarie mediazioni interculturali, è un obiettivo di lunga
durata. Le recenti “Linee guida” del Miur (2014) sull’accoglienza e l’integrazione
degli alunni stranieri insistono molto sul rapporto scuola famiglia e
sull’empowerment dei genitori stranieri: evidenziano la necessità di ripartire dallo
sviluppo delle loro competenze linguistiche, considerando che la conoscenza di
110
una seconda lingua di livello A2 – richiesta dall’attuale normativa e strettamente
funzionale al rinnovo del permesso di soggiorno –, non è sufficiente ad assicurare
una “buona integrazione”. “Il miglioramento delle competenze linguistiche degli
immigrati stranieri che hanno figli in età scolare – osservano le “Linee guida” –
può contribuire in modo assai incisivo al loro successo scolastico. Non è un caso
che nei paesi europei che da più tempo operano sul terreno dell’integrazione
dell’immigrazione si dia la massima importanza, nel caso degli adulti, non solo al
superamento di determinati test linguistici finalizzati o meno ai processi di
regolarizzazione o di acquisizione della cittadinanza, ma anche alla partecipazione
di pacchetti formativi di diverse centinaia di ore appositamente predisposti ed
erogati dal sistema educativo pubblico o da altri enti o soggetti collegati” (Miur,
2014, p. 23). Dunque un rafforzamento della competenza genitoriale, necessita
un lavoro finalizzato allo sviluppo della competenza nella Lingua 2. Non è qui
possibile riportare la gamma di esperienze e progetti realizzati nelle scuole
aretine. Ciò che emerge, nel complesso, è la necessità di creare più occasioni per
poter apprendere la lingua italiana da parte dei genitori non italofoni (meglio se “in
situazione”, in corsi meno formalizzati), nonché promuovere occasioni di
incontro significative tra tutti i genitori è molto avvertita, anche se i dubbi
concernono le risorse disponibili e l’effettiva partecipazione/coinvolgimento. Le
esperienze narrate pongono in rilievo l’utilità di servizi rivolti alla famiglia collocati
nello stesso luogo. Mettono anche in evidenza l’importanza della presenza di reti
di/tra scuole (e reti di scuola per l’integrazione, presenti in alcune regioni
italiane), per sviluppare servizi e attività comuni, scambiare esperienze. In alcune
realtà si è puntato sul coinvolgimento delle madri proponendo loro la
partecipazione a corsi di lingua italiana che le mettano in grado di seguire i figli e
di partecipare alla vita della scuola. Tuttavia, i corsi d’insegnamento dell’italiano
L2, pubblici o realizzati dal volontariato/associazionismo, sono spesso preclusi
alle donne straniere per vari motivi (corsi misti, aperti a uomini e donne, si
svolgono in orario extralavorativo, sono collocati in sedi non sempre facilmente
accessibili …) (Luatti, Tizzi, 2014a).
Spesso i genitori stranieri non sono in grado di sostenere i loro figli nello studio
soprattutto per ragioni linguistiche, oltre che per la debole scolarità di alcuni.
Padroneggiare la lingua per lo studio, densa di termini settoriali e specifici, non è
cosa agevole anche per coloro che sono diventati italofoni. Del resto, una
difficoltà nella relazione tra scuola e famiglie, sottolineata dai genitori stranieri, è
quella di poter seguire i loro figli negli studi durante il tempo extrascolastico. Da
qui la richiesta frequente di poter avere “più scuola” per i figli. Gli interventi
censiti, al riguardo, sono rivolti ai genitori per rafforzare le competenze di questi
nell’aiuto allo studio dei figli; oppure sono rivolti direttamente agli alunni. Sono
promossi e realizzati da scuole, volontariato, associazionismo, enti locali.
111
Nei FG sono state menzionate numerose esperienze dove genitori italiani e
immigrati sono coinvolti insieme in attività e iniziative diverse promosse dalla
scuola, mentre non sono state censite esperienze di alleanze tra famiglie italiane e
straniere, famiglie che aiutano i figli di altre famiglie per i compiti a casa, corsi di
italiano autogestiti, genitori che tengono aperta la scuola durante il fine settimana
per lo svolgimento di attività culturali e altro ancora.
Genitori attivi. Anche la partecipazione attiva dei genitori alla vita della scuola è un
obiettivo di lunga durata. Dobbiamo innanzi tutto chiederci che cosa intendiamo
per “partecipazione”, dettagliando le azioni e le competenze che sottintende per
conoscere così ciò che possiamo realisticamente aspettarci dai genitori stranieri.
La partecipazione e l’empowerment delle famiglie migranti si stimolano anche e
soprattutto attraverso strategie di riconoscimento e valorizzazione delle loro
competenze (talvolta nascoste o non riconosciute), a partire da quelle che sono
espressione di “spezzoni” significativi del patrimonio culturale e identitario. In tal
modo, dal ruolo di semplici fruitori di un servizio, i genitori assumono un ruolo
nuovo, vivendo gli spazi scolastici non tanto nei panni di genitori ma di soggetti
portatori di specifici saperi e competenze.
Talvolta, la scuola, anche senza volerlo, mette a nudo (e sottolinea) le incapacità e
gli impacci comunicativi dei genitori e disconosce le loro competenze e abilità
acquisite altrove e qui poco spendibili. Il passo da compiere, per conquistare la
fiducia e favorire un maggiore coinvolgimento, è duplice: non svalorizzare ma
neppure mostrare indifferenza verso saperi e competenze; promuovere invece un
atteggiamento attivo e propositivo, che faccia leva da tali saperi e abilità,
individuando appropriate modalità comunicative, occasioni e spazi di senso per
condividerle ed esplicitarle. Il tema dell’italiano e delle lingue di origine è, ad
esempio, fonte di dubbi e domande per molti genitori che si sentono ancora dire,
purtroppo, da alcuni insegnanti di non parlare le L1 in famiglia, benché ricerche e
studi vadano in direzione opposta. Le iniziative censite fanno riferimento per lo
più a momenti di incontro specifici e tradizionali.
Seppure lentamente, gli organi collegiali delle scuole vedono la presenza anche
dei genitori stranieri, come rappresentanti nel Consiglio d’Istituto e nei Consigli
di classe, e nel comitato dei genitori costituito dai rappresentanti di classe e
consiglio di istituto. Talvolta queste presenze (o candidature) sono viste con
diffidenza dai genitori autoctoni, perché prevale ancora l’immagine dell’adulto
straniero come soggetto debole, che non è in grado di assolvere con competenza
ed efficacia a tale compito di rappresentanza.
Rispetto a questo schema valoriale, ogni singola scuola potrebbe nuovamente
interrogarsi e ridefinire la propria azione, anche sulla base dei suggerimenti e
proposte presentate nella Tabella 6.
112
Tabella 6 - Rapporto scuola-famiglia straniera: pensando ad un possibile “modello” di intervento
Livelli di intervento
Azioni
Livello di governance
Inserimento nel POF
Costituzione di un gruppo di lavoro/motore relazione scuola-famiglia
(a composizione mista)
Accordi di rete con altre scuole per lavoro comune
Liv. Preliminare
Domande e Azioni
Domande di senso: sviluppare la dimensione di autodiagnosi
In che modo stiamo collaborando con le famiglie e la comunità?
Quali sono stati i nostri principali “successi” durante l’anno?
Come si inserisce questa iniziativa nella mission, visione di sviluppo,
valori culturali della scuola rispetto ai più ampi temi dell’integrazione
degli stranieri e della partecipazione/cooperazione dei genitori?
Cosa intendiamo per “partecipazione” dei genitori e come la
definiamo operativamente (nei diversi gradi di scuola)?
Cosa stiamo cercando di migliorare?
Chi sono i soggetti interessati/coinvolti (stakeholder) dal tema
“relazione scuola-famiglia”? Quali sono i contributi che gli stakeholder
apportano alla scuola e in che modo la scuola crea valore per loro? ...
…
Azioni
Bilancio dell’esistente e dell’impatto iniziative pregresse (ultimi 3
anni, rispetto a tutti i genitori e a quelli stranieri).
Analisi swot: aspetti di forza, criticità, opportunità, rischi
(coinvolgimento dirigente, docenti, genitori, ATA …) rispetto ad un
obiettivo (es. “rafforzare la relazione scuola-famiglia straniera”).
Elaborazione di una programmazione annuale e pluriennale strategico
di intervento (“Piano di azione”), condividendo con gli attori chiave le
priorità.
Definizione di obiettivi “realistici” che ci prefiggiamo di raggiungere
in un arco temporale determinato con relativi parametri di
riferimento.
Individuazione delle alleanze da sviluppare/sollecitare a scuola e nel
territorio (costruzione di una mappa strategica del network)
Individuazione delle modalità operative per analisi e intervento in
situazioni specifiche e problematiche (totale e prolungata assenza dei
genitori; forti incomprensioni/conflitto …)
Individuazione dimensioni e strumenti che possano consentire la
“misurazione” delle ricadute (impatto) sulla scuola e i ragazzi
dall’accresciuta partecipazione dei genitori alla vita della scuola.
Liv. 1:
Genitori Informati
Raccolta/elaborazione di un ventaglio diversificato di materiali
informativi in L1 e bilingui.
113
Individuazione di figure di mediazione informali e delle situazioni in
cui attivarle. Definizione di criteri e modalità di base per loro
positivo e corretto coinvolgimento e intervento.
Attivazione di un dispositivo di peer mentoring agito da studenti
bilingui/plurilingui più grandi, con finalità informative e accoglienza,
rivolto a genitori stranieri non italofoni.
Definizione delle situazioni specifiche in cui fare ricorso a mediatori
interculturali formati.
Attivazione di uno sportello/spazio di ascolto per genitori, in coll.
con territorio/scuole.
Riunioni ad hoc (individuali e collettive) con genitori stranieri.
Stesura e sottoscrizione di “patti educativi” con i genitori.
Elaborazione/condivisione di strumenti per raccolta info su genitori
(ad uso docenti).
Liv. 2:
Genitori Competenti
Attivazione corsi L2 (e … informatica, conoscenza del territorio etc.)
per genitori stranieri, in collaborazione con altre scuole, con
l’associazionismo/ente locale.
Organizzazione di incontri per scambio e conoscenza esperienze
scolastiche e genitorialità tra famiglie autoctone e migranti, anche in
collaborazione con altre scuole e servizi, con l’associazionismo/ente
locale.
Interventi strutturati rivolti ai genitori al fine di sostenere i loro figli
nello studio/compiti a casa.
Individuazione di forme appropriate di coinvolgimento dei figli
nell’empowerment dei genitori.
Liv. 3:
Genitori Attivi.
Partecipazione alla vita
della scuola
Presenza di forme di coinvolgimento dei genitori (e dei genitori
stranieri) nella co-progettazione (progettazione e riprogettazione) di
attività, materiali, eventi.
Coinvolgimento dei genitori stranieri in momenti strutturati
finalizzati al riconoscimento di competenze e saperi, anche riferiti al
proprio bagaglio identitario e culturale.
Coinvolgimento dei genitori stranieri nella gestione di determinati
servizi/attività della scuola (biblioteca …).
Rendere i familiari protagonisti nella progettazione del PPT (Piano
Personale Transitorio) e nel monitoraggio degli apprendimenti
Coinvolgimento dell’associazionismo locale (tra cui anche quello
espressione delle collettività nazionali) alla vita della scuola.
Partecipazione dei genitori stranieri ad organi collegiali.
Individuazione di modalità per incentivare la partecipazione agli
organi collegiali.
Accordo tra scuola e genitori (associazione dei genitori, se esistente)
per l’apertura della scuola nei fine settimana. Definizione criteri,
compiti, responsabilità, attività.
Esistenza di associazioni dei genitori (reti formali) e di modalità
114
“informali” di mutuo aiuto tra genitori promosse/rilevate dalla scuola
Liv. Trasversale
Applicazioni di modalità strutturate di monitoraggio e valutazione
degli interventi (validate da esterni)
Indicatori sugli outcome e sulla qualità del contesto organizzativo
interno
Valutazioni comparative con altre scuole dello stesso livello e
indirizzo
Disseminazione e scambio delle esperienze
Comunicazione interna ed esterna nei confronti degli stakeholder
Dimensione economica e finanziaria, sostenibilità
5. Osservazioni conclusive
Dall’indagine dunque sembrano in gran parte superati gli approcci emergenziali,
funzionalistici, episodici e settoriali che avevano caratterizzato per molto tempo
l’azione delle scuole, anche di quelle aretine, sui temi dell’integrazione, benché il
cammino per considerare le differenze come norma sia ancora lungo, richiedendo
modelli educativi, didattici e organizzativi coerenti. Alcune sollecitazioni e
accelerazioni, in argomento, sono recentemente pervenute alle scuole
dall’iniziativa ministeriale sui Bisogni Educativi Speciali (BES) e dall’iniziativa
regionale della Toscana finalizzata alla predisposizione di Piani di Gestione sulle
Diversità (entrambe più volte richiamate nelle risposte al questionario).
In generale le scuole aretine, con differenze marcate tra IC e IS (e anche al loro
interno), si sono dotate di strumenti e procedure coerenti e sistematiche per
l’accoglienza e l’integrazione degli allievi stranieri; hanno messo in campo
collaudati dispositivi per l’insegnamento/apprendimento dell’italiano pur in
presenza di una diminuzione complessiva delle risorse, e l’organizzazione
scolastica include tali dimensioni in modo stabile ed esplicito. Tuttavia la
valorizzazione del plurilinguismo e l’apertura interculturale dei curricoli risultano
più episodiche e (talvolta) dichiarate che implementate realmente. Su questi temi
ormai registriamo, a livello di indirizzi e politiche educative e (pluri)linguistiche
delle istituzioni europee (Unione Europea e Consiglio d’Europa, in particolare) e
nazionali (Miur), sollecitazioni e indicazioni forti e reiterate: si pensi ai numerosi
documenti, già citati, sulla valorizzazione e sul riconoscimento, nella didattica
interculturale, del plurilinguismo, nonché, a livello nazionale, le “Indicazioni
nazionali per il curricolo” del 2012 e le nuove “Linee guida sugli allievi stranieri”
del febbraio 2014. Solo in pochissime scuole (IC) della provincia di Arezzo, come
emerge dalla nostra ricerca, è stato avviato un lavoro consapevole, attento e
115
continuativo sulla didattica interculturale e plurilingue, mentre si assiste ad un
generalizzato arretramento della dimensione “simbolica” e pubblica del
plurilinguismo nelle scuole, in quanto l’esposizione immediatamente visibile delle
tante lingue che abitano gli spazi scolastici (nelle forme più o meno sperimentate
negli anni passati: cartellonistica, avvisi…) risulta una “buona pratica” poco
esplorata, trascurata, quasi facesse parte di un repertorio di strumenti e attenzioni
desueto. Se quest’ultima evidenza può averci colto di sorpresa (in effetti non ce lo
aspettavamo), non altrettanto inaspettato è parso lo scarso richiamo (nelle
risposte al questionario e nei FG) alla figura del mediatore interculturale
professionale che sicuramente in passato ha costituito una delle prime risposte alla
presenza di alunni stranieri, ma che oggi – in una fase immigratoria assai
differente e con la drastica riduzione delle risorse per l’integrazione – appare una
presenza saltuaria e piuttosto residuale. Le scuole, come emerge dalle risposte,
fanno spesso ricorso ad altre figure di mediazione, coinvolgendo, nel migliore dei
casi in forma strutturata e non estemporanea, i genitori stranieri italofoni o
studenti tutor plurilingui.
Anche l’intero sistema delle relazioni, a parte quelle che si dispiegano nelle classi
tra i pari, sembra conoscere uno stato di sofferenza. La dimensione sistemica
esterna alla scuola non è stata ancora messa adeguatamente a fuoco dalla
maggioranza degli istituti scolastici: più o meno sviluppata, appare spesso caotica,
poco strutturata, frammentaria. Rispetto a dieci anni fa, sono stati compiuti
alcuni passi in avanti nel rapporto tra scuola e genitori stranieri, ma molto resta
ancora da fare: dall’indagine non sono emerse strategie articolate che si muovono
lungo le linee dell’informazione e della competenza genitoriale, o azioni
progettuali caratterizzate da continuità nel tempo e da un forte coinvolgimento di
più attori del territorio. Tanto più si sale nei livelli di scolarità quanto meno si
registra la consapevolezza che la fiducia reciproca tra scuola e genitori si
costruisce non con interventi sporadici o agendo in solitudine, ma con un lavoro
continuativo e a più mani. Una indicazione di lavoro emersa dai FG è stata quella
di stimolare la costituzione di associazioni di genitori per potenziare la solidarietà
tra le famiglie, e per “trasformare” la scuola in uno spazio aperto, agito dalle
famiglie per incontrarsi, conoscersi, confrontarsi attraverso azioni concrete.
Le scuole tuttavia evidenziano una buona capacità di distinguere la salienza di
certe proposte innovative che provengono dal territorio: dalla ricerca, ad
esempio, è emersa l’attenzione prestata da alcuni IC e IS ad una proposta
operativa (sorta di documento di raccomandazioni) diffusa localmente un paio di
anni fa, finalizzata alla “cura” dei passaggi scolastici, con una specifica declinazione
sulle difficoltà e vulnerabilità degli allievi stranieri (Sarracino, Luatti, 2012). Qui
si potrebbe richiamare anche la proposta (in fase di sperimentazione in alcune
scuole aretine e connessa alla precedente) del tutoring interculturale (Favaro,
116
2013b) ma anche l’iniziativa congiunta tra più attori del territorio provinciale
finalizzata a “giocare d’anticipo” sui cammini d’inclusione, cioè preparando in
anticipo il ricongiungimento familiare, anche con la scuola, quando a
ricongiungersi è il minore (sul punto v. Luatti, Tizzi, 2014b). Ebbene, rispetto a
quest’ultima iniziativa, sviluppatasi tra il 2009 e il 2012 in alcune vallate (in
particolare, Aretina e Valdarno), non vi è alcuna traccia nelle risposte o nelle
testimonianze dei docenti. Insomma, ciò che sembra emergere complessivamente
è che tali iniziative e proposte pur essendo ben accolte dalle scuole, se poi non
sono istituzionalmente sostenute nel tempo, non riescono ad avere diffusione,
visibilità e continuità, come invece meritano. Restano patrimonio di poche realtà
virtuose e talvolta neppure in queste riescono a mettere radici e diventare prassi
consolidate e di sistema. Emerge, ancora una volta, la mancanza di una regia, sia a
livello nazionale sia a livello locale, in grado di guidare con autorevolezza,
continuità, coerenza e lungimiranza il processo di trasformazione che le scuole e i
territori stanno vivendo.
Riferimenti bibliografici
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Tarozzi M. (2015), Dall’intercultura alla giustizia sociale. Per un progetto pedagogico e
politico di cittadinanza globale, FrancoAngeli, Milano.
118
Terza parte
La salute e il lavoro dei migranti
119
120
Capitolo 1
Stranieri e servizi per la salute
di Giovanna Dallari
L’8% della popolazione della regione europea dell’OMS è costituita da migranti,
che sono stimati essere circa 73 milioni. La mobilità delle persone comporta un
aumento delle diversità all’interno delle società che richiede ai sistemi sanitari una
maggiore flessibilità e la capacità di adattarsi ai diversi bisogni e profili di salute. Il
fenomeno migratorio pone dunque implicazioni di breve, medio e lungo termine,
che coinvolgono tutti i 53 Paesi della Regione e che devono essere affrontate con
un dialogo interregionale, intersettoriale e coordinato. I dati relativi al binomio
migranti/salute a livello europeo mostrano che la concettualizzazione del diritto
alla salute risente molto dei particolarismi locali. Gli Stati Membri non sembrano
essere in grado di realizzare l’obiettivo di garantire il diritto alla salute per tutti i
nuovi cittadini, e, soprattutto, di farlo in maniera paritaria rispetto agli autoctoni.
Il principio di sussidiarietà applicato al diritto alla salute determina che gli Stati
Membri sviluppino pratiche locali estremamente diverse tra loro, che
sicuramente non favoriscono una più auspicabile e ordinata gestione comunitaria
del tema salute. Servirebbero quindi regole europee comuni e condivise, che
possano garantire ai nuovi arrivati una parità di trattamento rispetto ai loro
concittadini.
1. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale
La legge italiana considera la salute un diritto inalienabile dell’individuo, in
accordo con quanto stabilito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del
1948 (art. 25), fatta propria dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
con la dichiarazione di Alma-Ata del 1978. In coerenza con questi principi, in
Italia, l’accesso alle cure è garantito anche per gli immigrati privi di permesso di
soggiorno.
La riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 ha dato vita a
ventuno sistemi sanitari diversi, in territori con differente gettito fiscale, con
differente capacità e appropriatezza di spesa, con differente organizzazione dei
sistemi sanitari regionali e della loro appropriatezza nella risposta ai bisogni
sanitari. Tutto questo ha determinato l’incapacità del sistema di assicurare in
modo omogeneo i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), eludendo i principi di
121
equità e universalità sui quali si fonda il nostro servizio sanitario nazionale (SSN).
La situazione attuale rischia seriamente di peggiorare l’inadeguatezza dei sistemi
sanitari regionali più deboli, limitando soprattutto le tutele sanitarie delle fasce
più fragili e bisognose della popolazione. Il nostro sistema sanitario, pur sempre
tra i migliori del mondo, sta annegando in un clima di grande incertezza.
Il 4 giugno 2015 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il “Regolamento recante
la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi
relativi all’assistenza ospedaliera”, che avvia definitivamente il processo di
riorganizzazione della rete ospedaliera, che definisce gli standard generali di
qualità, secondo il modello di clinical governance, per attuare il cambiamento del
sistema sanitario, grazie allo sviluppo delle capacità organizzative necessarie a
erogare un’assistenza di qualità, sostenibile, responsabile (accountability), centrata
sui bisogni della persona.
La sostenibilità di un sistema sanitario è oggi strettamente legata alla capacità di
migliorare tutte le dimensioni della qualità dell’assistenza: sicurezza, efficacia,
appropriatezza, coinvolgimento di cittadini e pazienti, equità ed efficienza.
Tuttavia, i progetti di miglioramento hanno generalmente una dimensione locale,
sono spesso sostenuti solo dal volontarismo, definiti nel tempo e solo raramente
vengono pubblicati.
Le scelte politiche e le modalità di pianificazione, organizzazione ed erogazione
dei servizi sanitari hanno messo progressivamente in discussione l’art. 32 della
Costituzione e i principi fondamentali del SSN. Il protrarsi di questo status ha
determinato inaccettabili diseguaglianze, sta in qualche modo danneggiando la
salute dei cittadini e rischia di compromettere la dignità delle persone e la loro
capacità di realizzare le proprie ambizioni.
È ormai ampiamente confermata l’ipotesi che nelle realtà in cui il godimento (e
non il semplice accesso, quand’anche normato) di servizi da parte dei migranti,
sopratutto gli irregolari, è difficoltoso, se non negato o di qualità scadente,
esistono più significativi differenziali di indicatori di salute per stratificazione
sociale anche nella popolazione autoctona.
La qualità della salute dei migranti, anche irregolari e, ancor meglio, il livello di
accesso alle cure per i cittadini stranieri, è cartina di tornasole della qualità della
salute nella comunità generale e termometro del grado di accoglienza e civiltà di
un territorio. Dopo tanti anni di impegno diffuso e sperimentazioni concluse con
effetti assai positivi, la situazione a livello nazionale è sconfortante: prassi
disomogenee, parziale disapplicazione delle normative europee, nazionali e locali,
sia nei confronti di stranieri regolarmente presenti, sia di stranieri
temporaneamente presenti (STP), con la conseguente grave esclusione dal
godimento del diritto alla salute per moltissimi cittadini stranieri. Tali studi
hanno dimostrato infatti che possono vivere una vita più lunga e, allo stesso
122
tempo, più sana, le persone che provengono dai segmenti più avvantaggiati della
società. Le persone che invece vivono in ambienti svantaggiati, con minori
opportunità e minori risorse ancor più in età avanzata, sono suscettibili di avere la
salute più a rischio e hanno maggiormente bisogno di supporto da parte dei
sistemi di welfare.
Questo fenomeno è ancor oggi dovuto ad una frequente mancanza
d’informazione sia degli operatori sanitari che dei cittadini stranieri; la crisi
economica inoltre ha distolto l’attenzione dalle problematiche organizzative e di
comunicazione, per concentrarsi sul solo risparmio, determinando un tangibile
impoverimento dei servizi e del loro orientamento al paziente. Nel caso dei
cittadini stranieri immigrati, ancor più che per i cittadini italiani; gli sprechi sono
perlopiù dovuti alle scarse conoscenze del sistema locale dei servizi, specie quelli
territoriali, alle carenze “culturali” nel loro utilizzo (c’è maggiore conoscenze e
fiducia nei servizi ospedalieri), ad una certa impreparazione dei professionisti e
alla loro carente abilità comunicativa.
2. Alcuni elementi numerici
I dati delle presenze di cittadini stranieri in Italia indicano chiaramente che il
movimento naturale della popolazione straniera è ormai di gran lunga superiore a
quello migratorio: le nascite hanno superato gli ingressi, il numero di acquisizioni
di cittadinanza – per naturalizzazione e non solo per matrimonio – è di gran lunga
superiore a quello registrato da qualsiasi forma di ingresso in violazione delle
norme, l’allargamento della base della piramide demografica della componente
straniera della popolazione non accenna ad arrestarsi e, di conseguenza, gli
stranieri sono oggi oltre il 16% dei minori residenti nell’area metropolitana e
sono oltre il 22% dei nati (una percentuale che in città sfiora ormai il 28%). I
permessi di soggiorno rilasciati per ricongiungimenti familiari sono stabilmente al
di sopra di quelli rilasciati per motivi di lavoro; quelli illimitati sono ormai la
stragrande maggioranza e la loro crescita continua. La presenza straniera è sempre
meno costituita di maschi giovani soli, o di donne adulte sole, e sempre più di
famiglie. Nel 2014 un elevato numero di stranieri hanno acquisito la cittadinanza
italiana: 130.000, parte dei quali diciottenni nati in Italia, hanno richiesto la
cittadinanza e circa 4 casi su 10 riguardanti minori che hanno ricevuto la
cittadinanza per trasmissione automatica dai genitori stranieri divenuti italiani.
La popolazione complessivamente residente in Italia alla fine del 2014
(60.796.000) è caratterizzata da un’età media diventata più elevata (44,4 anni) e
dall’aumentata incidenza degli ultrasessantacinquenni (21,7%). Gli immigrati
costituiscono un parziale temperamento a questo processo di invecchiamento
123
perché sono mediamente più giovani degli italiani, incidono per circa un sesto
sulle nuove nascite (75.000 nuovi nati da entrambi i genitori stranieri nel 2014).
C’è poi l’impennata dovuta all’arrivo di profughi (170.000), giunti via mare
dall’Africa e dall’Asia, seppure in buona parte interessati a raggiungere altri paesi
esteri. La stragrande maggioranza dei richiedenti asilo è africana, primi paesi
Nigeria, Gambia e Senegal. In pratica: questi arrivi stanno sostituendo la politica
delle quote in ingresso per motivi di lavoro. Si è di fronte a un vero e proprio
fenomeno epocale, da riferire agli sconvolgimenti in atto nei paesi di origine e alla
loro transizione demografica. 25mila le richieste in Italia nei primi mesi del 2015
(erano state 65 mila in tutto il 2014). Le risposte negative aumentano dal 37 al
47%.
La crescente caratterizzazione di stabilità del fenomeno migratorio si riflette
nell’incremento del ricorso alle strutture del SSN; la progressiva acquisizione di
cittadinanza tuttavia non consente un’esatta valutazione di questo fenomeno come
in passato. La forte presenza di immigrati di recentissimo arrivo da paesi e
appartenenze socio-culturali così diversi mette ulteriormente a dura prova il
sistema e la possibilità di fare analisi precise mentre apre le porte al ritorno di
paure per la salute pubblica del tutto infondate. Da ciò consegue che le
valutazioni e i paragoni sia longitudinali che puntuali non sono più uno strumento
sufficientemente preciso e quindi veramente utile per fornire indicazioni
operative e di salute pubblica.
Secondo le schede di dimissione ospedaliera (SDO) del Ministero della Salute nel
2014 sono stati erogati 9.526.832 ricoveri ospedalieri, di cui 477.510 per
cittadini stranieri, pari al 5% del totale. Di questi 173.363 (36%) sono maschi:
27,0% africani, 25,7% UE, 20,7% altri paesi europei e 15,9% asiatici. Le
femmine sono 304.147 (63,7%): 29,0% dell’UE, 22,7% di altri paesi europei,
21,7% africane, 14,5% asiatiche.
Sono il 40,6% del totale (194.150) le SDO di cittadini stranieri fra i 25 e 44 anni;
il 77,0% sono donne, di cui il 29,2% UE, il 23,5% africane, il 19,7% da paesi
europei non UE e il 15,6% asiatiche.
Nei maschi sono prevalenti i ricoveri ordinari nelle fasce 25-44 (25,6%) e 45-64
(22,1%) anni, per un totale di 82.754. Sono ben 41.675 (24,0%) i ricoveri per
maschi entro l’anno di vita, che riguardano soprattutto gli africani (29,2%),
seguiti da europei, europei non UE ed asiatici, tutti e tre con percentuali intorno
al 21%. Nelle età seguenti c’è un trend modesto di crescita, fino ai 65 anni, dove
si nota un brusco decremento. Escludendo il parto, le principali cause di
ospedalizzazione sono riconducibili a patologie cardiovascolari e respiratorie e a
interventi chirurgici per sostituzione di articolazioni maggiori o reimpianto degli
arti inferiori. Per quanto riguarda l’attività in regime diurno, la principale causa
124
di ricovero è la somministrazione di chemioterapia con 1.529.370 giornate (2,3% rispetto al 2013).
Come per gli italiani l’attività per acuti in regime ordinario è nettamente
prevalente in ogni fascia d’età, seguita dall’attività per acuti in regime diurno, che
sono stati 2.194.241; il 5,9% di questi nei confronti di cittadini stranieri. Dei
129.517 ricoveri in regime diurno (27,1% del totale dei ricoveri effettuati da
cittadini stranieri). Le donne straniere in età fertile sono state 49.637, pari al
55,4%. Il picco, ragionevolmente imputabile al parto, ricalca quello delle donne
italiane.
I ricoveri effettuati in Toscana nel 2014 sono stati 36.422; di questi 11.572 sono
stati eseguiti regime diurno (8,9% dei dimessi in regime diurno). Il 26,1% del
totale (9.498) sono cittadini di altri paesi europei, dell’UE il 25,3% (9.228),
dell’Asia il 19,6% (7.132), dell’Africa il 16,8 (6.121), il 7,3% dell’America
(2.875), 0,2% dell’Oceania (69), il 0,1% apolidi (22) e il 4,2% (1.527) non sono
attribuibili.
Non sono ancora disponibili dati precisi sulla salute dei rifugiati e migranti di
recente arrivo nella regione europea. I problemi di salute più frequenti sono
simili a quelli della popolazione, anche se in qualche gruppo la prevalenza
potrebbe essere superiore; sono prevalentemente costituiti da infortuni,
ipotermia, scottature, eventi cardiovascolari, gravidanza e parto con relative
complicazioni, diabete e ipertensione. Le donne soffrono di problematiche
specifiche che, in particolare, riguardano la salute materna, riproduttiva, dei
bambini e anche la violenza. L’esposizione dei migranti ai rischi connessi con i
movimenti di popolazione – disordini psicosociali e nutrizionali, problematiche di
salute riproduttiva, più alta mortalità neonatale, abuso di droghe, alcolismo ed
esposizione alla violenza – aumentano in particolare la loro vulnerabilità nei
confronti delle malattie non trasmissibili; lo spostamento infatti determina
un’interruzione del trattamento che è cruciale nelle malattie croniche.
I bambini, a causa delle inadeguate condizioni di vita, della scarsa igiene e
dell’alimentazione insufficiente, vanno facilmente incontro a infezioni acute, in
particolare delle vie respiratorie, diarrea e infezioni dermatologiche.
I morti per annegamento sono stati già 1.867 nei primi sei mesi del 2015.
Non esistono evidenze relative ad un’associazione sistematica fra migrazione e
importazione di malattie infettive; piuttosto è dimostrata quella fra malattie
infettive e povertà. I migranti provengono spesso da paesi in guerra o con
profonde crisi economiche e intraprendono lunghissimi viaggi, che comportano
maggiori rischi di contrarre anche malattie infettive, in particolare morbillo e
infezioni causate da acque o cibo infetti. Lo sviluppo economico nei paesi europei
ha determinato un miglioramento delle condizioni di vita: tubercolosi,
125
HIV/AIDS, epatite, morbillo e rosolia sono oggi scarsamente incidenti nelle
regioni europee, seppure ancora presenti, indipendentemente dalle migrazioni.
Questo succede anche per le malattie portate da vettori, come la Leishmaniosi –
malattia curabile che non si trasmette da uomo a uomo – della quale si sono
recentemente sviluppati focolai in Arabia e Siria. Il rischio di importare agenti
infettivi rari ed esotici, come i virus Ebola, Marburg e Lassa o la MERS
(Sindrome respiratoria del Medio Oriente) è estremamente basso; infatti i casi
che si sono verificati in Europa non riguardavano rifugiati o migranti, ma turisti,
viaggiatori o lavoratori della sanità.
3. Conclusioni
Negli ultimi anni molti paesi si sono impegnati nella formulazione di politiche più
inclusive e più sensibili nei confronti delle differenze culturali. Inoltre l’analisi
degli attori coinvolti, delle forme organizzative assunte e dei criteri di
aggregazione presenti consente di riflettere su quanto spazio i migranti hanno per
poter esprimere la propria voce ed esercitare i loro diritti di cittadinanza nel
sistema delle politiche sanitarie.
I percorsi di inserimento dei migranti nelle strutture di welfare esistenti e il
processo attraverso il quale i soggetti stranieri rientrano nelle welfare policies del
nostro paese non rivelano una differenza formale rispetto alle opportunità
previste, ma varia invece in maniera significativa e sostanziale l’effettiva possibilità
di godimento di tali benefici.
Si può infatti identificare una sorta di implementation deficit della legislazione e
delle politiche che ne seguono, cioè una situazione in cui un diritto fondamentale
esiste e viene riconosciuto, ma il suo effettivo godimento risulta difficile da
realizzare concretamente. Gli stessi criteri che regolano le procedure
amministrative e il margine di discrezionalità che conservano i diversi attori
coinvolti rendono molto fragile la certezza dell’esistenza di un diritto creando una
modalità di accesso al welfare di tipo differenziato.
Il ruolo degli attori non istituzionali nel processo di decision making in particolare il
ruolo degli immigrati, delle loro rappresentanze e delle associazioni di supporto è
divenuto marginale e “invisibile”.
È ormai divenuto abbastanza comune rilevare dati specifici sulle prestazioni
fornite a cittadini stranieri a tutti i livelli, ma è ora indispensabile meglio
comprendere l’effettivo accesso alle cure e, soprattutto ai servizi di base, perché
più capillari, vicini alle persone e meno costosi per il SSN. I sistemi informativi
dovrebbero ampliare il set di dati raccolti, approfondendone alcuni più rilevanti,
per studiare, dimostrare e quantificare se le differenze già ipotizzate sull’utilizzo
126
dei servizi esistano veramente, per fornire poi indicazioni ai gestori che dovranno
adottare poi soluzioni organizzative ad essi adeguate.
È importante che ogni territorio faccia una riflessione sul rapporto tra i Servizi
Sanitari e gli utenti immigrati, nel tentativo di evidenziare quali sono le maggiori
difficoltà di accesso, identificare gli ostacoli di tipo strutturale, linguistico,
psicologico e culturale e quali sono le misure formali e informali adottate, per
rendere l’accesso al sistema dei servizi maggiormente sensibili al portato di
diversità culturale dei migranti e di inserimento dei migranti nelle strutture
diverse esistenti; questo processo porterà importanti miglioramenti anche per la
popolazione autoctona. L’obiettivo generale dovrebbe essere quello di
identificare i meccanismi che sono alla base dei processi di disuguaglianze
nell’accesso ai servizi sanitari, considerando in particolare quel complesso
intreccio di variabili non solo cliniche, epidemiologiche ed economiche, ma anche
quelle socio-culturali e psicosociali, che generano condizioni di non equità.
L’identificazione deve però essere finalizzata a predisporre azioni di governo a
livello regionale e locale che promuovano anche processi partecipativi alle scelte
di politica sanitaria, implementino una cultura orientata al principio della
“cittadinanza delle differenze” e che portino a sistema scelte organizzative atte a
contrastare forme di discriminazione, per garantire equità e ridurre i rischi per la
salute.
Al contempo bisognerebbe evitare la diffusione di informazioni imprecise,
sommarie o distorte e comportamenti superficiali e non corretti, che possano
suscitare allarmi ingiustificati. Da un lato infatti una parte dei giornalisti e dei
media italiani sembrano animati da un’affannosa e maniacale vigilanza sui rischi di
contagio rispetto ai nuovi arrivi di migranti e dall’altro si mostrano totalmente
incuranti o incapaci di comprendere i rischi per la salute pubblica che il mancato
accesso alle cure potrebbe comportare.
Questi mezzi poi dovrebbero affiancare quelli messi in campo dalle istituzioni per
incrementare gli interventi che mettano i professionisti della salute ed il cittadino
in condizione di condividere le informazioni relative alla salute e, di conseguenza,
di essere maggiormente consapevoli dei rischi legati ai propri comportamenti
(vedi incidenti sul lavoro e domestici, abitudine al fumo, ecc.) anche per non
dover duplicare prestazioni spesso costose: è noto infatti che gli stranieri vanno al
PS più volte per la stessa patologia, meno dal MMG.
Nel 2015 la spesa sanitaria è diminuita del 28,5%, ma è comunque necessario
razionalizzarla; l’intervento, pur importante e imprescindibile, concerne un
aspetto fondamentale del vivere sociale, il diritto alla salute e quindi anche la
riduzione delle disuguaglianze. I cittadini stranieri che necessitano di cure
soffrono una doppia malattia: quella organica e quella derivante dal mancato o
difficoltoso accesso alle cure. In condizioni di crisi economica due strategie
127
permettono di sostenere le attività produttive: la prima consiste nell’investire
meno risorse (tagli), la seconda nell’ottenere migliori risultati dalle risorse
investite, previa identificazione ed eliminazione degli sprechi. La
standardizzazione nell’approccio, derivata a volte da un’acefala applicazione dei
Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) rischia di rivolgere l’attenzione su aspetti
epidemiologici e infettivologici generali, con ricadute non positive sia sui bisogni
specifici del singolo sia sulla spesa sanitaria, senza peraltro un reale vantaggio in
termini di salute pubblica. Ci sono iniziative invece che hanno già ottenuto buoni
risultati e che possono essere diffuse e introdotte in altri contesti: occorre
adottare il benchmarking delle buone pratiche.
Poiché la quasi totalità della spesa ospedaliera è imputabile ai ricoveri per acuti in
regime ordinario, si tratta di potenziare gli interventi atti ad aumentare la
competenza culturale dell’intera organizzazione, a partire dai gestori e dirigenti,
magari utilizzando risorse interne già formate o esperte, per dare un assetto
organizzativo più consono alle esigenze di ciascun paziente, qualunque sia la sua
cultura. Anche l’utilizzo razionale dei farmaci si identifica con il loro impiego
corretto e appropriato: tutti i pazienti, pertanto, dovrebbero ricevere prescrizioni
farmaceutiche appropriate secondo specifiche indicazioni terapeutiche, a dosaggi
ottimali, per un adeguato periodo di tempo e al costo più basso per il sistema
sanitario; questa competenza è davvero di pochi cittadini stranieri.
Sono da monitorare attentamente l’uso e l’abuso di alcool e fumo nelle giovani
generazioni, come pure l’incidenza e la prevalenza di malattie caratteristiche di
determinate condizioni socio-ambientali o biologiche, specie se maggiormente
prevalenti nei paesi di origine, come la TBC o il diabete, per favorire poi la
compliance ai piani terapeutici a lunga scadenza.
Le coperture vaccinali sono al limite soglia di sicurezza per quanto riguarda i
minori italiani, mentre diversi studi mostrano come gli stranieri seguano in
maniera corretta il calendario vaccinale definito dalle Regioni.
Bisogna poi incrementare gli interventi che mettano i professionisti della salute e
il cittadino in condizione di condividere le informazioni relative alla salute e, di
conseguenza, di essere maggiormente consapevoli dei rischi legati ai propri
comportamenti (vedi incidenti sul lavoro e domestici, abitudine al fumo, cura
delle malattie croniche come diabete e ipertensione, ecc.) anche per non dover
duplicare prestazioni spesso costose (gli stranieri vanno al PS più volte per la
stessa patologia, meno dal MMG).
L’ovvia ma importante necessità di mettere il cittadino al centro del sistema
indica come priorità lo sviluppo di reti assistenziali che, ripensando ed integrando
i modelli di assistenza territoriale, coinvolgano in maniera costante e organica
operatori, medici, cittadini, istituzioni. Tra queste ultime, anche i Comuni
devono giocare un ruolo chiave sul fronte della prevenzione e promozione della
128
salute, perché le politiche sociali sono complementari a quelle della salute e, se
queste due politiche viaggiano insieme (come peraltro molte Regioni stanno
finalmente realizzando attraverso assessorati unici), consentono risparmi
considerevoli in termini di prevenzione ed anche di erogazione di servizi ai
cittadini.
In sintesi gli studi e le sperimentazioni effettuate in questi anni sono concordi nel
segnalare la necessità e l’utilità di dare applicazione piena alle normative,
organizzare campagne specifiche e mirate per migliorare l’autotutela della salute,
organizzare percorsi assistenziali chiari e definiti, migliorare l’informatizzazione
dei dati (elaborare una batteria di indicatori di tipo aggregato utilizzabili con il
materiale statistico effettivamente disponibile, effettuare ricerche mirate per
comunità o per malattia per programmare poi interventi mirati), ripresa della
collaborazione con il volontariato e privato sociale (più duttile e disponibile
all’incontro e alla educazione alla salute), incentivi specifici per i MMG, e,
soprattutto, migliorare la competenza culturale dei professionisti.
Da uno studio condotto a Milano su 348 persone – italiani ma soprattutto (93%)
stranieri – che si sono rivolte agli ambulatori della Casa della Carità o del Centro
San Fedele o al pronto soccorso dell’ospedale Sacco risulta che: “Potrebbero
avere il medico di base, ma preferiscono la Casa della Carità. “Chiedono non solo
una visita medica, ma anche ascolto” (Redattore Sociale 6/11/2015).
129
Capitolo 2
Accesso degli stranieri ai servizi sanitari in provincia di Arezzo
di Giuseppe Cirinei
1. Popolazione straniera e salute
La popolazione straniera residente, iscritta nelle anagrafi dei comuni della in
provincia di Arezzo, è costituita da 37.786 persone (al 31/12/2014) e costituisce
il 10,9% dell’intera popolazione provinciale.
Dovendo tratteggiare aspetti che riguardano lo stato di salute di questa
popolazione è utile tener presente alcune sue caratteristiche che nei precedenti
rapporti dell’Osservatorio sono ampiamente trattate (1).
Un effetto del processo di stabilizzazione della popolazione straniera, oltre a
quello più volte descritto dell’aumento delle nascite, e quindi dei giovani di
seconda generazione, è l’invecchiamento, ancora relativo se si raffronta alla
popolazione italiana, ma chiaramente riscontrabile nei dati per classi di età,
determinato sia dal naturale scorrere del tempo, sia dai ricongiungimenti
familiari. Gli ultrasessantenni, che erano il 3,4% dei residenti stranieri in
provincia di Arezzo nel 2001, sono il 6,7% nel 2014.
Si tratta di un elemento da tenere in considerazione per la prevedibile relazione
con la presenza di patologie più frequentemente correlate all’età.
In realtà, come è anche abbastanza ovvio, siamo in presenza di più popolazioni,
diverse, oltre che per lingua, cultura, tradizioni, anche per struttura.
La variabilità risulta evidente confrontando, per ciascuna nazionalità, i parametri
del sesso e dell’età e del lavoro, elementi che influiscono fortemente sulla
tipologia del ricorso ai servizi sanitari, alle cure mediche e all’uso di farmaci.
Citando solo le nazionalità più presenti, tra i provenienti da Polonia, Romania e
Kossovo prevalgono largamente le donne, mentre tra coloro che vengono da
India, Bangladesh e Pakistan sono in maggioranza gli uomini. E ancora, Polacchi e
Rumeni con oltre 30 anni di età rappresentano rispettivamente il 73% e il 61%
delle rispettive popolazioni, mentre tra gli indiani e i bengalesi gli over 30 non
raggiungono il 50%.
Anche se con un certo grado di approssimazione e sintesi, si può affermare che,
nell’utilizzo dei servizi sanitari possono risultare differenti i consumi delle
popolazioni polacca e rumena, costituite prevalentemente da donne non anziane
ma certamente adulte, e popolazioni come quelle del Bangladesh, dell’India, della
Macedonia, del Kosovo, costituite prevalentemente da uomini giovani.
130
Il lavoro costituisce un ulteriore fattore determinante dello stato di salute degli
individui e delle comunità. I dati disponibili sulla distribuzione lavorativa degli
stranieri e soprattutto delle nazionalità sono meno dettagliati di quelli su sesso ed
età e prevalentemente riguardano il lavoro autonomo. Si possono tuttavia
riscontrare presenze significative di alcune nazionalità in settori lavorativi che
possono avere rilevanza rispetto alle condizioni di salute: i rumeni nelle
costruzioni, gli albanesi nei trasporti, macedoni e pakistani in agricoltura (2).
Vi è poi tutto il settore del lavoro domestico, che comprende anche il lavoro di
cura delle persone (cosiddette badanti). I dati disponibili dell’Osservatorio
quantificano la presenza straniera in questo ambito ed in particolare la elevata
presenza delle donne straniere, che raggiungono il 76 % di tutti i lavoratori
domestici. Le nazionalità a maggior presenza femminile (Polonia, Romania) sono
quelle che contribuiscono di più a questa attività (3).
Tutto ciò suggerisce la necessità per il prossimo futuro di cambiare
l’organizzazione, la disaggregazione e l’analisi dei dati riguardanti la salute della
popolazione straniera presente: probabilmente occorre superare definitivamente
l’aggregazione per “stranieri” che può portare ad una sottovalutazione di problemi
particolari presenti in gruppi a rischio e passare ad una analisi per ciascuno di
questi gruppi definiti sulla base dell’attività lavorativa, dell’età, del sesso e anche
della nazionalità, intesa come rischio aggiuntivo per differenze di cultura, di
lingua e di condizione sociale.
2. L’accesso ai servizi sanitari
L’utilizzo dei servizi sanitari da parte della popolazione straniera residente in
provincia di Arezzo è cresciuto e, per alcuni aspetti, migliorato nel corso degli
anni, in virtù di un processo di integrazione degli stranieri da un lato e
dell’adeguamento dei servizi dall’altro, favoriti entrambi da iniziative specifiche
messe in atto dalla struttura sanitaria anche attraverso le attività di mediazione
culturale dedicate.
Tutti i dati riportati di seguito, le tabelle e i grafici, sono forniti dall’ASL 8 di
Arezzo, descrivono e quantificano l’utilizzo ed evidenziano anche alcuni problemi
aperti.
L’iscrizione all’anagrafe sanitaria e la scelta del medico
L’iscrizione all’anagrafe sanitaria e la conseguente scelta del medico di medicina
generale costituiscono di fatto il primo passaggio per l’accesso ai servizi sanitari
dell’SSN. Un alto livello di adesione a questa procedura da parte dei cittadini
stranieri è considerato un segnale di buona integrazione.
131
Nel 2014 i cittadini stranieri che all’anagrafe sanitaria risultano assistiti da un
medico (medico di medicina generale o pediatra) erano 31.090, pari al l’82% dei
residenti.
La Tabella 1 riporta i dati dell’ultimo quinquennio; il confronto tra le classi d’età
evidenzia l’aumento della classe “oltre 55” a conferma della tendenza
all’invecchiamento della popolazione straniera residente.
Tabella 1 - Cittadini stranieri assistiti da un medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta per
classe di età, a confronto con i residenti (anni 2010-2014)
Classe di età
2010
2011
2012
2013
2014
0-14
6.627
6.617
6.395
6.199
5.981
15-54
23.175
22.411
22.058
21.444
21.573
Oltre 55
2.385
2.584
2.959
3.263
3.536
Totale assisiti
32.187
31.612
31.412
30.906
31.090
Totale residenti
37.691
39.480
40.326
37.598
37.786
Differenza assistiti/residenti -5.504 (15%)
-7.868 (20%)
-8.914 (22%) -6.692 (18%) -6.696 (18%)
È da notare che il numero degli assistiti è abbastanza stabile attorno alle 31.000
persone con uno scarto fra assistiti e residenti che oscilla tra il 15% e il 20%. Su
questo scarto varrebbe la pena indagare ulteriormente perché potrebbe rivelare
problemi di accesso o di informazione riguardanti specifici gruppi di cittadini nel
caso che i non assistiti fossero concentrati in alcune nazionalità, o classi di età, o
categorie lavorative, o altro.
D’altra parte la riduzione di questo scarto è un obiettivo da perseguire. E’ vero
che generalmente, nella popolazione, non tutti gli aventi diritto scelgono il
medico di fiducia, ma mentre gli italiani non iscritti hanno spesso altre
opportunità (strutture private), gli stranieri non iscritti o ricorrono
impropriamente al pronto soccorso, o si rivolgono al volontariato o non si curano
affatto.
La tutela della gravidanza e il parto
Nel corso dell’anno 2014 nelle strutture della ASL 8 di Arezzo sono nati 606
bambini da madre straniera, che corrispondono al 27,10% di tutti i nati.
Il forte contributo alla natalità locale da parte della popolazione straniera è un
dato conosciuto e consolidato nel tempo e, notoriamente, limita il calo
demografico dovuto alla riduzione della natalità della popolazione autoctona.
Osservando la serie storica dei nati dal 2001 al 2014 (Grafico 1) si vede
chiaramente l’aumento dei nati da madre straniera, che è andato di pari passo con
il crescere delle presenze. A partire dal 2008 più di uno su quattro nati nelle
strutture della ASL è di madre straniera.
132
Questo dato ha un forte significato per la programmazione e l’organizzazione
della struttura sanitaria, della struttura scolastica e, più in generale, di tutti i
servizi per l’infanzia. Tuttavia negli ultimi anni sembra accennarsi un
cambiamento: dopo il 2011 in cui i nati da madre straniera hanno sfiorato il 30%,
nei tre anni successivi si è manifestato un leggero calo e il dato si è attestato
intorno al 27%. È troppo presto per dire se questa tendenza sarà confermata, se è
causata da una diminuzione dei tassi di natalità nella popolazione immigrata, quasi
un inizio di adeguamento alle modalità della popolazione italiana o da una
diminuzione delle presenze nel territorio, come sembrerebbe confrontando il
dato dei nati e quello dei residenti.
Grafico 1- Percentuale di nati nelle strutture ospedaliere dell’Azienda USL 8 da madri di cittadinanza
straniera e presenza degli stranieri. Anni 2001-2014
Un secondo dato che nei prossimi anni andrà monitorato per capire se è in corso
un cambiamento di comportamenti è quello relativo all’ età media della donna.
Le straniere che partoriscono hanno un’età media di 29 anni, sono più giovani
delle italiane (33 anni), ma l’età media al primo parto è andata aumentando negli
anni: nel 2001 era 25 anni, mentre nel 2014 è salita a 27 anni.
Ciò che invece appare con più certezza è il peggioramento della condizione
sociale delle donne straniere:
- il 73% delle madri straniere non ha un’occupazione, rispetto al 23% delle le
italiane, con un peggioramento del dato, che nel 2011 era rispettivamente del
69% e 19%;
- nel 10% dei casi risultano non occupati entrambi i genitori, nel 2011 ciò
avveniva nell’ 8% dei casi;
- infine il 37% delle donne straniere ha un titolo di studio più basso del diploma
di scuola media superiore (il 16% tra le italiane).
Un altro dato problematico riguarda gli indicatori relativi all’esito della
gravidanza: in particolare la prematurità (nato prima della 37ma settimana) e il
133
basso peso alla nascita (nato di peso inferiore a 2,500 Kg) continuano ad essere,
come negli anni precedenti, più frequenti per le donne straniere rispetto alle
italiane, segnalando così un fattore di rischio sul quale l’informazione e le attività
di prevenzione potrebbero agire in modo determinante.
Del resto è noto che prematurità e basso peso alla nascita sono in relazione anche
alle condizioni socio economiche della madre e all’andamento della gravidanza.
La Tabella 2 riporta i dati cumulati del triennio 2012-2014 disaggregando, per il
basso peso i nati con peso molto basso (meno di 1,500 Kg) e per la prematurità i
gravemente prematuri (meno di 32 settimane).
Tabella 2 - Esiti della gravidanza per cittadinanza della madre. Triennio 2012-2014
Da madre italiana
Nati vivi
Basso peso
Peso molto basso
Prematuri
Gravemente prematuri
Da madre straniera
Numero
280
17
% su nati vivi
5,6
0,3
Numero
133
18
% su nati vivi
7,0
1,0
262
22
5,2
0,4
141
19
7,5
1,0
La struttura sanitaria cui si rivolgono in grande prevalenza le donne straniere
durante la gravidanza è il Consultorio familiare, scelto dal 70% delle donne, dato
che conferma una tendenza consolidata e riportata anche nei rapporti precedenti.
Tabella 3 - Struttura che ha seguito la gravidanza (anno 2014)
Struttura
Donne straniere
Numero
%
Ospedale
80
13,2
Consultorio
427
70,5
Studio privato
94
15,5
Nessuna
5
0,8
606
100,0
Totale
In realtà tra italiane e straniere si riscontra un atteggiamento opposto riguardo
all’utilizzo delle strutture pubbliche: oltre il 76% delle italiane si rivolge a studi
privati, le straniere per quasi l’84% utilizzano la struttura pubblica (ospedale e
consultorio).
Un dato che l’Azienda USL rileva e segnala come positivo consiste nel fatto che
l’accesso al Consultorio coincide con il ritiro del libretto di gravidanza e
l’inserimento nel programma regionale di tutela con il piano di esami e controlli
previsti e gratuiti: questa appare una condizione favorevole allo sviluppo di
134
iniziative di educazione sanitaria e di prevenzione mirate soprattutto ad
incentivare i controlli durante la gravidanza.
I dati relativi alle visite e alle ecografie effettuate costituiscono un buon indicatore
per valutare l’adesione delle donne ai programmi di prevenzione e della buona
organizzazione dei servizi di tutela della gravidanza. (Tabelle 4 e 5).
Tabella 4 - Settimane di gravidanza compiute alla prima visita di controllo (anno 2014)
Settimane compiute
Italiane
Alla prima visita di controllo
Straniere
Numero
%
Numero
%
0 - 12
1.572
97,0
548
90,6
13 - 24
43
2,7
48
7,9
Oltre 24
5
0,3
9
1,5
1.620
100,0
605
100,0
6
-
1
-
Totale
Non rilevata
La prima visita effettuata entro la 12ma settimana di gestazione è considerato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un indicatore di buona
assistenza in gravidanza; purtroppo il 9,4% delle donne straniere, (il 3% delle
italiane) effettua ancora la prima visita oltre le 12 settimane, anche se il dato è in
miglioramento essendo stato nel 2011 pari all’11%.
Tabella 5 - Ecografie effettuate durante la gravidanza (anno 2014)
Numero di ecografie
Italiane
Straniere
Effettuate
Numero
%
Numero
%
Da 1 a 2
9
0,5
26
4,3
130
8,0
217
35,8
Da 4 a 9
1.211
74,5
333
55,0
10 e oltre
276
17,0
30
4,9
1.626
100,0
606
100
3
Totale
Un andamento simile risulta anche riguardo al numero di ecografie effettuate
durante la gravidanza: si registra ancora un 4,3% di donne straniere che
effettuano meno delle 3 ecografie previste nel protocollo regionale (nel 2011 il
5,9%), in un quadro però di miglioramento complessivo dei dati, in quanto il
60% delle straniere ha effettuato più di tre ecografie (nel 2011 il 57%) e nessuna
donna dichiara di non aver fatto alcuna ecografia.
I corsi di accompagnamento alla nascita vengono poco frequentati dalle donne
straniere (Tabella 6) nonostante l’alto utilizzo del consultorio da parte di queste
135
gravide. In ogni caso il loro numero è in aumento negli ultimi 5 anni, così come
avviene per le italiane.
Tabella 6 - Numero utenti che ha frequentato il corso di accompagnamento alla nascita per 100 parti (anni
2010-2014)
Straniere
Italiane
2010
13%
55%
2011
15%
58%
2012
17%
69%
2013
17%
62%
2014
19%
65%
È evidente l’importanza della partecipazione a questi corsi, che sono allo stesso
tempo spazio di socializzazione e integrazione, occasione di educazione e
informazione sanitaria e, in definitiva, strumento per migliorare l’accesso ai
servizi; un miglioramento di tale partecipazione può essere conseguito con
iniziative che aiutino a superare problemi linguistici e differenze culturali.
La Tabella 7 mostra il più generale utilizzo dei consultori operanti nella ASL 8 da
parte delle donne straniere per le diverse attività presenti nelle strutture.
Tabella 7 - Attività dei consultori della USL 8 e frequenza delle donne straniere (anno 2014)
Donne straniere
Attività nei consultori della USL 8
Totale
N
%
N
%
Numero utenti di sesso femminile
4.338
16
26.528
100
Numero di accessi
10.482
21
49.828
100
2,4
-
1,9
-
Accessi medi per utente
Numero di utenti per area di intervento
Maternità
1.197
26
4.457
100
Contraccezione
479
28
1.739
100
Altre tematiche ginecologiche
565
19
2.996
100
IVG
253
51
494
100
Sterilità
34
30
114
100
1.576
10
15.652
100
Numero di libretti di gravidanza consegnati
769
27
2.859
100
Numero utenti al corso di accompagnamento alla nascita
118
10
1.215
100
Prevenzione oncologica
I dati sono molto simili a quelli rilevati nel 2011 e confermano che il Consultorio
è una struttura di riferimento per buona parte della popolazione femminile
immigrata, che costituisce il 16% di tutta l’utenza consultoriale e che determina il
21% degli accessi.
136
Interruzioni volontarie di gravidanza (IVG)
Nelle strutture della USL 8, nel 2014, sono state effettuate 478 interruzioni
volontarie di gravidanza (IVG); il 45 % di queste riguarda donne con cittadinanza
straniera. Il fenomeno delle IVG nel suo complesso risulta in costante
diminuzione in tutta la Regione Toscana.
La diminuzione è più marcata, negli ultimi cinque anni, per le residenti nella USL
8 di Arezzo per le quali il tasso di spedalizzazione è costantemente inferiore a
quello regionale. La scomposizione del dato per nazionalità della donna conferma
tuttavia il noto problema dell’eccesso di IVG delle donne straniere rispetto alle
italiane.
Nonostante il trend in diminuzione per le straniere, il tasso resta molto alto e
soprattutto molto lontano da quello delle italiane (Grafico 2).
Grafico 2 - Tassi di ospedalizzazione IVG per 1.000 donne residenti in età feconda (15-49 anni) per
cittadinanza della donna (anni 2008-2013)
30
25,9
23,3
25
22,6
20,3
19,5
20,9
20
15
10
6,4
5,5
5,6
5,2
5,1
5,2
2008
2009
2010
2011
2012
2013
straniere
italiane
5
0
Tra le nazionalità quelle che contribuiscono di più all’alto numero di IVG sono la
Rumena (con il 46% di tutte le IVG di donne straniere), l’Albanese (con il 10%),
la Cinese (con il 7%), e l’Indiana (con il 6%); questo aspetto è stato rilevato ed
analizzato anche in precedenti rapporti dell’Osservatorio (4) ed è stato oggetto di
azioni specifiche da parte dei Servizi sanitari per contenerlo. Nonostante ciò il
problema rimane soprattutto per Rumene, Cinesi e Indiane, per le quali la
percentuale di IVG è superiore alla percentuale di donne nella popolazione
residente.
Un aspetto particolarmente importante riguarda le cosiddette IVG ripetute che,
per quanto in lieve diminuzione, resta grave: il 28% delle IVG effettuate sono
ripetute, ma tra le cittadine straniere la percentuale sale al 41%.
137
Ricoveri ospedalieri
I ricoveri di cittadini stranieri presso le strutture ospedaliere della USl 8 durante
il 2014 sono stati 3.460 e costituiscono il 7% dei 50.620 ricoveri totali (Tabella
8).
La maggior parte dei ricoveri si rilevano nelle prime classi di età, coerentemente
con la composizione della popolazione immigrata, con una consistente
percentuale (16%) nella classe da 14 a 44 anni per il contributo delle donne
ricoverate per il parto.
Tabella 8 - Dimessi dalle strutture ospedaliere della USL 8 per cittadinanza e classe di età (anno 2014)
0 - 14
Cittadinanza
14 - 44
45 - 54
55 - 64
65 +
Tot.
N
%
N.
%
N.
%
N.
%
N.
%
N.
%
3.246
80
9.671
84
4.961
94
6.215
96
23.067
99
47.160
93
Straniera
814
20
Tot. dimessi da
strutture USL8 4.060 100
1.827
16
344
6
271
4
204
1
3.460
7
11.498
100 5.305 100 6.486 100
23.271
100
50.620
100
Italiana
Notoriamente i tassi di ospedalizzazione della popolazione straniera residente
sono più bassi della popolazione italiana essendo il dato fortemente influenzato
dalla composizione per età.
Anche considerando separatamente le tre fasce di età 0-14, 14-44 e 45-54 anni (è
esclusa dal confronto la fascia più anziana), il tasso grezzo di ospedalizzazione
degli stranieri nella USL 8 resta più basso rispetto agli italiani; da notare che per i
maschi nella fascia 0-14 i due valori si avvicinano molto (Grafico 3).
Grafico 3 - Tassi grezzi di ospedalizzazione per 1000 abitanti, per cittadinanza e classe di età (anno 2014)
138
L’unica eccezione è costituita dalle donne nella fascia da 14 a 44 anni per le quali
il tasso delle straniere supera abbondantemente quello delle italiane, effetto
riconducibile ai ricoveri per gravidanza e parto.
Riguardo alle cause del ricovero ospedaliero la tabella 9 mostra distintamente per
uomini e donne le prime cause di ricovero dei cittadini stranieri secondo la
classificazione ICD.
Per una miglior comprensione del dato si sono esclusi dalla tabella i ricoveri per
gravidanza e parto che ammontano, nei due anni considerati, a 2.044, pari al 45%
di tutti i ricoveri delle donne e i ricoveri per fattori che influenzano lo stato di
salute; in quest’ultima voce vengono classificati ricoveri per trattamenti vari di
tipo diagnostico o terapeutico non riconducibili al resto della classificazione.
Complessivamente le prime cause di ricovero sono le stesse sia per gli uomini che
per le donne, ma con ordine di frequenza differente. Le differenze percentuali più
importanti riguardano i traumatismi e avvelenamenti, 13% per gli uomini e 6 %
per le donne, e al contrario i tumori con il 13 % per le donne, rispetto al 5% per
gli uomini.
Tabella 9 - Le prime cause di ricovero per i cittadini stranieri (escluso gravidanza e parto e fattori che
influenzano lo stato di salute). Valori e percentuali (anni 2013-2014 cumulati)
Donne
Causa ricovero
Uomini
Num.
%
Causa ricovero
Num.
%
Malattie dell’Apparato Digerente
312
16,3 Malattie dell’Apparato Digerente
278
15,3
Tumori
254
13,3 Malattie del Sistema Circolatorio
241
13,3
Malattie del Sistema Genitourinario
245
12,8 Traumatismi E Avvelenamenti
221
12,2
Malattie del Sistema Circolatorio
233
12,2 Malattie dell’Apparato Respiratorio
211
11,6
Malattie dell’Apparato Respiratorio
190
9,9
Malattie del Sistema Genitourinario
158
8,7
Malattie del Sistema Osteomuscolare
e del Tessuto
175
9,2
Malattie del Sistema Osteomuscolare
e del Tessuto
153
8,4
Traumatismi e Avvelenamenti
120
6,3
Tumori
95
5,2
383
Altre cause escluso fattori che
influenzano lo stato di salute e il
20,0 ricovero ospedaliero
461
25,4
Altre cause escluso il parto e fattori
che influenzano lo stato di salute e il
ricovero ospedaliero
Totale
1.912 100,0 Totale
1.818 100,0
Accessi al pronto soccorso
Nel 2014 gli accessi al pronto soccorso nelle strutture ospedaliere della USL 8
sono stati 150.566, dei quali 18.196 effettuati da cittadini stranieri. È noto il
fenomeno del ricorso improprio alle prestazioni di pronto soccorso, che riguarda
sia cittadini italiani che stranieri.
139
Nel Grafico 4 sono messi a confronto gli accessi in codice bianco e blu di italiani e
stranieri per fasce di età; i codici bianchi e blu (pazienti con problemi di salute
non gravi che possono essere affrontati in modo differito o da strutture
territoriali) sono generalmente considerati indice di accesso non appropriato.
Si nota un maggior ricorso improprio al pronto soccorso degli stranieri ma, per le
singole fasce di età, ad eccezione della pediatrica, le differenze non sono grandi se
si tiene anche conto del deficit di informazioni sull’uso di servizi alternativi. In
una indagine del 2011 risultava che il 42% degli stranieri intervistati ignorava
l’esistenza del servizio di guardia medica notturna e festiva e di coloro che ne
conoscevano l’esistenza il 34% non avrebbe saputo come attivarlo (5).
Grafico 4 - Accessi al pronto soccorso Usl 8 in codice bianco e blu in percentuale (anno 2014)
L’età pediatrica (0-14 anni) è quella che ricorre maggiormente in modo non
appropriato al pronto soccorso sia tra gli italiani che tra gli stranieri, con una
percentuale più alta da parte di questi ultimi che arriva al 45% degli accessi. In
questo ambito probabilmente si accentua, oltre che la scarsa informazione, anche
la mancanza di servizi alternativi nel territorio. Conclusioni analoghe si possono
trarre anche considerando gli accessi al pronto soccorso che non hanno dato luogo
a ricoveri in ospedale.
Adesione ai programmi di prevenzione
L’azienda USL 8 realizza alcune iniziative di prevenzione che interessano tutti i
cittadini residenti, italiani e stranieri; in particolare vengono sviluppati
programmi di screening antitumorale per il tumore della mammella, del collo
dell’utero e del colon-retto. L’adesione a tali programmi è del tutto volontaria,
ma il livello raggiunto ha un duplice significato: da un lato costituisce un
elemento intrinseco di tutela della salute, dall’altro può indicare la fiducia dei
cittadini nel servizio sanitario pubblico, la corretta informazione sui fattori di
rischio, per i cittadini stranieri può indicare il livello di integrazione sociale
140
conseguito. Per i tre screening citati è possibile misurare il livello di adesione in
quanto il programma prevede l’invito da parte della USL ai cittadini nelle fasce di
età a rischio e la conseguente registrazione di coloro che si presentano.
Tabella 10 - Screening antitumorali: invitati e rispondenti residenti in provincia di Arezzo per età e stato di
nascita (2014)
Classi di
età
Invitati
Italia
Rispondenti
Estero
Italia
Estero
Differenza %
nati all'estero vs
nati in Italia
Adesione corretta %
Estero
Italia
Screening mammografico
50-54
4.277
804
3.068
432
73,1
67,1
-8,3
55-59
4.864
880
3.634
389
76,0
61,7
-18,8
60-64
4.491
550
3.117
197
71,1
49,4
-30,5
65-69
4.908
383
3.529
113
73,3
47,3
-35,5
Totale
18.540
2.617
13.348
1.131
73,4
59,2
-19,5
Screening cervice uterina
25-29
2.507
567
30-34
2.135
476
35-39
2.543
535
40-44
3.517
605
45-49
3.958
50-54
55-59
1089
220
60,5
40,7
-32,7
879
200
61,3
47,1
-23,2
1.178
291
66
59,9
-9,2
1.672
296
63,4
52,5
-17,2
575
1.899
289
63,6
53,7
-15,6
3.929
440
1.978
211
64,5
50,2
-22,2
3.264
342
1.815
144
68,9
45,1
-34,5
60-64
3.121
190
1.665
79
65,9
43,6
-33,8
Totale
24.974
3.730
12.175
1.730
64,5
49,8
-22,8
Screening colon retto
50-54
10.054
1.415
4.741
548
49,5
50,7
2,5
55-59
9.942
804
5.385
360
56,8
56,6
-0,3
60-64
9.989
502
6.018
246
63,5
59,7
-5,9
65-69
1.0692
239
6.552
93
64,7
46,5
-28,1
70+
1.709
27
970
16
60,1
69,6
15,8
Totale
42.386
2.987
23.666
1.263
58,7
53,7
-8,6
La Tabella 10, come tutte le altre di fonte ASL 8, mostra i dati relativi al 2014
derivanti dal flusso informativo SCR, secondo i criteri dell’Osservatorio
Nazionale Screening (ONS) presso il Ministero della Salute e del Centro di
Riferimento Regionale presso ISPO di Firenze. L’adesione allo screening
calcolata in percentuali di rispondenti, viene corretta depurando il dato da coloro
che all’invito hanno risposto di aver già effettuato l’esame per proprio conto per
141
varie ragioni. Come si nota, l’adesione più bassa si verifica per lo screening della
cervice uterina, dove per le straniere non si raggiunge la copertura del 50%,
mentre la più alta è per lo screening del tumore della mammella.
Complessivamente l’adesione degli stranieri è più bassa rispetto agli italiani per
tutti e tre gli esami; la differenza si attenua per la prevenzione del tumore del
colon.
3. Conclusioni
I dati descritti in precedenza suggeriscono le seguenti considerazioni:
1- L’accesso ai servizi sanitari della ASL8 da parte della popolazione straniera
residente si è mantenuto allineato con la crescita delle presenze nel territorio
provinciale. Alcuni dati come l’iscrizione all’anagrafe assistiti, l’alto utilizzo dei
consultori da parte delle donne straniere, l’adesione ai programmi di
prevenzione, fanno pensare ad un buon livello di fiducia verso il servizio pubblico
e ad una crescente stabilizzazione e integrazione dei cittadini stranieri.
2- Per contro, gli stessi dati, segnalano problemi ancora aperti: l’insufficiente
effettuazione dei controlli in gravidanza, gli accesi impropri al pronto soccorso, la
stessa adesione ai programmi di prevenzione che, pur superando il 50%, è ancora
inferiore rispetto alla popolazione italiana. Sono tutti comportamenti che
richiamano la necessità di iniziative di informazione e educazione sanitaria mirata
alle diverse nazionalità e ai diversi temi.
Nelle strutture sanitarie dell’ASL opera stabilmente da anni un servizio di
mediazione culturale gestito da Oxfam-intercultura che svolge un ruolo
fondamentale nel facilitare l’accesso alle prestazioni da parte dei cittadini stranieri
e che ha fornito in un anno 1.197 ore di mediazione. Probabilmente però è
necessario affiancare a questo servizio, che intercetta gli utenti nel momento che
si presentano alla struttura, ulteriori attività più generalizzate nel territorio, sia
mediante adeguati strumenti di comunicazione, sia mediante azioni programmate
dei servizi di base, come la rete delle Case della Salute.
3- Più difficile risulta valutare i problemi di salute della popolazione straniera. In
realtà la difficoltà riguarda anche la popolazione italiana dal momento che i dati
più comunemente disponibili sono soprattutto dati relativi alle prestazioni
effettuate (accessi, ricoveri, visite, esami etc.) e non ai determinati di salute
(rischi ambientali, rischi lavorativi, rischi alimentari, condizioni sociali etc.).
Anche la condizione generica di straniero o immigrato, comunemente usata, non
è molto significativa rispetto a problemi di salute, così come del resto non lo è
quella di italiano.
142
Riprendendo considerazioni fatte all’inizio, la popolazione straniera è ormai fatta
da tante popolazioni che per età, cultura e condizione presentano determinanti di
salute profondamente diversi. E’ allora necessario affiancare ai dati relativi agli
accesi e alle prestazioni i dati relativi alle varie tipologie di rischio, alla loro
distribuzione nel territorio, alla loro distribuzione tra gruppi omogenei di
popolazione. Per una valutazione di questo tipo oggi i flussi informativi sono
ancora carenti.
C’è anche un problema strutturale e organizzativo dei sistemi informativi che
sono ancora costruiti in maniera separata e poco comunicante: sistema
informativo sanitario, sistema informativo sociale, sistema informativo
ambientale, previdenziale, ecc. Una nuova progettazione di tali strumenti, che
avesse l’obiettivo di fornire elementi utili alla promozione della salute e in
generale del benessere della popolazione, dovrebbe riunificare su base territoriale
la disponibilità, l’elaborazione e l’analisi dei dati provenienti dai diversi ambiti
settoriali; l’esperienza degli Osservatori provinciali, sottratta al processo di
centralizzazione purtroppo in corso, potrebbe essere un valido punto di partenza.
Note
(1) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n.
41, dicembre 2013; Rapporto n. 48, dicembre 2014.
(2) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n.
36, ottobre 2011.
(3) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n.
30, ottobre 2010.
(4) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. “Interruzioni
volontarie di gravidanza tra le donne rumene: il caso studio di Arezzo”, in Vivere insieme. Quarto
rapporto sull’immigrazione, Oxfam Italia, Arezzo, 2012.
(5) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n.
33, maggio 2011.
143
Capitolo 3
Cittadini stranieri e uso dei farmaci in provincia di Arezzo*
di Giuseppe Cirinei e Giovanna Dallari
1. Introduzione
Dal punto di vista gestionale la conoscenza dei dati sul consumo dei farmaci è
fondamentale per mettere in atto iniziative adeguate a migliorarne
l’appropriatezza dell’uso e, di conseguenza, razionalizzare la spesa per il Servizio
Sanitario Nazionale (SSN) e per i pazienti stessi. Per quanto riguarda la
conoscenza dello stato di salute, questa informazione, associata ad altre fonti di
natura sanitaria e sociale, può contribuire a valutare meglio la distribuzione di
patologie e disagi nel territorio e comunque a suggerire l’opportunità di
particolari attenzioni o approfondimenti al fine di programmare interventi
appropriati e mirati.
Tutto ciò è vero in termini generali e lo è ancor più per sottogruppi specifici di
popolazione quali la popolazione straniera nelle sue diverse componenti.
Questa indagine descrive ed analizza la prescrizione farmaceutica nella
popolazione straniera regolarmente residente in provincia di Arezzo, mediante
l’elaborazione di tutte le prescrizioni farmaceutiche (ricette) rilasciate a cittadini
stranieri, nel corso del 2013, da parte dei Medici di Medicina Generale (MMG),
dei Pediatri di Libera Scelta (PLS) e dei servizi specialistici territoriali, registrate
dalla U.O.C. (Unità Operativa Complessa) Farmaceutica territoriale dell’Azienda
USL 8 di Arezzo, Toscana.
Il quadro informativo risultante dai dati relativi alle prestazioni specialistiche,
diagnostiche o di ricovero ospedaliero viene così ampliato, per la parte della
popolazione straniera regolare, con i dati che descrivono la dimensione e le
modalità di accesso all’uso dei farmaci, elemento importante nell’insieme dei
servizi disponibili per la tutela della salute.
L’indagine si propone di:
- descrivere il consumo di farmaci degli stranieri residenti, per fascia di età, sesso
e nazionalità;
- quantificarne il costo a carico del SSN;
- analizzarne il consumo di specifici gruppi di farmaci;
- individuare eventuali differenze nel consumo fra specifici sottogruppi di
popolazione;
144
- offrire ai gestori dei servizi socio-sanitari ed ai responsabili delle politiche locali
spunti per un miglioramento dei servizi territoriali.
Per una visione generale del problema, nella prima parte, è riportato un quadro
di sintesi sul consumo di farmaci erogati a cittadini italiani e stranieri, a livello
nazionale dal S.S.N.
Alcuni limiti dell’indagine suggeriscono la necessità di ulteriori approfondimenti
per una comprensione più completa dei fenomeni:
- i dati riguardano solo gli stranieri residenti e quindi una parte preponderante
numericamente, ma pur sempre incompleta riguardo alle problematiche che
possono influenzare lo stato di salute e l’accesso ai servizi; i dati relativi alle
prescrizioni per stranieri con codice STP sono risultati di dubbia interpretazione
sia per una difficile lettura degli archivi, sia per il basso numero di queste
registrazioni;
- l’utilizzo dei farmaci preso in considerazione è solo quello derivante dalle ricette
a carico del S.S.N. e quindi resta fuori tutto il consumo di prodotti farmaceutici
acquistati senza ricetta;
- per alcune delle nazionalità esaminate (le maggiormente presenti
numericamente nella provincia), i dati di prescrizione per alcune categorie di
farmaci sono particolarmente bassi: ciò suggerisce cautela nelle valutazioni dei
risultati.
2. I dati nazionali sul consumo di farmaci
Per quanto riguarda l’uso dei farmaci, secondo il Rapporto ISTAT-Ministero della
Salute, gli stranieri scelgono soprattutto terapie convenzionali e farmaci prescritti
da medici italiani; infatti uno straniero su cinque ha fatto uso di farmaci nelle due
settimane precedenti l’intervista (20,6%), con incidenze superiori al crescere
dell’età, in particolare dopo i 45 anni.
Le donne straniere fanno un uso maggiore di medicinali (il 23,7% contro il
17,1% degli uomini). Indipendentemente dal genere, il consumo di farmaci è
maggiore tra i cittadini comunitari (22,0%). Nella gran parte dei casi i farmaci
sono stati assunti dietro prescrizione o consiglio di un medico italiano (78,9%),
tendenza che riguarda tutte le collettività. Il 10,8%, invece, si affida all’iniziativa
personale e il 9,5% segue le indicazioni del farmacista; appena il 3,1% assume
farmaci dietro consiglio di medici connazionali.
I farmaci sono acquistati quasi esclusivamente nelle farmacie italiane (82,8%).
Tuttavia il 6,6% usa farmaci acquistati sia in farmacie italiane, sia all’estero. Più
inclini all’uso di farmaci provenienti solo dall’estero o comunque non disponibili
145
nelle farmacie italiane sono i cinesi (6,7% rispetto all’1% del totale degli
stranieri).
Il ricorso a terapie di cura non convenzionali è poco diffuso. Negli ultimi tre anni
appena il 3,1% degli stranieri si è rivolto alla medicina tradizionale cinese o
indiana, all’agopuntura, all’omeopatia o ad altri rimedi di cura non
convenzionale. Incidenze superiori si osservano per le sole comunità asiatiche e,
in particolare, per quella cinese (17,7%).
Lo studio “Farmaci e Immigrati. Rapporto sulla prescrizione farmaceutica in un
Paese multietnico” (2013) descrive e analizza i consumi di farmaci erogati in
favore di immigrati con cittadinanza di paesi a forte pressione migratoria, nati
all’estero o in Italia, regolarmente residenti, in un campione di ASL italiane,
derivati da prescrizioni territoriali effettuate a carico del SSN nel 2011 ed erogate
attraverso le farmacie pubbliche e private, inclusi i farmaci appartenenti al
prontuario PHT (Prontuario Ospedale Territorio, prontuario della continuità
assistenziale ), erogati in distribuzione diretta e in distribuzione per conto. Sono
state effettuate analisi per sostanza o categoria di farmaci, per caratteristiche degli
utilizzatori e per ASL, analisi sui farmaci equivalenti, utilizzando per questi le
“liste di trasparenza” pubblicate mensilmente dall’agenzia italiana del farmaco
(AIFA).
L’analisi si riferisce al 16% della popolazione immigrata residente in Italia
(710.879 persone, 53% donne), con età mediana di 33 anni e riguarda i dati della
prescrizione farmaceutica territoriale effettuata da parte di medici di medicina
generale e pediatri di libera scelta del SSN, nonché quella nei confronti di STP.
Nel corso del 2011 la popolazione immigrata rappresentava il 7,5% dei residenti
e la spesa farmaceutica lorda complessiva è stata di 330 milioni di euro, pari al
2,6% della spesa farmaceutica lorda complessiva; in media, la spesa farmaceutica
a carico del SSN è stata di 72 euro per un cittadino immigrato e di 97 euro per un
cittadino italiano; il 52% della popolazione immigrata e il 59% di quella italiana
hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci (58% delle donne straniere e
65% delle italiane), con una durata di trattamento sostanzialmente sovrapponibile
(232 e 237 dosi di farmaco per utilizzatrice).
Sono stati presi in considerazione i consumi relativi a 134.000 bambini, il 76%
dei quali nato in Italia. Il 54% ha ricevuto almeno una prescrizione di farmaci
nell’anno, a fronte del 60% dei bambini italiani. In media ciascun bambino
immigrato ha ricevuto 2,4 confezioni rispetto a 2,6 degli italiani.
Tra le categorie di farmaci prese in considerazione, gli immigrati hanno una
maggiore proporzione di utilizzatori, rispetto agli italiani, relativamente ai
farmaci antidiabetici (1,6% rispetto a 1,1%), gastroprotettivi (10,3% vs. 8,7%) e
antiinfiammatori (11,3% vs. 8,3%). La popolazione italiana ha una maggiore
proporzione di utilizzatori dei farmaci per l’ipertensione (7,6% vs. 6,5%),
146
ipercolesterolemia (2,4% vs. 1,9%), antibiotici (36,6% vs. 31,9%), sintomi
dell’asma e BPCO (Bronco Pneumopatie Croniche Ostruttive) (12,2% vs.
8,1%); infine, la prevalenza d’uso di antidepressivi è circa doppia nella
popolazione italiana (3,9% vs. 2,0%).
Tra i Paesi di provenienza i minori livelli di utilizzatori di farmaci si osservano
nelle popolazioni di origine cinese o kosovara, nelle quali solo il 36% dei cittadini
ha ricevuto almeno una prescrizione da parte del SSN nel corso del 2011. Sono
invece sostanzialmente sovrapponibili alla popolazione italiana, intorno al 60%
degli assistibili, le prevalenze di utilizzatori negli immigrati provenienti da Perù,
Nigeria, Marocco, Bangladesh e Albania.
3. Le prescrizioni farmaceutiche per cittadini stranieri in provincia di
Arezzo
I dati delle prescrizioni farmaceutiche derivano dall’archivio della Unità
Operativa Complessa (U.O.C.) Farmaceutica Territoriale della ASL 8 di Arezzo
si riferiscono ai farmaci prescritti dai medici di medicina generale e dai pediatri di
base, distribuiti dalle farmacie territoriali pubbliche e private, ai farmaci forniti
“per conto” e a quelli distribuiti direttamente dall’ASL.
Le estrazioni riguardano l’intero anno 2013 e la popolazione dei residenti
stranieri nella provincia di Arezzo che all’1 gennaio dello stesso anno erano
40.326 (11,5% di tutti i residenti) distinti in 19.103 uomini (47,3%) e 21.223
donne (52,6%).
Le differenze nella composizione per sesso ed età sono rilevanti nelle dieci
nazionalità più presenti con un’età sensibilmente più alta per Polonia, Albania,
Romania e Marocco rispetto a India, Pakistan, Cina, Macedonia, Kosovo e
Bangladesh, e una presenza di donne più elevata per Polonia, Romania e Kosovo,
rispetto a tutte le altre.
Si sono effettuati raffronti con il citato “Rapporto sulla prescrizione farmaceutica
in un paese multietnico”, anche se l’accostamento presenta alcuni limiti perché le
due popolazioni di riferimento, dello studio nazionale e della provincia di Arezzo,
sono diverse nella composizione per nazionalità (le prime dieci non
corrispondono) e per età (la popolazione dello studio nazionale è un po’ più
vecchia, con un’età media di 35 anni, contro i 32 di quella aretina). Inoltre le
classi d’età dello studio nazionale sono più strette.
Viene definito come “utilizzatore” la persona che ha avuto, nel corso dell’anno,
almeno una prescrizione farmaceutica risultante nell’archivio dell’U.O.C.
Questo permette di calcolare un tasso di prevalenza d’uso come percentuale di
utilizzatori nella popolazione residente.
147
Il consumo generale di farmaci
Gli utilizzatori stranieri residenti in provincia di Arezzo nel 2013, sono stati
22.394, che, rapportati alla popolazione residente straniera, danno un tasso di
prevalenza d’uso del 55,5%.
A livello nazionale risulta una prevalenza d’uso per gli stranieri di 52%; il dato
aretino, un po’ più alto, è però omogeneo al livello descritto per la Toscana: ASL
di Lucca 58%, ASL Firenze 56% e ASL Viareggio 55%. Gli italiani presentano
una prevalenza d’uso più alta, pari al 59% nella dimensione nazionale.
Le differenze tra uomini e donne e tra le classi d’età sono riportate nella Tabella
1. Le donne hanno una prevalenza d’uso maggiore degli uomini (61,3% contro
49,2%), confermata anche a livello nazionale (56% contro 47%). Questo vale in
tutte le classi d’età, eccetto che per l’età pediatrica (0-14 anni).
La maggior prevalenza d’uso delle donne è in parte dovuta alla loro più numerosa
presenza tra la popolazione, ma anche ad altri motivi, probabilmente legati alle
condizioni di salute o comunque al maggior uso di farmaci, soprattutto, ma non
solo, in ambito ostetrico ginecologico. Infatti se confrontiamo la composizione
per sesso della popolazione residente con quella della popolazione degli
utilizzatori, a fronte di una presenza femminile del 52,6% tra i residenti stranieri
(uomini 47,4%) abbiamo, tra tutti gli utilizzatori, il 58,1% di utilizzatrici (41,9%
uomini).
Come è del tutto prevedibile, la prevalenza d’uso scende dopo l’età pediatrica,
per tornare a salire gradualmente al crescere dell’età, sia per gli uomini che per le
donne.
Tabella 1 - Tassi di prevalenza d’uso specifici per sesso e classi di età
Classi d’età
0- 14
15 - 29
30 - 44
45 - 59
60 e +
Totale
Uomini
2.386
1.682
3.137
1.679
510
9.394
Utilizzatori stranieri
Donne
Totale
2.115
4.501
2.472
4.154
4.520
7.657
2.952
4.631
941
1.451
13.000
22.394
Prevalenza d’uso (% su popolazione)
Uomini
Donne
Sul Totale
63,6
59,4
61,5
36,0
51,4
43,8
46,4
62,7
54,8
58,8
72,4
66,8
59,0
71,2
66,4
49,2
61,3
55,5
L’età media degli utilizzatori è di 33 anni, allineata a quella dei residenti (32), più
alta tra le utilizzatrici (35) che non tra gli utilizzatori uomini (31).
Il costo netto complessivo delle prescrizioni farmaceutiche per i residenti stranieri
del 2013 risulta essere di 2.044.883 euro, suddiviso in 812.946 euro per gli
uomini e 1.232.037 per le donne. Il costo netto è il costo effettivo sostenuto dal
148
SSN depurato del valore delle compartecipazioni a carico dell’utente, degli sconti
alle ASL e di altri fattori.
Il costo netto medio per utilizzatore è più alto per le donne (94,77 euro) che per
gli uomini (86,54 euro). L’analisi per classi d’età mostra però che l’utilizzatore
uomo costa di più in tutte le età, ad esclusione della classe 30-44 anni, nella quale
costa di più l’utilizzatrice donna; questo andamento si ritrova anche nei dati
nazionali ed evidenzia che si tratta di un’età particolarmente critica per la
popolazione femminile.
Il citato “Rapporto Farmaci e Immigrati”, prende in esame il costo lordo, quindi
non confrontabile; il Rapporto tuttavia rileva che esiste una forte variabilità, fino
a un 50% in più o in meno tra le ASL italiane riguardo al costo e suggerisce di
approfondirne le cause, fra le quali è possibile ipotizzare anche il
sottotrattamento.
Le confezioni erogate sono state 257.986, di cui 100.449 per gli uomini e
157.537 per le donne. Il numero medio di confezioni per utilizzatore residente
straniero è di 11,5, suddiviso in 10,7 per gli uomini e 12,1 per le donne. Questo
parametro, ripreso successivamente anche nell’analisi delle singole categorie di
farmaci, può indicare genericamente l’intensità e la costanza dei trattamenti, ma
presenta il limite di sommare insieme confezioni dello stesso farmaco contenenti
dosi diverse.
A livello nazionale il numero medio di confezioni per utilizzatore straniero è di
10,2, a fronte di un valore superiore per gli italiani, pari a 11,2.
Le Prescrizioni farmaceutiche nelle 10 nazionalità più presenti
Analizzando il dato dei consumi farmaceutici per le dieci nazionalità più presenti
tra la popolazione straniera residente in provincia di Arezzo, che costituisce il
78,5% di tutti residenti stranieri, si ottengono risultati che si differenziano, in
qualche caso, in modo consistente.
Gli utilizzatori di tali nazionalità sono in tutto 18.829 e vanno a costituire l’81%
di tutti gli utilizzatori. La composizione per nazionalità del gruppo degli
utilizzatori, rispecchia sostanzialmente quella nella popolazione residente, con
differenze nella età media che vanno dai 40 anni dei polacchi (che per oltre il 77%
sono donne), ai 23 anni dei kosovari (Tabella 2); anche la composizione per sesso
è molto eterogenea per le diverse nazionalità, così come avviene tra i residenti,
ma è da notare come per tutte le nazionalità, ad eccezione del Kosovo, tra gli
utilizzatori di farmaci, la componente femminile sia sempre superiore, fino a 10
punti di percentuale, rispetto alla popolazione residente.
Il tasso di prevalenza d’uso presenta una evidente variabilità in funzione della
cittadinanza. Tenuto conto della diversa struttura per età di ciascuna nazionalità,
nella Tabella 3 si confrontano tassi specifici per classe d’età, non considerando
149
l’ultima classe dei superiori a 60 anni, perché in alcuni casi le presenze sono
troppo limitate per fornire dati affidabili.
Marocco, India, Pakistan, Bangladesh, Albania e Macedonia sono in tutte le classi
di età superiori al valore medio, Romania e Polonia sono intorno alla media, Cina
e Kosovo sono costantemente inferiori. Lo stesso andamento si rileva nei dati
nazionali.
Tabella 2 - Utilizzatori residenti per sesso: prime 10 nazionalità
Utilizzatori
Nazionalità
Romania
Albania
Marocco
India
Bangladesh
Polonia
Pakistan
Cina
Macedonia
Kosovo
Tutti gli
utilizzatori
Di cui uomini
Numero
7.441
3.885
1.590
1.385
1.264
684
806
388
426
Età
media
34
32
30
29
26
40
29
29
28
Numero
2.456
1.880
770
775
736
155
528
182
229
260
23
22394
33
Di cui donne
Donne sulla
popolazione
in %
%
33,0
48,4
48,4
56,0
58,2
22,7
65,5
46,9
53,8
Età
media
29
32
30
28
28
33
30
28
29
Numero
4.985
2.005
820
610
528
529
278
206
197
%
67,0
51,6
51,6
44,0
41,8
77,3
34,5
53,1
46,2
Età
media
36
33
30
30
23
42
26
30
29
150
57,7
24
110
42,3
24
55,9
9394
41,9
31
13000
58,1
35
52,6
56,7
46,7
44,5
40,5
36,8
70,1
31,7
48,0
41,4
L’interpretazione di queste differenze non è ovviamente riconducibile a un unico
fattore: si possono ipotizzare difficoltà di accesso, abitudini o fattori socioculturali, diverse composizioni delle popolazioni; si tratta comunque di un
indicatore relativo da tenere in considerazione. Infatti, se si considera la bassa
prevalenza della popolazione cinese, si può affermare che si tratti di un dato
atteso, ma anche che sia un ulteriore indicatore della scarsa integrazione di questa
popolazione nei servizi. Al contrario, la bassa prevalenza della popolazione
kosovara, potrebbe essere un effetto del basso numero dei residenti e della più
alta presenza nelle classi d’età più giovani.
150
Tabella 3 - Tasso di prevalenza d’uso % per classi di età: prime 10 nazionalità
Nazionalità
Romania
Albania
Marocco
India
Bangladesh
Polonia
Pakistan
Cina
Macedonia
Kosovo
Valore medio
0 - 14
61,6
68,6
68,5
72,3
60,1
55,2
69,4
40,4
57,6
46,5
61,5
15 - 29
37,6
49,3
56,0
52,5
57,2
39,4
57,8
27,0
51,8
29,0
43,8
Classi di età
30 - 44
47,7
67,8
71,3
71,1
63,7
54,4
64,4
30,0
54,3
45,0
54,8
45 - 59
66,1
77,9
87,4
77,7
79,1
58,1
84,0
50,0
80,0
58,1
66,8
Totale
51,6
65,7
70,0
67,1
62,0
53,9
67,2
34,9
57,8
41,3
56,1
4. Le prescrizioni per alcune categorie di farmaci
Oltre al dato generale per ciascuna categoria, si riportano i dati per le nazionalità
più presenti; il confronto tra di esse è possibile valutando lo scarto tra la
percentuale con cui ciascuna è presente tra gli utilizzatori della categoria di
farmaci, e la percentuale con cui è presente tra gli utilizzatori generali,
intendendo per utilizzatori generali il totale di tutte le categorie. Allo stesso
modo viene fatto il confronto fra i sessi.
Le categorie di farmaci prese in considerazione sono: antibiotici, antiipertensivi,
antidiabetici, antidepressivi, antipsicotici, ipocolesterolemizzanti, dermatologici e
antitubercolari.
Antibiotici
Gli stranieri residenti che hanno avuto almeno una prescrizione di antibiotici nel
corso del 2013 sono 15.286 che, rapportati alla popolazione residente, danno una
prevalenza d’uso di 37,9%.
Il valore riportato dallo studio nazionale è un po’ più basso (31,9%), ma in
Toscana ci sono valori simili a Lucca (40,3%), Viareggio (33,3%) e Firenze
(35,6%). Gli utilizzatori sono ripartiti in 57,4% donne e 42,6% uomini, valori
molto vicini a quelli degli utilizzatori generali (donne 58,1, uomini 41,9). Sono
state fornite 45.795 confezioni, per un costo complessivo di 299.114 euro.
Dal confronto delle percentuali tra utilizzatori di antibiotici e utilizzatori generali
non risultano particolari eccessi per nessuna delle nazionalità prese in
considerazione e, all’interno di ogni nazionalità non risultano differenze tra i
sessi. La omogeneità nel numero di confezioni per utilizzatore (3 per tutte le
151
nazionalità) farebbe pensare, nei limiti di questo indicatore, ad una omogeneità
nei livelli di trattamento e di compliance. Il dato nazionale è sovrapponibile (3,1
confezioni per utilizzatore) e superiore a quello degli italiani (2,6). Risulta invece
evidente un maggior utilizzo da parte della popolazione in età pediatrica per tutte
le nazionalità con una prevalenza d’uso pediatrica di 55,8%.
Antiipertensivi
La prescrizione di antiipertensivi nel corso del 2013 ha riguardato 2.948 stranieri,
determinando una prevalenza d’uso del 7,3%. Il valore a livello nazionale è più
basso (6,5%), mentre nelle ASL toscane troviamo Viareggio al 7,0%, Firenze al
6,9% e Lucca al 6,6%.
Gli utilizzatori sono ripartiti in 64,2% donne e 35,8% uomini, con una presenza
superiore delle donne rispetto agli utilizzatori generali (donne 58,1%, uomini
41,9%). Sono state fornite 43.200 confezioni, per un costo complessivo di
258.843 euro.
Le nazionalità di Albania, Ucraina e Polonia risultano avere una presenza
percentuale tra gli utilizzatori di antiipertensivi più alta rispetto alla presenza tra
gli utilizzatori generali.
Il maggior peso percentuale delle donne è a carico soprattutto del Marocco e
delle nazionalità europee, ma anche, in misura minore, della Cina, mentre per
India, Bangladesh e Pakistan il peso maggiore nell’utilizzo di antiipertensivi è
determinato dagli uomini.
È molto verosimile che un fattore importante che determina queste differenze sia
l’età delle popolazioni presenti che come abbiamo visto in precedenza è più alta
per le nazionalità europee. Riguardo alle donne, ad eccezione del Marocco e della
Macedonia, per Ucraina, Polonia, e Romania, la popolazione residente femminile
risulta più vecchia della popolazione maschile.
L’età media delle utilizzatrici di farmaci antiipertensivi è di 56 anni per l’Ucraina,
55 per il Marocco, 53 per la Polonia, 51 per Macedonia e Romania.
Si tratta di un fenomeno non emerso nell’ambito dei precedenti Report sulla salute
degli stranieri, che si basavano sulle schede di dimissione ospedaliera (SDO).
Benché la spesa complessiva sia davvero contenuta, le complicanze
dell’ipertensione non adeguatamente trattata sono caratterizzate da quadri clinici
che riguardano diversi distretti, che quindi possono compromettere seriamente la
salute dell’individuo e sono di conseguenza assai più costose per il sistema
sanitario. Un elemento da indagare rispetto a questo fenomeno potrebbe essere
costituito dalle abitudini alimentari, incluso il consumo di bevande a basso o alto
grado alcolico o di tenore zuccherino e la scarsa attività motoria, tutti fattori che
concorrono a determinare un eccesso di peso corporeo.
152
Antidiabetici
Gli utilizzatori di antidiabetici, nel corso del 2013, sono stati 891, con un tasso di
prevalenza d’uso del 2,2%. Anche in questo caso si registra un valore superiore
rispetto al livello nazionale, pari a 1,6%. Il dato Toscano è rappresentato dalle
ASL di Viareggio con 1,9% e Firenze con 2,5%, dato che colloca Arezzo ad un
livello coerente con il quadro regionale.
Sono state prescritte 13.137 confezioni, per un costo totale di 153.201 euro. La
composizione per sesso del gruppo degli utilizzatori vede il 53,8% di donne e il
46,2% di uomini, con un eccesso di uomini rispetto agli utilizzatori generali
(41,9%).
Il dato sulle prescrizioni di farmaci antidiabetici, analizzato per nazionalità,
conferma un eccesso di utilizzatori di questi farmaci per i cittadini provenienti dal
Sud Est Asiatico, dal Marocco e Tunisia e dalla Repubblica Dominicana rispetto
alle altre nazionalità. Questi Paesi presentano prevalenze d’uso più che doppie
rispetto a quella media e vanno dal 6,8% dello Sri Lanka, al 4,9% dell’India, il
4,8% del Bangladesh, fino al 4,3% della Repubblica Dominicana. Anche a livello
nazionale i cittadini di queste nazionalità, ad eccezione della Repubblica
Dominicana, hanno prevalenze d’uso specifiche oltre il doppio dalla media.
Tabella 4 - Prevalenza d’uso dei farmaci antidiabetici e prevalenza del diabete in provincia di Arezzo
Classe di età
15 - 29
30 - 44
45 - 59
60 - 74
Farmaci antidiabetici:
prevalenza d’uso stranieri
per 100 residenti
0,4
1,7
5,3
Prevalenza diabete
stranieri per 100
residenti. Stima ASL 8
0,4
1,3
4,1
Prevalenza diabete italiani
per 100 residenti. Stima
ASL 8
0,4
0,8
3,7
10,5
9,1
10,6
Il problema della diffusione del diabete nella popolazione straniera è noto e già le
aziende sanitarie, compresa ovviamente quella di Arezzo, hanno posto in essere
specifici programmi di attenzione a questa patologia. Anche i precedenti rapporti
dell’Osservatorio sulla salute degli stranieri (Report n. 15 - febbraio 2006 e
Report 39 - novembre 2012) ponevano l’accento sulla rilevanza di questo tema,
segnalando la maggior diffusione tra le nazionalità provenienti dal Sud-Est
Asiatico. I dati di stima dell’ASL 8 di Arezzo, mostrano una maggior prevalenza
del diabete nella popolazione straniera rispetto a quella italiana, nelle classi di età
centrali e sono perfettamente coerenti con la prevalenza d’uso rilevata dalle
prescrizioni farmaceutiche (Tabella 4).
Tra i problemi che si manifestano viene segnalata una difficoltà di accesso alle
cure, che si evidenzia con una minore aderenza alle linee guida terapeutiche degli
stranieri rispetto agli italiani, situazione che comunque presenta qualche
153
miglioramento in virtù di specifici programmi di intervento messi in atto dalla
ASL 8.
Antidepressivi
Gli stranieri residenti che hanno avuto almeno una prescrizione di antidepressivi
nel corso del 2013 sono stati 1.080, con una prevalenza d’uso del 2,7%. A livello
nazionale si registra un valore più basso (2,0%), mentre nelle ASL toscane si
trovano valori superiori: Firenze 2,8%, Lucca 3,1% e Viareggio 3,9%.
Gli utilizzatori sono ripartiti in 76,8% donne e 26,2% uomini, con una decisa
presenza superiore delle donne rispetto agli utilizzatori generali (donne 58,1%,
uomini 41,9%). Sono state fornite 7.436 confezioni, per un costo complessivo di
80.151 euro.
Riguardo alle nazionalità, solo la Romania e, in misura molto minore la Polonia,
risultano avere un peso percentuale superiore tra gli utilizzatori di antidepressivi
rispetto agli utilizzatori generali; in effetti Romania e Polonia sono tra le
comunità residenti con età più elevata e a componente femminile più alta.
Le donne, appunto, risultano in eccesso tra gli utilizzatori di antidepressivi per
tutte le nazionalità e particolarmente per India, Macedonia, Kosovo, Albania,
Romania e Polonia.
Il piccolo numero di utilizzatori di alcune nazionalità non autorizza valutazioni di
merito per tali eccessi che, pur tuttavia, sono un dato di fatto che dovrà essere
tenuto presente e possibilmente indagato ulteriormente.
Il tasso di prevalenza d’uso degli antidepressivi, calcolato sulla popolazione
residente femminile risulta del 3,9%; da questo si discostano maggiormente al di
sopra Polonia (5,9%) e Romania (4,8%), al di sotto Kosovo (2,6%) e India
(2,2%). Anche in questo caso è verosimile che molto influiscano le diverse
composizioni per età delle singole popolazioni, così come una minore
propensione o facilità di accesso ai servizi per donne giovani con figli e di più
recente immigrazione (per esempio indiane).
La ripartizione delle utilizzatrici di antidepressivi nelle classi d’età evidenzia che le
età più interessate al problema sono quelle centrali (30-44) e quelle medio alte
(45-59).
Un ulteriore elemento da tenere presente è il lavoro, che per le donne straniere è
prevalentemente concentrato nel lavoro di cura (badanti) e di assistenza familiare
(domestiche); ciò vale in particolare proprio per le donne rumene, polacche,
ucraine e macedoni. In ogni caso, con i limiti di valutazione prima accennati, i
dati segnalano certamente uno stato di disagio presente nella popolazione
femminile straniera sul quale è molto importante che i servizi socio-sanitari del
territorio pongano una particolare attenzione.
154
Anche in questo caso, come per gli antiipertensivi, la spesa complessiva sostenuta
dal SSN è molto limitata, ma le complicanze per la salute, se questi malesseri o
patologie non venissero adeguatamente trattate, potrebbero essere più gravi e
assai più costose per l’individuo e per il servizio sanitario. Ad esempio una
patologia di riscontro assai frequente è la depressione post partum, che comporta
problematiche complesse sia per la persona, sia per il neonato, sia per il
funzionamento della famiglia.
Antipsicotici
Le prescrizioni di antipsicotici hanno interessato 328 utilizzatori stranieri, con un
tasso di prevalenza d’uso dello 0,81%. La suddivisione nei due sessi degli
utilizzatori presenta, come nel caso degli antidepressivi, una forte preponderanza
femminile con le donne al 70,1% e gli uomini al 29,9% (rispettivamente 58,1 e
41,9 negli utilizzatori generali). Sono state prescritte 2.084 confezioni per un
costo totale di € 37.225.
Le diverse nazionalità pesano tra gli utilizzatori di antipsicotici con la stessa
proporzione che tra gli utilizzatori generali, mentre, se consideriamo
separatamente le donne, troviamo, come per gli antidepressivi, un eccesso di
utilizzatrici soprattutto per Romania, India, Polonia, Macedonia e Kosovo.
Questa classe di farmaci è prescritta prevalentemente da specialisti e le
motivazioni per la prescrizione possono essere simili a quelle degli antidepressivi.
Le classi di età delle donne con un peso percentuale più alto sono simili a quelle
degli antidepressivi (30-44 e 45-59 anni).
A differenza delle altre categorie di farmaci, nel caso degli antipsicotici abbiamo
una maggior variabilità nel numero medio di confezioni per utilizzatore, che varia
dalle 12 del Marocco alle 2 dell’India; il 33% degli utilizzatori ha usufruito di una
sola confezione del farmaco, e il 50% di una o due confezioni. Le cause possono
essere molteplici, tra le principali si possono citare le differenze culturali, l’uso
dei farmaci per finalità diverse da quelle principali, ma anche la difficoltà di
accesso ai servizi, che limita, in qualche modo, l’effettuazione di una terapia
corretta.
Questo ultimo dato, anche perché riferito ad un piccolo numero di utilizzatori,
non autorizza considerazioni approfondite nel merito del consumo di
antipsicotici: la “fotografia” presentata documenta comunque una situazione di
fatto che necessita e merita di essere analizzata con altri strumenti.
Ipocolesterolemizzanti
La prescrizione di ipocolesterolemizzanti, nel 2013, ha riguardato 906 cittadini
stranieri con un tasso di prevalenza d’uso di 2,2% sulla popolazione residente. Il
dato nazionale è leggermente inferiore (1,9%); a livello regionale è molto vicina
155
Firenze con il 2,0%, mentre Lucca è al 1,6% e Viareggio al 1,8%. Le confezioni
prescritte sono state 8.252, con una media di 9 per utilizzatore, inferiore al dato
nazionale (10,5%). Il costo totale è di 77.813 euro.
Il confronto tra le nazionalità, effettuato sia sulla composizione percentuale degli
utilizzatori di ipocolesterolemizzanti sugli utilizzatori generali, sia sulle
prevalenze d’uso, mostra un maggior utilizzo per Polonia, Ucraina, Albania e
Filippine, che risultano essere anche nella dimensione nazionale le cittadinanze
con prevalenze d’uso superiori alla media.
La composizione per sesso degli utilizzatori di ipocolesterolemizzanti in termini
percentuali è di 44,9% uomini e 55,1% donne, con un eccesso di uomini rispetto
agli utilizzatori generali (41,9%).
Per alcune nazionalità (Pakistan, Bangladesh, India, Albania, Cina) gli uomini ne
fanno un maggior utilizzo, mentre per altre, ed in particolare Polonia e Ucraina,
che sono tra quelle a più alta prevalenza d’uso, sono invece le donne ad avere un
peso superiore.
Dermatologici
Questa classe di farmaci è stata presa in considerazione, in quanto le malattie
cutanee costituiscono una componente rilevante delle patologie di cui possono
soffrire gli immigrati.
Si tratta di una importante materia di sanità pubblica, anche per la scarsità e
frammentarietà dei dati epidemiologici. Sono preponderanti le patologie acquisite
nel paese ospite, correlate spesso con problematiche di povertà, degrado ed
emarginazione, da disagio, da “transculturazione”, espressione di una crisi
d’identità, del timore di avere la “pelle sbagliata”. Il prurito sine materia è un
disturbo soggettivo, a volte assai intenso e condizionante, che non si accompagna
ad alcun tipo di obiettività clinica e laboratoristica, ha particolare rilevanza tra gli
immigrati (soprattutto tra quelli di pelle scura) e compare poco dopo l’arrivo nel
paese, ha la tendenza ad autolimitarsi e a scomparire con il tempo, tuttavia talora
può essere necessario fornire un sostegno farmacologico o psicoterapeutico, in
quanto può rappresentare un sintomo di stato d’ansia/depressione.
La tipologia di farmaci dermatologici riscontrata nelle prescrizioni prese in esame
riguarda principalmente farmaci utili per trattare queste patologie e la psoriasi che
recenti evidenze suggeriscono si possa considerare malattia sistemica. Gli
utilizzatori di farmaci dermatologici sono stati in totale 710, con una prevalenza
d’uso del 1,8%. Le confezioni prescritte sono 2.426, per un costo complessivo di
29.415 euro.
La sintesi dei dati per le principali nazionalità mostra una variabilità nel numero di
confezioni e nel costo medio per utilizzatore. Il totale degli utilizzatori è
156
suddiviso nel 45,8% di uomini e 54,2% di donne, con un maggior peso degli
uomini rispetto agli utilizzatori generali (41,9%).
Riguardo alle nazionalità, per le prime 10 presenti, non si evidenziano forti
differenze, se non per il Bangladesh, il Pakistan (valori più alti) e, in misura
minore, Marocco e Macedonia. Per Cina, Macedonia, Polonia e Bangladesh il
peso maggiore tra gli utilizzatori è costituito dalle donne.
Antitubercolari
È sembrato utile inserire il dato sull’uso di farmaci antitubercolari, vista
l’attenzione che è stata posta ultimamente sulla TBC nel nostro Paese, nel quale si
è assistito, negli ultimi dieci anni, a un significativo aumento del numero dei casi
registrati in persone immigrate, parallelo all’aumento degli immigrati stessi.
Nel 2008 l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha rilevato un tasso grezzo di
incidenza di 3,8 casi su 100.000 per i nati in Italia e 50-60 casi su 100.000 per i
nati all’estero, con un rischio relativo 10-15 volte superiore a quello degli italiani.
Le nazionalità particolarmente a rischio (tassi maggiori o intorno a 100 casi per
100.000 residenti) sono: Etiopia, Pakistan, Senegal, Perù, India, Costa d’Avorio,
Eritrea, Nigeria e Bangladesh.
È parere condiviso tra gli esperti che l’incidenza della TBC negli immigrati sia
verosimilmente sovrastimata, poiché l’indeterminatezza della componente
immigrata clandestina fa sì che al denominatore compaiano solo gli stranieri che le
fonti ufficiali (ISTAT) riportano come regolarmente residenti.
I dati di fonte ASL 8 mostrano che le notifiche di TBC ad Arezzo sono passate da
20 a 30 negli anni dal 2007 al 2010 e i ricoveri ospedalieri nel biennio 2009/2010
sono stati 58 per gli stranieri e 82 per gli italiani, con un tasso di ricovero per gli
stranieri dello 0,8 per mille e dello 0,1 per gli italiani.
I dati riportati di seguito si riferiscono alle prescrizioni di farmaci antitubercolari
per gli stranieri residenti in provincia di Arezzo. È importante sottolineare che il
basso numero di utilizzatori da un lato e la relativa specificità dei farmaci
dall’altro, danno a questi dati un carattere di orientamento di massima e non
consentono valutazioni o considerazioni puntuali.
Gli utilizzatori totali risultano 86, per una prevalenza d’uso dello 0,2% sui
residenti. Sono state prescritte 1.088 confezioni, per un costo complessivo di
6.820 euro.
La composizione per sesso degli utilizzatori, confrontata con quella degli
utilizzatori generali, mostra una presenza maggiore per gli uomini che sono il
46,5% rispetto al 53,5% di donne (41,9% e 58,1% negli utilizzatori generali).
157
5. Conclusioni
1- In termini generali l’attività prescrittiva nei confronti dei cittadini stranieri
residenti in provincia di Arezzo ha un andamento che si colloca all’interno della
variabilità rilevata a livello nazionale e regionale. Gli studi nazionali citati
mostrano per tutti i parametri (numero di prescrizioni, costo pro capite, numero
di confezioni pro capite) rilevanti differenziazioni sia tra regioni, sia tra ASL della
stessa regione. Sono numerosi i fattori che possono determinare tale variabilità e
tra questi, probabilmente, vi sono anche differenti approcci prescrittivi dei medici
di medicina generale e degli specialisti; ma ancor di più vanno presi in
considerazione i differenti orientamenti regionali nella organizzazione dei servizi e
il loro differente livello di sviluppo e di presenza nel territorio.
In questo caso non ci si riferisce solo ai servizi sanitari in senso stretto, ma anche a
quei servizi finalizzati a favorire l’accoglienza, l’inserimento e l’integrazione dei
cittadini stranieri (sportelli, mediazione, interpretariato, ecc.) la cui presenza o
meno contribuisce a rendere più o meno facile e appropriato l’accesso alle cure.
Di qui l’importanza e l’utilità di conoscere e analizzare i dati sull’uso dei farmaci,
al di là della sua dimensione quantitativa assoluta che, peraltro, negli studi
nazionali citati, risulta per gli stranieri sempre inferiore a quella osservata per la
popolazione italiana. Porre attenzione sulle differenze (per zona, per sesso, per
nazionalità, per età) può consentire infatti di mettere in relazione più elementi e
database, per valutare con maggiore precisione e accuratezza gli aspetti
problematici legati alla diffusione di patologie, alla accessibilità dei servizi, a rischi
connessi alle condizioni sociali e lavorative, a differenti livelli di integrazione, ma
anche a rischi specifici per diverse fasce di età, sesso o nazionalità.
2- Emerge chiaramente dall’indagine la problematica legata alle donne straniere: esse
complessivamente utilizzano farmaci più degli uomini, segnalando così una
condizione familiare, sociale, lavorativa di maggior svantaggio, che ha una
ricaduta in termini di problemi di salute. Al tempo stesso però, presentano un
costo pro capite più basso in tutte le classi di età, ad eccezione della classe 30-44
anni. Questo probabilmente suggerisce che le patologie a maggior diffusione tra
le donne necessitano di farmaci meno costosi, ma potrebbe anche nascondere
situazioni di sottotrattamento provocate dalle condizioni generali di vita delle
donne straniere.
Ancora le donne presentano un utilizzo maggiore rispetto agli uomini di farmaci
antidepressivi, antipsicotici e antiipertensivi, confermando così un legame tra
salute, intesa come benessere psico-fisico e sociale secondo i canoni
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), e condizione lavorativa e
sociale.
158
Appare comunque uno stato di disagio presente nella popolazione femminile straniera
che, in qualche misura, è un segnale sul quale porre un’attenzione coordinata da
parte dell’insieme dei servizi socio sanitari, dal momento che la problematica
comprende elementi che fanno riferimento al sanitario, ma anche diversi elementi
di natura sociale. Nella cosiddetta condizione femminile, infatti, si concentrano
tanti e diversi fattori che generano problematicità, che riguardano gli ambiti della
vita familiare e sociale, del lavoro, del parto e della cura dei figli: tutti questi
elementi sono più o meno presenti, e sicuramente enfatizzati, nel caso delle
donne di cittadinanza straniera.
3- Per alcune categorie di farmaci vi sono differenze evidenti di utilizzo tra le nazionalità;
in qualche caso, come per il diabete, viene confermato quanto già noto
(provenienze dal Sud Est Asiatico, dal Nord Africa) e già sotto l’attenzione dei
servizi sanitari, in altri, si tratta di proseguire l’indagine; appaiono necessari una
serie di approfondimenti, utilizzando e comparando diverse fonti di dati sanitari e
sociali, per analizzare e interpretare meglio gli aspetti problematici che da questi
primi dati si delineano.
Questo intervento non comporterebbe costi importanti per il SSN, ma
porterebbe a un’importante miglioramento delle informazioni e della
comprensione dello “stato di salute” della popolazione straniera e, di
conseguenza, ad accrescere l’attenzione dei servizi e l’efficacia delle cure fornite.
4- Emergono alcune nazionalità problematiche: tra le 10 più presenti nella
popolazione della provincia di Arezzo la Cina e il Kosovo registrano livelli di
utilizzo dei farmaci al di sotto dei valori medi. Anche in questo caso sono
necessari approfondimenti, perché il dato può derivare da un minore livello di
integrazione, ma può anche indicare situazioni di difficoltà di accesso ai servizi e
inadeguata presa in carico e trattamento di situazioni patologiche.
5- Per alcune categorie di farmaci si riscontra, tra gli utilizzatori delle diverse
nazionalità, una rilevante variabilità nei quantitativi “pro capite” di farmaco utilizzato
(confezioni). È stato già segnalato che la significatività ed affidabilità di questo
dato sono in parte ridotte dal diverso dosaggio delle confezioni; tuttavia tale
variabilità segnala la presenza di possibili disparità di trattamento delle stesse
patologie.
Questo fatto non va sottovalutato: è probabile che in molti casi derivi da corrette
differenziazioni di terapia, ma può segnalare bassi livelli di compliance, trattamenti
inadeguati o addirittura errati, dovuti a scarsa comprensione da parte degli utenti
delle indicazioni terapeutiche fornite dal medico. Testimonianze dirette di medici
159
e di utenti confermano questa possibilità. Il problema della lingua e della
comunicazione resta quindi attuale.
6- Da tutti gli elementi descritti si possono trarre indicazioni di lavoro.
La prima riguarda l’opportunità di realizzare ulteriori indagini per approfondire
gli aspetti sopra segnalati. Tra l’altro, attraverso l’analisi di dati provenienti da
più fonti e attività, si potrebbe redigere una mappa ragionata delle situazioni di
problematicità rilevanti per la salute presenti tra la popolazione straniera ad
Arezzo, da usare come riferimento da parte degli operatori e di coloro che, a
vario titolo, possono orientarne le azioni.
La seconda riguarda soprattutto i Servizi socio sanitari che operano nel territorio
ed in particolare la rete dei Distretti e delle Case della salute, all’interno delle
quali sono presenti operatori sociali e medici di medicina generale. È a quel
livello infatti che, più che in altri, può essere posta attenzione ai disagi e ai rischi
derivanti dalle condizioni di vita e di lavoro e agli aspetti della comprensione e
della comunicazione con i pazienti, aumentando la competenza culturale dei
professionisti, ma anche con strumenti adeguati di mediazione linguistica e
culturale. Il miglioramento dei livelli di trattamento delle patologie, della
compliance e dell’appropriatezza delle cure che ne può derivare, oltre che
migliorare le condizioni di salute può essere fonte di miglior uso delle risorse.
Nota
* L’indagine è stata possibile grazie alla collaborazione di: dr.ssa Rosella D’Avella, U.O.C.
Farmaceutica territoriale, Azienda USL 8, Arezzo; dr.ssa Stefania Arniani, Staff Direzione
Aziendale, Azienda USL 8, Arezzo; dr.ssa Sandra Bartolucci, ICT Arezzo ESTAV Sud Est. Il testo
completo di questo studio è consultabile nel sito dell’Osservatorio Sociale Provinciale/Sezione
Immigrazione di Arezzo.
Bibliografia
Andretta M., Cinconze E., Costa E., Da Cas R., Geraci S., Rossi E., Tognoni
G., Traversa G. (2013), Farmaci e immigrati. Rapporto sulla prescrizione farmaceutica
in un paese multietnico, Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi
Farmaceutici delle Aziende Sanitarie, Il Pensiero scientifico Editore, Roma.
Rapporto ISTAT (2013), Cittadini stranieri: condizioni di salute, fattori di rischio,
ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sanitari - anno 2011-2012 (www.istat.it).
Centro Studi e Ricerche Idos (a cura di) (2013), Immigrazione Dossier statistico
2013, Unar e Idos, Roma.
Rapporti della Sezione Immigrazione dell’Osservatorio Politiche Sociali della
Provincia di Arezzo n. 30/2010 (Immigrazione e lavoro dipendente in provincia di
160
Arezzo); n. 36/2011 (L’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo); n. 39/2012
(Popolazione immigrata e servizi sanitari); n. 41/2013 (La presenza di immigrati e figli
di immigrati in provincia di Arezzo).
Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali (2014), L’uso dei farmaci in
Italia. Rapporto Nazionale Gennaio-Settembre 2013, Agenzia Italiana del Farmaco,
Roma (www.agenziafarmaco.gov).
Siti per accesso a dati sui servizi sanitari
www.statoregioni.it/Documenti/DOC_038879_255%20csr%20-%205%20quater.pdf
www.ars.marche.it/osservatorio_dis/doc/report_serviziSanitariImmigrati2008.pdf.
www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2010/09/DIRITTO_ALLA_SALUTE.pdf
www.ars.marche.it/nuovo/html/download/diseguaglianze/Documento-on%20line.pdf
www.simmweb.it
161
Capitolo 4
Il lavoro autonomo e le rimesse dei migranti
di Lorenzo Luatti
1. Come leggere i dati
Come emerge dai dati nazionali diffusi annualmente (da ultimo Centro studi e
ricerche Idos, 2015) il lavoro autonomo e le imprese degli immigrati hanno
conosciuto ritmi di crescita sostenuti, evidenziando un forte dinamismo e una
spiccata vivacità di iniziative. Neppure la grande crisi economica globale, che
pure ha battuto forte per tutti e per i migranti in particolare, ha determinato un
arretramento del numero delle imprese “straniere”. In effetti, se guardiamo al
solo dato quantitativo, possiamo notare, dopo un sostanziale assestamento
registrato nel 2009, un nuovo balzo in avanti nel biennio successivo (2010-2011),
un netto tracollo nell’anno 2012, e una significativa ripresa nel biennio 20132014, che ricolloca il valore complessivo su quello registrato tre anni fa.
In questi anni gli immigrati sono diventati soci, amministratori e titolari
d’impresa, si sono inseriti nei vari settori produttivi, nonostante la congiuntura
economica poco favorevole e la scarsa attrattiva che il nostro Paese sembra
esercitare sui capitali esteri. Seguire in Italia la scelta dell’imprenditorialità non è
facile, e anche percorrerla si rivela spesso una strada in salita.
Come abbiamo precisato già in passato, il fenomeno dell’autoimpiego deve essere
interpretato anche alla luce di quelle trasformazioni del mercato del lavoro che
hanno reso decisamente più porosi e indeterminati i confini tra lavoro autonomo,
lavoro dipendente, disoccupazione. Buona parte delle imprese create dai migranti
– peraltro in linea con il dato complessivo – sono ditte individuali, la cui genesi
ha evidentemente a che vedere con processi generali, che rimandano in
particolare alla flessibilizzazione dei rapporti di impiego. L’avvio di una ditta
individuale infatti potrebbe costituire, semplificando molto i termini della
questione, una sorta di equivalente funzionale del ricorso a contratti atipici.
L’adattabilità dei migranti di prima generazione, ma anche la loro vulnerabilità
giuridica, concorrerebbero a spiegare la particolare “propensione” da parte dei
migranti a mettersi in proprio, laddove però i confini tra la ricerca di una
maggiore autonomia e l’assoggettamento alle condizioni imposte dal datore di
lavoro risultano difficili da tracciare. Il lavoro “eteronomo” non è peraltro una
prerogativa dei migranti, come documentato dalle ricerche dedicate al “popolo
delle partite IVA”, ma v’è ragione di sospettare che, nel caso dei primi – i
162
migranti, appunto – esso possa costituire un’ulteriore fonte di alimentazione di
quello che è stato definito il “mercato del lavoro parallelo”. Si potrebbe parlare,
pertanto, di una sorta di imprenditorializzazione del lavoro dipendente, che per i
migranti è visibile soprattutto nel comparto edile: laddove emergono centinaia di
migliaia di partite IVA, lavoratori formalmente autonomi che lavorano per un
solo “cliente”.
Occorre poi precisare che il dato presente nel Registro delle Imprese di
Infocamere (sistema telematico nazionale che collega tra loro tutte le Camere di
Commercio) è un dato spurio, che sovradimensiona il fenomeno
dell’imprenditoria straniera (o meglio, più correttamente si dovrebbe parlare dei
lavoratori autonomi nati all’estero): presenza di più cariche facenti capo alla stessa
persona; mancata o errata registrazione del Paese di nascita; impossibilità di
escludere una parte non stimabile di imprese che, pur risultando regolarmente
iscritte, non sono più operative; conteggio di cittadini nati all’estero, come ad
esempio molti figli di emigrati italiani che nel corso del tempo sono rimpatriati;
presenza di soggetti stranieri divenuti in seguito cittadini italiani. Ma anche, al
contrario, presenza di imprenditori nati in Italia da genitori immigrati/stranieri
(seconde generazioni). La combinazione di questi fattori provoca di fatto una
sovra-stima dei lavoratori autonomi e degli imprenditori immigrati. Il quadro
emergente induce pertanto alla massima prudenza.
Con queste necessarie premesse, che ci mettono in guardia dalle letture
mediatiche troppo ottimistiche se non sensazionalistiche di un trend che appare in
forte e costante crescita, passiamo ad analizzare i dati e le caratteristiche che
definiscono il fenomeno dell’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo.
2. I “numeri” dell’imprenditoria straniera in provincia di Arezzo
Se guardiamo ai numeri dell’imprenditoria straniera in provincia di Arezzo in una
dimensione diacronica, possiamo affermare che dopo un lungo periodo di crescita
sostenuta, dopo la stabilizzazione registrata nel 2009, e il nuovo trend positivo
del biennio successivo, nel 2012 si era verificata – prima volta da quando
monitoriamo il fenomeno – una debacle quantitativa delle imprese straniere sul
territorio provinciale. I dati del 2013, nettamente in territorio positivo
(+19,5%), sono stati confermati dal dato del 2014 che ha fatto segnare una
ulteriore crescita pari al 5,0%. Questi nuovi balzi in avanti hanno fatto recuperare
tutto il terreno perduto: si potrebbe dunque affermare, stando ai numeri, che la
fase peggiore della congiuntura economica negativa sia ormai alle spalle.
Nel complesso, al 31 dicembre 2014 risultavano iscritte alla Camera di
Commercio di Arezzo un totale di 4.698 imprese con almeno una persona
163
straniera titolare, amministratore e/o socio d’impresa. Dieci anni fa, nel 2002,
erano un migliaio.
Anche in provincia di Arezzo, le attività imprenditoriali dei migranti sono
prevalentemente organizzate in forma di ditta individuale e tendono a
concentrarsi in pochi settori come il commercio, le costruzioni e le attività
manifatturiere. Il dato delle ditte individuali (di seguito D.I.) risulta pertanto di
particolare interesse, sia perché in questa forma di impresa è più facile
l’attribuzione del ruolo di primo piano all’immigrato, sia perché tale forma
giuridica è prevalente in quasi tutte le nazionalità. In questi casi, come avviene
per la piccola impresa autoctona, il ruolo della famiglia nella fondazione e
soprattutto nella gestione dell’azienda è molto importante.
Nel territorio provinciale, a fine 2014, vi erano 2.648 D.I. a titolarità straniera, e
costituivano il 56,4% di tutte le forme d’impresa con titolare nato all’estero.
Rispetto allo scorso anno (erano scese a 2.536) sono cresciute del 4,4%.
L’incidenza delle D.I. con titolare immigrato rispetto al totale (sono 20.058 le
D.I. in provincia di Arezzo) si colloca al 13,2%, ovvero su 10 ditte individuali,
1,5 è tenuta da un imprenditore straniero. Anno dopo anno, il numero delle D.I.
a titolarità italiana diminuisce e quello dei “nati all’estero” cresce: la “tenuta” nei
numeri, sia detto ancora, è dovuta unicamente all’incremento delle D.I.
straniere.
Rispetto alle altre forme d’impresa l’incremento più vistoso che si era prodotto
nel 2013 riguardava le società di persone e di capitale con titolare, socio,
amministratore nato all’estero: si osservava, rispettivamente, un +44% e +40%
sul dato dell’anno precedente.
Tabella 1 - Forma giuridica impresa con titolare nato all’estero. Serie storica (2007/2014)
Forma giuridica
Impresa ind.
Soc. persone
Soc. capitale
Altre forme
Totale
2007
1856
465
248
23
2592
2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
2015 2088 2345 2506 2372 2536 2648
591 500 680 705 529 765 807
290 351 406 902 799 1118 1179
28
36
37
51
44
54
64
2924 2975 3468 4164 3744 4473 4698
Incid.
%
2007
71,6
17,9
9,6
Incid.
%
2014
56,4
17,2
25,1
Crescita
%
13/14
4,4
5,5
5,5
0,9
1,4
18,5
100,0
100,0
5,0
Nel 2014 tale trend di crescita risulta confermato: entrambe le forme d’impresa
sono aumentate per un 5,5% ciascuna. I settori produttivi in cui ritroviamo
queste imprese sono quelli tradizionalmente a forte presenza di “stranieri”
(costruzioni, ristorazione e commercio e, soprattutto nelle società di capitali, le
attività manifatturiere). Rispetto alle nazionalità e alla distribuzione territoriale, si
osserva, invece, una netta differenziazione tra le due tipologie di società: nelle
società di persone troviamo significative presenze di romeni, albanesi, cinesi,
164
bengalesi, pakistani e indiani, soprattutto ubicate ad Arezzo, Valdarno e
Valdichiana. Nelle società di capitali invece prevalgono nettamente i cittadini
romeni (costituiscono la metà del totale) e, dopo di loro, possiamo dire che non
vi sono nazionalità numericamente significative; rispetto alla loro ubicazione,
anche qui si nota una concentrazione territoriale nel comune di Arezzo (per il
43%) e nel Casentino (il 43%). Le motivazioni di questa crescita, in particolare
delle società di capitale, possono essere ricondotte ad una pluralità di fattori,
alcuni delle quali possono aver influito maggiormente in tempi di crisi economica
e finanziaria: fattori di tipo normativo, considerando che una s.r.l. ha più chance
di partecipare agli appalti e di ricevere commesse in subappalto rispetto ad una
ditta individuale; di tipo creditizio, poiché a questa tipologia di impresa viene
riconosciuto un rating superiore per l’accesso al credito; e inoltre per le garanzie
a tutela del patrimonio personale che offre la forma giuridica della società di
capitali, o per un fattore naturale di “crescita” dell’impresa che può aver portato
alla trasformazione da ditta individuale a s.r.l.
Tabella 2 - Forma giuridica e tipologia dell’impresa (anno 2014)
Forma giuridica
N° imprese
immigrate
N° imprese immigrate
(% colonna)
2.648
964
22
74
106
11
100,0
81,8
1,9
6,3
9,0
0,9
Società per azioni con socio unico
2
0,2
Società in accomandita semplice
Società in nome collettivo
1.179
268
525
100,0
33,2
65,1
Descrizione
Impresa individuale Totale
Società di capitale
Società resp. limitata
Società resp. limitata a capitale ridotto
Società resp. limitata con socio unico
Società resp. limitata semplificata
Società per azioni
Società di capitale Totale
Società di persone
Società semplice
14
1,7
Società cooperativa
Altre forme
807
45
19
100,0
70,3
29,7
Altre forme Totale
64
100,0
Totale complessivo
4.698
100,0
Società di persone Totale
Altre forme
La Tabella 3 riporta i dati scorporati per nazionalità. I dati delle D.I. mostrano
una prevalenza di rumeni (30,9%), seguono gli albanesi (13,0%) e i marocchini
(9,9%): nel complesso queste tre nazionalità rappresentano oltre la metà delle
imprese individuali di immigrati in provincia di Arezzo.
165
Tabella 3 - Forma giuridica dell’impresa e Stato di nascita dell’imprenditore. Prime 20 nazionalità (2014)
Stato di nascita
Impresa
individuale
Romania
Albania
Marocco
Bangladesh
Cina
Pakistan
India
Macedonia
Polonia
USA
Nigeria
Argentina
Tunisia
Brasile
Jugoslavia
Russia
Uzbekistan
Kossovo
Egitto
Domenicana Rep.
V.A
817
344
261
171
206
194
74
45
44
14
70
28
54
20
23
20
6
15
9
15
%
30,9
13,0
9,9
6,5
7,8
7,3
2,8
1,7
1,7
0,5
2,6
1,1
2,0
0,8
0,9
0,8
0,2
0,6
0,3
0,6
Società di
capitali
V.A
586
64
10
11
24
25
28
40
24
51
2
28
6
17
18
31
15
12
11
2
Società di
persone
% V.A.
49,7 189
5,4
98
0,8
34
0,9
93
2,0
42
2,1
49
2,4
40
3,4
6
2,0
18
4,3
9
0,2
5
2,4
17
0,5
12
1,4
16
1,5
9
2,6
6
1,3
13
1,0
6
0,9
10
0,2
14
%
23,4
12,1
4,2
11,5
5,2
6,1
5,0
0,7
2,2
1,1
0,6
2,1
1,5
2,0
1,1
0,7
1,6
0,7
1,2
1,7
Altre
forme
V.A
31
9
1
2
1
1
1
3
3
1
1
2
-
%
48,4
14,1
1,6
3,1
1,6
1,6
1,6
4,7
4,7
1,6
1,6
3,1
-
Totale
1.623
515
306
275
274
269
143
91
87
77
77
76
73
53
50
38
35
33
32
31
Altro
218
8,2
174
14,8
121
15,0
8
12,5
521
Totale
2.648
100,0
1.179
100,0
807
100,0
64
100,0
4.698
3. Distribuzione dell’imprenditoria immigrata nel territorio aretino
Veniamo adesso alla distribuzione nel territorio provinciale dell’imprenditorialità
straniera. In primo luogo, occorre sottolineare come, dopo la battuta di arresto
piuttosto generalizzata del 2012, la ripresa del 2013 (ad eccezione della
Valtiberina -3,1%), tutte le zone socio-sanitarie nel 2014 sono tornate in
territorio positivo, seppure con valori ad una cifra. In particolare, nell’ultimo
anno, il trend di crescita ha interessato soprattutto il Casentino, il Valdarno e la
Valtiberina (con oltre il +6% di crescita), la zona Aretina (+4,4%%) e in misura
nettamente inferiore la Valdichiana (+1,4%).
L’area distrettuale Aretina è il polo di attrazione più importante per le ditte
individuali con imprenditore nato all’estero (53,2%), seguono Valdarno (22,3%),
Valdichiana (13,7%), e nettamente distanziate Casentino (5,9%) e Valtiberina
(4,9%).
166
Tabella 4 - Distribuzione zonale delle Ditte individuali a titolarità straniera. Serie storica (2011/2014)
Incid. %
Ditte individuali 2011-2014
Presenze
DI su
Incid. Incid. Crescita Crescita cittadini presenza
tot. 2014 cittadini
%
%
%
%
2014
2013 2014 2013 2014 12/13 13/14
1.349 1.408 53,3
53,2
8,9
4,4
131.678
0,9
146
156
5,8
5,9
2,8
6,8
35.971
0,4
Zona
Aretina
Casentino
2011
1.277
180
2012
1.239
142
Valdarno
552
532
556
591
22,0
22,3
Valdichiana
354
332
357
362
14,1
Valtiberina
143
127
123
131
4,9
2.506
2.372
2.531
2.648
100,0
Totale
4,5
6,3
96.095
0,6
13,7
7,5
1,4
52.708
0,6
4,9
-3,1
6,5
30.550
0,4
100,0
6,7
4,6
347.002
0,7
Tabella 5 - Distribuzione delle imprese individuali per settore e zona di domicilio (anno 2014)
Attività
Costruzioni
Commercio ingrosso e
dettaglio
Attività manifatturiere
Aretina
Casentino
Valdarno
Valdichiana
Valtiberina
Totale
V.A.
502
%
35,7
V.A
77
%
49,4
V.A
255
%
43,1
V.A
132
%
36,5
V.A
45
%
34,4
V.A.
1.011
365
254
25,9
18,0
36
9
23,1
5,8
124
98
21,0
16,6
121
41
33,4
11,3
33
11
25,2
8,4
679
413
45
3,2
9
5,8
16
2,7
22
6,1
17
13,0
109
Agricoltura, silvicoltura
e pesca
Attività servizi di
alloggio e ristorazione
Noleggio, agen. viaggio,
serv. supp. a imprese
58
4,1
4
2,6
30
5,1
13
3,6
7
5,3
112
36
2,6
4
2,6
12
2,0
6
1,7
4
3,1
62
Altre attività servizi
42
3,0
3
1,9
22
3,7
7
1,9
6
4,6
80
20
1,4
-
-
9
1,5
3
0,8
-
-
32
14
6
1,0
0,4
1
0,6
3
3
0,5
0,5
2
-
0,6
-
1
0,8
19
11
3
0,2
2
1,3
1
0,2
2
0,6
1
0,8
9
9
0,6
1
0,6
4
0,7
1
0,3
-
-
15
Trasporto
magazzinaggio
Servizi di informazione
e comunicazione
Attività finanz. e Ass.
Att.ività artist., spor.,
intratt. e divertimento
Attività profess.,
scientifiche e tecnolog.
Attività Immobiliari
Fornitura di acqua, reti
fogn., att. gest. rifiuti
Istruzione
Sanità assistenza sociale
1
0,1
-
-
1
0,2
2
0,6
-
-
4
2
1
1
0,1
0,1
0,1
-
-
-
-
-
-
-
-
2
1
1
Non Disponibile
49
3,5
10
6,4
13
2,2
10
2,8
6
4,6
88
Totale
1.408 100,0 156 100,0 591 100,0 362 100,0 131 100,0
167
2.648
La Tabella 5 mette in relazione la distribuzione zonale delle ditte individuali con i
settori di attività. In dati assoluti è, ovviamente, la zona Aretina con il capoluogo
provinciale ad avere i numeri più alti; ma se guardiamo all’incidenza dei vari
settori produttivi in ciascuna zona, possiamo evidenziare talune specificità
territoriali. Ad esempio, nel settore delle “Costruzioni”, sebbene l’incidenza sia
alta in tutte le zone, spicca il primato del Casentino al 49,4% (ma solo 3 anni fa
era al 57,0%), seguito dal Valdarno (con il 43,1%); nel settore del “Commercio”
sono le zone della Valdichiana (33,4%), della Valtiberina e Aretina (entrambe al
25,0%) a presentare l’incidenza territoriale più alta; infine, nel settore delle
“Attività manifatturiere” sono Arezzo e il Valdarno ad avere i valori di incidenza
più elevanti (16-18%). Spicca il dato del 13% della Valtiberina nel settore
dell’agricoltura e silvicoltura.
Tabella 6 - I primi 15 comuni con più imprese individuali (D.I.) con titolare nato all’estero (2010-2014)
Comune
Arezzo
Montevarchi
Cortona
San Giovanni V.no
Foiano Chiana
Bucine
Castiglion F.no
Sansepolcro
D.I. D.I. D.I. D.I. D.I.
Inc. %
Crescita Crescita Crescita
2010 2011 2012 2013 2014 2013/14 % 11/12 % 12/13 % 13/14
1.005 1.112 1.081 1.173 1.218
46,0
-2,8
8,5
3,8
177
198
195
206
225
8,5
-1,5
5,6
9,2
112
118
120
135
142
5,4
1,7
12,5
5,2
103
108
102
106
107
4,0
-5,6
3,9
0,9
97
101
94
100
101
3,8
-6,9
6,4
1,0
70
79
68
74
74
2,8
-13,9
8,8
94
97
78
74
71
2,7
-19,6
-5,1
-4,1
74
78
67
70
73
2,8
-14,1
4,5
4,3
Bibbiena
Terranuova Br.ni
Civitella Val di C.
Monte S. Savino
Subbiano
Castelfranco-P. Scò
Capolona
Cavriglia
Laterina
Marciano Chiana
Pieve S. Stefano
Poppi
Altri
Totale
82
84
66
66
73
60
59
56
53
63
48
44
44
51
55
38
39
38
48
53
43
45
38
40
39
25
26
26
27
39
31
28
26
24
30
27
27
25
25
26
19
15
19
24
26
23
21
24
25
25
35
34
33
24
22
28
26
21
23
22
179
203
151
163
164
2.345 2.542 2.372 2.531 2.648
2,8
2,4
2,1
2,0
1,5
1,5
1,1
1,0
1,0
0,9
0,8
0,8
6,2
100,0
-21,4
-5,1
-2,6
-15,6
-7,1
-7,4
26,7
14,3
-2,9
-19,2
-25,6
-6,7
-5,4
15,9
26,3
5,3
3,8
-7,7
26,3
4,2
-27,3
9,5
7,9
6,7
10,6
18,9
7,8
10,4
-2,5
44,4
25,0
4,0
8,3
-8,3
-4,3
0,6
4,6
Un’ulteriore disaggregazione del dato in commento ci consente di conoscere i
comuni in cui hanno sede le imprese individuali di migranti (Tabella 6). Il
rapporto tra l’iniziativa economica degli immigrati, nelle sue varie forme, e il
168
paesaggio urbano aretino è confermato dall’alto grado di concentrazione nel
capoluogo delle ditte con titolare nato all’estero: poco meno della metà ha sede
nel comune di Arezzo (il 46,0%). Sono i piccoli comuni di Capolona e
Terranuova Bracciolini a segnare gli incrementi più rilevanti del 2014 (rispett.
+25 e +19%), seguiti da Montevarchi, Monte San Savino e Bibbiena (tutti con un
+10%).
4. Provenienza nazionale ed età dei titolari di imprese individuali
Nel complesso sono i cittadini, comunitari e non comunitari, provenienti
dall’Europa dell’Est a prevalere nettamente tra gli imprenditori nati all’estero.
Un quinto – e in costante aumento anno dopo anno – sono gli imprenditori nati
in un Paese del continente asiatico. Disaggregando questo dato ed analizzando le
provenienze, è possibile evidenziare i gruppi nazionali che hanno avviato, o
gestiscono, il maggior numero di imprese nella provincia di Arezzo.
Tabella 7 - Le prime nazionalità dei titolari di imprese individuali (anno 2014)
Stato di nascita
Totale
%
Stato di nascita
Totale
%
Romania
817
Albania
344
30,9
Argentina
28
1,1
13,0
Jugoslavia
23
0,9
Marocco
261
9,9
Brasile
20
0,8
Cina
206
7,8
Russia
20
0,8
Pakistan
194
7,3
Algeria
16
0,6
Bangladesh
171
6,5
Dominicana R.
15
0,6
India
74
2,8
Kossovo
15
0,6
Nigeria
70
2,6
USA
14
0,5
Tunisia
54
2,0
Macedonia
45
1,7
Senegal
Altro
13
214
0,5
8,2
Polonia
44
1,7
Totale
2.648
100,0
Dai dati messi a disposizione da Infocamere si evince che le nazionalità più
rappresentate sono quelle numericamente più presenti sul territorio provinciale
(Tabella 7): in primissimo luogo, si evidenzia la rumena (30,9%), seguono
l’albanese (13,0%) e la marocchina (9,9%).
Le fasce d’età che prevalgono tra i cittadini stranieri iscritti al Registro delle
Imprese, come emerge dalla Tabella 8, sono quelle dei 35-39enni e 30-34enni (il
38,6% circa dei lavoratori stranieri che si sono messi in proprio), seguite dalla
classe di età 40-44 anni (16,8%). L’effetto “sostituzione” (ovvero il ricambio
169
generazionale) è dunque confermato dalla sensibile differenza di età tra titolari
italiani e immigrati, mediamente molto più giovani, anche se col passare degli
anni si registra un costante innalzamento dell’età dei lavoratori autonomi nati
all’estero.
Si tratta, nella migliore delle ipotesi, di persone che si sono inserite pienamente
nel tessuto economico e sociale del contesto aretino, riuscendo a prendere
confidenza con il quadro normativo di riferimento e con le dinamiche del mercato
del lavoro locale. In genere hanno prima fatto un’esperienza pluriennale come
lavoratori dipendenti all’interno di una azienda, per poi mettersi in proprio.
Tabella 8 - Fascia di età dei titolari di imprese individuali (anno 2014)
Fascia età
15-19
20-24
25-29
30-34
35-39
40-44
45-49
50-54
55-59
60-64
> 64
Impresa individuale
6
101
298
442
579
446
350
203
132
62
29
% di colonna
0,2
3,8
11,3
16,7
21,9
16,8
13,2
7,7
5,0
2,3
1,1
Totale
2.648
100,0
5. Settori di attività delle imprese individuali
Nella lettura del fenomeno della piccola imprenditoria straniera assume
particolare interesse l’analisi dei settori di attività in cui operano le D.I. straniere.
Le Tabelle 9-12 offrono a questo riguardo molti elementi di interesse. Come già
evidenziato, in valori assoluti, sono tre i settori produttivi numericamente più
rilevanti per le imprese straniere: le “Costruzioni” con il 38,2%, il “commercio”
con il 25,6%, le “Attività manifatturiere” con il 15,6%. Seguono, a netta distanza,
le D.I. attive nei settori dell’“agricoltura” e dei “servizi di ristorazione” poco più
del 4%. Si tratti di comparti che negli ultimi hanno visto crescere o diminuire il
numero delle imprese attive, pur in uno scenario globale di crisi economica e
finanziaria.
Di particolare interesse è poi l’analisi delle percentuali di incidenza considerando
l’insieme delle ditte individuali (con titolare straniero e italiano) nei vari settori di
attività. Come abbiamo già visto, l’incidenza media provinciale delle ditte
170
individuali straniere è pari al 13,2%. Nei singoli settori produttivi, come abbiamo
più volte evidenziato negli studi della Sezione Immigrazione di Arezzo, si
evidenziano questi rapporti:
- un terzo circa di tutte le D.I. attive nel settore delle costruzioni ha un
titolare straniero (il 29,2%);
- ogni 5 D.I. che operano nel settore manifatturiero, 1 è immigrata (in valori
percentuali: il 20,4%), con una forte concentrazione nel comparto della
fabbricazione di articoli di abbigliamento (37,4% e 47,6% del totale, in
numeri assoluti 71 D.I. straniere su 190 D.I.);
- nei settori della ristorazione e del commercio l’incidenza delle D.I. straniere
sul totale è pari al 13,5;
- nel settore delle comunicazioni la proporzione è di 1 a 10 (10,1%).
Le alte percentuali di incidenza, soprattutto per i settori menzionati, sono spesso
da ricondurre ad una netta prevalenza di imprenditori di una o di poche
nazionalità: nelle costruzioni i rumeni e gli albanesi (rispettivamente con il 56,8%
e il 24,5%), nel commercio i marocchini (27,8%) e i bengalesi (12,1%);
nell’agricoltura i polacchi (21,1%), i cinesi (16,5%) e i romeni (18,3%); nel
trasporto gli albanesi (25,0%) e i rumeni (31,3%), nelle comunicazioni i cinesi
(36,8%) e bengalesi (21,1%). Molto più frammentata la distribuzione delle
attività manifatturiere: i pakistani (27,1%), i cinesi (20,6%) e i bengalesi
(16,5%).
Si tratta di dati e percentuali che esprimono, in alcuni casi, una trasformazione
socio-culturale dei settori citati, molto probabilmente irreversibile. Settori
(edilizia, manifattura, comunicazione, commercio…) con basse barriere
all’ingresso, modesti investimenti iniziali richiesti, debole regolazione degli
scambi e dei rapporti di lavoro ne fanno in molte realtà (non solo italiane) dei
caratteristici ambiti di sviluppo delle attività autonome promosse dai migranti.
Vediamo più da vicino i principali settori di attività delle imprese “straniere”
aretine, riprendendo un discorso già sviluppato nei precedenti Rapporti di questo
Osservatorio.
Le imprese edili. L’ingresso della Romania nell’Ue, avvenuto a inizio 2007, ha
determinato una forte crescita delle aziende nel settore delle costruzioni, per il
significativo flusso di investimenti rumeni. Dalla metà del 2008, tuttavia, questo
settore risente in modo vistoso della grande crisi economica globale. In questo
ramo, come abbiano visto, gli imprenditori di nazionalità rumena e albanese
rappresentano l’81,3% dei lavoratori autonomi stranieri del settore, e
complessivamente, quasi una D.I. su 3 è a titolarità straniera. Negli ultimi si è
registrato una progressiva diminuzione del numero di D.I. che operano nel
settore delle costruzioni, sia a livello generale che nello specifico dei “titolari nati
171
all’estero”: da 1.547 D.I. “straniere” nel 2010 si è passati a 1.210 nel 2011, nel
2013 il dato era sceso a 1.069 e nel 2014 a 1.011 (vedi Tabella 9). Nel 2007 il
numero di tali ditte pesavano per il 56% sul totale delle D.I. straniere, nel 2013
la loro incidenza era del 42,2% e un anno dopo, nel 2014 è calata ulteriormente
al 38,2%. Una forte flessione che ha riguardato tutto il territorio provinciale. A
tale forte diminuzione si deve principalmente il saldo negativo del comparto
registrato negli ultimi anni: dalle 4.231 D.I. del 2009 si è passati a 4.162 nel
2011 (-1,63%), a 3.605 nel 2013 e a 3.464 nel 2014. La crisi del comparto edile
ha dunque battuto più forte tra le D.I. straniere, per la loro intrinseca fragilità,
lavorando in molti casi con commissioni in contratto di subappalto da ditte
italiane.
Merita ricordare che nell’ambito dell’edilizia si evidenzia l’assai diffuso fenomeno
dell’outsorcing, o sub-contracting che prende forma a partire da strategie di
subappalto delle imprese autoctone. La scelta di avviare un’impresa, in
particolare nel settore edile, è molte volte dettata da una richiesta del mercato
del lavoro, che in linea con la tendenza alla flessibilità “espelle” dipendenti per
“assumere” autonomi, come avviene con il caso del ricorso alle già menzionate
“partite Iva” e alle ditte individuali. Un sistema che permette ai datori di lavoro di
far diventare “grigio” il lavoro nero, svincolandosi da ogni obbligo nei confronti di
un lavoratore subordinato, e scaricando sui lavoratori i costi sociali e parte dei
rischi dell’impresa. I titolari di queste para-imprese, obbligati a mettersi in
proprio e restando strettamente vincolati all’azienda committente, si trovano in
realtà in una posizione che, sotto molteplici aspetti, può essere considerata molto
vicina alla subordinazione. Questa situazione non sempre costituisce un
peggioramento della propria condizione: le para-imprese possono rappresentare
per gli interessati un trampolino di lancio nel mondo imprenditoriale nonché uno
dei possibili percorsi di inserimento intrapreso da molti piccoli imprenditori edili,
italiani compresi. La crisi economica che si protrae dal 2008, e che duramente ha
colpito il settore dell’edilizia, ha portato ad una contrazione del fenomeno del
sub-contracting, determinando una drastica riduzione delle D.I. straniere – o
meglio delle partite iva – cresciute enormemente negli anni passati.
Pur con queste considerazioni, che ci spingono a leggere il fenomeno nei suoi
contorni di luce e ombra, bisogna riconoscere che è difficile immaginare nel
territorio aretino un’attività edile priva del contributo non solo di lavoratori
subordinati, ma anche di imprese guidate da immigrati.
Il commercio. È il secondo settore per numero di imprenditori stranieri con il
25,6%, in gran parte impiegati nel commercio al dettaglio. Da alcuni anni si
osserva una certa stabilizzazione nel dato di incidenza: è dal 2012, difatti, che il
dato è stazionario attestandosi sui dati odierni (solo nel 2009 era al 19,6%). È un
172
settore d’impiego piuttosto diffuso che si articola per tipologia e prodotti
commercializzati. Come abbiamo visto, i marocchini costituiscono il 27,8% del
totale e si trovano inseriti principalmente nell’area del tessile e
dell’abbigliamento; seguono i bengalesi al 12,1%, inseriti nel commercio di
bigiotteria, pelletteria e abbigliamento; subito dopo i rumeni, pakistani e tunisini
dal 7 al 9%. Bisogna ricordare che c’è una significativa componente di
ambulantato, dunque di attività svolte all’aperto, impegnative e non sempre
redditizie.
Solitamente queste attività commerciali si dividono in due rami, in base alla
clientela alla quale sono rivolte. Da una parte ci sono gli esercizi che
commercializzano prodotti tipici del paese di origine, ma si rivolgono
principalmente alla clientela autoctona e sono le cosiddette “imprese esotiche”;
oppure le “imprese aperte” che implicano una vendita di merce che non ha
connotazioni etniche e che compete su un mercato concorrenziale. Può trattarsi,
ad esempio, di bazar, di negozi di abbigliamento ed oggettistica, di alimentari,
panifici/panetteria, kebabberie, tabacchi. Sono “imprese esotiche” anche e
soprattutto – spostandoci in un altro settore – molte attività di ristorazione. In
provincia di Arezzo sono soprattutto i cinesi (ma anche pakistani, bengalesi,
maghrebini…) ad avviare questo tipo di attività commerciali.
Da un’altra parte ci sono le imprese rivolte ad una clientela immigrata
principalmente dello stesso paese o della stessa area geografica del gestore. Non
sempre il confine è nettamente demarcato, poiché vi sono esercizi commerciali
(ad esempio, le macellerie halal) rivolti prevalentemente ad una popolazione
immigrata, ma che ricevono una attenzione da parte di molti “autoctoni”.
Le imprese orafe. Dedichiamo infine un breve approfondimento alla presenza delle
D.I. con titolare straniero nel settore orafo (Tabelle 11 e 12). La vocazione orafa
del territorio aretino ha coinvolto l’imprenditoria straniera da molti anni, almeno
dai primi anni Duemila. Numerosi sono infatti gli stranieri che sotto le diverse
forme imprenditoriali sono collocati in questo settore e la città di Arezzo
raccoglie la stragrande maggioranza del totale provinciale, essendo il polo di
maggior sviluppo. Il 93,7% di tali D.I. si concentra infatti nel territorio di
Arezzo. Le imprese straniere in ambito orafo sono a conduzione familiare e in
alcuni casi si occupano anche della vendita degli oggetti da loro stessi prodotti.
Sono per lo più, imprese contoterziste. Nel 2014 rappresentavano il 6,6% circa
del totale delle ditte individuali straniere e in termini assoluti sono 164, facendo
segnare un ulteriore incremento su base annuale pari a +10,8. Una presenza che
quest’anno ha raggiunto il suo primato storico, superando quello del 2013,
quando erano iscritte al Registro delle Imprese 157 D.I. straniere operanti nel
173
settore orafo. Rispetto al dato complessivo provinciale, le D.I. straniere in campo
orafo rappresentano il 26,4% di tutte le D.I. del settore (174 su 659).
Tabella 9 - Principali settori ed attività delle D.I. a titolarità straniera non comunitaria (anno 2014)
Impresa individuale
1.011
679
413
109
112
62
80
32
19
11
% di colonna
Attività Artistiche, Sportive, di Intratt. e Divertimento
9
0,3
Attività Professionali, Scientifiche e Tecniche
Attività Immobiliari
Fornitura di acqua, reti fognature, attività gestione dei
rifiuti
Istruzione
Sanità e Assistenza sociale
Non Disponibile
Totale
15
4
0,6
0,2
2
1
1
88
2.648
0,1
3,3
100,0
Macro settore
Costruzioni
Commercio all’ingrosso e al dettaglio
Attività Manifatturiere
Agricoltura, Silvicoltura e Pesca
Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
Noleggio, Agenzie di Viaggio, Servizi di Supporto Imprese
Altre Attività di Servizi
Trasporto e Magazzinaggio
Servizi di Informazione e Comunicazione
Attività Finanziarie e Assicurative
38,2
25,6
15,6
4,1
4,2
2,3
3,0
1,2
0,7
0,4
Anche nel caso delle imprese orafe si conferma una marcata etnicizzazione del
comparto: Pakistan e Bangladesh da soli rappresentano oltre i tre quarti di tutte le
ditte individuali del settore orafo (46,6% la prima, 31,3% la seconda); seguono,
assai distanziate, le D.I. indiane, con il 5,7%. Dai dati relativi alle nazionalità si
evince che l’incremento è dovuto soprattutto ad un nuova crescita delle ditte
pakistane (+17,4%). Il trend positivo riguarda anche il dato delle ditte bengalesi,
mentre quelle indiane segnano una netta battuta d’arresto (-9,1%).
L’ampia disponibilità e l’utilizzo ricorrente di lavoro di connazionali o parenti
spesso reclutati informalmente, e dunque a costi concorrenziali, costituisce per
queste imprese gestite da stranieri un punto di forza. Le reti comunitarie
costituiscono, più in generale, risorse importanti per l’inserimento lavorativo e
sociale dei nuovi arrivati, oltre che fonti di apprendimento vero e proprio di
mestieri. Si ricrea così un ambiente familiare e nazionale, con un’unica lingua di
comunicazione, con punti di riferimento e ritmi di lavoro condivisi. Più in
generale, queste reti possono anche diventare delle “gabbie”, impedendo percorsi
di emancipazione dall’economia di enclave, autoreferenziale e chiusa. Le criticità
di questa situazione, accentuate in periodi di crisi del settore, fanno riferimento
174
alle condizioni di lavoro, alla mobilità nel mercato del lavoro locale e
all’integrazione sociale di queste persone.
Tabella 10 - Principali settori ed attività D.I. a titolarità straniera. Serie storica (valori percentuali)
Settori
Costruzioni
Commercio
Attività Manifatturiere
Agricoltura
Ristoranti e alberghi
Noleggio, Agenzie di viaggio,
servizi di supporto alle imprese
Altri servizi
Trasporti
Servizi Di Informazione E
Comunicazione
Attività finanziarie
Attività Artistiche, Sportive, Di
Intrattenimento e Divertimento
Attività Professionali, Scientifiche E
Tecniche
Attività Immobiliari
Istruzione-Sanità
Produzione e distribuzione di
energia elettrica, gas e acqua
Non disponibile
2005
51,3
22,8
12,3
4,4
1,5
2007
55,8
19,6
12,7
4,0
1,3
2009
54,5
19,6
12,4
3,4
2,1
2010
51,9
21,7
13,4
3,0
2,5
2011
48,3
24,0
13,6
3,2
2,8
2012
45,6
25,5
14,1
3,8
2,9
2013
42,2
26,0
14,5
3,8
3,5
2014
38,2
25,6
15,6
4,1
4,2
1,1
4,8
1,2
3,4
1,5
2,2
1,7
1,7
1,8
2,2
1,9
1,8
2,3
2,0
1,5
2,1
2,6
1,7
2,3
3,0
1,2
0,1
0,4
1,1
0,4
0,9
0,4
1,0
0,5
1,0
0,5
0,9
0,4
0,7
0,4
-
-
0,2
0,2
0,3
0,2
0,4
0,3
1,5
0,1
1,5
0,1
0,4
0,2
0,0
0,5
0,1
0,1
0,3
0,2
-
0,4
0,2
-
0,6
0,2
-
0,6
0,2
0,1
-
-
1,9
-
-
0,1
0,1
0,1
1,1
0,1
3,3
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Tabella 11 - Imprese individuali operanti in campo orafo (Codice ATECO 32): distribuzione territoriale.
Anno 2005, 2007, 2009, 2011-2014. Valori assoluti e percentuali (di colonna)
DI
Zona
05
Aretina
75
Casentino
3
Valdarno
6
Valdichiana 5
%
col
82,4
3,3
6,6
5,5
DI
07
132
3
5
2
%
col
93,0
2,1
3,5
1,4
DI
09
106
3
4
3
%
col
91,4
2,6
3,4
2,6
DI
11
142
3
3
4
%
DI
col
12
93,4 138
2,0
2
2,0
3
2,6
2
Valtiberina
2
2,2
-
-
-
-
-
Totale
91 100,0 142 100,0 116 100,0 152 100,0 145 100,0 157 100,0 174 100,0
-
-
%
col
95,2
1,4
2,1
1,4
DI
13
146
2
5
4
%
col
93,0
1,3
3,2
2,5
DI
14
163
2
5
4
%
col
93,7
1,1
2,9
2,3
-
-
-
-
-
Tabella 12 - Imprese individuali operanti in campo orafo: Stato di nascita del titolare (anno 2014)
Stato di
nascita
Pakistan
Bangladesh
India
Altre
Totale
DI
2011
65
51
11
25
152
DI
2012
60
50
10
25
145
DI
2013
69
53
11
24
157
DI
2014
81
55
10
28
174
175
DI
2013
43,9
33,8
7,0
15,3
100,0
DI
2014
46,6
31,6
5,7
16,1
100,0
Crescita
% 12/13
15,0
6,0
10,0
-4,0
8,3
Crescita %
12/14
17,4
3,8
-9,1
16,7
10,8
6. Le rimesse dei migranti: uno sguardo ai dati mondiali e nazionali
Alcuni anni fa il Fondo Monetario Internazionale propose (nel Sixth Edition of the
IMF Balance of Payments and International Investment Position Manual, 2009) una
nuova definizione di “rimessa” oggi utilizzata da un numero crescente di Paesi e
che pare utile riprendere in questa sede. Secondo l’autorevole organizzazione
internazionale le rimesse individuali sono date dalla somma di due componenti
principali, i “redditi da lavoro dipendente” e i “trasferimenti personali”.
Quest’ultima espressione, più ampia di “rimesse dei lavoratori” usata in passato, è
comprensiva di “tutti i trasferimenti correnti in denaro o in natura effettuati o
ricevuti dalle famiglie residenti o da famiglie non residenti”. È tuttavia intuitivo
quanto sia difficile acquisire (e quantificare) i dati sui trasferimenti “in natura”,
sicché l’ammontare complessivo delle rimesse dei migranti è oggi riferibile
prevalentemente alle transazioni monetarie. Si aggiunga, inoltre, come è peraltro
assai noto, che le stime reali delle transazioni in rimesse non tengono conto dei
canali informali di trasferimento.
Certo è che le rimesse rappresentano una fonte rilevantissima di finanza globale e
una risorsa “chiave” di crescita economica per molti Paesi. Secondo le stime
diffuse periodicamente da Banca Mondiale, i flussi di rimessa che transitano per i
canali di intermediazione regolare in uscita da un Paese, generati dai lavoratori
migranti che vi risiedono, hanno quasi triplicato il valore totale degli aiuti pubblici
allo sviluppo e sono superiori anche rispetto alla voce di investimenti di
portafoglio (che, in questo caso, comprende anche il debito privato). Le rimesse
superano le riserve di valuta estera in almeno 14 Paesi in Via di Sviluppo (PVS) e
sono pari a meno della metà del livello di riserve in più di oltre 26 PVS (World
Bank, Migration and Development Brief, n. 21, 2/10/2013). Si tratta, in altri
termini, di risorse particolarmente importanti in un contesto difficile, in cui
diversi PVS fronteggiano un peggioramento nei conti con l’estero. Una vasta
letteratura, a partire dalla metà degli anni ‘90, ha evidenziato l’impatto positivo
di questa fonte finanziaria a livello macro e microeconomico: sul saldo della
bilancia dei pagamenti, sulle riserve valutarie e sul risparmio nazionale con effetti
positivi anche in termini di capacità di attrarre capitali dall’estero e di costruire
relazioni economiche. È stato spesso rimarcato il contributo delle rimesse alla
riduzione della povertà, in quanto destinate soprattutto alle famiglie con reddito
medio-basso, all’investimento in capitale fisico (assistenza sanitaria, cure,
migliore alimentazione), umano (istruzione, formazione) e più in generale alle
spese di welfare (fondi pensionistici, assicurazioni), facilitando l’accesso al credito
e ai servizi finanziari di soggetti altrimenti esclusi. Soprattutto durante i periodi di
crisi le rimesse rappresentano un’ancora di salvezza per molti Paesi e famiglie, e
176
hanno un impatto positivo sul piano della redistribuzione del reddito e della
diminuzione delle disuguaglianze. Evidenze e acquisizioni che non sono state
messe in discussione dalla prolungata crisi economica e sociale deflagrata nel
2008, dalle politiche restrittive all’immigrazione adottate da alcuni Paesi, e dal
conseguente ridimensionamento dei ritmi di crescita delle rimesse (Bettin,
Presbitero, Spatafora, 2014).
Se da una parte non si arresta la crescita del numero dei migranti internazionali
nel mondo, che nel 2013 ha raggiunto la soglia dei 247 milioni (e nel 2015
supererà i 250 milioni), dall’altra non conoscono significative battute d’arresto i
flussi di rimesse verso i paesi in via di sviluppo, che nel 2014, secondo le stime di
Banca Mondiale, hanno raggiunto i 436 miliardi di dollari, segnando una crescita
del 4,4% rispetto al livello del 2013 (grazie soprattutto alla forte ripresa
dell’economia statunitense). Incrementi che ci accompagneranno anche nei
prossimi anni, e confermano il ruolo di primissimo piano dei migranti e delle
rimesse nell’economia globale di oggi. Rispetto a questi flussi monetari, le recenti
proiezioni dell’autorevole “Migration and Remittances Team” di Banca Mondiale
indicano per il 2015 un rallentamento della crescita (+0,9%) a causa delle deboli
prospettive economiche di alcuni paesi d’origine delle rimesse, in particolare
l’area euro e la Russia, quest’ultima per una situazione economica in forte
deterioramento (sanzioni economiche, calo del prezzo del petrolio,
deprezzamento del rublo, ecc.). Già dal 2016, tuttavia, in linea con le prospettive
economiche globali più positive, è prevedibile un’ulteriore accelerazione che
dovrebbe portare a 479 miliardi di dollari il valore delle rimesse nel 2017. Se a
queste poi sommiamo le transazioni monetarie verso i paesi ad alto reddito, il
volume complessivo delle rimesse globali sale a 583 miliardi di dollari nel 2014, e
potrebbe raggiungere i 586 miliardi di dollari nel 2015 e i 636 nel 2017 (World
Bank, Migration and Development Brief, n. 24, 13/04/2015). India, Cina, Filippine,
Messico e Nigeria sono i primi 5 paesi destinatari delle rimesse in termini di
valori complessivi, mentre Stati Uniti, Arabia Saudita, Germania, Russia ed
Emirati Arabi Uniti si confermano i primi 5 paesi di destinazione dei migranti.
Nel nostro paese il flusso di denaro verso l’estero inviato tramite i canali formali
rilevato dalla Banca d’Italia è risultato in forte crescita tra il 2005 e il 2011,
passando da 3,9 a 7,4 miliardi di euro. Il “periodo d’oro” delle rimesse,
contrassegnato da sostenuti e reiterati incrementi, si è tuttavia interrotto nel
2012, e poi, con maggiore asprezza, nel biennio successivo, quando i valori
complessivi intermediati hanno aperto – ma solo in apparenza, come vedremo –
una nuova fase di decrescita e rallentamento: dai 6,8 miliardi di euro del 2012 si è
passati ai 5,5 del 2013 e infine ai 5,3 miliardi di euro intermediati nel 2014. A
ben vedere, solo la contrazione delle rimesse del 2012, peraltro contenuta e
“spalmata” tra i diversi paesi di origine dei lavoratori immigrati, poteva essere
177
attribuita agli effetti “lunghi” della crisi economica. Il drastico ridimensionamento
registrato nel biennio 2013-2014 si spiega invece con altra motivazione (Centro
studi e ricerche Idos, 2015), peraltro conosciuta dagli analisti del settore: la
flessione è da imputare ad una specifica “anomalia” delle transazioni effettuate dai
migranti cinesi cui solo recentemente gli enti competenti hanno messo mano. È
stato osservato che le rimesse inviate verso la Cina attraverso i money transfer
operators comprendono un’elevata componente di natura commerciale (gli Mtos
sono utilizzati abitualmente come canale di pagamento) che esula dalla definizione
di rimesse in quanto trasferimento internazionale di denaro di valore
relativamente basso fra persone fisiche. Nell’ultimo biennio, l’inasprimento della
normativa e i maggiori controlli introdotti, da una parte, e soprattutto lo sforzo
degli operatori e della Banca d’Italia di separare le “rimesse” inviate come
pagamento di scambi di natura commerciale da quelle inviate come rimesse
personali, dall’altra, hanno riportato l’entità dei trasferimenti monetari cinesi a
valori più congrui e “veritieri”.
Se, dunque, dal dato complessivo scorporiamo le rimesse inviate verso la Cina, la
fotografia del fenomeno appare assai diversa: il flusso di denaro verso l’estero fa
registrare una crescita del 5,9% nel 2013 e del 2,5% nel 2014. Che poi la crisi
economica abbia colpito la capacità reddituale dei migranti – attraverso fenomeni
differenti quali disgregazioni familiari, aumento della disoccupazione,
trasferimenti di residenza verso l’estero, ecc. – è fuori discussione. Come è
altrettanto innegabile, per altro verso, il menzionato spostamento in atto nel
mercato delle rimesse verso canali di trasferimento online e di telefonia mobile
che i dati ufficiali ancora non rilevano. Non è poca cosa allora ritrovare un segno
di crescita, seppure contenuto, anche per l’anno 2014.
Passiamo ora ad un rapido commento degli aspetti più legati al dato statistico
delle rimesse, relativi ai paesi di destinazione e ai territori di invio. La Cina, dopo
anni di incontrastata “supremazia” rispetto al volume complessivo di rimesse
inviate dai propri migranti (nel 2012 rappresentavano il 39,1% del totale), nel
2014 ha ceduto lo “scettro” alla Romania, con i suoi 876 milioni di euro ricevuti
dall’Italia (+1,8%). Se la Cina diminuisce, e segnano il passo le rimesse verso
l’India (-7,1%), aumentano le rimesse dei lavoratori migranti di altri paesi
dell’Asia meridionale come Pakistan (+18,4%), Sri Lanka (+10,9%) e
Bangladesh, che nell’ultimo biennio ha fatto registrare un incremento di oltre il
55,0%. Nell’Est Europa aumentano le rimesse verso la Moldavia (+12,0%) e
l’Albania (+4,7%), mentre diminuiscono quelle verso l’Ucraina (-7,5%). Da
segnalare, infine, il persistente declino delle rimesse verso le Filippine
(nell’ultimo biennio si sono quasi dimezzate, erano oltre 600 milioni di euro nel
2012), il Brasile e l’Ecuador (rispettivamente, -23,0% e -7,0% negli ultimi due
178
anni); infine, merita una sottolineatura, malgrado il modesto valore assoluto, il
forte incremento delle transazioni monetarie verso la Russia (+32,3%).
Tabella 13 - Rimesse dei cittadini stranieri. Graduatoria dei primi 10 paesi (in migliaia di euro) (20132014)
Paesi
Romania
Cina
Bangladesh
Filippine
Marocco
Senegal
India
Perù
Sri Lanka
Ucraina
2014
876.489
819.000
360.763
324.067
249.957
244.936
225.633
193.162
173.345
144.287
5.333.285
Totale
%
16,4
15,4
6,8
6,1
4,7
4,6
4,2
3,6
3,3
2,7
100,0
2013
861.190
1.098.565
346.051
339.920
240.941
231.720
242.913
186.211
156.351
156.001
%
15,7
20,0
6,3
6,2
4,4
4,2
4,4
3,4
2,8
2,8
Var.% 13-14
1,8
-25,4
4,3
-4,7
3,7
5,7
-7,1
3,7
10,9
-7,5
5.545.759
100,0
-3,8
Tabella 14 - Rimesse dei cittadini stranieri nel periodo 2010-2014: prime 12 provv. di invio (migliaia di
euro)
Provincia
Roma
Milano
Firenze
Napoli
Torino
Prato
Brescia
Bologna
Genova
Bergamo
Venezia
Verona
Totale
2010
1.786.274
941.826
207.345
225.751
180.538
191.699
132.094
130.700
119.319
98.410
92.118
77.441
6.572.224
2011
2.040.017
1.031.305
233.604
305.707
193.321
249.102
152.763
131.858
122.450
110.151
108.971
89.067
7.394.398
2012
1.938.168
965.969
197.194
295.600
164.577
208.458
134.645
108.989
110.734
95.226
97.598
76.291
6.833.116
2013
965.489
674.807
190.802
220.953
168.780
202.523
140.650
117.963
112.094
94.560
93.944
79.131
5.545.759
2014
891.185
606.795
207.488
195.435
172.308
162.134
139.060
117.182
108.361
97.892
96.393
87.245
5.333.285
%
16,7
11,4
3,9
3,7
3,2
3,0
2,6
2,2
2,0
1,8
1,8
1,6
100,0
Var.% 13-14
-7,7
-10,1
8,7
-11,5
2,1
-19,9
-1,1
-0,7
-3,3
3,5
2,6
10,3
-3,8
Un quinto delle rimesse proviene dalla Lombardia, regione che detiene il primato
con oltre 1,1 miliardi di euro inviati all’estero. Tre soli territori regionali,
Lombardia, Lazio e Toscana, raggruppano più della metà del volume totale di
rimesse in uscita dal nostro paese, pur avendo fatto registrare nel 2014 una
diminuzione che oscilla tra il 2,7% e il 7,0%. Assai marcato il ridimensionamento
dei flussi di rimesse in partenza dalla provincia di Roma (dalla capitale, in
particolare): se nel 2011 i migranti presenti sul territorio provinciale inviavano
oltre 2 miliardi di euro di rimesse (il 27,1% dell’ammontare complessivo), tre
anni dopo, nel 2014, il valore è sceso a 900 milioni di euro, riducendone
notevolmente il suo peso percentuale (16,7%). Ancora in termini dinamici
(2013-2014) si registra un segno negativo (-10,1%) nella provincia di Milano,
seconda in graduatoria, da cui nel 2014 sono stati spediti all’estero oltre 600
179
milioni di euro, l’11,4% del totale. Significative cadute dei valori monetari
intermediati fanno registrare anche diverse altre province in graduatoria, in
particolare Catania (-32,1%), Prato (-19,9%) e Napoli (-11,5%), mentre un
segno particolarmente positivo contraddistingue le province di Modena
(+10,5%), Verona (+10,3%) e Firenze (+8,7%).
7. L’andamento delle rimesse in Toscana e in provincia di Arezzo
Come emerge dalla Tabella 15 (elaborazione Osservatorio provinciale su dati di
Banca d’Italia), nel 2014 i flussi di rimesse della popolazione immigrata in
Toscana hanno raggiunto quasi i 600 milioni di euro (precisamente 587.146.000
euro), segnando un -2,7% rispetto all’ammontare del precedente anno. Siamo
ancora lontani da quel miliardo circa di rimesse partite dalla nostra regione nel
2009.
Oltre un terzo delle rimesse toscane partono dalla provincia di Firenze (il
35,3%); oltre un quarto dalla provincia di Prato (27,6%), provincia che negli
ultimi anni ha conosciuto – per le ragioni sopra detto collegate all’andamento
delle rimesse cinesi – la dèbacle più forte (solo nell’ultimo anno un -20,0%);
seguono tutte le altre province toscane con valori di incidenza nettamente più
bassi (dall’8,1% di Pisa, al 5,8% di Arezzo fino all’1,9% di Massa Carrara).
Tra le “altre” province toscane, Arezzo si colloca nella fascia medio-alta: nel 2014
le rimesse hanno raggiunto i 34,3 milioni di euro: un dato che, a seguito della
flessione registrata, riporta indietro ai valori delle rimesse del 2008, in linea con
il dato del 2010, e in crescita rispetto ai dati registrati negli ultimi anni.
Tabella 15 - Toscana. Cinque anni (2009-2014) di rimesse dei cittadini stranieri (in migliaia di euro)
Province
Arezzo
Firenze
Grosseto
Livorno
Lucca
Massa C.
Pisa
Pistoia
Prato
Siena
Toscana
2009
2010
2012
2013
2014
Inc. %
2014
Var. %
2013/14
31.110
207.345
16.941
29.643
29.591
14.294
38.660
21.723
191.699
20.635
601.641
34.493
233.604
17.604
30.881
30.645
10.991
42.338
23.630
249.102
21.471
694.759
29.411
197.194
16.289
30.042
28.605
10.124
38.341
21.492
208.458
19.284
599.240
32.534
190.802
17.912
32.067
29.496
10.441
45.033
20.954
202.523
21.972
603.734
34.326
207.488
17.855
31.691
30.253
10.944
47.554
22.316
162.134
22.585
587.146
5,8
35,3
3,0
5,4
5,2
1,9
8,1
3,8
27,6
3,8
100,0
5,6
8,7
-0,3
-1,2
2,6
4,8
5,6
6,5
-20,0
2,8
-2,7
Quali sono i principali corridoi paese delle rimesse? Ovvero, quali sono le aree e i
paesi che beneficiano maggiormente delle rimesse dei migranti residenti nella
nostra provincia? Evidentemente la risposta a questa domanda è collegata a diversi
180
fattori, tra cui la maggiore o minore presenza di una nazionalità, il progetto
migratorio, il lavoro svolto… L’attitudine all’invio di denaro nel Paese d’origine
è poi condizionato da alcuni fattori, non ultimo il legame con i familiari rimasti in
patria, che sono i principali destinatari delle rimesse.
Le Tabelle seguenti offrono diverse indicazioni al riguardo. I migranti residenti in
provincia di Arezzo che inviano denaro con più frequenza e regolarità il denaro
nel paese di origine provengono dall’Est Europa, segnatamente dai Paesi entrati
nel 2007 nell’UE (30,9%), e dall’Asia (40,0%), tra cui quelli provenienti
dall’Asia centro-meridionale (28,9%). Seguono, ben distanziati, l’America
meridionale (10,8%) e l’Africa (8,7%).
Tabella 16 - Provincia di Arezzo. Rimesse dei cittadini stranieri nel corso del 2014, suddivise per macroaree
geografiche (in migliaia di euro)
Paesi
UE 15
UE nuovi 12
Europa centro-orientale
Europa altri
EUROPA
Africa settentrionale
Africa orientale
Africa centro-occidentale
Africa centro-meridionale
AFRICA
Asia occidentale
Asia centro-meridionale
Asia orientale
ASIA
America settentrionale
America centro-meridionale
AMERICA
OCEANIA
Non attribuite
Totale
Arezzo
830
10.619
2.249
22
13.720
1.604
161
1.094
134
2.993
130
9.904
3.709
13.743
142
3.719
3.861
7
2
34.326
Totale
Toscana
10.297
84.324
35.105
326
130.052
27.934
1.708
39.394
1.964
71.000
17.821
58.426
253.701
329.948
1.921
53.942
55.863
136
147
587.146
Arezzo su
Toscana
8,1
12,6
6,4
6,7
10,5
5,7
9,4
2,8
6,8
4,2
0,7
17,0
1,5
4,2
7,4
6,9
6,9
5,1
1,4
5,8
Su totale
Arezzo
2,4
30,9
6,6
0,1
40,0
4,7
0,5
3,2
0,4
8,7
0,4
28,9
10,8
40,0
0,4
10,8
11,2
100,0
Rispetto alle nazionalità, rumeni e bengalesi si confermano come le comunità con
l’ammontare più alto di rimesse, rispettivamente con circa 9,6 e 5,0 milioni di
euro, pari al 28,1% e al 14,4% di tutte le rimesse inviate dalla provincia di
Arezzo. In realtà, più dei romeni, prima comunità per presenza in provincia,
spicca il secondo dato, considerando che la comunità del Bangladesh, concentrata
in particolare nella città di Arezzo, è soltanto la quarta nazionalità per presenza
assoluta (dopo Romania, Albania e Marocco) e ha conosciuto, nell’ultimo biennio
(2013-14), un decremento del 18% (vedi, infra, cap. 1, Parte Prima). È pur vero
che per romeni e albanesi, vista la vicinanza geografica del Paese di origine e i
181
frequenti ritorni, sono attivi altri canali informali di trasferimento di denaro non
computati nel dato ufficiale della Banca d’Italia.
Il dato delle rimesse verso il Bangladesh – passato da 3,5 milioni di euro nel 2013
a quasi 5,0 milioni nel 2014 – spicca anche a livello regionale: un quarto dei flussi
di rimessa toscani verso questo paese partono da Arezzo (il 22,9%), anche se
nettamente in calo rispetto allo scorso anno (quando pesavo per circa il 29,0%).
Stesso discorso per le rimesse verso l’India (il 26,7% a livello regionale), mentre
si attestano ad un sesto (oltre il 17%) rispetto al dato regionale le rimesse in
partenza da Arezzo verso la Repubblica Dominicana e il Pakistan e un settimo per
quelle verso la Romania (14,4%). Una fetta importante della ricchezza prodotta
dagli immigrati residenti in provincia di Arezzo, dunque, viene destinata a
sostenere i familiari e gli investimenti nel paese di origine.
Tabella 17 - Provincia di Arezzo. Rimesse dei cittadini stranieri nel 2014 (dati in migliaia di euro)
Paesi
Romania
Bangladesh
India
Pakistan
Cina
Filippine
Dominicana Rep.
Albania
Marocco
Brasile
Sri Lanka
Tunisia
Senegal
Colombia
Totale
Arezzo
9.634
4.951
2.217
2.019
1.944
1.655
1.647
1.087
1.010
1.001
595
538
401
388
34.326
Toscana
74.740
21.639
8.300
11.811
224.171
27.848
9.391
15.879
21.905
11.057
15.669
4.742
29.695
3.743
587.146
% rimesse Arezzo
su Toscana
12,9
22,9
26,7
17,1
0,9
5,9
17,5
6,8
4,6
9,1
3,8
11,3
1,4
10,4
5,8
% rimesse su
totale Arezzo
28,1
14,4
6,5
5,9
5,7
4,8
4,8
3,2
2,9
2,9
1,7
1,6
1,2
1,1
100,0
Riferimenti bibliografici
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183
184
Quarta parte
Il contributo della ricerca qualitativa
negli studi dell’Osservatorio
185
186
Capitolo 1
La ricerca qualitativa per studiare i fenomeni migratori nella città
di Erika Cellini
1. L’approccio quantitativo e quello qualitativo
Nelle scienze sociali vengono generalmente distinti due approcci alla ricerca:
quello quantitativo e quello qualitativo (si vedano a titolo di esempio due dei
manuali di metodologia delle scienze sociali più usati in Italia: Corbetta, 1999;
Amaturo, 2012). Nonostante le critiche di inadeguatezza mosse a questa
distinzione e all’uso dei due termini (vedi ad esempio Bryman, 1984 e 1988;
Cardano, 1991; Cipolla e De Lillo 1996; Marradi, 2007; Nigris, 2003), è
possibile comunque provare a tracciare delle differenze fra i due approcci che
portano effettivamente a guardare e quindi a conoscere il mondo sociale e la sua
complessità da angolature diverse.
In primo luogo la letteratura situa i due approcci in due diversi paradigmi delle
scienze sociali: la ricerca quantitativa si orienta nell’eredità del paradigma
positivista, quello che ha visto la nascita della sociologia come scienza e come
disciplina empirica e che ha come riferimento l’approccio di Èmile Durkheim dei
fatti sociali e della spiegazione; la ricerca qualitativa invece si situa nel paradigma
cosiddetto interpretativista che si rifà al pensiero di Max Weber e alla sua
sociologia comprendente che punta l’attenzione sulla comprensione dell’azione
sociale dotata di senso. Siamo da un lato nell’ambito della sociologia macro che
guarda ai fenomeni sociali dal punto di vista della struttura e del sistema e
dall’altro nell’ambito della sociologia micro che guarda ai fenomeni sociali dal
punto di vista dell’individuo.
Molte delle differenze che in letteratura vengono riscontrate sono però
soprattutto di tipo metodologico, riguardano cioè l’operato concreto delle ricerca
e il tipo di informazione che permettono di rilevare o costruire.
Corbetta (1999/2014, pp. 50-68) propone di confrontare i due approcci a partire
dalle quattro fasi in cui distingue il processo della ricerca: l’impostazione, la
rilevazione delle informazioni, l’analisi delle informazioni e i risultati.
Riguardo all’impostazione della ricerca, l’approccio quantitativo prevede una
forte strutturazione delle varie fasi che vanno dalla formulazione del problema di
ricerca e degli obiettivi cognitivi, al disegno della ricerca, la costruzione della
base empirica, l’organizzazione delle informazioni, l’analisi delle informazioni
fino all’esposizione dei risultati. Le fasi vengono seguite secondo questo ordine,
187
senza la possibilità di sovrapposizione. Secondo l’approccio qualitativo invece
queste non sono nemmeno propriamente delle fasi, ma delle famiglie di attività,
non sono cioè ordinate rigidamente e spesso sono sovrapposte. Per fare un
esempio, la fase della rilevazione dei dati in una ricerca con survey deve essere
terminata prima di dare il via all’analisi dei dati e il questionario non può essere
modificato in corso d’opera; in una ricerca con interviste in profondità invece
l’analisi delle informazioni inizia durante la fase della raccolta delle interviste e la
traccia può essere modificata anche intervista per intervista in base alla prima
lettura di quelle fatte.
Rispetto al rapporto teoria e ricerca, nelle ricerche di tipo quantitativo la teoria
precede e guida il disegno della ricerca e la rilevazione empirica, mentre in quelle
di tipo qualitativo la relazione è più aperta, interattiva: la teoria segue e nasce
dalla rilevazione empirica; d’altra parte si è coscienti che la teoria ha un ruolo
attivo nella costruzione dell’oggetto o del fenomeno che stiamo studiando.
Queste diverse impostazioni portano anche a un diverso uso dei concetti,
elementi costituivi della teoria. Nella ricerca quantitativa i concetti di proprietà
vengono definiti operativamente dal gruppo di ricerca prima di iniziare la
rilevazione, vengono cioè ingabbiati in definizioni non modificabili sul campo, si
trasformano in variabili e prescrivono cosa rilevare. Questo non avviene mai nella
ricerca qualitativa, nella quale i concetti di proprietà restano a livello di concetti
sensibilizzanti – per dirla con Herbert Blumer (1969, pp. 149-150) – che non
prescrivono cosa vedere, ma suggeriscono la direzione nella quale guardare,
prendendo significato dall’interazione fra il significato teorico e quello degli attori
sociali che si stanno studiando.
Anche gli obiettivi hanno impostazioni diverse. Quando facciamo ricerca
quantitativa miriamo a controllare la teoria di partenza e ci interroghiamo sul
perché, quindi puntiamo a individuare relazioni fra variabili; quando facciamo
ricerca qualitativa ci interroghiamo sul come e siamo orientati a interpretare e
comprendere il punto di vista dell’attore sociale. Nel primo caso ci interessiamo a
un numero esteso di casi, che consentono, in maniera maggiore o minore, di
generalizzare i risultati alla popolazione della quale quei casi fanno parte, mentre
nel secondo caso, indagando in maniera intensiva un numero limitato di casi,
abbiamo come obiettivo approfondire e comprendere situazioni uniche, non
generalizzabili (Pastore e Ponzo, 2012, pp. 28-29); si possono avere anche
obiettivi di tipo generalizzante, si tratta però di una generalizzazione non
estensiva o statistica, ma teorica o decontestualizzante. In un caso l’obiettivo è
produrre asserti, affermazioni su relazioni fra variabili e generalizzarle, nel
secondo l’obiettivo è la costruzione di strumenti concettuali come classificazioni e
tipologie da applicare anche in altri contesti oltre quello della ricerca, che
188
costituiscono cioè dei modi di condurre i risultati fuori dal contesto in cui il
fenomeno sociale è stato studiato (Prus, 1996, p. 141).
Rispetto al rapporto fra ricercatore e soggetti studiati, nell’approccio quantitativo
il ricercatore assume un punto di osservazione esterno al soggetto studiato, in una
prospettiva di distanza e separazione, e studia ciò che a lui o alla comunità
scientifica sembra rilevante; nell’approccio qualitativo invece cerca di avvicinarsi
il più possibile all’attore sociale per cogliere il suo modo di guardare al mondo, in
una prospettiva di immersione e non di distacco. Nel caso della ricerca
quantitativa, in alcuni casi non c’è proprio l’incontro con i soggetti studiati, si
pensi al caso di un sondaggio con questionario postale o via web o al caso
dell’analisi di dati statistici. L’incontro invece è sempre presente, e parte
fondamentale della rilevazione, nella ricerca di tipo qualitativo. All’incontro si
affianca un’interazione profonda che implica un ruolo attivo del soggetto studiato
nel processo di ricerca. Centrale in questo modo di fare ricerca è quindi
l’esperienza che il ricercatore fa del fenomeno che intende studiare. Tutto ciò è
considerato una condizione necessaria per la comprensione.
Riguardo alla fase della rilevazione delle informazioni, le principali differenze fra i
due approcci hanno a che fare con il livello di strutturazione del disegno della
ricerca, con le caratteristiche dei sistemi e delle tecniche e strumenti di
rilevazione e con la natura delle informazioni prodotte.
Nell’approccio quantitativo il disegno della ricerca è deciso e costruito prima di
iniziare la rilevazione, è molto strutturato e non viene mai cambiato nel corso
della ricerca; nell’approccio qualitativo può essere modificato via via che la
ricerca procede, in base alle decisioni che siamo chiamati a prendere, anche se
non preventivate, ed è assolutamente aperto all’imprevisto, all’inatteso.
Nella ricerca quantitativa si usano in particolare l’esperimento e la survey
(inchiesta campionaria o sondaggio), con questionario con domande a risposta
chiusa, quando l’unità di analisi è a livello individuale, la rilevazione e l’analisi di
dati statistici forniti da fonti ufficiali quando l’unità di analisi è un aggregato
territoriale, come ad esempio lo Stato, la regione, il comune, etc. Questi
strumenti sono fortemente standardizzati e sono usati in maniera assolutamente
uniforme per tutti i casi della ricerca, ad esempio il questionario è sempre lo
stesso per tutti i casi del campione. Nella ricerca qualitativa le tecniche e gli
strumenti più usati sono l’intervista in profondità e semi-strutturata, la storia di
vita, l’osservazione con vari gradi di partecipazione, varie tecniche di gruppo
come i focus group, i documenti e i materiali audiovisuali, che possono essere
usati singolarmente o dentro particolari strategie di ricerca, come ad esempio lo
studio di caso, la ricerca etnografica e l’approccio biografico. Questi hanno gradi
più bassi di standardizzazione e la loro formulazione può cambiare nel corso della
rilevazione; pensiamo all’osservazione e a come può essere usata nel corso di una
189
ricerca: con alcuni soggetti possiamo decidere di usare un’osservazione coperta e
con altri un’osservazione scoperta, in alcuni momenti della ricerca o anche della
stessa giornata possiamo osservare da lontano le azioni dei soggetti che stiamo
studiando, in altri momenti partecipare alle loro attività. Nella stessa ricerca
possono esserci anche più unità di analisi oppure può non esserci una vera e
propria unità di analisi, pensiamo agli studi di gruppi sociali o di quartieri.
Ciò dipende, oppure è il frutto, del tipo di informazione che rileviamo. Nel caso
delle ricerche di orientamento quantitativo le informazioni sono rilevate su un
unico tipo di unità di analisi e sono trasformate in dati mediante la definizione
operative, cioè sono confrontabili con tutte le altre informazioni rilevate e hanno
lo stesso formato, sono infatti inserite in una matrice casi per variabili (o dei dati).
Nel caso delle ricerche di orientamento qualitativo, invece, la natura delle
informazioni è varia e anche nell’ambito della stessa ricerca queste possono non
avere lo stesso formato per tutti i soggetti studiati: testi di interviste in
profondità, risposte a domande aperte, note etnografiche prese durante le
osservazioni, etc.
Riguardo alla fase dell’analisi delle informazioni, le principali differenze si
riscontrano nell’idea dell’oggetto della ricerca e nell’obiettivo dell’analisi.
Sinteticamente, possiamo dire che per l’approccio quantitativo l’oggetto
dell’analisi sono le variabili (si parla di analisi orientata alle variabili). Le
informazioni vengono raccolte caso per caso e inserite nella matrice dei dati; ogni
caso (individuo o aggregato territoriale) viene analizzato in base ai suoi stati su
singole proprietà/variabili: “la sua unitarietà di individuo [o di aggregato
territoriale] viene frammentata in tanti elementi quante sono le variabili che lo
descrivono. A partire da questo momento il soggetto non verrà più ricomposto
dal ricercatore nella sua interezza di persona” (Corbetta, 2014, p. 59). Lo scopo
dell’analisi dei dati è stabilire se vi sono delle relazioni tra variabili dipendenti e
indipendenti (previste o non previste da un’ipotesi), trovare alcune variabili
indipendenti la cui variabilità provoca almeno in parte la variabilità di quelle
dipendenti.
Per l’approccio qualitativo invece l’oggetto dell’analisi è il soggetto (individuo o
soggetto sociale) nella sua interezza (si parla di analisi orientata al soggetto),
secondo una prospettiva olistica nell’analisi del comportamento umano e secondo
l’idea dell’irriducibilità del soggetto a una serie di stati su proprietà distinte e
separabili. Si mira infatti alla comprensione del comportamento umano,
interpretandone il punto di vista dell’attore sociale.
Infine, nella ricerca quantitativa si usano le tecniche statistiche per analizzare i
dati, nella ricerca qualitativa no, l’analisi è di tipo interpretativo ed ermeneutico.
Tutte queste differenze fra i due approcci portano anche a una profonda diversità
nel tipo di risultati che possono essere raggiunti. In generale è più probabile che
190
le tecniche di rilevazione delle informazioni che producono dati forniscano
descrizioni di tipo etic del mondo dei soggetti studiati; mentre è più probabile che
le tecniche di rilevazione che producono testi forniscano descrizioni di tipo emic
del mondo dei soggetti studiati. Per “costrutti etic” si intendono infatti
affermazioni, descrizioni e analisi espresse nei termini delle categorie analitiche e
sugli schemi concettuali di riferimento propri dei ricercatori e della comunità
scientifica. I “costrutti emic” sono invece affermazioni, descrizioni ed analisi che si
fondano sulle categorie analitiche e discorsive e sugli schemi concettuali di
riferimento degli attori studiati (Nigris, 2003).
Infine, differenze appariscenti si riscontrano nelle forme classiche di
presentazione dei risultati delle due tradizioni di ricerca, che nella ricerca di tipo
quantitativo si esplicitano in tabelle e grafici e nella ricerca di tipo qualitativo in
narrazioni, per esempio con brani di interviste in profondità o stralci di note
etnografiche. Con le citazioni di brani di intervista ciò che viene trascritto è pur
sempre frutto di scelte del ricercatore e quindi di una sua interpretazione
generale (è sua la scelta di chi citare fra i soggetti studiati, suo l’accento su un
brano piuttosto che su un altro, suo il filo logico che lega le varie citazioni
riportate), ma il brano citato è la risposta del soggetto studiato nella forma scelta
ed espressa da egli stesso.
Le posizioni che troviamo lungo la storia della sociologia come disciplina empirica
in merito a quale dei due approcci sia migliore dal punto di vista scientifico sono
svariate. A lungo è prevalsa l’idea che i due approcci fossero incompatibili perché
caratterizzati da impostazioni filosofiche di fondo assolutamente divergenti. In
particolare, intorno alla metà del secolo scorso, soprattutto fra i fedeli
dell’approccio quantitativo, l’approccio qualitativo veniva accusato di non essere
scientifico, ma più vicino allo stile della letteratura o di certe forme di
giornalismo, a causa in special modo del ruolo del ricercatore e della sua
soggettività nel rilevare e nell’interpretare le informazioni (Corbetta, 2014, pp.
68-69).
Oggi però prevale una posizione diversa che sostiene la piena legittimità di
entrambi gli approcci. Alcuni autori ribadiscono la diversità fra i due approcci che
implicano modi diversi di guardare al mondo e ai fenomeni sociali (Corbetta,
2014), altri invece minimizzano le differenze che sono puramente di tipo tecnico
(Bryman, 1988). Cardano (1991, p. 182) addirittura scrive che qualità e quantità
hanno confini incerti, nel senso che elementi che vengono considerati
caratteristici di un approccio si ritrovano spesso anche nell’altro. Entrambe le
posizioni vanno nella direzione di rifiutare l’ortodossia metodologica a favore
della scelta in base all’obiettivo di ricerca, in base a come vogliamo guardare al
fenomeno sociale.
191
Spesso nella pratica della ricerca i due approcci o alcune tecniche dell’uno o
dell’altro vengono usati insieme, al fine di avere una visione più complessa
dell’oggetto di studio, nella consapevolezza che non esiste un’unica prospettiva
né teorica né empirica, che non si può arrivare a conoscere in maniera completa,
né tantomeno vera, un qualunque fenomeno sociale, ma che l’oggetto di studio è
costruito dal modo in cui viene studiato. A volte troviamo ricerche che sposano
per lo più un approccio e usano alcune tecniche di rilevazione o di analisi delle
informazioni proprie dell’altro approccio solo in maniera ancillare, per esempio
vengono fatte interviste in profondità per avere materiale utile alla costruzione
del questionario, oppure si analizzano dati statistici di contesto durante una
ricerca etnografica. Altre volte invece i due approcci sono usati insieme in
maniera complementare e paritaria, nel tentativo di valorizzare le potenzialità di
entrambi e superarne al contempo i limiti.
Soprattutto per fenomeni sociali complessi, multidimensionali, possiamo
affermare che non esiste un approccio migliore degli altri, ma domande di ricerca
che implicano strumenti metodologici diversi oppure il loro uso congiunto
(Castagnone, Ferro e Mezzetti, 2008, p. 3). Mettere insieme elementi dei due
approcci serve per avere più punti di vista sui fenomeni sociali, per leggere,
interpretare, comprendere, spiegare i fenomeni sociali nella loro complessità.
Dati statistici e dati di survey ci restituiscono una visione più macro, le
informazioni rilevate con tecniche non standardizzate invece una visione più
micro, che guarda all’azione sociale e ai suoi significati, all’interazione, alla
relazione, al senso, al significato. I dati permettono di legare un fenomeno di un
territorio a delle dinamiche più ampie, nazionali e internazionali, l’esperienza sul
campo consente di comprendere le specificità di quel contesto.
La migrazione o le migrazioni sono certamente un fenomeno ricco di
sfaccettature, di aspetti diversi, ciascuno dei quali con le proprie specificità, sono
un cosiddetto “fatto sociale totale”, riprendendo l’espressione di Sayad (1999),
“che coinvolge e modifica relazioni sociali, strutture economiche, dinamiche
politiche oltre ad avere importanti dimensioni simboliche, identitarie, religiose e
linguistiche. Per quanto nella pratica della ricerca ogni studioso privilegerà solo
alcune di queste dimensioni, la multidimensionalità sociale e culturale della
mobilità contemporanea non può essere sottovalutata” (Capello, Cingolani e
Vietti, 2014, p. 14). Per questo, ciascuna domanda di ricerca che si rivolga a un
aspetto oppure ad un altro, che voglia guardare al fenomeno migratorio in
maniera più macro oppure in maniera più micro, avrà un suo percorso
metodologico che privilegerà l’approccio quantitativo oppure quello qualitativo. I
percorsi di ricerca però possono e devono incrociarsi e trarre vantaggi reciproci
se vogliamo avere un’immagine più articolata delle migrazioni.
192
2. La ricerca qualitativa per lo studio delle migrazioni in un
osservatorio
In Italia, negli ultimi decenni, lo studio in ambito sociologico dell’immigrazione
straniera e dei temi ad essa collegati, come il multiculturalismo o la diversità
culturale, si è avvalso principalmente dell’approccio di ricerca qualitativo
(Boccagni e Riccio, 2014, p. 33). Il motivo principale può essere ricondotto alla
necessità di conoscere un fenomeno nascente, e poi velocemente in crescita,
disperso sul territorio. Ciò ha portato a focalizzazioni su gruppi nazionali inseriti
in contesti territoriali, sociali ed economici particolari. Ma possiamo rintracciare
anche un’altra ragione, legata all’approccio teorico spesso prevalente con cui si è
guardato, non solo in Italia, alle migrazioni in ambito sociologico e anche
antropologico, un approccio che ha messo spesso al centro dell’attenzione la
“cultura”: la diffusa presupposizione di una radicale differenza fra la cultura del
luogo di origine degli immigrati, considerata spesso come fondata sulla comunità
e i legami familiari, e quella del luogo di arrivo, urbana e moderna, ha diretto
l’interesse degli studiosi verso i problemi derivanti dall’incontro/scontro fra
persone, immigrati e nativi, diversi dal punto di vista dell’identità nazionale, di
genere, religiosa, etc. nonché verso le difficoltà e sofferenze dei migranti
derivanti dal fatto di trovarsi “fra due culture” (Eve, 2001, pp. 234-235). Questo
ha appunto fatto optare per uno studio in profondità, di caso, di comunità.
Boccagni e Riccio (2014) hanno analizzato i numeri della rivista “Mondi Migranti”
dal 2002 al 2014 e i sette volumi della collana “Stranieri in Italia” dell’Istituto
Cattaneo, riscontrando che circa l’80% dei contributi di ricerca presenti si basano
appunto sull’approccio qualitativo. Anche gli esempi di libri che riportano i
risultati di ricerche qualitative sul fenomeno migratorio sono tanti. Eccone alcuni,
chiaramente non esaustivi della larga produzione: sugli studi di comunità di
immigrati come entità distinte (Colombo, 1998) e con lo sguardo sulle
migrazioni di donne (Decimo, 2005; Lagomarsino, 2006; Vianello, 2009), sugli
studi di immigrati inseriti nel mondo del lavoro (Perrotta, 2011), sugli studi sulle
seconde generazioni (Acocella e Pepicelli, 2015).
Nello studio delle migrazioni in Italia non è mancato però neanche l’approccio di
ricerca quantitativa che è stato usato nella sua versione di survey, quindi a livello
individuale, soprattutto per studiare le seconde generazioni o gli alunni stranieri
(Casacchia, Natale e Guarnieri, 2009), gli atteggiamenti degli italiani nei
confronti degli stranieri (Cipollini 2002, Colombo 2007) o, anche se più
raramente, le immagini che gli stranieri hanno degli italiani (Pitrone, Martire e
Fazzi, 2012), nonché nella versione di analisi ecologica su dati prodotti da fonti
ufficiali, quindi a livello di aggregati territoriali (Conti e Strozza, 2006).
193
L’approccio quantitativo è stato spesso applicato anche per spostare sul piano
empirico la riflessione teorica, talvolta persino prescrittiva, sul tanto usato, ma
sempre ambiguo, concetto di integrazione (1) e quindi per provare a rilevare il
grado di integrazione degli stranieri o, secondo gli approcci più recenti, il
processo di integrazione fra stranieri e autoctoni. Sono stati compiuti, infatti, sia
da istituzioni sia da singoli studiosi vari tentativi di ridurre la complessità del
concetto di integrazione mediante sistemi di indicatori da definire operativamente
a livello individuale e di aggregati territoriali (Natale e Strozza, 1997; Zincone,
2000; Cellini e Fideli, 2002; Cellini, 2002; Golini, 2006; Berti e Valzania, 2010),
nonostante i problemi di affidabilità delle fonti ufficiali dei dati.
Per un osservatorio, che ha come obiettivi monitorare il fenomeno migratorio su
un territorio, per capirlo insieme ai mutamenti della società locale, e fornire
strumenti di analisi ai policy makers del territorio per l’orientamento degli
interventi politici e sociali, è importante riprendere la prospettiva, citata nel
primo paragrafo, relativa alla necessità di studiare un fenomeno complesso come
quello migratorio non da un punto di vista di fedeltà a un approccio di ricerca o
teorico, ma mediante la ricchezza e la varietà degli strumenti metodologici.
In questo paragrafo ci concentriamo sul contributo che la ricerca qualitativa può
dare allo studio delle migrazioni su un territorio, sia come appoggio alla ricerca di
tipo più quantitativo per arricchire le informazioni rilevate, sia come approccio
autonomo con i propri particolari obiettivi cognitivi.
Una rilevazione di tipo qualitativo può inserirsi con un ruolo ancillare sia in una
ricerca a livello individuale con survey, sia in una rilevazione di dati statistici.
Riguardo a una survey rivolta a cittadini stranieri su un qualsiasi argomento,
impostare il questionario a partire da un’indagine esplorativa con interviste in
profondità a soggetti simili ai casi dell’unità di analisi della survey può servire per
costruire le domande e le alternative di risposta in una prospettiva più emic, cioè
con le categorie concettuali non solo proprie della comunità scientifica, ma più
vicine all’esperienza dei soggetti studiati. Questo può venire incontro alle critiche
mosse a questo tipo di ricerca, troppo legata alla teoria e alle categorie di
partenza, e permettere agli intervistati di non sentirsi estranei agli argomenti della
rilevazione ed esprimere le loro posizioni in maniera più fedele.
Nella fase dell’analisi dei dati fatta con tecniche statistiche, la narrazione prodotta
dagli stralci di intervista in profondità può aiutare ad esemplificare i risultati, a far
capire meglio cosa c’è dietro il dato numerico.
Riguardo a una rilevazione che si basa su dati statistici su aggregati territoriali a
vario livello (da quello sotto-comunale a quello statale), che sono fondamentali
per un osservatorio per monitorare la presenza di cittadini stranieri sul territorio
di riferimento nel tempo e insieme alle dinamiche migratorie nazionali e
194
internazionali, l’uso congiunto di tecniche di rilevazione qualitativa può aiutare a
superare alcuni limiti che riguardano vari aspetti.
In primo luogo, i dati statistici non sono neutri perché questi costruiscono una
realtà che è quella della definizione operativa, cioè del modo in cui questi dati
vengono rilevati, dei ricercatori, che vanno a cercare i temi che a loro sembrano
rilevanti in base alla teoria di riferimento, e delle istituzioni, che decidono quali
informazioni su quali argomenti mettere a disposizione: “La storia della statistica
ci insegna che le tecniche usate, da una parte incorporano nozioni dello stato e
della società, e dall’altra incidono su di esse trasmettendo una determinata idea
della popolazione nazionale, privilegiandone alcuni aspetti e lasciandone altri
nell’ombra” (Eve, 2001, pp. 239-240).
La ricerca qualitativa può aiutare in questo senso a conoscere i soggetti che
abbiamo contato con i dati, a cogliere il loro punto di vista, ad entrare dentro il
fenomeno sociale e far emergere elementi per ampliare e cambiare la teoria che
già abbiamo, ma soprattutto a far comparire aspetti che non vengono rilevati da
alcun ente o amministrazione pubblica, o che sfuggono alla macro visione dei
dati, o che comunque non sono noti (2).
Se analizzando la distribuzione sul territorio dei cittadini stranieri
complessivamente e per nazionalità possiamo vedere la concentrazione in alcune
aree o la dispersione sull’intero territorio, la stabilità o la provvisorietà della
permanenza, immergendoci sul campo, osservando, intervistando o riprendendo
con strumenti visuali possiamo conoscere il progetto migratorio delle singole
persone, capire perché certi immigrati si stabiliscono su un territorio invece che
su un altro, perché insieme ad altri della stessa nazionalità oppure
indipendentemente, come interagiscono con i luoghi e con le persone.
Ma l’approccio qualitativo può essere utile per un osservatorio anche applicato
autonomamente, perché permette di studiare in profondità il contesto locale –
territoriale e amministrativo – dove l’osservatorio opera, così rilevante nel
determinare i percorsi di inserimento sociale, lavorativo e scolastico, le
interazioni sociali e culturali e tutte le altre dimensioni che si possono condensare
nel concetto sintetico di integrazione (Pastore e Ponzo, 2102, p. 22); può fornire
quindi gli strumenti per lo studio del fenomeno migratorio in relazione alle
dinamiche di interazione con il contesto territoriale, la città e il quartiere, delle
collettività di stranieri, delle singole persone nelle varie fasi del loro percorso
migratorio, delle forme più o meno emergenti di multiculturalismo quotidiano
sul territorio, ma anche delle istituzioni deputate a gestire i fenomeni migratori.
La città e i suoi quartieri con le loro specificità sono stati a lungo la forma di
organizzazione sociale, spaziale, politica ed economica decisiva per comprendere
le dinamiche migratorie in tutti i continenti, ma soprattutto in America, e in
particolare negli Stati Uniti, e in Europa. La stretta connessione tra migrazione e
195
città, tra migrazioni e urbanizzazione, ha reso e rende ancora oggi evidente la
necessità di intrecciare gli studi sui processi migratori a quelli sulle trasformazioni
urbane. Non possiamo a tal proposito scordare gli studi pionieristici della Scuola
di Chicago e di Robert E. Park sugli immigrati in una delle più grandi e
urbanizzate città degli Stati Uniti: “Che la città e l’immigrazione siano fenomeni
strettamente intrecciati da indagare insieme è il grande insegnamento della prima
Scuola di Chicago” (Capello, Cingolani e Vietti, 2014, pp. 18-19).
Se possiamo considerare superata la prospettiva assimilazionista di questi autori
con cui guardavano alle migrazioni internazionali, dobbiamo invece ancora tenere
presente il loro insegnamento metodologico che volgeva all’indagine empirica sul
campo, alla rilevazione di prima mano, che spingeva i ricercatori all’esperienza, al
contatto con le persone da studiare, all’osservazione e all’intervista, con un
approccio focalizzato sulla vita quotidiana delle persone e sulla comprensione del
loro punto di vista.
Vediamo quindi quali sono le caratteristiche delle tecniche e degli strumenti di
rilevazione più usati nella ricerca di tipo qualitativo, nonché quelle di una delle
strategie di ricerca che meglio si adattano allo studio sul territorio delle
migrazioni, la ricerca etnografica.
L’intervista può essere definita come un’interazione tra chi conduce l’intervista e
chi la riceve, richiesta e provocata dall’intervistatore (si sviluppa quindi in una
situazione relazionale), avente finalità di tipo conoscitivo, condotta sulla base di
uno schema di rilevazione (Fideli e Marradi, 1996; Bichi, 2007).
Secondo la tipologia proposta da Bichi (2007), nella ricerca sociale esistono varie
forme di intervista in base al grado di standardizzazione e di direttività della
conduzione. Nella ricerca qualitativa si usano forme di intervista come quelle
semi-strutturate, composte da una serie di domande a risposta aperta, e come
quelle in profondità (3) che sono caratterizzate dalla bassa standardizzazione e
dalla bassa direttività, hanno cioè una traccia composta da temi e concetti da
sottoporre, ma che può cambiare anche da intervistato a intervistato in base sia
alle specificità della storia dell’intervistato sia alle novità emerse dalle interviste
svolte precedentemente. Alle domande sono preferite delle forme di probing, cioè
“commenti, sollecitazioni non previste nella traccia di intervista che
l’intervistatore utilizza a sua discrezione al fine di approfondire, di specificare, di
sviscerare le risposte dell’intervistato” (Tusini, 2006, p. 61).
La bassa direttività rimanda agli alti gradi di libertà dell’intervistato e
dell’intervistatore. Il primo può liberamente esprimersi, raccontare, narrare,
scegliere cosa dire: “Chi riceve le domande viene scelto per il ‘sapere’ di cui è
portatore circa l’oggetto di studio. All’intervistato si riconosce il potere di dire e
di produrre conoscenza; il suo protagonismo, circoscritto nello spazio-tempo
dell’interazione, costituisce una fonte di gratificazione emotiva che favorisce un
196
lavoro ‘autenticamente teorico’ sul proprio sé” (Lumino e Vatrella, 2012, p.
290). L’intervistatore non è ingabbiato nelle domande chiuse del questionario,
può decidere quando interloquire con l’intervistato al fine di far approfondire un
aspetto oppure un altro. Ciò porta anche a stabilire una parità relazionale fra chi
intervista e chi riceve l’intervista, dentro un frame di ruoli diversi, che sta alla base
della filosofia di questo modo di fare interviste.
Nella grande famiglia delle interviste in profondità troviamo le storie di vita e i
racconti di vita (Bertaux, 1998), strumenti tipici del cosiddetto approccio
biografico, che mirano a ricostruire le traiettorie biografiche dei soggetti. Nelle
storie di vita non c’è un pre-centramento su uno specifico segmento della vita,
come invece nei racconti di vita, ma solo l’invito a parlare di sé, della propria
vita. In genere la consegna iniziale è “vorrei che lei mi raccontasse la sua vita
cominciando da dove vuole”. Le biografie servono quindi anche per immettere
nella ricerca qualitativa la dimensione temporale, al fine di decifrare il fenomeno
che stiamo studiando non solo nel presente, ma anche nel passato della persona,
lungo la sua traiettoria biografica e lungo la traiettoria sociale e storica del
contesto territoriale in cui la persona vive.
Con questo tipo di intervista non si rilevano solo esperienze dirette o fatti di vita.
Si ricorre all’intervista in profondità quando si vuole comprendere il mondo
vitale dell’intervistato, le connessioni di senso dell’agire e dell’intenzionalità
altrui, cogliere il progetto di senso degli intervistati, le loro rappresentazioni, la
percezione che hanno della realtà e delle interazioni sociali – percezione che
influenza anche i loro comportamenti – a partire dal racconto dell’intervistato
stesso, ma mediante l’interpretazione e rielaborazione da parte del ricercatore.
Come scrivono Capello, Cingolani e Vietti (2014, p. 106), “l’esperienza
migratoria è uno degli elementi che permette di dare un orientamento al proprio
percorso biografico” e quindi l’intervista in profondità e la storia di vita in
particolare sono strumenti fondamentali per cogliere i meccanismi attinenti la
condizione di migrante. Tre sono i livelli che dobbiamo considerare: il livello
individuale, che riguarda il racconto di sé che il migrante può fare, fra aspetti di
unicità del suo vissuto e aspetti di somiglianza, che restituiscono il senso di
appartenenza sociale; i livelli collettivo e storico, che fanno riferimento
all’influenza della narrazione familiare, politica, sociale, ai ricordi non solo
dell’esperienza individuale, ma di quella comune, storica.
Senza sottovalutare gli elementi di specificità che esistono nella condizione di
immigrato straniero, la riflessione sociologica deve però anche fare attenzione a
non considerare queste persone solo come migranti, perché quella di migrante è
solo una dimensione, seppur centrale, della loro biografia. La storia di vita
permette di superare questo rischio, inserendo l’esperienza della migrazione nella
biografia dell’individuo.
197
Mediante la raccolta e l’analisi di storie di vita, è possibile mirare a un obiettivo
generalizzante: si può infatti provare a passare da una o più storie individuali a un
tipo più generale di storia di migrante, si possono “evidenziare i pattern narrativi
ricorrenti, che permettono di individuare un ‘senso comune’ dei migranti
rispetto al loro percorso migratorio e far emergere gli immaginari collettivi”
(Capello, Cingolani e Vietti, 2014, p. 108).
Come scrive Acocella (2008), il focus group è una tecnica che ricorre a
procedure di rilevazione delle informazioni tendenzialmente non standardizzate,
basata su una discussione tra un piccolo gruppo di persone, focalizzata su un
argomento o su alcuni suoi aspetti particolari, stabiliti dal gruppo di ricerca. La
discussione si svolge alla presenza di un moderatore che lancia un tema di
discussione, attende che la risposta sia generata dalla discussione di gruppo,
quindi dall’interazione e dalle dinamiche che si instaurano tra i partecipanti, ma in
qualche modo, anche se con un basso grado di direttività, ne gestisce
l’andamento. “Tra i punti di forza della tecnica dei focus group vi è la possibilità
di arrivare alla rappresentazione della realtà sociale […] sfruttando le proprietà
del procedimento intersoggettivo e discorsivo: nel corso della intervistadiscussione di gruppo, ciascun partecipante è sollecitato a rivedere ripetutamente
il suo pensiero in modo da ‘capire e farsi capire’ dagli altri. Il focus group simula
e riproduce il procedimento sociale attraverso cui si formano le nostre idee sulla
società, ci sollecita a prendere coscienza del punto di vista degli altri, consente di
mettere a fuoco meglio i punti di contatto e di differenza” (Fiorucci, 2007, p.
29).
Rispetto allo studio delle migrazioni, il focus group può essere utile per
raccogliere informazioni sul discorso collettivo nei confronti delle migrazioni da
parte di varie categorie sociali, sulle rappresentazioni sociali che si hanno nei
confronti di migranti o di particolari sottogruppi di migranti, ma anche sul
discorso collettivo di chi ha vissuto un’esperienza di migrazione.
L’osservazione è uno strumento di rilevazione con il quale il ricercatore
percepisce tramite i propri sensi, osserva e registra eventi, comportamenti, azioni
e interazioni, nonché il contesto spaziale in cui questi si verificano (Cellini, 2008,
p. 16). L’osservatore rileva senza meccanismi di intermediazione, salvo il suo
schema concettuale o talvolta delle tracce di osservazione più o meno strutturate.
Per registrare può usare gli appunti etnografici oppure materiali fotografici e
video. Ci sono varie forme di strumenti osservativi: l’osservazione diretta ha
come oggetto di analisi comportamenti e fenomeni sociali studiati durante il loro
svolgersi; l’osservazione indiretta, invece, li rileva attraverso le loro tracce e i
loro prodotti materiali. I comportamenti sono cioè ricostruiti dal ricercatore a
partire dai loro effetti osservati.
198
Le tracce sono uno strumento usato negli studi sulle migrazioni ad esempio come
segnali della presenza di stranieri in un contesto locale, dei mutamenti avvenuti
nella città in seguito alla permanenza di grandi numeri di cittadini stranieri: sono
esempi di indicatori di cambiamento la presenza per le strade di cartelli in lingua
straniera, la presenza di negozi con insegne in lingua, la presenza nei supermercati
di prodotti tipici di altri paesi, etc. (Webb et al., 1981, p. 208).
L’osservazione diretta può avere vari gradi di partecipazione, in base al livello di
inserimento del ricercatore nel gruppo o nel contesto sociale e quindi al grado di
partecipazione alle attività e più in generale alla vita di quel contesto; può infine
essere coperta o scoperta in base al fatto se il ricercatore si dichiara come
ricercatore, racconta agli attori sociali che intende studiare le finalità della sua
presenza, oppure mantiene nascosta la sua identità.
L’osservazione con bassi gradi di partecipazione può essere uno strumento utile
per lo studio delle migrazioni nella città, per raccogliere informazioni sul
rapporto cittadini stranieri e spazi cittadini. Con questo strumento si può
guardare allo spazio secondo una concezione relazionale, combinando
l’attenzione al piano fisico strutturale con l’attenzione alle modalità attraverso cui
gli abitanti si appropriano dei luoghi, allo spazio cioè come prodotto dell’azione
sociale, nel quale emergono precise geografie del potere, in una continua
dialettica tra le forze materiali che producono lo spazio e i progetti individuali che
lo trasformano (La Cecla, 1988; Cingolani, 2012, p. 54).
L’osservazione partecipante è lo strumento di rilevazione principale della
cosiddetta ricerca etnografica, cioè di quel sistema di ricerca in cui il ricercatore
si immerge in una comunità, o più semplicemente in un gruppo di individui che
condividono uno stesso spazio fisico, e l’osserva “dal di dentro”, prendendo parte
alla sua vita e cercando di mettere in atto il principio della non separatezza tra chi
studia e chi è studiato. Con le immersioni si intende cioè entrare in stretto
contatto con la vita di un gruppo per comprenderla dal di dentro, secondo il
punto di vista degli attori sociali. Fare etnografia significa cogliere il punto di vista
del “nativo” e la sua visione del mondo. L’interesse è nei confronti delle influenze
sociali e culturali che muovono i soggetti, dei simboli, dei significati, che sono
soggettivi ma anche sociali. Con la ricerca etnografica miriamo cioè, per
riprendere le parole dell’antropologo Clifford Geertz (1973/1987), a fare
descrizioni dense (thick description) che sono nostre interpretazioni di significati
locali, “indigeni”, dei fatti culturali. Queste interpretazioni dense non possono
essere prodotte se non dopo un lungo periodo di esperienza sul campo, di dialogo
e di riflessione teorica, necessario anche all’inserimento dell’osservatore nella
comunità e alla socializzazione alla nuova cultura.
Possiamo arrivare alle categorie e ai significati degli attori sociali mediante la
cosiddetta performance etnografica (Sacchetti, 2012), quel processo di
199
decostruzione (non di eliminazione) delle categorie concettuali e teoriche e del
senso comune del ricercatore.
Gli strumenti di rilevazione che gli etnografi hanno a disposizione, oltre
all’osservazione partecipante, sono tanti: l’analisi dei documenti già esistenti
trovati sul campo; le interviste e i colloqui informali; il materiale fotografico,
audio e video, già presente nel contesto (ad esempio gli album di famiglia),
prodotto dai ricercatori (ad esempio il video etnografico o le foto scattate durante
la ricerca), prodotto dagli attori sociali nel corso della ricerca, immagini usate
come stimoli nelle interviste. Le immagini possono però essere anche un vero e
proprio strumento etnografico che aiuta i ricercatori ad accedere al campo, a
entrare in contatto con le persone che si vogliono studiare, che favorisce la
partecipazione delle persone alla ricerca stessa nonché la restituzione dei risultati
della ricerca. Questi strumenti “permettono oggi di ampliare i linguaggi,
accorciando ulteriormente le distanze tra chi è soggetto e chi è oggetto della
narrazioni, e mettendo in luce, ancora una volta, come l’incontro etnografico si
configuri, innanzitutto, come un dialogo tra attori sociali che condividono
un’esperienza” (Capello, Cingolani e Vietti, 2014, pp. 13-14).
Negli studi migratori la ricerca etnografica è fondamentale perché riporta al
centro il soggetto, il suo mondo di significati e la sua dimensione biografica,
spesso messa in ombra dalle ricerche di approccio più quantitativo. Molte sono le
etnografie, anche italiane, che hanno come oggetto l’esperienza della vita
lavorativa, dell’inserimento a scuola, del viaggio di rientro, etc. considerate dal
punto di vista dei soggetti studiati.
Le immersioni sono legate al presupposto che esista un insieme di individui che
condividono uno stesso spazio fisico e possono essere osservati e interrogati nel
loro ambiente naturale. Questa caratteristica ha portato gli studi etnografici a
dedicarsi, anche se non esclusivamente, ai gruppi nazionali concentrati in alcune
aree urbane, in quartieri, al fine di studiarne l’inserimento lavorativo, sociale, le
relazioni con gli autoctoni.
La ricerca etnografica quindi è una strategia che permette di fare studi che si
inseriscono nella tradizione dei cosiddetti studi di comunità, che sono, secondo
Torri e Vitale (2009, p. 9), uno strumento per trasferire alla società nel suo
insieme i risultati dell’analisi della comunità locale o del quartiere, considerati un
microcosmo che rispecchia in piccolo dinamiche sociali di carattere più ampio.
Ma permette anche di fare studi che mettono l’enfasi sulla dimensione locale e
comunitaria entro cui si articola la vita quotidiana degli abitanti di un dato
contesto, sul processo di costruzione dell’identità che si genera entro specifiche
comunità, intese come spazi di vita e di relazione dei loro abitanti, luoghi specifici
caratterizzati da reti di sostegno e di vicinato che acquistano un forte significato
affettivo. “Quartieri e contesti locali sono osservati per l’utilità che hanno in sé,
200
nel dimostrare o confutare la consistenza e la resistenza di forme ‘comunitarie’ in
una società sempre più caratterizzata da forme di convivenza di tipo ‘associativo’”
(Torri e Vitale, 2009, p. 10).
La ricerca etnografica può però avere un rischio negli studi sui processi migratori:
la riduzione dello studio delle migrazioni a studio di comunità culturali. I motivi
possono essere di due ordini. Il primo di carattere metodologico: studiare i
quartieri a forte presenza di stranieri della stessa nazionalità porta a studiare
persone che si conoscono fra di loro, che sono legate da legami di tipo parentale,
amicale, di origine, etc., cioè, come sostiene Eve (2001, p. 245), la “parte più
‘densa’, più comunitaria della ‘comunità studiata”. Spesso infatti il metodo di
reclutamento è a palla di neve, che prevede che gli intervistati suggeriscano ai
ricercatori altre persone da intervistare. Ciò chiaramente incide sui risultati della
ricerca. Ad esempio emergeranno le persone occupate nei cosiddetti lavori
“tipici”. Il motivo di tipo teorico è legato al rischio di dare eccessivamente
rilevanza alle dinamiche comunitarie. Gli studi fortemente incentrati sulle
comunità non tengono cioè conto, o lo fanno troppo poco, della separatezza della
vita dei migranti che non vivono la comunità, del loro inserimento lavorativo non
nei lavori tipici, le loro relazioni con il resto della società. Si rischia cioè di usare
la variabile etno-nazionale per spiegare comportamenti, di dare un peso eccessivo
al ruolo della cultura nella determinazione dei modelli individuali, e un peso
minore ad altre determinanti come quella economica, di classe sociale, di genere,
etc. – come denunciano vari autori fra i quali Eve (2001), Pastore e Ponzo
(2012), Boccagni e Riccio (2014), Capello, Cingolani e Vietti (2014).
È importante quindi studiare i gruppi nazionali con approccio etnografico, ma
senza volontà essenzialista, senza voler naturalizzare le comunità nazionali, senza
arrivare a un’eccessiva culturalizzazione degli studi sulle migrazioni (Pastore e
Ponzo, 2012).
3. Le ricerche qualitative della Sezione Immigrazione
L’approccio qualitativo è stato seguito dalle ricerche riportate in questa quarta
sezione del libro per indagare alcuni aspetti del fenomeno migratorio nella
provincia di Arezzo. Tutte le ricerche pertanto sono caratterizzate dallo stesso
obiettivo, seppur declinato in maniere parzialmente diverse, cioè, la
comprensione del punto di vista dell’altro, attraverso la vicinanza con gli attori
sociali. Non c’è mai la pretesa né l’obiettivo di quantificare e generalizzare a
contesti diversi da quello studiato. Gli strumenti di rilevazione sono stati
molteplici, inseriti in approcci teorici anche diversi.
201
Nella ricerca riportata nel capitolo due, a cura di Giovanna Tizzi, sulle
complessità del processo di integrazione di alcune donne migranti residenti nel
Comune di Monte San Savino e “in carico” ai servizi sociali lo strumento usato è
l’intervista semi-strutturata. Nella lettura e interpretazione delle dinamiche di
integrazione, l’autrice sottolinea l’importanza della variabile territoriale e la
necessità di non oggettivare quella etnico/culturale.
Il terzo capitolo è dedicato a una ricerca, a cura di Niccolò Sirleto, sul rapporto
tra cittadini stranieri e spazio urbano e sulle interazioni tra cittadini stranieri e
italiani in questo spazio in un particolare quartiere di Arezzo, Saione, ad alta
incidenza di immigrati sul totale dei residenti. L’osservazione non partecipante è
stato lo strumento di rilevazione principale, usato insieme alle fotografie,
nell’ambito delle cosiddette passeggiate etnografiche.
La quarta ricerca, a cura di Giovanna Tizzi e Luca Raffini, è dedicata all’analisi
tramite studi di caso di pratiche esemplificative di accoglienza di richiedenti asilo.
L’approfondimento comprende tre casi studio, che sono stati indagati in
profondità, tramite analisi dei documenti, interviste in profondità e visite nei
centri. I tre casi sono selezionati in quanto rappresentativi di buone pratiche di
accoglienza, ma anche perché diversi tra loro, in merito alla collocazione
territoriale, alla grandezza delle strutture, al tipo di approccio e di
coinvolgimento nell’accoglienza da parte delle tre organizzazioni.
La ricerca del quinto capitolo, realizzata da Alessia Belli, sulla percezione del
vivere ad Arezzo da parte di alcune donne immigrate e alcune figlie di donne
immigrate, segue l’impostazione della metodologia femminista, basata
sull’ascolto come strumento non solo di ricerca, ma anche e soprattutto di
emancipazione. Gli strumenti usati: l’intervista semi-strutturata e un laboratorio
fotografico. Centrale il concetto di intersectionality nell’analisi delle traiettorie
biografiche di queste donne.
Note
(1) Il concetto di integrazione è stato usato con tante accezioni, ma “esiste ormai, nondimeno, un
certo consenso nell’intenderlo, almeno in prima istanza, come la sommatoria dei processi di
interazione reciproca tra persone e gruppi sociali autoctoni e stranieri” (Boccagni e Pollini, 2012,
p. 61), anche se questa bilateralità è rimasta spesso a livello teorico dal punto di vista della
riflessione scientifica sia delle politiche pubbliche (Pastore, Ponzo, 2012, p. 20).
(2) Per una critica allo studio del disagio scolastico dei figli dell’immigrazione solo mediante dati
da fonti statistiche e amministrative, che lasciano scoperte molte aree del fenomeno, vedi Acocella
(2011).
(3) In letteratura possiamo trovare vari modi di denominare le interviste che fanno parte della
ricerca qualitativa, a volta usati come sinonimi, altre volte per indicare tipi di intervista
parzialmente diversi nella modalità di rilevazione o in quella dell’analisi. Seppur criticata, in
questo lavoro usiamo l’espressione “intervista in profondità”.
202
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205
Capitolo 2
«O vai in Italia, o studi o ti sposi»: il caso studio di Monte San Savino
di Giovanna Tizzi
1. Introduzione
La ricerca, commissionata dal Comune di Monte San Savino, area Servizi Sociali,
è stata condotta da un team di ricercatori di Oxfam Italia, che si è avvalso di una
metodologia di tipo qualitativo. Questa impostazione è stata determinata sia dalla
specificità dell’analisi, sia dagli obiettivi conoscitivi della ricerca: indagare e
comprendere le complessità del processo di integrazione di alcune donne
migranti residenti nel suddetto territorio e “in carico” ai servizi sociali.
Sono state realizzate dieci interviste in profondità che ci consentono di delineare
alcune caratteristiche e traiettorie biografiche delle donne intervistate. Occorre
sempre esser consapevoli che nelle ricerche sociologiche sull’immigrazione e
nelle dinamiche di integrazione il territorio, la sfera locale, costituisce una
variabile fondamentale. Da un lato, come è noto, non ci si integra in un luogo
astratto ma in un luogo reale dove si vive, si abita e si interagisce e, dall’altro lato,
ciò impone di considerare con prudenza e cautela ogni tentativo di generalizzare i
risultati ottenuti in ambiti delimitati. In questo senso quanto prodotto in questo
studio non può prescindere di parlare che per il campo da cui provengono.
Come si evince la realtà migratoria al femminile in Italia ed anche nel nostro caso
studio è una realtà ormai storica (Centro studi e ricerche Idos, 2014), consolidata
che presenta peculiarità specifiche dalle molte dimensioni.
Lo spaccato che presentiamo sulle nostre dieci donne risulta essere una delle facce
della migrazione femminile. Nel nostro caso le testimonianze raccolte, seppur
con le dovute cautele interpretative e metodologiche, poiché quando si parla di
donne immigrate in realtà si sta parlando di donne in condizioni e con esigenze
anche molto diverse tra di loro, tendono a riproporre una sorta di dicotomia
etnico/culturale: (i) da un lato le donne dell’area del Maghreb arrivate tutte per
ricongiungimento familiare e che in un certo senso ripropongono
rappresentazioni della “tradizione” e dall’altro (ii) le donne provenienti dall’Africa
subsahariana che con le dovute differenze, presentano maggiore autonomia e
iniziativa personale.
Ciò nonostante, leggere i comportamenti e le vite delle nostre donne
esclusivamente con i soli occhi della matrice etnico/culturale può risultare
fuorviante e riduttivo poiché semplifica l’origine di determinati comportamenti
206
alla loro presunta matrice “culturalista” che viene così oggettivizzata (Tognetti
Bordogna, 2004). In quest’ottica le donne musulmane resterebbero passive,
isolate e dipendenti nei confronti dell’uomo poiché incarnano un modello
femminile distante da quello occidentale.
In linea con quanto prodotto dal dibattito scientifico riteniamo utile adottare un
approccio multidimensionale che tiene conto dell’area geo-culturale di
provenienza, ma anche del progetto migratorio, della generazione di migrazione,
delle caratteristiche della singola persona e del contesto famigliare (capitale
umano e sociale), degli anni di permanenza in Italia ed infine delle caratteristiche
del contesto di partenza e quello di arrivo. Come è stato più volte sottolineato in
letteratura i processi di femminilizzazione delle migrazioni internazionali hanno
un carattere poliedrico e spesso l’emancipazione femminile coesiste assieme al
mantenimento della tradizione (Favaro, Tognetti Bordogna, 1991). Risulta
pertanto centrale il legame tra processi individuali e contesto in cui questi
avvengono ed in virtù di ciò la traccia dell’intervista (vedi appendice) è stata
costruita attorno alle seguenti dimensioni: i) approfondimento del contesto di
partenza e di arrivo delle nostre donne; ii) relazioni sociali, storia familiare e
progetto migratorio; iii) analisi dei bisogni; iv) elementi positivi e negativi nei
loro percorsi di utilizzo (e accesso prima) ai servizi del Comune (eventuali
barriere informative, conoscitive, relazionali, organizzative ecc..); v) attivazioni
di reti tra donne e empowerment.
2. Il disegno della ricerca
Le cittadine e i cittadini stranieri residenti nella zona Aretina nel 2014 sono
14.527 corrispondenti ad un’incidenza percentuale dell’11,1% sul totale della
popolazione residente (131.301) (Osservatorio sulle Politiche Sociali, 2015).
Nel comune di Monte San Savino i residenti stranieri nel 2014 sono 720
corrispondenti all’8,2% della popolazione totale. Anche in questo caso si
conferma una crescente stabilizzazione dei migranti avvenuta in tempi rapidi,
basti pensare che nel 2000 i migranti residenti erano solo 185.
Emerge, inoltre, la crescente femminilizzazione della popolazione migrante. A
Monte San Savino le donne straniere rappresentano il 55,6%. Fermo restando un
certo policentrismo di fondo, le principali nazionalità sono la Romania con il
48%, l’Albania con l’11,2% e il Marocco con il 4,7% (Osservatorio sulle
Politiche Sociali, 2012).
Il seguente elaborato intende approfondire la conoscenza sulle donne provenienti
dall’area del Maghreb e Africa Subsahariana residenti a Monte San Savino. A
fronte di problematiche riscontrate dagli operatori sociali, sanitari e comunali,
207
che sottolineano una scarsa partecipazione delle medesime, è nata l’esigenza di
saperne di più e di indagare i complessi “perché” sottostanti ad alcune dinamiche
di “isolamento”.
La ricerca è stata condotta attraverso un lavoro coordinato con le assistenti sociali
del Comune di Monte San Savino e il supporto della mediatrice linguisticoculturale.
Il progetto si è sviluppato in tre fasi principali:
1) una fase iniziale di mappatura delle donne da intervistare e di definizione delle
modalità organizzative di coinvolgimento (chi le contatta, come, dove, eventuale
utilizzo del registratore digitale etc.) e dello strumento metodologico più idoneo
(dal questionario a risposte chiuse all’intervista).
2) La seconda fase ha preso avvio con la realizzazione delle interviste (dicembre
2013 e gennaio 2014). Sono state effettuate dieci interviste a donne migranti di
cui cinque provenienti dall’area del Maghreb (tre del Marocco, una dalla Tunisia
e una dall’Algeria) e cinque dall’Africa subsahariana (due dall’Etiopia, due dal
Senegal e una dal Burkina Faso).
I soggetti sui quali è stato svolto il lavoro di raccolta delle interviste, sono stati
scelti in stretta collaborazione con le assistenti sociali. Questo ha permesso di
avere un “filtro” fiduciario importante al fine dell’approccio iniziale e del
successivo incontro per l’intervista. La questione più significativa su cui si è
lavorato nella fase iniziale è la costruzione di un clima di reciproca fiducia durante
l’intervista, per favorire la raccolta delle opinioni e ridurre al minimo gli effetti di
eventuali malintesi. Inoltre, grazie a ciò è stato possibile effettuare tutte le
interviste a casa delle nostre donne e quindi poter osservare dove vivono
quotidianamente e come le abitazioni riflettono la migrazione, in termini di
oggetti, arredamenti, simboli religiosi, odori, suoni, etc.
3) La terza fase concerne il lavoro di trascrizione delle lunghe interviste e la
rielaborazione delle stesse sotto forma di racconto. Dalla trascrizione dei testi
delle interviste, possiamo affermare che il tipo di relazione instauratosi tra
intervistatore e intervistata è apparso buono e le informazioni fornite dai soggetti
sono sufficientemente chiare e complete, pur in presenza di qualche difficoltà
nella comprensione delle domande, spesso superate grazie al supporto della
mediatrice linguistico-culturale o di figli presenti.
3. Le donne intervistate
Il ricongiungimento familiare è nel nostro caso studio il principale canale di
ingresso e motivo del soggiorno utilizzato da molte intervistate. Il quadro che ne
emerge è quello di una situazione estremamente variegata al suo interno e
208
fortemente dinamica. Tutto ciò non impedisce ovviamente di cogliere esigenze e
tratti comuni, ma allo stesso tempo si impone l’esigenza di evitare operazioni
riduzionistiche.
Nell’intero gruppo delle donne provenienti dal Maghreb l’istituto del
ricongiungimento familiare al marito è stato il motivo del loro ingresso. In
quattro casi su cinque delle realtà familiari indagate, il ricongiungimento è stato
fatto in un arco temporale piuttosto breve. È il marito, che già viveva in Italia, a
decidere di sposarsi. Rientra così nel paese di origine. A seguito del matrimonio
arriva anche la neo moglie e dopo circa un anno nasce il primo figlio/a. Il quinto
nucleo famigliare, invece, si è ricongiunto dopo diversi anni dal matrimonio e
dopo la nascita di tre figli/e, e ciò non tanto per difficoltà o imprevisti ma per una
libera e consapevole scelta del capofamiglia maschio.
In tutti gli esempi ove il ricongiungimento è stato effettuato prima possibile, si
tratta di nuclei in cui la donna, più giovane del partner, è consapevole che grazie
al matrimonio potrà venire in Italia e dai racconti si evince una rappresentazione
positiva:
[…] pensavo di essere molto fortunata e ho anche immaginato che fosse stato Dio a mandarmi mio
marito che poi mi avrebbe portata in Italia (A.)
[…] pensavo di venire in paradiso (F.)
Quando è stato deciso di fare il matrimonio non avevo la certezza di venire in Italia. Lui non
sapeva se portarmi o no. Io ero contenta quando ha deciso di portarmi in Italia (EB.).
In un caso il marito fa parte della stessa cerchia parentale, negli altri fa parte del
gruppo dei conoscenti.
Le testimonianze raccolte mostrano che le donne tendono a giungere in Italia
senza essere adeguatamente preparate alla realtà che le aspetta. Le informazioni
che esse hanno a disposizione sono lacunose e “mediate” da conoscenti o parenti
che ritornano. Si può quindi dire che, quasi sempre, quando la donna arriva tutto
è una “sorpresa” che si trasforma in una realtà piuttosto complessa con la nascita
dei figli. In quattro casi su cinque si tratta di famiglie numerose composte da un
minimo di tre figli fino a sei. I primi tempi dopo il ricongiungimento risultano
essere molto difficili:
Il primo anno è stato difficile, parlavo solo con mio marito e un po’ con mio cognato quando è
arrivato in Italia. Mio marito passava tanto tempo a guardare la tv per la guerra in Iraq e io stavo
sola (F.).
In assenza di reti parentali, la donna si trova spesso sola in casa, e con la nascita
dei figli prende avvio il lavoro di cura, considerato positivamente da parte della
209
coppia e che restituisce un ruolo e una funzione alla figura femminile. Si rileva
dalle interviste che di fatto non sempre viene interpretato come un antidoto
all’isolamento e all’uscita di casa, cioè alla conoscenza di autoctoni:
I miei figli hanno sempre bisogno di me. Io non vivo mai un giorno qui in Italia come donna. Alla
donna basta poco, un vestitino bello una volta ogni tanto… Mai [piange], tante volte mi viene la
tristezza (A.)
Stavo bene perché c’erano altri familiari, mentre ora sono sola. Sì, la mia vita in Marocco era
migliore, qui ho più difficoltà nel gestire i figli [...]. Al Monte io mi trovo bene, anche se spesso
resto a casa, non vedo nessuno (R.).
Per quanto riguarda il variegato gruppo proveniente dall’Africa Subsahariana – di
cui due donne del Senegal, una del Burkina Faso (Africa Occidentale) e due
dell’Etiopia (Africa orientale) – sono solo le due intervistate senegalesi ad essere
arrivate per ricongiungimento familiare. In questo caso si tratta di madre e figlia.
La madre è arrivata venti anni fa e si è ricongiunta lasciando le due figlie maggiori
in Senegal, arrivate dopo pochi anni. In questo caso il progetto migratorio è stato
del capofamiglia maschio e per entrambe le notevoli difficoltà iniziali si
protraggono a quella che appare una decisione “subìta”
[…] quando sono arrivata… volevo andarmene via subito. Mi sono detta sto qui per due mesi e
poi torno in Senegal. Qua non mi piace (A.T.)
Ho vissuto molto male questo trasferimento. Non volevo venire via. Anche mia sorella non
voleva. Io volevo rimanere lì a studiare perché imparavo il francese e pensavo che mi potesse
portare da qualche parte […]. Non volevo venire qua, ma non potevo decidere io (M.F.)
Queste testimonianze mostrano un esempio del significato che la donna può dare
alla migrazione e al ricongiungimento. Nel caso della figlia ci sembra incarnare, in
parte, la figura che in letteratura viene definita il “trasmigrante” (Tognetti
Bordogna, 1998; Zanfrini, 2004), ovvero un soggetto che “sta a cavallo” fra due
mondi che travalica i confini geografici, appartiene a due ambiti economici e
relazionali e che si pone in antitesi al tradizionale paradigma del migrante come
“trapiantato” in un altro contesto. La figlia intervistata arriva ad esempio a
valutare l’ipotesi di trasferirsi in Senegal o mandare solo le figlie per farle studiare
là:
Speravo di riuscire a portare mia figlia in Senegal per studiare. Poteva studiare il francese, andare
a una scuola privata che lì costano poco. Invece qui è un problema. Però ora non la posso mandare
in Senegal da sola, deve stare con me. Se in futuro… (M.F.)
210
Diversamente le due donne etiopi sono arrivate in un caso per accompagnare la
sorella che aveva problemi di salute, e nell’altro per decisione dei genitori:
O vai in Italia, o studi o ti sposi, mi hanno detto. E io sono venuta. In Italia c’era già una sorella
(Y.)
Anche per loro il primo periodo è stato molto impegnativo: “all’inizio è stato
difficile, ero molto attaccata alla famiglia e ho sofferto la solitudine ed il distacco.
Mio fratello andava al lavoro, mia sorella a scuola e io, senza lavoro, stavo a casa a
piangere” (B.); ma dimostrano con il passare del tempo una notevole capacità di
costruire relazioni al di fuori della cerchia dei connazionali, ricreandosi un
network familiare:
La madrina e il padrino di una delle mie figlie posso chiamarli mamma e papà praticamente. Sono
più grandi di me e mi considerano come una figlia (Y.)
Tutta la sua famiglia per me è come la mia famiglia. Mi ha aiutato molto con l’italiano, appena
sono arrivata mi diceva i nomi delle cose. Quando lei ha partorito stavamo tutti insieme, e lo
stesso è stato quando è nata mia figlia (B.).
Prendiamo ora in considerazione l’anzianità di permanenza in Italia e il titolo di
studio delle nostre intervistate.
In generale si evidenzia una permanenza in Italia, ed in molti casi proprio a Monte
San Savino, di lungo periodo: otto donne su dieci sono in Italia da oltre 11 anni.
Tra coloro che hanno una maggiore anzianità migratoria alle spalle ci sono le due
donne Senegalesi con circa 20 anni, la donna del Burkina Faso con circa 30 anni e
le due donne etiopi con 12 e 17 anni. Tra coloro che invece sono arrivate da
meno tempo ci sono due donne del Marocco con rispettivamente 5 e 7 anni di
permanenza.
Per quanto riguarda il livello di istruzione appare in generale basso. Molte delle
intervistate provengono da contesti socio-economici e culturali piuttosto
svantaggiati, ad esempio nel caso di due intervistate che a seguito alla morte del
padre sono costrette a smettere di andare a scuola per aiutare la famiglia.
211
Tavola sinottica*
Nome
A.
F.
Paese di origine
Tunisia
Età
36
Vive a Monte
S.S. o in
Italia dal
È arrivata per...
Ricongiungimento
familiare
Ricongiungimento
familiare
2001
Marito e 4 figli maschi nati qua che
frequentano: I media, V, III e I primaria
Marito e 3 figli (due maschi ed 1
femmina) nati qua di 10, 6 e 1 anno
Algeria
39
2003
Marocco
40
2002
Ricongiungimento
familiare
Marito, quattro figli maschi nati qua di
cui: due gemelli di 9 anni, uno di 6 anni
e uno di quasi 2 anni + la suocera
31
2012 a
Monte S.S.
mentre in
Italia dal
2009
Ricongiungimento
familiare
Marito e 1 figlio nato qua di un anno +
sorella maggiore con 3 figli che
frequentano la III e II elementare e
l’ultima bambina che ha solo 8 mesi.
AN.
EB.
Marocco
R.
Marocco
37
2007
Ricongiungimento
familiare
Marito e 6 figli (5 maschi e una
femmina). Tre sono nati in Marocco e
tre in Italia. Il più grande ha 20 anni,
mentre la ragazza ne ha 19; uno va alle
medie e tre all’asilo.
Etiopia
30
2002
Accompagnare la sorella per
cure mediche
Compagno e figlia di 2 anni nata qui
Y.
Etiopia
39
Per lavoro
Due figli nati qui
AT.
Senegal
Marito e tre figlie nate in Senegal
MF.
Senegal
Ricongiungimento familiare
Ricongiungimento familiare
(figlia)
B.
K.
Le
Composizione
famiglia
1995 in Italia
e Monte S.S.
dal 1999
1994
27
1999
Burkina Faso
informazioni
1982
sono
Coppia mista
relative
al
Marito e due figlie nate qui
Marito e tre figli maschi nati il 1° nato in
Italia, il 2° in Burkina Faso, il 3° in
Marocco.
momento
dell’intervista
212
Condizione
lavorativa
Casalinga
Lavori saltuari (pulizie)
Abitazione (edilizia
residenziale pubblica/casa
di proprietà/affitto)
Affitto
Alloggio messo a
disposizione dal Comune
Casalinga
Affitto
Casalinga (ha fatto in
passato la badante)
Affitto
Casalinga
Lavora in un ristornate
Lavora in una
cooperativa dove fa le
pulizie
Casalinga
Lavora in un albergo
Affitto
Affitto
ERP
ERP
Affitto
Affitto, stanno per tornare
Ora casalinga, prima
in Burkina
vari lavori
(dicembre
2013-gennaio
2014)
4. Alcune voci di donne
A.
Sei per uno non è come uno per sei
Ho 36 anni e sono tunisina. Sono arrivata in Italia il 22 febbraio del 2001 a seguito
del ricongiungimento familiare con mio marito. Lui viveva già in Italia, era
arrivato da giovane a 18 anni. Ci siamo conosciuti in Tunisia prima della sua
partenza per l’Italia. Per noi l’Italia era una cosa bellissima. Pensavo di essere
molto fortunata e ho anche immaginato che fosse stato Dio a mandarmi mio
marito che poi mi avrebbe portata in Italia. Nella mia vita ho sofferto tanto.
Quando sono venuta qui pensavo di trovare il paradiso... insomma quello che ora
tutti pensano dell’America. Invece no, con la nascita dei miei figli è diventato
tutto pesante.
Abbiamo quattro figli maschi: il più grande è in prima media, il secondo in quinta
elementare, il terzo frequenta la terza e il piccolo ha sette anni e ha un serio
problema di salute, il diabete. Mio marito fa il muratore e lavora per sei persone,
non è la stessa cosa di sei che lavorano per uno. Gli italiani hanno la nonna, lo zio,
etc. che li possono aiutare: sei per uno non è come uno per sei.
In Tunisia vivevo in campagna, siamo una famiglia di sette fratelli e in seguito alla
malattia di mio padre a 13 anni ho smesso di studiare. Sono andata a lavorare
come sarta in fabbrica dove ho conosciuto mio marito. In Italia siamo soli, i nostri
fratelli sono tutti rimasti in Tunisia.
Quest’estate sono stata due mesi in Tunisia con i miei figli. Cerchiamo di andarci
ogni anno, ma dipende, non sempre è facile. I miei figli ci vanno molto volentieri.
In Italia non ho mai lavorato, sono sempre impegnata con i ragazzi. Non vado da
nessuna parte, non vado nemmeno dal dottore. I miei figli hanno sempre bisogno
di me. Io non vivo mai un giorno qui in Italia come donna. Alla donna basta poco,
un vestitino bello una volta ogni tanto… Mai [piange], tante volte mi viene la
tristezza.
Le nostre maggiori difficoltà sono collegate alle esigenze dei miei figli. I ragazzi
crescono, e crescono anche i bisogni. Loro vogliono le cose come gli italiani,
vogliono andare al cinema, vestirsi bene, vogliono il computer, uno ha iniziato la
quinta e vuole un’altra cosa… più crescono, più vogliono.
Hanno diversi amici ma il problema è che quando ho provato a mandarli a casa dei
loro amici, tornano contenti e mi dicono che i loro amici hanno una camera bella,
hanno tanti giochi, il computer, etc. E io mi sento male perché vedo che loro ci
soffrono. Qualche volta succede che mi chiedono di andare al cinema e io non li
mando e diventano tristi. Ieri mio figlio mi ha detto “i miei amici vanno al
213
cinema, e io dove vado per strada?” Io mi sento male, mi sento bruciare dentro.
L’altro figlio stamani mi ha detto “mamma quando vedo qualcuno col telefono mi
fa male”. Ad esempio oggi devono stare fino alle 17 a scuola, quando poi escono
gli altri vanno in pizzeria e io invece non ce li mando. Si arrabbiano, vorrebbero
andare anche loro. Vi giuro che siamo sotto zero di soldi. Non abbiamo soldi
neppure per i quaderni.
Però vanno tutti e quattro al calcio, due volte alla settimana. La società sportiva ci
aiuta molto sia sul lato economico che pratico, ad esempio quando non posso
portarli viene il mister a prenderli a casa.
Anche la casa per noi è una vergogna, vorrei avere una casa giusta per la mia
famiglia, invece i miei figli dormono tutti nella stessa camera e quando entra
qualcuno da noi, ti dico la verità mi vergono [piange].
Le nostre difficoltà economiche sono molte, nonostante che mio marito lavori.
Mio figlio più piccolo ha il diabete ed avrebbe bisogno di mangiare cibo come
pesce e formaggio che però sono troppo costosi. Lasciamo perdere i vestiti.
Abbiamo sempre quelli che io lavo e stiro di continuo. Mio figlio mi dice
“mamma vedessi come si vestono alle medie”. Io gli dico che dobbiamo
accontentarci. Noi genitori però ci sentiamo in colpa. Io sono chiusa in casa, chi
mi vede? Chi vede di cosa ho bisogno? Nessuno vede cosa mangiamo. Non ti vede
nessuno. Sempre pasta col pomodoro. Siamo pieni di problemi, mi fanno male i
denti e non vado dal dentista perché non me lo posso permettere. Lo so che
nessuno può aiutarti però…
I miei figli avrebbero bisogno di essere seguiti per i compiti a scuola, io non
riesco. Desidero che studino bene, che vadano verso una strada giusta. Vorrei che
vivessero meglio di me. L’unica cosa che propongo è che il Comune metta a
disposizione una persona per aiutarli a studiare. Io non li aiuto, li spingo un po’,
ma niente di più.
In casa parliamo arabo, la televisione la guardiamo sia in italiano che in arabo. Ho
fatto un corso breve di italiano. Sono una persona che parla con tutti, mi fermo a
parlare con tutti così imparo. Con i vicini di casa ho imparato a parlare. Poi vado
all’ospedale e devo parlare, ai colloqui con i maestri devo parlare… e alla fine ho
imparato. Però mi piacerebbe fare un corso che inizia da zero, dalle basi della
grammatica soprattutto per concentrarmi sullo scritto. Ai corsi puntano sempre
sull’orale e io già so qualcosa. Mi piacerebbe imparare a scrivere e leggere anche
per aiutare i miei figli con i compiti.
Se penso al mio futuro, mi piacerebbe continuare ad abitare a Monte San Savino.
Sono abituata a stare qui e desidero che i miei figli studino bene.
F.
Basta che l’uomo entra dalla porta… Sempre lontana
214
Tra una settimana compio 39 anni e da quasi 11 vivo a Monte San Savino. Sono
dell’Algeria e sono arrivata per ricongiungimento familiare. Mio marito viveva in
Italia dal 1992. Dopo un anno dal mio arrivo è nato mio figlio maggiore, dopo un
po’ mia figlia, che tra poco compie 7 anni e poi il piccolo che ieri ha compiuto un
anno.
Mio marito non lo conoscevo. È andata che il fratello della moglie di mio zio era
amico del fratello di mio marito e, quando il mio attuale marito è tornato
dall’Italia si voleva sposare, così hanno parlato con i miei genitori. In questo caso
basta che l’uomo entra dalla porta [ride]. Ci hanno fatto conoscere nel 2001 e dopo
un anno di fidanzamento ci siamo sposati. In Algeria una donna non può
conoscere un uomo, poi un altro… per la religione. La religione dice che, per
esempio, la donna non può non sposare un uomo perché non le piace. L’uomo
chiede la donna e può sposare chi vuole.
Sapevo che sposando lui sarei venuta in Italia e pensavo di venire in paradiso.
All’inizio tutto bene, mio marito aveva un lavoro come falegname, avevamo la
macchina, potevamo andare ad Arezzo a fare le nostre cose, pagavamo il nostro
affitto etc. Ora non è più così, mio marito non lavora dal 2006, viviamo in questa
casa che ci ha dato il Comune, e sono stata molto male. Ho avuto un mal di testa
terribile per il nervoso e mi hanno portata anche dalla psicologa.
In Algeria vivevo a Oran da mia zia, a 300 chilometri di distanza dai miei genitori.
La scelta di mandarmi da mia zia è stata fatta per garantirmi un’istruzione, ma a
seguito dell’improvvisa morte di lei sono dovuta tornare dai miei e ho interrotto
gli studi. Sono arrivata fino alla terza elementare.
In Italia non c’è nessuno della mia famiglia, mia mamma mi dice che sono sempre
lontana. Questa parola non mi piace, mi piacerebbe starle vicino. Mi manca molto
perché lei è malata, e da quando si è operata al cuore non l’ho rivista. In Algeria
ho anche due sorelle e cinque fratelli, tutti sposati con famiglia.
Anche mio marito ha tanti fratelli, una sorella che vive in America, un altro che
ha studiato in America e che ora è tornato in Algeria, poi uno in Francia. Non
conoscevo nessuno che abitava in Italia, avevo solo i racconti della cugina di mio
padre che abitava Francia e per questo credevo di venire in paradiso!
Faccio le pulizie, quando mi chiamano vado. La mattina penso a dove andare per
trovare il pane da dare ai miei figli. In passato ho fatto la badante da una signora,
ma poi ho dovuto lasciare poiché mi chiedevano di stare lì giorno e notte e con la
famiglia non lo posso fare.
Ci sono due donne italiane che mi aiutano moltissimo, ad esempio se ho un
appuntamento in ospedale una delle due donne mi porta, perché ha la macchina.
Anche io contraccambio aiutandola. Con il resto delle persone ci salutiamo e
basta.
215
I miei figli a scuola si trovano bene anche se il maggiore ha bisogno di un aiuto nel
fare i compiti. Hanno tanti amici ma a casa vengono solo alcune amiche di mia
figlia. Per il resto si ritrovano ai giardini pubblici.
Tutti i giorni facciamo le cinque preghiere e quest’anno anche mio figlio grande
ha fatto tutto il ramadan. Andiamo quando possiamo alla moschea ad Arezzo,
quest’anno per il giorno della festa ho portato anche mio figlio, ma siamo tornati
a casa tutti nervosi [ride], senza macchina è un problema. Sempre ad Arezzo c’è
un punto di ritrovo che è la macelleria islamica dove tutti raccolgono i soldi per i
poveri, i malati… insomma una mano aiuta l’altra, no? Ora non ho possibilità di
andare. Non si può andare e preghiamo a casa.
Io il velo l’ho messo quando sono venuta in Italia [ride]. L’ho indossato in Italia
perché ho trovato delle amiche che lo portavano e mi sono chiesta perché non lo
mettevo. Quando ho mandato la mia foto col velo ai miei genitori non ci credeva
nessuno! Mia mamma lo porta ma nel mio caso non c’entrano niente le regole o
mio marito. Spesso mi chiedono se è mio marito che vuole che lo indossi, io dico
di no, ma non mi credono. Poi d’estate mi dicono ma come fai a stare col velo
senti che caldo? ma porto anche la gonna e non il vestito lungo.
Ormai il velo non posso toglierlo, è da otto anni che lo porto e ci sono abituata.
Mi piacerebbe che mia figlia lo portasse, però deve scegliere lei, deve essere
libera.
Il destino è dei miei figli, io non posso decidere la loro vita. Non voglio fare come
i miei genitori, dove anche mio fratello decideva quello che dovevo fare, figurati i
miei genitori [ride]. Ogni tanto penso a come si sono comportati i miei fratelli,
uno ad esempio non mi voleva far uscire e forse per colpa sua non ho studiato.
Anche mia sorella ha smesso alle medie perché l’hanno fatta sposare. Non voglio
che mio figlio decida per la vita della sorella. Lui ha la sua vita e lei la sua.
Mi sento bene qua, però senza il lavoro siamo come dentro un cerchio dove non
trovi l’uscita.
Cerchiamo di tornare in Algeria ogni due anni. L’anno scorso siamo dovuti
andare per forza, è successo un fatto che non voglio nemmeno ricordare. I miei
figli però non vogliono andare in Algeria e non vogliono provare quello che ho
sofferto io quando ho cambiato scuola. Pensando al loro futuro mi piacerebbe che
studiassero come lo zio in America.
Vorrei trovare un lavoro perché mi mancano tante cose, tantissime. Mio figlio
sognava di giocare a calcio ma io non posso mandarlo. Quasi tutti i suoi amici
giocano a calcio, ma lui no. È un po’ dura.
Quali sono i miei bisogni, oltre il lavoro? Mi manca qualcuno che mi abbraccio
[ride con le lacrime agli occhi], soltanto questo.
La principale difficoltà che ho incontrato è stata la lingua. Quando sono arrivata
non parlavo nemmeno una parola. Mi ricordo che all’ospedale, dopo il parto
216
cesareo del primo figlio, gli infermieri mi portavano da mangiare e il dottore mi
chiedeva se mangiavo il maiale. Io dicevo di sì, ma non capivo nulla, così quando
mi hanno portato il pasto ho riconosciuto che era maiale e non l’ho mangiato.
Quando è arrivato mio marito il dottore gli ha riferito che non mangiavo e lui mi
ha detto che la prossima volta dovevo dire che non mangiavo solo carne di maiale.
Il giorno dopo di fronte alla richiesta su cosa volevo da mangiare, gli ho detto solo
carne di maiale!
Il primo anno è stato difficile, parlavo solo con mio marito e un po’ con mio
cognato quando è arrivato in Italia. Mio marito passava tanto tempo a guardare la
tv per la guerra in Iraq e io stavo sola. Ora è diverso, parlo molto in italiano con
la mia amica italiana. E poi ho imparato anche grazie alla mia amica polacca
poiché lei non parla arabo. In famiglia parliamo più italiano che arabo, mentre con
mio marito parlo arabo. Ho fatto un corso di italiano per un mese ma non mi è
servito a niente. Avevo il bambino piccolo, stavo dietro a lui e non seguivo. Però
mi piacerebbe fare dei corsi per migliorare l’italiano.
Se un’amica mi chiedesse un suggerimento sul progetto di venire in Italia? direi
che forse sbaglia. Ora è un momento duro, non è come prima. Non si trova
lavoro e quindi consiglierei di rimanere nel suo paese. Almeno nel tuo paese stai
con la tua famiglia, almeno quando stai male vai a sfogarti da tua mamma, da tua
sorella. Qui quando ti arrabbi non sai che fare, con chi sfogarti. Almeno nel tuo
paese ricevi qualche abbraccio.
AN.
Sono venuta in Italia per seguire mio marito,
perché per la cultura marocchina la moglie deve stare dov’è il marito.
La mattina mi sveglio presto, alle 6. Faccio lavare i bambini e li faccio pregare
così imparano la preghiera mattutina. Preparo la colazione per loro e li porto a
scuola se non c’è mio marito, altrimenti li porta lui. Dopo faccio colazione,
metto la lavatrice, preparo il pranzo ed ecco che già arriva l’ora di andare a
prendere i bambini a scuola. Loro mangiano, io sparecchio e lavo i piatti. Al
pomeriggio se ho da stirare, stiro; qualche volta faccio il pane e poi preparo la
cena. Questa è la mia giornata.
Mi chiamo Anou, ho 40 anni e vengo da un piccolo paesino vicino a Casablanca,
dove le persone vivono di agricoltura. Siamo quattro sorelle e due fratelli. Ho
studiato in Marocco fino alla quinta elementare, poi a seguito della morte di mio
padre, non aveva nemmeno 50 anni, ho dovuto smettere di studiare. Ho imparato
a ricamare e così ho potuto aiutare sia me stessa che la famiglia.
217
Mi sono sposata a 27 anni e mio marito ne aveva 39. Sono venuta in Italia nel
2002 per seguirlo perché per la cultura marocchina la moglie deve stare dov’è il
marito.
Mio marito è arrivato in Italia molto tempo prima: nel 1985. All’inizio è entrato
come turista e poi è rimasto. In Marocco faceva l’infermiere, ma dopo 12 anni ha
perso il lavoro. È arrivato in Calabria dove per cinque anni ha fatto il venditore
nelle bancarelle, ma poi hanno iniziato a chiedere la licenza etc. ed è venuto via.
Ha trovato lavoro per una ditta che faceva cartelli stradali qui al Monte ed ecco
perché abitiamo qui. In seguito ha lavorato per 20 anni come muratore e quando
il datore di lavoro è andato in pensione ha aperto una macelleria ad Arezzo, per
6/7 mesi. Dopo la chiusura del negozio, non è più riuscito a ritrovare il lavoro di
muratore. Ha fatto per un po’ il badante ma non l’aveva mai fatto prima… [ride].
Ha cercato ancora…, è andato fino in Francia ma trasferirci tutti è complicato e
ora siamo in difficoltà, abbiamo 8 mesi di affitto non pagato.
Io per ora non posso lavorare, abbiamo 4 figli maschi, tutti nati in Italia: due
gemelli, un bambino di 7 anni e l’ultimo di 4. Quando i bambini saranno più
grandi potrò cercare lavoro e mi piacerebbe un lavoro in casa, magari come sarta
poiché so ricamare.
Con in nostri bambini, soprattutto con quelli più grandi a volte parliamo di
quando siamo partiti dal Marocco, ma loro dicono sempre che in Marocco non ci
vogliono andare. Quest’anno, io e miei figli ci siamo andati, ma non gli è piaciuto
starci, non gli è piaciuto come giocano i bambini. Sono cresciuti qui, sono abituati
alle cose come si fanno qui e lì è un po’ diverso, è un altro modo di giocare, un
po’ esagerato. Allora mi dicono che non vogliono più tornarci. Dicono che
vogliono stare qui e basta. Io ormai il futuro dei miei figli lo vedo qui: in Italia.
La maggior parte delle mie amicizie sono italiane, con i marocchini ho poco
contatto. Ogni tanto mi vengono a trovare delle amiche italiane che mi danno una
mano anche economicamente, mi portano un po’ di spesa, i vestiti per i
bambini… Sono tutti bravi, anche le maestre. Lo sanno che quest’anno mio
marito è senza lavoro e hanno comprato per i nostri figli le penne, i quaderni e
tutto quello che poteva servire per la scuola. Qualche volta mi vergogno però,
speriamo di riprendere con il lavoro.
I miei figli frequentano i compagni di classe quando ci sono i compleanni oppure
se organizzano un incontro tutti insieme, anche alla gita li mandiamo senza
problemi. C’è un compagno di classe dei gemelli con cui si trovano anche per fare
i compiti e la mamma di questo bambino, dopo il lavoro, li viene a prendere e li
porta con sé a giocare o a fare i compiti a casa sua e poi li riporta la sera.
Da quattro anni abita in casa con noi mia suocera, ha 76 anni e per motivi di
salute è venuta in Italia. Prima abitava a Perugia dal fratello di mio marito, ma poi
lui è tornato via e si è trasferita da noi.
218
La nostra casa è piccola, c’è solo la camera matrimoniale e una seconda stanza
dove dorme mia suocera con tre bambini e il quarto dorme nel salotto. Siamo in
sette con un bagno.
La mia mamma vive in Marocco, la sento spesso e quando mi chiede come va? io
le dico che va sempre tutto bene per non farla preoccupare.
In casa guardiamo la televisione in italiano. Io guardo spesso Italia 1, per imparare
a parlare piano, piano... Qualche volta sbaglio le parole e mi correggono i
bambini! Anche con loro per la maggior parte del tempo parliamo in italiano.
Quando gli parlo in arabo mi rispondono in italiano. Loro parlano sempre
italiano. Avevo iniziato a frequentare un corso di italiano ma poi sono rimasta
incinta e non ho più ripreso.
Per le gravidanze mi sono fatta seguire al Consultorio di Arezzo, so che c’è anche
una volta a settimana qui, ma non ci vado perché mi sono trovata bene ad Arezzo.
Vado da sola dal medico di famiglia e dal pediatra, riesco a capire abbastanza
bene… ora ho anche chi mi traduce: mio figlio [ride].
I bisogni della nostra famiglia sono una casa più grande e il lavoro per mio marito,
ma non un lavoro a nero, un lavoro fisso!
Penso che sarebbe importante fare un corso, una o due volte alla settimana, di
lingua e cultura italiana. Perché in tutti i paesi le cose funzionano diversamente.
Per esempio puoi trovare marocchini che vanno a fare la spesa in un
supermercato qui in Italia e non mettono i guanti per prendere la frutta e la
verdura, perché non lo sanno che li devono mettere.
Vedo il mio futuro qui anche se mio marito ora non sta lavorando. Voglio star qui
per far studiare i miei figli, per dargli un futuro qui, in Marocco non ho più
niente, non ho casa, niente!
Se dovessi dare un consiglio ad una mia connazionale le direi di rimanere in
Marocco perché qui ormai non c’è più lavoro. Se io avessi avuto un marito che mi
mandava dei soldi, magari potevo metterli da parte per costruire un futuro in
Marocco, senza venire qui. Io non ho avuto questa possibilità e quindi: eccomi qui.
Y.
O vai in Italia, o studi o ti sposi, mi hanno detto.
Quelli dell’Etiopia qui mi dicono te sei troppo italiana,
gli italiani mi dicono te parli troppo del tuo paese. Mi trovo proprio a metà.
Mi chiamo Yemane, ho 39 anni, un figlio e una figlia.
Sono nata in Etiopia, a Bahar Dar, vicino al lago Tana, da genitori di origine
eritrea. Fino al 1991 l’Eritrea era sotto l’Etiopia, in seguito è diventata un paese
indipendente. Prima eravamo considerati tutti etiopi. Poi hanno detto che
eravamo eritrei perché i nostri genitori venivano da là. Ma io non sono cresciuta
219
in Eritrea. L’ultima volta che ci sono andata era il ’97, da allora non sono più
tornata. Non posso andarci finché non dicono che si può entrare liberamente.
All’epoca, il babbo guidava il camion. Vendeva mattoni, quelli piccolini e
marroni. Qui non ci sono molte case con quei mattoni, ma una volta ce
n’erano…
Ho studiato in Etiopia, fino alla quinta superiore. Poi mi sono fermata.
I miei familiari sono dispersi per il mondo, soprattutto in America. Mia mamma
vive là da 16-17 anni. E così gran parte degli altri 12 fratelli e sorelle. Una è
rimasta in Eritrea, ma non c’è più. Anche il mio babbo non c’è più. Un’altra
sorella vive in Etiopia e un’altra a Londra. Mia mamma sta un po’ di tempo da
una parte e un po’ da un’altra. Anche il mio ex compagno vive in America, dal
2007. È tornato due volte. Poche volte. Spesso telefona.
Sono in Italia dal 1995. Praticamente quasi metà della mia vita l’ho trascorsa qui.
Sono venuta qua perché… mi ci hanno mandata. Semplice. È andata così. O vai
in Italia, o studi o ti sposi, mi hanno detto. E io sono venuta. In Italia c’era già una
sorella. I primi tempi vivevamo tutti a Roma. Ci siamo stati quattro anni. Facevo
la badante e all’inizio dormivo a casa di una famiglia. L’italiano l’ho imparato da
questa famiglia. Non mi facevano mai parlare nella mia lingua con mia sorella per
farmi imparare l’italiano. La signora rimaneva a casa perché lavorava lì, e il
marito mi portava fuori e così ero costretta a parlare in italiano. Così ho imparato
la lingua velocemente. Poi abbiamo preso un appartamento con mia sorella e ci
siamo messe a fare le pulizie in varie case.
Dopo quattro anni sono venuta al Monte. Mia sorella ha aspettato ancora un po’ e
poi se n’è andata a Londra. A Roma non si trovava bene. Mentre a Londra sì che
stanno bene! Ha due figlie e il marito fa il taxista. Cosa faccia lei di lavoro non lo
so di preciso, ma ha un part-time. Comunque ci vediamo spesso, anche questo
agosto, sono venuti a trovarmi.
Perché proprio al Monte? Semplice. Qui è venuto il mio ex compagno con una
squadra di calciatori. Dovevano venire con l’aereo in Italia e continuare a giocare.
In undici sono arrivati e sono rimasti. Però solo due hanno avuto il permesso di
rifugiati e tutti gli altri hanno avuto il permesso di soggiorno. Uno di loro era il
mio vecchio compagno. Una famiglia italiana li aveva accolti e lui mi ha detto di
venire qui. Abbiamo trovato lavoro in una fabbrica, sempre per la cooperativa
dove lavoro ancora. Faccio le pulizie part-time. In realtà, ho fatto una scuola per
diventare addetta all’assistenza di base, ma mi serviva un part-time per portare i
bambini a scuola.
La cooperativa è come una grande famiglia. La madrina e il padrino di una delle
mie figlie posso chiamarli mamma e papà praticamente. Sono più grandi di me e
mi considerano come una figlia, se c’è qualcosa che non va chiamo subito loro.
Lei è una delle fondatrici della cooperativa. Andando lì per le riunioni, per le
220
feste e per lavoro ci siamo conosciute. In pratica, ho due famiglie. Basta che dica
loro che ho bisogno di qualcosa e loro ci sono. Mi fa tanto piacere perché non ho
parenti qui, a parte la zia dei miei figli. Quando ho partorito ci sono stati loro
dalla mattina fino alla sera. Dovevo andare in ospedale e loro mi
accompagnavano. Hanno due figli, e io sono la loro terza.
Non sono mai andata in America e non ho voglia di andarci. Sai perché? Se vado lì
temo di rimanerci, sicuramente vorranno che resti. Perché per la mia famiglia
sono sempre la più piccola. Dico loro sempre sì, l’anno prossimo vengo, ma poi
non ci vado mica. Così dopo 17 anni è venuta qua mia mamma. Mi ha detto sono
vecchia e voglio vederti. In realtà, voleva vedere i nipoti. Poi non è che si
intendevano perché lei parla tigrino, parla anche in amarico. Meno male che c’era
mia sorella a fare da traduttore! In casa parliamo solo italiano, purtroppo. Mi
informo su quello che succede in Etiopia e in Eritrea, tramite internet. La
televisione non dice niente. Guardo dei blog.
Il mio futuro è qui, al Monte. Sono una montigiana, ormai. Non so perché non
mi va di andar via, ma penso che non mi ritroverei così bene. Nessuno ci dice
nulla sul fatto che siamo stranieri, anche la scuola per i miei figli va bene. E se io
cambio non so che succede. Qui siamo pochi, fuori mi conoscono tutti. Con i
genitori dei compagni di classe ci vediamo per i compleanni e le feste. Anche con
le maestre mi trovo bene, ho un buon rapporto. Per i miei figli vorrei che
studiassero. Se volessero fare l’università sarei felice perché mi ripagherebbero di
tutto. Io… se tornassi indietro continuerei, è sempre così che va… Se poi il
maschio vorrà andare in America va bene. Per ora non ha voglia di staccarsi. Ora
andrà alle superiori, all’ITIS e vediamo che succede.
Non ho la cittadinanza italiana e neppure ho fatto la domanda. Ho la carta di
soggiorno a tempo indeterminato. Ma noi ci sentiamo già italiani, non c’è fretta...
Quelli dell’Etiopia qui mi dicono te sei troppo italiana, gli italiani mi dicono te
parli troppo del tuo paese. Mi trovo proprio a metà. Quando parlo al telefono
nella mia lingua gli italiani mi dicono non si capisce niente, se parlo in italiano con
qualcuno del mio paese mi dicono te parli troppo in italiano. Per me questo è un
problema. I miei figli praticamente sono montigiani, sono nati qui. Non a tutti va
bene, ma a me va bene. Alle mie paesane e a quelli dell’Etiopia non va bene
perché i miei bambini praticamente sono diventati italiani ma non sono italiani.
Dell’Eritrea qua non conosco nessuno, dell’Etiopia sì. Ci si incontra e ci si vede
spesso perché ormai siamo una famiglia. Poi basta, il resto sono tutti italiani.
Però conosco una famiglia originaria del Senegal. Loro mi hanno fatto da baby
sitter per tutti e due i miei figli. Quando andavo al lavoro li lasciavo a loro, poi
tornavo a prenderli. Ora faccio il part-time e lavoro solo la mattina. Quando il
maschio era piccolo facevo i turni, la mattina alle 6 lo portavo lì poi alle 2 lo
riprendevo. Facevo le notti, mattine e pomeriggi. Lei mi ha salvata. E così anche
221
l’altra famiglia, quella italiana. Portavo mio figlio da lei tutto imbacuccato alle 6
di mattina, lei lo vestiva e me lo portava all’asilo. Al ritorno lo prendevo io.
Quando sono andata a Roma a fare il passaporto me l’ha tenuto lei. Questo
nessuno lo fa se non ci tiene a te.
Non so bene cosa sia scattato con queste famiglie. Non so cosa loro hanno trovato
in me. Sono sempre stata scorbutica e lo sono anche ora. Anche mio figlio. Loro
se mi devono dire qualcosa me lo dicono. Forse avevo bisogno di una mamma, di
un punto di riferimento perché essere da sola non è facile per niente. Se mi si
ammala il bambino chiamo lei. Una volta mi ha portata a Firenze al Meyer perché
l’ho stressata tanto. Per fortuna la mia bambina non aveva nulla. Siamo andate lì
tutto il giorno e poi non aveva niente. Però per farmi stare tranquilla mi ha
portata fino là. Dico, non è da tutti!
Con la pediatra invece non mi sono trovata bene. L’ho cambiata appena ho
potuto. Non mi ha saputo aiutare. Dopo che l’ho lasciata ho scoperto che i miei
figli hanno un sacco di cose che non vanno, e lei non ci aveva detto nulla. Il bimbo
è allergico a tantissime cose e la bimba ha problemi alla tiroide. Quando lui aveva
il mal di schiena lei diceva che era solo vagabondo e non gli andava di camminare.
Poi quando l’ho portato dall’ortopedico mi hanno detto che ha i piedi piatti. Ha
tenuto per due anni i plantari. Ho scoperto che la bimba aveva problemi alla
tiroide quando aveva sei anni e forse la pediatra avrebbe potuto fare qualcosa.
Forse prima non si vede, non lo so…
Ogni tanto vado al consultorio. Quando vado c’è sempre un dottore diverso e
così devi spiegare tutto da capo, tutte le volte. Questo non è bello. Qualche volta
le persone ci portano anche i ragazzi che studiano. E anche questo non è bello.
Quando ero incinta del maschio sono andata da un dottore privato perché prima
non sapevo dell’esistenza del consultorio. Dopo che è nato l’ho scoperto e
quando è nata la bambina ci sono andata.
Vado ad Arezzo. Ogni volta c’è un medico diverso. Per le cose che avevo io
dovevo spiegare sempre. Leggono il foglio ma glielo devi dire tu.
Il fine settimana andiamo in giro. All’outlet, al cinema quando esce un film che
piace al maschio. Lui va matto per i film. Si va lì o all’Ipercoop. Dove posso
guidare. Di andare lontano con la macchina ho paura, guido solo sulle strade
piccole. Questi sono i nostri divertimenti.
5. Donne della migrazione: tra bisogni, simboli e desideri
Dalle interviste appare evidente la diversificazione dei progetti e delle strategie
migratorie messe in atto dalle nostre intervistate. Tale diversificazione inizia dallo
stesso momento dell’arrivo sul territorio italiano e prosegue con l’evolversi della
222
vita familiare, lavorativa e sociale. Ciò nonostante è possibile leggere quanto
emerso attraverso alcune dimensioni trasversali, tra loro connesse e collegate.
Queste stesse dimensioni, possono anche fungere da “punti di attenzione” per la
costruzione di percorsi di iniziative e strategie in grado di rispondere
positivamente ai bisogni specifici del nostro campione.
La prima dimensione riguarda i consumi e le rappresentazioni di “casa”.
L’osservazione diretta delle abitazioni delle intervistate e le narrazioni emerse, ci
mostrano un quadro piuttosto ambivalente, fatto di sentimenti spesso
contraddittori che rappresentano vite sospese tra due paesi. Come sottolineano
gli antropologi non è tanto il fluire in sé di oggetti e beni ad essere significativo,
ma piuttosto le modalità attraverso cui beni ed oggetti vengono rivestiti di
significati culturali e simbolici. Un ambito di analisi significativo è proprio il
modo in cui questi beni ed oggetti contribuiscono a rappresentare la “casa”.
“Casa” è qui concepita sia come spazio fisico della famiglia sia come elaborazione
simbolica del luogo o dei luoghi a cui si appartiene. E sono proprio le donne che
decorano ed arredano le loro case con oggetti che portano con sé o che parlano
del proprio paese di origine.
Quel che si evince dalla interviste è il “vivere la casa” come uno spazio costruito
dall’interazione e dalla combinazione di beni e pratiche che simbolizzano la loro
doppia appartenenza, come ad esempio: piatti con stemmi di enti locali italiani
accanto a stampe con scritte in arabo; oggetti senegalesi in legno; disegni appesi
dei bambini raffiguranti la moschea; e così via.
L’arredamento, soprattutto nelle case delle donne marocchine richiama il mondo
arabo o l’appartenenza religiosa con divanetti bassi, quadretti con scritte
coraniche e calendari stampati di una macelleria islamica di Arezzo.
Anche il cibo conservato in casa riflette questa doppia appartenenza. Insieme al
cibo italiano, anzi spesso cibo e bevande delle multinazionali, si trovano spezie e
pietanze tipiche come l’enjera etiope. Il cibo rappresenta e crea un senso di
appartenenza e di identità, ad esempio il consumo di pasti marocchini con gli
ospiti è un modo per oggettivare il proprio background dato che il consumo di
cibo rappresenta un’incorporazione simbolica del luogo che i sapori richiamano
(Sailh, 2008). Durante una delle interviste un signora marocchina ci offrì cibo
tradizionale appositamente preparato per noi.
Anche in questo caso, molti sono i parallelismi che possiamo trovare nella storia
migratoria interna italiana. L’importanza del cibo e delle tradizioni che
accompagnano le nostre trasferte e vacanze da parenti che vivono in un’altra
regione, per non parlare poi di chi si reca nelle regioni del Mezzogiorno.
Accanto a ciò le narrazioni tramettono anche una certa tensione intorno all’idea
di casa: “Anche la casa per noi è una vergogna, vorrei avere una casa giusta per la
223
mia famiglia, invece i miei figli dormono tutti nella stessa camera e quando entra
qualcuno da noi, ti dico la verità mi vergono [piange]” (A.)
Per molte intervistate, la casa dove vivono non rappresenta un ambiente
confortevole e adatto alla esigenze di famiglie spesso numerose. In diversi casi si
tratta di case di edilizia popolare, in altre di affitti messi a disposizione dall’ente
comunale, ma quel che emerge soprattutto con la presenza di figli è la ricerca di
riconoscimento sociale attraverso il conformarsi ad uno stile di vita rappresentato
dall’uso e possesso di certi beni. Ad esempio, per più di una donna del Marocco è
importante che i loro figli abbiano camere separate e vestiti e scarpe uguali ai
compagni di classe. Quando però le condizioni economiche non permettono
l’acquisto di questi beni di consumo alcune madri negoziano con i propri figli la
propria “differenza culturale” all’interno di una società dei consumi che pone
fondamentale l’omologazione a certe mode, mentre altre vivono con frustrazione
il non riuscire a conformarsi.
L’interpretazione del consumo come pratica sociale attraverso cui le donne
migranti affrontano le tensioni derivanti dalla propria condizione sociale di
migranti e lavoratrici a basso costo è emersa anche tra le altre donne intervistate.
Sicuramente decidere su dove “investire” dal punto di vista materiale e simbolico,
rappresenta un ambito di negoziazione e discussione importante tra madri e figli,
soprattutto in una realtà caratterizzata da scarse possibilità economiche. Diviene,
dunque, prioritario per il proprio futuro e per quello dei propri figli andare oltre
il capitale economico, rappresentato dagli oggetti materiali, per valorizzare il
capitale simbolico a lungo termine.
Un secondo aspetto concerne la conoscenza della lingua italiana.
Molte e differenti le criticità che incontrano le nostre intervistate, in particolare
la difficoltà ad apprendere la lingua italiana:
La principale difficoltà che ho incontrato è stata la lingua. Quando sono arrivata non parlavo
nemmeno una parola (F.)
I miei rapporti con le persone del posto sono molto scarsi. Il problema è sempre la lingua italiana,
non riesco a comunicare. Magari mi parlano ma non riesco proprio a capire. Avevo iniziato a
frequentare un corso di italiano ma avevo i bambini piccoli e non ce la facevo. Però potrebbero
fare dei corsi di italiano la mattina, perché le donne che non lavorano sono più libere avendo i figli
a scuola. In casa parliamo arabo e guardiamo i programmi in arabo. A parlare con le insegnanti va
mio marito (R.)
La competenza linguistica e l’apprendimento linguistico risulta essere questione
cruciale e strategica per relazionarsi nel nuovo contesto e sono proprio le donne
che presentano maggiori difficoltà nell’apprendimento dell’italiano, rispetto agli
uomini:
224
In casa parliamo arabo, la televisione la guardiamo sia in italiano che in arabo. Ho fatto un corso
breve di italiano. Sono una persona che parla con tutti, mi fermo a parlare con tutti così imparo.
Con i vicini di casa ho imparato a parlare. Poi vado all’ospedale e devo parlare, ai colloqui con i
maestri devo parlare… e alla fine ho imparato. Però mi piacerebbe fare un corso che inizia da
zero, dalle basi della grammatica soprattutto per concentrarmi sullo scritto. Ai corsi puntano
sempre sull’orale e io già so qualcosa. Mi piacerebbe imparare a scrivere e leggere anche per
aiutare i miei figli con i compiti (A.)
Le donne del Marocco tendono ad occuparsi prevalentemente della famiglia,
anche se sempre più frequentemente entrano nel mercato del lavoro produttivo.
Certamente l’assenza di una rete familiare che si sostituisca alla donna nel lavoro
domestico e nell’accudimento dei figli, pesa sulla scelta lavorativa, così come pesa
la mancanza di mezzi di trasporto privati.
Ora è diverso, parlo molto in italiano con la mia amica italiana. E poi ho imparato anche grazie
alla mia amica polacca poiché lei non parla arabo. In famiglia parliamo più italiano che arabo,
mentre con mio marito parlo arabo. Ho fatto un corso di italiano per un mese ma non mi è servito
a niente. Avevo il bambino piccolo, stavo dietro a lui e non seguivo. Però mi piacerebbe fare dei
corsi per migliorare l’italiano (F.)
Ciò nonostante l’apprendimento della lingua è ampiamente riconosciuto come un
fattore essenziale ai fini dell’integrazione. Sviluppare le competenze linguistiche
significa avere migliori opportunità di lavoro, maggiore indipendenza e maggiore
partecipazione al mercato del lavoro, specie delle immigrate. Quel che si nota dal
nostro studio è che l’apprendimento della lingua passa essenzialmente attraverso
le relazioni con amici, vicini di casa e “guardando la televisione”.
La condizione lavorativa. Solo poche intervistate lavorano e di queste per lo più
sono impegnate nel settore domestico. Sono lavori spesso molto saltuari come ci
testimonia una delle donne: “faccio le pulizie part-time. In realtà, ho fatto una
scuola per diventare addetta all’assistenza di base, ma mi serviva un part-time per
portare i bambini a scuola” (Y).
Tra i principali motivi del non inserimento nel mercato del lavoro c’è l’assenza di
una rete familiare di accudimento dei minori “in passato ho fatto la badante da una
signora, ma poi ho dovuto lasciare poiché mi chiedevano di stare lì giorno e notte
e con la famiglia non lo posso fare” (F).
L’attività di cura è considerata primaria per la moglie/madre nella divisione dei
ruoli all’interno delle famiglie intervistate, ma allo stesso tempo la condizione
economica della famiglia, caratterizzata in molti casi dalla perdita di lavoro del
marito, spinge la donna ad entrare nel mercato del lavoro: “faccio le pulizie,
225
quando mi chiamano vado. La mattina penso a dove andare per trovare il pane da
dare ai miei figli” (F).
Accanto alla scarsa presenza nel mercato del lavoro, sicuramente aggravata dalla
congiuntura economica attuale, emerge anche una segregazione lavorativa che
confina le nostre intervistate esclusivamente al settore domestico. Gli studi
sull’inserimento lavorativo dei migranti (Ambrosini, 2005; Berti-Valzania, 2010;
Zanfrini, 2004) sottolineano con forza da anni come l’inserimento di tali cittadini
e cittadine sia avvenuto all’insegna di un’integrazione subalterna. Segnalano anche
come l’emigrazione possa rappresentare per le donne migranti inserite in società
patriarcali un’occasione di emancipazione, ma allo stesso tempo denunciano come
la nuova divisione internazionale del lavoro assegni alle donne un ruolo
nettamente subordinato rendendole la componente più vulnerabile dell’offerta di
lavoro (Zanfrini, 2004). Il quadro descrive, in estrema sintesi, disuguaglianze fra
generi e tra italiane e straniere frutto di una commistione di elementi
riconducibili al contesto di origine, elementi specifici della migrazione (ad
esempio l’assenza di reti familiari) ed altri riconducibili alle caratteristiche del
contesto locale dove vivono. Ciò rende difficile l’accesso al mercato del lavoro e
la fuoriuscita da quello che è il settore praticamente appannaggio di questa
categoria di lavoratrici, ma al contempo non lo precludono.
Ad esempio con la crisi economica e la perdita del lavoro del marito alcune
intervistate mostrano come la donna sappia far proprio il progetto migratorio del
marito (che è un progetto principalmente finalizzato al successo economico) e
giocare un ruolo propulsivo e attivo alla famiglia.
Le relazioni. Dalle testimonianze si evincono due principali modalità di relazionarsi
con il contesto sociale in cui risiedono. Un gruppo mostra scarse relazioni, vivono
in una situazione di isolamento e solitudine:
Al Monte io mi trovo bene, anche se spesso resto a casa, non vedo nessuno. [...] I miei rapporti
con le persone del posto sono molto scarsi. Il problema è sempre la lingua italiana, non riesco a
comunicare. Magari mi parlano ma non riesco proprio a capire. Con i vicini di casa ci
incontriamo, ma non ci frequentiamo [...]. A parlare con le insegnanti va mio marito. Dal medico
di famiglia qualche volta ci vado da sola e qualche volta con mia figlia. Quando c’è la moglie del
dottore mi ascolta lei che riesce un po’ a capirmi. Per le gravidanze sono andata al consultorio
accompagnata da mio marito e qualche volta da mia figlia (R.)
In questi casi la condizione di solitudine sembra essere presente in quei gruppi di
donne che per diversi motivi hanno maggiori difficoltà nell’accedere al mercato
del lavoro e a occasioni di apprendimento della lingua italiana. Il luogo di lavoro e
226
i luoghi dedicati alla formazione si confermano, almeno potenzialmente, come
spazi di interazione e relazioni.
In questi nuclei familiari il marito e/o figli grandi ricoprono spesso il ruolo di
accompagnatori tra la donna e il contesto sociale soprattutto per quanto riguarda
l’accesso ai servizi.
Non esco tanto. Per lo più sto con mia mamma e le mie sorelle. Anche quando non ero sposata
non uscivo molto. Giusto dopo la scuola con le amiche, ma la sera no. Io sono fatta così, non esco
molto. Con i vecchi compagni di classe ci salutiamo ma non ci frequentiamo (MF.)
Anche in questo caso si rileva una commistione di elementi socio-culturali e di
elementi riconducibili al contesto locale. La divisione del lavoro all’interno della
famiglia, il ruolo della donna e gli obblighi che questa deve assolvere si
sovrappongono alle poche opportunità che queste hanno di imparare la lingua
italiana e di entrare nel mercato del lavoro.
Non conosco italiani, non li frequento. Non conosco le famiglie dei compagni di classe delle mie
figlie. Io sto sempre qui, ma loro (le figlie) li frequentano. Con gli insegnanti poi non ci sono
rapporti (AT.)
In uno scenario ricorrente, talvolta troppo stereotipato, di donne migranti come
oppresse e sfruttate, dalle nostre interviste emerge un secondo gruppo di donne
che dimostrano nella quotidianità della vita di essere capaci di un’autonomia e di
instaurare relazioni sociali che non sono quelle del loro passato, ma neanche
quella tipiche delle donne occidentali.
La maggior parte delle mie amicizie sono italiane, con i marocchini ho poco contatto. Ogni tanto
mi vengono a trovare delle amiche italiane che mi danno una mano anche economicamente, mi
portano un po’ di spesa, i vestiti per i bambini… Sono tutti bravi, anche le maestre (AN.)
La cooperativa è come una grande famiglia. La madrina e il padrino di una delle mie figlie posso
chiamarli mamma e papà praticamente. Sono più grandi di me e mi considerano come una figlia,
se c’è qualcosa che non va chiamo subito loro. [...]. Però conosco una famiglia originaria del
Senegal. Loro mi hanno fatto da baby sitter per tutti e due i miei figli. Quando andavo al lavoro li
lasciavo a loro, poi tornavo a prenderli. Ora faccio il part-time e lavoro solo la mattina. Quando il
maschio era piccolo facevo i turni, la mattina alle 6 lo portavo lì poi alle 2 lo riprendevo. Facevo
le notti, mattine e pomeriggi. Lei mi ha salvata. E così anche l’altra famiglia, quella italiana (Y.)
Queste donne, capaci di superare le differenze di nazionalità e di religione,
incontrandosi regolarmente si scambiano sostegno psicologico ed aiuto concreto
come nel caso dell’accudimento dei figli. Nonostante i vincoli che abbiamo visto
227
durante, appare evidente lo spirito d’iniziativa e la capacità relazionale di queste
donne che va oltre la dimensione etnica.
Sulla base del lavoro di ricerca abbiamo più volte sottolineato come i percorsi e
delle strategie femminili siano articolate e plurali. Ciò nonostante le condizioni di
isolamento (parziale o totale), una scarsa conoscenza della lingua e il difficile
inserimento nel mercato del lavoro hanno un effetto cumulativo che stratificano e
rinforzano l’accesso e l’uso dei servizi.
Dalle interviste da una parte rileviamo una buona conoscenza dei servizi sanitari
come il consultorio, il pediatra e il medico di famiglia, ma dall’altra parte
permangono notevoli difficoltà di comprensione ed autonomia:
Vado da sola dal medico di famiglia e dal pediatra, riesco a capire abbastanza bene… e ora ho
anche chi mi traduce: mio figlio (AN.)
Risulta chiaro che misure di sostegno ed azioni continue, finalizzate e calibrate su
bisogni specifici siano da implementare per migliorare il processo di integrazione
e diminuire le disuguaglianze.
Accanto ciò è importante intervenire con azioni che vadano nella direzione di
prevenire e rimuovere le condizioni che limitano in primis le possibilità di
apprendimento linguistico ed inserimento lavorativo.
Riferimenti bibliografici
Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna.
Berti F., Valzania A. (a cura di) (2010), Le nuove frontiere dell’integrazione,
FrancoAngeli, Milano.
Centro studi e ricerche Idos (2014), Dossier statistico immigrazione 2014,
Unar/Idos, Roma.
Favaro G., Tognetti Bordogna M. (1991), Donne dal mondo. Strategie migratorie
al femminile, Guerini e Associati, Milano.
Osservatorio sulle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo (2015), La
presenza straniera in provincia di Arezzo, Report n. 51, Sezione Immigrazione,
Arezzo.
Osservatorio sulle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo (2012),
L’immigrazione nelle zone della Provincia. Rapporti Zonali, Report n. 38, Sezione
Immigrazione, Arezzo.
Sailh R. (2008), Identità, modelli di consumo e costruzione di sé tra il Marocco e
l’Italia, in Riccio B. (a cura di), Migrazioni transnazionali dall’Africa, Utet
università, Novara.
228
Tognetti Bordogna M. (a cura di) (2004), Ricongiungere la famiglia altrove,
FrancoAngeli, Milano.
Tognetti Bordogna M. (2012), Donne e percorsi migratori, FrancoAngeli,
Milano.
Zanfrini L. (2004), Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari.
229
Capitolo 3
Che genere di città? Parole femminili migranti svelano Arezzo
di Alessia Belli
1. Introduzione
Nato dall’esigenza di leggere nelle pieghe del tessuto migratorio aretino, questo
saggio si pone come una narrazione, un racconto qualitativo su e di una parte di
popolazione generalmente più invisibile e vulnerabile, le donne straniere (1).
Poiché i dati sulla crescente femminilizzazione del fenomeno migratorio poco
dicono di chi siano, di cosa abbiano bisogno e a cosa aspirino tali soggetti, si è
utilizzata una metodologia femminista basata sull’esigenza di ascoltare le voci,
come strumento non solo descrittivo ma anche di emancipazione. La parola e lo
sguardo diventano cioè un modo per rompere il muro della solitudine e
dell’emarginazione, per poter dire “io sono”, condizione imprescindibile per
consolidare una nozione e una prassi di cittadinanza attiva e partecipata. Lo scopo
di una ricerca-azione femminista è infatti quello di promuovere e attuare una
trasformazione sociale tale da garantire equità e giustizia per tutti e per tutte a
partire dalle asimmetrie di potere esistenti e operanti che penalizzano in primis le
donne (Maguire, 2006). 35 quelle che hanno partecipato alla ricerca diverse per
età, etnia, classe sociale, stato civile, religione, lingua, in modo da riflettere i
caratteri della presenza femminile straniera sul territorio aretino (Luatti, Tizzi, La
Mastra, 2012) (2). Attraverso interviste semi-strutturate e un laboratorio
fotografico sono state esplorate le loro percezioni vis a vis i processi di inclusione
sociale e lavorativa: al centro, in altre parole, non solo potenzialità e criticità del
vivere ad Arezzo, ma anche le specifiche domande di città, la progettualità per un
abitare che le riconosca, le includa e le valorizzi come soggetti attivi. Ed è
appunto l’agency il concetto fondamentale che anima le seguenti pagine: le voci e
gli sguardi delle cosiddette minorities within minorities (Eisemberg, Spinner-Halev,
2005), diventano una bussola importante per ripensare la cittadinanza in termini
di multiculturalismo progressista (Phillis, 2007; Narayan, 2002, Deveaux, 2006).
2. Vivere ad Arezzo
Arezzo si colloca da una parte entro un framework nazionale di generale ritardo
sulle questioni dell’immigrazione, il cosiddetto “modello assente” italiano (Allievi
2010), e dall’altra entro il modello virtuoso toscano con il suo sistema diffuso e
230
“decente” di accoglienza (Margalit, 1996) (3). Questo, in particolare, si
caratterizza per un’attenzione legislativa ad hoc (L.r. 29/2009) nei confronti delle
persone di origine straniera e per un approccio basato sull’implementazione di
percorsi di integrazione partecipati che riconoscono e valorizzano le diversità
(Luatti, 2012) (4). Rispetto a tale quadro Arezzo presenta un carattere
intraprendente, avendo ormai da tempo maturato esperienze significative quali la
Casa delle Culture, o che riguardano l’associazionismo di e per stranieri nonché
l’organizzazione di importanti eventi multiculturali (Colloca, Milani, Pirni,
2012). Non potendo soffermarmi sulla molteplicità dei fermenti locali aretini,
cercherò nei seguenti paragrafi di analizzarli dall’interno attraverso la vivida
esperienza delle mie interlocutrici. Riesce Arezzo a rispondere alle domande di
città delle donne straniere, offrendo loro quell’ascolto e quel protagonismo che
sono i presupposti di una città realmente multiculturale?
3. Io che parlo, io che dico: narrative migranti
Il primo punto che la ricerca ha voluto esplorare è stato quello delle motivazioni
che hanno spinto le donne a lasciare tutto ciò che avevano nel paese di origine e a
intraprendere un’avventura così radicale come la migrazione. La ricostruzione
dell’esperienza migratoria, infatti, è il primo passo nel processo di ri-acquisizione
del sé e presupposto per diventare soggetti attivi e partecipi del proprio contesto
di vita. La crisi economica, la volontà di garantire ai figli un futuro migliore, le
continue vessazioni per l’assenza di uno stato di diritto, ma anche l’amore per un
uomo, alimentano quella “folle razionalità” che le fa scegliere di partire e
ricominciare da zero. Ma ciò che mi ha maggiormente colpita in queste narrazioni
sono i racconti della guerra: in un periodo di crescente razzismo, ripercorrere
con loro la fuga dai conflitti può ravvivare l’empatia, unico sentimento che è in
grado di spezzare l’odio che relega l’altro in una posizione di invisibilità. La forza,
l’umanità e la dignità che trapelano dalle loro voci possano cioè costituire un
punto di unione e di collaborazione. Abitare in un paese in guerra significa vivere
quotidianamente i bombardamenti, le uccisioni arbitrarie, l’incertezza, la paura
costante di morire, la rabbia. Significa rischiare di essere stuprate di fronte alla
propria famiglia, mentre si attraversa il deserto, durante le detenzioni nelle
prigioni dei vari paesi che si attraversano, serbando tutta la violenza nel silenzio di
sé, per orgoglio, per vergogna, per paura. Fame e sete nei lunghi tragitti, le botte
dei conducenti, dei guardiani, dei ribelli. Con questo peso nel cuore arrivano ad
Arezzo conservando però la forza e la speranza di andare avanti, comunque. Una
città resa piacevole per la sua sostenibilità: ritmi tranquilli, bellezza paesaggistica,
ricchezza storica e artistica la rendono una meta apprezzata. Varia, invece, la
231
geografia delle relazioni che riflette i valori portanti dei milieux culturali di
origine: chi apprezza la solidarietà degli autoctoni e chi invece ne denuncia la
chiusura e finanche il razzismo, non generalizzato ma pur presente e operante
soprattutto verso chi è visibilmente diverso, e che si manifesta nelle strade, nei
parchi, nelle scuole, nei mezzi di trasporto. Molto diffuso il giudizio di
immoralità che spesso tocca le donne straniere, accusate di volersi accaparrare gli
uomini italiani e vivere da parassiti. Una delle intervistate, una somala, nera e
velata ad esempio, ha riferito gravissimi atti di razzismo da parte di un gruppo di
giovani italiani alla fermata dell’autobus: questi ragazzi non solo la offendono
verbalmente, ma le impediscono di salire sul mezzo nell’indifferenza del
conducente. Il colore della pelle e l’uso del velo nel suo caso risultano due fattori
determinanti di stigmatizzazione e di esclusione sociale.
4. Le figlie dell’immigrazione
Uno sguardo interessante e rivelatore dei vari aspetti dell’integrazione è quello
delle cosiddette figlie degli immigrati (5), un serbatoio ancora ampiamente
inesplorato e inutilizzato. La prospettiva delle giovani è interessante in virtù del
loro posizionamento strategico al crocevia di due culture, quella di origine e
quella di accoglienza, che permette di cogliere caratteristiche, limiti e potenzialità
di ciascuna. La ricerca ha beneficiato principalmente della testimonianza di
giovani di origine bengalese, una comunità che per ragioni culturali, linguistiche e
religiose rappresenta un’affascinante laboratorio di osservazione e di riflessione.
Dura è la lotta che esse devono combattere contro le forme di controllo operanti
in modo diverso sia nella cultura di origine che nella società aretina: adeguarsi al
rigido codice di condotta avallato dalla comunità o seguire le leggi dell’estetica
per apparire come gli altri ed essere accettate, finiscono per sacrificare la capacità
di sviluppare la propria prospettiva al giudizio e quindi all’approvazione o alla
mancata approvazione da parte degli altri. Rispetto a ciò vivere ad Arezzo
rappresenta comunque una chance di realizzare i propri sogni e aspirazioni.
Mediazione è la strategia elaborata per ricavarsi uno spazio di libertà, una
prospettiva di sviluppo personale e di carriera contro le pressioni a sposarsi: ben
consapevoli dei limiti culturali delle prime generazioni, che non sono in grado di
comprendere le esigenze delle figlie relativamente al vivere e all’inserirsi nel
contesto italiano, ma avendo altresì ben chiari i propri bisogni, agiscono un’arte
del compromesso, una saggezza pratica che permette loro di trovare l’equilibrio
tra istanze diverse. Sono ben consapevoli del ruolo che possono giocare in termini
di integrazione, proprio in virtù della conoscenza che hanno maturato di entrambi
i milieux. Di fronte alle resistenze e alle paure indotte da un contesto che si pensa
232
possa minacciare antiche e sedimentate tradizioni e ruoli di genere, le figlie
potrebbero essere non solo “il ponte”, ma anche quei soggetti in grado di
individuare percorsi e modalità di attrazione e coinvolgimento sostenibili dei
membri più anziani. Il fatto di essere interne a quel mondo, infatti, vale loro la
legittimità e la fiducia maschile e femminile, elementi cruciali per l’accettazione e
il successo di qualsiasi iniziativa. Le figlie, in questo senso, possono aiutare le
madri a capire non solo dove si trovino e come orientarsi nella nuova cultura, ma
soprattutto a comprendere ciò che vogliono, dimostrandosi così efficaci agenti di
empowerment. Considerando il contesto aretino numerosi sono ancora gli ostacoli
presenti nonostante le belle esperienze di solidarietà e supporto, soprattutto da
parte di insegnanti e compagni, raccontate dalle mie interlocutrici: anche la
scuola non è però esente da derive legate a ignoranza e grettezza o a forme più o
meno palesi di razzismo, “perché quando l’insegnante afferma: ‘ecco, vedete, lei
che viene dal Bangladesh sa l’italiano meglio di voi’, significa che tu parti da uno
scalino più basso, e questo a me mi fa soffrire”. Non va inoltre dimenticato che le
figlie degli immigrati scontano anche il ritardo italiano in termini di legge di
cittadinanza. Non solo infatti risulta difficile e lento ottenerla, ma rispetto al
valore simbolico attribuitogli dalle mie interlocutrici, la stessa cerimonia di
conferimento è spesso vissuta come deludente,
Mi hanno detto ‘benvenuta’: ma io che partecipo attivamente alla vita della città è un bel
po’; insomma anche la scelta delle parole è importante, perché così era chiaro che loro
non mi riconoscevano nella mia specificità... ero una dei tanti, anonima. Si dovrebbero
evitare le frasi retoriche. Io mi sentivo già italiana.
Al di là di questi impedimenti, ciò che emerge è comunque un grande desiderio
di partecipare. Tutte le intervistate sono attive nella società civile, all’interno di
associazioni di stranieri (Associazione Culturale del Bangladesh, Donne Insieme
etc.) o iniziative interculturali come l’OMA, la Festa dei Popoli e Popoli News.
L’entusiasmo però non basta e anche in questo caso le giovani chiedono attenzioni
maggiori affinché le loro capacità possano davvero fare la differenza. Chiedono, in
altre parole, orientamento e formazione oltre alla volontà di rendere accessibili
spazi e tempi di confronto per fare inter-cultura. Siamo di fronte a identità fluide
piuttosto che scisse (Afshar, 2012), in cui il radicamento nel tessuto locale si
coniuga ad una vocazione transnazionale: agenti di contatto, dunque, non solo
all’interno della società italiana ma anche tra questa e la dimensione
internazionale. Le giovani donne, in altre parole, sembrano offrire al concetto di
cittadinanza un più ampio respiro, dove il locale è in costante dialogo con il
globale. Renderle soggetti pienamente attivi potrebbe aprire interessanti orizzonti
233
di integrazione capaci di stringere le maglie della coesistenza tra comunità
straniere e società aretina.
5. Che genere di integrazione?
Il tema delle seconde generazioni e del loro modo di vivere la città offre
l’occasione per affrontare in modo più approfondito i diversi volti del sistema di
accoglienza aretino. Numerosi sono i livelli di analisi, profondamente
interconnessi, che si sono aperti i quali gettano una luce interessante su criticità e
punti di forza dell’integrazione ad Arezzo. Chi meglio delle donne straniere,
infatti, proprio per viverlo sulla propria pelle, può guidarci in un viaggio tra le
pieghe di tale universo? Occorre innanzitutto precisare che la città risente dei
ritardi nazionali in tema di politiche dell’immigrazione: il cosiddetto “modello
assente” si traduce infatti in rallentamenti e carenze organizzative nella gestione
della presenza straniera. Tali condizioni sono all’origine di situazioni di disagio
che impattano pesantemente la vita di molte donne. Nonostante ciò Arezzo, forse
anche in ragione delle piccole dimensioni, ha saputo elaborare un modello più
efficiente e funzionante rispetto ad altri contesti regionali e nazionali; un
modello, come una delle intervistate puntualizza, che non ha mai prodotto, ad
esempio, le lunghe file di persone incolonnate al freddo, in attesa fuori dalla
Questura: in città, in altre parole, gli immigrati hanno la possibilità di godere di
uno spazio di privacy e di umanità all’interno di strutture preposte. Anche in
questo senso, però, il continuo cambio di normative e la parcellizzazione delle
funzioni tra Questura, Poste e Patronati ha sicuramente avuto una ricaduta anche
sull’“oasi felice” aretina. I seguenti paragrafi sono dunque pensati per indagare luci
e ombre dei luoghi e delle modalità dell’integrazione ad Arezzo.
6. Forze centripete e centrifughe: come orientarsi nel labirinto degli
uffici?
Una questione centrale per la maggior parte delle intervistate è la generale
difficoltà nel reperire informazioni su cosa di debba fare e dove si debba andare
per espletare le varie pratiche burocratiche: in mancanza di un sistema ben
organizzato molte si affidano alla rete di conoscenze italiane e straniere che si
fonda sul passaparola. La creazione della Casa delle Culture come punto unico di
orientamento iniziale, di supporto e di incontro è comunque percepita come un
miglioramento in questa direzione. Nonostante ciò, alcune operatrici hanno
comunque ammesso la difficoltà a lavorare in modo continuativo e consistente
234
con i vari soggetti che gravitano attorno alla Casa: si tratta di dinamiche
centrifughe che chiamano in causa il cambiamento continuo delle normative
nazionali in materia di immigrazione. Elemento, questo, che richiederebbe una
formazione adeguata, il coordinamento, la condivisione e l’esistenza di una solida
rete tra soggetti territoriali preposti, elementi però tutt’altro che presenti. A
questo si aggiunga la lentezza e talvolta l’incoerenza della burocrazia in materia di
immigrazione che si unisce alle specificità caratteriali degli operatori: ancora poco
diffusa, cioè, quell’attitudine empatica che farebbe percepire gli uffici
maggiormente accoglienti per gli stranieri. Questo elemento lega il tema
dell’organizzazione e della necessaria formazione a quello che potremmo definire
“il fattore umano”. Sebbene siano molte ad apprezzare la disponibilità e la
gentilezza del personale, riconosciute come qualità importanti che infondono
fiducia in sé, altre ravvisano come una forte carenza la scarsa propensione
all’ascolto e un’altrettanto scarsa disponibilità a fornire spiegazioni da parte degli
operatori. Una questione che chiama sì in causa prima ancora delle (a volte
insufficienti) competenze linguistiche del personale, le capacità relazionali degli
stessi: “il problema non è tanto linguistico”, suggerisce una delle intervistate,
“perché ormai le informazioni si trovano in tutte le lingue; in realtà è la relazione
umana il vero problema”. È interessante notare come alcune interlocutrici tentino
di elaborare strategie di risposta capaci di superare l’ostilità: è il caso di una donna
brasiliana per la quale menzionare il paese di provenienza costituisce una sorta di
pass partout: “Io poi sono fortunata perché quando dico che vengo dal Brasile ci
scappa sempre qualche chiacchiera e apprezzamento verso il mio paese che in
generale piace agli italiani. Quindi il mio paese mi offre l’occasione di avvicinare
le persone anche negli uffici”. Ma non tutte sono in grado di giocare la carta
dell’intraprendenza e a fronte di alcuni casi fortunati, resta comunque un
consistente numero di soggetti che di fatto rimangono isolati (6), ai margini o
addirittura fuori dal sistema di integrazione.
7. Di sinergie e commistioni
Quando si parla di immigrazione, oltre agli uffici e agli enti pubblici si deve far
riferimento al complesso e eterogeneo universo del privato sociale che gioca un
ruolo cruciale nella gestione del fenomeno: esistono infatti varie realtà che
coordinano progetti, offrono corsi e servizi autonomamente o in partnership con
le istituzioni sia nella fase di prima accoglienza che in quella della vera e propria
integrazione. Al di là dei ruoli e delle competenze specifiche che lo differenziano
dalle istituzioni pubbliche, in generale nelle parole delle mie interlocutrici è
possibile ravvisare l’impressione di una maggiore disponibilità, empatia e
235
accoglienza, un supporto sia materiale che emotivo, da parte degli operatori del
privato sociale. Se da una parte le forme di interazione tra soggetti pubblici e
privati sono generatrici di buone opportunità a sostegno e a promozione delle
donne straniere, dall’altra esiste il rischio reale di overlapping. L’overlapping può
tradursi in problemi di ripetitività, spreco di risorse, mancanza di organicità e
consistenza, soprattutto a fronte di una contrazione dei fondi e di un incremento
della competitività tra gli attori che operano nel territorio. Uno degli ostacoli
principali, in questo senso, è rappresentato dallo scollamento tra il continuo
ampliamento della sfera della formazione agli/alle immigrati/e e l’effettiva
capacità di assorbimento professionale degli e delle stessi/e. Ciò che viene da più
parti sottolineato è la percezione della mancanza di una visione d’assieme, di una
finalità condivisa: in genere alcuni corsi vengono replicati da più associazioni,
oppure i primi livelli finiscono per non avere un seguito; si tende a pensare
troppo in grande, adottando approcci e modalità di azione astratti, poco
funzionali a far conseguire una reale indipendenza economica e sociale alle donne
straniere. Il fatto che non venga rilevata una ratio ha un effetto frustrante: la
mancanza di coerenza, infatti, fa sì che le domande finiscano per venire disattese.
Questo rimanda al problema della continuità delle iniziative, del debole
coordinamento tra attori del territorio (del mondo del lavoro e del mondo
dell’integrazione). La crisi economica aggrava quello che sembra essere diventato
un vero e proprio business dell’integrazione dove ciascun attore, in assenza di un
piano organico e regolamentato, tende ad accaparrarsi le scarse risorse
disponibili, insidiando così gli eventuali vantaggi di un’azione concertata. Tale
business, in altre parole, acuisce competizione e rivalità, parcellizzando e dunque
affievolendo gli sforzi messi in campo. Un esempio in tal senso è rappresentato
dai corsi di italiano per stranieri la cui proliferazione rende difficoltoso orientarsi
e fare una scelta veramente funzionale al percorso di integrazione. Se a questo
limite si aggiunge il fatto che l’ottenimento della cittadinanza non è vincolato ad
una adeguata competenza linguistica, e che nella maggior parte dei casi i corsi
privilegiano la parte grammaticale a discapito di quella laboratoriale basata sui
riferimenti al contesto cittadino, ai servizi presenti e a come usufruirne, si
comprende quanto ancora rimanga da fare per fornire uno strumento effettivo di
empowerment per le donne straniere, uno strumento cioè per muoversi in maggiore
libertà rispetto all’autorità maschile.
8. Una donna in politica, la politica per una donna
Quale miglior modo per comprendere più da vicino il funzionamento della
politica vis a vis il fenomeno migratorio se non ascoltando le parole della prima
236
donna straniera, Aurelia Ceoromila, entrata a far parte nell’aprile 2014 del
Consiglio Comunale di Arezzo con il Partito Democratico? Per prima cosa, il
fatto che una straniera sia stata eletta e abbia poi avuto accesso al Consiglio
Comunale rappresenta senza dubbio un traguardo e una conquista importante,
sia perché contribuisce a erodere le tradizionali resistenze del mondo politico
italiano all’ingresso femminile, sia perché sfida lo scetticismo e finanche
l’ostilità verso la presenza e la partecipazione attiva della popolazione
straniera, andandone ad implementare il segmento generalmente più
penalizzato, ovvero le donne. L’elezione di Aurelia, in altre parole, costituisce
la rottura di molteplici tabù, e racchiude un potenziale emancipativo per
l’intera comunità locale. Una voce e una presenza che proprio in virtù della
posizione strategica a cavallo di più mondi può offrire visioni e analisi preziose
in termini di più efficaci politiche e pratiche di integrazione. La carica di
consigliera è per lei il compimento di lunghi anni di attivismo che l’hanno
confermata come una figura di riferimento sia per la comunità rumena sia per
le istituzioni locali (7). Che cosa l’ha spinta, dunque, ad intraprendere questa
avventura?
Io sono sempre stata in mezzo ai governanti; mi impegnavo per la mia comunità, per
risolvere le cose. E ho visto che tutte le comunità hanno bisogno di una voce. Da qui
l’idea di partecipare per dare una voce; da dentro puoi fare di più. Così mi sono
informata sui diritti di partecipazione attiva e passiva alle elezioni amministrative.
Diventare consigliera, come ammette lei stessa, ha significato acquisire una nuova
consapevolezza e senso di responsabilità: quella che inizialmente era
un’attenzione particolare verso la comunità rumena, si è trasformata in un
impegno nei confronti dell’intera cittadinanza. La sua appartenenza diventa così
una risorsa che va ad arricchire una visione più ampia, un universalismo che
nutrendosi del riconoscimento delle differenze riesce a superare il rischio di
omologazioni e/o ghettizzazioni escludenti. Qual è il vantaggio di avere una
donna come Aurelia nel ruolo di consigliera? Come membro di una minoranza
all’interno di una minoranza, questa donna porta una sensibilità particolare che
facendo leva e rendendo prioritari proprio l’essere minoritari e lo svantaggio,
offre una visione di società potenzialmente più inclusiva. Nelle sue parole ricorre
spesso il concetto di dignità umana, di soglia minima da garantire anche ai più
indigenti, senza distinzione tra stranieri e autoctoni. Un atteggiamento teso a
riconoscere il fatto che gli stranieri sono portatori di certi bisogni specifici che
rendono necessari interventi ad hoc, senza con questo dimenticare la trasversalità
di alcune tematiche che toccano numerose fasce di popolazione. Cosa significa per
lei aver intrapreso questo percorso? Significa crescita personale, senso di
237
partecipazione diretta e di potere decisionale, di responsabilità delle proprie
azioni: in questo senso le parole e la presenza di Aurelia costituiscono un
importante modello prima di tutto per le altre donne straniere, affinché possa
crescere in loro quel senso di fiducia e speranza necessario per accedere alla sfera
pubblica; ma anche per tutte le donne e gli uomini aretini nella direzione di una
cittadinanza attiva e partecipe. La lentezza della burocrazia instilla talvolta un
senso di impotenza e di frustrazione facendo percepire il sistema come
fatalisticamente immobile e improduttivo, un mondo autoreferenziale che si
riproduce ad una distanza sempre maggiore dalla realtà quotidiana e dalle persone
che la abitano. Inoltre, la scarsa conoscenza delle comunità straniere rischia di
rendere l’operato politico nel settore dell’integrazione “un andare al buio, a caso.
Si guardano i servizi sociali, i racconti delle forze dell’ordine, ma senza cercare in
prima persona: la politica ha bisogno di informazioni precise per poter agire con
cognizione e efficacia, perché le comunità straniere hanno delle specificità”. La
prossimità e l’interazione sono infatti fondamentali per disinnescare la miccia di
quella conflittualità distruttiva che si annida in ogni forma di coesistenza plurale;
prossimità e interazione che sole, inoltre, potrebbero traghettare i nostri contesti
da un atteggiamento di mera tolleranza a uno di tipo multiculturalista. Allo stesso
modo, anche i molteplici progetti annunciati dovrebbero superare la
frammentazione che ancora li caratterizza, il livello delle parole e degli intenti,
delle conferenze stampa e degli eventi, che pur animati dalle migliori intenzioni,
dimostrano a volte di non avere la forza necessaria per insinuarsi nelle maglie e
negli ingranaggi delle complesse realtà aretine. Difficoltà, quelle delineate sopra,
che stanno alla base di atteggiamenti di scetticismo e disillusione da parte di
alcune intervistate: a parte il riconoscimento dell’impegno sincero profuso da
certe figure femminili della politica locale (8), si è da più parti sottolineato il
perdurare di un atteggiamento opportunistico da parte dei politici che utilizzano
talvolta la carta della difesa e della promozione delle donne straniere per coprire
interessi di immagine e per mantenere, di fatto, lo status quo in termini di
relazioni di potere vigenti (favorendo all’occorrenza specifiche realtà a discapito
di altre), scaricando poi quelle stesse donne quando non risultino più utili al
perseguimento degli obiettivi particolaristici. Sarebbero, cioè, un certo
opportunismo e una scarsa volontà ad agire che renderebbero difficile il passaggio
dalla promozione pur importante di eventi ludici e culinari in chiave
interculturale alla realizzazione di politiche di cittadinanza attiva. Ed è appunto in
questa direzione che la politica aretina è chiamata a produrre risultati davvero
incisivi che portino a frutto le già interessanti e meritevoli sperimentazioni
avviate. L’ingresso della prima donna straniera in Consiglio comunale è in questo
senso la conferma di una porosità e apertura a partire dalle quali si profilano
promettenti scenari futuri.
238
9. Sanità e lavoro: i volti della cittadinanza
Quando si parla di sanità, il sistema aretino sconta e riflette certi nodi nazionali,
declinati poi secondo limiti e potenzialità peculiari al contesto locale (Nuti,
Maciocco, Barsanti, 2013) (9). Se si guarda agli immigrati, il dato sopra
menzionato diventa più pesante: a fronte di un’ampia offerta, l’accesso reale da
parte di questo segmento di popolazione risulta ancora relativamente basso, anche
se i/le figli/e dell’immigrazione sono riusciti/e a integrarsi piuttosto bene nel
sistema usufruendo di conseguenza dei servizi in misura maggiore rispetto alle
prime generazioni e agli anziani, che tendono a curarsi di meno. Rilevato questo
dato di massima, va comunque riconosciuto l’impegno del Servizio Sanitario
locale verso l’individuazione e la gestione delle problematiche legate al rapporto
tra salute e cittadini stranieri, impegno testimoniato dalle numerose ricerche
(presenti anche in questo volume), pubblicazioni e progetti specifici. Se i
problemi di accesso, di una adeguata strutturazione del servizio e della necessità
di un punto unico dove reperire le informazioni sono importanti fattori ostativi,
vanno anche considerate le questioni relative a culture sanitarie diverse,
l’irregolarità, abitare lontano dal centro, non ricevere le informazioni o non
riceverle in lingua; pochi medici in grado di parlare correttamente con gli
stranieri in termini di competenze specifiche di comunicazione interculturale.
Nonostante numerose siano ancora le criticità aperte, il caso aretino presenta
tuttavia delle note promettenti. Una di queste, che ricorre spesso nelle
narrazioni, è il progetto sull’interruzione volontaria di gravidanza, fenomeno che
ha ancora una fortissima incidenza soprattutto all’interno della comunità rumena.
Si tratterebbe di una iniziativa interessante perché ha coinvolto direttamente le
donne, accompagnandole in un percorso di informazione e rendendole al tempo
stesso agenti consapevoli all’interno delle rispettive comunità (10). Questo
approccio, a detta di molte, dovrebbe essere replicato proprio in virtù
dell’attitudine alla valorizzazione dell’agency dei soggetti. In generale, porre al
centro l’esperienza femminile, curando oltre agli aspetti della maternità e
dell’allattamento più specificamente quello psicologico legato ai vissuti specifici
(“c’è tanto mal di vivere, hanno un peso dentro che non possono condividere”), è
una questione centrale che, seguendo le indicazione delle mie interlocutrici,
potrebbe assumere la forma del supporto da parte di specialisti (in caso di
violenze subite, e di altri tipi di traumi legati all’esperienza migratoria) (11), di
corsi di scrittura terapeutica etc. Quello della violenza, infatti, è un tema
ricorrente, ancora avvolto dal tabù, ma che molte sentono come urgente: che
assuma le sembianze della violenza domestica o della prostituzione, essa
rappresenta comunque un fenomeno trasversale che rischia di schiacciare le
239
donne straniere in una posizione di vulnerabilità permanente. La frammentazione
degli attori (mondo della politica e dell’associazionismo) e delle iniziative, il fatto
che le politiche sanitarie non siano ancora del tutto parte di quelle per
l’integrazione, e soprattutto la generale marginalità delle donne stesse
nell’elaborazione e realizzazione di quelle policies che proprio e/o anche a loro
dovrebbero essere rivolte, impedisce il passaggio dal livello, pur fondamentale,
della conoscenza dei fenomeni, alla progettazione e realizzazione di iniziative
sostenibili ed efficaci. Le buone prassi già avviate nel territorio, proprio in virtù
dell’approccio adottato, costituiscono un buon punto di partenza per elaborare
nuove ed efficaci strategie di azione.
10. Lavoro
Anche in questo caso le donne straniere si trovano a scontare, ancor più degli
autoctoni, gli effetti della crisi che già da vari anni ha colpito il paese. La crescente
disoccupazione acuisce a sua volta l’isolamento e la marginalità di soggetti già
particolarmente vulnerabili. Tra i principali fattori che le penalizzano quello
etnico-razziale, il mancato riconoscimento dei titoli e l’assenza di servizi di
orientamento, supporto e di bilancio delle competenze vanno ad unirsi alla
discontinuità delle azioni di formazione, generando un senso di frustrazione e di
scetticismo che ne disincentiva la partecipazione. Dalle testimonianze si evince
che sia operante, cioè, una sorta di scetticismo e finanche di razzismo verso le
straniere, percepite come inferiori. Il pregiudizio e lo stereotipo finiscono per
bloccarle entro una posizione sociale e lavorativa ritenuta dagli autoctoni consona
al loro status di straniere e che in genere corrisponde a occupazioni poco
gratificanti e retribuite e più precarie (segregazione orizzontale e verticale).
Rispetto alla tematica donne straniere/lavoro, un mondo a se stante è quello
delle badanti, un universo ancora ampiamente inesplorato fatto di reti informali
(spesso gestite da donne più anziane), dinamiche discriminatorie ma anche di
storie di solidarietà (da parte dei datori) che necessitano di un’analisi specifica e
più approfondita non ancora tentata. Un universo quindi, quello delle badanti,
tanto più difficile da raggiungere in quanto sembra retto dalla massima “io sono
qui per lavorare e basta” che lo rende impermeabile anche al tessuto associativo,
generalmente ritenuto un luogo di inutili e inconcludenti chiacchiere. I dati
disponibili mostrano una già significativa incidenza di problematiche legate sia
all’(ab)uso di alcolici sia a vari disagi psicologi di fronte ai quali si rende necessaria
un’iniziativa volta ad andare oltre la dimensione “tecnica” dell’incontro domandaofferta (la promozione cioè dell’emersione dall’irregolarità) ma sia capace di
individuare e rispondere ai bisogni di queste persone al fine di promuoverne la
240
salute psico-fisica. I vari nodi tematici che sono emersi nel corso del paragrafo
sono all’origine della scelta, da parte di molte, di dedicarsi al volontariato
all’interno di varie realtà aretine. Un ambito che, nonostante l’assenza di una
retribuzione, permette comunque loro di vedere riconosciute e incentivate le
proprie capacità, passioni, esperienze. Si tratta, cioè, come emergerà di seguito,
di un livello nel quale si rende visibile il grande potenziale inespresso delle donne
straniere.
11. Il protagonismo delle donne: una questione di agency
L’aspetto che più ha colpito la mia attenzione e che risulta rilevante per questa
riflessione è il tema dell’agency delle donne straniere. Sebbene in alcuni casi il
loro atteggiamento ricalchi i toni della richiesta di diritti e di servizi o sia teso a
criticare la mancanza di supporto, più spesso mi sono confrontata con donne
intraprendenti, ben consapevoli dei limiti del sistema di accoglienza e
integrazione aretino, ma altresì partecipi e impegnate in varie attività attraverso le
quali riescono a far breccia in quello stesso sistema e ad esprimere la propria
personalità (12). Al di là del disagio, che richiede un sostegno specifico al fine di
tutelare e garantire ai soggetti le condizioni minime per rendersi autonome e per
intraprendere un proprio percorso, ciò che emerge è una volontà diffusa ad agire,
prendere parte, sentirsi coinvolte e poter incidere sulla vita cittadina: il bisogno
di riconoscimento è per queste donne un elemento cruciale. È a tale fascia di
popolazione che vorrei prestare qui attenzione per cogliere quegli aspetti
importanti da valorizzare per modellare nuove forme di cittadinanza attiva e
partecipata, che sappiano creare un tessuto sociale coeso. Questa scelta permette
di coinvolgere sempre più soggetti, riducendo progressivamente situazioni diffuse
di marginalità (13). Parlare di agency delle donne straniere in questo senso
significa riferirsi principalmente al mondo dell’associazionismo. Più che il lavoro
infatti, grande convitato di pietra all’interno della ricerca, è il volontariato ad
aprire importanti spazi di azione: è qui che da fruitrici-utenti, le donne straniere
diventano operatrici-agenti. Le troviamo infatti coinvolte prima di tutto nella
Casa delle Culture: molte di loro hanno seguito l’iter complesso della sua
creazione, investendo tempo e progettualità per la realizzazione di un ideale.
Oltre a questo, le opportunità di essere volontarie nelle molteplici attività che si
sono dischiuse all’interno della Casa rappresenta “un’occasione di nutrimento per
l’anima”, tanto più gratificante in quanto avviene in un contesto di perdita di reti
amicali e di solidarietà che generalmente caratterizza l’esperienza migratoria. Il
fermento che accompagna la vita della Casa delle Culture rispecchia, secondo
molte delle voci ascoltate, una sorta di slancio nella voglia di fare associazionismo
241
le cui origini precedono però la nascita di questa realtà-contenitore: le donne
raccontano infatti di una pluralità di soggetti significativi che nel territorio di
Arezzo sono stati in grado di aprire finestre di opportunità per la popolazione
femminile straniera, mantenendo tuttora un ruolo significativo: l’Associazione
Donne Insieme e Ucodep (adesso Oxfam Italia) ad esempio. Un limite, quando si
parla di associazionismo per donne straniere è la recidività di un atteggiamento
assistenzialista che assume a volte le vesti di un certo “maternalismo” da parte
delle autoctone, che a detta di alcune tenderebbero a esercitare una forma di
controllo, quello sguardo da lontano e dall’alto, che finirebbe per perpetuare
forme di asimmetria e di inferiorizzazione nei confronti di chi viene da altri paesi.
Azioni di sostegno e di aiuto, dunque, che non riescono a rompere del tutto
antiche gerarchie di potere, impedendo di fatto una vera e profonda
emancipazione delle straniere, bloccate in un ruolo di dipendenza e deferenza. È
in alcuni importanti eventi e nel crescente attivismo di stranieri che le donne
riescono sempre di più a portare i loro talenti ed entusiasmo: nella Festa dei
Popoli o in Popoli News, la voce degli stranieri; un bimensile realizzato da una
redazione multiculturale quale strumento per esprimere l’energia e il desiderio di
partecipazione e di riconoscimento; l’OMA, Orchestra Multietnica di Arezzo,
un’occasione di conoscenza e contaminazione con persone provenienti da ogni
angolo della terra. E infine l’altro volto dell’associazionismo, quello di stranieri,
col suo grandissimo potenziale in termini di riconoscimento e valorizzazione delle
donne. Partendo dall’associazione rumena-italiana Dacii, una delle più antiche ad
Arezzo (quella rumena è la comunità più numerosa nel territorio) troviamo come
Presidentessa una donna particolarmente intraprendente che ha creato una forma
di auto-aiuto all’interno della comunità, mettendo in piedi una sorta di welfare dal
basso: autofinanziamento per aiutare i connazionali in difficoltà, servizio di
orientamento e di supporto in materia legislativa e burocratica, promozione e
conservazione della cultura rumena, cercando di coniugare radici e integrazione.
Dacii collabora inoltre con altri soggetti del territorio prendendo parte a progetti,
anche in ottica di genere, come quello sull’interruzione volontaria di gravidanza
(14). Ci sono comunque altre realtà che hanno come presidentesse delle donne: è
il caso dell’associazione latinoamericana Milagros e quella filippina Pinoy (15).
Un soggetto particolarmente dinamico è anche l’Associazione culturale del
Bangladesh con numerose iniziative che vedono coinvolte le donne (corsi di
italiano, di cucito, doposcuola etc.) nella veste di insegnanti e formatrici. Degno
di nota, in particolare, è il ruolo giocato da alcune figlie dell’immigrazione che
sono sempre più attive e propositive riuscendo a coinvolgere, attraverso un
sapiente lavoro di mediazione, soggetti finora isolati, scettici e/o riluttanti ad
ogni forma di contatto con la “cultura occidentale”, soprattutto le donne di prima
generazione. Ci sono giovani con grandi capacità progettuali, la cui propositività
242
potrebbe essere colta e messa nella condizione di esprimersi adeguatamente. Il
tema della formazione delle donne-risorsa diventa così fondamentale. In questo
senso, il fatto che l’associazionismo si basi quasi esclusivamente sul volontariato
costituisce un forte ostacolo rispetto a tale tema, precludendo di maturare quelle
competenze e professionalità essenziali per poter agire con continuità e in modo
significativo. A tale dato va aggiunto il fatto che l’associazionismo femminile è
ancora esiguo, c’è poca rete, è caratterizzato da un alto turnover interno (il che
rende molto difficile programmare percorsi incentrati sulle loro necessità e volti a
promuoverne le capacità), e che senza appoggiarsi a grossi poteri, quali le
istituzioni o a realtà come ARCI, le iniziative rischiano di rimanere troppo
sbilanciate sull’aspetto ludico-culinario rispetto a temi quali la salute, l’istruzione
e i diritti, questioni fondamentali quando si parla di cittadinanza attiva. Se si
affronta il tema dell’agency delle donne straniere, la questione che emerge con più
forza è quella legata agli incentivi necessari per nutrire creatività e attivismo,
soprattutto delle giovani generazioni, che sono una risorsa preziosa nella loro
fondamentale funzione di ponte tra mondi diversi. Supporto che le potrebbe
mettere in condizione di agire sia contro gli stereotipi diffusi nella società, sia
contro le pressioni conformiste e conservatrici ancora diffuse nelle comunità di
appartenenza. Atteggiamento, questo, che risulterebbe cruciale per superare
anche certi atteggiamenti assistenzialistici ancora molto radicati tra le comunità
straniere, principale ostacolo nei confronti di quel cambio di mentalità che formi
cittadini partecipi. Nell’attesa, non certo fatalistica e passiva, che tali fermenti
locali possano trovare il loro giusto corso, la sfera dell’associazionismo aretino
rimane per le donne straniere “quel nutrimento dell’anima e della mente” che è
fondamentale per il benessere della persona e per generare il senso di
appartenenza, ingrediente chiave per una nuova idea di cittadinanza agita.
12. Conclusioni
Al di là di tutti i limiti e delle problematiche che ho tentato succintamente di
mettere in evidenza in questo breve contributo, la caratteristica che rende
peculiare questo contributo e la ricerca in generale, è l’approccio che essa
deliberatamente adotta: a fronte di una crisi che minaccia la fruizione dei diritti
fondamentali e restringe le opportunità reali di cittadinanza partecipata, si è
preferito porre l’accento soprattutto sui fermenti locali, sulle buone prassi
avviate, sulle progettualità che vedono le donne straniere come soggetti attivi e
propositivi. Ben consapevole delle criticità esistenti, in altre parole, è però a
partire dalla consapevolezza delle potenzialità che teorie e prassi dell’integrazione
dovrebbero essere ridefinite, così da riflettere bisogni e aspirazioni non solo delle
243
persone cui sono rivolte, ma della comunità cittadina nella sua totalità. Affinché
questo slittamento prospettico, che si discosta dall’atteggiamento mainstream
securitario, conservatore e/o apertamente ostile verso le diversità, si realizzasse
sarebbe necessario percorrere alcune traiettorie indicate dalle donne stesse. Più in
particolare, si dovrebbero raccogliere i loro feedback sui servizi esistenti come
strumento di verifica e eventuale correzione rispetto al modus operandi di
associazioni e istituzioni. Occorre inoltre organizzare servizi di supporto che
seguano tutte le fasi e i livelli dell’inclusione, in conformità con le esigenze delle
donne anche per quanto riguarda il tempo libero. Sono loro che dovrebbero
essere chiamate a co-progettare spazi e tempi dell’integrazione e di una
cittadinanza che le riconosca e le valorizzi, attraverso, ad esempio, l’uso di
metodologie urbane partecipative. Non dovrebbe essere trascurato però il
supporto psicologico che risulta imprescindibile quando si ha a che fare con
l’esperienza migratoria e di inserimento in un nuovo contesto. Se si parla dei
disagi e delle criticità che le donne straniere devono affrontare, la violenza
domestica e la prostituzione, emergono come temi dominanti, che necessitano
azioni di contrasto, di protezione materiale, psicologica e di supporto anche
lavorativo: sarebbe allora opportuno entrare nella rete EDV Italy, esperienza
avviata nel 2013 dall’Università Milano Bicocca. Si tratta di un’iniziativa che tenta
di introdurre in Italia la missione di EDV GF (Global Foundation for the
Elimination of Domestic Violence) (16). Occorre, in generale, dare strumenti
alle donne, anche attraverso laboratori linguistici che permettano loro di
muoversi in libertà e autonomia. In questo quadro, due fasce di popolazione
femminile straniera hanno bisogno di un’attenzione particolare: si devono cioè
conoscere e studiare i mondi delle badanti e delle figlie dell’immigrazione
individuandone le caratteristiche e le necessità specifiche, disegnando servizi ad
hoc e pensando percorsi di formazione alla formazione, di leadership e di
empowerment soprattutto per chi tra le giovani ha già assunto un ruolo di spicco
all’interno dell’associazionismo o comunque della vita pubblica cittadina. Si tratta
di indicazioni generali che possono tuttavia fornire direttrici importanti agli attori
preposti per ripensare le policies in modo più efficace e più sostenibile, profilando
così una cittadinanza attiva, garantendo equità e giustizia a tutti e a tutte. Di
fronte ad Arezzo e ai suoi attori, numerose sono le sfide importanti che si
profilano, sfide che dalle buone prassi avviate finora possono però trarre linfa e
risorse per confermare la città come un contesto multiculturale particolarmente
intraprendente.
244
Note
(1) Il presente saggio è parte di una ricerca più generale dal titolo Che genere di diversity? Parole e
sguardi femminili migranti su cittadinanza organizzativa e sociale, in corso di pubblicazione presso
FrancoAngeli.
(2) Intersectionality è lo studio delle intersezioni tra forme o sistemi di oppressione, dominazione o
discriminazione. Un esempio è dato dal black feminism, il quale sostiene che l’esperienza di essere
una donna di colore non può essere semplicemente compresa in termini di colore della pelle e di
essere donna, considerati indipendentemente, ma deve includerne le interazioni che spesso si
rinforzano vicendevolmente. La prima studiosa a introdurre il concetto di intersectionality fu
Kimberlé Crenshaw nel saggio ‘“Demarginalizing the Intersection of Race and Sex (1989).
(3) Di contro alla creazione di grandi centri di accoglienza (tendopoli, Cie, Cara, Cda), la Regione
Toscana ha optato per la dispersione omogenea sul territorio dei migranti con minori costi e un
minore impatto sui cittadini residenti, sui paesaggi e sulle economie locali, stemperando così un
diffuso clima di allarme sociale. Il rispetto della dignità dei luoghi e delle persone è alla base di
queste azioni concertate che vedono la collaborazione e il coordinamento di sindaci, volontariato e
Terzo settore. Il riferimento è ad Avishai Margalit, The Decent Society, Harvard University Press
1996.
(4) Il dibattito attorno al termine integrazione rimane estremamente attuale: c’è in particolare chi
preferisce usare ‘interazione’ (sono molto grata ad una delle donne intervistate per aver
sottolineato la necessità di insistere sull’inevitabile trasformazione della cultura locale nelle sue
varie declinazioni come conseguenza dei processi migratori, una trasformazione alla quale
concorrono tutti e tutte, autocton* e stranier*).
(5) Si è deliberatamente scelto di usare questa espressione preferendola a ‘seconde generazioni’
per indicare sia il carattere non volontario della migrazione (a differenza delle prime generazioni)
che un’identità profondamente influenzata dalla cultura italiana nella quale sono state socializzate
e della quale padroneggiano i codici culturali e linguistici.
(6) Si tratta di donne provenienti da paesi arabi e musulmani, soprattutto del sud-est asiatico.
(7) Una donna che è anche la fondatrice e presidentessa della prima associazione rumena della
città e ideatrice-realizzatrice del Forum Romanesc, rubrica informativa in rumeno. Per maggiori
informazioni sulla rubrica si ascolti l’intervista realizzata da Radio Wave alla ideatrice e
realizzatrice,
Aurelia
Ceoromila:
http://www.radiowave.it/finestra-locale/le-voci-diarezzo/2336-forum-romanesc-la-rubrica-informativa-di-piazza-grande-a-cura-di-aureliaceoromila
(8) Il riferimento è a due assessore generalmente riconosciute come punti di riferimento
importanti, capaci di trasmettere la loro passione verso l’integrazione delle differenze, mostrando
anche una spiccata sensibilità in chiave di genere. Si tratta dell’ex-assessora Aurora Rossi e Stefania
Magi, entrambe profondamente coinvolte nel progetto di costituzione e apertura della Casa delle
Culture.
(9) Ringrazio la dottoressa Marzia Sandroni, Responsabile Comunicazione Marketing della Ausl 8
di Arezzo, per la disponibilità e le preziose informazioni fornite, utili a chiarire il framework
generale del rapporto tra sanità e popolazione immigrata ad Arezzo. Per una descrizione più
dettagliata del rapporto tra immigrazione e salute in Toscana e ad Arezzo, si veda Nuti, Maciocco,
Barsanti (2013)
(10) Si tratta di un progetto avviato da Oxfam Italia nel 2012 e ancora in corso. E’ il progetto
E.S.C. (Educazione sanitaria di comunità), finanziato da Ausl 8 e rivolto alla popolazione straniera
residente sul territorio della ASL 8 di Arezzo nel quadro della prevenzione delle IVG e della
promozione della contraccezione, come nuovo modello di intervento, da affiancare al dispositivo
della mediazione culturale già attivo, in grado di svilupparlo e potenziarne gli effetti. Per maggiori
245
informazioni
si
veda:
http://www.oxfamitalia.org/scopri/intercultura/areasanita#sthash.y5iXs2su.dpuf
(11) Si pensi, come è emerso nei paragrafi precedenti, all’esperienza delle donne somale che per
arrivare in Italia intraprendono un lunghissimo viaggio, esponendosi al rischio di morte e di
violenze, sia nella traversata del deserto sia nelle carceri dei vari paesi toccati.
(12) Anche in questo caso sono doverose alcune precisazioni: il campione di donne intervistate
sconta la scarsa presenza di badanti arrivate negli ultimi anni, donne che raramente riescono a
partecipare o ad essere incluse. Oltre a questa categoria, relativamente basso è anche il numero di
donne provenienti dal sub continente indiano, dal Nord Africa o subsahariane che riescono ad
essere attive o coinvolte in varie attività. Capita spesso che chi partecipa o lavora in associazioni
abbia un partner italiano o sia nata e cresciuta qua.
(13) Una marginalità che alcune non esitano ad attribuire a fattori endogeni, quali la presunta
apatia e indifferenza di certe donne a prendere parte ad attività funzionali all’inserimento nel
tessuto sociale; lo shock culturale provocato dalla mancanza di conoscenza del contesto di arrivo;
o la volontà di rimanere entro la sfera privata, aspetto questo legato a comunità fortemente
connotate in senso patriarcale.
(14) Nel 2013 è nata una nuova associazione italo-rumena, dove la presidentessa e le due vicepresidentesse sono donne. Nelle parole di una intervistata, co-fondatrice dell’associazione:
“L’Associazione Italo - Romena Arezzo Insieme è nata per le necessità della Comunità Romena di
avere un punto di riferimento, un posto dove possiamo rivolgerci sempre per i problemi sociali e
non solo. Il nostro scopo è di farci conoscere maggiormente, promuovere la nostra cultura,
valorizzare i nostri talenti nel territorio e favorire insieme a voi una integrazione libera dai
rispettivi pregiudizi”.
(15) Quest’ultima, in particolare, è molto attiva all’interno della Casa delle Culture. La comunità
filippina è un interessante laboratorio dove studiare le dinamiche e le trasformazioni legate ai ruoli
di genere in un contesto di migrazione. Aspetti che per motivi di tempo e ampiezza della ricerca
non sono stati analizzati approfonditamente, ma che richiederebbero un focus specifico.
(16) Lo scopo è scambiare informazioni e buone prassi fra Italia e Regno Unito, sviluppare
ricerche, diffondere la conoscenza del metodo coordinato e integrato di contrasto alla violenza
domestica attuato nel Regno Unito mediante il sistema delle MARAC e dell’IDVA, analizzare le
condizioni della sua applicabilità in Italia, effettuare azioni di promozione verso le istituzioni,
sviluppare un rapporto costruttivo con associazioni, il mondo dell’educazione, il sistema
informativo. Per maggiori informazioni si consultino i seguenti siti: http://www.edvitalyproject.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/
(focus
sull’Italia);
http://www.edvitaly-project.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/
(focus
sull’Inghilterra).
Riferimenti bibliografici
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Arezzo/Oxfam Italia, Arezzo.
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strade dell’inte(g)razione”, in L. Luatti, G. Tizzi, M. La Mastra, Vivere Insieme,
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tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana.
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Materiali web
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http://www.bangladesharezzo.com/popoli-news/
http://www.radiowave.it/finestra-locale/le-voci-di-arezzo/2336-forum-romanesc-larubrica-informativa-di-piazza-grande-a-cura-di-aurelia-ceoromila
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CCE
QFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.usl8.toscana.it%2Fnew%2Fimages%2Fstories%2F
modulistica%2FI_bisogni_sanitari_degli_stranieri.pdf&ei=UPUPVOPrBuWR7AaO2YD
gAg&usg=AFQjCNFK8dj0Zn_zSZpp6ZS4RFBXlSR4sA&sig2=QuEFRmPJ5Sa6ikUEUp
DPaw&bvm=bv.74649129,d.ZGU
247
Siti web
http://www.bangladesharezzo.com/
http://www.women.it/impresadonna/associazioni/assdonneins.htm
http://www.orchestramultietnica.net/
http://www.usl8.toscana.it/cittadini
http://www.oxfamitalia.org/scopri/intercultura/area-sanita#sthash.y5iXs2su.dpuf
http://www.edvitaly-project.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/
http://www.edvitaly-project.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/
248
Capitolo 4
L’osservazione nel quartiere Saione ad Arezzo
di Niccolò Sirleto
1. L’osservazione e gli strumenti utilizzati
Il bisogno conoscitivo da cui prende avvio questa ricerca è dettato dall’esigenza di
approfondire alcuni aspetti relativi ai luoghi di aggregazione e alle connesse
dinamiche del processo di integrazione. Ci siamo riproposti di osservare
l’integrazione sociale, culturale ed economica degli immigrati presenti sul
territorio della città focalizzandoci, in particolare, su un quartiere, Saione, ad alta
incidenza di stranieri, e su alcuni luoghi di aggregazione all’interno del suo
territorio. La città, come scrivono Pastore e Ponzo (2012), è un aggregato
eterogeneo, complesso e instabile e spesso al suo interno coesistono
contemporaneamente situazioni diverse di interazione e integrazione tra gruppi.
Il quartiere è un microcosmo più compatto e coeso che rende più facile
l’osservazione e la comparazione dei fenomeni oggetto di studio; esso può
assumere confini, significati e importanza differenti a seconda degli individui e dei
gruppi sociali osservati. Non abbiamo quindi considerato i confini amministrativi
del quartiere Saione, ma altri più fluidi a seconda dei contesti.
In questa ricerca, condotta nel periodo compreso tra settembre e ottobre 2013,
sono stati usati come sistema di rilevazione la lettura e come strumenti
l’osservazione passiva (o in taluni casi a bassissima partecipazione) e le passeggiate
etnografiche supportate da fotografie.
Il quartiere è stato delimitato geograficamente e sono stati individuati gli spazi in
cui effettuare l’osservazione. I percorsi dell’osservazione, le “passeggiate
etnografiche”, però, sono state compiute senza avere dei percorsi precisi, ma
seguendo le modalità della flânerie, un’attività che viene ripresa dalle scienze
sociali dal contesto letterario e che prevede il vagare senza meta all’interno della
città per poter scoprire luoghi, interstizi e situazioni al di fuori dei percorsi
abituali o noti. L’osservatore/flâneur cerca di muoversi all’interno dei luoghi di
ricerca con un atteggiamento disincantato che si unisce, però, a uno spirito di
curiosità e di esplorazione che possa permettergli di cogliere gli aspetti meno
espliciti delle vicende umane che sfuggono dal “palcoscenico” dei luoghi che le
ospitano, ma che risiedono nei vari “dietro le quinte” della vita sociale. La flânerie
è pervasa di osservazioni soggettive e di interpretazioni parziali ma, usata in
concomitanza con metodi quantitativi utilizzati all’interno dei rapporti
249
dell’Osservatorio, può essere utile per individuare la dimensione sfuggente del
genius loci, cioè tutto ciò che un luogo è o vuole essere.
Le città contemporanee sono trasformate continuamente da flussi compositi di
popolazione residente e non residente e dalla mescolanza di attori e stili di vita.
Pertanto, una visione della città come un corpus unico dotato di coerenza interna
o suddivisa in zone nette e definite risulta essere superata e così anche le
prospettive di indagine quantitative necessitano dell’ausilio di altre tecniche più
flessibili e meno strutturate in relazione ai cambiamenti (Nuvolati, 2006).
Con il termine osservazione si intende sia lo strumento di rilevazione, cioè il
mezzo con cui si rilevano le informazioni, sia il sistema di rilevazione, cioè
l’organizzazione degli strumenti utilizzati nella ricerca. Lo strumento osservativo
si dice anche non reattivo in quanto il ricercatore non esercita volontariamente
delle specifiche sollecitazioni verbali o comportamentali al fine di provocare una
reazione negli attori oggetto di studio (Cellini, 2008).
L’osservazione etnografica ha una duplice funzione: da un lato rende familiare
l’ignoto e dall’altro defamiliarizza il già noto (Marzano, 2006); il ricercatore ha
accesso ad aspetti dei backstage della vita sociale che difficilmente verrebbero
colti con altri metodi di ricerca e allo stesso tempo l’osservazione persistente in
alcuni ambienti riesce a scomporre e ad analizzare segmenti di interazioni sociali
che sono dati per scontati. Inoltre la tecnica osservativa ha il vantaggio di essere
l’unico strumento che permette al ricercatore di rilevare i fenomeni nel momento
esatto in cui accadono e non di analizzare delle razionalizzazioni a posteriori degli
stessi (Cellini, 2008).
Un particolare uso può esserne fatto quando si intendono trovare delle nuove vie
interpretative, quando non si dispone di una griglia teorica precisa o
semplicemente quado si vuole raccogliere informazioni dall’universo senza porsi
particolari interrogativi per poter formulare ipotesi successivamente, ci si muove
cioè in modo euristico alla ricerca di nuove teorizzazioni (Bruschi,1999).
L’approccio qualitativo parte dall’assunto che se il ricercatore non ha la
conoscenza adeguata per spiegare una certa porzione della realtà deve compiere
lo sforzo cognitivo di comprendere le categorie mentali di altri soggetti e come
essi vedono il loro mondo e attraverso quali di queste categorie danno senso alla
realtà. L’osservatore adotterà quindi una prospettiva emic, cercando, cioè, di
arrivare alla comprensione utilizzando le categorie delle cultura esaminata e
posando l’attenzione su cosa le persone ritengono rilevanti per la loro stessa vita
(Sacchetti, 2009).
Il ricercatore che vuole effettuare l’osservazione può scegliere tra due sistemi di
rilevazione: l’immersione e la lettura. Il primo prevede che il ricercatore si
inserisca all’interno di una comunità interagendo con i suoi membri e
partecipando alla vita quotidiana di essi. Spesso in questo tipo di sistema di
250
rilevazione, oltre all’osservazione non reattiva si utilizzano altri strumenti, come
le interviste in profondità. L’altro sistema, la lettura, consiste nel considerare gli
osservati come “altri” interagendo con essi il meno possibile e osservando i
fenomeni dall’esterno. Solitamente la lettura si effettua per periodi più brevi
rispetto all’immersione e in ambienti, quali ad esempio spazi pubblici come
strade, piazze e giardini dove i gruppi osservati non sono organizzati in comunità
(Cellini, 2008).
Tramite l’osservazione si diventa familiari con il contesto etnografico, i codici
linguistici diffusi, le espressioni gergali e le pratiche sociali specifiche; per fare
questo il ricercatore può compiere delle tecniche euristiche, degli esperimenti
mentali, per scomporre e intrepretare i fenomeni che gli si parano davanti
(Cardano, 2011). Se ad esempio abbiamo la percezione che le donne della
comunità del Bangladesh non frequentano i luoghi pubblici, ma tramite l’utilizzo
dei dati sappiamo che la componente femminile di tale gruppo etnico è numerosa,
si effettuerà osservazione a orari differenti per cercare di capire se le donne
escono esclusivamente nell’orario dell’uscita delle scuole o la mattina presto per
fare acquisti. Il dato si limita a rilevare ubicazioni di domicili, esercizi
commerciali, affluenze a luoghi di culto ma ben difficilmente riuscirà a descrivere
che in un certo parco i giovani nord africani si riuniscono ai tavolini del lato nord
mentre donne dell’est Europa alle panchine nello spiazzo al centro. Solamente
tramite l’osservazione è possibile ben capire la distribuzione di varie
comunità/gruppi negli spazi pubblici e il loro utilizzo nella vita quotidiana.
L’osservazione cambia a seconda del grado di coinvolgimento del ricercatore
all’interno delle attività del gruppo studiato. Esistono diversi tipi di
partecipazione che variano in un continuum che, progredendo con il
coinvolgimento, include: la non-partecipazione, la partecipazione passiva, quella
moderata, quella attiva e infine la completa partecipazione.
Vista l’eterogeneità dei luoghi e dei gruppi oggetto di studio di questa ricerca è
stato deciso di adottare la partecipazione passiva. Questo tipo di partecipazione
prevede che l’osservatore, nel caso si trovi in strade o luoghi pubblici, si comporti
come uno spettatore o un passante che si sposta da un punto di osservazione
all’altro riducendo il numero di interazioni e mantenendo possibilmente una
forma di distacco che permetta di osservare i fenomeni nella loro interezza
(Spradley, 1980).
A supporto dell’attività di osservazione, durante le letture sono state scattate
alcune fotografie. Questo strumento di raccolta di informazioni consente di
considerare le immagini ritratte come specifici fenomeni osservabili che fungono
da indicatori per le idee astratte che compongono la conoscenza pregressa e le
teorie che muovono l’attenzione del ricercatore (Faccioli, Harper, 2007). Oltre a
questa funzione la raccolta delle immagini risulta utile per poter riosservare
251
fenomeni al fine di cogliere aspetti che possono essere sfuggiti in un primo
momento ma, soprattutto, per poter analizzare il fenomeno ritratto alla luce della
conoscenza (e delle nuove categorie) formatesi nella mente del ricercatore
durante il corso dell’esperienza osservativa sul campo.
L’utilizzo di questo strumento è stato regolato tenendo presente la sua intrusività
e le sue conseguenze. Durante l’esperienza sul campo il ricercatore deve tenere
sempre conto della riflessività, cioè la valutazione delle risposte che la sua
presenza e (soprattutto nel caso dello scattare fotografie) le sue azioni hanno sul
contesto. La restituzione delle immagini è carica quindi di segni differenti a
seconda del frame in cui è stata scattata (Banks, 2007). Una fotografia presa
davanti a un negozio di alimentari che ritrae degli uomini che parlano sarà diversa
se presa dall’altra parte della strada non facendosi notare o a distanza ravvicinata
catturando lo sguardo dei soggetti. Nel corso dell’osservazione sono state prese
foto con approcci differenti tenuto conto di quanto detto sopra e del fatto che in
taluni momenti, ad esempio nei negozi o nei bar per scommesse, è stato preferito
ritrarre la scena con la macchina tenuta al fianco o passando velocemente mentre
magari si osservava in un'altra direzione, in linea con la decisione di condurre una
osservazione a basso grado di partecipazione e di intrusività. Questo può
sottolineare l’utilità del supporto fotografico che permette di rianalizzare in un
secondo momento certe scene.
Funzione analoga alle fotografie ha la serie di note di campo che poi formano il
diario etnografico. Quando il ricercatore si trova sul campo rileva su un taccuino
tutte le informazioni che osserva, anche quelle che apparentemente sembrano
inutili o che comunque non costituiscono indicatori delle caratteristiche che si sta
cercando di osservare. Tale strumento serve al ricercatore sia come supporto
mnemonico che come fonte per reperire potenziali nuovi aspetti e dimensioni dei
fenomeni osservati (Lofland, 2006).
In questa ricerca è stata usata la lettura come sistema di rilevazione e come
strumenti: l’osservazione passiva (o in taluni casi a bassissima partecipazione) e le
passeggiate etnografiche supportate da fotografie.
2. Cosa è stato osservato
Questi percorsi si sono concentrati sul cercare di notare elementi di interazione
ed eventuale integrazione tra i membri delle comunità straniere e italiani,
l’osservazione ha insistito sulle vie del quartiere con maggior numero di negozi
etnici e nei parchi, i quali sono un tipo di luogo di aggregazione particolarmente
interessante per osservare le interazioni tra differenti gruppi sociali. Gli spazi
verdi pubblici ben rappresentano il clima del quartiere e ne creano l’identità in
252
quanto sono potenzialmente accessibili a tutte le categorie tra cui spesso chi per
scarsità di risorse, tempo e mobilità non ne può uscire con facilità (Cingolani,
2012).
Il parco che si estende dietro l’ospedale non è molto frequentato: nel pomeriggio
vi si possono trovare studenti sdraiati sul prato, qualche anziano e delle donne di
mezz’età, molto probabilmente di provenienza est-europea. Inoltre in più
occasioni è stato osservato un gruppetto di giovani bengalesi allenarsi con attrezzi
“naturali” come tronchi e sassi (probabilmente si trattava del solito gruppo a
distanza di due settimane). Nel parco sono stati, inoltre, notati un paio di
senzatetto accampati vicino ad una zona protetta da cespugli (la presenza in altre
zone del parco di vestiti e di sacchetti appesi ai paletti dei cestini della spazzatura
fa pensare che si tratta di persone che abbiano scelto il parco come luogo in cui
passare la notte).
Nel parco tra via Adda e via Arno più volte sono stati notati alcuni giovani
bengalesi mangiare, bere e giocare a carte intorno ai tavoli e alle panchine
(ritornando in loro assenza sono stati trovati dei cartoni sui tavoli che
presumibilmente vengono usati a mo’ di segnapunti per qualche gioco da tavola).
Nelle vicinanze si trova spesso parcheggiato un camper dove vive una famiglia di
nomadi (non abbiamo, però, delle informazioni certe che ci confermano che siano
di origine Rom).
Il giardino tra via Masaccio e la stazione è usato come luogo di ritrovo da un
gruppo di uomini di età dai venti ai quaranta, probabilmente di provenienza est
europea. In altri momenti, però, ci sono anche dei giovani bengalesi che si
ritrovano sulle panchine dalla parte opposta della piazzetta.
In questo giardino una mattina è stato possibile osservare una scena molto
particolare: una donna africana sulla trentina con i capelli ossigenati si avvicina
parlando al telefono a una panchina dove sta dormendo sdraiato un quarantenne
italiano, si siede addosso all’uomo continuando a parlare al telefono, e,
chiedendogli in malo modo di alzarsi, gli mette in mano delle monete e gli dice
qualcos’altro come se lo conoscesse, l’uomo obbedisce alzandosi e barcollando se
ne va via. Dato l’episodio, si è immaginato che l’uomo fosse un personaggio noto
nel quartiere, magari un ex tossicodipendente conosciuto da tutti. Questo
episodio lascia intendere che all’interno del quartiere sono presenti forme di
rapporti di conoscenza faccia a faccia legati all’utilizzo di alcuni luoghi pubblici
che trascendono i vari gruppi etnici.
Il parco lungo viale Giotto è molto più frequentato rispetto al parco che si
estende dietro l’ospedale. È frequentato sia da italiani che da stranieri, ci sono
famiglie, ragazzi, donne probabilmente provenienti dall’est Europa che
accompagnano anziani, ma anche alcuni senzatetto che dormono sulle panchine.
Altri senzatetto si trovano nel giardino antistante la chiesa del Sacro Cuore, poco
253
distante dal parco (probabilmente si tratta di una parrocchia attiva nell’offrire
loro aiuti).
Piazza Guido Monaco è un luogo di incontro per vari tipi di gruppi. Ci sono
giovani africani vestiti hip hop con tanto di skateboard, studenti, famiglie di nord
africani, giovani rumeni che stanno ai tavoli del Mondopizza e di un altro bar
adiacente mentre alcuni pakistani si riuniscono al self service all’angolo con via
Petrarca. I parchi espletano funzioni sociali più disparate per i vari gruppi, i quali
però rimangono confinati in spazi ben precisi e scarse sono le interazioni.
Al mattino il quartiere Saione è molto frequentato sia da italiani che da stranieri
che fanno compere nei vari negozi etnici. Il pomeriggio, invece, si spopola
nettamente; se si escludono i negozi di via Vittorio Veneto, che rimane
comunque trafficata, tutti gli altri minimarket etnici e gli alimentari diventano dei
luoghi di aggregazione per i membri della comunità bengalese anche perché
spesso al negozio vi è annesso un internet point. Questo è stato riscontrato, ad
esempio, davanti ad un minimarket di via Montegrappa, che a prima vista poteva
sembrare un classico negozio di prodotti tipici toscani, ma dove invece si vendono
più che altro prodotti etnici, diventato un punto di ritrovo di alcuni ragazzi
bengalesi. All’esterno i ragazzi parlano tra di loro in dialetto aretino, mentre
dentro il gestore e un altro cliente di mezz’età parlano nella loro lingua.
Prendiamo una bottiglia di acqua e poiché la cassa è nascosta da uno scaffale,
l’altro uomo (il cliente) ci chiede di porgere i soldi a lui come se fosse di famiglia
con il gestore (una cosa che è successa anche altre volte). Si può dire che
l’imprenditoria immigrata ed etnica degli esercizi commerciali è di tipo enclave
nel senso che i negozi sono concentrati e a prevalenza della stessa etnia
(Ambrosini, 2011). Allo stesso tempo i confini degli spazi sono fluidi, cioè per la
maggior parte sono del Bangladesh, ma nella stessa zona si possono trovare anche
alcuni esercizi gestiti da cinesi e nonostante alla funzione di luogo di ritrovo che
menzionavo sopra gli avventori sono di gruppi etnici eterogenei.
È qui da notare che spesso quando si cercava di fotografare i gruppi di persone
davanti ai negozi o il negozio stesso i piccoli gruppi parevano non gradire la cosa
anche se non protestavano e spesso entravano all’interno del locale. Questo è un
esempio di perturbazione involontaria, cioè del cambiamento della situazione
indagata a causa della presenza dello strumento, in questo caso la macchina
fotografica (Cellini, 2008). Tali raggruppamenti non sono presenti la domenica
quando i negozi sono chiusi e se non si considera qualche famiglia che passeggia la
domenica il quartiere è quasi deserto.
I bar costituiscono un altro tipo di luogo di aggregazione, ma in questo caso è di
grande interesse per un particolare aspetto: il fenomeno del gioco è diffuso
all’interno del quartiere e coinvolge sia gli italiani che gli stranieri, i bar con le
slot machine e le sale da gioco sono, infatti, un luogo di incontro per gli abitanti
254
del quartiere. I bar e le sale da gioco sono frequentate esclusivamente da uomini,
sia giovani sia anziani. Entrando nel Sisal Matchpoint di via Vittorio Veneto si
potevano osservare dei ragazzi bengalesi che guardavano la partita, alcuni italiani
anziani più distaccati che prendevano appunti sui risultati delle gare di cavalli e in
un saletta a parte in penombra un gruppo misto di italiani rumeni e bengalesi che
giocavano alle slot machine ed altri che stavano osservando in silenzio gli altri
giocare. Questo momento quasi ritualistico dell’osservare gli altri che giocano
senza commentare o interagire è stato notato anche negli altri bar del quartiere.
Le interazioni avvengono come se in quel preciso momento i giocatori (o chi
osserva solamente il gioco) facessero parte di una stessa comunità di senso che
travalica le appartenenze etniche.
È stato notato che molte automobili hanno attaccato allo specchietto retrovisore
crocifissi di varie fogge, Tau di san Francesco, rosari ecc. Questa moda esprime
una ostentazione di religiosità che è anche diffusa nel quartiere tra via Arno e Via
Vittorio Veneto dove su alcune macchine dei bengalesi è attaccato un ciondolo
induista (nei pressi del mercato di via Giotto ne sono stati trovati alcuni con
simboli islamici). I testimoni di Geova sono molto attivi: al mercato di Via Giotto
hanno uno stand e si trovano spesso in piazza Guido Monaco a distribuire
volantini. L’approccio usato dai testimoni di Geova non sembra molto invasivo,
ma è come se selezionassero i passanti a cui rivolgersi a priori ignorando gli altri.
Nel quartiere sono stati trovati degli adesivi con scritto “Fascino di Qunran” e
l’invito a visitare un sito internet di letteratura cristiana apocrifa. Anche un prete
anziano stava prendendo appunti su chi fossero. Al mercato di via Giotto avevano
anche un banchino dove distribuivano libri gratuitamente.
Le osservazioni sono iniziate pochi giorni dopo alcuni fatti di cronaca relativi a un
regolamento di conti tra due gruppi etnici. Nonostante i media locali esaltassero
le tensioni sociali all’interno della città, la percezione della devianza dello
straniero da parte degli italiani non è sembrata particolarmente accentuata; infatti
ascoltando le conversazioni nei bar non risaltavano molto spesso discorsi razzisti o
intolleranti, le poche lamentele erano riferite ai Rom (e al sindaco che è troppo
tollerante nei loro confronti). In un paio di casi sono state notate le forze
dell’ordine interagire con degli africani e con dei senzatetto ma non sono stati
notati atteggiamenti repressivi o intolleranti. Al mercato di via Giotto alcuni
uomini chiedevano l’elemosina vendendo dei piccoli oggetti autoprodotti e dei
palloncini per risultare più visibili e suscitare maggiore simpatia nei passanti. Tale
“creatività” è stata riscontrata anche in alcuni giovani africani venditori ambulanti
lungo la via del corso; nell’osservarli è stato notato un approccio di vendita non
troppo invasivo che permette loro, nel proporre meno oggetti ai passanti, di
vendere molto di più rispetto ad altri loro colleghi.
255
La presenza degli stranieri all’interno del quartiere Saione è sicuramente visibile
nelle strade dove sono collocati i vari negozi etnici e nei vari bar che sorgono nei
pressi, fatta l’eccezione dei parchi dove si trova una maggiore eterogeneità (in
termini di etnia, sesso, età). La presenza femminile straniera è abbastanza limitata
alle ore del mattino fino all’orario di uscita delle scuole. Durante le ore del
mattino pare un quartiere abbastanza trafficato sia da italiani che da stranieri, in
altri orari sembra mancare della presenza sia degli uni che degli altri. I gruppi di
giovani stranieri si ritrovano in alcune zone dei giardini che fanno proprie
costruendo la loro identità di appartenenza al loro gruppo, mentre si possono
trovare piccoli gruppi di studenti sparsi in maniera più casuale e non vi sono
molte interazioni. I luoghi dove è stata riscontrata una maggiore interazione tra
italiani e stranieri sono gli spazi comuni dei bar con slot machines e sale
scommesse.
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256
Capitolo 5
Verso un possibile modello di accoglienza? Tre buone pratiche a
confronto
di Giovanna Tizzi e Luca Raffini
1. Rifugiati e richiedenti protezione internazionale: alcuni dati di
uno scenario in movimento
L’inasprirsi dei conflitti armati e il netto deterioramento nel rispetto dei diritti
umani e nelle condizioni di vita in molti paesi, ed in particolare nei paesi nordafricani e del vicino oriente, come la Siria, si riflette in un netto aumento del
numero dei richiedenti asilo, in Europa (+44%) e a livello globale (+45%). In
totale, il numero di richieste di asilo ricevute dai 44 paesi dell’OCSE è di poco
inferiore a 900.000. Solo in Europa, il numero di richieste è pari a 714.300.
L’incremento nel numero di richieste coinvolge, in particolare, i paesi confinanti
con gli scenari di conflitto. La Turchia è, tra i paesi industrializzati, quello
maggiormente coinvolto, ricevendo 87.800 richieste. L’Italia, nello stesso anno,
riceve 63.700 richieste. Si tratta di due dei quattro paesi europei che assorbono il
maggior numero di richieste, insieme alla Germania (la prima, con 173.000) e
alla Svezia (75.100): due paesi con una grande tradizione di accoglienza, e per
questo meta privilegiata. Si tratta, non di meno, di numeri relativamente ridotti
se paragonati ai flussi in ingresso nei paesi vicini a quelli di provenienza. Contando
tutti i rifugiati presenti dei diversi paesi nel 2014, la nazione che ospita il numero
maggiore di rifugiati è la Turchia (1,59 milioni di persone accolte), seguita da
Pakistan (1,51 milioni), Libano (1,15 milioni), Repubblica Islamica dell’Iran
(982.000), Etiopia (659.500) e Giordania (654.100). Ben il 45,4% dei rifugiati
nel mondo viene accolto da questi sei Stati, provocando una pressione
considerevole nell’area del Mediterraneo orientale. Si consideri che il 97% delle
persone in fuga dalla Siria si trova oggi in Iraq e in Egitto.
Per quanto riguarda i paesi di provenienza, più del 53% dei rifugiati proviene da
solo tre Stati: la Repubblica Araba di Siria (3,88 milioni), l’Afghanistan (2,59
milioni) e la Somalia (1,11 milioni), mentre, limitando l’attenzione alle richieste
di asilo presentate nel 2014, troviamo al primo posto la Siria, quindi Iraq,
Afghanistan, Serbia e Kosovo ed Eritrea. Il Mediterraneo, sempre più, è teatro
privilegiato dei flussi: il numero di rifugiati che ha solcato il Mediterraneo nel
2014 è stimato in 218.000: una cifra tra volte superiore a quella che ha
caratterizzato il periodo successivo alla Primavera Araba, nel 2011, ovvero
257
all’Emergenza Nord Africa. Tentare di raggiungere l’Europa è molto rischioso.
Solo nel 2014, l’Osservatorio sulle vittime dell’immigrazione, Fortress Europe,
stima che le persone morte mentre cercavano di approdare sulle coste europee
sono state 3.419, portando a 21.439 il numero totale, negli ultimi venticinque
anni. Significa che una persona su 64 perde la vita nel suo tentativo di raggiungere
migliori condizioni di vita, per sé e per la propria famiglia. D’altra parte, nel solo
2014, Mare Nostrum ha salvato un numero di profughi stimato in oltre 150.000,
prima di essere sostituito con Triton, che, di fatto, non prevede azioni di
salvataggio in mare, traducendosi in un aumento delle vittime.
Per quanto riguarda l’Italia, pur se in maniera non lineare, gli sbarchi sono
radicalmente aumentati, dal 1997 al 2014, passando da 22.343 a un numero
stimato tra i 133.000 e i 170.000. Gli ultimi dati del 2015 (al 10 ottobre 2015)
mostrano che pur rimanendo molto elevata l’intensità del fenomeno, non si sono
registrati ulteriori forti aumenti, attestandosi a 136.432 persone sbarcate. È
interessante notare la mutata composizione per Paese di provenienza tra il 2014 e
il 2015 frutto dei cambiamenti delle rotte migratorie e della geografia delle
partenze. Nel primo erano soprattutto persone provenienti dalla Siria,
dall’Eritrea e dal Mali mentre nell’anno in corso i dati evidenziano al primo posto
l’Eritrea, seguita dalla Nigeria e dalla Somalia (Ministero dell’Interno, 2015, pp.
5-6).
Passando all’analisi di coloro che richiedono asilo in Italia notiamo innanzitutto
che nel 2014 sono 64.625, il 38% di tutte le persone sbarcate nello stesso anno.
Pur con la difficoltà di reperire dati ufficiali in materia, osserva Marchetti “si ha la
netta impressione che la vera novità del 2014 sia la massiccia ‘scomparsa’ dei
migranti in seguito al loro salvataggio e allo sbarco in Italia. Se nella seconda fase
del 2011, si era realizzato una sorta di ‘travaso’ automatico di tutti i migranti
arrivati via mare nelle accoglienze Emergenza Nord Africa (ENA) della
Protezione Civile e nella procedura individuale di asilo, nel 2014 sembra essersi
consolidata una prassi molto più fluida” (Marchetti, 2014).Va anche sottolineato
che il numero di richieste di protezione internazionale è effettuata da una quota
ridotta dei profughi che arrivano nelle nostre coste, poiché in molti preferiscono
tentare di raggiungere altri paesi europei (la Germania, in primis), per avviare lì le
pratiche, dal momento che il Trattato di Dublino afferma che il processo di
accoglimento della domanda debba essere gestito dallo Stato di primo arrivo. Solo
un decimo dei profughi giunti in Italia nella prima metà del 2014 ha, per esempio,
fatto richiesta di protezione internazionale in Italia (Andreotti, 2015). Una
conseguenza del regolamento è che al momento dell’ingresso di un potenziale
richiedente asilo, lo Stato in questione possa richiedere il suo ritorno e presa in
carico nel paese europeo da cui è eventualmente transitato in precedenza,
generando i cosiddetti “dublinati”. Il regolamento di Dublino ha non di meno un
258
effetto: genera una pressione sulle frontiere interne all’UE. Si pensi alle situazioni
che si sono create alla frontiera tra Ventimiglia e Mentone, tra Calais e Dover, o,
soprattutto, alla frontiera tra Ungheria e Austria. Il Regolamento di Dublino
influenza le strategie degli stessi profughi. Per molti di loro Stati come l’Italia
rappresentano solo un passaggio rispetto alla meta finale, individuata in paesi
ritenuti capaci di offrire migliori opportunità, come la Svezia o la Germania. Per
questo motivo cercano di varcare le frontiere del paese senza farsi registrare, in
modo da farlo direttamente nel paese di destinazione, generando atteggiamenti di
chiusura e conflitti tra Stati. Sempre più spesso nell’Europa “senza frontiere” si
costruiscono nuovi muri, tangibili o virtuali, che dividono il Mediterraneo e i
confini orientali, o si innalzano nuovi muri all’interno della stessa Europa.
Il nostro paese, tuttavia, non rientra tra i paesi con il più alto numero di richieste,
a livello europeo l’Italia è il terzo paese UE per numero di richiedenti asilo (dopo
Germania e Svezia), ma anche quello che ha registrato il maggior incremento
nell’ultimo anno. Osservando la composizione dei richiedenti asilo si evince una
ridottissima presenza di donne (7,6% del totale) e di minori (6,8% del totale); le
tre nazionalità maggiormente presenti sono la Nigeria, il Mali e il Gambia. Per
quanto riguarda le domande accolte, a partire dal 1990, anno in cui si registrano
992 richieste di asilo, il numero di persone che ottengono il riconoscimento in
Italia aumenta, fino a raggiungere i 3.078 nel 2013. In parallelo, tuttavia,
aumenta in maniera assai più significativa il numero di persone che ottengono il
riconoscimento di protezione umanitaria e sussidiaria. Si tratta di un tipo di
protezione che risulta marginale fino al 1997, ma che nel 2013 è riconosciuto a
11.314 persone.
I dati sopra sinteticamente riportati ci dicono: a) che quella che in Italia si
continua a definire un’emergenza è ormai un elemento strutturale; b) che il
numero di persone che approda in Italia e, in generale, in Europa, è relativamente
ridotto, rispetto al numero potenziale di rifugiati, che si concentrano oggi nei
paesi limitrofi, in condizioni di disagio e di deprivazione; c) che la risposta data
dagli Stati europei è insufficiente e disomogenea, dal momento che quasi ben
oltre la metà delle richieste di asilo è gestita da Germania, Svezia, Francia, Italia.
2. Il sistema italiano di accoglienza
Il sistema italiano di accoglienza, non è mai pienamente uscito dall’ottica
dell’emergenza. Ciò, a fronte di dati che mostrano in maniera chiara che il
fenomeno dei rifugiati è ormai un elemento strutturale e, alla luce delle attuali
dinamiche economiche, culturali e geopolitiche, destinato a rimanere stabile, se
non ad aumentare, nei prossimi anni. In quanto tarato sulla dimensione
259
dell’emergenza, il sistema italiano di accoglienza è per lo più concentrato sulla
dimensione del primo soccorso e della prima accoglienza nonché improntato ad
una impostazione di tipo prevalentemente securitaria. Come scrive Marchetti
(2014), “anche se negli anni le lacune giuridiche sono state in parte colmate,
soprattutto attraverso il recepimento delle Direttive europee in materia,
l’impianto rimane frammentato e di stampo emergenziale, come se il diritto
d’asilo non fosse qualcosa che meriti una trattazione complessiva, ordinaria e
organica. Certamente, il fatto che la stessa materia dell’immigrazione in generale
sia per lo più affrontata con un approccio emergenziale, come se si trattasse di un
fenomeno transitorio o comunque circoscritto, non aiuta a porre al centro del
dibattito una visione complessiva e il più possibile coerente del tema dell’asilo e
della protezione internazionale”.
Il diritto di ricevere accoglienza per chi fugge da situazioni di guerra e di
violazione dei diritti è sancito dal diritto internazionale, è affermato dal diritto
comunitario e recepito dalla Costituzione italiana. Senza entrare nel merito della
normativa che regola il diritto di asilo, evidenziamo che a tutti è assicurata la
possibilità di entrare nell’iter dell’accoglienza, formalizzandone la domanda di
asilo, che termina in seguito alla decisione della Commissione territoriale ovvero,
in caso di ricorso giurisdizionale, fino all’esito dell’istanza di sospensiva e/o alla
definizione del procedimento di primo grado. La valutazione della domanda di
ammissione viene effettuata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento
dello status di rifugiato, competente per territorio. Tale Commissione ha il
dovere di convocare per un’audizione il richiedente, dopo di che dovrà adottare
una fra le quattro decisioni seguenti: riconoscere lo status di rifugiato (con
validità di 5 anni, rinnovabile); riconoscere lo status di protezione sussidiaria (con
validità 5 anni, rinnovabile); rigettare la domanda; rigettare la richiesta ma, allo
stesso tempo, constatata la pericolosità di un eventuale ritorno, richiedere alla
Questura competente territorialmente di rilasciare uno speciale permesso di
soggiorno per motivi di protezione umanitaria, della durata di due anni
(rinnovabile). Nel caso di ottenimento dello status di rifugiato o di protezione
sussidiaria o umanitaria la persona può entrare nel sistema SPRAR (Servizio
centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
La definizione dell’intero sistema di accoglienza di richiedenti e titolari di
protezione in Italia è alquanto complessa. Tale sistema di accoglienza, infatti, è
costituito da strutture assolutamente diversificate tra loro in quanto a posti
disponibili, condizioni e standard dei servizi resi
Così il sistema di piccoli centri diffusi dello SPRAR, gestiti direttamente dagli
enti locali, convive con i CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo,
istituiti dal decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008) e le tante strutture nate
nelle varie emergenze sbarchi e poi “sanate” e stabilizzate come il caso di Mineo,
260
oggi trasformato in CARA. Accanto a questi centri si aggiungono poi quelli che
gestiscono la maggioranza delle richiedenti asilo, denominati strutture
temporanee o CAS attivati delle Prefetture per conto del Ministero dell’Interno.
Attualmente (Ministero degli Interni, 10 ottobre 2015) il totale delle presenze è
di 99.096 persone di cui: 21.814 nei 430 progetti dello SPRAR; 7.290 nei 7
centri governativi – CARA; 464 persone in 7 CIE; 70.918 persone nelle 3.090
strutture temporanee – CAS.
È evidente come il sistema italiano dell’accoglienza si regga, nonostante
l’ampliamento dei posti SPRAR, sull’accoglienza straordinaria che gestisce il 72%
di tutte le presenze, distribuite in oltre 3 mila strutture organizzative (sia
pubbliche che private). Se da un lato rileviamo una maggior distribuzione dei
migranti su tutto il territorio nazionale (al primo posto in termini di presenza di
strutture temporanee troviamo la Lombardia con 554, seguita dalla Toscana con
416 e dall’Emilia Romagna con 376) dall’altro appare lampante la
frammentazione e disomogeneità territoriale in termini di servizi erogati che si
traduce in standard di accoglienza piuttosto differenziati.
Inoltre, per via dell’ingolfamento del sistema e per la carenza di spazi, la
permanenza nei CARA può protrarsi per mesi, coinvolgendo anche soggetti con
status diversificati, e lo SPRAR accoglie sia titolari di protezione che richiedenti. I
CAS, da parte loro, fungono da valvola di sfogo, accogliendo una platea molto
eterogenea di beneficiari, alcuni dei quali appena sbarcati. Ciò significa che
rappresentano percorsi paralleli, che rispondono alle stesse problematiche in
maniera assai disomogenea.
Il 10 luglio 2014, a livello istituzionale è stato varato il Piano Operativo
Nazionale che attraverso un sistema piuttosto articolato dovrebbe governare
anche le emergenze. Si tratta di un Piano, redatto dalla conferenza unificata tra
Governo, Regioni e rappresentati degli enti locali, che articola l’accoglienza in tre
distinti livelli: 1) Soccorso e prima assistenza (Hot Spot), con identificazione e
primo screening sanitario in centri governativi, che costituiranno il primo livello
di assistenza e smistamento delle persone nei centri regionali/hub. 2) Prima
accoglienza in centri regionali denominati anche hub che dovrebbero offrire
l’accoglienza successiva al primo soccorso. In questi centri la persona dovrebbe
presentare la domanda di asilo, attendere l’esame delle Commissioni e poi essere
inviata allo SPRAR. Il documento insiste sul fatto che il periodo dovrebbe essere
breve, ma le condizioni oggettive fanno pensare invece a periodi prolungati. In
queste condizioni i centri dovrebbero ospitare parecchie centinaia di persone. 3)
Ultimo livello è il sistema SPRAR che si configura come seconda accoglienza e
passo decisivo per l’integrazione.
La strategia del Piano Nazionale è confermata nella nuova disciplina
dell’accoglienza dei richiedenti asilo (decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142)
261
che recepisce le ultime direttive europee in materia di procedure di accoglienza
(Direttive UE 2013/33 e 2013/32). Siamo all’inizio di questo “rinnovato”
sistema di accoglienza il cui obiettivo principale è di strutturare in via ordinaria
ma flessibile l’accoglienza in Italia, nonostante ciò diversi appaiono i nodi da
scogliere per una sua piena messa a regime. Il diritto all’accoglienza dei
richiedenti asilo e il dovere giuridico per gli Stati membri dell’Unione europea a
“garantire loro un livello di vita dignitoso e condizioni di vita analoghe in tutti gli
Stati membri” (par. 7 preambolo) sono stati ripetutamente disattesi negli ultimi
anni sia da un punto di vista quantitativo (numero di posti a disposizione spesso
abbondantemente inferiore alle reali necessità), sia da un punto di vista qualitativo
(scarso rispetto anche solo degli standard minimi previsti dalla legge).
3. I tre casi studio: In Migrazione (Casa Benvenuto), CIAC e GUS
L’approfondimento comprende tre casi studio, che sono stati indagati in
profondità, tramite analisi dei documenti, interviste in profondità e visite nei
centri. I tre casi sono selezionati in quanto rappresentativi di pratiche
esemplificative di accoglienza (1), ma anche perché diversi tra loro, in merito alla
collocazione territoriale, alla dimensione, al tipo di approccio e di
coinvolgimento nell’accoglienza da parte delle tre organizzazioni.
Il primo caso è In Migrazione, una Onlus, poi costituitasi come Società
Cooperativa Sociale, attiva nella sperimentazione di progetti e metodologie
innovative nel settore dell’accoglienza e della formazione. Alla base delle attività
di In Migrazione vi è una concezione dell’accoglienza fondata sul principio della
relazionalità, “che mette al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni,
aspettative e sogni” (int. IM). Le visioni e gli approcci elaborati dai membri della
cooperativa in precedenti esperienze di accoglienza, trovano applicazione nel
Centro di Accoglienza SPRAR di Roma Capitale “Casa Benvenuto”, situato nel
quartiere romano di Centocelle. Si tratta di uno SPRAR di dimensioni ridotte (25
ospiti), per cui si è scelto il modello della piccola comunità.
Il secondo caso è quello di GUS (Gruppo Umana Solidarietà), una ONG
marchigiana attiva dal 1993 nella cooperazione internazionale e nell’accoglienza.
GUS gestisce oggi un gran numero di SPRAR, anche al di fuori dei confini
regionali, e, soprattutto, ha accettato la sfida di estendere il proprio raggio di
azione all’accoglienza straordinaria tramite le Prefetture, con l’obiettivo di
colmare il più possibile le distanze tra i due modelli. Le competenze acquisite
dalla ONG negli anni Novanta, durante la crisi della Ex-Yugoslavia, la rendono
un punto di riferimento a livello territoriale, ma anche a livello nazionale, tanto
da essere invitata, nel 1999, a partecipare, insieme ad altre realtà del terzo
262
settore, al tavolo ministeriale convocato per definire un sistema di accoglienza
integrata. GUS in questa sede sostiene l’opportunità di costruire un modello di
accoglienza diffusa, che attribuisca centralità alle istituzioni locali. GUS opera
come ente gestore sin dal primo bando, con tre progetti. Nel 2015 i progetti
diventeranno dodici, dislocati in Sardegna e in Puglia, oltre che nelle Marche. Nel
complesso, alla data di maggio 2015, GUS accoglie, nell’ambito dei progetti
SPRAR, 320 persone, compreso l’ampliamento, cui se ne aggiungono 900,
nell’ambito dell’emergenza prefettura. Questi si trovano nelle province di
Macerata, Ancona e Ascoli Piceno, nella provincia di Teramo e nella provincia di
Latina, cui si aggiunge la gestione di due uffici di frontiera, quello del porto di
Ancona e, dal 2015, quello dell’aeroporto di Fiumicino.
Il terzo caso è quello di CIAC, Centro Immigrazione Asilo e Cittadinanza, che
gestisce progetti SPRAR nella provincia di Parma. In questo caso, l’interesse
dell’esperienza deriva dalla capacità di creare un modello territoriale di
accoglienza – che può rappresentare un riferimento a livello nazionale – nonché
dalla capacità di trasporre teoricamente la propria esperienza nell’elaborazione di
un sistema di tutele per le fasce di popolazione poste in condizioni di particolare
vulnerabilità. Dal 2000 CIAC è un attore centrale nell’ambito del coordinamento
provinciale dell’accoglienza, e nella costruzione di un ecosistema territoriale di
accoglienza, fondato sul principio dell’accoglienza diffusa, con piccoli numeri e
sulla promozione di effettivi percorsi di autonomia e di integrazione lavorativa e
abitativa. Dal 2004 gestisce lo SPRAR Terra d’asilo, che vede come capofila il
Comune di Fidenza e coinvolge 26 comuni. A questo, dal 2014, si affianca il
progetto Una città per l’asilo, il cui ente capofila è il Comune di Parma, che ha
ottenuto il primo posto nella graduatoria dei progetti per il triennio 2014-2016.
CIAC ha, inoltre, recentemente sperimentato quello che loro definiscono
“l’ultimo livello della filiera” ossia Rifugiati in famiglia.
Di seguito, si illustrerà, per ognuno dei tre casi, 1) il modello organizzativo
adottato, 2) il profilo dei beneficiari e le dinamiche attivate, 3) il sistema
territoriale e i rapporti con le istituzioni. Infine, si trarrà dalle esperienze
analizzate possibili modelli di riferimento e si proporrà una valutazione
dell’attuale sistema italiano di accoglienza, anche grazie alle valutazioni espresse
dagli stessi protagonisti.
Il modello organizzativo
Per quanto concerne il funzionamento e i modelli organizzativi, va sottolineato
che sono state volutamente selezionate tre diverse tipologie di organizzazioni che
lavorano in ambito accoglienza: i) un centro di ridotte dimensioni (In Migrazione
con lo SPRAR di Casa Benvenuto a Roma) che ha sviluppato un modello centrato
sul counseling multiculturale; ii) un soggetto gestore di differenti sistemi
263
accoglienza (GUS di Macerata con progetti SPRAR, CAS e uffici ai valichi di
frontiera) ma omogeneo nei servizi e nell’approccio; iii) un soggetto con un forte
radicamento nel sistema territoriale (CIAC di Parma con i progetti SPRAR) che
fonda il suo modello su una concezione dell’accoglienza come dimensione
ordinaria, costitutiva ed integrata del welfare territoriale.
Passando ad illustrare il modello di Casa Benvenuto osserviamo come elemento
cardine “la relazione” tra operatori e beneficiari dell’accoglienza:
“Spesso poi ci si arrabbia pure, si diventa giudicanti. ‘Ah, ma è lui’. Ma è lui che
cosa? Forse hai sbagliato tu, se non hai la chiave relazionale prima, siccome
parliamo di entrare nella vita delle persone, è impensabile. Cioè, l’erogazione
neutra del servizio forse va bene per le rendicontazioni. L’assistenza psicologica
non è che la fai dicendo ‘ecco, lì c’è la porta dello psicologo se vuoi vacci’. Le
persone vengono da Paesi in cui l’assistenza psicologica non è una categoria
conosciuta. O si crea un rapporto empatico con lo psicologo oppure sì, hai
chiesto un servizio, il capitolato l’hai seguito ma che effetto ha?” (int. IM).
Il progetto nasce nel 2013 accogliendo 12 ospiti arrivati direttamente da Pozzallo,
nasce dall’emergenza per poi diventare SPRAR a tutti gli effetti accogliendo 25
persone. Il punto di riferimento del sistema organizzativo è il Presidente di In
Migrazione e direttore di Casa Benevento che ha alle spalle più di quindici anni di
esperienza nel settore. Le persone che lavorano al Centro accoglienza in tutto
sono dieci, con un’esplicita volontà di non ricorrere a volontari, poiché secondo
gli intervistati non ci sono ruoli tecnici, ma sono tutti relazionali e quindi da
costruire: “al volontario dovresti quindi chiedere tempo, tutti i giorni, ma se vieni
una volta a settimana sono più le difficoltà nel mantenere la relazione con gli
ospiti che i benefici” (int. IM).
Sotto il direttore, ci sono due personal tutor: figure professionali innovative nei
contesti di accoglienza. Il personal tutor è la persona che accompagna le persone
ospitate nei Centri (circa 10 ogni tutor) nelle diverse fasi dell’accoglienza con una
presa in carico a 360 gradi. Nelle diverse fasi di vita nella comunità che in un
Centro d’accoglienza si crea, il personal tutor segue la persona accolta in ogni
momento, ridefinendo con lui costantemente il progetto personale d’inclusione
sociale. Un’attività strategica che parte dall’arrivo al Centro fino all’uscita, e
talvolta anche dopo con interventi mirati di follow up. Il personal tutor vuole
essere una figura di riferimento per i beneficiari, in grado di dare risposte
concrete e sostegno, informazioni e orientamento, e in grado di facilitare un tipo
di residenza attiva e motivata e – nelle fasi successive – di promuovere un
graduale e realistico inserimento lavorativo, sociale ed abitativo. Nello specifico il
lavoro quotidiano verte intorno ai colloqui individuali finalizzati a incrementare la
motivazione, la proattività e l’alleanza operativa, ingredienti base per immaginare
264
qualsiasi relazione d’aiuto basata sul rispetto reciproco, sul coinvolgimento
emotivo e sull’assunzione di responsabilità: l’obiettivo principale di tale lavoro è
facilitare il percorso verso una reale autonomia delle persone a partire da un
percorso progettuale co-costruito e sulla base di un contratto operativorelazionale che impegna entrambi, operatore e richiedente asilo o titolare di
protezione. Oltre alle competenze relazionali i tutor hanno competenze di tipo
multiculturale. La metodologia e l’approccio sopra descritto trovano applicazione
nei colloqui individuali settimanali, in quelli di gruppo, chiamati “gruppi stanza” a
cadenza mensile e nei laboratori. Nel Centro lavora anche un operatore legale che
segue la preparazione per la Commissione territoriale, i rinnovi dei documenti,
permessi di soggiorno e così via. Ci sono poi due mediatori culturali, una
mediatrice sociale che accompagna gli ospiti per la residenza, gli aspetti sanitari
etc. e due operatori che si occupano principalmente del tempo libero, delle
relazioni informali e di socializzazione, come ad esempio l’attività del campeggio.
Dal punto di vista organizzativo la catena di comando vede al centro il direttore e
poi i tutor, che si coordinano con il resto degli operatori. “Se l’ospite vede due
persone che dicono cose diverse ne esce disorientato, per questo deve avere un
riferimento forte, tutti hanno un rapporto informale ma non tutti hanno un ruolo
progettuale” (int. IM).
Particolarmente significativa è anche la scuola di L2, strutturata secondo un
percorso laboratoriale di ricerca con gli studenti che partendo dall’esplorazione
del territorio correlato al vissuto quotidiano allarghi progressivamente il proprio
spettro di osservazione fino a estendersi alla cultura italiana e alla sua storia.
L’approccio è teso a costruire una relazione educativa incentrata sull’apertura
all’altro, orientata alla condivisione delle criticità e al superamento dei conflitti.
Per questo i due insegnanti della scuola si avvalgono delle diverse professionalità
coinvolte nel progetto, attraverso un confronto quotidiano e una rete di scambio,
l’esperienza formativa si fa così interdisciplinare, interculturale e orientata al
conseguimento dell’autonomia. Non è sottovalutata l’acquisizione di tutti i
contenuti grammaticali. Ma un percorso di questo tipo, per essere realmente
efficace non può prescindere dal creare e stimolare quotidianamente la
motivazione degli studenti: “qui non esistono attività obbligatorie, perché è una
logica che non produce, se vai a scuola perché costretto non serve a nulla, serve
allora la capacità di agganciarti e stimolarti perché tu frequenti la scuola perché è
una attività piacevole, e per esempio si usa l’italiano per raccontare la propria
storia, non per andare alle poste” (int. IM).
Il GUS gestisce sette CAS, dodici progetti SPRAR (di cui due per minori non
accompagnati) e due valichi di frontiera uno nel porto di Ancona e l’altro
nell’aeroporto di Fiumicino. Elemento caratterizzante del modello GUS è
265
trasmettere un approccio omogeneo all’accoglienza sia che siano SPRAR sia CAS,
evitando la frammentazione e la disomogeneità dei servizi erogati: “saremmo
presuntuosi se dicessi che ci riusciamo, ma c’è una attenzione continua da parte
nostra, verso tutti gli operatori, attraverso la formazione continua facciamo in
modo che prenda forma un modello GUS che non faccia pagare agli ospiti la
fortuna di essere capitati nel sistema SPRAR o la sfortuna di essere inseriti in un
percorso emergenziale” (int. GUS).
Il modello nasce nell’ambito del progetti SPRAR, per rispondere all’esigenza di
creare un network di lavoro a livello territoriale. L’ampliamento delle strutture è
sempre avvenuto grazie alla costruzione di reti e non è collegato a singole
progettualità di finanziamento. Ad oggi, lavorano nell’accoglienza del GUS 180
persone coordinate a livello centrale da un gruppo composto da quattro persone
che garantiscono un approccio a 360 gradi sia sul piano organizzativo che
amministrativo. Lo staff si è dotato di un modello operativo che garantisce
standard qualitativi di interventi in perfetta sintonia con gli standard SPRAR, ma
che tiene conto delle specificità dei territori e di quelle che sono le peculiarità del
modello GUS.
Innanzitutto, il modello è sviluppato attraverso attività trasversali che vanno
dall’amministrazione alla supervisione dei gruppi staff di progetto, dal
monitoraggio tecnico-qualitativo (strutturato nel corso del tempo con un staff
specifico) alla consulenza psicosociale e alla formazione degli operatori. GUS non
segue un approccio gerarchico, fondato su protocolli calati verticalmente sul
progetto, ma alla base di tutto c’è sempre una concertazione, che mette al centro
la persona, il beneficiario. Ciò significa avere un modello di riferimento, ma
flessibile ed elastico. Un secondo aspetto concerne, come per le altre due
pratiche esaminate, l’investimento in termini di professionalizzazione degli
operatori coinvolti e la chiara decisone di non ricorrere a volontari: “io il
volontariato lo faccio nei miei tempi e nei miei spazi ma per occuparsi degli altri
in maniera seria ci vuole professionalizzazione” (int. GUS). Agli operatori viene
costantemente offerta una formazione che ha tra i sui temi principali gli aspetti
legali e giuridici dell’accoglienza, i cambiamenti procedurali ma anche
l’etnopsichiatria e il team building. L’attività di sensibilizzazione e diffusione di
conoscenza rappresenta il terzo aspetto qualificante. Nei territori il GUS ha
attivato laboratori nelle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado.
Con i più piccoli si lavora con le arti grafiche sul tema del viaggio, mentre con gli
studenti delle secondarie si lavora sul concetto di accoglienza e sul diritto alla
mobilità.
Passando alla descrizione operativa delle strutture rileviamo per i progetti SPRAR
un modello di accoglienza diffusa in appartamenti da un minimo di 4 ad un
massimo di 6 persone. Le abitazioni vengono scelte tramite agenzie specializzate
266
con il criterio base di evitare luoghi periferici e marginali. Gli staff prevedono la
presenza di un coordinatore di progetto, di un assistente sociale e di operatori che
variano in base ai numeri del progetto e quindi alle risorse, che seguono la
gestione dei beni di prima necessità, l’accompagnamento sanitario, le attività di
integrazione (bilanci di competenze, corsi di formazione, inserimento lavorativo
etc.), gli aspetti legali e delle questioni legate alla concessione del codice fiscale,
all’iscrizione anagrafica, alla residenza. Questi gruppi di lavoro vengono
coordinati dallo staff di coordinamento e supportati dallo psicoterapeuta che
effettua una supervisione una volta al mese. I due psicoterapeuti seguono sia lo
staff sia gli ospiti che ne necessitano.
L’accoglienza in emergenza si è strutturata diversamente nei diversi territori, da
una parte si è iniziato subito con l’accoglienza in appartamenti, con un modello
simile a quello SPRAR, soprattutto dal punto di vista della collocazione in
appartamento e del supporto psicologico che era disponibile sui territori
coinvolti. Ad oggi, “a causa della frenetica velocità nei passaggi tra lo sbarco e
l’arrivo a destinazione abbiamo organizzato il nostro modello in due fasi: un hub
di arrivo dove viene fornita una prima accoglienza e che funge da ‘cuscinetto’ tra
lo sbarco e un tempo per ambientarsi; segue poi il passaggio in appartamento”
(int. GUS).
Per quanto riguarda l’ufficio di frontiera al porto di Ancona, gli operatori sono
esperti di materie legali e utilizzano – quando necessario – i mediatori linguisticoculturali. Il problema principale che gli operatori devono affrontare è che le navi
che operano ad Ancona ripartono nel giro di qualche ora, non c’è un hub, una
struttura in cui le persone possono scendere ed essere sentite. L’interazione
avviene all’interno della nave stessa in condizioni precarie e con poco tempo a
disposizione. Il ministero, d’altra parte, nel corso degli anni ha investito sempre
meno in questo tipo di servizio: rispetto al 2014 la base di partenza della base di
appalto si è dimezzata. GUS ha garantito comunque una presenza degli operatori
nella fasce d’orario in cui arrivano le navi, diversamente da quanto previsto
nell’orario ufficiale da convenzione poiché la presenza degli operatori
risulterebbe completamente sfalsata rispetto agli orari di arrivo delle navi.
L’ufficio di frontiera è posto al di fuori del porto, in un’area pubblica, e di fatto è
fruito da persone che vengono da fuori, da persone che sono arrivate per altre vie
sul territorio e in qualche caso hanno fatto richiesta di asilo. A Fiumicino, invece,
è il primo anno di lavoro per GUS. Nei locali situati all’interno dell’aeroporto,
tre operatori offrono consulenza legale, informazioni oltre che generi di conforto
(pasti, ma anche biglietti del treno, o quando possibile accompagnamento nelle
strutture) alle persone che vi accedono. L’attività è in progress, la situazione
logistica è difficile, anche sul piano della prima accoglienza: “c’erano solo due
panchine. Le pratiche sono estremamente lunghe e lente, quindi le persone vi
267
stazionano anche per giorni, proprio accampati, per cui c’è bisogno di coperte,
ecc. Abbiamo cercato di contenere un disagio che c’è. Ci sono 35-40 persone al
giorno, per cui è un lavoro molto complesso e impegnativo” (int. GUS).
Il modello di accoglienza sviluppato nella provincia di Parma, costruito in anni di
confronto e di collaborazione tra soggetti pubblici e del terzo settore, pone al
centro il territorio. Elemento chiave che trova sintesi nel nome del progetto
SPRAR Terra d’asilo, in seguito ripreso anche dalla Regione Emilia-Romagna. La
centralità della dimensione territoriale si accompagna all’enfasi posta sulla
creazione di una rete tra gli attori che vi operano. CIAC Onlus ha sin dall’inizio
svolto – e continua a svolgere – un ruolo preminente nella gestione
dell’accoglienza, nonché nell’implementazione di una serie di servizi sul
territorio, che compongono il più ampio sistema territoriale di accoglienza. La
visioni che vi sottostà è efficacemente sintetizzata da un responsabile di CIAC: “la
capacità di tutela e di far valere i diritti emerge dalla rete che li esprime” (int.
CIAC).
Il modello di accoglienza sperimentato a Parma trova, infatti, i propri cardini in
una serie di servizi territoriali, a partire dal “punto provinciale asilo”, che realizza
attività di informazione, orientamento, consulenza e supporto in favore di
richiedenti asilo, titolari di protezione umanitaria e sussidiaria e rifugiati, con
particolare attenzione alle persone che vivono sul territorio, in una condizione di
marginalità e di vulnerabilità, ed hanno difficoltà ad avvedere ai servizi e non sono
prese in carico da progetti di accoglienza. Il Punto provinciale asilo si affianca e si
integra alla rete degli sportelli comunali, gestiti, come il precedente, da CIAC
Onlus, che cura anche le attività di consulenza e si supporto rivolte agli
amministratori locali. Gli sportelli rivolti agli stranieri, in collaborazione,
inizialmente, con sette comuni, vengono aperti nel 2001, contestualmente
all’avvio delle attività di formazione e di consulenza giuridica tra i dipendenti
comunali, nell’ambito del progetto Immigrazione, asilo e cittadinanza. Gli sportelli,
forti del loro radicamento e della loro capillarità, svolgono la funzione di
“antenne storiche”, trovando completamento con il più specifico sportello Asilo.
A questi due servizi, si aggiungono la figura del promotore della salute, e
dell’innovativo servizio di segretariato sociale “culture-oriented”. I promotori della
salute sono operatori che implementano attività informative di promozione
dell’accesso ai servizi nei luoghi informali, in materie che spaziano dalla sicurezza
sul lavoro al percorso nascita. Il segretariato sociale agisce attivando, al momento
dell’accesso, dei percorsi integrati, tra i rifugiati e più in generale tra la
popolazione straniera posti “all’intersezione tra una dimensione giuridica,
sanitaria e sociale e relazionale” (int. CIAC), rispetto a soggetti che, di norma,
non dispongono di un pieno accesso ai diritti. Sul piano del contributo ai percorsi
268
di accoglienza e di integrazione, il segretariato sociale si rivela uno strumento
prezioso, in quanto svolge, sul territorio, una vera e propria funzione di
“emersione”, ossia, permette l’individuazione delle vulnerabilità invisibili, o
latenti, che non avrebbero trovato, in altra forma, modo di esprimersi. Il
segretariato, infatti, consente agli operatori di entrare in contatto con persone
che, altrimenti, risultano sconosciute ai servizi sociali territoriali o alle
organizzazioni del terzo settore. Nella visione degli operatori di CIAC, lo
“SPRAR è la parte centrale di un percorso di filiera”, di cui servizi sopramenzionati rappresentano “il primo raggio dei punti di presidio” (int. CIAC) sul
territorio, posto a monte dell’accoglienza SPRAR. Specularmente, seconda
accoglienza e social housing si pongono a valle del percorso SPRAR. Un effetto
evidente di questo tipo di integrazione è che, se di norma gli SPRAR ospitano
persone, perlopiù provenienti dagli sbarchi, e smistate nei diversi territori, nella
provincia di Parma una quota molto rilevanti delle persone inserite negli SPRAR
proviene dal territorio, e viene intercettato attraverso gli sportelli e i servizi
territoriali.
Sempre nell’ottica del perseguimento di una effettiva e piena integrazione nel
territorio, è recentemente iniziata la sperimentazione dell’accoglienza famigliare,
denominata Rifugiati in famiglia, che rappresenta l’ultimo livello della “filiera”. Le
persone in uscita da un percorsi SPRAR, e che hanno ottenuto lo status di
rifugiato (o di protezione sussidiaria o umanitaria), sono accolte da nuclei
familiari (anche single), che ricevono 300 euro al mese, ma la cui candidatura, più
che su fattori economici, si fonda su motivi solidaristici, sull’adesione a un
modello culturale che trova ampia condivisione nel territorio: “oggi
l’associazione, la famiglia e il beneficiario firmano il contratto, non nell’ottica di
‘ti adotto’, ma ‘ti favorisco l’uscita’. Noi chiediamo un percorso verso
l’integrazione: lingua, reti sociali e informali, ricerca casa e lavoro; non ci
interessa la ‘vecchietta’ che gli fa guardare tutto il giorno la tv” (int. CIAC). Dal
punto di vista operativo vengono raccolte le disponibilità da parte delle famiglie
attraverso le associazioni, poi una psicologa effettua colloqui con le potenziali
famiglie e successivamente se le motivazioni e i presupposti sono idonei si
procede con l’affido che ha una durata massima di 9 mesi.
In generale, il modello elaborato a Parma rifiuta un atteggiamento assistenziale e
caritatevole, e si basa sui presupposti che percorsi effettivi ed efficaci di
integrazioni si possono sviluppare solo se si considerano i rifugiati e i richiedenti
asilo persone titolari di diritti. Il pieno rispetto dei diritti si pone a fondamento di
un’integrazione nel territorio al cui compimento la persona stessa ha acquisito le
competenze e le risorse per contribuire alla società, in un’ottica di reciprocità.
Per questo motivo alla base del modello seguito a Parma non vi è l’idea che i
rifugiati/richiedenti asilo debbano lavorare per restituire ciò che viene dato loro
269
dalla comunità, dal momento che ciò che ricevono è frutto del rispetto dei loro
diritti. “Ci si salva insieme o si affonda insieme con la crisi. I lavori socialmente
utili non servono a nulla, se non a far vedere che ‘fanno qualcosa’, ma a queste
persone non arrivano né i servizi, né i beni primari” (int. CIAC).
Il profilo dei beneficiari
Nell’analisi del profilo delle persone accolte nei tre casi studio dobbiamo
considerare la natura mista dei flussi. Spesso scontiamo di una confusione
terminologica dettata da una parte dal non allineamento tra politiche di ingresso e
normative (procedure) e dall’altro dalle caratteristiche stesse di questi flussi.
Quando si parla di rifugiati e richiedenti asilo si mettono insieme due categorie di
persone che nella letteratura scientifica e nella pratica giuridico-amministrativa
nazionale e internazionale sono ben distinte. I primi essendo persone che fuggono
da guerre e persecuzioni di ogni tipo, che una volta riconosciuta la loro
condizione, hanno diritto a protezione; mentre i secondi sono persone che si
spostano attraverso le frontiere in cerca di protezione, ma che non sempre
rientrano nei criteri della Convenzione di Ginevra. L’instabilità internazionale e
le accresciute possibilità di mobilità geografica sono tra le cause dell’aumento
degli spostamenti di persone in cerca di asilo. Accanto a ciò va ricordato che le
diminuite opportunità di immigrazione per lavoro hanno provocato
indirettamente un maggior ricorso alla strada del rifugiato politico o umanitario
come porta d’ingresso nei paesi a sviluppo avanzato (Ambrosini, 2005).
I tre casi studio analizzati ci mostrano che i richiedenti asilo arrivano non solo via
mare con le imbarcazioni fatiscenti, ma anche dalle grandi navi, dagli aerei e dal
territorio italiano. Senza entrare nello specifico delle caratteristiche socioanagrafiche dei beneficiari accolti nei nostri tre casi, che ripropongono su scala
locale quanto emerso a livello nazionale, delineiamo in questo paragrafo alcuni
tratti caratteristici dell’utenza coinvolta.
Una popolazione “sospesa” che, a causa delle lunghe procedure di esame delle
domande, dei ricorsi e della temporaneità della condizione, è stata efficacemente
definita da Ambrosini (2005) dallo status precario, incerto e reversibile.
Iniziamo dall’ufficio di frontiera di Fiumicino che GUS gestisce da inizio anno. In
questo caso si tratta per lo più di richiedenti e titolari di protezione rinviati in
Italia in applicazione del Regolamento Dublino, corrispondenti a quasi 2/3 degli
arrivi complessivi presso l’aeroporto (Leo, 2014). I richiedenti asilo rimangono in
attesa dell’espletamento delle pratiche per un periodo che varia a seconda della
situazione legale di ognuno. È necessario distinguere tra due categorie di
richiedenti asilo riportate nel rapporto ASGI (Leo, 2014) i “non attivanti” e gli
“attivanti”. Le due situazioni al momento dell’arrivo in aeroporto sono, infatti,
270
profondamente diverse. I richiedenti asilo che devono riattivare la procedura in
altre parti del territorio nazionale (c.d. “non attivanti”) rimangono presso
l’aeroporto di Fiumicino per il tempo strettamente necessario alla notifica agli
stessi degli eventuali provvedimenti loro spettanti. Da quanto emerso, la
permanenza di queste persone presso l’aeroporto è di circa 6-7 ore. Viceversa, i
richiedenti asilo che devono formalizzare la propria domanda di protezione (c.d.
“attivanti) vengono trattenuti presso l’aeroporto di Roma Fiumicino fino
all’effettiva formalizzazione della richiesta e all’eventuale reperimento di un
Centro di accoglienza disponibile. Dalle interviste raccolte nella ricerca ASGI tali
richiedenti rimarrebbero presso l’aeroporto in media per 2-3 giorni, ma sono
stati registrati, casi di persone rimaste presso l’aeroporto per più giorni.
Ci sono poi in arrivo presso l’aeroporto di Fiumicino i titolari di protezione
internazionale o umanitaria che vi permangono al massimo per 1-2 giorni. Sulla
base delle valutazioni di tipo quantitativo effettuate a partire dalla ricerca ASGI si
rileva che nell’arco di tempo di un anno (settembre 2013-settembre2014) sono
transitate per l’aeroporto di Roma Fiumicino tra le 3200 e le 3800 persone. Tra
queste persone è possibile stimare che almeno 2000 siano richiedenti e titolari di
protezione rinviati in Italia in applicazione del Regolamento Dublino (Leo, 2014).
Fiumicino è un ambito di osservazione privilegiato su Dublino, mentre l’ufficio di
frontiera al porto di Ancona presenta una situazione molto diversa. In questo caso
il 99% delle persone che arrivano provengono dalla Grecia e attualmente gli
operatori del GUS rilevano un’altissima percentuale di potenziali richiedenti
protezione, che preferiscono tornare in Grecia che dare le proprie generalità in
Italia. Arrivano dalla Grecia o con documenti falsi o nascosti nei Tir e qualora
vengono intercettate l’operatore di turno offre delucidazioni e risposte alla
domanda sulla protezione internazionale, ma nell’ultimo anno si assiste alla
decisione di non formalizzare la richiesta e tornare indietro. Di fatti le richieste di
asilo di persone che provengono dal porto di Ancona sono molto basse.
Per quanto riguarda le presenze negli SPRAR e nei CAS rileviamo, così come a
livello nazionale, la presenza sia di titolari di protezione che di richiedenti asilo. Si
passa da strutture quasi mono nazionali come nel caso de Centro di accoglienza
Casa Benvenuto – che ospita per lo più pakistani – a soggetti (GUS) con tanti
beneficiari di nazionalità diverse fino a progetti dedicati a soggetti vulnerabili (ad
esempio il disagio mentale nello SPRAR di CIAC). Quel che emerge da tutti gli
intervistati è un approccio comune alla “mixitè” in quanto implica un minor
livello di complessità: “non favoriamo le stesse nazionalità, anzi, favoriamo il
rimescolamento, anche se in alcuni casi le scelte sono obbligate. [...] Sono
comunque più abituati alla differenza di noi, è più un nostro retaggio quello della
diversità, per loro il rispetto è può scontato di questo possiamo pensare, poi è
chiaro che ci posso essere persone con comportamenti critici per esempio l’uso di
271
droghe, ma l’appartenenza a diverse etnie non ha mai creato problemi nella
gestione degli appartamenti” (int. GUS)
Se, di norma, gli SPRAR e i CAS ospitano persone, perlopiù provenienti dagli
sbarchi e distribuite nei diversi territori, nella provincia di Parma una quota
molto rilevante delle persone inserite negli SPRAR proviene dal territorio e
vengono intercettate attraverso gli sportelli e i servizi territoriali. Ad oggi circa la
metà degli ingressi SPRAR in provincia di Parma riguardano richiedenti asilo
provenienti dal territorio e non persone giunte via mare. In questo modo, si
riduce l’iniquità del modello nazionale, che tende, seguendo un’impostazione
emergenziale, a essere scarsamente selettiva rispetto ai potenziali richiedenti asilo
provenienti dagli sbarchi e direttamente indirizzati in percorsi di accoglienza, e
coloro che invece sono già presenti sul territorio: “gli arrivi sono numerati. I
numeri degli sbarchi erano uno successivo all’altro. Uno è arrivato in pullman,
l’altro dopo qualche giorno con le sue gambe, uno era dentro il CAS e uno fuori.
Fino al numero mille del pullman sono stati accolti, il numero 1001 no, ed erano
dello stesso sbarco perché lo sappiamo tramite gli sportelli. Noi abbiamo vicino
Malpensa e Trieste, la frontiera nord; molti afgani, molti che seguono la rotta
balcanica o che passano dall’Ungheria, arrivano poi sul territorio” (Int. CIAC).
Concludiamo questa panoramica con l’esperienza pilota dei primi rifugiati in
famiglia. Il primo ragazzo inserito in provincia di Parma – proprio al momento
della visita sul campo dei ricercatori – è un rifugiato politico curdo, il secondo è
un ragazzo somalo insegnante di matematica, seguiranno due ragazze fino ad
arrivare nel giro di due anni all’ingresso in famiglia di 20 persone. Non c’è dubbio
che tale presenza costituisca un fattore di mutamento sociale che pone sfide nuove
alle forme della convivenza interculturale, e sollecita a ricercare modalità di
accoglienza e di integrazione in grado di garantire pari opportunità, ridurre i
rischi di discriminazione ed esclusione sociale. In questo senso la pratica di
rifugiati in famiglia può rappresentare una sfida da cogliere purché accompagnata,
sostenuta, preparata sia nella fase pre ingresso in famiglia sia in quella post
inserimento.
Il sistema territoriale di accoglienza
Sul piano del radicamento in un sistema territoriale di accoglienza, i tre casi
oggetto della ricerca sono assai diversi tra loro. Il primo, Casa Benvenuto, è una
piccola esperienza, collocata in una città, Roma, in cui sono presenti numerose
strutture, alcune delle quali molto grandi. Ma soprattutto, Roma è la città in cui
sono emerse le pratiche illegali che hanno visto protagoniste alcune grandi
cooperative attive nel settore dell’accoglienza, al punto di alimentare la diffidenza
nei confronti del cosiddetto “business dell’accoglienza”. In questo contesto, Casa
Benvenuto spicca più per il carattere di alterità che per la sua rappresentatività.
272
GUS e CIAC sono, al contrario, organizzazioni che si pongono al centro di un
sistema territoriale (o più sistemi come nel caso del GUS) in cui, per la loro
esperienze e per la loro autorevolezza, assumono il ruolo di punti di riferimento.
L’esperienza di Casa Benvenuto offre, non di meno, indicazioni in vista della
costruzione di un modello integrato di accoglienza, che promuova “un percorso
armonico che sappia coniugare le specifiche esigenze implicite nelle varie fasi
d’inclusione della persona accolta con un filo conduttore metodologico,
progettuale e relazionale unitario. Un progetto che intende perseguire l’obiettivo
di una qualità reale che non si limita alla quantità dei servizi erogati e ai profili
professionali impiegati nello staff, ma soprattutto alla trasversalità dei servizi
offerti (accompagnando alla reale e corretta, al considerare le attività non come
singoli frammenti di un percorso, ma come armoniosa parte di un tutto, che si
pone specifici obiettivi progressivi, da rimettere in discussione ed aggiornare
costantemente partendo dalla specificità di ogni persona accolta, che diventa
fulcro e anima del progetto e non semplice” destinatario finale” degli interventi”
(Andreotti, 2015). La filosofia adottata dai responsabili di Casa Benvenuto si
riflette nel rapporto della struttura e dei suoi beneficiari con il territorio. Se
l’esperienza nel Centro deve rappresentare una tappa, all’interno di un percorso
individuale più ampio, il Centro stesso viene concepito come un laboratorio di
inclusione, da cui partire per (ri)costruire reti di socialità e relazioni, in una ottica
sempre più ampia, fino al punto di offrire le necessarie risorse per affrontare un
percorso di inserimento nuovo nella società di accoglienza. “Il Centro è un
laboratorio di inclusione, lavoriamo dentro il centro, poi nel quartiere, poi a
livello di città perché il sistema sociale è troppo complesso, e allora il centro può
diventare un laboratorio” (int. IM). Il Centro è un luogo protetto, una piccola
comunità, in cui sviluppare risorse e relazioni che possano “poi accompagnare gli
ospiti nella relazione e nell’inclusione con la comunità ben più complessa (nei
suoi lati positivi e negativi) con cui progressivamente si entra a contatto
all’esterno (quartiere, città, nazione)” (Andreotti, 2015). Casa Benvenuto ha la
porta sempre aperta, e gli ospiti possono entrare ed uscire a qualsiasi ora. Come
sottolinea il responsabile, “un Centro sempre aperto è rassicurante un Centro
chiuso meno” e “se è aperto e vedi un clima sereno favorisci la conoscenza” (int.
IM). A favorire la percezione della struttura non come un elemento estraneo al
territorio, ma come un elemento costitutivo dello stesso, vi è un continuo
interscambio con l’esterno, favorito dall’accesso di persone che non sono ospiti
dello SPRAR ma che accedono ad altri servizi, come lo sportello per gli
immigrati, o frequentano i corsi di italiano insieme agli ospiti della struttura. Il
quartiere diventa così, dopo il Centro, una tappa della progressiva scoperta del
territorio, per arrivare a vivere positivamente la complessità di una metropoli
come Roma.
273
GUS, al contrario di In Migrazione, è una organizzazione molto grande, che ha le
radici in una regione i cui numeri, in materia di accoglienza, sono ridotti, rispetto
a quelli del Lazio. L’ONG rappresenta un solido punto di riferimento per le
istituzioni, che ne riconoscono l’esperienza, la competenza e la solida capacità
organizzativa. La conoscenza e il radicamento nel territorio, per GUS,
rappresentano un necessario presupposto per attivare percorsi virtuosi, tanto che
l’espansione in territori diversi dalle Marche è avvenuta a seguito della
costruzione di reti, e non come mera risposta a un bando. Sia nell’organizzazione
interna, sia al momento di relazionarsi con le Prefetture e gli altri attori del
territorio, l’obiettivo che si pone GUS è “di trasmettere un approccio omogeneo
comune all’accoglienza, al di là del singolo tipo di percorso in cui sono inseriti”
(int. GUS). Trattandosi di un’organizzazione che gestisce una parte rilevante dei
progetti attivi nel territorio, e che è impegnata in rapporti constanti di
interlocuzione con le istituzioni territoriali, questo tipo di strategia finisce per
condizionare e connotare positivamente l’interno territorio in cui trova
attuazione, che viene così a definirsi come un vero e proprio modello, a livello
nazionale. Alla base di questo modello vi sono alcuni elementi chiave:
l’affermazione della logica dell’accoglienza diffusa in piccole strutture
(appartamenti), al fine di favorire i percorsi di autonomizzazione dei beneficiari e
di favorire al massimo i percorsi di integrazione nel territorio; il principio
dell’integrazione tra prima e seconda, e quindi terza accoglienza; il
perseguimento della massima riduzione della disparità tra accoglienza SPRAR e
CAS.
Interfacciarsi con una pluralità di attori istituzionali, in territori diversi, permette
a GUS di acquisire consapevolezza in merito alla disomogeneità di approcci
ancora oggi esistente. Il rapporto di collaborazione istituzionalizzata dallo
SPRAR, tuttavia, a differenza dei CAS, permette di avviare processo trasformativi
di lungo periodo, in cui GUS svolge un ruolo non solo di supporto, ma di
formazione e talvolta di supplenza, rispetto alle istituzioni stesse, attivando
dinamiche virtuose. Come sintetizza un responsabile, “possiamo dire che lo
SPRAR è rivolto ai beneficiari, alla cittadinanza, ma anche agli amministratori,
all’ente locale, perché se lavori in tema di accesso ai servizi, per esempio, la
normativa è estremamente complessa, e diciamo che tutto sommato ci sono delle
buone collaborazioni”. “Il modello SPRAR pur nei suoi limiti è strutturato
secondo una logica ad obiettivo, prevede forme di valutazione dei risultati e ha
un’interfaccia: sai che ti puoi rivolgerti a Servizio centrale per qualsiasi problema,
mentre quando i referenti sono le prefetture sai che alcuni sono formati e hanno
alcune sensibilità, altri no” (int. GUS).
In sintesi, l’azione svolta da GUS presenta più di un elemento di interesse. Da una
parte, data la duplice attivazione nel sistema SPRAR e nell’emergenza prefetture,
274
permette di vivere nella propria esperienza quotidiana i limiti di questo secondo
modello. Dall’altra, indica un possibile modello di gestione integrata
dell’emergenza e dell’accoglienza, ponendosi al centro di un modello territoriale
in cui l’organizzazione del terzo settore agisce da surroga alle lacune, alle
inefficienze e alle inadeguatezze delle istituzioni, diventando, di fatto, l’attore
centrale e un chiaro punto di riferimento per tutti i soggetti, istituzionali e non
istituzionali, coinvolti. All’attività di stimolo, di sensibilizzazione e di supporto
svolta nei confronti delle istituzioni, si affianca un’opera di sensibilizzazione
rivolta ai cittadini, rispetto ai quali si cerca di decostruire i principali luoghi
comuni in materia di rifugiati, a partire dalle attività realizzate in collaborazione
con le scuole.
Giovannetti e Olivieri scrivono, in un Quaderno dello SPRAR, che “l’esperienza
SPRAR, a distanza di alcuni anni dalla sua nascita, evidenzia la non sostenibilità di
pratiche progettate e gestite a livello nazionale, se queste non trovano una loro
declinazione sui territori, ovvero se le progettualità e gli interventi implementati,
pur rispondendo a input e a standard condivisi, non si adattano alle specificità del
contesto. La valutazione dei progetti realizzati evidenzia, in particolare, che i
percorsi di integrazione hanno successo se non avvengono in forma isolata
rispetto ai servizi territoriali di welfare, ma se trovano una piena integrazione con
questi. Il necessario cambio di prospettiva, capace di fare compiere un passo
avanti ai percorsi di accoglienza, si ha dal momento che questa viene concepita e
praticata come una parte integrante delle politiche di welfare e non come un
elemento altro e parallelo” (Giovannetti e Olivieri, 2012). Il punto di approdo
ideale, di un approccio ai rifugiati e ai richiedenti asilo che li consideri una
componente della popolazione con problematiche e bisogni specifici, e non una
presenza contingente e più o meno indesiderata, è l’affermazione di una nuova
concezione, in cui l’accoglienza costituisca un elemento costitutivo e integrato del
sistema territoriale di welfare, e non una parentesi emergenziale.
Assumendo questa prospettiva, il caso della Provincia di Parma assume
sicuramente il ruolo di un’esperienza di riferimento, di una pratica di eccellenza
da prendere come modello e da esportare in altri territori. Il modello si fonda su
una concezione dell’accoglienza come dimensione ordinaria, costitutiva ed
integrata del welfare territoriale. Alla base della costruzione di tale percorso
condiviso vi è l’incontro tra un attore pubblico, caratterizzato da una spiccata
sensibilità nei confronti del tema – la Provincia di Parma – e un attore del terzo
settore che vanta competenze, di ordine “pratico” e teorico in tema di
accoglienza: CIAC Onlus.
In sintesi, tra gli elementi di forza del modello del modello parmigiano, che ha
trovato una positiva applicazione anche a livello regionale, vi è l’incontro virtuoso
tra l’azione di un ente territoriale, la provincia, e un soggetto del terzo settore,
275
CIAC Onlus, che sono riuscite a “fare sistema”, coinvolgendo anche gli altri attori
del territorio, a partire dai Comuni e dalle ASL. CIAC, nelle parole dei suoi
responsabili, “intende attrezzare il territorio, senza però vedersi come soggetto
autosufficiente, ma avere un’ottica in chiave evolutiva, non ‘fare il favore al
comune’, ma coinvolgere, si propone una logica non di sostituzione ma di
sussidiarietà” (int. CIAC).
I soggetti coinvolti nell’elaborazione e nel consolidamento del modello di
accoglienza integrata sviluppato a Parma, concordano che questo possa
rappresentare un punto di riferimento a livello nazionale.
“Abbiamo voluto immaginare questo sistema di asilo non come quello di Parma,
ma di tutta Italia, dove a fronte di bisogni specifici, se te vai al pronto soccorso e
ti rompi una gamba non ti mandano via perché hanno solo dieci gessi e tu sei
l’undicesimo; magari aspetti il giorno dopo ma il gesso te lo danno. In senso
ampio tutti i territori, a livello provinciale, dovrebbero avere questa filiera. È
rivoluzionario in quanto va a scardinare la logica degli sbarchi e dello stesso
SPRAR. Per noi la logica è: emersione precoce, continuità dei percorsi,
territorialità. Quelle persone che sono accolte in pronta accoglienza non si
accorgono nemmeno del giorno in cui “diventano” SPRAR, continuano a essere
accolte nelle stesse condizioni” (int. CIAC). Anche CIAC, come GUS, si prefigge
l’obiettivo di ridurre al massimo le differenze di trattamento tra i beneficiari
SPRAR e gli ospiti di CAS. Si lamenta, però, che i recenti sviluppi nazionali delle
pratiche di accoglienza non solo non vanno in direzione di un recepimento del
modello sperimentato nella provincia di Parma. Al contrario, privilegiando un
approccio emergenziale e, in alcuni casi incentivando attivamente l’utilizzo delle
grandi strutture (approccio securitario e preferenza per le grandi strutture, in
nome del controllo, vanno di pari passo), si avverte il rischio di compromettere
anche i risultati a cui si è approdati attraverso un percorso di anni di confronto, di
dialogo, di sensibilizzazione, di creazione di prassi condivise, creando un
ambiente culturale e organizzativo sfavorevole all’accoglienza e che, al contrario,
favorisce lo sviluppo di atteggiamento di chiusura.
“Relazione, welfare territoriale e omogeneità nei sistemi di accoglienza”: le parole chiave
per una valutazione del sistema italiano
I tre casi analizzati si discostano, in positivo, dalle prassi diffuse in Italia, offrendo
elementi per formulare possibili strategie di riforma e fornendo, al tempo stesso,
preziosi punti di vista, rispetto alle lacune, alle criticità, ma anche alle potenzialità
presenti nel modello attuale. La complessità del fenomeno e l’attenzione
mediatica hanno generato uno “schiacciamento” delle politiche e delle pratiche
che ne conseguono, sulla gestione emergenziale di un fenomeno intenso che vuol
276
esser e deve esser gestito in modo ordinario e coordinato con il sistema
territoriale.
Come sottolinea il responsabile di Casa Benvenuto, “noi le cose le facciamo e le
comunichiamo per dare un contributo al sistema. Il sistema italiano di accoglienza
ha un problema perché esistono tre sistemi diversi che sono diversi non solo per
servizi erogati. Il CARA è figlio di un approccio vecchio e superato dai tempi e
che convive con lo SPRAR. Il secondo pone al centro la dimensione
dell’integrazione e dell’inclusione, mentre nell’altro prevale ancora una visione
emergenziale e securitaria, e lo vedi da come, nel capitolato, prevale l’enfasi su
aspetti organizzativi mentre la dimensione formativa, per esempio, è affronta in
poche righe. Ci fosse un regia che crea una differenziazione dei centri, e che
promuove una velocizzazione dei tempi della commissioni, in modo da favorire il
passaggio rapido dei beneficiari dal CARA allo SPRAR, potrebbe anche andare
bene, il problema è che i due modelli procedono in parallelo, ovvero si rivolgono
alle stesse persone. Vorrei che i nuovi capitolati fossero costruiti alla base di una
analisi delle esigenze, dei bisogni e degli obiettivi, e non con un copia e incolla
rispetto a quelli precedenti. Oggi hai l’ampliamento SPRAR, i CAS e i CARA che
svolgono la stessa funzione di prima accoglienza, così non crei una messa a
sistema e ingolfi il sistema piuttosto che liberare posti, e il risultato è che sprechi
soldi” (int. IM). Capitolati inadeguati e anacronistici e lacune nel sistema di
controllo costituiscono i problemi principali da affrontare. “Ci sono CARA molto
mal gestiti che sono affidati con bando, ma non è quello il problema, il problema,
la vera partita si gioca sul come prepari e organizzi l’accoglienza” (int. IM). La
critica verte sull’impostazione emergenziale ancora prevalente, più che sulla
tendenza a privilegiare le grandi strutture, che continua a caratterizzare le
soluzioni elaborate. A differenza di altre realtà che rappresentano delle best
practice in materia di accoglienza, infatti, i responsabili di Casa Benvenuto non
ritengono che le piccole strutture siano necessariamente più efficaci ed efficienti
delle grandi strutture. Sia per quanto riguarda l’inserimento dei singoli (“nel
piccolo gruppo posso avere una persona che non riesce ad integrarsi e finisce per
essere schiacciato, nel grande gruppo è più facile che trovi qualcuno”), sia per
quanto riguarda la dimensione organizzativa. “Io che lavoro con gruppi e
sottogruppi, lavoro meglio con più ospiti, entro certi limiti, perché posso avere
un maggiore complessità di coordinamento, il centro grande potenzialmente lo
puoi anche gestire bene, mentre nel piccolo possono avere difficoltà a coprire le
necessarie economie di scale. L’ideale è 40, 25 già è piccolo […] Lavorare in un
gruppo grande significa più risorse ma promette anche dinamiche di gruppo più
positive” (int. IM). Ciò, pur riconoscendo che l’esistenza di grandi strutture crea
un terreno più fertile per lo sviluppo di cattive pratiche, mentre le strutture più
ridotte sono relativamente più facili di controllare. I fatti evidenziati da “Mafia
277
Capitale” dimostrano come la mala gestione dei Centri d’accoglienza pregiudichi i
diritti dei migranti come dei territori in cui tali Centri vengono aperti.
La concezione dell’accoglienza come l’inserimento del beneficiario in una
comunità che gli consenta di acquisire autonomia e di costruire relazione di
socialità in un ambiente positivo, che funga da “laboratorio” propedeutico
all’integrazione della società esterna, con una logica concentrica (centro di
accoglienza, quartiere, contesto esterno più ampio), si pone come fondamenta di
una modo di concepire l’accoglienza non più come risposta emergenziale, ma
come una opportunità per gli ospiti e per il Paese. Ripensare il sistema italiano di
accoglienza, a partire dal suo strumento più efficace e innovativo, lo SPRAR,
significa anche enfatizzarne e rilanciarne alcune caratteristiche che si sono
affermate solo in parte. In primo luogo un coinvolgimento maggiore dei Comuni,
sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo, da perseguire attraverso un
maggiore impegno da parte di ANCI “nel saper comunicare ai Sindaci
l’opportunità che aderire al Sistema SPRAR rappresenta. Una sensibilizzazione
che sappia avere una particolare attenzione ai tanti piccoli comuni che pur
custodendo porzioni prestigiose del nostro territorio, sono a rischio di uno
spopolamento che ne mina l’esistenza stessa” (Andreotti, 2015).
Anche i responsabili di GUS convergono, con le altre organizzazioni coinvolte
nella ricerca, che il sistema italiano di accoglienza sia da riformare, superando la
logica dell’emergenza ed assumendo lo SPRAR come modello di partenza. “Ben
venga che ci siano modelli di accoglienza diversa, ben venga però che ci sia una
logica di coordinamento rispetto a servizi che non possono essere paralleli, e che
si sostituiscono a vicenda, talvolta, ma che nascono con approcci e funzioni che li
rendono tutt’altro che paralleli e interscambiabili, lo SPRAR e il CAS che
dovrebbero essere quanto meno consequenziali” (int. GUS). Ciò che rende lo
SPRAR un modello più efficace e più equo, rispetto ai CAS, sono l’enfasi sulla
seconda accoglienza, la logica per obiettivi, la previsione di strumenti di
monitoraggio, il coinvolgimento attivo e la responsabilizzazione delle istituzioni
territoriali. Quest’ultimo elemento, a ben vedere, solo in alcuni casi è stato
effettivo, mentre in altri casi è rimasto un elemento formale, al punto che gli enti
locali, invece che fornire supporto, diventano enti da assistere e stimolare, se non
sostituire. Si ritiene che sia opportuno introdurre un livello intermedio di
coordinamento, che può essere svolto dalle regioni. Queste possono promuovere
una “lettura univoca rispetto all’eccesso ad alcuni servizi che sono di competenze
delle regioni in maniera omogenea, che non sia lasciato al potere interlocutoria
dell’ente gestore, che può essere un grande cooperativa esperta o una piccola
associazione senza potere contrattuale” (int. GUS). Poiché la disparità, talvolta
l’arbitrarietà nell’interpretazione della normativa (si pensi alla concessione della
residenza) rappresenta un ostacolo alla costruzione di un sistema integrato di
278
accoglienza e complica il lavoro dei soggetti gestori, si invita anche Anci a
svolgere una funzione di indirizzo, rispetto ai 600 enti locali coinvolti. Del resto,
il modello SPRAR è caratterizzato da evidenti lacune e criticità anche sul piano
dei meccanismi di controllo e monitoraggio, che privilegiano elementi di forma,
ma lasciando ampia discrezionalità al momento di verificare l’erogazione di servizi
fondamentali. “Lo SPRAR deve fondarsi sull’affermazione di diritti certi, ed è
paradossale che nelle visite di monitoraggio e di valutazione degli SPRAR quasi
tutto il tempo vada nella visita alle strutture, a controllare anche la singola
lampadina fulminata, e la visita al comune serve per rendicontare sul risultato
della visita, invece che a indagare diritti, doveri e responsabilità degli enti locali”
(int. GUS). D’altra parte, sebbene il modello SPRAR non abbia impedito lo
sviluppo di pratiche di malaffare (si pensi agli episodi di cronaca avvenuti a Roma,
che in molti casi riguardavano progetti SPRAR), la sua strutturazione e la sua
natura corale permette maggiormente di prevenire il “business dell’accoglienza”,
ovvero l’attivazione di soggetti che non hanno la sensibilità e le competenze
necessarie, che invece si attivano in risposta ai bandi CAS, mossi esclusivamente
dal profitto, che non sono in grado (e interessati) a garantire uno standard
minimo neanche sul piano del vitto e dell’alloggio, e che assolvono le altre
funzioni richieste su un piano meramente formale. Come ricorda un responsabile
GUS: “una volta un soggetto che aveva appena vinto il bando per accogliere
sessanta persone mi ha chiesto cosa sia il diritto di asilo” (int. GUS).
Le linee guida per l’accoglienza elaborate dal coordinamento provinciale di Parma
si pongono l’obiettivo di garantire a tutti i soggetti posti in condizione di
vulnerabilità un’accoglienza integrata, di tipo multidimensionale, che affronti e di
risposte efficaci alla complessità dei bisogni di cui sono portatori, e, soprattutto,
garantendo una piena attribuzione dei diritti che spettano a ogni individuo. Alla
base del modello implementato nel territorio di Parma vi è la convinzione che “le
politiche sull’asilo vanno infatti considerate parte integrante delle politiche
territoriali e del sistema dei servizi socio-sanitari generali, con proprie specificità
(competenze tecniche specifiche, formazione degli operatori), e non un sistema
parallelo né astratto dalla rete dei servizi alla persona. In tal modo il lavoro
quotidiano di accoglienza, presa in carico, cura, riabilitazione e valorizzazione
delle risorse individuali potrà svilupparsi in termini di capacità ed efficacia,
consolidarsi e partecipare anche alla crescita dell’intero sistema dei servizi nonché
dei territori nel loro complesso” (Provincia di Parma – CIAC, 2011, p. 7).
Coordinamento, messa in rete dei soggetti che, a vario titolo e in relazione ad
aspetti specifici, partecipano al sistema territoriale dell’accoglienza, progettazione
e condivisione di strategie di azione unitarie, nella loro multidimensionalità,
rappresentano elementi essenziali per gestire le problematiche legate alla
vulnerabilità sociale che definiscono rifugiati e richiedenti asilo, che sono per loro
279
natura complesse e definite dall’interdipendenza tra aspetti sociali, sanitari,
giuridici, amministrativi.
Alla condizione di sradicamento, di deprivazione economica e di marginalità
sociale che di norma definiscono l’esperienza dei rifugiati, si associano una
pluralità di condizioni e di variabili soggettive, di disagio psichico, di malattia o di
disabilità, cui non di rado si sommano gli effetti di violenze e torture. Perciò è
richiesto un approccio multidisciplinare e integrato. La prospettiva generale è
quindi quella di “una integrazione delle politiche sull’asilo nelle più generali
politiche sociali e sanitarie a costituire il cardine di questo lavoro nonché
costituisce la premessa essenziale per leggere le linee guida e poterne valutare
plausibilità e sostenibilità. Solo tale integrazione di funzioni tra la dimensione
dell’accoglienza e della protezione dei rifugiati e quella delle politiche sociosanitarie può costituire la premessa per costruire un sistema capillare, accessibile,
omogeneo e capace di uno sviluppo reticolare. Per realizzare tale integrazione è
necessario superare le singole sperimentazioni locali per giungere alla
predisposizione di un programma nazionale innovativo che coinvolga Regioni e
autorità centrali. Si tratta di mobilitare un’intera comunità, un intero territorio,
che solo nel suo complesso potrà essere capace di con-tenere e prendere in carico
un così complesso trauma. Significa riconoscere un valore “terapeutico” alla stessa
strutturazione della rete, consentendo, all’atto pratico una pluralità di riferimenti
e possibilità di accesso, e, su un piano più astratto, un progressivo radicamento e
sensibilizzazione di competenze specifiche e specifiche modalità di relazione”
(Rossi, 27).
Il modello che si è seguito, soprattutto a seguito dell’emergenza Mare Nostrum,
è andato nella direzione opposta a quanto auspicato dagli attori, istituzionali e
non, che si occupano di accoglienza nella Provincia di Parma, e che si trovano, al
contrario, a gestire, anche nel proprio territorio, un modalità di organizzazione,
quella gestita dalle Prefetture, che non discrimina sufficientemente tra i soggetti
che si candidano a gestire le strutture e che prevede la realizzazione di grandi
strutture di accoglienza, in cui è particolarmente difficile realizzare un progetto
integrato, soprattutto se i soggetti gestori sono improvvisati. La preoccupazione
diffusa è che quella, non solo di non diffondere, ma di scardinare completamente,
anche a livello regionale e provinciale, un sistema costruito con in anni di, lavoro
e che ha visto molte risorse impegnate. In altre parole, che l’emergenza, piuttosto
che come l’occasione per compiere un rafforzamento del sistema, giungendo a
una situazione di responsabilità condivisa tra i vari livelli amministrativi, e fondata
sull’individuazione di quote da distribuire in tutti i Comuni del territorio,
all’interno di una modalità condivisa e strutturata di intervento, conduca, anche
nei territori in cui si era sviluppata una maggiore sensibilità, a uno sfaldamento
del sistema, le cui conseguenze rischiano di riflettersi non solo sulle persone
280
direttamente coinvolte, ovvero sui rifugiati, ma su tutti i cittadini, poiché, come
ricorda Berti nel suo contributo in questo volume, “senza una accoglienza efficace
c’è un rischio concreto di assistere alla formazione di sacche di marginalità, di
ghetti, di zone franche che nel lungo periodo potrebbero causare problemi ben
più seri, comprese dinamiche legate alla stessa sicurezza, come mostrano tante
vicende delle banlieue francesi, belghe”. D’altra parte, gli episodi di conflitto, di
violenza, di terrorismo, alimentano una spirale di chiusura e di odio, le cui prime
vittime sono le stesse donne e gli stessi uomini che sono costretti a fuggire dal
loro paese perché vittime di regimi dispotici che li opprimono e non consentono
loro di vivere una vita sicura per sé e per i propri figli. Le rappresentazioni
pubbliche e le dichiarazione di alcuni “imprenditori dell’odio” che indicano nei
flussi si rifugiati la provenienza dei terroristi, rende queste persone doppiamente
vittime della violenza e della privazione dei loro diritti. Scrive, infatti, Ambrosini:
“gli attentati di Parigi 2015 hanno trascinato l’Europa in un vortice ancora più
ansiogeno. Modesti lavoratori manuali provenienti dal Sud hanno pagato il conto,
sotto forma di più rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli attentati perpetrati
da terroristi che, quando hanno varcato i confini, lo hanno fatto il più delle volte
come uomini d’affari, professionisti, studenti o turisti”.
Nota
(1) Si ringraziano Nadan Petrovic per la disponibilità e il supporto nell’individuare le pratiche
prese in considerazione in questo elaborato e i rappresentanti delle organizzazioni che hanno dato
la loro disponibilità a partecipare alla ricerca.
Bibliografia
Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna.
Anci – Ministero dell’Interno (2015), Atlante SPRAR 2014.
Andreotti A. (2015), “Dai centri d’accoglienza ad un sistema d’accoglienza per
richiedenti asilo e rifugiati”, in Omizzolo M., Sodano P. (a cura di), Migranti e
territori. Lavoro diritti accoglienza, Ediesse, Roma.
Giovannetti M., Olivieri M.S. (2012), “Tessere l’inclusione: territori,
operatori e rifugiati”, “I Quaderni del servizio centrale”.
Leo L. (2014), Il sistema Dublino e l’Italia: un rapporto in bilico, ASGI.
Marchetti C. (2014), “Rifugiati e migranti forzati in Italia. Il pendolo tra
‘emergenza’ e ‘sistema’”, in “Rev. Interdip. Mobil. Hum, Brasilia”, 43, pp. 5370.
281
Provincia di Parma – CIAC (2011), Per un’accoglienza e una relazione d’aiuto
transculturale. Linee guida per un’accoglienza integrata e attenta alle situazioni
vulnerabili dei richiedenti e titolari di protezione internazionale.
Rossi M. (2011), “L’assistenza sanitaria”, in Spada I. (a cura di), Le buone
prassi, “I Quaderni del servizio centrale”, p. 22-36.
Spada I. (a cura di) (2011), Le buone prassi, “I Quaderni del servizio centrale”.
UNHCR (2015), Asylum Trends 2014.
282
Postfazione
Le contraddizioni delle politiche migratorie: perché la chiusura delle
frontiere è una promessa irrealizzabile
di Maurizio Ambrosini
Le politiche migratorie sono diventate un tema chiave dell’agenda politica dei
governi e delle discussioni parlamentari, per non parlare delle campagne
elettorali. Sono oggi “l’ultima importante ridotta di una sovranità nazionale
incontrastata” (Opeskin, 2012, p. 551). In questo saggio intendo ricostruire le
motivazioni delle restrizioni e gli ostacoli che incontrano sul terreno delle
realizzazioni concrete, richiamando attori e interessi che producono aperture
delle maglie e ridefinizioni delle regole della mobilità (cfr. Ambrosini, 2014a).
1. L’enfasi sulla chiusura delle frontiere esterne
In Europa varie formazioni e leader politici hanno costruito le loro fortune sul
contrasto nei confronti dell’immigrazione, riuscendo anche a condizionare
l’approccio di forze politiche più consolidate e tradizionalmente moderate
(Albertazzi e McDonnell, 2008; per il caso italiano: Ruzza e Fella, 2011). Si pensi
al Front National in Francia, al clamoroso successo di Nigel Farrage alle elezioni
europee del 2014 nel Regno Unito, al partito di Pim Fortuyin nei Paesi Bassi,
all’analoga formazione populista delle Fiandre belghe, ai casi austriaco, danese,
svedese e svizzero, con il clamoroso risultato del referendum anti-immigrati del
febbraio 2014.
La direttrice prevalente del discorso pubblico e della produzione normativa in
materia è stata quella della restrizione delle possibilità di movimento verso il
Nord globale, della chiusura delle frontiere e della definizione della mobilità non
autorizzata come minaccia per la sicurezza nazionale (Balibar, 2012), sebbene con
significative eccezioni che richiamerò strada facendo. Possiamo dire che i paesi
sviluppati hanno varato politiche di mobilità selettiva. Glick Schiller e Salazar
parlano di “regimi di mobilità” (2013): gli Stati-nazione favoriscono la mobilità di
alcuni, mentre vietano o restringono la mobilità di altri. Con il concetto di regimi
di mobilità si pongono in rilievo i due aspetti della regolazione politica e della
disuguaglianza nell’attribuzione del diritto a muoversi attraverso i confini. La
283
mobilità politicamente regolata diventa però anche un terreno conteso, in cui
l’ordine imposto dall’alto viene continuamente sfidato ed eroso dalle pratiche di
coloro che dovrebbero esserne esclusi.
Parlerei più precisamente di una stratificazione del diritto alla mobilità: per uomini
d’affari, manager, professionisti, scienziati, artisti, la mobilità è ben vista e
incoraggiata, fino a tradursi in politiche di brain drain che depauperano il capitale
umano del Sud Globale; per i turisti, specialmente se danarosi, ed entro certi
limiti, per gli studenti, la mobilità è apprezzata e favorita, a patto che non si
traduca in soggiorno irregolare e lavoro nero; per gli sposi e i figli di cittadini o di
residenti regolari, è cautamente tollerata e autorizzata, anche se con crescenti
limitazioni; per i lavoratori debolmente qualificati è talvolta ammessa in forma
stagionale, ma di solito è del tutto esclusa, soprattutto se dà luogo un
insediamento permanente. Quest’ultima importante tendenza contrasta con il
fatto che molti sistemi economici, tra cui il nostro, attingano largamente al lavoro
non registrato degli immigrati privi di validi titoli di soggiorno (Ambrosini 2013;
Calavita, 2005).
Se quindi si può parlare di una “svolta della mobilità” (mobility turn) nelle scienze
sociali odierne (Urry, 2000), questa visione va comunque sempre temperata con
la consapevolezza delle disuguaglianze sociali (Faist, 2013): quando si tratta di
lavoratori altamente qualificati, si parla appunto di “mobilità” e la si sollecita; nel
caso invece di lavoratori a bassa qualificazione, si adotta il termine “immigrazione”
e si cerca di bloccarla. Così l’idea che il sedentarismo sia sorpassato, che il
localismo sia sinonimo di arretratezza e declino, che il nomadismo sia il futuro, si
applica in realtà soltanto al primo tipo di lavoratori in movimento; per i secondi
non vale. La mobilità comporta aspettative ottimistiche di vantaggi per gli
individui e per gli Stati, mentre l’immigrazione fa sorgere domande di
integrazione sociale, controllo, difesa dell’identità nazionale. In tal modo, le
opportunità di attraversamento delle frontiere sono diventate il fattore più
importante nella determinazione della posizione degli individui nella gerarchia
delle disuguaglianze dell’età globale (Faist, 2013).
Diverse ragioni possono spiegare questa enfasi sul controllo delle forme di
mobilità umana che vanno sotto il nome di immigrazione, e più precisamente di
migrazioni internazionali. Anzitutto, le ricorrenti crisi economiche. Già a metà
degli anni ‘70 del Novecento il blocco delle frontiere dei tradizionali paesi
riceventi del Centro e Nord Europa nei confronti dell’immigrazione per lavoro
era giustificato con la sfavorevole congiuntura determinata dal primo shock
petrolifero del 1973. La recessione iniziata nel 2008 ha rinverdito questo
argomento, sebbene si possa notare che nei quarant’anni trascorsi i periodi di
espansione economica non siano mancati, senza che le restrizioni verso
l’immigrazione venissero attenuate. Sembra vero piuttosto che i governi, incapaci
284
di controllare la globalizzazione economica, e segnatamente la delocalizzazione
delle attività produttive, abbiano cercato di riaffermare la propria sovranità,
nonché la loro legittimazione agli occhi dei cittadini-elettori, rafforzando i
controlli non sulla mobilità in generale (come si è notato poc’anzi, non sul
turismo o sulla circolazione degli uomini d’affari), ma sull’immigrazione
dall’estero di individui etichettati come poveri, e quindi minacciosi o bisognosi.
Si profila così una seconda spiegazione: gli accresciuti timori per la sicurezza
nazionale (Jaworski, 2011), sprigionati dalla fine della guerra fredda, dall’avvento
di scenari geo-politici più fluidi e instabili, dalla crescente insofferenza di varie
popolazioni del Sud del mondo nei confronti della supremazia del Nord globale, e
sempre più dalle minacce terroristiche. Su questo piano, la comparsa sulla scena
politica dell’islamismo radicale e la data emblematica dell’11 settembre 2001
hanno segnato se non uno spartiacque, di certo l’innesco di un’escalation nelle
restrizioni. Gli attentati di Parigi 2015 hanno trascinato l’Europa in un vortice
ancora più ansiogeno. Modesti lavoratori manuali provenienti dal Sud hanno
pagato il conto, sotto forma di più rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli
attentati perpetrati da terroristi che, quando hanno varcato i confini, lo hanno
fatto il più delle volte come uomini d’affari, professionisti, studenti o turisti. In
realtà gli attentati terroristici hanno rilanciato l’antica paura del legame tra flussi
migratori e minaccia alla sicurezza nazionale che ha diversi precedenti nella storia
contemporanea. Basti pensare ai sospetti nei confronti degli anarchici italiani negli
Stati Uniti all’epoca della grande emigrazione transoceanica. Più profondamente,
hanno dato vigore ai sentimenti di ansia che non riguardano soltanto elementi di
fatto, ma minacce ontologiche, concernenti i valori morali, le identità collettive e
l’omogeneità culturale della società. In questo senso l’inquadramento
dell’immigrazione come un fattore di pericolo, con il rafforzamento dei controlli
e quindi della visibilità degli immigrati, con l’implicita separazione tra “noi” e
“loro” (Colombo, 2008), ha di fatto reso manifesto e incrementato lo scontro di
civiltà teorizzato da Huntington (2000): la securitizzazione delle politiche
migratorie rinforza stereotipi e contrapposizioni che il discorso politico ufficiale
nega (Faist, 2002).
Un terzo argomento a sostegno delle politiche di chiusura fonde in un certo senso
i due precedenti: è il timore del welfare shopping. Gli alieni, siano essi richiedenti
asilo, cittadini neo-comunitari o semplicemente stranieri a basso reddito,
rappresenterebbero una minaccia per gli affaticati sistemi di protezione sociale dei
paesi avanzati, soprattutto in Europa. La protezione del Welfare State ha fornito
storicamente uno dei più potenti fattori di legittimazione delle chiusure nei
confronti dell’immigrazione straniera (Freeman 1986). Mentre i regimi di
welfare sono costruzioni tipicamente nazionali e collegate alla cittadinanza, volte
a garantire la lealtà politica e il consenso dei cittadini, l’insediamento di estranei o
285
la loro domanda di protezione sotto la bandiera dei diritti umani, rappresentano
elementi di contraddizione (Aleinikoff e Klusmeyer, 2001): degli estranei
chiedono di accedere ai benefici propri dei cittadini, incorporati nell’idea stessa di
cittadinanza nazionale moderna. I diritti sociali cessano di essere i “diritti umani
nella vita quotidiana”, come afferma una pubblicità dell’Unione europea, per
diventare un privilegio da difendere contro chi non gode dello statuto di membro
a pieno titolo della comunità dei cittadini. Le solenni dichiarazioni dei diritti
dell’uomo, del bambino, della famiglia, nonché le convenzioni internazionali che
vincolano i governi all’attuazione operativa di questi diritti, si trasformano in
documenti imbarazzanti, da cercare di eludere o da applicare con circospezione,
dopo estenuanti procedure di verifica e selezione dei candidati all’accesso. Poco
importa che gli immigrati, in quanto prevalentemente soggetti in età attiva, siano
contribuenti attivi del sistema di protezione sociale, soprattutto sulle voci più
impegnative, pensioni e sanità. In tempi di crisi, se non lavorano, in quanto
rifugiati accolti temporaneamente, madri casalinghe, minori o disoccupati, sono
visti come un fardello insopportabile per le casse pubbliche; se lavorano, sono
accusati di sottrarre preziosi posti di lavoro ai cittadini nazionali.
La battaglia sul welfare si sta profilando come il terreno più contrastato del
conflitto politico sull’immigrazione nel prossimo futuro: in relazione alla caduta
delle residue barriere sulla mobilità interna dei cittadini rumeni e bulgari, il
governo Cameron ha annunciato misure per limitare l’accesso al welfare de
cittadini neo-comunitari, e altri hanno mostrato di volerne seguire gli intenti.
Uno dei diritti fondamentali della costruzione europea, quello della mobilità
interna dei cittadini, rischia di essere intaccato dalle paure di movimenti migratori
di persone in cerca di tutele. Paure che fin qui, merita sottolinearlo, si sono
rivelate infondate. Le crescenti chiusure nei confronti dei rifugiati rimandano a
giustificazioni analoghe.
L’idea di una comunità nazionale omogenea e sostanzialmente coesa di fronte a
minacce esterne si estende poi alla sfera etica e culturale: la chiusura può essere
motivata con un quarto ordine di ragioni, quelle della difesa dell’identità culturale
della nazione. Gli alieni vengono visti come invasori culturali, portatori di
costumi retrogradi e usanze incivili, responsabili di cedimenti relativisti sul piano
dei diritti fondamentali.
Quest’ultimo approccio è particolarmente interessante per due motivi. In primo
luogo, porta ad estendere la sfera dei controlli dalle frontiere esterne al territorio
interno, dai nuovi arrivati alle minoranze già insediate, da comportamenti
manifesti a convinzioni intime e modi di pensare. In secondo luogo, si presta bene
al ricorso ad argomenti “progressisti” per instillare diffidenza e separatezza,
analogamente a quanto ha osservato Taguieff (1999) per il razzismo
differenzialista. Basti pensare all’evocazione dei diritti delle donne per etichettare
286
le minoranze immigrate come patriarcali e irrevocabilmente arretrate,
riecheggiando temi come quelli del noto saggio “Il multiculturalismo fa male alle
donne?” (Moller Okin, 2007). Oppure alle limitazioni di legge sull’età minima
per il matrimonio, o sul ricongiungimento degli sposi, introdotte in paesi come il
Regno Unito, la Danimarca, i Paesi Bassi, la Francia, con l’obiettivo dichiarato di
contrastare i matrimoni definiti “forzati” e più in generale l’importazione di spose
destinate, secondo i proponenti, a rimanere confinate tra le mura domestiche per
mancanza di conoscenze linguistiche e competenze professionali. Tra l’altro con
queste misure si è giunti a limitare i diritti degli stessi cittadini in campo
matrimoniale e familiare (Joppke, 2007).
Gli scarsi successi ottenuti in materia di integrazione degli immigrati dai paesi che
si erano sbilanciati di più, almeno nel discorso pubblico, verso approcci
multiculturalisti, hanno contribuito a questo riorientamento delle politiche in
materia: il multiculturalismo è diventato un bersaglio di comodo, i fallimenti
nell’integrazione sociale degli immigrati sono stati catalogati come fallimenti
dell’approccio multiculturalista. I governi hanno così potuto riformulare le
proprie politiche in direzione del problematico perseguimento di una maggiore
omologazione politico-culturale dell’immigrazione nell’ambito delle società
riceventi (Prins e Slijper, 2002). Questa direttrice di marcia, tra l’altro,
contribuisce a indebolire sempre più l’idea della sussistenza di “modelli nazionali”
delle politiche di gestione dell’immigrazione (temporaneo, assimilativo,
pluralistico…), spesso ancora ripresa da una pigra pubblicistica. Se già nel
passato, al di là delle retoriche del discorso pubblico ufficiale, era difficile
individuare in concreto serie differenze tra le misure adottate nel quadro
dell’assimilazionismo francese rispetto a quelle varate sotto l’egida del
multiculturalismo inglese (Bertossi, 2011), ora le distinzioni sono diventate
ancora più opinabili. Di fatto il binomio chiusura selettiva-integrazione civica
neo-assimilazionista ha configurato una nuova ortodossia politica ampiamente
condivisa (Joppke, 2007).
2. Le frontiere interne: le nuove pressioni assimilazionistiche
Il terreno dei valori da difendere, dell’identità nazionale da preservare, di uno
zoccolo di premesse culturali da trasmettere, e se necessario da imporre ai nuovi
residenti, ha fornito argomenti allo sviluppo di istanze politiche che, almeno negli
intenti dichiarati, hanno preso decisamente le distanze dalle tendenze
multiculturaliste del tardo Novecento. In successione, leader come Blair, Merkel,
Sarkozy, Cameron, hanno attaccato il multiculturalismo, dipingendolo come
responsabile della separatezza delle minoranze immigrate rispetto alle
287
maggioranze autoctone. Come osserva Joppke, in Europa “il pendolo ha oscillato
dal mantenimento dell’identità culturale [delle minoranze immigrate]
all’imposizione dei valori liberali essenziali” (2007, p. 4).
L’attacco al multiculturalismo in nome dei valori democratici occidentali è un
esempio eminente di quella che seguendo Faist (2002) è possibile definire
“politica simbolica” o anche “meta-politica”. La politica ha sempre una dimensione
simbolica, che serve a mobilitare il consenso e a ricondurre a sintesi diverse
istanze e interessi. In questo caso però, la meta-politica tende a scavare un fossato
tra immigrati e nativi, contrapponendo di fatto “noi” e “loro” e facendo della
dimensione culturale un marcatore di identità conflittuali.
Un’espressione di questa politica simbolica può essere colta nell’accordo sui
principi base comuni in materia di integrazione degli immigrati siglato dal
Consiglio dell’Unione Europea nel novembre 2004. Pur affermando, come primo
principio, l’improbabile quanto retoricamente ribadita visione dell’integrazione
come processo bidirezionale, in cui sarebbero coinvolti tanto gli immigrati quanto
le società riceventi, già il secondo principio sottolinea che “l’integrazione richiede
il rispetto dei valori base dell’Unione europea”, formulati peraltro in termini
politici molto generali: i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani
e delle libertà fondamentali, legalità (Council of the European Union, 2004, p.
19). Il documento poi proclama il rispetto della libertà di praticare la propria
religione e cultura, ma pone anche l’enfasi sull’eguaglianza delle donne, sui diritti
e gli interessi dei minori, sulla libertà di praticare o non praticare una determinata
religione: specificazioni, che in un documento sull’integrazione degli immigrati,
lasciano trasparire diffidenza se non pregiudizio circa la mentalità dei nuovi
residenti. Il terzo principio stabilisce poi che “l’occupazione è un elemento chiave
del processo di integrazione”: un’altra affermazione abbastanza ovvia, ma che
sottintende il timore della dipendenza dal welfare, della volontà di attingere alla
protezione sociale dei paesi riceventi, nonché il richiamo dell’obbligo di rendersi
autosufficienti sotto il profilo economico. Le istituzioni europee fanno capire che
l’onere dell’inserimento nel nuovo contesto deve essere assunto dagli immigrati
stessi, non è una responsabilità pubblica (Joppke, 2007). Il quarto principio è
però quello che meglio illustra i nuovi orientamenti in materia: “Una conoscenza
di base della lingua, della storia e delle istituzioni è indispensabile per
l’integrazione”. Qui il Consiglio innalza a livello europeo istanze che nei paesi
membri avevano già cominciato a circolare e a tradursi in nuovi obblighi per i
candidati all’ingresso.
Sul piano delle politiche pubbliche, soprattutto dopo gli attentati del settembre
2001, si assiste quindi a un ritorno alla richiesta di adesione e conformità alla
società ricevente e alle sue istituzioni, da verificare al momento dell’ingresso o in
altri passaggi salienti, come la naturalizzazione, eventualmente formalizzando
288
maggiormente test e procedure già in vigore. Come ha documentato la ricerca di
Goodman (2010), nell’arco di pochi anni si è diffusa in Europa la richiesta di
soddisfare una serie di requisiti di integrazione. Questi si sono ampliati dal
momento della naturalizzazione a quello dell’insediamento e anche dell’ingresso,
estendendosi a fasce più ampie di popolazione immigrata. La conoscenza del paese
di insediamento si è aggiunta a quella della lingua, i cui livelli sono stati alzati.
Criteri di valutazione imprecisi sono stati sostituiti da corsi e test standardizzati.
Sono stati poi istituiti o enfatizzati contratti e cerimonie di conferimento della
cittadinanza, sull’esempio statunitense, con l’obiettivo di solennizzare l’impegno
su determinati valori da parte dei nuovi membri della comunità nazionale.
Meritano una sottolineatura la nuova importanza attribuita alla conoscenza della
lingua, misurata mediante apposite prove, e i tentativi più controversi, e per forza
di cose limitati, di valutare la lealtà politica dei nuovi arrivati, anche ricorrendo a
corsi e appositi “contratti di integrazione”, particolarmente sottolineati nel caso
francese: un contratto che diventa obbligatorio, per i nuovi arrivati, perdendo
così la sua natura volontaria e dunque contrattuale (Joppke, 2007).
Va osservato al riguardo che gli impedimenti che gli Stati democratici incontrano
nel sondare atteggiamenti e convinzioni degli stranieri residenti si traducono in
un’accentuazione degli sforzi di monitoraggio della sfera cognitiva: la conoscenza
della lingua anzitutto, poi della storia, delle costituzioni, delle istituzioni dei paesi
riceventi. Si vorrebbe comprendere se i nuovi arrivati siano disposti ad
abbracciare le norme e gli stili di vita della società ricevente e, in mancanza di
meglio, si chiede loro di conoscerle, collocando in primo piano l’apprendimento
della lingua nazionale come veicolo d’integrazione.
Dal multiculturalismo si passa quindi alle politiche di “integrazione civica”, a
carattere obbligatorio, in cui la nozione di integrazione tende a trasformarsi in
uno strumento di controllo: l’integrazione culturale deve essere dimostrata già al
momento dell’ingresso, diventa una precondizione per poter accedere al
territorio. Più precisamente, questo filtro viene in realtà utilizzato dai governi
dell’Europa centro-settentrionale soprattutto per restringere le possibilità di
ingresso di familiari non qualificati ed economicamente dipendenti degli
immigrati già insediati (Joppke, 2007, p. 5). Non si applica ai coniugi dei
manager, dei professionisti o di altri lavoratori qualificati.
Rispetto alla posizione liberale, che vede la cittadinanza come un veicolo di
integrazione, si osserva la tendenza a tornare almeno parzialmente verso una
concezione più conservatrice e restrittiva, della cittadinanza come premio
all’integrazione.
3. Chi preme per l’apertura e perché: un campo di battaglia
289
Restrizioni, espulsioni, assimilazioni non sono però le uniche tendenze in atto. Di
fatto il numero degli immigrati tende ovunque ad aumentare, e non solo per gli
incrementi naturali dovuti alle nascite. Le politiche dell’immigrazione sono in
realtà un campo di battaglia, in cui si confrontano attori che sostengono valori e
interessi diversi. Per meglio dire: malgrado la prevalente ortodossia restrittiva, in
modo a volte aperto, altre volte silenzioso e poco visibile, il cantiere delle
decisioni politiche e della loro attuazione è influenzato anche da forze che
premono per aperture almeno parziali. Un tipico dilemma è quello che
contrappone repressione e compassione (Fassin, 2005): la volontà di chiusura
entra in crisi di fronte a tragedie umanitarie portate alla ribalta dai media, ai
superstiti di guerre e repressioni, a storie personali meritevoli di considerazione,
a casi speciali come quelli dei minori, delle donne incinte, dei malati. Il risultato
paradossale è che la mobilità non autorizzata viene normalmente trattata come
una violazione delle leggi, e sempre più come un reato penale, ma chi riesce a
presentarsi come “vittima” può ottenere il diritto a essere accolto (Anderson,
2008). Qui i diritti umani, sotto regimi democratici, pur tra molti contrasti
riescono a piegare il principio di sovranità, obbligando i governi non solo a
tollerare ingressi non voluti, ma anche a farsi carico dei soggetti riconosciuti
come meritevoli di protezione, accordando loro a seconda dei casi accoglienza,
istruzione, cure mediche. Nel caso dell’accoglienza umanitaria di persone malate,
Fassin (2005) ha parlato di “biolegittimazion”: l’accesso ai diritti in nome del
corpo sofferente. Secondo questo autore, in Francia oggi è più facile essere accolti
come malati che come rifugiati, l’asilo politico cede il passo alla compassione: la
biologia è diventata più importante della biografia. Il corpo malato, inabile al
lavoro, che nel passato era oggetto di respingimento, oggi è diventato una risorsa.
Nel caso dei richiedenti asilo, “il corpo è diventato il luogo di produzione della
verità” (Fassin e D’Halluin, 2005, p. 599), nel senso che devono provare con il
loro corpo i segni delle violenze e della tortura: “la validazione dei loro racconti
mediante l’inscrizione corporale della loro persecuzione costituisce una nuova
forma di amministrazione transnazionale delle persone” (ibid., p. 600). Malgrado
il pessimismo di fondo, questi ragionamenti confermano che seri problemi di
salute o prove di violenza subita innescano la protezione dei diritti umani, e questi
dischiudono le porte di una pur stentata e reticente accoglienza.
Tra le altre conseguenze, ne discende un affastellamento di norme e regolamenti
non sempre univoci e coerenti, nonché uno scollamento a volte notevole tra
politiche dichiarate e politiche praticate. Sotto questo aspetto, mentre di solito in
campo sociale le politiche effettivamente praticate restano indietro rispetto alle
promesse altisonanti delle politiche dichiarate, nel campo delle politiche
migratorie oggi avviene spesso il contrario: misure annunciate di esibita asprezza,
290
sul piano anzitutto della repressione dell’immigrazione irregolare, hanno sortito
magri risultati o sono state addirittura contraddette dai comportamenti effettivi.
A volte, come in Italia nel caso di varie nome del pacchetto-sicurezza e della
precedente legge Bossi-Fini, le istituzioni di garanzia nazionali e internazionali
hanno cassato disposizioni giudicate contrarie ai principi democratici e
costituzionali: si pensi alla norma che vietava all’immigrato in condizione
irregolare di compiere atti di stato civile, a partire dal matrimonio; all’obbligo di
allontanarsi dal territorio nazionale a seguito di un decreto di espulsione, sotto
pena di arresto, anche se privi di risorse per farlo; all’aggravamento delle sanzioni
per altri reati, in caso di irregolarità del soggiorno. In altri casi, misure drastiche e
di grande impatto sull’opinione pubblica, come gli allontanamenti in mare verso
la Libia, sono costate al nostro paese un inedito conflitto con l’ONU e l’onta della
condanna presso l’Alta Corte di Strasburgo. Nella lontana Australia e in altri paesi
avviene qualcosa di simile: i governi vogliono introdurre misure più severe contro
immigrati non autorizzati e richiedenti asilo, ma si scontrano con i paletti posti
dal sistema giudiziario in nome dei diritti umani e dei principi liberali. Cercano in
vario modo di aggirarli, ma ci riescono solo in parte (Opeskin, 2012).
Altre volte, nella gestione quotidiana l’attuazione pratica delle norme si scontra
con vari problemi. Il primo è la mancanza di fondi, strutture e personale per dare
esecuzione alle disposizioni di trattenimento ed espulsione degli immigrati privi
di validi documenti di soggiorno. Basti pensare che l’Italia dispone di meno di
2000 posti nei Centri di Identificazione ed Espulsione, strutture-chiave per
procedere all’individuazione e al rimpatrio degli immigrati indesiderati: per
l’esattezza, i dati relativi al 2013 parlano di 13 strutture con una capienza
complessiva di circa 1901 posti, di cui alcuni però inagibili o in via di
ristrutturazione a causa di incendi, danneggiamenti, problemi riscontrati nella
gestione. Va poi ricordato che i CIE costano come minimo 55 milioni di euro
all’anno. Oggi, in seguito ai tagli della spending review 2011, il costo giornaliero
pro-capite è stato abbassato a 30 euro più IVA, il che ha contribuito a peggiorare
le condizioni di vita delle persone lì trattenute, ma nello stesso tempo conferma
che un vincolo serio ad una repressione più capillare è rappresentato dai costi
(Koser, 2005). Soprattutto, i CIE sono ben lungi dall’aver raggiunto gli obiettivi
per cui erano stati istituiti: su 169.071 persone transitate nei centri tra il 1998 e il
2012, quelle effettivamente rimpatriate sono state soltanto 78.045, il 46,2% del
totale (www.lunaria.org), una frazione molto modesta dell’insieme degli
immigrati in condizione irregolare, giacché nello stesso periodo ne sono state
regolarizzati più di un milione (Ambrosini, 2013). A livello di Unione europea,
soltanto il 39,2% delle espulsioni decretate nel 2013 sono state effettivamente
attuate, e non è comunque garantito che gli espulsi non cerchino di rientrare sul
suolo dell’Unione (EC, 2015).
291
In secondo luogo per ottenere effetti le disposizioni richiedono la collaborazione
di vari attori e istituzioni, non soltanto pubblici, e soprattutto non aventi come
compito istituzionale funzioni di controllo e repressione (Vogel, 2000). Per
esempio, i servizi sanitari e sociali.
Dal canto loro, le cosiddette “burocrazie di strada” (Lipsky, 1980), ossia gli
operatori dei vari servizi pubblici a diretto contatto con la popolazione
immigrata, sono molte volte compartecipi della ricerca di soluzioni alle varie e
complesse difficoltà che incontrano gli immigrati, specialmente quelli titolari di
status fragili e incerti. Il loro ruolo interpretativo e applicativo delle norme
riguardo ai casi concreti evolve nell’esercizio di un potere discrezionale, favorito
a sua volta dall’affastellamento e dall’opacità delle disposizioni legislative e dei
regolamenti attuativi (Campomori, 2007). Spesso le interpretazioni cercano di
andare incontro alle necessità degli immigrati, anche forzando o aggirando la
lettera delle norme.
Occorre poi rivolgere l’attenzione ai diversi attori che per ragioni ideali o per
interessi economici contrastano le politiche di chiusura.
Anzitutto le istituzioni internazionali, come l’ACNUR, Agenzia dell’ONU per la
protezione dei rifugiati, e l’Alta Corte di Strasburgo, che intervengono in difesa
di una categoria minoritaria ma altamente visibile e spesso sotto tiro, come quella
dei richiedenti asilo. La volontà dei governi di restringere le maglie
dell’ammissione, di scoraggiare i candidati a dirigersi verso i paesi a sviluppo
avanzato (solo il 14% vi hanno trovato rifugio nel 2014, oltre quindici punti
percentuali in meno rispetto a una dozzina di anni prima: UNHCR, 2015), di
ridurre i benefici loro accordati, deve fare i conti con le istituzioni poste a
presidio dei diritti umani: istituzioni non così forti e autorevoli come gli
esponenti del fronte umanitario vorrebbero, ma neppure irrilevanti nella
geografia politica internazionale. L’onta della condanna subita dal governo
italiano alla corte di Strasburgo brucia ancora, e rappresenta un monito per chi
intenda inseguire un consenso populista solo apparentemente a basso costo.
Non sempre altrettanto animata da afflati umanitari, ma indubbiamente influente
nei confronti delle politiche nazionali è l’Unione europea. Le sue politiche di
allargamento verso Est hanno trasformato milioni di persone in movimento da
temibili immigrati clandestini a concittadini europei dotati di pieni diritti di
mobilità (Sciortino, 2012), di ricerca del lavoro e, seppure con maggiori
resistenze, di fruizione di servizi sanitari e sociali in altri paesi dell’Unione. Gli
stessi paesi candidati all’ingresso, come attualmente quelli balcanici, dalla Serbia
all’Albania, e altri ancora, come il Brasile, con cui l’Unione intende intrattenere
buoni rapporti per ragioni politiche ed economiche, hanno ottenuto
alleggerimenti delle condizioni di accesso per i loro cittadini: oggi i cittadini di
292
una cinquantina di paesi del mondo non hanno bisogno del visto per soggiorni di
durata inferiore ai tre mesi nel territorio dell’Unione Europea.
Anche i paesi di origine influiscono sulle politiche migratorie e la ricerca della
loro collaborazione è spesso vista come necessaria per impostare misure di
controllo efficaci: sia nella sorveglianza delle partenze, sia nell’eventualità del
rimpatrio coatto di immigrati espulsi, la loro cooperazione è un tassello delle
politiche migratorie. La scarsa collaborazione dei paesi di origine è considerata in
diversi casi come il principale ostacolo alle deportazioni (per il caso olandese:
Engbersen e Broeders, 2009). Ma la cooperazione quando si attiva ha comunque
dei costi, in termini di aiuti tecnico-economici ed eventualmente di quote di
immigrati regolari ammessi. Ne deriva fra le altre una paradossale conseguenza:
se si vuole sperare di contenere l’immigrazione irregolare, di norma bisogna
aumentare quella regolare.
Un quarto corposo ma a volte impalpabile gruppo di attori è formato dai
portatori di interessi imprenditoriali, economici e culturali, in vario modo colpiti
dalla chiusura degli accessi al territorio nazionale. Un primo grande aggregato è
formato da tutti coloro che hanno interesse a una maggiore mobilità delle persone
attraverso le frontiere, a un alleggerimento dei vincoli e delle condizioni di
accesso. Spazia dagli operatori del settore turistico, agli organizzatori di fiere e
viaggi per affari, dalle università a cui viene spesso rimproverato di non attrarre
un numero abbastanza nutrito di studenti stranieri, agli impresari del settore
musicale, teatrale, dell’intrattenimento, per arrivare alle istituzioni religiose che
promuovono e accolgono pellegrinaggi internazionali. Per esempio, eventi come
l’EXPO 2015 o il prossimo anno santo comportano un dilemma per le istituzioni
italiane: si vuole facilitare l’arrivo di visitatori e pellegrini, anche da paesi a
reddito medio-basso, oppure ostacolarlo e sottoporlo a severe condizioni? Nel
primo caso, si attrarrà anche un certo numero di persone che rimarranno sul
territorio oltre i limiti del loro permesso di soggiorno, trasformandosi in
immigrati irregolari; nel secondo, si comprometterà l’internazionalizzazione e si
limiterà il potenziale successo dei grandi eventi in programma.
Un secondo aggregato di interessi favorevoli all’apertura è formato dagli
imprenditori, famiglie comprese, orientati a reperire il personale di cui
necessitano in bacini di impiego più ampi di quello nazionale (Calavita, 2005;
Triandafyllidou e Ambrosini, 2011). Malgrado le retoriche sull’economia della
conoscenza, gli immigrati sono ricercati per coprire i fabbisogni di lavoro
manuale, a bassa qualificazione, tutt’altro che aboliti dai sistemi economici
contemporanei ma culturalmente mal accetti all’offerta di lavoro interna (Castles,
2002), compresi i figli degli immigrati dei flussi precedenti. Il lavoro domestico e
di assistenza nel caso italiano rappresenta l’esempio più emblematico.
293
L’elenco è lungo, ma probabilmente incompleto, le capacità di lobbying incisive,
le brecce nella fortezza più numerose del previsto. Non stupisce quindi che le
chiusure incontrino eccezioni, e le situazioni dei soggiornanti irregolari vengano
sanate mediante svariate misure di regolarizzazione a posteriori, non solo in Italia.
Il nostro paese capeggia la classifica continentale dei provvedimenti di emersione,
con sette sanatorie in 25 anni, più altri interventi minori o non dichiarati come i
decreti-flussi utilizzati per regolarizzare persone già soggiornanti e inserite nel
sistema economico. Ma siamo in buona compagnia: secondo una ricerca, 22 paesi
su 27 facenti parte dell’Unione europea hanno attuato manovre di
regolarizzazione tra il 1996 e il 2008, consentendo l’emersione di una cifra
stimata prudenzialmente tra i cinque e i sei milioni di persone (ICMPD, 2009).
Bisognerebbe poi aggiungere gli effetti del già richiamato allargamento
dell’Unione, che può essere interpretato sotto questo profilo come una manovra
di regolarizzazione di massa tanto silenziosa quanto gigantesca.
Oltre alle lobby economiche, entrano poi in scena le lobby umanitarie. Le
restrizioni attuate dai governi hanno ampliato gli spazi degli attori non governativi
(Van der Leun e Ilies, 2012). Questi sono cresciuti d’importanza, sia come
soggetti politici che alzano la voce in difesa degli immigrati, sia come fornitori
alternativi di servizi per coloro che pur soggiornando sul territorio, non possono
accedere a molti servizi pubblici (Ambrosini, 2014b).
Infine vanno ricordati gli immigrati stessi, nonché le loro reti di contatti e legami
interpersonali. Sotto il profilo politico, è cresciuto l’attivismo degli stessi
immigrati in condizione irregolare, che in diversi paesi hanno dato vita a forme
clamorose di protesta (Chimienti, 2011), come occupazione di chiese, scioperi
della fame, sit-in in luoghi pubblici, salita su gru o altri gesti simbolici. Più
comunemente l’erosione dei vincoli alla mobilità e la ricerca di soluzioni
alternative all’esclusione dai servizi istituzionali rimanda al bricolage da parte
delle reti migratorie, alla loro ricerca di smagliature e interstizi nella trama della
regolazione degli ingressi, all’azione di intermediari che mettono in contatto
domanda e offerta di lavoro anche al di fuori dei canali ufficiali (Engbersen e
Broeders, 2009).
Restrizioni e chiusure non sono dunque l’ultima parola: un’analisi che non si
fermi al dettato normativo e alle polemiche sulla “fortezza Europa” può scoprire
un mondo molto più magmatico, sofferto e insieme sorprendente.
294
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- Rapporto n. 28 – Alunni stranieri nelle scuole della provincia di Arezzo. Presenza, esiti e
ritardi. Seconde generazioni (a.s. 2009/10) (2010)
- Rapporto n. 29 - L’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo (al 1 gennaio 2010)
(2010)
- Rapporto n. 30 - Immigrazione e lavoro dipendente in provincia di Arezzo (al 1° gennaio
2010) (2010)
- Rapporto n. 31 - La presenza di immigrati e figli di immigrati in provincia di Arezzo
(all’1/1/2010) (2010)
- Rapporto n. 32 – Ritardi ed esiti scolastici. Alunni stranieri ricongiunti e di seconda
generazione (a.s. 2009/2010) (2010)
- Rapporto n. 33 – Servizi sanitari e immigrazione: accesso, utilizzo, criticità. Il punto di vista
degli utenti stranieri (2011)
- Rapporto n. 34 - Alunni stranieri in provincia di Arezzo. Presenza e seconde generazioni (a.s.
2010/11) (2011)
- Rapporto n. 35 – La presenza di immigrati e figli di immigrati in provincia di Arezzo (al
31/12/2011) (ottobre 2011).
- Rapporto n. 36 - L’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo (al 1 gennaio 2011)
(2011)
- Rapporto n. 37 - Alunni con cittadinanza non italiana: regolarità e riuscita scolastica (a.s.
2010-2011) (2012)
- Rapporto n. 38 – L’immigrazione nelle zone della Provincia. Rapporti Zonali (2012)
- Rapporto n. 39 - Popolazione immigrata e servizi sanitari (2012)
- Rapporto n. 40 – Il Mondo a scuola. Gli studenti di origine straniera nelle scuole della
provincia di Arezzo (a.s. 2012/13). Presenza, seconde generazioni, esiti scolastici (2013)
- Rapporto n. 41 – La presenza di immigrati e figli di immigrati in provincia di Arezzo al
1/1/2013
- Rapporto n. 42 – Alunni con cittadinanza non italiana: regolarità e riuscita scolastica (a.s.
2012/2013)
-Rapporto n. 43 – Il lavoro autonomo e le rimesse degli immigrati in provincia di Arezzo (al 1°
gennaio 2014)
- Rapporto n. 44 – Cittadini stranieri e uso dei farmaci in provincia di Arezzo (giugno 2014)
- Rapporto n. 45 – I ricongiungimenti familiari in provincia di Arezzo (giugno 2014)
- Rapporto n. 46 – La scuola e i “nuovi” italiani: accogliente, integrativa e inclusiva? Una ricerca
esplorativa in provincia di Arezzo (06/2014)
- Rapporto n. 47 – I centri per l’integrazione in provincia di Arezzo
- Rapporto n. 48 - Gli immigrati e le G2 in provincia di Arezzo (all’1/1/2014)
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- Rapporto 49 – Studenti con cittadinanza non italiana. Presenza, ritardi e esiti scolastici (a.s.
2013-2014)
- Rapporto n. 50 – Studenti con cittadinanza non italiana in provincia di Arezzo (a.s. 20142015)
- Rapporto n. 51 – La presenza straniera in provincia di Arezzo (all’1/1/2015)
Rapporti sull’immigrazione in provincia di Arezzo
– Luatti L., La Mastra M. (a cura di), L’immigrazione straniera in provincia di Arezzo.
Presenza, inserimento scolastico e lavorativo, Provincia di Arezzo-Ucodep (Studi e ricerche n.
3), Arezzo, 2001
– Luatti L., Ortolano I., La Mastra M. (a cura di), L’immigrazione straniera in provincia di
Arezzo. Rapporto 2003, Provincia di Arezzo-Ucodep (Studi e ricerche n. 5), Arezzo, 2003
- Luatti L., La Mastra M. (a cura di), Terzo Rapporto sull’immigrazione in provincia di Arezzo,
Ucodep-Provincia di Arezzo, Arezzo, 2007.
- Luatti L., Tizzi G., La Mastra M. (a cura di), Vivere insieme. Quarto rapporto
sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam
Italia, Arezzo, 2012.
- Luatti L., Tizzi G., La Mastra M. (a cura di), Un tempo nuovo. Quarto rapporto
sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam
Italia, Arezzo, 2015.
Rapporti sull’immigrazione nel comune di Arezzo
- Luatti L., Rocchi S., La Mastra M., Arezzo plurale. Immigrazione e mutamento sociale,
Comune di Arezzo, Provincia di Arezzo, Ucodep, 2009.
- Luatti L., Tizzi G., La Mastra M., Arezzo plurale oggi e domani. Secondo rapporto
sull’immigrazione nella città di Arezzo, Comune di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam
Italia, 2011.
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