Manifesto del Futurismo Le Figaro - 20 febbraio 1909
Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo,
l'abitudine all'energia e alla temerità.
Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno
elementi essenziali della nostra poesia.
Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna
opera che non abbia un carattere aggressivo
può essere un capolavoro. La poesia deve
essere concepita come un violento assalto
contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi
davanti all'uomo.
Noi vogliamo glorificare la guerra sola igiene del mondo –
il militarismo, il patriottismo, il
gesto distruttore dei libertari, le
belle idee per cui si muore e il
disprezzo della donna.
CONGEDO
Poi che il soldato che non parte in guerra
E' femmina che invecchia senz'amore:
e c'é un binomio, che nel mesto cuore
uno squillo ancor dà: Trento e Trieste:
poi che la vita e' un male, e son moleste,
dopo la prima giovinezza, l'ore:
ma chi soldato fra i soldati muore,
resta giovane sempre sulla terra:
non so io se avverarsi ancor non possa
quel sogno caro a me fin da bambino!
ammiraglio non più, ma fantaccino,
abbia, in ordine sparso, abbia a sparare,
contro un bersaglio, che di carne e d'ossa,
sappia un colpo ricevere, uno dare
Non è l’amore della famiglia
della giustizia della civiltà
che ci spinge all’eccidio ed al massacro
alla distruzione
ma il nostro oscuro istinto di conquista e di
rapina
e di stupenda ribellione
contro tutte le false leggi della società,
stato, religione:
menzogne, menzogne,
maschere, maschere;
perché solo la voracità l’insaziabilità
sono le vere forze vive della creazione
della vita.
Saccheggia, stupra, ammazza,
massacra, stupra, incendia,
rovina, devasta, sconquassa, strazia! […]
Puoi compiere tutte le vendette,
soddisfare ogni tua cupidigia.
Nessuno ti farà nessuna proibizione.
Altri morirà per la Storia d'Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.
Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
popolo che muore in guerra perché «mi vuol bene»
«per me» nei suoi sessanta uomini comandati
siccome è il giorno che tocca morire.
Altri morirà per le medaglie e per le ovazioni
ma io per questo popolo illetterato
che non prepara guerre perché di miseria ha campato
la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni.
Altri morirà per la sua vita
ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli
perché sotto coperte non si conosce miseria
popolo che accende il suo fuoco solo la mattina
popolo che di osteria fa scuola
popolo non guidato, sublime materia.
Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato:
eccomi, come davo alla ruota la mia spalla
facchina.
Sotto, ragazzi,
se non si muore
si riposerà, allo spedale.
Ma se si dovesse morire
basterà un giorno di sole
e tutta Italia ricomincia a cantare.
In faccia a loro il Sabotin s’accende
dietro i tuoi fanti, e in un orrendo schianto
cade il Calvario, e sente il nostro canto
Gorizia, che ci vede e si protende.
Principe, in fondo, ancor trecento braccia
Rammenti quando in sogno, nella valle sotto la terra, per non rimorire
di crepacuore, il prossimo domani.
del Tagliamento, udivi i tuoi furenti
Ma il Sonno è ucciso: non potrai dormire,
ùssari sciabolarci, come armenti
che udrai tonfare sopra la tua faccia
in fuga, innanzi alle bandiere gialle?
le zampe dei cavalli maremmani.
…
Principe, è l’ora! déstati nel letto
L’evento incalza: un ànsito prelude,
di fango: alza la testa sulla fossa;
fra cielo e terra, il canto dei cannoni:
senti, le trombe suonan su l’Isonzo.
fratelli in alto, in alto la bandiera.
Giunge l’Italia: il popolo reietto
viene, senza chitarre, a suon di bronzo; Nel testo il poeta si rivolge a Francesco
principe, in piedi: è giunta la riscossa.
Ferdinando d’Austria e gli fa presente, con
Francesco Ferdinando, dalle spalle
grosse e dal viso duro, ti rammenti
quando sognavi i nostri monumenti
crosciarti ai piedi, al rigno delle palle?
Ma tu non senti, dentro le tremende
tombe d’Asburgo, col tuo petto franto,
sogni altre tombe sopra Monte Santo,
che vedon bancheggiar le nostre tende.
una serie di domande, come si era
comportato il suo popolo nei confronti
degli italiani. La seconda parte della
poesia illustra le virtù degli italiani e il
dovere di prendere le armi contro lo
straniero.
Ragazzi di diciannove
anni, esortati da
insegnanti e persino
dalle famiglie, si
arruolano,
immaginando la guerra
come una esaltante
avventura.
La trincea li metterà a
contatto con una
realtà molto diversa da
quella creduta.
Il punto di vista è tedesco,
ma colpiscono le
analogie con le
testimonianze italiane.
Kantorek era il nostro professore: un ometto severo, vestito di grigio, con
un muso da topo. […]
Nelle ore di ginnastica Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi; finché
finimmo col recarci sotto la sua guida, tutta la classe indrappellata, al
Comando di presidio, ad arruolarci come volontari. Lo vedo ancora
davanti a me, quando ci fulminava attraverso i suoi occhiali e ci
domandava con voce commossa: «Venite anche voi, nevvero,
camerati?». […]
Ce n'era uno, però, che esitava, non se la sentiva. Si chiamava Giuseppe
Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo. Si lasciò finalmente persuadere
anche lui, perché altrimenti si sarebbe reso impossibile. Può darsi che
parecchi altri la pensassero allo stesso modo; ma nessuno poté tirarsi fuori;
a quell'epoca persino i genitori avevano la parola «vigliacco» a portata di
mano. Gli è che la gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava
per accadere. In fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i
semplici, che stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti
non si tenevano dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto
rendersi conto delle conseguenze. […]
Per uno strano caso, fu proprio Behm uno dei primi a cadere. Durante un
assalto fu colpito agli occhi, e lo lasciammo per morto. Portarlo con noi
non si poteva, perché dovemmo ritirarci di premura. Solo nel pomeriggio lo
udimmo a un tratto gridare, e lo vedemmo fuori, che si trascinava carponi;
aveva soltanto perduto coscienza. Poiché non ci vedeva, ed era pazzo
dal dolore, non cercava affatto di coprirsi, sicché venne abbattuto a
fucilate, prima che alcuno di noi potesse avvicinarsi a prenderlo.
Naturalmente non si può far carico di questo a Kantorek: che
sarebbe del mondo, se già questo si dovesse chiamare una colpa?
Di Kantorek ve n'erano migliaia, convinti tutti di far per il meglio nel
modo ad essi più comodo.
Ma qui appunto sta il loro fallimento.
Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide all'età
virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al
progresso; insomma all'avvenire. Noi li prendevamo in giro e talvolta
facevamo loro dei piccoli scherzi, ma in fondo credevamo a ciò
che ci dicevano. Al concetto dell'autorità di cui erano rivestiti, si
univa nelle nostre menti un'idea di maggior prudenza, di più umano
sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa
convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta
della loro; essi ci sorpassavano soltanto nelle frasi e nell'astuzia. Il
primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad
esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.
Mentre essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli
ospedali e i moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza del
servire lo Stato, noi sapevamo già che il terrore della morte è più
forte. Non per ciò diventammo ribelli, disertori, vigliacchi –
espressioni tutte ch'essi maneggiavano con tanta facilità; – noi
amavamo la patria quanto loro, e ad ogni attacco avanzavamo
con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo ad un
tratto imparato a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del
loro mondo non sopravviveva più nulla. Improvvisamente,
spaventevolmente, ci sentimmo soli, e da soli dovevamo
sbrigarcela.
I rumori di fuori ci fasciano come un sogno: e tuttavia il ricordo non
svanisce interamente. Nel dormiveglia vedo Kat alzare e abbassare il
cucchiaio, e lo amo, lui, le sue spalle, la sua figura angolosa e china;
ma al tempo stesso vedo dietro di lui una foresta, e le stelle, e una
voce buona mormora parole che mi danno pace: pace a me, al
povero soldato che coi suoi scarponi e con la sua cintura e col suo
tascapane cammina sotto il vasto cielo, lungo la via che gli si stende
dinanzi: pace al povero soldato che presto dimentica, e solo di rado
ormai è triste, ma sempre cammina sotto il grande cielo notturno.
Un piccolo soldato ed una voce buona: e se gli deste una carezza, forse
non vi capirebbe più: ha gli scarponi ai piedi e il cuore pieno di terra;
e marcia così, e ha tutto dimenticato fuori che il marciare.
Non sono forse fiori all’orizzonte, e una campagna così quieta e serena,
che gli viene voglia di piangere? Non sorgono là immagini di cose
che egli non ha perdute, perché non le ha possedute mai: di cose
che lo turbano, ma che per lui sono passate via: non sono là i suoi
vent’anni?
La notte è insopportabile: dormire non si può: ce ne
stiamo accoccolati, guardando fissi dinanzi a noi
e sonnecchiando ogni tanto. Tjaden lamenta che
si siano sprecati quei pezzi di pane rosicchiati dai
topi: dovevamo serbarli, ora ciascuno di noi li
mangerebbe. Anche l'acqua, manca, ma sinora
non abbiamo troppa sete.
Verso il mattino, mentre è ancora scuro, ecco
un'improvvisa commozione. Uno stormo di topi si
precipita dall’ingresso e si slancia su per le pareti
del ridotto. Le lampadine tascabili illuminano la
scena. Tutti gridano e bestemmiano e picchiano.
È l'ira e la disperazione di tutte queste ore che si
scarica e si sfoga. Le facce sono stravolte, le
braccia si agitano, le bestie guaiscono; e ci
calmiamo a fatica; ancora un po', e ci saremmo
assaliti l'un l'altro.
Questo sfogo ci ha esauriti. Ci sediamo, e l'attesa
riprende. È uno dei pochi ricoveri che ancora
resistano.
Il tempo
Se il tempo diventa sereno
il 10 faremo l’azione
se il tempo diventa sereno…
Ed i soldati scrutarono
le stelle e il firmamento,
pesarono respirando
il fremito del vento.
Ma il 9 si vide splendere
un cerchio intorno alla luna
la luna era velata
d’un velo nuvoloso.
I soldati e gli ufficiali
che stavan da 30 giorni
in attesa dell’azione
si guardarono l’un l’altro
si sarebbero baciati.
All’alba del 10 pioveva.
“La guerra non è altro che un lungo ozio, senza un minuto di riposo.”
Viatico
O ferito laggiù nel valloncello
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
E il tuo lamento ancora,
Pietà di noi rimasti,
A rantolarci e non ha fine l’ora,
Affretta l’agonia,
Tu puoi finire,
E conforto ti sia
Nella demenza che non sa impazzire,
Mentre sosta il momento,
Il sonno sul cervello,
Làsciaci in silenzio –
Grazie, fratello
Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
Digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
Penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
Lettere piene d’amore.
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
San Martino del Carso
Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti che mi
corrispondevano non è
rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato
Nasce non tanto come lavoro
letterario, ma come viva
testimonianza della terribile
esperienza vissuta al fronte
dal protagonista-narratore, il
tenente Emilio Lussu della
Brigata Sassari, quasi tutta
composta da soldati sardi.
Lussu racconta gli avvenimenti
bellici succedutisi tra il giugno
1916 e il luglio 1917.
lo stile narrativo è asciutto,
incisivo, non concede nulla
alla retorica, perché quello
che preme all’autore è offrire
una credibile testimonianza
della sua esperienza e
condannare l’orrore della
guerra.
– Ama lei la guerra?
Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v’erano ufficiali e soldati che sentivano.
Mi decisi a rispondere.
– Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia Università, rappresentavo il gruppo degli interventisti.
– Questo, – disse il generale con tono terribilmente calmo, – riguarda il passato. Io le chiedo del presente.
– La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se... è difficile... Comunque, io faccio il mio
dovere –. E poiché mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: – Tutto il mio dovere.
– Io non le ho chiesto, – mi disse il generale, – se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo
debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho
chiesto se lei ama o non ama la guerra.
– Amare la guerra! – esclamai io, un po’ scoraggiato. Il generale mi guardava fisso, inesorabile. Le pupille
gli si erano fatte più grandi. Io ebbi l’impressione che gli girassero nell’orbita.
– Non può rispondere? – incalzava il generale.
– Ebbene, io ritengo... certo... mi pare di poter dire... di dover ritenere... Io cercavo una risposta possibile.
– Che cosa ritiene lei, insomma?
– Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di
prediligere, in modo particolare, la guerra.
– Si metta sull’attenti!
Io ero già sull’attenti.
–Ah, lei è per la pace?
Ora, nella voce del generale, v’erano sorpresa e sdegno.
– Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all’alcova, ai fiori, ai suoi
fiori, ai suoi fiorellini! È così, signor tenente?
–No, signor generale.
– E quale pace desidera mai, lei?
–Una pace...
E l’ispirazione mi venne in aiuto.
–Una pace vittoriosa.
Il generale parve rassicurarsi. Mi rivolse ancora qualche domanda di servizio e mi pregò di
“Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire
a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l’alba ci compensò dell’attesa. Prima, fu
un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero i soldati
con delle marmitte. Era certo la corvee del caffè. I soldati passavano, per uno o per due,
senza curvarsi, sicuri com’erano di non esser visti, chè le trincee e i traversoni laterali li
proteggevano dall’osservazione e dai tiri d’infilata della nostra linea. Mai avevo visto uno
spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i
passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il
braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia
meraviglia. Anch’egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro
lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi.
Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata
la resistenza, avevano poi finito per apparirci inanimate, lugubri, inabitate da viventi, rifugio
di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vita vera. Il nemico, il
nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati
come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e
prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri
stessi compagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era mai venuta in mente. Ora
prendevano il caffè. Curioso! E perchè mai non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perchè
mai mi pareva straordinario che prendessero il caffè? Forse che il nemico può stare senza
bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?”
— Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi?
Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
— Neppure io.
Rientrammo carponi in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
L’opera fu pubblicata in Italia solo nel 1948,
a causa del suo tono antibellico che
l’aveva fatta mettere al bando dal
fascismo e mette in scena un esempio
della cosiddetta “generazione perduta”,
che ha perso la fiducia nei valori
tradizionali (il patriottismo, la rispettabilità
borghese, il lavoro, il moralismo
vittoriano), ma non riesce a trovarne di
nuovi.
Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e
dall’espressione invano. Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi
fuori dalla portata della voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e
le avevamo lette su proclami che venivano spiaccicati su altri proclami, da un
pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non
avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne
non si faceva altro che seppellirla. C’erano molte parole che non si riusciva
ad ascoltare e si finiva che soltanto i nomi dei luoghi avevano dignità. Anche
certi numeri e certe date, e coi nomi dei luoghi erano l’unica cosa che si
potesse dire che avesse un significato. Parole astratte come gloria, onore,
coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai
numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e delle date.
UOMO DEL MIO TEMPO.
Sei ancora quello della pietra e della
fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di
morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle
forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo
sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso
ancora,
come sempre, come uccisero i padri,
come uccisero
gli animali che ti videro per la prima
volta.
E questo sangue odora come nel
giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco
fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua
giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro
cuore.
Mio fratello aviatore
Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio;
e prendersi terre su terre,
da noi, è un sogno.
E lo spazio che s'è conquistato
è sui monti del Guadarrama.
E' di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.
Sul muro c’era scritto
Sul muro c'era scritto col gesso
viva la guerra.
Chi l'ha scritto
è già caduto.
La guerra che verrà
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
Dormi sepolto in un campo di grano
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Non e' la rosa, non e' il tulipano
Soltanto il tempo avrà per morire
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma il tempo a me resterà per vedere
Ma sono mille papaveri rossi
Vedere gli occhi di un uomo che muore
Lungo le sponde del mio torrente
E mentre gli usi questa premura
Voglio che scendano i lucci argentati
Quello si volta, ti vede e ha paura
Non piu' i cadaveri dei soldati
Ed imbracciata l'artiglieria
Portati in braccio dalla corrente
Non ti ricambia la cortesia
Cosi' dicevi ed era inverno
Cadesti a terra senza un lamento
E come gli altri verso l'inferno
E ti accorgesti in un solo momento
Te ne vai triste come chi deve
Che il tempo non ti sarebbe bastato
Il vento ti sputa in faccia la neve
A chieder perdono per ogni peccato
Fermati Piero, fermati adesso
Cadesti a terra senza un lamento
Lascia che il vento ti passi un po'
E ti accorgesti in un solo momento
addosso
Che la tua vita finiva quel giorno
Dei morti in battaglia ti porti la voce
E non ci sarebbe stato un ritorno
Chi diede la vita ebbe in cambio una
Ninetta mia crepare di maggio
croce
Ci vuole tanto troppo coraggio
Ma tu non lo udisti e il tempo passava
Ninetta bella dritto all'inferno
Con le stagioni a passo di giava
Avrai preferito andarci in inverno
Ed arrivasti a passar la frontiera
E mentre il grano ti stava a sentire
In un bel giorno di primavera
Dentro alle mani stringevi un fucile
E mentre marciavi con l'anima in
Dentro alla boca stringevi parole
spalle
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Dormi sepolto in un campo di grano
Che aveva il tuo stesso identico
Non e la rosa, non e il tulipano
umore
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma la divisa di un altro colore
Ma sono mille papaveri rossi
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
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un lungo ozio