“PROBLEMI E PROSPETTIVE
DELLE CITTÀ MERIDIONALI
NEL DECENNIO FRANCESE”
PROF.SSA EMILIA SARNO
Università Telematica Pegaso
Problemi e prospettive delle città meridionali nel
Decennio francese
Indice
1
INTRODUZIONE -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
LA QUESTIONE URBANA NEL MEZZOGIORNO MODERNO -------------------------------------------------- 4
2.1.
3
LE TRASFORMAZIONI DI CAMPOBASSO NEL DECENNIO FRANCESE ----------------------------------- 9
3.1.
4
LA POLITICA URBANA NEL DECENNIO FRANCESE (1806 – 1815) ------------------------------------------------------ 7
IL BORGO MURATTIANO ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 14
LE TRASFORMAZIONI DI BARI: CONCLUSIONI----------------------------------------------------------------- 22
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 24
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Problemi e prospettive delle città meridionali nel
Decennio francese
1 Introduzione
Questa lezione vuole affrontare le problematicità delle città meridionali, prima discutendo le
diverse tesi, poi mostrando come per la formazione e lo sviluppo di queste città sia stato importante
il Decennio Francese (1806-1815) e si illustrerà proprio la politica urbana di questo periodo. Poi in
modo analitico si presenterà il caso della città di Campobasso e lo si confronterà con quello di Bari
.
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2 La questione urbana nel Mezzogiorno moderno
In questo opuscolo si discute la questione urbana nel Mezzogiorno moderno con le sue
peculiarità e problematicità, mostrando come il XVIII secolo e principalmente il Decennio francese
siano un periodo nevralgico per la formazione e il consolidamento dell’identità urbana di diversi
centri meridionali. Il tema, particolarmente complesso e affrontato in letteratura, è stato oggetto di
una ricerca
sulle città nel Mezzogiorno moderno e sul loro ruolo del Decennio francese,
documentata in Sarno (2012).
La questione urbana del Mezzogiorno è dibattuta poiché la letteratura ha ritenuto che, nel
Regno, l’assenza della civiltà comunale non abbia consentito la formazione di città e che la
concezione politica feudale, dagli Angioini agli Spagnoli, abbia esaltato solo la capitale, Napoli.
Francesco Compagna anticipava persino le origini del problema: «Evidentemente, le origini
della crisi per cui le istituzioni cittadine del Mezzogiorno, nel secolo XI, cedettero passivamente,
vanno cercate nel periodo antecedente rispetto a quello dell’avvento della monarchia normanna e
dell’instaurazione di una forma rigida di feudalesimo; evidentemente la bella fioritura verso la quale
sembravano avviate le città campane (e meridionali) nell’Alto Medioevo era una fioritura nel vuoto,
non collaudata dal confronto con rilevanti forze antagoniste» (Compagna, 1967, p. 56).
Nel tempo, poi, l’urbanizzazione meridionale rimane complessivamente debole, poiché «si
enucleò allora la cosiddetta città suddita (…) nella quale la comunità era chiamata continuamente a
confrontarsi con gli organi periferici del potere centrale» (Corciulo, 2009, p. 104).
Rombai conferma questa visione: «tale lunghissima e forte organizzazione feudale è ritenuta
la causa primaria della mancata formazione di una rete di città che, con le sue borghesie, avrebbe
potuto mettere a valore, come nel Centro-Nord, l’intero territorio» (Rombai, 2002, p. 195).
Le criticità nelle diverse fasi stigmatizzano l' urbanesimo meridionale fino all’età
contemporanea, tanto da far dubitare Gambi (1965) sull’esistenza delle città calabresi, dal momento
che permangono nel tempo le insufficienze e comunque le differenze tra Nord e Sud .
Talia (2007a), nel ripercorrere il processo urbano meridionale, precisa che la disparità
esistente fino all’Unità d’Italia abbia ceduto il passo alla successiva formazione di una trama più
robusta ma non per questo «meno squilibrata e debole» (Talia, 2007a, p. 118). A sua volta, V.
Amato chiarisce che nelle regioni meridionali non si realizza lo sviluppo di una rete urbana
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articolata, secondo il “modello” immaginato da Compagna , «soprattutto perché è venuto meno
l’ineludibile presupposto dell’ industrializzazione » (V. Amato, 2011b, pp. 9-10).
Se il Sud è arrivato tardi all’appuntamento con la questione urbana e con retaggi negativi,
oltre alla complessità del presente (Viganoni, 2007; Dematteis, 2008; Sommella, 2008; V. Amato,
2011; D’Aponte, Mazzetti, 2011), appare scientificamente urgente comprendere il passato, così da
mettere a fuoco processi urbani formatisi, sia pure in modo contraddittorio, nella lunga durata e
chiarire percorsi avviati, ma a volte scomposti da fattori successivi, e pur tenacemente presenti
nell’identità di tante città. In tal senso l’età moderna si pone come un periodo da indagare
maggiormente (Clark, 2002; Sarno, 2012). Il fenomeno è reso però complesso da diverse ragioni: la
prima di carattere demografico, la seconda di natura giuridica, la terza dovuta ai pochi studi di caso.
Il carico demografico è apparso in passato un dato fondamentale per il riconoscimento di un
centro urbano, ma esso va ridimensionato perché, come mostrano gli studi raccolti da Clark (2002a)
sui piccoli e medi centri europei dell’età moderna, contano le funzioni acquisite piuttosto che la
quantità di popolazione; d’altronde ciò era già stato magistralmente mostrato da Gambi (1982).
La seconda questione – quella giuridica – ha reso il fenomeno difficile da interpretarsi
perché ad esempio nel Regno di Napoli esistevano le città regie che godevano di una qualche
autonomia dipendendo direttamente dalla Corona e poi vi erano le terre, cioè feudi gestiti da nobili
famiglie e soggetti a compravendita . Le terre, però pur soggette al baronaggio, sono state in grado
di assumere una significativa valenza produttiva, svolgendo un ruolo di raccordo commerciale in
diverse aree rurali, grazie ad un ceto intermedio capace di emergere nonostante il controllo
sistematico operato dai feudatari e in alcuni casi con l’aiuto dell’associazionismo religioso .
Ciò ha comportato un’esigenza di definire il fenomeno: esse sono delle quasi città
(Chittolini, 1990) o delle città contadine (Poli, 2004)? Se si vuole riassumere il compromesso tra il
sistema feudale e attività produttive, sembra coerente al loro status la definizione di terra urbana
(Sarno, 2012). Ma, più che cercare un’adeguata denominazione, anche questo aspetto contribuisce
alla necessità di focalizzare le peculiarità delle agrotown nell’età moderna.
Infine - terza questione - le città piccole e medie sono state a lungo ignorate per la difficoltà
di reperire dati e casi di studio tanto nel contesto italiano quanto in quello europeo, come chiarisce
Clark, che fornisce e raccoglie interessanti contributi per una rilettura del fenomeno (Clark, 2002;
Clark, 2009). Per il Mezzogiorno italiano è opportuno ripartire dal corposo studio di Gerard Labrot
(1991) sulla città meridionale nell’età moderna, nel quale, mentre ne sono sottolineati i limiti, sono
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pure individuate le tensioni nascoste negli organismi urbani e come queste ultime gradatamente
emergano tra il XVII e XVIII secolo, toccando anche i piccoli centri.
Una successiva raccolta di scritti, curata da Musi (2000a), ha focalizzato una pluralità di
forme e funzioni concretizzatesi sempre nell’età moderna, dalle isole di urbanizzazione presenti in
Basilicata all’ articolazione differenziata delle agrotowns pugliesi, dalle medie e piccole città
abruzzesi fino ai soggetti superurali della Calabria . Lo stesso curatore così illustra il suo punto di
vista: «nel Mezzogiorno non si è venuto formando un sistema urbano, ma sono venute
sviluppandosi gerarchie urbane secondo alcune tipologie e funzioni, legate agli insediamenti,
economiche, religiose, politico-amministrative, di servizio» (Musi, 2000b, p. 9).
In Sarno, 2012, tramite il caso di Campobasso, sono stati lumeggiati i processi urbani nel
Meridione sia nell’età moderna sia nel passaggio nevralgico del Decennio francese, mostrando
come il Napoleonic Know-how (Batson et al, 2011) vada a consolidare trend socio-economici
positivi concretizzatisi nel corso del XVIII secolo. Sono stati così analizzati i mutamenti nella
scena urbana meridionale nel Decennio francese a Campobasso, Isernia e Termoli, operando il
confronto con Bari, Avellino, Potenza, Chieti , perché, come si evince pure dagli studi raccolti in
Spagnoletti (2009a), si afferma in tale periodo una nuova concezione della città .
Emerge insomma che, nel corso dell’età moderna, in Europa come in Italia, diversi piccoli e
medi centri abbiano svolto un ruolo commerciale o amministrativo. Nel Mezzogiorno italiano, si
concretizza una sorta di compromesso tra l’impostazione politica propria del feudalesimo moderno
e le funzioni urbane che non solo le città regie ma anche le terre vengono assumendo. Il Decennio
diventa poi il nodo fondamentale per il consolidamento di tante identità urbane, perché i Francesi,
come si dirà, sono portatori di nuova impostazione politico-territoriale, ma si giovano anche di
quelle tensioni presenti in alcuni centri e particolarmente vivide nel Settecento.
Si potrà obiettare che compromessi e tensioni rappresentano il retaggio negativo che pesa
sull’urbanesimo meridionale, ma aprono la strada a leggere il fenomeno nella sua specificità e
peculiarità e consentono di conoscere l’identità effettiva di tante città, necessaria per una reale
pianificazione territoriale. Sebbene gli esiti conquistati in tale periodo siano stati spesso messi in
crisi dai processi storico-economici dell’Ottocento, essi meritano di essere esaminati perché
rappresentano una tappa fondamentale nella storia urbana, benché discontinua, di tanti centri. Da
questa discontinuità bisogna però ripartire per comprendere fino in fondo la complessità del
fenomeno urbano nel Mezzogiorno e leggerlo nella lunga durata.
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2.1.
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La politica urbana nel Decennio francese (1806 – 1815)
I Francesi , nel momento in cui si insediano a Napoli, danno particolare rilievo alle città
come centri nevralgici dell’organizzazione statale considerandole poli funzionali, collegati
al
territorio circostante per le funzioni amministrative, commerciali, giudiziarie . Questa visione si
integra con gli ampliamenti urbani e le fondazioni di nuovi borghi, che si erano intensificati in
Europa dalla seconda metà del Settecento. Il clima riformistico e l’aumento della popolazione erano
infatti motivazioni più che valide per la costruzione di edifici funzionali e lo sventramento di aree
antiche. Tuttavia, per molti centri meridionali il processo di rinnovamento coincide con il 1806, con
la nuova riorganizzazione geo-amministrativa .
«Ciò che caratterizzò il Decennio napoleonico non solo nel Meridione, ma in tutta la
penisola, fu il carattere esplicitamente urbano degli interventi che rimodellarono, razionalizzandole,
le città italiane. Si può pertanto affermare che si sviluppò allora per la prima volta una politica
urbana dell’amministrazione nella quale l’abbellissement della città era anche funzionale
all’acquisizione del consenso della popolazione» (Corciulo, 2009, pp. 114-115).
I Napoleonidi pongono così le basi per portare a compimento quel processo urbano che era
in fieri nel Mezzogiorno, grazie all’eversione del regime feudale. Essi favoriscono principalmente le
città prescelte come capoluoghi o con specifiche funzioni . A guardare i progetti urbanistici vi
sono dei leit motiv comuni: la costruzione di piazze, strade e abitazioni. I centri urbani «si
sbarazzano delle mura e delle porte», «conoscono processi di espansione» e complessivamente
«muta la scena urbana» (Spagnoletti, 2009b, pp. 15-17), secondo la visione illuministica protesa a
modellizzare e a gerarchizzare il territorio (Verdier, 2008).
Il cambiamento nella scena urbana corrisponde alla concezione che le città debbano essere
poli funzionali al territorio e che quindi la loro struttura e i relativi arredi siano adeguati. Edifici
fondamentali sono considerati la sede per l’amministrazione comunale, l’ospedale, il carcere, l’orto
botanico e il collegio come luogo di formazione laica. Inoltre, si progettano nuovi borghi con
moduli residenziali per abitazioni, uffici e negozi.
Insomma, gli uomini di Napoleone sono nani sulle spalle di giganti: raccolgono l’eredità dei
decenni precedenti e danno un proprio imprimatur che si concretizza
nella sinergia tra
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riconoscimenti amministrativi e rivisitazione urbanistica. Siffatta sinergia cambia le regole in
diverse altre città meridionali, sebbene con esiti differenziati (Sarno, 2012).
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3 Le trasformazioni di Campobasso nel Decennio
francese
Nel Decennio Francese, il Molise, considerato uno spazio composito , acquista il
riconoscimento di Provincia, con capoluogo Campobasso. Il merito è da addebitarsi tanto al Cuoco
che era ascoltato da Giuseppe Bonaparte, quanto a Giuseppe Zurlo che aveva preparato le decisioni
del Consiglio di Stato.
Così Vincenzo Cuoco scriveva: “questa provincia meritava più che non si crede
l’attenzione di un governo saggio ed umano. Senza mare e senza porti propri, senza strade,
amministrata da autorità lontana e straniera ”.
La suddivisione amministrativa è coerente ad una politica che voglia garantire la
governance territoriale nel rispetto delle specifiche identità e agevolare l’intera macchina statale.
L’impegno dei politici molisani è l’autonomia dalla provincia di Capitanata, con l’obiettivo di dare
un’individualità maggiormente definita alla loro terra e un ruolo incisivo a Campobasso.
L’Intendenza di Molise è, infatti, successivamente avvantaggiata dall’acquisizione dei comuni sulla
costa adriatica , prima di pertinenza proprio della Capitanata; inoltre, il Contado supera finalmente
il particolarismo della suddivisione in feudi.
L’intuito politico di Cuoco, però, non si ferma alla semplice questione della definizione dei
confini e dell’acquisizione della costa; egli si rende conto che il valore di un provincia è nel suo
stesso territorio, infatti, nel Viaggio in Molise, così presenta la sua provincia:
“Quasi tutti i boschi sono stati distrutti, e, quasi si avesse voluto operar sempre contro la
natura, si sono distrutti più boschi nei monti che nelle pianure. La montagna di Frosolone, la
seconda montagna della provincia dopo il Matese, cinquant’anni fa era folta di alberi: oggi non ve
ne è neppur uno. La terra, rimasta senza il sostegno degli alberi, è trascinata dalle acque; da per
tutto vedete rimaner nude le rocce primitive, come ossa di un cadavere di cui si sfacelino le carni. Il
suolo, da per tutto cretoso, nell’estate si fende, s’imbeve d’acqua, e nell’inverno si smotta, si slama
e va a render variabile, incerto, rovinoso il corso dei torrenti e dei fiumi: donde poi nuovi danni e
più gravi. Vi sono dei paesi ai quali non si possono dare più di altri cinquant’anni di esistenza: tali
sono Lucito e Fossaceca. Insomma tutta la provincia sarà deteriorata a segno che una metà sarà
trasportata nell’Adriatico, e l’altra metà resterà inutile ad ogni coltivazione” (Cuoco, 1812, p.174).
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Il tentativo di diffondere sulle pendici del Matese la coltivazione del grano determinò la
distruzione della ricchezza boschiva tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. La natura
argillosa del terreno, priva della forza degli alberi, era devastata dalle acque, al punto da spingere il
Cuoco ad una funesta predizione: la distruzione totale negli anni successivi. Infatti, così continua:
“io non aggiungerò ciò che molti han detto, e non senza ragione, cioè che questo smoderato
sboscamento abbia alterato l’ordine delle stagioni, rese più frequenti le tempeste, le gragnuole e
finanche i terremoti. Tutto ciò è vero; ma io credo che ciò che è visibile ai sensi sia più che
sufficiente a scuotere gli animi degli abitanti ed a richiamar l’attenzione del governo, senza
ricorrere anche a ciò che ha bisogno di argomenti. Tale è lo stato della provincia. Lasciarla in
questo stato è lo stesso che volerla perdere” (Cuoco,1812, p.174).
All’interno di un quadro complesso, pone in evidenza, con straordinaria modernità, il
dissesto idrogeologico del Molise, la mancanza di una rete viaria agevole, la necessità di
modernizzare l’agricoltura e il commercio. Per questi motivi, egli ritiene necessario attuare una vera
e propria politica territoriale elaborando “la carta topografica del suo territorio” (ibid., p.175), per
poi mettere in atto uno sfruttamento agricolo adeguato alle caratteristiche ambientali; inoltre, si
preoccupa
della viabilità, delle divisioni amministrative e della gestione delle proprietà.
Quest’ultimo aspetto lo spinge a porre “l’accento sul lavoro della terra quale ineludibile premessa
d’ogni ipotesi di proprietà diffusa” ( De Francesco, 1997, p.103).
Tuttavia, il suo sguardo acuto e razionalista si appunta anche sulla città trasformata in
capoluogo, chiamata a svolgere ben altra funzione. Infatti, segnala l’urgenza di facilitare le
comunicazioni tra Campobasso, Isernia e Termoli, ma soprattutto di preoccuparsi dell’architettura
pubblica:
“Di architettura pubblica ignorasi finanche l’esistenza, di quell’architettura per cui le città
vengono ad avere strade regolari, piazze ampie, edifizi ben costruiti. Ciascuno fabbrica dove vuole,
il che dà a tutte le terre di questa provincia un’apparenza meschina, una comunicazione incomoda,
nessuna ventilazione, nessuna amenità, nessuna salubrità. Sarebbe necessario che ciascuna
municipalità si formasse un tal qual piano del suo abitato, sul quale si regolassero gli edifizi nuovi
che si debbono costruire ed i vecchi che si debbono restaurare ”.
Il ruolo incisivo di Cuoco è evidente nell’assunzione dell’incarico, nel 1810, di Presidente
del Consiglio Provinciale e le sue riflessioni sulla città diventano sempre più incisive:
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“Campobasso manca di case di abitazione, ove che la residenza delle molte autorità ne ha
reso il bisogno più grande; non ha strade interne, non ha fontana per acqua da bere. Campobasso,
diventata capitale di una provincia e centro di grandi affari, crescerà: ma crescerà in modo
conveniente al nuovo stato? Ma quanto più crescerà, tanto più sarà brutta e disadatta. Perchè?
perché si accresce senza disegno, perché si lavora senza un piano generale ”.
Il Consiglio Provinciale, presieduto da Cuoco, è formato da uomini di spicco a
Campobasso dal punto di vista economico, politico e culturale: Raffaele Pepe, Bernardino
Musenga, Giovanni Autilia, Carlo Arienziale Chiarizia, Girolamo Capozzi, Pasquale Salottolo,
Romanico Pallotta, Santo Viviani, Donato D’Alena. Sono discendenti dei demanisti che avevano
liberato la città del giogo feudale, formatisi nel clima del riformismo illuministico, e intenti a
cambiare il volto del Molise.
Il punto di vista di Cuoco permea le loro scelte e diventa volontà comune la nuova facies
di Campobasso, così da predisporre la
«capitale» alle sue nuove funzioni.
Se, però, il
cambiamento della città è desiderio comune, il merito sarà di uno solo, di Bernardino Musenga, che
fa parte del Consiglio provinciale: figlio di campobassani ha studiato degnamente ingegneria a
Napoli ed è richiamato in Molise per la sua opera .
La politica francese richiede tecnici specializzati, pronti a rinnovare il territorio, infatti, la
fondazione del Corpo degli Ingegneri di ponti e strade è considerato il miglior frutto del progetto di
riforma dell’istruzione proposto proprio dal molisano Cuoco (De Sanctis, 1986). Musenga è,
quindi, uno dei tecnici che ha fatto propria la lezione politica insieme ai precetti operativi.
Il suo fervido interesse per la città si evince dalla partecipazione al nuovo Consiglio
Provinciale dove condivide, con i politici e gli intellettuali del tempo, posizioni e punti di vista. Il
vantaggio è che egli ha lasciato una ricca documentazione: comunicazioni , relazioni sulla
progettazione urbana, le approvazioni di Gioacchino Murat e del Ministro dell’Interno, Giuseppe
Zurlo.
In realtà, Musenga, a Napoli, aveva abbracciato nel 1799 “il partito dei giacobini e
repubblicani sfuggendo il 12 febbraio ad una serie di arresti” (D’Andrea, 1975, p. 215). Insieme alla
fede politica, aveva acquisito la laurea da ingegnere e, difatti, così firma la corrispondenza, benché
venisse definito anche architetto, sia perché a quel tempo non si operava una distinzione tra le due
branche, sia perché nei suoi lavori non ha mai tralasciato gli aspetti decorativi.
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La sua formazione è coerente a quella fornita nei corsi di formazione per ingegneri, che si
tenevano a Napoli tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, tanto civili quanto militari,
dove si tendeva a fornire competenze relative alla costruzione e manutenzione di infrastrutture, ma
anche sull’architettura moderna, seguendo, come scritti fondamentali, quelli di Milizia che si
preoccupava della progettazione delle opere pubbliche e degli aspetti ornamentali. In questo clima
si è formato Bernardino Musenga che è preparato alla progettazione di opere pubbliche, ad
interventi funzionali, ma anche decorativi, che soprattutto rispondano alle esigenze sociali e siano
coerenti al clima politico. Nella logica riformistica “sia il territorio che la città richiedono un
programma basato sulla ricerca di nuovi poli funzionali, sulla ristrutturazione di quelli esistenti e sul
loro collegamento all’interno di una macchina ai due diversi livelli, da conseguirsi con l’ausilio di
un’efficiente struttura burocratica ed economica” (Buccaro-De Mattia, 2003, p. 24).
I suoi impegni di lavoro diventano fondamentali dopo il terremoto che nel 1805 colpisce
Campobasso. Si interessa della ristrutturazione di chiese e dello stallone del Regio demanio .
“L’impegno tecnico richiesto a Musenga non si limitava soltanto al capoluogo. L’architetto
era chiamato a dirigere in molti comuni dell’area campobassana le operazioni di scavo, di sterro
delle strade e di puntellatura delle case lesionate; doveva compilare, inoltre, una dettagliata stima
dei danni“ (Santoriello, 2006, p.41).
In modo specifico, si attiva per aspetti funzionali della città, come la copertura dei fossi,
poiché questi erano in condizioni assai critiche, dal momento che “un luogo acquedotto pubblico
(da intendersi per fogna) partiva a poca distanza dal portone della casa palaziata di Pasquale
Iannucci in Contrada Fondaco della farina, passava sotto la casa stessa ed andava a sboccare in altro
pubblico canale,” ricevendo e convogliando “tutte le acque immonde e de’ stillicidi di quella
contrada” (D’Andrea, 1975, p. 28). La sua partecipazione alla progettualità inerente alla città e
l’importanza del suo parere emergono, ad esempio, quando è interpellato per il pagamento della
perizia svolta dall’agrimensore Giuseppe D’Andrea , curatore della Pianta geometrica dell’intero
agro della centrale di Campobasso del 1812 (fig. 1).
Nella lettera del 16 settembre 1812, indirizzata all’Intendente di Molise, egli dimostra sia
l’utilità del lavoro del D’Andrea, sia la necessità che gli sia data giusta ricompensa. E’ una
interessante testimonianza della stima che Musenga gode a Campobasso, dal momento che dalla
corrispondenza appare che il suo intervento è sollecitato proprio dall’agrimensore, mentre egli ha la
facoltà di poter esprimere il proprio parere all’Intendente in modo diretto.
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La pianta ha una funzione molto importante, serve per la formazione del catasto
provvisorio, strumento considerato dai politici molisani di grande rilievo per il pagamento delle
tasse. Se il D’Andrea ha il merito di averla predisposta, Musenga ha l’intelligenza di conservarla
nella sua documentazione per fini ben precisi: come ingegnere e quindi esperto di analisi
territoriale, nonché come conoscitore della sua città.
La sua attività è, quindi, multiforme: è rivolta alle infrastrutture, come ingegnere, alla
riedificazione dei luoghi sacri, come architetto. “Emerge il ruolo di primo piano che Musenga
ricopriva nella società campobassana; dal 1810 veniva nominato anche decurione, carica che
avrebbe mantenuto fino al 1821” (Santoriello, 2006, p.46).
Se la volontà politica e la capacità tecnica si sintetizzano nella sua opera, Campobasso è il
luogo privilegiato per esercitarle, secondo un processo di rinnovamento, che era favorito in tutto il
Regno dal governo murattiano, ma fu incisivo nelle città dove, come a Campobasso, vi era la
disponibilità della classe dirigente.
Figura 1 Pianta geometrica dell’intero agro della Centrale di Campobasso del 1812, redatta
e firmata dall’agrimensore Giuseppe D’Andrea per l’avvio del catasto provvisorio (Doc. 1; cfr.
Bibliografia)
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3.1. Il borgo murattiano
Con una lettera del 3 settembre 1813 Bernardino Musenga presenta il suo progetto,
allegando la relativa pianta (fig. 2).
La lettera punta sul ruolo amministrativo della città e sulla necessità di una sua
ristrutturazione: la dimensione tecnica deve accordarsi con quella politica secondo un disegno
ideologico ben evidente. Egli precisa le nuove funzioni della città attraverso le costruzioni utili non
solo ai residenti, ma anche alle nuove autorità civili e militari che sono destinate ad essere presenti,
inoltre fa riferimento al terremoto del 1805, di particolare intensità tale da ridurre le possibilità
abitative, dal momento che alcuni edifici sono stati danneggiati.
Egli conosce bene la struttura della città, dal momento che la disegna precisamente in
un’altra lettera del 30 settembre 1813: “L’abitato di Campobasso (toltone la parte antichissima che
Monforte cinse di mura nel 1456 e ch’è campeggiata contro il monte) è fondato sopra un piano ”.
Pertanto, distingue il nucleo antico campeggiato sul monte, plasmato da Monforte , e un
abitato scivolato in piano che appare informe, sviluppatosi attraverso le emergenze e sul quale può
agire. Il sito prescelto, le Camere o Campere, è ideale perché pianeggiante ed ampio, è lo spazio
fuori le mura, il luogo del mercato e delle fiere. Il Consiglio provinciale ha selezionato tale sezione
territoriale sia per la sua estensione, sia per la sua valenza: la parte viva di Campobasso, fuori le
mura, è vista ora come lo spazio opportuno per l’ampliamento.
Ecco, dunque, come Musenga descriva precisamente il suo progetto, nel quale le piazze, in
realtà, diventano due, divise dal preesistente monastero di S. Maria della Libera:
“in quattro file di casamenti con giardini intervallate da strade regolari; in un
Casamento/n.6/ che collega con altre costruzioni e finalmente nel triangolo 12, il quale non avendo
comoda forma per casa può essere addetto ad un porticato, sotto di cui riuniscansi i mercanti per
conchiuderci i di loro contratti, porticato che io ho visto in diverse piazze d’Italia e di Francia ”.
Tale disegno soddisfa le esigenze residenziali, raccorda l’esistente con il nuovo, non
tralascia il ruolo mercantile di Campobasso, anzi vuole edificare un porticato apposito, insomma
offre ai campobassani il moderno prosieguo di Largo S. Leonardo (la chiesa principale alle pendici
del monte) con il vantaggio di predisporre un ambito territoriale ampio, aperto anche a futuri
ampliamenti. Non si tratta di uno scivolamento del borgo verso il basso, ma di una vera e propria
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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acquisizione del piano per il futuro della città. Infine, nobilita la sua proposta con il riferimento ad
altre piazze italiane o della sorella nazione francese, a prova della volontà di emulare città di
maggior rilievo e di voler inserire Campobasso degnamente tra le altre «capitali». Si muove proprio
nei termini della formazione ricevuta: considerare la città come un’unità di poli funzionali da
collegare in modo organico dando rilievo all’articolazione viaria.
“Consiste in una piazza rettangolare con gran pozzo pubblico in mezzo dirimpetto al finito
Monastero di S. Maria della Libera; un’altra piazza rettangolare alberata alle spalle di detto
Monastero; in quattro file di casamenti con giardini interverate da strade regolari ”.
Figura 2- Progetto di Musenga, del 1813, per il nuovo borgo di Campobasso: in evidenza i
moduli abitativi secondo i dettami di Milizia. Al centro le due piazze divise dal Monastero di S.
Maria della Libera. E’ ben evidente il tracciato viario ortogonale (Doc. 3; cfr. Bibliografia).
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La pianta, quindi, semplice nell’impostazione (fig.2), è ben articolata: Musenga delinea le
piazze, le strade e i lotti edilizi. Sfrutta il luogo pianeggiante di forma allungata per la strada per
Napoli e, all’interno di questo ampio spazio rettangolare, costruisce una maglia viaria ortogonale.
Vengono a stabilirsi percorsi principali e secondari che faciliteranno futuri sviluppi per la città. Le
due piazze danno un messaggio di continuità, ma anche di crescita urbana perché consentiranno il
passeggio e saranno di vantaggio per le future botteghe, perciò “sono assimilabili più agli squares
londinesi, cioè a piazze alberate (si consideri la presenza dell’Orto botanico), che alle places royals
francesi” (Manfredi Selvaggi, 1988, p. 62).
Il progettista dota, così, Campobasso non di una piazza, ma di due, superando con un
colpo d’ala un limite tipico delle città meridionali, di essere spesso prive di una piazza maggiore e
piuttosto di avere uno slargo o uno spiazzo per il mercato (Colapietra, 1982); la città molisana si
limitava ad avere Largo S. Leonardo e l’ampio spazio mercantile fuori le mura, con una
connotazione tipicamente feudale a lungo conservata.
Le piazze alberate sono poi arricchite dai viali, perché “Gioacchino Murat volle il verde
(…). A tal fine fu realizzato nell’area cittadina, detta le Campere, un orto botanico ove vennero
piantati semi provenienti da tutto il Mondo” (Trombetta, 1988, p. 20). Anche nel caso dei giardini e
dell’orto, Musenga tiene presente un decreto di Giuseppe Bonaparte del 1807 che consentiva la
costituzione di un orto botanico a Napoli e tale esempio è prontamente imitato, anche per lo stesso
scopo che lo aveva promosso: studiare le specie utili alla salute, all’agricoltura e all’industria (De
Santis, 1986).
In un progetto tanto rispondente ai dettami riformistici, il convento di S. Maria della
Libera non è d’impaccio, perché viene sfruttato come spartiacque tra le due piazze, inserito nel
nuovo senza creare discontinuità .
Le strade, a loro volta, perfettamente ortogonali rispondono a dettami di Milizia di
rispettare la simmetria e l’euritmia. Le nuove costruzioni sono progettate a due piani secondo il
canone che la lunghezza delle case sia maggiore dell’altezza, per una simmetrica bellezza che, in
questo caso, ha una grande valenza: aprire metaforicamente Campobasso in direzione di Napoli. ”.
Il nuovo quartiere si volge verso Porta Napoli e l’intento urbanistico è indicativo della volontà di un
rapporto stretto con il centro politico che non è più lontano e straniero.
Il suo occhio esperto di ingegnere non fa tralasciare, però, la valutazione della qualità del
terreno, dell’esposizione, ma anche della scelta delle pietre locali, per essere sicuro della solidità e
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della comodità del luogo prescelto. Egli conosce bene che l’abitato di Campobasso è fondato su “un
piano talmente argilloso, e denso che tutte le acque delle piogge e delle nevi che penetrano oltre la
superficie del terreno, ivi restano perpetuamente, senza che si aprano mai una strada ”.
Infine, dal momento che non è affatto tralasciata la vocazione commerciale della città, anzi
è valorizzata e nobilitata, nella documentazione è ribadita l’importanza della costruzione del
porticato: “nel triangolo 12, il quale non avendo comoda forma per casa può essere addetto ad un
porticato, sotto di cui riuniscansi i mercanti per conchiudere i loro contratti; porticato che io rivisto
in diverse piazze d’Italia e di Francia ”
Il progetto - l’idea, un’idea che deve saldare un nuovo borgo all’antico - è approvata,
infatti, nella lettera successiva del 30 settembre 1813, l’ingegnere scrive di nuovo all’intendente
compiacendosi dell’assenso al suo progetto, infatti, “per Bernardino ciò rappresentava la
consacrazione professionale” (Santoriello, 2006, p. 54). Inoltre, risponde a due quesiti: il costruire
una chiesa nel nuovo borgo e il porvi una fontana in una delle piazze.
La struttura idrogeologica di Campobasso richiede di situare un pozzo al centro della
piazza piuttosto che una fontana, per la quale si dovrebbero convogliare, in un sol punto, tutte le
acque che, invece, alimentano i mulini. Musenga dimostra di non lasciarsi catturare dall’idea
scenografica della fontana, ma di tener conto che l’acqua abbia una funzione economica vitale,
perché alimenta la molinatura. In tal caso non si preoccupa di accontentare l’intendente, ma di
curare gli interessi dei suoi concittadini.
Dal punto di vista estetico egli, alla fine della lettera, richiama l’esempio delle città della
Puglia per l’uso di un pozzo al centro della piazza e propone di porvi una statua per abbellimento,
dedicata “all’Eroe che felicemente ne governa e a cui tanto deve il Comune ”.
L’eroe è ovviamente Murat e così il progettista risolve la prima richiesta, mentre va
incontro alla seconda: la costruzione di una chiesa, illustrando che, se era stata tralasciata nella
precedente comunicazione, è comunque idea ben accetta, perché obiettivo suo, unitamente ai
campobassani, è ricostruire la chiesa della Trinità , fortemente danneggiata dal terremoto del 1805 e
posta al limite tra vecchio e nuovo borgo: “nell’antico sito, il quale (oltre all’essere salubre) sarà
centrale all’antico, ed al nuovo abitato ”.
In questo modo, l’ingegnere ha effettivamente agito, secondo le sollecitazioni urbanistiche
del tempo, di saldare i diversi poli di un centro urbano e valorizzare l’antico con il nuovo. Si può
dire che il progetto non tralascia il passato di Campobasso, mentre garantisce l’esaltazione del
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nuovo regime, con un’adeguata dose di realismo: costruire un borgo funzionale al contesto. Punta
sull’abitabilità, sulla collocazione delle botteghe e sull’intera organizzazione del borgo. La viabilità
e il passeggio sono elementi nuovi rispetto alla struttura feudale di Campobasso, rispondono ad
esigenze di traffico dovuto agli uffici, alla presenza non solo di forestieri, ma di cittadini
dell’intendenza; inoltre, vi è poi la dimensione tutta urbana del passeggio, di nuovi comportamenti
della classe dirigente, senza escludere quelli consolidati della contrattazione sotto il porticato.
L’approvazione del progetto avviene in meno di un anno e Musenga dimostra di
conservare gelosamente tanto l’approvazione Gioacchino Napoleone, quanto quella del Ministro
dell’Interno. Le due comunicazioni sono quasi contemporanee: quella di Gioacchino Napoleone del
25 agosto 1814 e quella del Ministro del 27 agosto 1814.
“E’ autorizzato la costruzione di un Borgo con piazza fuori l’antico recinto delle mura del
Comune di Campobasso, per la strada di Napoli, secondo il progetto fattone dall’architetto
Bernardino Musenga, il quale resta approvato. Il Borgo prenderà da ora il nome di Borgo
Gioacchino Murat e la piazza avrà questo stesso nome ”.
Murat proclama la sua immortalità attraverso la piccola città di Campobasso, lascia un
segno indelebile della presenza francese ed invita, anche grazie alla comunicazione del Ministro,
all’adempimento del piano nel rispetto delle condizioni previste. Nella sua relazione Murat
sintetizza i caratteri costitutivi del progetto: un nuovo borgo munito di piazza lungo la strada per
Napoli.
Campobasso può acquisire quel volto moderno tanto anelato per essere degnamente
capoluogo di provincia, come documenta la pianta che lo stesso Musenga redige ( fig.3) e le figure
4-5-6 che documentano le costruzioni realizzate sulla scia del progettista.
Il borgo murattiano è, pertanto, esito della volontà politica del Cuoco e della progettazione
attenta di Musenga; insomma espressione consapevole del riformismo in Molise.
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Figura 3- Pianta topografica della città di Campobasso del 1816, redatta e firmata da
Musenga, a testimonianza dei lavori in corso e della realizzazione dell’ampliamento. Al centro il
MonteBello con le diverse diramazioni del borgo; in basso, nello spazio trapezoidale, il perimetro
del nuovo borgo, ancora privo di costruzioni. (Doc. 5; cfr. Bibliografia).
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Figura 4
Figura 5
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Figura 6
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4 Le trasformazioni di Bari: conclusioni
Campobasso condivide con un’ altra città l’onore del borgo murattiano, Bari, dove, con pari
iter progettuale ed amministrativo, grazie sempre a Murat, si avvia nel 1813 la costruzione di un
nuovo borgo, che è corrispondente al primato di questa città . Anche qui «la pianta del nuovo borgo
fu approvata dal Decurionato il 14 settembre 1812, il 3 aprile 1813 da Murat che il giorno
successivo pose la prima pietra» (Spagnoletti, 2009, p. 24). Dal punto di vista progettuale «l’
edificazione del Borgo era regolata secondo una progressione spaziale e temporale a partire dalla
prima isola della prima linea all’intersezione dei due assi principali, il Corso e la via del mare»
(Petrignani-Porsia, 1982, p. 104). Come mostra la figura 7, le modalità di impostazione sono pari a
quelle di Musenga: la costruzione di un borgo di forma squadrata e razionale, predisposto in più
moduli o isole, per esigenze soprattutto residenziali .
Ma anche a Bari non accade per caso, poiché il rinnovamento dello spazio urbano è un
riconoscimento alle sue capacità di prevalere economicamente su altre agrotowns, come Barletta o
Trani (Corciulo, 2009; Spagnoletti, 2009b). Infatti, gli elementi che giocano a favore di Bari,
designata anch’essa capoluogo provinciale, sono «la collocazione geografica» e «la vivacità
economica dimostrata per tutta l’età moderna dalla città, a cui faceva da corollario la disposizione
progressista del ceto dirigente barese» (Poli, 2004, p. 142).
Insomma, senza uniformità e pur con contraddizioni, i Napoleonidi, facendo leva su processi
socio-economici positivi, realizzano o avviano la modernizzazione , rideterminando la gestione
amministrativa delle province meridionali e la pianificazione dello spazio urbano.
Ha dunque ragione Davis (2006), quando asserisce che il Mezzogiorno dovesse essere la
vetrina mediterranea di Napoleone; ma, bisogna aver il coraggio di ammettere, che non fu solo
apparenza e che il Decennio produsse se non modernizzazione, almeno un nuovo modo di pensare e
progettare lo spazio urbano. Anche laddove i progetti non sono realizzati, diventano lievito per gli
anni futuri.
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Figura 7 Stralcio della pianta del borgo murattiano di Bari, firmato da Prade, 1819 (fonte:
Petrignani-Porsia, 1982).
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d’Intendenza;
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