Le parole della Grande Guerra:
lettere, propaganda e satira
per raccontare un conflitto.
Reportage storico realizzato dalla classe 3°D
Scuola secondaria di primo grado “ Viale della Resistenza”
Anno scolastico 2014-2015
Premessa
Con questo reportage di approfondimento per celebrare il centenario della Grande Guerra abbiamo
voluto ricostruire la memoria delle vicende storiche attraverso l’analisi e l’interpretazione di diversi
documenti dell’epoca per recuperare la dimensione privata e pubblica del conflitto.
La ricerca delle fonti fornite da privati e recuperate presso il fondo della Biblioteca Malatestiana e
l’Archivio di Stato, oltre alla consultazione di alcuni testi, ci ha permesso di studiare la Grande
Guerra nel nostro territorio, a Cesena e in Romagna.
I documenti, cioè le parole e le immagini, ci hanno fornito diversi piani di lettura dei fatti storici e ci
hanno permesso di recuperare la memoria pubblica, ufficiale degli uffici amministrativi, oltre a
quella più genuina e spontanea dei soldati e delle loro famiglie. La parola, quindi, è stata il filo
conduttore che ci ha guidati a cogliere i risvolti umani della guerra, le sue contraddizioni, i
fanatismi della classe dirigente e di una parte dei letterati e degli intellettuali che si è espressa con
toni critici, ma anche in forma di propaganda per sostenere il conflitto.
Le fotografie e le immagini dei manifesti e delle cartoline postali, le riviste rivolte ai soldati e ai
bambini e la produzione più colta dei letterati locali e nazionali, hanno raccontato un’epoca ed un
periodo storico tanto tragico.
La consultazione e la ricerca dei documenti e delle fonti originarie ci ha permesso di appassionarci
ad un evento storico di così vasta portata e di collocarlo nel nostro territorio.
LE PAROLE DELLA SPERANZA. GLI
UFFICI PER NOTIZIE NELLA GRANDE
GUERRA.
Questa lettera conservata all’Archivio di Stato di
Cesena, è partita dall’Ufficio per Notizie di
Novara ed è stata indirizzata a quello di Cesena.
E’ un esempio di come funzionasse la rete delle
informazioni: in questo caso si richiedeva se una
soldato, Miglio Guido, risultava ferito. L’opera
dell’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari
di terra e di mare si inserisce nel complesso di
attività che formarono il cosiddetto fronte
interno.
La prima guerra mondiale coinvolse la totalità
della popolazione, infatti chi non era al fronte a
combattere doveva essere pronto a sostenere la
guerra attraverso altre attività. L’Ufficio notizie
fece parte delle tante opere di assistenzialismo
volontario che coinvolsero soprattutto la
componente femminile borghese e aristocratica
che aveva frequentato le scuole ed era
acculturata. Le donne diedero un immenso
supporto. Molti settori infatti erano gestiti esclusivamente o quasi da donne come per esempio:
l’assistenza all’infanzia, alle famiglie dei militari, alle popolazioni rurali, ai combattenti, ai militari
ricoverati negli ospedali, ai mutilati e invalidi di guerra, ai prigionieri e internati.
L’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare venne promosso dalla contessa Lina
Bianconcini Cavazza e fu istituito a Bologna nel 1915, avendo come scopo quello di stabilire un
tramite fra il Paese e l’esercito mobilitato per dare alle famiglie che le richiedevano, informazioni
sui combattenti in modo da evitare che i cittadini si rivolgessero direttamente alle istituzioni dello
Stato.
Il Deposito aveva il compito di trasmettere direttamente alle famiglie o tramite i sindaci le
comunicazioni di morte o di soldati gravemente feriti, ma allo stesso tempo l’Ufficio Notizie venne
autorizzato a prelevare e raccogliere informazioni che potevano essere comunicate ai famigliari che
ne facevano richiesta. Le informazioni sui militari giungevano quindi all’Ufficio Notizie per mezzo
degli elenchi dei militari morti, feriti e dispersi ritirati ai depositi di reggimento dalle sottosezioni,
oppure arrivavano tramite le dame visitatrici che lavoravano negli ospedali militari e dai cappellani.
Ogni informazione veniva archiviata in appositi schedari. Per favorire la consultazione delle schede
in cui erano annotate le notizie esse venivano stampate di diversi colori. Le schede riguardanti le
notizie potevano essere: verdi per i militari usciti dagli ospedali perché guariti, bianche per quelli
che erano malati, feriti o trasferiti in altri centri ospedalieri, grigie per i dispersi e i prigionieri e
color ruggine per le notizie di morte, che venivano cambiate in azzurre non appena la notizia
diveniva ufficiale. Le schede per richiedere notizie erano rosa come la foto sottostante, il colore
arancione si utilizzava se si sapeva che il militare era malato o ferito, ma non si conosceva lo stato
di salute o dov’era degente.
Magnani Angelo
11° Reggimento Fanteria
Ospedale di Udine
4 Luglio 1915
Si chiedono notizie del milite che trovasi
ferito all’ospedale di Udine
Documento conservato presso l’Archivio di
Stato di Cesena.
L’Ufficio per Notizie alle famiglie dei militari di
terra e di mare rappresenta una delle forme
assistenziali più significative messe in atto durante la
Grande Guerra. La sua importanza è dovuta infatti
all’uso ufficiale che ne fece lo Stato italiano, sia
come mezzo di trasmissione delle notizie riguardanti
i militari, che come supporto nella ricerca di
informazioni sui soldati raccolte grazie alla
collaborazione di cappellani militari, dame visitatrici
e madrine di guerra. Inoltre l’Ufficio Notizie
contribuì a tenere alto il morale delle persone che erano nel fronte interno. Non svolgeva mansioni
solo burocratiche, ma fu un’organizzazione di persone per le persone. Questa sua caratteristica
sicuramente fu dovuta al carattere volontario del lavoro e alla maggioranza della componente
femminile tra i collaboratori, che riservavano sempre una parola di conforto a chi si rivolgeva
all’Ufficio.
Santini Goffredo
69° Reggimento Fanteria
21 Luglio
Si chiedono notizie del Santini che si sa
degente all’ospedale civile di Treviglio
sezione chirurgica.
Letto n° 158
Ferito.
Documento conservato presso l’Archivio
di Stato di Cesena.
Questo è un telegramma di stato
con cui si dà notizia di un
trasferimento di due soldati dalla
stazione di confine; si specifica la
loro condizione di salute e si rende
noto che sono esenti da malattie
contagiose e diffondibili.
Il documento qui riportato è una
lettera indirizzata alla madre di
un soldato in guerra e un
cappellano militare chiamato
Gionco Paolo le risponde
dandole l’annuncio della morte
del figlio. Il documento può
essere diviso in due principali
momenti:
la
descrizione
dettagliata di ciò che è accaduto
e il conforto al dolore della
madre.
Il figlio era morto a causa di
una polmonite non curata e il 18
Febbraio 1918 e il cappellano
sottolinea che era morto
chiedendo perdono per non
essere stato vicino a sua madre
durante gli ultimi anni. Nella
parte finale il cappellano cerca
di consolare la donna dicendole
che si rende conto che perdere
un figlio quando è lontano e nel
fiore della sua gioventù è molto
doloroso, ma spiega che deve
essere orgogliosa di aver
sacrificato un figlio per la difesa della patria. Le parole che usa per consolare la madre sono
incoraggianti e piene di gratitudine. Il documento ci testimonia che i cappellani erano molto vicin i
ai soldati e spesso scrivevano alle loro famiglie per informarle di tristi notizie.
LE PAROLE DEI SOLDATI: SCRIVERE DALLA TRINCEA
All’inizio della guerra, seguendo gli ordini del 1° agosto 1915 del Comitato Nazionale per la storia
del Risorgimento, tutti gli enti furono chiamati alla raccolta di tutti i tipi di fonti e di oggetti per
poter ricordare in futuro quella che venne considerata la guerra decisiva che avrebbe condotto
all’unificazione nazionale. A Cesena questa compito fu affidato alla Malatestiana e al comitato
formato da Giovanni Roberti (preside del Liceo classico), Dino Bazzocchi (direttore della
Biblioteca) e da Antonio Casalini con l’incarico di compilare per Cesena e dintorni l’Album d’oro
dei caduti della guerra in atto. Se oggi abbiamo queste precise e dettagliate informazioni su quel
periodo storico, lo dobbiamo a Dino Bazzocchi che realizzò un archivio contenente tutte queste
testimonianze fornendoci il profilo della Romagna popolare e contadina in guerra. Bazzocchi
conservò di ogni caduto i dati anagrafici, la scolarità, il mestiere, la causa della morte, il ritratto e
tutto il materiale cartaceo a lui appartenuto.
B- morte per causa
bellica.
M= morte per malattia.
D = disperso
Dall’archivio di Bazzocchi che cosa emerge? Il primo dato macroscopico è il numero di morti per
malattia (il 50%). Quali? Le schede di Bazzocchi ce lo dicono: gastroenteriti, tifo, polmonite,
tubercolosi ... semplici setticemie. E ancora, attraverso lo studio dei reparti, si potrebbe ricostruire una
gerarchia del pericolo o della sfortuna: i reggimenti distrutti dal fuoco austriaco; quelli condannati alla
trincea, e dunque al lento stillicidio delle malattie; la chiara predisposizione degli ufficiali subalterni a
finire uccisi. E infine, la provenienza e la professione dei coscritti: i coloni sono la maggioranza seguiti
dai braccianti. Ma vi sono anche calzolai e operai oltre a uomini appartenenti alla borghesia.
Conservato per anni nella Malatestiana, tutto questo materiale ebbe una attenta revisione negli anni ’80
con un lavoro di ricerca storica e linguistica. E’ risaputo che nella Grande Guerra la parte più “povera”
della popolazione, i contadini, i piccoli proprietari terrieri, i braccianti, fecero sentire la loro
appartenenza allo Stato e sottolinearono il loro sacrificio per la patria, anche attraverso lettere e cartoline
spedite e ricevute nonostante a quel tempo il tasso di alfabetizzazione fosse assai elevato: da esse
emergono due lingue e due culture; il dialetto e l’italiano.
Il trauma della guerra aumentò il bisogno degli uomini di scambiarsi informazioni tramite l’unico mezzo
disponibile, la scrittura. Una scrittura, però, del tutto singolare: poco rispettosa della lingua letteraria, e
quindi colma di “errori”, ma non per questo incomprensibile e priva di regole. Si trattava di una sorta di
nuova lingua scritta, nata nel secolo precedente all’interno dei processi di acculturazione delle classi
subalterne e proletarie, che prenderà il nome di “italiano popolare”.
Tutte queste storie si strutturano all’interno dell’evento bellico ed è proprio grazie a esse che si possono
cogliere i pensieri, le emozioni e le paure dei giovani soldati.
Narrare la guerra con il solo ausilio delle lettere è tuttavia difficile. Censura militare e autocensura
impedirono il diffondersi di certe notizie. Solo con il ritorno dei reduci si poterono apprendere altre
verità, quell’altra storia che fece maturare nelle masse popolari le speranze nel socialismo, prima
dell’avvento del fascismo.
Nella lettera scritta o dettata a uno scrivano di fortuna i soldati non potevano esprimersi liberamente
come avrebbero voluto poiché erano controllati dall’occhio intollerante della censura. La
consapevolezza di essere sottoposti a un controllo frenava la spontaneità e vi era anche una sorta di
“autocensura” che impediva al soldato di mostrare il suo reale stato d’animo facendo finta di essere
tranquillo e sereno, sempre in salute, come se la guerra si potesse nascondere dietro a parole scritte su un
pezzo di carta che garantivano la buona riuscita delle battaglie. Certi sfidavano la censura, per esempio
scrivendo che il nome della località in cui si trovavano era sotto al francobollo, ma i più preferivano la
prudenza. Principalmente i soldati, però, preferiscono chiedere della vita che si sono lasciati alle spalle,
domandare dei campi, della famiglia. La maggior parte sono ragazzi, figli di contadini, sottratti ai lavori
agricoli, che chiedono se il grano è stato battuto e quanto si è ricavato, se si è vendemmiato, se “i maiali
si sono fatti beli”, vedono la guerra come un ordine impartito da chi comanda spesso senza esserne in
fondo convinti, si preoccupano per chi a casa fa più fatica senza di loro e concludono con la speranza
che la guerra finisca affinchè possano ritornare presto a casa. I bambini occupano uno spazio riservato,
speciale e importante; il padre non nasconde il suo affetto per loro nelle lettere, e i figli si sentono
sperduti senza di lui; come Remo, figlio di Giacomo Alessandri, “chè simette sempre davanti alla porta
a chiamarmi” (3.3.18), e la figlia di Salvatore Baronio, che il padre commosso raccomanda alla moglie:
“Cara Mia per Sempre ti diro di stare atenti per lafiglia che non cifaccia male i frutti io sono contento
di sentire che lava sempre sotto levite come le galine e che comincia aparlare.” I primi periodi
confortano i familiari della brevità con cui si concluderà la guerra; ma man mano che passa il tempo
cominciano ad affidarsi a Dio, alla Madonna e ai santi. I soldati pregano di lasciare quel luogo dove
“non si po mai conosere niente che dello rabia e pasione” appellandosi al prete, al sindaco e al
maresciallo, le tre figure più importanti a cui rivolgersi e chiedere aiuto per tornare in licenza.
La nostra analisi si è soffermata, in particolare, su due lettere: la prima è spedita dal soldato Aurelio
Farabegoli, dal 299° Reparto Mitraglieri 3° sezione: analizzando il testo si notano subito
sgrammaticature varie e spesso gravi, come d’altronde nelle lettere dei soldati e dei fanti di ceti sociali
minori: innanzitutto il linguaggio è molto semplice e fra gli errori grammaticali si trovano mancanze di
lettere, raddoppiamenti inappropriati, parole staccate e attaccate incorrettamente e uno scarso legame fra
frasi
e
segni
di
punteggiatura.
Interessante la metafora di Farabegoli a proposito dei cocomeri: rivendica la nostalgia del loro sapore, e
scherzosamente li paragona alle bombe che cadono in trincea e sul campo di battaglia: “… ma indove /
mi trovo io non cisono / altro che dei cocomeri da / 280 a 305 che quando / arivano quei cocomeri / li si
sentte bene che supori / anno ma quelli sono / quasi tutti rosi e / neri che se uno mangia / una fetta di
quello per / una volta dopo sta bene / per sempre e di quelli / ne rivano sempre tutti / i giorni e parechi
ne / mangiano per sempre / quei poverini che non ritorna / piu a casa a vedere la sua /.” Forse questa
metafora è stata scritta da Farabegoli non solo per far sorridere, ma anche per raccontare la violenza del
combattimento sfuggendo all’occhio della censura.
In un’altra lettera Primo Farabegoli scrive di come sia difficile per tutti i soldati, combattere con armi da
fuoco, ma soprattutto combattere calpestando altri compagni morti “Caro Primo ti diro che io a desso
mi / atrovo lontano dal periccolo e mi / trovo sano e in saluta ma abiamo passato / dei brutti momenti e
ti dirò che il giorno / 26 abiamo un gravissimo combattimento / con una brutta sconfitta abiamo dato /
lassalto e siamo stati respinti con / gravissime perdite al forte di san Mi=/chili dove prima di noi cianno
dato / altri tre assalti anchessi sono stati / respinti e noialtri nel combattere / siamo passati sopra ai
fratelli morti / di 10-o-15- giorni fa erano ancora al / scoperto che puzzavano che ce nerano una /
cuantità.” Ancora Farabegoli scrive :” Cari genitori vi dirò che io in combattimento mi son fatto un
gran coraggio e non pensavo neanche che io fossi in pericolo di morire vi dirò che io mi faceva molto
scrupolo di vedere un morto ma invece qua ci ho dormito”. Appare chiaro in quali condizioni vivessero
nelle trincee sempre guardando la morte negli occhi.
“Ora vi dirò / che il 7 abiamo spostati e ci anno man/<da>ti ancora piu lontano da periccolo / di dove
eravamo prima e siamo / ancora in riposo p<er>che il battilione è / infetto perche cuando siamo stati /
i<n> combattimento abiamo bevuto/ l’acqua del fiumeisonzo e/ i bersaglieri del nostro battaliono / ci à
preso un gran calore di vissere / ma a me non mi e venuto niente è // se cuella malattia non tralascia
pare / che vada provabile che ci mandono / in guarnigione cioe in italia, nel / nostro battaglione siamo
bersaglieri / e alla letrina cinè sempre più di 100 / che fanno i sui bisogni della gran / fugita che anno,
si dice che sia / stato l’accua dell’isonzo perche è / infetta perche dentro cie molti / cadaveri parecchi
cavalli morti tutti / li scoli di cuei ospedali di campo / vanno in quel fiume.”
Cartoline indirizzate al soldato Eugenio Turchi residente a Longiano di Cesena ritrovate nel
seminterrato di una casa durante i lavori di abbattimento e fornite per gentile concessione dal
prof. Marico Donati. Anche in questo caso è ben visibile la verifica per censura.
Cartolina postale scritta da Aurelio Farabegoli: presto
le cartoline sostituirono le lettere perché la mole di
corrispondenza era diventata eccessiva. Fondo
Biblioteca Malatestiana.
Lettera di Aurelio Farabegoli datata 5 agosto 1917. Fondo della Biblioteca Malatestiana
Lettera di Antonio Parentelli datata
25 agosto 1915. Rassicura la
famiglia dicendo che è distante
dalla prima linea perché sente
qualche colpo di cannone in
lontananza.Le fotografie sono il
mezzo più "concreto" per rincuorare
la famiglia in quanto da esse si
riesce a capire il vero stato d'animo
e la vera condizione fisica di chi è
stato fotografato finendo così con il
ridurre la distanza fra il soldato e i
suoi familiari.
Egisto Mordenti scrive alla moglie in data
15 maggio 1917 per comunicarle che sta
aspettando il telegramma che gli
permetterà di tornare a casa a Cesena in
permesso per motivi di salute.
Cartolina postale di Antonio
Parentelli soldato semplice di
Bologna datata 10 luglio 1916. E’
evidente il timbro con la scritta
“verificato per censura” che
indica il controllo eseguito e la
provenienza
dalla
trincea
testimoniata dalla scritta “zona di
guerra”.
Fondo
Biblioteca
Malatestiana.
Egisto Mordenti
LE PAROLE DELLE ISTITUZIONI PER I SOLDATI : ISTRUZIONI PER COMBATTERE IN TRINCEA
E I RICONOSCIMENTI AL VALORE.
Un altro documento molto interessante che abbiamo analizzato in alcune sue pagine è il libretto del
soldato che veniva fornito ad ognuno prima di partire per il fronte. E’ appartenuto al sergente Fabbri
Giovanni ed è ancora conservata al suo interno la medaglietta di riconoscimento con i dati
anagrafici del soldato che doveva servire
all’identificazione in caso di morte.
Molte andarono perse e non hanno
permesso l’identificazione delle salme
per cui sono stati eretti i monumenti al
milite ignoto.
Il sergente Fabbri Giovanni è stato insignito del
distintivo d’onore per essersi distinto in
combattimento nell’83° Reggimento di Fanteria.
Questo documento ci è stato fornito
dall’insegnante Gabriella Enti ed l’intestatario è
suo nonno.
I soldati erano guidati da un
giuramento alla propria patria
alla quale dovevano riservare
la loro più estrema fedeltà e,
entrando
nell'esercito,
si
impegnavano
a
non
infrangerlo promettendo di
adempiere a tutti gli impegni
per la propria bandiera.
Combattere per la patria era
un compito nobile, perciò il
soldato doveva essere ispirato
da pari sentimenti onorando le
virtù militari e respingendo
ciò che era incompatibile con
la dignità dell'uomo. Per questo era richiesto spirito di fraternità con i compatrioti e l'onestà di
combattere solo con persone armate.
Sfogliando il libretto molte sono le assurdità che vi si trovano scritte: il soldato non sarebbe mai
dovuto scappare davanti al pericolo e alla morte ma, da valoroso avrebbe dovuto affrontare il
pericolo e, la fortuna lo avrebbe affiancato poiché essa aiutava i soldati più coraggiosi e coloro che,
invece sarebbero scappati avrebbero ricevuto una dura punizione. Nel libretto consegnato infatti vi
era scritto “in qualunque luogo di combattimento sia posto il soldato, si immagini che quello sia la
patria, la sua casa, e non receda mai di un sol passo. Il militare deve essere persuaso che la
resistenza offre maggiori probabilità di salvezza che la fuga, perché degli uomini che stanno fermi
e combattono pochi se ne perdono, mentre di quelli che fuggono è piccolissimo il numero che si
salva.”
Il dovere di ogni soldato è di avere fiducia in sé stesso, nei suoi compagni e nei propri ufficiali e
comandanti e soprattutto deve indossare l’uniforme e non può vestire in borghese inoltre, il soldato
in trincea non può oziare ma, deve sempre stare attento e rispettare gli ordini dati. Il soldato non
deve avere paura, neanche della morte e non deve avere timore di niente, deve combattere per la
patria e i concittadini.
I comandi dell’esercito e i capi militari temono molto la rivolta dei militari per le condizioni di vita
che erano pessime.
Nel libretto consegnato è scritto anche che, per allievare la fatica della guerra i soldati possono
rilassarsi leggendo un libro, “in ogni tempo e luogo potrà occuparsi colla lettura di un buon libro, e
trovare in essa ricreazione, consiglio di incoraggiamento”. Ma, tutto ciò non era ovviamente
rispondente alla realtà poiché il “tempo libero” in trincea non esisteva e se anche qualche volte vi
fosse stato, certo non tutti i soldati sapevano leggere poiché la maggior parte era analfabeta.
Nel libretto si fa riferimento, anche se in modo indiretto, alla censura delle lettere spedite alle
proprie famiglie, infatti è scritto “nello scrivere il soldato deve evitare ogni notizia esagerata e
tanto più di dire cose non vere intorno al proprio stato per non allarmare i parenti e per non
screditare le istituzioni militari.”
In alcune pagine sono presenti indicazioni e consigli anacronistici e ne è esempio l’indicazione alla
lettura in trincea; tutto ciò veniva scritto per far sembrare la vita in trincea sempre più normale e
tranquilla.
Infine il linguaggio del libretto è formale, pieno di enfasi poiché l’obiettivo era quello di
incoraggiare il soldato a battersi per la patria. E’ anche un po’ ripetitivo perché si sottolineano
molto le conseguenze del cattivo soldato così come le indicazioni di ciò che deve fare o ciò che non
deve fare, presenti in molti paragrafi. Chissà quanti soldati avranno realmente compreso le
indicazioni visto che una buona parte di essi era semianalfabeta!
Prima di partire i soldati si dovevano allenare al tiro al bersaglio. Il sergente Fabbri,
come testimonia questo documento, aveva un’ottima mira.
LA VITA IN TRINCEA RACCONTATA DALLE LETTERE DEGLI ALPINI
ROMAGNOLI
A testimoniare il fatto che i soldati che combattevano in trincea in fondo erano prima di tutto
uomini, a volte i soldati nemici si conoscevano e si parlavano. Ma non si trattava di fraternizzare
con il nemico. Questo atteggiamento derivava anche dal fatto che molti di quegli uomini
provenivano dalle stesse valli in cui si combatteva. Trentini, tirolesi, ladini, feltrini, bellunesi,
cadorini si conoscevano fra di loro già prima della guerra grazie ai commerci, al contrabbando,
all'emigrazione e alla vicinanza del territorio. E conoscevano molto bene anche le montagne su cui
ora erano costretti a spararsi: molti fra loro erano famose guide alpine come l’austriaco Sepp
Innerkofler o il valdostano Giuseppe Gaspard oppure alpinisti di fama come Arturo Andreoletti, il
comandante del settore Ombretta nella Marmolada, Gunther Langes o Antonio Berti.
Spesso succedeva che i nemici diventassero amici, ce lo testimonia Egisto Dazzani, Alpino del 7°
Reggimento:
“E’ capitato qualche volta, trovandoci molto vicini, di scambiare addirittura qualche parola, per lo
più si diceva – voi non sparate, noi non sparare – ma c’era sempre molta diffidenza. Era guerra,
comunque scoprii che diversi si conoscevano da ambo le parti, da borghesi erano contrabbandieri
e quindi vivevano la stessa vita. Gli eventi li avevano divisi, ma quando erano di sentinella
cercavano di capire chi era dall’altra parte, se era quel tal contrabbandiere, allora stavano più
tranquilli, sapevano che non si sarebbero sparati. Questo succedeva nei momenti di calma, ma alla
prima fucilata, non si guardava più in faccia a nessuno. Era guerra”.
Questa lettera può confermare che i soldati nemici avevano il desiderio di conoscersi e che prima di
tutto si pensavano come uomini che dovevano condividere lo stesso amaro destino. In particolare,
per ricollegare lo studio della Grande Guerra al nostro territorio, abbiamo testimonianze che molti
soldati romagnoli furono arruolati come alpini: uno di loro si chiamava Aldo Spallicci (1886-1973)
Per i romagnoli, ma non solo, è stato un personaggio unico e molto amato. Convinto mazziniano,
legatissimo alla tradizione risorgimentale già nel 1912 era partito volontario nella spedizione
garibaldina in Grecia. Interventista della prima ora, nel 1914 allo scoppio della Grande Guerra fu
volontario in Francia con la formazione italiana dedicata a Giuseppe Mazzini. Volontario nel 1915
con l’entrata in guerra dell’Italia è sottotenente medico.
Dai suoi scritti possiamo ricavare alcune interessanti notizie sulla qualità e quantità del rancio, così
come sulle condizioni di vita nelle trincee. La fame finisce per diventare argomento quasi fisso nelle
lettere o nei diari dei soldati che ne parlano nei modi più diversi. A volte con rassegnazione o ironia
come gli alpini e futuri scrittori del calibro di Carlo Emilio Gadda e Paolo Monelli o
simpaticamente in rima come Aldo Spallicci, che in trincea dedica un canto all’amatissima piadina
e il suo profumo spera lo faccia ritornare in Romagna tra i suoi cari tanto amati.
LA PIADA (canto di trincea)
Cosa ci hai, o mio Angelino, cosa ci hai in quell’ involto?
La è per il soldatino, la è roba da mangiare! Oh Dio la piada! Odore di
casa che arriva qua,
e sente chi mangia, aria di
Romagna,
oh Dio la piada!
Chi manda questo tovagliolo, questo bel tovagliolo di bucato?
A quel poverino del figliolo la mamma tua di te.
Oh Dio la piada!
Chissà quel che dirà perché ci faccia buono!
Che tu pensi ai tuoi di casa, che tu la mangi in devozione.
Oh Dio la piada!
Spartiamo l’involto chè vogliamo pensarci in due.
E le bocche hanno mangiato e gli occhi hanno un po’ pianto. Oh Dio la
piada!
Dalle lettere degli alpini romagnoli è possibile ricavare anche notizie sulla disfatta di Caporetto. Il
12 maggio la nostra artiglieria cominciò a tempestare di colpi le linee nemiche di Monte Kuk e
Vodice con 2.500 cannoni e 1.000 bombarde. Il 14 maggio entrò in scena la fanteria. Il 18, 19 e 20
furono tre giorni di sangue, di stragi, di soliti e spesso inutili eroismi. I combattimenti corpo a corpo
durarono fino al calare della sera. Dopo ogni assalto si contavano e si domandavano con stupore per
quale inaudita casualità fossero ancora vivi. La guerra non ha nulla di eroico. Si uccide per non
essere uccisi e lo spirito di sopravvivenza genera una spirale d’odio. I nostri alpini lo avevano
capito fin da subito. Ad ufficiali e sottoufficiali, culturalmente più preparati, andò invece peggio.
Molti di loro erano partiti spesso come volontari sull’onda delle idee risorgimentali e qualcuno
aveva sottovalutato le conseguenze.
La disfatta di Caporetto vide la presenza del Cappellano Alpino, Don David Conti di Brisighella
(RA) che di quei drammatici giorni così scrive sul suo diario di guerra:
31 Ottobre […] era una vera fiumana non dico di truppa, ma di soldati senza ordini e senza capi,
che si riversava per la strada diretta non si sa, ma ognuno andava più lontano, più giù verso
l’Italia. La fame in tanta moltitudine, non potuta soddisfare, non ascoltava ragioni. Ho visto soldati
abbattere cavalli pei prati e pei fossi, tagliarne i lombi, abbrustolirli a improvvisati fuochi,
addentare le carni ancora gocciolanti di sangue […]
“9 Novembre. Quando penso alla vergogna della nostra disfatta, divento melanconico e mi
vergogno della divisa mia d’ufficiale, mi rincresce della mia italianità. Avrò mai il coraggio di
ripresentarmi al mio paese, di tornare al mio popolo? Siamo stati dei vili.
“Finito il rancio ci fu ordinato di armarci di tutto punto e di uscire dalle trincee per andare
all’assalto. Quindi baionetta in canna e di corsa senza vedere niente perché era di sera. Ma quando
siamo usciti allo scoperto, a ciascuno premeva la propria pelle e chi poteva si riparava. Io, appena
fuori dalla trincea, mi sono buttato per terra e altri come me, ma tutti quelli che erano restati in
piedi furono spazzati con la mitraglia. Dopo pochi minuti venne l’ordine di ritirarsi. Gli austriaci
smisero di sparare e noi ci ritirammo. Dietro di noi salivano altri plotoni a passo svelto e dovevano
andare all’assalto. Fra sopravvissuti e nuovi arrivati la trincea si è nuovamente riempita di uomini,
e dopo pochi minuti ci hanno mandato fuori. Per quella notte ci hanno mandato all’assalto per
quattro volte, ma i pochi che erano sopravvissuti al primo assalto, forti dell’esperienza precedente,
appena fuori ci siamo buttati subito a terra. I nuovi arrivati invece, andati avanti dritti, furono tutti
spazzati dalla mitraglia, e ne rimasero uccisi per quanti ce n’erano.
E così per quattro volte.
La testimonianza di questo soldato ravennate ci fa comprendere bene che nella disfatta di Caporetto
i soldati ebbero atteggiamenti diversi dopo essere colti all’improvviso dalle truppe austriache. C’è
chi è demoralizzato per l’arrivo improvviso degli austriaci e
l’umiliante ritirata; c’è chi è al contrario felice perché potrà tornare
alla sua amata Italia, chi ne approfitta per rubacchiare qualcosa qua e
là. La disfatta di Caporetto porta confusione, panico; qualcuno
addirittura uccide cavalli e li mangia quasi senza abbrustolirli. C’è
pure vergogna tra i soldati italiani, che presi alla sprovvista, non hanno
potuto fare altro che scappare come dei vili. Alcuni soldati non si
sentono più degni di indossare l’uniforme dell’esercito italiano. Per
quanto riguarda invece l’ultima testimonianza, ci viene riportato che
durante l’assalto alla trincea nemica, i fanti dovevano uscire dal riparo
e correre verso i nemici consapevoli di essere carneficina per le
mitragliatrici nemiche. Queste testimonianze ci spiegano con le parole di coloro che hanno
combattuto, la crudezza della guerra e, soprattutto, l’impreparazione dei nostri soldati mandati a
combattere senza nessuna tattica militare e totalmente allo sbaraglio.
PASSATO E PRESENTE A CONFRONTO.
La censura esiste ancora oggi?
Le lettere e le cartoline erano censurate, come risulta dal timbro “verificato per censura” ben
visibile. Durante la grande guerra i generali e i capi di stato si servirono dello strumento della
CENSURA per sostenere l’immane sforzo dei soldati al fronte e per diffondere la loro immagine di
eroi che si immolano per il bene della patria.
Attraverso la censura, ciò che i soldati scrivevano nelle loro lettere alla famiglia era manipolato in
modo da diffondere solo informazioni che non mettevano in discussione il nostro ruolo nel
conflitto.
Anche numerosi giornali dell’epoca furono vittime della censura: infatti i generali si servirono dei
mezzi propagandistici per esaltare le vittorie e minimizzare le sconfitte, in modo da accrescere il
consenso dell’opinione pubblica alla guerra.
La censura partì quindi come obbligo da parte delle
istituzioni militari, sotto minacce e violenze. Con il
tempo, però, gli stessi giornalisti cominciarono a
convincersi che fosse un bene promuovere anche
immagini false al fine di spronare truppe e popoli a non
arrendersi. Si passò presto a un’autocensura del giornalismo, in cui spesso però le notizie erano
distorte già alla fonte, visto che i pochi reporter che accedevano al conflitto in “prima linea” non
venivano mandati nelle zone calde, ma semplicemente nelle retrovie.
La libertà di stampa nella Repubblica Italiana fu progressivamente ripristinata in seguito alla caduta
del regime fascista, il 25 luglio 1943, ma la sua formalizzazione si realizzò nel 1946.
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro
soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti.» (come nel caso di reato di
diffamazione)art. 21
Le leggi che determinano la libertà di stampa, però non sono uguali in tutto il mondo. In ogni
continente vi sono nazioni in cui i giornalisti sono vittime di molteplici condizionamenti e, in alcuni
casi, anche di aggressioni o di ingiuste condanne.
Molti sono ancora i paesi nei quali la libertà di stampa non può essere esercitata: Corea del Nord,
Eritrea, ex Birmania, Iraq, Russia dove la giornalista Anna Politkovskaia ha ripetutamente
denunciato nei suoi reportage i crimini di guerra commessi ai danni della popolazione cecena e per
questo, nell’agosto 2006 è stata assassinata davanti a casa sua a Mosca.
Uno dei casi più recenti di attacco alla libertà di stampa e di espressione è l’aggressione da parte
dell’ Isis alla redazione del giornale “Charlie Hebdo” in Francia.
Charlie Hebdo è un periodico settimanale satirico, dallo spirito caustico e irriverente. La testata
pubblica vignette e articoli dissacranti nei riguardi della politica e di ogni tradizione religiosa (in
particolare il Cattolicesimo, l'Islam e l'Ebraismo).
La libertà di stampa e più in generale, di opinione, è caratteristica di ogni stato democratico ed è una
conquista irrinunciabile che dobbiamo difendere.
Il ruolo della fotografia oggi
Abbiam visto quanto fosse importante far pervenire ai propri familiari un’immagine di sé. Ancora
oggi le immagini costituiscono un efficace mezzo di comunicazione. Esse vengono utilizzate
prevalentemente dai giornali per dare la certezza al lettore che ciò di cui si è parlato corrisponde a
verità ed è dimostrabile. Molte cose però sono cambiate da oggi ai primi anni del 1900; ad esempio
una di esse è la macchina fotografica che si è evoluta, ma sono anche subentrati altri strumenti
tecnologici come il cellulare. Inoltre oggi le fotografie possono essere ritoccate e modificate, cosa
impensabile all'epoca, possono essere condivise con estrema facilità e velocità con il mondo intero
grazie alla rete e ai social network. E tutto questo porta con sé tanti vantaggi, ma anche qualche
problema poiché non sempre la privacy e le nostre identità sono salvaguardate.
La comunicazione nell’era di Facebook
Con l’arrivo delle tecnologie portatili e accessibili e dei social network, anche il modo di
comunicare dei soldati è cambiato. Essi riescono, in tempo reale, a comunicare quello che accade
senza nessun filtro. Le notizie vengono divulgate dai social network e ne è un esempio la
piattaforma “Fucked up”, grazie alla quale i soldati in guerra condividevano foto violente non
sottoposte a nessun controllo. Emblematico è il caso del soldato israeliano Eder Aberjil che postò
diverse sue foto in compagnia di prigionieri palestinesi suscitando molte polemiche. Un altro caso
fu quello di Azhar Ahmed che postò un messaggio offensivo ai danni di soldati britannici morti.
Queste piattaforme, oltre che diffondere una comunicazione dell’orrore, forniscono informazioni
utili al nemico. Secondo una ricerca condotta dallo stato australiano, Facebook è stato usato dai
talebani per ottenere informazioni. Per questo motivo le forze armate americane obbligano la
disattivazione del sistema satellitare dai telefoni dei propri militari.
LA GUERRA RACCONTATA DAI LETTERATI
Anche i letterati hanno raccontato la guerra esprimendo diversi pareri sulla necessità o meno di
combattere. Uno di questi è Renato Serra che nasce a Cesena il 5 dicembre 1884 da Pio Serra e
Rachele Favini. La sua famiglia era benestante e di tradizione
risorgimentale. Seguì gli studi presso il Regio Liceo Ginnasio Vincenzo
Monti di Cesena e nel 1900 si iscrisse all'Università di Bologna presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia, dove ebbe come insegnanti celebri personaggi
come Giosuè Carducci e in seguito si laureò in Lettere nel 1904. Nel 1906
fece ritorno a Cesena, dove svolse poi il servizio militare di leva, con il
grado di sottotenente nel 69º Reggimento Fanteria della Brigata "Ancona",
per essere poi congedato lo stesso anno quando ebbe l'incarico di direttore
della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Nel 1915, in piena guerra, Serra
scrisse uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento, l'Esame
di coscienza di un letterato dove si fa un esame di coscienza e si interroga sul senso della guerra
esprimendo nei suoi confronti un giudizio critico. Infatti scriverà «La guerra non cambia niente.
Non migliora, non redime, non cancella» per cercare di far capire ai lettori che la guerra non ha un
senso e che alla fine non ci saranno cambiamenti né per i vincitori né per i vinti. Pensa che la
cultura possa fermare la violenza e le distruzioni prendendo le distanze dal nazionalismo anche se,
in un primo tempo si era lasciato conquistare dal mito della guerra partendo volontario per il fronte.
Inquadrato, col grado di tenente, nell'11º Reggimento Fanteria della Brigata "Casale", combatté col
proprio reparto nel settore del Podgora, presso Gorizia, partecipando alla terza battaglia dell’Isonzo.
Durante questo periodo Renato Serra scrisse Il Diario di trincea, uno scritto brevissimo relativo ai
giorni dal 6 al 20 luglio 1915, ovvero dall'entrata in guerra fino alla precoce morte al fronte. In esso
si trovano note telegrafiche, riflessioni e piccoli appunti.
17 luglio 1915
Notte pensosa, mattinata brutta; senza mangiare da ieri, dissenteria, mal di capo, la parete dell’orecchio sempre più
ottusa, s’ingrossa e pesa – le gambe che traballano, caldo e sudore quasi di febbre in pelle in pelle – Giù nelle
foglie, spossato.
Arriva l’ordine di partire, per questa sera – il 3° Battaglione. viene a darci il cambio qui – Inasprimento e
stanchezza: – Farò una morte oscura e sciupata! Una morte che non mi dispiace. Ma non ne ho
coscienza reale nessuna in questo momento – (Prima sì, laggiù disteso nell’afa della capanna) – Meno male che si
lascia questo campo che m’è divenuto intollerabile: Riposo! – su questa terra cattiva, pestata, indurita, con queste
buche malfatte e questi sentieri a casaccio, che non puoi guardare senza sentire in tutte le membra la noia ingrata e
inevitabile del giaciglio insufficiente, che non ti lascia stendere, colle disuguaglianze ti rompe la schiena – degli
sdruccioloni e del cammino a zig zag – a strapponi, che ti snerva senza scopo – tutte le difficoltà e le asprezze delle
cose malfatte, provvisorie, che ti tolgono il cuore di provare a raddrizzarle.
E poi tutti i segni dell’agglomeramento di uomini, che passano e sanno di non restare, e lasciano il peggio di sé, le
traccie del vivere abbandonato, bestiale: brani di carta che s’ammucchiano in tutti gli angoli coi resti, e gli stracci,
biancheria sporca battuta sui cespugli secchi e sui rami scortecciati, avanzi di cibo tra il fango, pasta che si macera
e mescola la sua acredine al puzzo degli escrementi e delle lordure disseminate per tutto; tutti i detriti di un campo,
dove si è bevuto e vociato come all’osteria, paglia, ovatta, fiaschi, latte interrate e ammucchiate su questo terreno
spelato, in questo sottobosco rado dove il sole che filtra tra i riflessi del verde pare un’ironia sulla terra gibbosa,
nuda e tetra, dove non trovi più un filo d’erba, e anche di là dai termini del campo, dove ricomincia la macchia e
l’intrico delle fronde, non un angolo, non un ramo, non una zolla, che non conservi la pesta e la sporcizia dell’uomo
–
Nel corso della Terza battaglia, il 20 luglio 1915, morì in combattimento sul monte Podgora a Gorizia, a soli
31 anni. All’Archivio di Stato è conservato il manifesto che annuncia il suo funerale.
Emilio Lussu – figura della Sassari divenuta leggendaria per coraggio, capacità di comando e un
profondo senso di umanità – scrisse molti anni più tardi “Un anno sull’Altipiano.”
Il giovane studente interventista, aveva visto i suoi ideali scontrarsi contro le spaventose carneficine
e il dramma collettivo vissuto da interi reparti di fanti. Misurandosi a distanza di anni con i suoi
ricordi personali, restituì un’immagine viva di quel dramma.
Riportando le sue parole:<<Il fatto poi che io, che ho fatto tutta la guerra, non parlo né del Carso,
né della Bainsizza, né del Piave, ma mi limito solo ad un settore dove sono stato pochi mesi, mi
pare possa dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno che è stato l’incubo più tragico per
tutti
i
combattenti>>.
Marinetti è il fondatore del Futurismo, un movimento artistico e culturale del xx secolo che esalta
l'entrata in guerra, le armi e il combattimento.
Il nuovo modo di produzione e la nuova organizzazione del lavoro che caratterizzavano il fordismo
ispiravano anche la condotta della guerra: “la battaglia mi suggerisce la visione di una fonderia
smisurata”, scriveva Marinetti, trasformando una carica di cavalleria in un inno agli altiforni, alle
cinghie di trasmissione, alle caldaie: “Quei villaggi fiammeggiano come altiforni! Quella cavalleria
slanciata a corsa pare che lavori come un’officina: le zampe hanno movimenti di ruote sotto gli
ordini gridati, cinghie di trasmissione, fra tutti gli obici vomitati come volanti, dalla mischia
fumante, grande caldaia..”
Secondo Marinetti la guerra era figlia della rivoluzione industriale, viene acclamata come fosse
sacra e crede che sia la cosa migliore da fare per migliorare l'economia del paese.
Questa sua ideologia si trasmette presto in tutta l'Europa. La guerra è la sola “igiene del mondo”.
A Milano, nel '15, quando l'entrata in guerra è realtà, tutti o quasi i futuristi si arruolano con
Marinetti volontari nel battaglione Ciclisti e Automobilisti del capitano Carlo Monticelli.
Giuseppe Ungaretti partecipa alla prima guerra mondiale partendo come volontario e solo dopo
averne conosciuto gli orrori si renderà conto della sua assurdità. E’ considerato l’iniziatore della
poetica dell’Ermetismo, incentrata sull’essenzialità della parola. Ha scritto molte poesie
appartenenti alla raccolta intitolata “ Allegria di naufragi “. La intende come momento di
folgorazione, di grazia, come intuizione improvvisa del mistero della vita. Di conseguenza le sue
composizioni sono molto brevi, diventano poesia pura, essenziale, che si esprime attraverso poche
parole di intenso valore simbolico, capaci di evocare sensazioni straordinarie. In particolare alcuni
versi esprimono la drammaticità della guerra tratti da alcune sue poesie divenute molto famose.
Nella poesia “Fratelli” nel verso “Foglia appena nata” Ungaretti usa una metafora per indicare i
fratelli, cioè i soldati che sono come foglie appena nate, cioè fragili. La parola verso “Fragilità”
sottolinea la condizione di precarietà della vita umana, espressa con maggiore intensità nella poesia
“ Soldati”: Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.
In “ San Martino del Carso” è intensa la descrizione del soldato morto e della sua bocca digrignata
vota al plenilunio.
LE
PAROLE
DELLA
PROPAGANDA:
ANCHE
LA
LETTERATURA PER L’INFANZIA
E’ AL SERVIZIO DELLA GUERRA
TOTALITARIA.
La propaganda non risparmia neanche i
bambini.
Nel 1915 sul Corrierino apparve una poesia
intitolata "come si diventa soldati":
"Non sì può mica essere tutti soldati,
specie quando si è piccoli,
né marciar, di fucile e spada armati,
ad espugnare fortificazioni
con gran coraggio, al rombo dei cannoni.
Ma possiam tutti quanti esser davvero
soldati nello spirito,
utili e prodi con fervor sincero,
e ubbidir, come fanno i militari
senza i "perché?" né i "come?", ai nostri cari."
Condensati in pochi versi si trovano qui rappresentati gran parte dei messaggi della propaganda bellica:
eroismo, amor di patria, obbedienza, sete di vittoria.
Coinvolti nel più grande conflitto che l'umanità avesse fino ad allora conosciuto, i fanciulli divennero dei
veri e propri strumenti di propaganda ai quali furono assegnati due ruoli: uno "attivo" e un altro, "passivo".
Nel ruolo attivo ai figli dei soldati non era richiesto di combattere, ma di
contribuire allo sforzo bellico attraverso la lotta contro gli sprechi, la raccolta del
ferro e degli altri materiali di recupero, la corrispondenza con i soldati al fronte e
l'invio di pacchi-dono. Dovevano rinunciare ai propri comportamenti infantili ed
obbedire incitando gli altri ad una partecipazione convinta al conflitto.
Nel loro ruolo passivo, invece, i fanciulli dovevano sopportare, senza lamentarsi,
i sacrifici e i lutti.
Il Corriere dei Piccoli e gli altri giornali per bambini, durante la guerra di Libia e
le successive guerre balcaniche avevano pubblicato tavole illustrate per
avvicinare i bambini alla politica ed esaltare il nazionalismo italiano e queste
rappresentazioni ebbero un ruolo importante con l'esplodere della prima guerra
mondiale. Con esse si volevano spiegare e giustificare le ragioni della guerra, le
sue conseguenze, le armi usate, i lutti e le distruzioni, in modo da far nascere nei giovani una coscienza
critica del mondo in cui vivevano esaltando il conflitto con realismo e infondendo, al contempo, fiducia e
spirito patriottico.
Per raggiungere questo scopo furono utilizzate poesie, fiabe, canzoni e storie colorate di immaginari piccoli
eroi. Tra questi vi erano Schizzo, sempre vittorioso negli scontri a cui prendeva parte; Luca Takko e Italino,
due monelli irrequieti le cui burle avevano come uniche vittime i tiranni oppressori; mentre il personaggio
Didì, era rivolto alle bambine.Il Corriere dei Piccoli, svolse un'incredibile lezione educativa perché riuscì a
spiegare ai bambini un evento tragico come la guerra salvaguardando al tempo stesso gli aspetti tipici
dell'infanzia come l'evasione nel fantastico, il bisogno di svago e la curiosità.
Edito da Sonzogno nel 1915 il
libro “ Pentolino e la grrrande
guerra” si rivolge ai più piccoli.
Vengono illustrate e raccontate le
vicissitudini di un bambino di
nome Pentolino che rappresenta
l’Italia e aiuta i capi di Stato di
Francia ( Rataplan), Gran
Bretagna ( Buldog) e Russia (
Balaboff) portando loro da
mangiare e aiutandoli a scacciare
il nemico rappresentato da Fritz (
imperatore tedesco Guglielmo II)
e Mammaluch che è la Turchia.
Essi
rappresentano
i
due
schieramenti della guerra e, grazie a Pentolino che sfama gli alleati, noi vinciamo la guerra.
“Lettere al mio bambino nei primi mesi di guerra” di Arrigo Macchioro,
è un testo che raccoglie una serie di lettere che Arrigo Macchioro,
insigne uomo di legge, invia al figlioletto Mario, nominato spesso con il
vezzeggiativo di Mao, per spiegargli le ragioni della guerra contro
l'Austria.
Arrigo comincia con lo scrivere alla maestra di Mario, affinché spieghi
al figlio "che cos'è questa guerra che facciamo contro l'Austria".
Scrive:”Cara maestra dica a mio figlio che la guerra è una brutta cosa
quando si fa per cattiveria, ma che invece la guerra è una cosa giusta e
santa quando si fa per liberare chi è tormentato. Gli racconti che gli
austriaci hanno sempre maltrattato quasi novecentomila italiani italiani proprio come noi - che stanno nella mia Trieste, nell'Istria, nel
Trentino, in Dalmazia e gli dica che ora noi si va a picchiare gli austriaci per liberare quegli
italiani, e così la guerra è buona e giusta.”
Di qui in poi le lettere sono indirizzate direttamente al figlio Mao.
L’autore non si dimentica di parlargli anche delle cattiverie degli austriaci; mentre gli italiani
bombardavano tutto quello che serviva alla guerra loro, gli austriaci, bombardavano strade, luoghi
pubblici uccidendo migliaia di donne e bambini. Così facendo Arrigo mette ancor di più in cattiva
luce gli austriaci facendo aumentare il disprezzo da parte del figlio.
Inoltre, scrive ”Ragazzi, se oggi voi non potete andare alla guerra, preparatevi perché l'Italia è
chiamata ad altre ore gloriose, ed altri gloriosi destini, e anche voi dovrete un giorno aiutare la
gloria d'Italia. Ragazzi preparatevi! Savoja! Savoja”
In seguito Arrigo sottolinea il senso del libretto da lui scritto:”Queste parole te le ho scritte perché
anche tu sei un piccolo figlio d'Italia, figlio mio caro, e devi prepararti anche tu così piccino come
sei, per aiutare un giorno la gloria d'Italia.”
Il padre inculca nella testa «tonda di fuori e quadra di dentro» del giovane Mario l'amore per la
guerra santa e giusta dell'Italia.
LE PAROLE DELLA PROPAGANDA PER CONVINCERE A COMBATTERE E A
SACRIFICARSI PER LA PATRIA.
La propaganda è l’opera esercitata sull’opinione pubblica per diffondere messaggi, idee e
convinzioni, anche se queste sono false. Questo serve a formare le masse, spesso con l’obiettivo di
controllarle, di far credere loro ciò che si vuole. Nella prima guerra mondiale, l’arma della
propaganda veniva usata principalmente allo scopo di nascondere ciò che accadeva realmente in
guerra. Si attuava attraverso manifesti, cartoline, francobolli, con colori vivaci, immagini di grande
impatto, frasi ad effetto. Spesso nei manifesti si sosteneva la necessità della guerra ed erano un
ottimo strumento per cercare reclute per il fronte, incitando tutti a partecipare attivamente. Si voleva
tenere alto il morale delle truppe, incitare anche i civili a dare il proprio contributo alla guerra,
contrastare la propaganda nemica. Siccome la guerra non si concluse come si pensava in un lampo,
fu indispensabile convincere la
gente a continuare a fare
sacrifici
pesanti
e
a
sottoscrivere prestiti in danaro.
In un mondo senza radio e
televisione e in cui il giornale
era ancora troppo nuovo per la
gente
comune,
l’attività
propagandistica
poteva
avvalersi quasi esclusivamente
della rappresentazione grafica
nel manifesto e delle cartoline
illustrate. I bassi costi, la
facilità
di
produzione,
l’immediatezza
della
visualizzazione, furono tutti
fattori che facevano delle
cartoline lo strumento di
propaganda preferito. I temi
scelti furono semplici e di facile presa: gli affetti famigliari sacrificati, l’amor di patria, i sentimenti
di nazionalità. Il manifesto si trasforma in uno strumento di comunicazione ideologica e politica.
Questo sopra fu uno dei manifesti stampati durante la guerra, che ritrae un soldato al fronte durante
i bombardamenti. La frase “Fate tutti il vostro dovere!” ci fa capire quanto lo Stato avesse bisogno
dell’aiuto economico di tutti gli italiani per ricevere i finanziamenti da destinare all’esercito.
Il dito puntato e lo sguardo del soldato arrivano diritti agli occhi di chi lo guarda.
Molto forti sono le parole del primo manifesto: il tedesco minaccia la mamma con il figlio in
braccio e il prestito del denaro è necessario per cacciare lo straniero che vuole uccidere vite
innocenti. Le cartoline, meno costose da spedire e più sintetiche rispetto alle lettere, avevano in più
anche un valore strategico in fatto di propaganda, poiché la parte illustrata si prestava a diffondere
messaggi di esaltazione della guerra, immagini e slogan che servivano a giustificare le sofferenze e i
sacrifici dei soldati e dell’intera nazione per la patria: soldati colti in azioni eroiche,
rappresentazioni del nemico sconfitto, tutto per coglierne gli aspetti più feroci e barbari, immagini
satiriche per ridicolizzare le potenze nemiche, illustrazioni, insomma, che convincessero gli uomini
a partecipare al conflitto per la patria. Il periodo della Grande Guerra fu dunque per molti
illustratori un momento perfetto. In Italia, artisti come Attilio Mauzan, Antonio Rubino e Aurelio
Bertiglia crearono immagini forti ed efficaci, che lasciarono il segno nella rappresentazione della
guerra.
LE PAROLE E LE IMMAGINI
DELLA SATIRA
Questa rappresentazione dell’Europa
mostra in modo satirico la situazione
degli stati.
Nonostante la guerra fosse il
risultato dello sfogo tra tensioni
europee, nessuno avrebbe mai
immaginato una guerra di trincea
violenta,
spietata.
La
sovrapposizione dei colori e la
differenziazione delle varie forme
danno al disegno un senso di caos. I
simboli delle diverse nazioni seguono precisi stereotipi (Italia e Gran Bretagna giovani forti e
vigorosi; Russia e Francia animali aggressivi).
La raffigurazione dal titolo "Sarebbe ora che mamma Europa mettesse a posto quel discolo",
realizzato nel 1916, è una rappresentazione satirica di Guglielmo II
di Germania nei panni di un bambino che viene rimproverato da una
donna con un grembiule che rappresenta l'Europa, mentre l'Austria fa
infuocare gli animi degli stati europei rompendo la pace tra le
nazioni.
Negli anni dal 1914 al 1918 i giornalisti pubblicarono vignette
satiriche sulla guerra e nacquero molti giornali. L’obiettivo
principale, oltre a quello di denunciare le ingiustizie e le pessime
condizioni dei soldati era far riflettere, ma soprattutto sollevare gli
animi convincendoli che la guerra sarebbe stata vinta. Erano in realtà
dei semplici foglietti in formato ridotto, che venivano lanciati
periodicamente sulle trincee italiane.
Un esempio di giornale che echeggiava la vittoria fu “L’Asino” di Podrecca e Galantara. Alcuni dei
più celebri autori furono: Pietro Jahier, Gaetano Salvemini, Emilio Cecchi, Giorgio De Chirico,
Giuseppe Ungaretti, Curzio Malaparte, Salvator Gotta, Gioacchino Volpe, Ardengo Soffici e tanti
altri. Un altro giornale importante fu La Tradotta, un settimanale che rappresenta un mondo gaio e
irresponsabile, comico e ridanciano con il compito di far divertire.
È caratterizzata da un linguaggio semplice con tavole illustrate di Rubino, Brunelleschi e Sacchetti.
La Tradotta uscì per la prima volta nel 1918, dopo la disfatta di
Caporetto e concluse con l’armistizio e la pace.
Nella prima vignetta la Germania è rappresentata dal Kaiser
con il pugno di ferro che però non riesce a prendere le mosche
(l’Italia) che gli sfuggono a significare il fatto che noi
vinceremo, mentre la Germania uscirà sconfitta.
Nella seconda in basso a destra la Germania, con le mani sporche
del sangue del suo esercito, chiede la pace per le ingenti perdite
subite, mentre nella terza vignetta gli USA, l’Italia, l’Inghilterra e
la Russia sconfiggono la Germania e l’Austria calpestandole. Infine
il Kaiser appare come un
innocuo giocattolo.
Le riviste satiriche volevano coinvolgere i soldati come risulta da questa frase:“ Vorremmo che essa
(la rivista) fosse fatta dalla truppa. Ci sono certamente nei reggimenti uomini pieni di buon umore,
conta balle famosi, caricaturisti, fredduristi. Che ognuno di loro scriva, disegni quello che gli passa
per la testa; pubblicheremo più che potremo, e l’autore avrà un segno della nostra soddisfazione.
Vorremmo che La Ghirba rivelasse il genio popolare d’Italia, come rivelerà la sua sicurezza di
vincere”.
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Le parole della Grande Guerra: lettere