Cours 3VLI6CIV
Année universitaire 2015-2016
LA RELAZIONE CAPITALE-LAVORO NEL SISTEMA CAPITALISTICO
Luca Marsi
Le texte présenté ci-dessous est basé sur le livre de LOUIS GILL, Fondements et limites du capitalisme (Québec, Les Editions du
Boréal, 1996), dont de larges extraits ont été traduits en italien, réadaptés et opportunément réassemblés en fonction des exigences
spécifiques du cours de « Civilisation italienne » (Langues Etrangères Appliquées), dispensé à l’UFR de Langues et Cultures
Etrangères de l’Université Paris Ouest Nanterre La Défense. Imprimé par l’Atelier Intégré de Reprographie de cette université, ce texte
est distribué gratuitement aux étudiants en tant que support pédagogique sous forme de polycopié, et il ne fait l’objet d’aucune
exploitation commerciale.
In Italia come in gran parte dei paesi europei, la cosiddetta “flessibilizzazione” del lavoro si
manifesta ormai da una ventina d’anni attraverso la diffusione dei contratti atipici, cioè di contratti di
lavoro (a durata determinata, part-time, interinale, ecc.) che sono caratterizzati dalla durata limitata
del rapporto lavorativo e si distinguono dunque dalla forma “tipica” del contratto a tempo
indeterminato e a tempo pieno. Di fatto, nella gran maggioranza dei casi l’accesso a un posto di lavoro
avviene, in Italia come in Francia, per mezzo di un contratto “flessibile”: i contratti atipici non hanno
quindi più niente di atipico, essendo ormai diventati la norma.
Per capire come e perché questo fenomeno sia tanto diffuso, è necessario analizzare le ragioni
per le quali le imprese hanno esercitato forti pressioni sui governi al fine di rimodellare il quadro
giuridico (il diritto del lavoro) e rendere le norme d’impiego più flessibili. Per svolgere tale analisi, è
opportuno ricordare dapprima le caratteristiche fondamentali del capitalismo. Ciò ci permetterà poi di
studiare i tratti essenziali del neoliberismo, il cui sviluppo in Europa ha condotto alla flessibilizzazione
del mercato del lavoro. Il neoliberismo è infatti la forma sotto la quale si manifesta il capitalismo da
circa trent’anni nei principali paesi europei. Per comprendere adeguatamente il processo di
flessibilizzazione del mercato del lavoro – prodotto dalle politiche neoliberiste – è dunque
fondamentale capire la logica e i meccanismi specifici del capitalismo.
1) Rapporti e forze di produzione
Spiegare in poche righe che cosa sia il capitalismo non è cosa facile: si rischia di semplificare
eccessivamente l’argomento e di cadere così in un semplicismo riduttivo1. Coscienti di questo rischio e
dei limiti che avrà necessariamente la nostra spiegazione, tentiamo comunque di esporla. A tal fine,
cominciamo dai concetti di modo di produzione, di rapporti di produzione e di classe sociale, ripercorrendo
sinteticamente le grandi tappe della storia2.
a) La preistoria e il modo di produzione delle comunità primitive. Nella preistoria, che va
dall’apparizione dell’homo sapiens circa 40.000 anni fa fino alle prime civiltà dell’Antichità, si
manifestano le prime società umane, in cui l’essere umano si distingue dall’animale perché produce da
1 I testi volti a spiegare in che cosa consista il capitalismo sono molto numerosi. Come già precisato, il presente testo è basato
sul libro Fondements et limites du capitalisme, di Louis Gill (Québec, Les Editions du Boréal, 1996), al quale rinviamo il lettore per
ulteriori approfondimenti.
2 Ibid., pp. 47-53. Vedere anche http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/marx3.htm 1
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sé i propri mezzi di sussistenza. Diversamente dall’animale, totalmente subordinato alla natura, l’uomo
la domina progressivamente e forma una società. Le prime società preistoriche vivono di caccia e
pesca, poi di allevamento e agricoltura, e hanno capacità produttive rudimentarie che permettono di
soddisfare giorno per giorno le necessità di sopravvivenza. I loro membri sono collettivamente proprietari
dei mezzi di produzione e dei prodotti del loro lavoro comune. Essi si distribuiscono direttamente i compiti da
svolgere e i beni che producono. L’organizzazione dei rapporti di produzione delle tribù e dei clan
preistorici corrisponde dunque a una sorta di comunismo primitivo.
b) L’Antichità e il modo di produzione schiavistico. Nell’Antichità, che va approssimativamente dal
quarto millennio a.C. fino al V secolo d.C. con l’apparizione delle più antiche civiltà (nella valle del
Nilo, in Mesopotamia, nel Mediterraneo, in India, in Cina), lo schiavismo è il modo di produzione
dominante. Contrariamente alle comunità primitive, in cui si produceva soltanto ciò che era
strettamente necessario a sopravvivere e non c’era nessun surplus di produzione, le nuove tecniche
produttive (fusione dei metalli, irrigazione della terra, invenzione della ruota, scoperta dei principi
della matematica, della geometria, dell’astronomia, ecc.) permettono di produrre più di quanto è
strettamente necessario per la sopravvivenza della popolazione. Per la prima volta, si produce un
surplus di beni e la lotta per la sua appropriazione divide la società in classi: padroni e schiavi. Il modo di
produzione schiavistico sostituisce così quello delle comunità primitive. I produttori si convertono in
schiavi (principalmente prigionieri di guerra), privi di ogni diritto e obbligati a lavorare. Proprietari dei
mezzi di produzione e degli schiavi, i padroni sono dunque proprietari anche dei prodotti del lavoro
degli schiavi e, in particolare, del surplus di beni (cioè dei beni che eccedono ciò che è strettamente
necessario alla sopravvivenza degli schiavi). Anche altre classi compongono la società antica
(agricoltori, artigiani, commercianti), ma le due classi principali sono i padroni e gli schiavi e le loro
relazioni (i loro rapporti di forza) sono dunque quelle che caratterizzano i rapporti di produzione su cui si
fonda l’economia in questa fase storica.
c) Il Medio Evo e il modo di produzione feudale. Con la caduta dell’Impero romano in seguito alle
invasioni barbariche alla fine del V secolo, inizia il Medio Evo, che durerà fino alla fine del XV secolo.
In questa fase, s’istituiscono dei nuovi rapporti di proprietà della terra; gli invasori si appropriano
infatti dei terreni e li ripartiscono fra la popolazione. Nasce così una nuova classe sociale: l’aristocrazia
dei signori, dei nobili, dei proprietari terratenenti. Di fronte alle minacce dell’insicurezza, i contadini
liberi sono indotti a mettersi sotto la protezione dei nobili e a coltivare la terra dei signori sotto la loro
autorità, trasformandosi così in servi della gleba. Il modo di produzione servile sostituisce quello dell’Antichità,
essendo caratterizzato dai nuovi rapporti di produzione che si stabiliscono fra la classe nobiliare,
proprietaria della maggior parte dei terreni e dei principali mezzi di produzione, e la classe dei servi. A
differenza degli schiavi dell’epoca precedente, i servi godono di una certa libertà, che aumenta la loro
produttività. Possono infatti possedere delle parcelle di terreno o, almeno, vivere di quel che
producono e possono anche possedere in parte i mezzi di produzione, ma restano sotto la tutela del
signore che si appropria del surplus del loro lavoro. Gradualmente, però, le istituzioni feudali
diventano un ostacolo alle nuove forze sociali che si sviluppano con l’espansione del commercio e della
produzione. Con il tempo, si creano così le condizioni per la nascita di nuove classi sociali e forze
produttive, e per il passaggio a un nuovo modo di produzione.
d) I tempi moderni e il modo di produzione capitalistico. L’inizio dei tempi moderni può essere fatto
coincidere con l’inizio del XVI secolo, con un primo periodo di transizione dal Medio Evo alla
rivoluzione industriale (1500-1750), caratterizzato da grandi esplorazioni geografiche, scoperte di
nuovi territori e intenso sviluppo del commercio. Tale periodo è dunque la base sulla quale sarà poi
edificata la società industrializzata capitalistica. A metà del XVIII secolo, infatti, nasce la grande
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produzione industriale, la quale entra in conflitto con le antiche forme e relazioni di produzione e
scambio. A partire da questo momento, la borghesia – che rappresenta lo sviluppo delle nuove forze
produttive – prende la direzione del movimento sociale e s’impone come classe dirigente della nuova
società. Correlativamente, nasce una seconda classe sociale, prodotto dello sviluppo industriale
dominato dalla borghesia: la classe dei lavoratori salariati, il proletariato. I nuovi rapporti che
caratterizzano il modo di produzione capitalistico sono quelli in cui si affrontano il capitale (o, più
precisamente, i detentori del capitale) e il lavoro salariato (o, più precisamente, i lavoratori salariati).
Da un lato, la borghesia, proprietaria dei mezzi di produzione e dei prodotti del lavoro; dall’altro, la
classe dei lavoratori, i quali possiedono solamente la loro propria forza di lavoro, che vendono sul
mercato contro un salario. Si tratta di un nuovo rapporto di produzione tra forze sociali (produttive) diverse
rispetto alle epoche passate. Dal lavoro in condizioni di schiavitù, passando attraverso il lavoro servile,
si arriva storicamente al lavoro salariato e a un nuovo modo di appropriazione del surplus prodotto. Il
principio di uguaglianza dei diritti di tutti gli individui è uno dei risultati fondamentali della
rivoluzione democratica borghese; in pratica, però, la gran maggioranza della popolazione si limita a
ottenere lo stretto necessario perché, diversamente, si spegnerebbe la forza motrice del sistema, cioè il
guadagno privato.
Nell’epoca capitalistica propriamente detta, che va approssimativamente dal 1750 fino a oggi,
si può distinguere una prima fase (dal 1750 alla fine del XIX secolo) caratterizzata dallo sviluppo dei
capitalismi nazionali, basati su imprese di modesta dimensione. Segue poi una seconda fase, dall’inizio
del XX secolo a oggi, durante la quale il capitalismo diventa un sistema mondiale basato sull’azione
sempre più potente delle grandi imprese multinazionali.
2) Denaro e merce: la forma di scambio elementare nell’epoca precapitalistica3
Il modo di produzione capitalistico, come detto, si caratterizza per la presenza di una classe
sociale che è proprietaria non soltanto dei mezzi di produzione, ma anche dei beni prodotti dal
lavoratore, il quale vende una merce particolare (la sua forza lavoro) in cambio di un salario. La
natura di questo scambio (forza lavoro contro salario) deve essere ben studiata e compresa. A tale
scopo, cominciamo ad analizzare il concetto di scambio di merci attraverso il denaro.
Il rapporto di scambio fra produttori di merci caratterizza la produzione mercantile in
generale. Questa ha preceduto storicamente la produzione capitalistica, ma è nella società capitalista
che ha raggiunto il suo pieno sviluppo. Nella sua forma monetaria iniziale ed elementare, il denaro
non fa altro che svolgere il ruolo d’intermediario fra due merci: il possessore di una merce la vende e,
con il denaro ricavato dalla vendita, compra un’altra merce di cui ha bisogno (merce-denaro-merce:
M-D-M). Secondo questo schema, l’obiettivo finale è il consumo di una merce, il godimento di una
merce: il denaro si limita a fare da “mediatore” fra due merci, si cancella dietro di esse ed esiste
soltanto in funzione del loro scambio. Ovviamente, quando si possiede del denaro si può metterlo da
parte e accumularlo per farne una riserva di ricchezza (tesaurizzazione). In tal caso, il denaro è ritirato
dalla circolazione, ma se si desidera sfruttarlo, prima o poi bisogna reinserirlo nel circuito M-D-M:
qualunque sia la forma di tesaurizzazione, il denaro dovrà essere rimesso in circolazione per procurarsi
delle nuove merci. Nella forma di scambio elementare M-D-M, il denaro non aumenta di valore per
effetto della sua circolazione. Al contrario, la conservazione del denaro è possibile solamente se
s’interrompe la sua circolazione e lo si ritira dal circuito. L’accumulazione di denaro – nella sua forma
sterile di “tesoro” – è sinonimo di rinuncia temporanea all’acquisto e al consumo di merci. In tale
situazione, l’arricchimento è in certo modo un “impoverimento volontario”: l’avaro è condannato
all’indigenza dalla sua insaziabile sete d’oro. Nella forma di scambio elementare M-D-M, quindi, il
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Questa sezione e la seguente sono basate su GILL Louis, Fondements et limites du capitalisme, op. cit., pp. 196-198 e 203.
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denaro è destinato a essere speso e a convertirsi in una merce; oppure a essere tesaurizzato e
conservato (come simbolo di ricchezza), ma si tratta allora di un tesoro “morto”, improduttivo, di un
semplice “fantasma” della ricchezza reale (le merci), rimanendo temporaneamente sospesa la sua
funzione di mezzo di scambio.
La forma di scambio elementare è tipica dell’epoca anteriore a quella in cui si è sviluppato il
capitalismo. In epoca precapitalistica, ogni singolo produttore fabbrica una merce con il suo proprio lavoro
e i suoi mezzi di produzione, e la vende per poi comprare una nuova merce di cui ha bisogno. Il
principio logico è vendere per comprare (M-D seguito da D-M). Ogni produttore cede le merci – che
sono il prodotto del suo lavoro personale – contro una somma di denaro, con la quale acquista altre
merci che sono il prodotto del lavoro personale di un altro produttore. Nella sua forma elementare,
l’economia mercantile è fondata sulla reciprocità dei produttori, liberi di entrare in rapporti di
scambio: ognuno di essi ricerca la soddisfazione dei suoi bisogni e la realizza rendendo possibile la
soddisfazione dei bisogni di un altro produttore. Il venditore e l’acquirente non sono obbligati a
eseguire lo scambio, ma s’impegnano l’uno nei confronti dell’altro per mezzo di un contratto, agendo
da individui liberi e uguali.
L’interesse universale si presenta allora come la somma degli interessi individuali e lo scambio
come la base dell’uguaglianza e della libertà. L’economia mercantile appare insomma come un eden
dei diritti naturali dell’uomo, in cui regnano i principi della libertà e dell’uguaglianza. Tale visione
idealizzata dei rapporti di scambio è all’origine delle teorie e delle ideologie che fanno della proprietà
privata e della libera concorrenza le forme più sviluppate della società. Questa visione è però
appropriata solo nel caso delle comunità primitive, in cui lo scambio elementare è apparso dapprima
marginalmente, per poi espandersi poco a poco. Lo sviluppo e l’estensione progressiva degli scambi –
in particolare l’avvento del capitalismo – hanno dissolto queste comunità facendo emergere dei
rapporti di dominazione e di subordinazione che negano tale visione idilliaca e armonica delle
relazioni mercantili.
3) Denaro, merce e lavoro salariato: lo scambio nel sistema capitalistico
Il modo di produzione capitalistico implica una nuova forma e una nuova logica di scambio. Il
capitale, infatti, non è semplicemente denaro che serve a compiere scambi commerciali, ma denaro che
si accumula incessantemente. L’accumulazione di denaro, che in tale sistema diventa un fine in sé, va
al di là della semplice tesaurizzazione (possibile nel circuito M-D-M). Come si è visto, la finalità del
circuito M-D-M è vendere per comprare (M-D seguito da D-M), cioè l’obiettivo del sistema è
l’acquisto e il consumo di merci.
Nel sistema capitalistico, invece, la logica è quella dell’accumulazione incessante di denaro: il
circuito diventa allora D-M-D’, in cui D’ è superiore a D. In altri termini, si tratta di utilizzare una
somma di denaro D per comprare delle merci M, le quali saranno vendute in modo tale da ottenere
una nuova somma di denaro D’ superiore alla somma iniziale D. Tale somma D’ sarà successivamente
“investita” nell’acquisto di merci M che saranno vendute per ottenere una somma D’’ superiore a D’.
Il processo continuerà indefinitamente, allo scopo di ottenere una somma D’’’>D’’, poi D’’’’>D’’’, ecc.
Il capitale è dunque una “categoria”, una “forma” specifica del denaro: è la forma “storica” che
il denaro assume nel modo di produzione capitalistico. Il capitale è denaro che si accumula, che
moltiplica il suo valore: nel circuito D-M-D’, la finalità non è più solamente vendere per comprare, ma
piuttosto comprare (D-M) per poi vendere più caro (M-D’). Nel circuito elementare M-D-M, il denaro
serve da intermediario per lo scambio di merci, che passano da un proprietario all’altro in funzione dei
bisogni individuali. Nel circuito D-M-D’, sono invece le merci a svolgere il ruolo d’intermediario al
movimento del denaro, permettendo a quest’ultimo di accumularsi (e trasformandolo così in capitale).
Nel circuito M-D-M, il denaro è destinato a scomparire al termine dell’operazione per lasciare il posto
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a una merce, ed è necessaria la vendita di una nuova merce affinché il denaro ritorni a circolare. Nel
circuito D-M-D’, invece, è il denaro stesso a iniziare il movimento e non scompare alla fine del
circuito: al contrario, la sua quantità aumenta per effetto di un processo che si autoalimenta senza
interruzione.
Come detto, nel sistema capitalistico il denaro non è più un semplice intermediario per la
circolazione delle merci, ma il prodotto stesso di questa circolazione. Esso si conserva, ma non
ritirandosi dal circuito per essere tesaurizzato (come nel circuito elementare M-D-M): adesso si
conserva e aumenta come risultato della circolazione. Nel circuito elementare M-D-M, se si vuole
conservare il denaro, bisogna ritirarlo dalla circolazione e tesaurizzarlo, sapendo che prima o poi si
dovrà rimetterlo in circolazione al fine di sfruttarlo. Nel circuito capitalistico D-M-D’, invece, il denaro
è costantemente in circolazione al fine di moltiplicarsi, perché è proprio per effetto di tale movimento e
di tale processo che esso può moltiplicarsi. Il capitale è l’espressione di questo movimento ininterrotto di
valorizzazione, di perseguimento dell’arricchimento come fine in sé, rappresentato dal circuito D-MD’. In tal senso, dunque, il capitale non è più solamente denaro fisico (un oggetto tangibile): perde la
rigidità che aveva in M-D-M e diventa un processo.
4) La fonte della crescita del capitale4
Ma perché il capitale aumenta? Che cosa gli permette di accrescersi? Come si riesce a passare
da D a D’? Tentiamo, di nuovo, di spiegarlo il più semplicemente possibile5. In entrambi i circuiti (MD-M e D-M-D’), c’è la fase di cessione di denaro D per acquistare e consumare una merce M (fase DM). Sul piano puramente formale, tale operazione (denaro contro merce) è la stessa nei due circuiti; di
fatto, però, essa ha un contenuto diverso nel circuito D-M-D’. Mentre in M-D-M la stessa somma di
denaro permette di passare da una merce M a un’altra merce M dello stesso valore, in D-M-D’ la
merce M che il capitalista acquista deve essere tale da permettergli di ottenere, alla fine del ciclo, una
somma di denaro D’ superiore. Cioè in D-M-D’ bisogna che la merce M, quando viene consumata,
aumenti di valore rispetto a D, in modo da procurare al capitalista una somma D’ superiore quando
sarà venduta. Bisogna dunque che la merce M non sia destinata a un semplice consumo immediato o
finale, ma a un consumo produttivo che permetta di riprodurre e moltiplicare il suo valore.
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Nella circolazione semplice M-D-M, il denaro è speso definitivamente ed esce dalla circolazione,
poiché si trasforma in merci destinate al consumo finale, cioè a un consumo improduttivo.
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Nella circolazione del capitale D-M-D’, il denaro non è speso, ma semplicemente “anticipato”,
investito. Non esce dalla circolazione, ma aumenta con e grazie alla circolazione, per effetto
della sua trasformazione in merci che sono consumate produttivamente.
Ma, allora, quale “merce” M permette di soddisfare queste condizioni? Qual è la “merce” il
cui consumo permette al denaro di aumentare di valore? Quale “merce” possiede tale proprietà? Tale
“merce” è il lavoro vivo, la forza lavoro che il capitalista compra al lavoratore. Se si esclude il caso della
speculazione (su un bene immobile o su titoli finanziari, che possono essere rivenduti a un prezzo
superiore a quello di acquisto), la sola attività produttiva capace di aumentare il valore di una somma di
denaro e di un insieme di beni, è quella fornita dal lavoro e realizzata con il lavoro. Nessuna merce –
Questa sezione è basata su GILL Louis, Fondements et limites du capitalisme, op. cit., pp. 198-201.
Facciamo qui astrazione dalle nozioni di valore, valore d’uso e valore di scambio, che sono tuttavia fondamentali per studiare
compiutamente le fonti di accrescimento del capitale. Per una presentazione esaustiva di tali nozioni, vedasi GILL Louis,
Fondements et limites du capitalisme, op. cit., pp. 91-144.
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compresi i mezzi di produzione – permette a una somma di denaro iniziale D di aumentare di valore e
di trasformarsi in una somma superiore D’. Per esempio, l’acquisto di un martello e di una macchina
di produzione (D-M) non permette, di per sé, di ottenere poi una somma di denaro D’. Occorre che,
con quel martello e quella macchina, sia effettuato un lavoro. È la forza lavorativa viva a permettere di
creare un prodotto (un bene o un servizio) che potrà poi essere venduto, procurando al capitalista una
somma di denaro D’>D. Il martello e la macchina, a loro volta, sono il risultato di questo lavoro; sono
essi stessi dei prodotti, nei quali il lavoro si è già materializzato. Come tali, essi non possono quindi fare
aumentare il valore di D. L’unica “merce” dotata di questa proprietà è la forza lavoro, è il lavoro vivo non
ancora materializzato in un prodotto, è l’energia, la capacità di lavoro fornita dal lavoratore.
Nel sistema capitalistico, la forza lavoro diventa una “merce” poiché il capitalista la compra al
lavoratore contro un salario, così come compra una macchina e un martello al fornitore di tali prodotti
contro una somma di denaro. La forza lavoro è dunque l’unica merce M che permetta al produttore di
ottenere un prodotto che gli procurerà una somma di denaro D’>D. Ed è proprio questa la caratteristica
fondamentale del capitalismo: non solo il produttore è proprietario dei suoi mezzi di produzione, ma
acquista anche la forza di lavoro viva che possiede il lavoratore (e che quest’ultimo gli vende contro un
salario). Questo scambio particolare (D-M: acquisto di forza lavoro contro un salario) è la base che
permette al produttore di mettere in opera un’attività produttiva grazie alla quale il denaro investito
inizialmente genera un “guadagno”, un “profitto” (la differenza fra D’ e D). Dunque, è proprio questo
scambio ciò che trasforma il denaro in capitale, e il sistema mercantile elementare in sistema
capitalistico.
5) La relazione fra il capitalista e il lavoratore salariato6
Evidentemente, la relazione che si stabilisce tra il proprietario del capitale (il capitalista) e il
lavoratore salariato non è esattamente la stessa che si stabilisce fra il capitalista e il fornitore di un’altra
qualsiasi merce (per esempio, il fornitore di un martello o di una macchina). Ciò è dovuto al fatto che
la forza lavoro è una condizione vitale del lavoratore, la cui capacità di lavoro è un’esteriorizzazione
vitale della sua propria persona. La forza lavoro è dunque una “merce” particolare, in quanto legata
fisiologicamente alla persona che la fornisce. Resta però una merce nella misura in cui essa viene
comprata dal capitalista. La relazione economica fra il capitalista e il lavoratore è dunque un rapporto
di scambio fra il possessore dei mezzi di produzione e del capitale, da una parte, e il possessore della
forza lavoro, dall’altra. Tale relazione si compone di due fasi:
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l’acquisto di forza lavoro contro denaro (il salario) da parte del capitalista, corrispondente alla
fase D-M;
-­‐
lo sfruttamento della forza lavoro da parte del capitalista, che si serve dell’attività lavorativa
del lavoratore per creare un nuovo valore economico (M-D’).
Questo suppone che il lavoratore non sia più né uno schiavo né un servo, ma un soggetto
giuridicamente libero che dispone ed è proprietario della sua forza di lavoro, e che è dunque in
condizione di venderla. Si osservi che questa particolarità del sistema capitalistico è un aspetto nuovo
rispetto ai sistemi che l’hanno preceduto storicamente. Il lavoro (o più precisamente, la forza lavoro)
non è sempre stato una merce. Prima del capitalismo, infatti, il lavoro non era “lavoro salariato”. Lo
schiavo non vende la sua forza lavoro al padrone (così come una vacca non vende i suoi servizi al
contadino). Lo schiavo, con la sua forza lavoro, è venduto al padrone come una merce. Non è la sua
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Questa sezione è basata su GILL Louis, Fondements et limites du capitalisme, op. cit., pp. 201-202, 205-206 e 245.
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forza lavoro a essere una merce, ma lo schiavo stesso: è lo schiavo stesso a essere venduto e rivenduto
da un padrone all’altro. Anche il servo della gleba non è totalmente libero e “vende” solamente una
parte della sua forza lavoro al proprietario della terra (al signore, al nobile). Il servo non riceve un
salario; al contrario, deve egli stesso pagare un tributo al signore.
Si noti tuttavia che la “libertà” del lavoratore salariato, rispetto a quella dello schiavo o del
servo, è giuridica, ma non “economica”. Il lavoratore salariato non è più legato al padrone dalle
catene, come lo schiavo, ma da un filo invisibile: l’unica merce che possiede, la forza lavoro, può
venderla soltanto al capitalista. Ne è libero proprietario, ma per sfruttarla deve necessariamente
venderla al capitalista. Evidentemente non la vende tutta, in blocco e in una sola volta: se lo facesse, di
fatto venderebbe se stesso (e non sarebbe più un soggetto libero, ma di nuovo uno schiavo). Il
lavoratore vende la sua forza lavoro solamente per un certo periodo (un giorno, una settimana, o
anche per una durata indeterminata, ma sempre con la possibilità di dare le dimissioni) secondo i
termini del contratto stipulato con il capitalista.
La dipendenza del lavoratore dal capitalista si manifesta dunque sotto una forma nuova. Il
lavoratore non è proprietà di un padrone (come nel sistema schiavistico) e non si trova sotto la
dominazione di un signore (come nel sistema feudale). Il lavoratore è un soggetto giuridicamente libero
che può vendere la sua forza lavoro a un capitalista per un certo periodo e può poi decidere di
venderla a un altro capitalista. Ma ciò non esclude la sua dipendenza economica: il lavoratore salariato
(proprio perché tale, cioè salariato) dipende dalla classe capitalista nel suo insieme. La sua sopravvivenza
è legata al suo rapporto con la classe capitalista: non può liberarsi dai capitalisti senza rinunciare
all’impiego (il posto di lavoro) e al salario che esso gli procura.
Si noti che il capitalista “dipende” a sua volta dal lavoratore, anche se in modo diverso e con
un diverso grado di “dipendenza” (in termini di potere contrattuale e di negoziazione). Come abbiamo
visto, infatti, il processo D-M-D’ si realizza solamente grazie allo sfruttamento del lavoro. Per passare
da D a D’, il capitalista ha bisogno della forza lavoro posseduta dal lavoratore, il che spiega la
“centralità” e l’importanza del lavoro. Tale “reciprocità” fra capitalista e lavoratore salariato, però,
deve essere intesa correttamente: dire che il lavoro salariato è “centrale” (cioè fondamentale, cruciale)
per l’arricchimento del capitalista, non vuole dire che il lavoratore abbia necessariamente un potere di
negoziazione e un ruolo uguale a quello del capitalista. Di fatto, tale relazione non è simmetrica, ma
disuguale: il capitalista si arricchisce (D’>D) nella relazione che lo associa al lavoratore; il lavoratore
ottiene solamente una somma denaro (D, il salario) considerata equivalente alla sua forza lavoro (M) e
che gli permette di riprodurla.
6) L’alienazione del prodotto del lavoro
La “salarizzazione” del lavoro è dunque una caratteristica specifica del capitalismo. È
importante sottolineare un altro aspetto importante di questa relazione economica fra capitalista e
lavoratore. Contrariamente al sistema mercantile precapitalistico (in cui ogni produttore era
proprietario non solo dei mezzi di produzione, ma anche del prodotto del suo lavoro, che andava a
scambiare sul mercato contro un’altra merce o contro una somma di denaro), nel sistema capitalistico
il capitalista non è solo proprietario dei mezzi di produzione (e della forza lavoro che compra al
lavoratore). Il capitalista diventa proprietario anche del prodotto (bene o servizio) fabbricato dal lavoratore. Ciò è una
conseguenza diretta della “salarizzazione”.
Nel sistema precapitalistico M-D-M, ogni produttore è proprietario non solo dei mezzi di
produzione, ma anche del frutto del proprio lavoro: il fabbricante di un tavolo possiede i mezzi di
produzione, fornisce il suo proprio lavoro e produce un tavolo; così, un fabbricante di sedie possiede i
mezzi di produzione, fornisce il suo proprio lavoro e produce delle sedie. Il fabbricante di tavoli e il
fabbricante di sedie scambiano poi i loro prodotti rispettivi sul mercato.
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Nel sistema capitalistico, invece, il lavoratore è inizialmente proprietario soltanto della sua
forza lavoro, ma nel momento in cui la vende al capitalista contro un salario, perde la possibilità di
diventare proprietario del frutto del suo proprio lavoro. Il risultato del suo lavoro (il bene o il servizio
che produce) appartiene al capitalista, che ne è il solo proprietario. C’è dunque una separazione fra lavoro
e proprietà. Nella relazione di scambio fra capitalista e lavoratore, quest’ultimo non vende il prodotto del
suo lavoro (come faceva il produttore nel sistema precapitalistico), ma la sua forza lavoro. Tale
“merce” è acquistata dal capitalista, che la usa e la sfrutta in un’attività di produzione che egli dirige,
della quale possiede gli elementi materiali (i mezzi di produzione) e il cui risultato (il prodotto: il bene o
il servizio) è di sua unica proprietà. Il capitalista si appropria del prodotto dell’attività del lavoratore
proprio perché è proprietario dei mezzi di produzione e perché compra la forza lavoro al lavoratore.
La proprietà diventa così la base della dominazione del capitale sul lavoro.
Questo processo economico viene indicato con il termine alienazione, che indica il “diventare
altro”, l’atto con il quale un individuo cede ad altri quello che gli appartiene. Il prodotto dell’attività
del lavoratore (del suo lavoro) diventa estraneo a quest’ultimo; non appartiene più al lavoratore, ma al
capitalista. “L'attività produttiva non è il soddisfacimento di un bisogno, ma un mezzo per soddisfare
dei bisogni estranei al lavoro stesso”7. L’alienazione economico-produttiva può allora generare altre
forme di alienazione psichica o sociale. La vendita della propria forza lavoro come una merce e la
conseguente perdita della proprietà del prodotto del proprio lavoro, creano una situazione in cui il
lavoratore – pur essendo un soggetto giuridicamente libero – finisce per “appartenere” di fatto al
capitalista. In senso ampio, infatti, l’alienazione è il “processo mediante il quale un individuo o una
comunità trasformano la loro coscienza fino a renderla contraddittoria con lo stato che ci si dovrebbe
aspettare dalla loro condizione”8.
Nelle fasi iniziali del capitalismo, l’alienazione psichica e sociale ha assunto toni molto marcati:
“L’operaio così si estrania da sé e non considera il lavoro come parte della sua vita reale (che si svolge
fuori dalla fabbrica)”9. Se si accetta l’idea che la “caratteristica del genere umano è il lavoro, che lo
differenzia dall'animale, e gli consente di istituire un rapporto con la natura attraverso cui si appropria
della natura stessa”, se ne deduce allora che nel sistema capitalistico “l’operaio perde la sua essenza
generica, cioè ciò che contrassegna l’essenza dell’uomo […]. Il lavoro in fabbrica viene ridotto a mera
sopravvivenza individuale, non è quindi espressione positiva della natura umana. In fabbrica si perde
la dimensione di comunità. Si parla così di alienazione della sua essenza sociale. L’operaio così si sente un
uomo soltanto nelle sue funzioni animali – mangiare, bere, procreare – mentre si sente un animale nel
lavoro, cioè in quella che dovrebbe essere un’attività tipicamente umana. L’unità organica dell’umanità,
che si realizza nell’attività e nei rapporti sociali, è frantumata dalla proprietà privata, la quale separa,
come visto, l’uomo dalle sue attività e dai prodotti di esse”10.
Come detto, e come esemplifica il ben noto film di Charlie Chaplin Tempi moderni, l’alienazione
psichica del lavoratore ha avuto la sua massima espressione nelle fasi iniziali dell’industrializzazione.
Essendo però un fenomeno intrinseco del modo di produzione capitalistico, l’alienazione continua a
manifestarsi anche oggi, benché sotto forme diverse. Le malattie (fisiche e psichiche) connesse più o
meno direttamente al lavoro, lo stato di precarietà dei lavoratori indotto dalla “flessibilizzazione” del
lavoro, le loro condizioni di subordinazione rispetto al datore di lavoro, sono fenomeni dietro ai quali
si nascondono altrettante forme di alienazione.
7) Il plusvalore, forma sociale specifica della società capitalista
http://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Marx#La_critica_dell.27economia_classica_e_l.27alienazione
REAL ACADEMIA ESPAÑOLA, Diccionario de la lengua española, vigésima primera edición, tomo I, 1992, p. 102 (mia traduzione).
9 http://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Marx#La_critica_dell.27economia_classica_e_l.27alienazione
10 Ibid. 7
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Possiamo riassumere nel modo seguente quanto detto nelle pagine precedenti11. Ogni società –
qualunque sia il contesto storico e geografico in cui essa si crea e opera – deve produrre una quantità
minima di beni necessari alla sopravvivenza dei suoi membri; cioè deve produrre una quantità minima
di beni necessari per mantenere e riprodurre la forza di lavoro che permette di produrre quei beni. A
eccezione delle società primitive, tutti i tipi di società che si sono succeduti nel corso della storia hanno
prodotto, oltre a questa quantità minima di beni, anche una quantità supplementare di beni. Tale
surplus produttivo, infatti, permette di:
-­‐
mantenere e arricchire i membri della popolazione che non partecipano alla produzione di
tutti questi beni (bambini piccoli, persone anziane o incapaci di lavorare, classi sociali
possidenti, ecc.);
-­‐
costituire delle riserve per il consumo futuro, consolidare la struttura di produzione, ampliare
le reti di trasporto e di comunicazione, ecc.
A eccezione delle comunità primitive, insomma, tutte le società hanno prodotto un surplus di
beni rispetto a quelli immediatamente consumati. Ciò che cambia, da un tipo di società all’altro nel
corso della storia, sono le condizioni in cui questo surplus è prodotto e le modalità con cui i membri
della popolazione se ne appropriano. In generale, nelle società fondate sulla proprietà collettiva dei
mezzi di produzione, il surplus è generato dall’attività produttiva sociale ed è quindi redistribuito fra
tutti i membri della comunità. Nelle società di classe, fondate sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione, il surplus è prodotto con mezzi di produzione privati e sono dunque le classi sociali
possidenti (cioè proprietarie di tali mezzi) che si appropriano del surplus, secondo modalità che variano
da un tipo di società all’altro (schiavitù nella società antica, servitù nella società feudale, salariato nella
società capitalista).
Nel sistema capitalista, la vendita di questo surplus di merci12 procura al capitalista un surplus
monetario uguale alla differenza fra il valore del denaro ottenuto dalla vendita del bene o servizio
prodotto (D’) e il valore del denaro investito nell’attività produttiva (D). Questo plusvalore (D’ – D) è
designato comunemente, nel linguaggio corrente ed economico, con i termini “profitto”, “utile”,
“guadagno”. Il plusvalore indica dunque il modo specifico in cui il surplus di ricchezza è prodotto e
distribuito nella società capitalista.
Il surplus materiale di beni e di ricchezza che essi rappresentano è una categoria generale, che si
incontra in ogni tipo di società nel corso della storia (società antica, società feudale, società capitalista).
Il plusvalore è la forma storica e sociale specifica in cui si manifesta tale surplus di ricchezza nella società
capitalista. Come visto ampiamente nelle pagine precedenti, il plusvalore (differenza fra D’ e D) è
generato infatti da un modo di produzione particolare (quello basato sul lavoro salariato) e da un
modo di appropriazione particolare (l’appropriazione da parte del capitalista in virtù della proprietà
privata dei mezzi di produzione). Queste modalità di produzione e di appropriazione del surplus sono
proprie e specifiche della società capitalista e si distinguono dunque dalle modalità che hanno
caratterizzato le società precedenti.
8) Conclusione
Ibid., pp. 208 e 212-213.
Ciò che andrebbe specificato – diversamente da quanto noi abbiamo fatto nel nostro testo – è che la “merce” è una
categoria specifica della società mercantile e, in particolar modo, del capitalismo (che è l’espressione più compiuta di tale tipo
di società). A questo proposito, rinviamo il lettore a GILL Louis, Fondements et limites du capitalisme, op. cit., Chapitre I,
« Marchandise et valeur », pp. 91-144. 11
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L’emergenza del sistema capitalistico è il risultato di un lungo processo storico, nel corso del
quale i rapporti fra le forze di produzione dei periodi anteriori (dapprima i rapporti fra i membri delle
comunità primitive, poi quelli fra padroni e schiavi, e in seguito quelli fra signori e servi della gleba) si
sono dissolti. Attraverso vari sconvolgimenti, l’evoluzione storica ha finito per concentrare i mezzi di
produzione fra le mani di una classe sociale (la classe capitalista), generando al tempo stesso la classe
dei “liberi” lavoratori (proprietari unicamente della propria forza di lavoro – che possono vendere
come merce sul mercato – e sprovvisti degli altri mezzi di produzione)13. È grazie all’acquisto di tale
“merce” che il produttore di beni e servizi ottiene un profitto che, opportunamente reinvestito, genera
altro profitto, in un processo incessante di accumulazione di ricchezza. Proprio per effetto di tale
processo, il denaro non è più un semplice mezzo di scambio, ma capitale, cioè denaro il cui valore
aumenta grazie all’attività produttiva fondata sulla forza lavoro, che il produttore (proprietario dei mezzi
di produzione) acquista dal lavoratore. Il produttore diventa così capitalista: l’appropriazione (da parte
del capitalista) del lavoro venduto dal lavoratore è ciò che giustifica l’appropriazione del frutto di tale
lavoro (il bene o servizio fabbricato). La proprietà diventa dunque la base della dominazione esercitata dal
capitalista sul lavoratore.
Prima di concludere, è opportuno attirare l’attenzione del lettore su un punto importante. È
fondamentale comprendere la natura storica e sociale del processo di accumulazione del capitale, al
fine di non cedere alla tentazione di svolgere considerazioni superficiali, di natura etico-morale, sulla
figura del capitalista. Sarebbe semplicistico – e erroneo – pensare che il capitalista sia “malvagio”, così
come pensare che un “buon” capitalista potrebbe mostrarsi più “comprensivo” nei confronti dei suoi
lavoratori. Il capitalismo è un modo di produzione fondato per sua natura su un certo tipo di relazione
sociale: la relazione che connette il possessore del denaro e dei mezzi di produzione (il capitalista) con il
possessore della forza di lavoro (il lavoratore salariato). Per sua natura, tale relazione pone il capitalista in
una posizione di dominio rispetto al lavoratore, perché è proprio dall’alienazione del frutto dell’opera
del lavoratore che il capitalista ottiene un profitto, in un processo continuo di accumulazione. Il
comportamento soggettivo del capitalista è interamente determinato dal processo oggettivo di
accumulazione del capitale. Il capitalista è un’espressione, una personificazione del capitale; per sua
natura, il capitalista persegue l’obiettivo di far fruttare il denaro che investe nella sua attività di
produzione. La motivazione del capitalista di far fruttare incessantemente il suo capitale, la sua ricerca
continua del profitto, è dunque l’espressione soggettiva del movimento oggettivo del capitale, la cui
finalità è appunto quella di accumularsi continuamente. Il comportamento del capitalista non è quindi
determinato da un semplice egoismo o dal semplice desiderio di arricchirsi, ma dalle condizioni socioeconomiche proprie e specifiche del sistema capitalistico (che è a sua volta uno stadio particolare del
divenire storico)14.
Per tale ragione, ci sembra insufficiente limitarsi a una “critica” – più o meno severa – delle
grandi imprese multinazionali che rappresentano oggi il “capitale” e sfruttano i lavoratori
(licenziamenti, delocalizzazioni, precarizzazione dei contratti di lavoro, ecc.). Evidentemente, la loro
condotta può e deve essere sottoposta a dure critiche, ma a condizione di estendere l’analisi critica al
“sistema” di cui tali imprese sono l’espressione, cioè al capitalismo come tale. È la logica stessa di
accumulazione del capitale (che è inerente al sistema capitalistico) ciò che induce oggi le grandi
imprese a comportarsi come fanno. Ciò permette anche di osservare i limiti e le contraddizioni di chi
intende “moralizzare” il capitalismo, o di chi intende costruire un capitalismo “dal volto umano”. Il
capitalismo è fondato per sua natura sui meccanismi di sfruttamento e di alienazione sopra descritti.
Indubbiamente, gli effetti di tali meccanismi possono essere attenuati. Ed è ciò che è successo in
Europa occidentale nel corso del XX secolo, in particolar modo durante i trent’anni intercorsi fra la
fine della Seconda Guerra Mondiale e la metà degli anni ’70. Le lotte dei sindacati e lo sviluppo delle
13
14
Ibid., p. 204.
Ibid., pp. 206-207. 10
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norme giuridiche (il diritto del lavoro) hanno permesso infatti di ottenere un livello elevato di
protezione dei lavoratori salariati. Ma le logiche di accumulazione del profitto (caratteristica intrinseca
del capitalismo) non hanno mai cessato di operare e di generare nuove forme di sfruttamento, come
dimostrano le condizioni di precarietà lavorativa create dalla “flessibilizzazione” del lavoro che il
capitale ha saputo imporre durante questi ultimi vent’anni.
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Cours 3VLI6CIV Année universitaire 2015