Acc. Naz. Sci. Lett. Arti di Modena
Memorie Scientifiche, Giuridiche, Letterarie
Ser. VIII, v. IX (2006), fasc. II
Patrizia Catellani, Renzo Console
L’OPPIO:
DALLA TERIACA AL HARRISON NARCOTICS ACT
ABSTRACT
This article provides a brief history of the addiction caused by the use
of opium and other narcotics since ancient times until the early twentieth century. The dangers of using opium had been appreciated by
many early authors, but the immediate effects of an overdose caused
more concern than the actual long term dangers of the addiction until
the nineteenth or even twentieth century. Before that time, medicines
containing opium had become very popular and easily available. The
prescription and use of opium and other narcotics remained legally
possible until 1912, when international obligations were agreed at
The Hague Opium Convention. The laws that followed, like the Harrison Narcotics Act of 1914 in the United States, did not produce the
intended benefits, because despite the prosecutions of doctors and patients, the use of narcotics did not stop and the illegal drug traffic
prospered.
Il mito di Cerere e il meconio
Il mito della dea greca Demetra, venerata a Roma come Cerere per
propiziare la fecondità dei campi e l’abbondanza dei raccolti, ci è stato
tramandato in innumerevoli forme e versioni.1
Secondo una di queste fu lei a rivelare agli uomini le proprietà analgesiche e narcotiche dell’oppio.
Fu una grande rivelazione considerando che l’oppio è la sostanza
medicinale naturale più celebre della storia ed è divenuto l’ingrediente
1
Tra cui quella delle Metamorfosi di Ovidio. Una narrazione recente in italiano si può trovare in
RIVA E., Pharmakon, GV Edizioni, Milano 2005.
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fondamentale della teriaca, il farmaco più prescritto e richiesto in duemila anni di storia. Kore (Proserpina per i Romani), figlia di Cerere, era
stata rapita da Plutone, il dio dell’oltretomba, che si era innamorato di
lei. La madre non si dava pace; voleva riportare la figlia a casa e la cercava dappertutto senza mai riposarsi. Era esausta.
Allora Hypnos, il dio del sonno, Somnus per i Romani, impietosito,
creò per lei una pianta medicinale, per aiutarla a riposare, il Papaver
somniferum. Le diede il lattice che sgorga dalle incisioni della capsula
immatura, il meconio, e Cerere dimenticò il suo dispiacere e si addormentò. Lo adoperò inizialmente come medicinale e poi ne divenne dipendente. Continuando ad assumere l’oppio Cerere cadde nell’oblio e
dimenticò, oltre al suo dolore, anche i suoi doveri di dea della fecondità
della terra.
Come conseguenza la terra smise di produrre; l’agricoltura si fermò.
Giove dunque ordinò a Plutone di restituire la ragazza alla madre. Da
allora Proserpina continua a ritornare tra i vivi ogni anno, ma solo per
un periodo, riportandoci la primavera e l’estate. Poi Proserpina deve
rincasare nell’Ade. Cerere, rattristata, torna allora ad assumere il meconio; la vegetazione si ferma e per questo arrivano l’autunno e l’inverno.
Il messaggio della storia antica di Cerere è dunque che l’oppio cura il
dolore, ma la dipendenza dall’oppio oscura la vita. Evidentemente gli
antichi ideatori della storia conoscevano bene l’oppio ed i pericoli della
dipendenza connessi al suo uso.
Il meconio
Cerere usava il meconio, ossia il lattice che sgorga dalle incisioni
della capsula immatura del papavero ancora in forma liquida. Gli autori
antichi usavano generalmente questo termine come sinonimo di oppio.
Per molti secoli il modo corretto di raccogliere il meconio fu considerato proprio l’incisione delle capsule immature; ed è ampiamente documentato nei trattati, come vedremo a proposito di Scribonio Largo e come vediamo descritto e illustrato, ad esempio, in due testi del Seicento. Il
primo è un’edizione in inglese di Londra del 1618 di Opiologia di Angelo Sala (1576-1637), medico e chimico italiano di Vicenza, calvinista,
che si stabilì prima in Olanda e poi ad Amburgo; l’altro è l’edizione di
Jena del 1674 di Opiologia di Georg Wolffgang Wedel (1645-1721).
Però Lémery, alla fine del Seicento, scrive nel suo Dizionario delle
Droghe che il meconio puro ottenuto con quel metodo praticamente non
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
Fig. 1 - Papaver somniferum; zincografia del 1853. Wellcome Library, Londra.
esisteva; e che l’oppio più facilmente reperibile e quindi più utilizzato
nella preparazione dei medicinali era il lattice ottenuto in abbondanza
dalla spremitura delle capsule e anche delle foglie.
Lémery aggiunge tuttavia che anche questo oppio poteva essere ottimo, e che la qualità dipendeva dalla provenienza del prodotto piuttosto
che dal metodo usato.
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Fig. 2 - Uomo che incide le capsule del papavero; da un’edizione del 1618 di Opiologia
di Angelo Sala. Wellcome Library, Londra.
Fig. 3 - Uomo che incide le capsule del papavero; da un’edizione del 1674 di Opiologia
di Georg Wolffgang Wedel. United States National Library of Medicine.
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
I pani di oppio
Per molto tempo questi pani e la loro stessa preparazione sono rimasti avvolti nel mistero.
I pani di oppio, comunque, non venivano solo impiegati a scopo medicinale, ma anche voluttuario. Venivano fumati da soli o mescolati al
tabacco (madak) da uomini ma anche donne nelle abitazioni o nelle fumerie di oppio sia in Asia, sia in Europa.
Le fasi della preparazione dei pani di oppio
Una serie di litografie di W.S. Sherwill del 1850 circa pubblicate a
Londra illustrano le varie fasi della preparazione dei pani di oppio Provision (l’oppio destinato all’esportazione) in una fabbrica di Patna, in India.2
Miscelazione
Fig. 4 - Miscelazione: fase della preparazione dell’oppio in una fabbrica di Patna in India, 1850 ca. Wellcome Library, Londra.
2
Nella manifattura di Patna, in India, i pani di oppio prodotti erano di due tipi: uno (Excise o Akbari)
per l’uso locale con una purezza maggiore (90%), veniva preparato in forma cubica ed avvolto in carta oleata; l’altra (Provision) con una purezza minore (75%), destinato all’esportazione, aveva la forma
di palle. Era ricoperto da petali di papavero essiccati.
315
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I lavoratori miscelavano l’oppio grezzo in “vasche” rettangolari. Assi
trasversali consentivano ai lavoratori di sedersi durante la miscelazione
o di reggersi quando la miscelazione avveniva utilizzando i piedi.
L’oppio, in questa fase, veniva suddiviso secondo le qualità.
Esaminazione
Fig. 5 - Esaminazione: fase della preparazione dell’oppio in una fabbrica di Patna in India, 1850 ca. Wellcome Library, Londra.
La seconda fase era quella dell’esaminazione. L’oppio veniva suddiviso in contenitori che fungevano anche da misura e davano una forma
alla massa. Nel cuore, nella parte centrale, veniva talvolta messo l’oppio più scadente.
Compressione
I lavoratori estraevano l’oppio dai contenitori precedenti per comprimerlo in “palle”. Lo avvolgevano in petali di papavero essiccati.
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
Fig. 6 - Compressione: fase della preparazione dell’oppio in una fabbrica di Patna in
India, 1850 ca. Wellcome Library, Londra.
Essiccazione
Fig. 7 - Essiccazione: fase della preparazione dell’oppio in una fabbrica di Patna in India, 1850 ca. Wellcome Library, Londra.
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L’essiccazione richiedeva un ambiente molto ventilato. I pani di oppio
venivano rigirati continuamente perché si seccassero da entrambi i lati.
Disposizione in scaffali
Fig. 8 - Disposizione in scaffali: fase della preparazione dell’oppio in una fabbrica di
Patna in India, circa 1850. Wellcome Library, Londra.
Le palle di oppio rimanevano in un vero e proprio magazzino in attesa di essere vendute e di partire per l’esportazione attraverso il trasporto
lungo il Gange verso Calcutta, centro del commercio dell’oppio. L’altro
oppio, invece, l’oppio Excise o Akbari, il più forte, veniva venduto localmente.
Lavoratori “dipendenti”
I sorveglianti che vediamo in tutte le immagini avevano anche il
compito di impedire che i lavoratori ingerissero oppio di nascosto. È
verosimile che i lavoratori fossero dipendenti dall’oppio. Il semplice
contatto della pelle con l’oppio o il respirarne gli odori era senza dubbio sufficiente a creare dipendenza viste anche le quantità di materiale
che maneggiavano.
318
L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
Del resto Bernardino Ramazzini già nel 1700 nel suo De Morbis Artificum “sulle malattie degli artefici (o artigiani)”, ossia sulle malattie
professionali, denunciava come pericolosa malattia professionale dello
speziale l’intontimento che producevano la manipolazione dell’oppio e
la preparazione del laudano… Figuriamoci che cosa avrebbe scritto a
proposito di questi lavoratori!
Fig. 9 - Bernardino Ramazzini, che già nel 1700 denunciò nel suo De Morbis Artificum,
ossia sulle malattie professionali, l’assuefazione all’oppio degli speziali che lo maneggiavano. Wellcome Library, Londra.
L’oppio presso le civiltà antiche: Sumeri, Assiri, Egizi, Greci, Persiani,
Romani
Non è chiaro quale tipo di oppio fosse conosciuto ed utilizzato dalle
civiltà antiche, ossia se il meconio, o l’oppio in pani, od entrambe le
forme. Sono comunque chiare due cose: che le civiltà antiche lo conoscevano bene come sostanza medicinale e che la dipendenza dall’uso
dell’oppio non appariva per queste come un problema.
In alcuni bassorilievi rinvenuti nell’area della Mesopotamia risalenti
all’VIII secolo a.C. compaiono delle capsule di papavero da oppio nelle
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P. Catellani, R. Console
mani di un sacerdote. Presso quelle civiltà i sacerdoti oltre che religiosi
erano anche medici.
A Ninive nella biblioteca medica del grande re assiro Assurbanipal
sono state trovate delle tavolette in cui si parla dell’oppio con molti dettagli sul suo uso.
Hul Gil, pianta della gioia, era il nome del papavero da oppio sia per
i Sumeri, sia per i loro successori, gli Assiri.
Secondo il papiro Ebers gli Egiziani lo chiamavano “mehes”. Gli Egizi usavano l’oppio per curare la febbre, i dolori, la tosse, la diarrea.
Lo coltivavano nella zona della loro capitale, Tebe, da cui il nome di
oppio tebaico.
Gli Egizi scambiavano l’oppio con i Fenici ed i Minoici i quali a loro
volta lo scambiavano con la Grecia, con Cartagine ed in tutta Europa.
I Greci, che gli hanno dato il nome usato ancor oggi (“opòs”, succo),
ne introdussero poi la coltivazione nel loro paese. Secondo Esiodo
nell’area intorno a Corinto, in particolare, si faceva una coltivazione
davvero intensiva di oppio, al punto che una città della zona, Mekon,
aveva addirittura preso il suo nome dal meconio, l’oppio liquido.
In una moneta greca della collezione Wittop Koning proveniente
dall’area di Corinto del 400-350 a.C. una capsula del papavero da oppio
è raffigurata accanto al profilo della dea Atena, Minerva per i Romani,
la dea della guerra. È ipotizzabile che la capsula di oppio in questa moneta rappresenti l’uso “militare” dell’oppio, per infondere coraggio e
resistenza ai soldati.
Del resto è documentato dalle cronache dell’epoca l’uso dell’oppio
da parte dei soldati macedoni: invincibili. Secondo le fonti, fu proprio
Alessandro il Grande nel 330 a.C. ad introdurre la coltivazione del papavero in India – dopo averlo introdotto in Persia – avendone bisogno
per i suoi soldati, evidentemente dipendenti.
L’oppio è, probabilmente insieme al vino, il vizio della Roma degli
imperatori: Nerone, Tito, Nerva, Traiano e Adriano ne fecero uso. Petronio ne parla descrivendo la famosa “cena di Trimalcione”.
Galeno e la dipendenza dalla sua teriaca
Secondo diversi autori moderni, l’imperatore e filosofo Marco Aurelio era dipendente dall’oppio e più precisamente dalla famosa teriaca
che lo conteneva. Lo affermano rifacendosi a quanto riferisce il suo
medico Galeno, vissuto nel II secolo d.C., che gliela aveva prescritta
320
L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
per curare i suoi dolori articolari. Galeno ci ha tramandato nei suoi
scritti i particolari di questa vicenda, compresa una frase che può essere
interpretata come un tentativo non riuscito di sospensione.3
Secondo questa interpretazione del suo testo, Galeno si era dunque reso conto benissimo della facilità con cui si poteva diventare dipendenti
dalla teriaca. Era un farmaco che migliorava le funzioni dell’organismo
sotto ogni punto di vista. Il paziente sentendosi meglio tendeva ad assumere il rimedio per un periodo troppo prolungato ed allora si manifestava
la dipendenza. Il punto fondamentale, dunque, era il tempo di assunzione.
Fig. 10 - Frontespizio di un’edizione del 1531 del De Theriaca di Galeno. Collezione
Gallica della Bibliothèque Nationale de France.
L’oppio e gli autori antichi
Per quanto riguarda l’utilizzo dell’oppio come medicamento analgesico narcotico, secondo gli autori, molto prima di Galeno, vissuto nel II
3
CLAUDIUS GALENUS, De Antidotis Libro Duo (trad. di WINTHER J.), Simon Colinaeus, Parigi
1533.Però molto recentemente alcuni studiosi hanno contestato che la frase di Galeno significasse
che Marco Aurelio era tossicodipendente. Cfr. ad es. TOTELIN L.M.V., Mithradates’ Antidote, a
Pharmacological Ghost, «Early Science and Medicine» (1) 9 (2004), pp. 1-19.
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secolo d.C., ne parla verso il 400 a.C. Ippocrate. Ne conosceva l’uso
non solo come analgesico e ipnotico, ma anche come antidiarroico.
Ne parla anche dopo di lui Teofrasto nel IV sec a.C. nella sua Historia Plantarum.4
Però Secondo Kremers e Urdang5 fu Scribonio Largo il primo autore
a descriverlo bene in un vero e proprio ricettario di medicinali composti
che potrebbe essere considerato una farmacopea. Si tratta del De Compositionibus Medicamentorum, compilato tra il 43 ed il 47 d.C., come si
legge in un’edizione del 1529.6
Infatti in quell’opera l’oppio viene descritto accuratamente e citato
come ingrediente di una formula.7
Secondo Kremers e Urdang i testi precedenti – numerosi – che avevano menzionato l’oppio non lo avevano descritto bene, e non erano
farmacopee.
Scribonio ne parla nel capitolo dedicato ai colliri.8 Non si limita a
raccomandarlo come ingrediente, ma descrive una sua sofisticazione
fatta dai pigmentarii itineranti a scopo di profitto: l’oppio da utilizzare,
precisa, è fatto col lattice delle capsule immature di papavero selvatico
e non col succo delle foglie del papavero. Ecco le parole precise di
Scribonio in proposito:
... Dà un migliore risultato, invero l’oppio in questo, e in ogni collirio, e medicamento. In verità bisogna aggiungere, quello che è fatto
col lattice proprio delle teste del papavero selvatico, non col succo
delle sue foglie, come i pigmentarii itineranti fanno con questa cosa a
scopo di profitto. Il primo infatti si produce in piccola quantità con
grande lavoro, il secondo si estrae abbondantemente senza fatica.
Però, come abbiamo visto nel caso di Lémery, dopo il Rinascimento
il metodo di spremere le teste dei papaveri e le foglie fu accettato come
l’unico utilizzabile in pratica per produrre l’oppio in quantità considerevoli, ottenendo anche una qualità soddisfacente. Ma da questo si deduce che l’efficacia terapeutica dei prodotti preparati con l’oppio vero
doveva essere molto maggiore!
Scribonio indica anche i sintomi che manifesta chi ha bevuto il me4
Teofrasto nacque intorno alla data della morte di Ippocrate o poco dopo.
KREMERS E., URDANG G., History of Pharmacy (IV ed.), J.B. Lippincott, Filadelfia e Toronto 1976.
6
Aurelii Cornelii Celsi De Re Medica Libri Octo, Scribonii Largi De Compositionibus Medicamentorum Liber Unus, apud Christianum Wechel, Parisiis 1529.
7
Scribonio Largo non fu il primo a menzionare l’oppio in assoluto, ma fu il primo a descriverlo
bene in un libro che potrebbe essere considerato una farmacopea.
8
Collirii composti lievi, XXII (foglio 2v).
5
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
conio e poi le maniere per soccorrerlo. Dimostra così di conoscere bene
la pericolosità dell’oppio:9
L’oppio bevuto, che alcuni chiamano meconio, si distingue per la forza
del suo odore; invero manifesta la qualità del papavero immaturo, del
quale è il succo. Produce specialmente pesantezza di testa, raffreddamento e lividezza degli arti, e l’emissione di sudori freddi. Inoltre ostacola la respirazione, assopisce la mente, e fa perdere la sensibilità. Coloro che lo hanno bevuto devono tosto essere aiutati, con acqua e olio
mescolati con vino, somministrati più volte, e vomitati di frequente per
mezzo di una piuma o di una cordicella vomitiva. Giova anche un mestolo di vino, e un mestolo di mosto bollito e olio somministrato per lo
stesso scopo. O anche vino e aceto in pari misura somministrato con
acqua e miele di rosa nella stessa misura, in modo che siano forzati a
rigettarli immediatamente. Inoltre si curi la testa senza interruzione con
la rosa e l’aceto, e i loro piedi siano frizionati assiduamente con le mani asciutte, o avvolte in un panno ruvido. Giova anche la senape triturata con aceto, messa intorno ai piedi e agli stinchi; e al sopraggiungere
del sonno si impedisca che si assopiscano.
Né Scribonio, né gli autori antichi che scrissero dell’oppio prima e
poco dopo di lui (Dioscoride, Celso, Plinio, tutti del I secolo d.C.) sembrano dar peso però ai problemi della dipendenza e della tolleranza,
connessi all’uso della sostanza.
Sono rimasti in uso fino ad alcuni secoli fa dei medicinali composti
contenenti oppio ben più antichi rispetto all’opera di Scribonio. Per esempio la teriaca, il filonio e l’atanasia.
Filonio
Il filonio, o philonium, era un elettuario oppiaceo calmante contro
le coliche, ma anche dotato di altre virtù, secondo gli autori che lo riportarono.
Arnaldo da Villanova è uno degli autori che ne riferiscono l’invenzione a Filone (Herennius Philon) di Tarso vissuto verso l’anno 20 a.C.10
Due sono le formule principali conosciute. Una riportata di frequente
era quella attribuita a Mesue, che era stimata come antiemorragica ed
antiabortiva.
9
Per l’oppio, CLXXX (foglio 21r).
Arnaldo nel suo Antidotarium, dopo averne riportato una formula ricevuta da un amico, precisa
che tuttavia il vero filonio è quello che compose Filone.
10
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P. Catellani, R. Console
L’altra citata nei grandi testi farmaceutici del tardo medioevo è di solito la formula del Filonio secondo la descrizione di Nicolao (un autore
abbastanza misterioso anche chiamato Nicola Salernitano e che si era
ispirato principalmente all’Antidotarium Magnum del 1087-1100 circa).
La formula di Nicolao era spesso chiamata Philonium Majus o Romanum, e conteneva sia semi di giusquiamo e di papavero, sia l’oppio.
Lémery alla fine del Seicento le descrisse e discusse entrambe, aggiungendo a quelle altre due più semplici – ma apparentemente con le
stesse virtù – ideate dal suo contemporaneo Jakob le Mort e chiamate
filonio caldo e filonio freddo.11
Atanasia
Anche l’atanasia (o athanasia magna) conteneva nella sua formula
sia i semi di papavero, sia l’oppio. La sua etimologia significa “antidoto
che impedisce di morire”.
Lémery nella sua Farmacopea Universale riferisce l’antico rimedio
ad Avicenna.12
Galeno in De Antidotis aveva già una medicina chiamata athanasia,
che però non conteneva oppio. La attribuiva a Mitridate e ne presentava
tre ricette abbastanza simili.
Avicenna è il primo che riportò la formula dell’antica Atanasia con
l’oppio. Dopo di allora, l’atanasia degli autori medioevali (Mesue figlio, Nicola Alessandrino, Nicola Salernitano, Arnaldo da Villanova) e
di quelli che li citarono, chiamata athanasia magna o atanasia grande,
conteneva l’oppio.
Dal mitridato alla teriaca
Anche la teriaca (il preparato più prescritto e richiesto in duemila anni di storia) aveva tra i suoi costituenti fondamentali l’oppio.
La teriaca, secondo la tradizione, trae origine dalle ricerche medicofarmacologiche di Mitridate VI Filopatore detto il Grande, re del Ponto
(132-63 a.C.).13
Si diceva che questo sovrano, appassionato di medicina e tossicolo11
LÉMERY N., Farmacopea Universale, Giovanni Gabriel Hertz, Venezia 1720.
Lémery è consapevole dei pericoli del rimedio e riporta meticolosamente i quantitativi d’oppio
per ogni dosaggio.
13
Rimane una scultura del I secolo d.C. custodita al Louvre che lo raffigura.
12
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
gia, avesse istituito presso la sua reggia un vero e proprio centro di ricerche, dove, con l’aiuto di illustri medici e di filosofi, quali Papias di
Amisos e Crateva, conduceva indagini approfondite su farmaci e veleni.
È famosa la sua abitudine di assumere personalmente i più svariati veleni in dosi crescenti con l’intento di assuefarsi e di mettersi al riparo
dagli eventuali tentativi di avvelenamento…
Il termine mitridatismo ancora oggi usato in medicina deriva proprio
dal nome di questo sovrano.
Il fiore all’occhiello delle sue ricerche era rappresentato, appunto, da
un antidoto reputato efficace contro numerosissime malattie e sostanze
tossiche, costituito da un gran numero di componenti diversi – anche
più di 50 secondo alcuni autori che hanno riportato la formula.
Uno degli ingredienti era il sangue delle anatre del Ponto. Infatti Mitridate – come conferma Aulo Gellio, storico contemporaneo di Galeno,
nel suo scritto Noctes Atticae – aveva osservato che le anatre del Ponto
avevano l’abitudine di mangiare veleni senza soffrirne.14
Quando Pompeo Magno conquistò il regno del Ponto, si impadronì
non solo di tutte le immense ricchezze di Mitridate, ma anche della sua
biblioteca e dei dati relativi alle sue ricerche. Questa grande massa di
documenti fu trasferita a Roma dove Pompeo incaricò un suo liberto,
Leneo, di riordinarla e di tradurne in latino e pubblicarne le parti più interessanti.15 In tal modo il famoso antidoto fu conosciuto in tutto il
mondo romano col nome di arteriace laudata o mitridate.
Il mitridato è quasi sempre associato al nome di Damocrate.
Infatti il medico greco-romano Damocrate ricopiò in versi16 la descrizione della formula del mitridato dopo che questa era stata portata a
Roma.17
La formula in versi fu riportata da Galeno nel suo libro De Antidotis.18
14
Gellio menziona specificamente l’antidoto e precisa che diede l’immunità al Re ma gli impedì di
avvelenarsi quando stava per essere catturato dai Romani; fatto riportato da molti altri autori antichi e poi anche da Lémery.
15
Però purtroppo il testo di Leneo non ci è pervenuto.
16
Christian Friedrich Harless (in Servilii Damocratis Quae Supersunt Carmina Medicinalia, 1833)
precisa, come altri esperti, che i versi di Damocrate erano trimetri giambici, il metro considerato
più vicino alla lingua parlata nell’Attica. Secondo i testi di metrica, ciascuna delle tre parti del verso era composta da due giambi (e il giambo era di due sillabe, una breve e una lunga). Perciò un
trimetro giambico era composto da sei piedi, così come l’esametro. È probabilmente per questo
che alcuni, come Lémery, hanno scritto che Damocrate componeva in esametri.
17
Secondo Lémery scritta a mano dal suo autore Mitridate.
18
CLAUDIUS GALENUS, De Antidotis Libri Duo (traduzione di WINTHER J.), Simon Colinaeus, Parigi 1533. Si può trovare una traduzione italiana della ricetta in versi di Damocrate (col latino rinascimentale a fronte) fatta di recente da uno dei presenti autori in De Antidotis Libri Duo - Claudio
Galeno, «Punto Effe» (14) 40 (2005).
325
P. Catellani, R. Console
Tuttavia anche Celso ed altri attivi prima di Damocrate (come Scribonio Largo e Andromaco il Giovane) avevano già divulgato la formula
in modi diversi.
In tutte le versioni antiche conosciute la ricetta del mitridato non è
mai la stessa. Il nucleo degli ingredienti che sono comuni a quasi tutte è
molto limitato, e il numero degli ingredienti può essere molto diverso.
Per esempio, in ordine approssimativamente cronologico, abbiamo questi numeri: Plinio il Vecchio, 54 (ma dà solo il numero senza fornire la
lista); Celso, 38; Scribonio Largo, 22; Andromaco il Giovane, 43; Antipatro e Cleofanto (secondo Andromaco il Giovane), 53; Damocrate, 49
(più 1 che secondo lui alcuni aggiungono); Mitridate (secondo Asclepiade il Giovane), 44; Xenocrate (secondo Nicostrato), 22.19
In una formula riportata nella Pharmacopoeia Collegii Regalis Medicorum Londinensis stampata a Londra nel 1746, che è una rielaborazione moderna, possiamo contare ancora 45 ingredienti.
Discordanze
Non tutti gli storici concordano. Per esempio l’illustre medico inglese
del ’700 William Heberden non credeva alla vicenda di Mitridate VI e
dubita nel suo libretto del 1745 intitolato Antitheriaka che la storia di Mitridate, per quanto riguarda le sue ricerche farmacologiche e il mitridato,
sia attendibile giudicandola molto improbabile; e pensa che nei suoi archivi non fosse stato trovato quasi niente in proposito da Pompeo.20
Però non si preoccupò della farmacodipendenza neppure Heberden,
anche se voleva abolire l’uso della teriaca e del mitridato. Contestava
l’uso dell’oppio in questi farmaci complessi, dove era mescolato a innumerevoli altri ingredienti secondo lui inutili, per il pericolo di assumerne dosi incontrollate e quindi tossiche.21
Teriaca di Andromaco
Andromaco, famoso medico greco attivo presso la corte di Nerone,
19
Le ultime cinque formule sono riferite tutte da Galeno nel II libro De Antidotis.
Sulla base del silenzio in proposito di Plutarco e delle affermazioni di Sereno Sammonico.
Il lavoro di Heberden, pur contro la voga ancora prevalente in Europa, fu preso sul serio da taluni studiosi anche fuori dalla Gran Bretagna; e infatti fu anche tradotto in francese e pubblicato in
un numero del Journal Britannique nel 1751. Questo coincise con l’inizio del declino di quei polifarmaci e forse contribuì ad affrettarlo.
20
21
326
L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
ne modificò e complicò la composizione. La ricetta, costituita da 64 ingredienti e denominata teriaca di Andromaco, fu riportata nelle opere di
Galeno ed in tal modo trasmessa ai posteri.
La principale innovazione di Andromaco era l’aggiunta della carne
della vipera. Nel mitridato la vipera non c’era; però c’era lo scinco, una
lucertola del Nilo il cui morso era considerato velenoso. Quindi la famosa novità della teriaca in effetti era lo sostituzione della carne di un
rettile con quella di un altro, oltre all’aggiunta di altri ingredienti.
Da quel momento la fama della teriaca non conobbe limiti. Superò
l’epoca delle invasioni barbariche, e dal X al XVII secolo fu reputata il
miglior farmaco esistente al mondo.
Le formule furono via via modificate ed arricchite nel numero di ingredienti dai vari medici. Solo a partire dal 1750 incominciò, sia pur
lentamente, a perdere di smalto.
Dipendenti dalla teriaca22
Certamente la presenza della carne della vipera tra gli ingredienti e i
rituali della preparazione davano origine ad aneddoti, leggende, trattati,
e dispute, truffe e relative cause legali… e tutto questo contribuiva a
mantenere vivo il suo mito di panacea attiva ed efficace contro tutti i
mali. Ma il vero successo del rimedio è verosimilmente legato anche alla dipendenza a cui il suo uso dava origine.
Con l’uso della teriaca come con l’uso degli analgesici narcotici in
genere, si configuravano certamente i fenomeni farmacologici della tolleranza e della dipendenza… ovvero, per ottenere lo stesso effetto ce ne
voleva sempre di più ed ad un certo punto… non se ne poteva più fare a
meno… fenomeni per altro già riconosciuti dallo stesso Galeno.
I più colpiti dalla dipendenza dal rimedio erano poi i ricchi. Per il suo
costo altissimo era un prodotto praticamente riservato solo a loro. La teriaca costava molto per la grande complessità della sua formula sia per
il tipo di ingredienti, sia per le difficoltà tecniche: doveva fermentare ed
il dosaggio dei principi attivi doveva essere omogeneo.
Solo poche farmacie, le farmacie dette teriacanti, avevano i capitali e
le capacità tecniche per preparare una teriaca a regola d’arte. Non erano
rari i tentativi di ciarlatani ma anche di speziali di pochi scrupoli di
produrre e vendere sofisticazioni più o meno grossolane.
22
CATELLANI P., Amarcord Bologna: Viaggio nel Tempo Attraverso le Antiche Farmacie, in Catalogo Cosmofarma 2001, Cosmofarma Editore, Milano 2001, pp. 20-34.
327
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La teriaca per molte città mercantili che la esportavano in notevoli
quantità rappresentava una fonte di guadagno importante. I controlli
delle autorità sulla sua preparazione e vendita erano immensi e tutto
quello che poteva danneggiare il commercio del farmaco destava le attenzioni statali.
Così le autorità sanitarie in molte città famose per la loro attività
commerciale o per la presenza di scuole di medicina prestigiose, come
Bologna, Montpellier, Tolosa, Venezia, stabilirono che la preparazione
della teriaca dovesse avvenire in pubblico, sotto la sorveglianza delle
autorità sanitarie in modo da ridurre al minimo la possibilità di frodi.
Tutto ciò che riguardava la preparazione e la dispensazione del rimedio doveva muovere interessi davvero considerevoli se si pensa che per
dirimere una controversia sulle procedure della cerimonia della preparazione della triaca a Bologna dovette intervenire il Papa.
L’Inquisizione
L’oppio fu inviso alla Sacra Inquisizione in Europa dal 1300 al 1500.
Continuò ad essere tollerato eccezionalmente come ingrediente di teriaca, filonio, atanasia e poco altro: agli occhi dell’Inquisizione tutto ciò
che proveniva dall’Est era legato al diavolo.
Paracelso e il laudano
È nel 1527 che l’oppio viene reintrodotto nella letteratura medica
dall’alchimista svizzero Paracelso. Le sue pillole nere “pietre d’immortalità” erano fatte di oppio tebaico, succo di limone e quintessenza
d’oro e venivano prescritte come antidolorifico. Nel 1541 introdusse in
medicina il laudano, una soluzione idroalcoolica di oppio che divenne
rapidamente popolare in tutta Europa.
L’orvietano
Un altro antidoto oppiaceo popolarissimo nel Seicento e nella prima
parte del Settecento fu l’orvietano. Dapprima fu diffuso, con grande
successo, da “ciarlatani” o venditori itineranti ed il suo uso divenne una
moda.
328
L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
Gli esponenti della professione medica e farmaceutica inizialmente
osteggiarono l’antidoto; ma poi furono costretti a far fronte alla concorrenza dei ciarlatani includendo l’orvietano nei propri antidotari e trattati, e perfino nelle farmacopee ufficiali. Il primo farmacista che incluse
l’orvietano in una farmacopea fu il francese Moyse Charas.23
In uno studio realizzato dai presenti autori24 sono esaminate 35 formule diverse dell’orvietano, e si vede che tra i moltissimi ingredienti
tutte – ad eccezione di una25 – contengono l’oppio e la carne della vipera. L’oppio talvolta vi entra direttamente, ma più spesso proprio attraverso il mitridato e la teriaca, che vi sono aggiunti come ingredienti
composti. In modo simile la carne della vipera vi entra sia direttamente
che attraverso la teriaca, e molto spesso in entrambe le forme nella stessa ricetta.
La voga dell’orvietano terminò quasi nello stesso tempo di quella degli altri due illustri antidoti verso la metà del Settecento, quando l’efficacia di questi polifarmaci fu messa fortemente in dubbio da esponenti
della professione medica.
Il laudano di Sydenham
Nel 1680 il medico inglese Thomas Sydenham (1624-1689) introduce in terapia il laudano che porta il suo nome, una preparazione a base
di oppio, sherry e zafferano.
Laudano e laudano di Sydenham diventarono rimedi popolarissimi
per molteplici disturbi, al punto che scriveva Sydenham: «Fra i rimedi
che all’Onnipotente è piaciuto di dare per alleviare le sofferenze umane,
nessuno è più universale ed efficace dell’oppio...».
Il laudano fu usato fino al XX secolo. Una ricetta manoscritta del
1850-1860 di un rimedio contro il colera contiene laudano, etere, olio
essenziale di menta piperita, acqua e brandy. Bisognava prenderlo immediatamente quando comparivano i primi sintomi.
23
CATELLANI P., CONSOLE R., Moyse Charas, Farmacista Illustre e Medico del Seicento, «Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena - Memorie Scientifiche, Giuridiche, Letterarie», (8) 6 (2003), fasc. I, pp. 135-198.
24
CATELLANI P., CONSOLE R., L’Orvietano, Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di
Modena, Edizioni ETS, Pisa 2004.
25
Quella della Farmacopea di Lilla del 1694, che comprende ben 41 ingredienti tra cui la vipera,
ma non l’oppio, il mitridato o la teriaca.
329
P. Catellani, R. Console
L’oppio in Cina
Fig. 11 - Un locale per fumatori di oppio in un’illustrazione del 1880. United States National Library of Medicine.
Non si può parlare della storia dell’oppio senza far cenno alla Cina.
La storia dell’oppio in Cina però fa parte più della politica internazionale in senso lato che della storia della farmacia in particolare,
perché coinvolse i governi di nazioni potenti come la Gran Bretagna,
gli Stati Uniti d’America e naturalmente la Cina stessa.
L’oppio come medicinale era conosciuto in Cina fin dai tempi più
antichi, ma l’uso voluttuario dell’oppio fu introdottto in Cina nel Settecento dagli inglesi, con lo scopo di rompere l’isolamento commerciale
dell’Impero. L’intento era creare dipendenza e scambiare l’oppio di cui
l’Inghilterra aveva il monopolio in India con i beni e le ricchezze della
Cina. Si dice, per questo, che gli inglesi entrarono in Cina con una croce in una mano e la pipa dell’oppio nell’altra ed al suono dei cannoni la
cambiarono per sempre.
L’introduzione dell’oppio in Cina, nonostante i tentativi del governo
cinese di regolarne l’uso, portò a due guerre (Prima guerra dell’Oppio
330
L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
[1839-1842]; Seconda Guerra dell’Oppio fra Inghilterra e Cina [18561860]), dopo le quali la Cina non fu più la stessa.
Il boom degli oppiacei
Con la scoperta degli alcaloidi dell’oppio e l’avvento dell’industria, i
farmaci oppiacei divennero in breve i più usati in assoluto nell’Ottocento. Basti citare la “polvere del Dover” il cui uso era comunissimo in
mezzo mondo per ogni tipo di malanno.
Si usavano oppiacei per l’asma e per altre varie affezioni legate a
spasmi. Era persino diffusa la pratica di tener tranquilli i bambini con
preparati a base di oppio. Ma in seguito ad una iniziale prescrizione
medica per disturbi banali una gran parte delle persone ne diventava dipendente.
Le medicine brevettate, quelle che precorrono le odierne “specialità”
farmaceutiche, erano di libera vendita anche se contenenti oppiacei, e
venivano distribuite nella totale assenza di controlli, e anche per posta.
Il fenomeno era generale.
La dipendenza era già ben nota, eppure l’impiego dell’oppio non
provocava allarme o preoccupazioni particolari, a differenza dell’alcool, pur essendo un problema sociale. Anzi, si diffusero persino in Europa delle sale per fumare l’oppio come quelle comuni in Asia, come testimonia un’incisione del 1872 del noto Gustave Doré raffigurante una
tana per fumare l’oppio ad East End, la parte est di Londra.
Le confessioni di un fumatore di oppio
È un libro, finalmente, a scuotere l’opinione pubblica ed a mettere a
fuoco il fenomeno (allora non era ancora un “problema”) della dipendenza fisica. Si tratta di Le Confessioni di un Mangiatore di Oppio dello scrittore inglese Thomas de Quincey (1785-1859) pubblicato dapprima nella rivista letteraria London Magazine nel 1821, e successivamente come libro nel 1856.
De Quincey aveva iniziato casualmente ad assumere oppio. Gli era
stato prescritto del laudano per calmare un problema di digestione. Ma
De Quincey ne era presto divenuto dipendente. Continuò ad assumere
oppio per 43 anni, all’inizio occasionalmente e poi quotidianamente.
L’autore cerca di spiegare il suo sconforto, i suoi incubi man mano che
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P. Catellani, R. Console
Fig. 12 - Thomas De Quincey, che fece scalpore nell’Ottocento con l’autobiografia
Confessions of an English Opium-Eater. United States National Library of Medicine.
la droga gli diventava più necessaria, i suoi tentativi vani di liberarsene.
Il libro di De Quincey del 1856 portò come reazione qualche opposizione al commercio dell’oppio, ma i medici non erano sostanzialmente
d’accordo sulla tossicità degli oppiacei, che continuarono ad essere i
farmaci più usati, l’equivalente dell’aspirina di oggi.
Non sfuggirono alla dipendenza dall’oppio neppure personaggi famosi,
neppure farmacisti e medici. De Quincey nomina chiaramente come tossicodipendenti il famoso commedigrafo del Seicento Thomas Shadwell,
e fra i contemporanei di De Quincey lo scritttore Samuael Taylor Coleridge (col quale ebbe una polemica su chi dei due [De Quincey e Coleridge] fosse drogato per una giusta ragione), il filantropo William Wilberforce (che si distinse per la sua lotta contro lo schiavismo) e
l’illustre chirurgo John Abernethy (che utilizzava l’oppio come narcotico per i suoi pazienti).
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
Fig. 13 - Theriaki, pubblicità medica americana del 1873 di una cura per la dipendenza
dall’oppio. United States National Library of Medicine.
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P. Catellani, R. Console
Le terapie per la disassuefazione
Una rivista medica americana del 1873 pubblicizza il Theriaki, una
cura per la dipendenza dall’oppio. L’edificio raffigurato è il laboratorio
dove si produceva il Theriaki, come si legge nel cartello in alto sul muro laterale: opium antidote laboratory. Molte medicine a base di oppio
o derivati non dichiarati sull’etichetta erano vendute come “cura” per la
dipendenza dagli stessi oppiacei. Chi le assumeva guariva subito perché
continuava ad assumerli credendo di avere smesso. Ovviamente, non
appena sospendeva la “cura” per un solo giorno, stava di nuovo male.
Inutile dire il successo di queste “medicine”.
La Legge su cibi e bevande e la conferenza dell’Aia
Finalmente nel 1906 negli Stati Uniti, la “Legge su cibi e droghe pure”
rese obbligatorio indicare sull’etichetta delle “medicine brevettate” tutte
le sostanze contenute. Oppio, morfina e cocaina praticamente scompaiono da questi prodotti, ma sono ancora liberamente venduti nelle farmacie
come tali.
Solo nel XX secolo l’importanza internazionale del problema della
tossicodipendenza condusse ad una conferenza internazionale all’Aia,
in seguito alla quale fu emanata, nel 1912, The Hague Opium Convention. L’accordo obbligava i firmatari a compiere controlli sul traffico di
oppio e cocaina. Gli Stati Uniti definirono le caratteristiche della regolamentazione nel Harrison Narcotics Act del 1914. Secondo questo atto, che ebbe risonanza anche in tutta Europa, il farmacista poteva dispensare solo dietro ricetta medica le sostanze che provocano dipendenza.26
William Jennings Bryan era Segretario di Stato del presidente Thomas
Woodrow Wilson. Fu Bryan che volle più di tutti il Narcotics Act e che
in pratica ne provocò la promulgazione.
Solo nel 1914, col Harrison Narcotics Act, cessò negli Stati Uniti la
libera vendita di oppio, coca e loro derivati (morfina, eroina, cocaina).
Per ottenere queste sostanze occorreva una ricetta medica, e i medici
dovevano ottenere un’autorizzazione, pagare una tassa e tenere un registro delle sostanze in loro possesso.
In realtà la legge non limitava esplicitamente la libertà dei medici di
26
COWEN D.L., HELFAND W.H., Storia della Farmacia, Restiva, Latina 1997.
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L’oppio: dalla teriaca al Harrison Narcotics Act
prescrivere queste sostanze, purché essa avvenisse “nel corso dell’esercizio della professione”. Ma in vari casi, la prescrizione a soggetti “dipendenti” portò i medici in tribunale: alcuni processi stabilirono che
una terapia di mantenimento di persone dipendenti non era ammissibile
e alcuni medici furono condannati.
Migliaia di persone dipendenti da oppiacei, che fino ad allora avevano potuto condurre una vita normalissima spesso nascondendo a tutti la
loro abitudine al farmaco, d’improvviso si trovarono senza possibilità
di avere la loro sostanza. Alcuni riuscirono a smettere di colpo, altri furono presi in carico da medici ingenui o coraggiosi che continuarono a
loro rischio a prescrivere oppiacei, altri ancora pagarono profumatamente medici con pochi scrupoli, i più ricorsero al mercato nero. Iniziò
così, molto rapidamente, la fortuna dei contrabbandieri e dei trafficanti.
RIASSUNTO
Questo articolo è una breve storia della tossicodipendenza causata dall’uso
dell’oppio e di altri narcotici dall’antichità fino all’inizio del ventesimo secolo.
I pericoli dell’uso dell’oppio furono noti a molti autori del passato, ma fino al
diciannovesimo e anche al ventesimo secolo gli effetti immediati di una dose
eccessiva crearono più preoccupazione dei pericoli della dipendenza ed
assuefazione. Prima di allora, i farmaci contenenti oppio erano divenuti molto
popolari e facilmente disponibili. La prescrizione e l’uso dell’oppio e di altri
narcotici rimase legalmente libera fino al 1912, quando fu raggiunto un
accordo internazionale alla Convenzione dell’Aia sull’Oppio. Le leggi che
seguirono, come il Harrison Narcotics Act del 1914 negli Stati Uniti, non
produssero gli effetti desiderati, perché a dispetto dell’incriminazione di
medici e pazienti, l’uso dei narcotici non cessò e il traffico illegale della droga
ebbe il sopravvento.
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Patrizia Catellani, Renzo Console L`OPPIO