NOESIS – BERGAMO
GUSTAVO ZAGREBELSKY
2013 - 2014
INCONTRI di FILOSOFIA
ENERGHEIA
POTERE - DENARO
GUSTAVO ZAGREBELSKY – POTERE/DENAR0
Gustavo Zagrebelsky – Giurista, già presidente della Corte
Costituzionale.
Conferenza tenuta martedì 12 novembre 2013
1.1
RELAZIONE
Il rapporto tra denaro e potere, cioè tra denaro e politica, è un
rapporto problematico e ricorrente. Per sviluppare tale tema lo
Zagrebelsky si propone di articolare la sua conversazione nei cinque
punti seguenti:
1. Il denaro come mezzo o come fine.
2. Lo sviluppo del punto precedente implica che siamo entrati in una nuova epoca che
riconosce nuovi padroni. Non più gli imprenditori ma i finanzieri che li hanno sostituiti al
vertice della scala sociale, e che non sono imprenditori.
3. Il passaggio dall’economia alla finanza determina nuove
strutture sociali.
La vecchia società divisa tra padroni e
proletari è sostituita da una nuova società tripartita, con le
modalità e le conseguenze che vedremo.
Su questo lo
Zagrebelsky ammette però di non avere maturato certezze:
stiamo gestendo e dipanando il dubbio.
4. L’immagine simbolica di questa nuova società è un animale
mitologico semisconosciuto: l’uroboro (immagine a lato).
5. Vanno approfondite le conseguenze sulla democrazia del nuovo
rapporto denaro-potere.
Lo Zagrebelsky si dichiara personalmente portato al pessimismo, ma ricorda che la storia non
finisce. Dalla crisi economica e dal disfacimento sociale qualcosa di nuovo potrebbe rinascere.
Vediamo ora più analiticamente i cinque punti elencati sopra.
1 – Rapporto tra mezzi e fini.
Sul denaro si è sempre riflettuto, dal Pecunia non olet, al Pecunia nerbum rei publicae, ad infiniti
altri motti abbiamo la testimonianza di come fin dall’antichità ci si interrogasse sulle implicazioni
del denaro. In un classico appena ripubblicato, gli Adagia1 di Erasmo da Rotterdam, c’è un
florilegio di motti sul denaro. Il denaro può essere visto come una struttura relazionale che
permette di operare (scambio indiretto di beni e servizi, impresa, investimento, …).
Tradizionalmente il denaro è sempre stato considerato un mezzo per il conseguimento di altri fini,
1
Erasmo da Rotterdam – Adagia – Editore Salerno - 2002
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dall’esecuzione di opere di pubblica utilità (strade, acquedotti, …), alla celebrazione della potenza
dello stato (Versailles, eserciti, monumenti, …). Nel 6-700 nascono le manifatture di stato, quando
per procurarsi denaro lo stato diventa imprenditore. Sia a livello di stati che, ovviamente su altra
scala, di privati, il denaro era ricercato come testimonianza di potenza e munificenza e come risorsa
per assicurarsi l’avvenire.
Ci domandiamo se ora sia ancora così, se vi sia ancora un fine esterno, e se non sia il denaro stesso
ad essere diventato fine a se stesso.
2 – I finanzieri subentrano agli imprenditori.
I grandi accaparratori di denaro, gli uomini della finanza, accumulano per un fine diverso
dall’accumulo stesso? I veri capitalisti, guidati da una rigorosa etica calvinista2, accumulavano
denaro per reinvestirlo nell’impresa. Il denaro serviva non solo per migliorare l’impresa, ma
spesso anche per promuovere il benessere del paese e dei lavoratori. Si veda la figura di Adriano
Olivetti, grande imprenditore il cui sogno comunitario e la cui vitalità imprenditoriale furono
strangolati dalla politica che non poteva accettare lo spirito di Comunità3. Olivetti concepiva la
fabbrica come produttrice di risorse per il decollo materiale, culturale e spirituale della zona di
Ivrea. La fabbrica, o meglio la Comunità attorno alla fabbrica, era frequentata da urbanisti, filosofi
e letterati. I dipendenti dovevano trarne vantaggio senza sradicarsi dalle loro origini, possibilmente
continuando ad abitare le loro campagne.
Olivetti fu forse il più illuminato, ma non fu certo l’unico. In giro per l’Italia si possono ancora
trovare molti quartieri non degradati costruiti a cura di imprenditori illuminati per migliorare le
condizioni di vita ed agevolare l’evoluzione sociale e culturale dei dipendenti.
Tra l’altro,
nell’attuale crollo delle ideologie, l’idea olivettiana sta tornando ad essere presa in considerazione.
Questa concezione è: prendi il plusvalore ed investilo, non è prendilo e scappa. Il denaro è un
mezzo per ottenere sviluppo e prosperità, e in gran parte viene speso dove viene guadagnato.
La nostra epoca invece vede una trasformazione4 che porta a non distinguere più tra mezzo e fine.
E’ una cosa pesantissima, nichilismo allo stato puro: mancanza di un fine e di un valore di
riferimento.
Il non-nichilismo prevede dei fini, ma se il mezzo si corrompe a diventare fine si
genera un circolo vizioso, ben simboleggiato dall’animale che divora sé stesso, l’uroboro.
Siamo arrivati ad una fase in cui il denaro produce direttamente altro denaro saltando la fase
intermedia della produzione di valore. E’ l’apoteosi dell’usura, in passato scomunicata come
pratica indegna ed immorale.
Dire che siamo nell’epoca della finanza è come dire che siamo in una situazione di usura planetaria,
col denaro che è diventato fine a sé stesso.
Gli imprenditori tradizionali, se ne esistono ancora, sono in grande difficoltà perché il denaro non è
messa a disposizione degli investimenti ma viene risucchiato dal circuito della speculazione.
2
Max Weber: “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, BUR 2009. Si veda al capitolo dei complementi.
3
Attualità di Adriano Olivetti. Si veda al capitolo dei complementi
4
Lo Zagrebelsky non fa considerazione sulle modalità della transizione dall’imprenditorialità alla finanziarizzazione. Si
veda al capitolo dei complementi
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3 e 4 – Uroboro e società tripartita
Cosa ci dice l’uroboro? L’animale non divora la propria coda, ma ciò che esce dall’estremità del
corpo: in sostanza le feci rientrano in circolo come nutrimento.
L’economia finanziarizzata prefigura una società divisa in tre strati.
Essa prevede grandi
rastrellatori di risorse finanziarie che vengono investite in prodotti finanziari. In estrema sintesi, si
“producono” e vendono titoli tossici che aspirano valore dai risparmiatori, come nel caso Parmalat,
venuto alla luce per un caso fortuito. Ma per una Parmalat che emerge ve ne sono molte che
rimangono celate e continuano a fare danni.
Non sappiamo cosa siano in realtà i titoli che la banca ci offre in cambio del nostro denaro, spesso è
solo carta, ricchezza basata sul nulla.
Evidentemente non è possibile effettuare calcoli certi, ma si valuta che vi siano in circolazione
prodotti speculativi per un valore di migliaia di volte superiore al prodotto annuale di tutto il
mondo.
Prima si producevano beni e servizi, ora ci si concentra su prodotti speculativi. C’è una situazione
ed una tecnologia che consentono di rastrellare enormi quantitativi di denaro che può essere
spostato da un investimento all’altro, da una regione geografica all’altra, col semplice click di un
mouse. Nelle regioni in cui c’è disinvestimento si può verificare il disastro sociale.
Vi sono guerre finanziarie combattute sulla frazione di secondo, generando brusche mutazione del
valore (nominale) dei titoli. Vi sono programmi informatici che automaticamente, cioè senza
intervento umano, spostano risorse finanziarie sull’onda dell’andamento dei titoli di borsa e di altri
indicatori economici.
Tali spostamenti possono desertificare delle aree, ed addirittura causare il fallimento degli stati.
Che uno stato possa fallire è un’eventualità che era sconosciuta ai nostri avi, il fallimento poteva
accadere solo alle imprese. Un’impresa fallita chiude, uno stato può chiudere? Teoricamente non
potrebbe, ma nella nostra epoca nuova può succedere. Ovviamente non chiuderebbe il territorio,
ma si avrebbe il disfacimento della struttura organizzativa sovrana.
Gli stati si sono indebitati, vivono sul prelievo tributario ma anche sull’indebitamento.
Le
obbligazioni che si immettono sul mercato per pagare le proprie necessità sono richieste di prestiti
in cambio di indebitamento. Ad ogni scadenza si sta col fiato sospeso, se non si trovano altri
usurai (soggetti disposti a dare denaro a fronte di impegno alla restituzione di somme maggiorate da
cospicui interessi) lo stato fallisce, nel senso che non può più pagare gli stipendi di tutti coloro che
fanno funzionare la macchina statale (impiegati, medici, docenti, poliziotti, magistrati, …).
Per attirare gli investitori (gli usurai) promettiamo interessi sempre più elevati, e quindi ci
impoveriamo sempre di più. In più lo stato deve dare garanzie agli usurai (garanzie di rimanere
solvibile, di non essere in corsa verso il fallimento). Ed ecco che per dare tali garanzie deve
tagliare la spesa pubblica5, così impoverendo la qualità della vita dei cittadini. Inoltre deve
5
La scelta di ridurre i servizi sociali prima/invece di eliminare gli sprechi è però interna al nostro mondo politico, come
è stata una scelta del nostro mondo politico quella di sviluppare uno smisurato debito pubblico più correlato ai costi
dello spreco che a quelli del benessere.
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spremere le imprese col fisco, producendo altri fallimenti, licenziamenti, impoverimenti ulteriori,
cioè demolendo quello stato sociale per cui l’Europa era riferimento di civiltà.
La finanza mondializzata ha superato le logiche a livello degli stati, anche se presenta articolazioni
regionali.
L’uroboro è simbolo dell’economia finanziarizzata, che a sua volta implica la società tripartita.
La società tripartita è articolata come segue:
 Stato sociale mondiale di coloro che sono inseriti nel circuito della finanza. Vivono in una
cultura diversa dalla nostra, non è solo questione di lusso.
Hanno una loro lingua
(l’Inglese), ritrovi esclusivi, i loro figli frequentano scuole riservate in cui si insegna solo ciò
che attiene alla finanza. Il loro stile di vita li fa diversi anche fisicamente rendendo
visivamente percettibile il loro status sociale.
Hanno costituito un mondo a parte,
lontanissimo.
 Stato infimo dei vinti, dei disperati, di coloro che hanno perso sia il lavoro che la speranza di
trovarne un altro. Questi stanno ripiombando in condizioni di vita ottocentesche, non si
curano neanche più i denti.
 Stato intermedio, costituito da coloro che resistono ancora nell’economia reale, che
mantengono col loro lavoro tutta la struttura, ma che sono schiacciati e sfruttati da coloro
che manovrano il denaro. Sfruttai e spremuti, non si ribellano per paura di essere risospinti
nello stato dei vinti, sono disposti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, rinunciano a
garanzie e diritti. Anche i sindacati stanno al gioco.
Guardando da una prospettiva più ampia si vede la desertificazione di zone dell’Africa, la
mutazione di culture tradizionali. Si coltiva il mais, ma per farne carburante. I capitali si
spostano, ma i lavoratori restano fermi. Dove si disinveste, lì ci si impoverisce.
5 – Conseguenze sulla democrazia
Ne nascono conseguenze sociali ma anche politiche. Dove è diventato assillante il problema di
trovare acquirenti per il proprio debito la politica non può più essere quella di prima.
La politica nasce come cura della polis. Platone istituisce il paragone tra il buon governante ed il
buon timoniere (gubernator in Latino).
La polis era concepita come statica, da governare
promuovendone il benessere. La metafora di riferimento era: condurre la barca in porto.
Secondo Patone il re filosofo sarebbe stato la miglior soluzione, in quanto il filosofo guarda la
verità, che esiste ed è una, in contrapposizione alla molteplicità degli errori. Aveva anche fatto un
tentativo con Gerone di Siracusa, tiranno spietato e sanguinario, tentando vanamente di convincerlo
alla gestione filosofica del potere6.
Oggi la politica dovrebbe consistere essenzialmente nella scelta dei fini da perseguire, ed il
parlamento dovrebbe essere il luogo deputato per eccellenza alla discussione delle possibili opzioni.
I cittadini con le elezioni dovrebbero scegliere un programma, uno fra tanti, che sostituisce
temporaneamente la verità unica di un tempo. La democrazia si regge su questa visione, se la
6
In realtà il tiranno sanguinario con cui Platone ebbe a che fare fu Dionisio di Siracusa, che lo fece anche imprigionare.
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politica è unica diventa inutile votare, tanto vale affidare tutto ad un “tecnico”7. Quando il compito
da svolgere è unico ed obbligato la politica non ha più senso. Non c’è più spazio per l’ideologia
che, connotata ora in maniera negativa a seguito della storia del secolo scorso, era però all’origine
molto bella.
Quando alle elezioni aumenta l’astensionismo e si dice che sono tutti uguali, si intendono due cose:
 Che sono tutti ugualmente corrotti (qualunquismo).
 Che chiunque vada al governo non potrà che fare la stessa cosa, obbligata.
La seconda interpretazione è molto più profonda e disperata, implica che tutti dovranno adeguarsi
alla logica dell’uroboro, della società tripartita.
Lo stato una volta pagava i debiti battendo moneta, il che produceva inflazione, cioè una sorta di
tassa occulta che chiamava a contribuire tutti coloro che possedevano denaro.
Oggi questo
meccanismo non è più disponibile, lo stato ha perso la sovranità monetaria, trasferita alla BCE
(Banca Centrale Europea)8 che è un organismo non democraticamente eletto, e che si muove nella
logica dell’economia finanziarizzata.
Questo sistema ha bisogno della non-politica e predilige un governo di “tecnici” come Monti.
Compito dei governi, in questo sistema, è tenere i conti a posto, le possibilità di manovra sono
marginali (IMU). Se non ci devono/possono essere opzioni politiche, la conseguenza sono le
larghe intese, un perenne stato di necessità come unica prospettiva per l’avvenire.
Questa
maggioranza non fa scelte, si limita ai provvedimenti funzionali all’economia finanziarizzata. Ad
esempio in tempi recenti si sono portate all’attenzione pubblica due situazioni di emergenza che
avrebbero richiesto interventi adeguati: gli sbarchi a Lampedusa e la situazione di sovraffollamento
delle carceri.
Per gli sbarchi si è discusso a lungo ed animatamente di abolire il reato di
clandestinità, per le carceri di concedere un’amnistia (o indulto). Se ne è parlato animatamente per
una decina di giorni, e poi, passata l’ondata emotiva, si è accantonato il tutto senza decidere nulla.
La situazione delle larghe intese richiede che per le decisioni vi sia una quasi unanimità,
praticamente mai raggiungibile, mentre le decisioni si prendono solo per realizzare una volontà che
non è più nostra, che ci sovrasta. La necessità dell’unanimità porta a stasi politica, e quindi a
deperimento della democrazia.
7
Personalmente ho sempre considerato un abuso linguistico l’attribuzione della qualifica di “tecnico” a persone come
Monti o Amato. Un tecnico, dall’idraulico che ripara una conduttura all’ingegnere che progetta una macchina, è una
persona che si confronta con la realtà e risponde dei propri errori.
8
Qui non ho dati certi, ma credo addirittura che la BCE sia un organismo il cui pacchetto azionario è per la maggior
parte in mano a privati, come del resto la Banca D’Italia, posseduta da enti pubblici (e quindi dallo Stato Italiano) per
meno del 6% (si veda ad. Es. Wikipedia). Sarò grato a chi dovesse fornire notizie più accurate.
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1.2
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DIBATTITO9
Intervento 1 – L’intervenuto pone una domanda sullo stato della democrazia oggi in Italia. Da
Platone in avanti si è avuta grande ambiguità sulle definizioni di democrazia e sui termini che ne
descrivono le degenerazioni. Noi oggi viviamo in una democrazia in cui si è perso il collegamento
tra eletti ed elettori, inserita in una repubblica basata sul lavoro, ma da cui il lavoro si sta
allontanando. E’ ancora democrazia?
Commento – Sì, perché possiamo ancora porre domande come questa e prendere iniziative.
In Italia nella democrazia si è insediata una oligarchia, secondo un processo che è stato
studiato e che ricorre.
C’è una ferrea legge per cui il potere partecipativo tende a
restringersi. Il prof. Gianfranco Miglio10 (che lo Zagrebelsky definisce stimato ed amato
collega, sedotto dalla politica verso la fine della vita) aveva elaborato una teoria in base a
cui le democrazie si corromperebbero dopo un periodo di vita media di cinquanta
sessant’anni, quanto dura il processo di oligarchizzazione. La storia ne fornisce numerosi
esempi. Noi siamo ancora in democrazia, non è detto che siamo condannati. Sta ai giovani
partecipare, proporre, pensare.
9
10
Il dibattito è stato singolarmente breve perché il relatore doveva attenersi a limiti di orario non derogabili.
Gianfranco Miglio (1918-2011), giurista, politologo e politico italiano. Si veda ai Complementi.
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1.3
1.3.1
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COMPLEMENTI
MAX WEBER – L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO
E’ interessante notare che, ora che la finanza sta spodestando l’imprenditorialità, si riconoscono alla figura
dell’imprenditore quel ruolo e quella valenza di promotore di benessere e di sviluppo nell’ambito di un’etica rigorosa,
laddove la mistica della lotta di classe lo voleva nel ruolo di nemico, parassita e sfruttatore.
Il brano che segue è tratto da Wikipedia.
Nei due ponderosi saggi del 1904 e 1905 che poi furono pubblicati con il titolo complessivo L'etica protestante e lo
spirito del capitalismo si potrebbe intendere, a prima vista, che il protestantesimo, e in particolare il calvinismo, sia stato
all'origine del capitalismo moderno. In realtà Weber non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere
causato direttamente da un fenomeno religioso.
Mette invece in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando
che la prima fu una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile al formarsi della seconda. Del
resto anche l'uso del termine "capitalismo" associato a un fenomeno religioso del Cinquecento sarebbe improprio,
considerando che il sistema capitalistico è da riferirsi correttamente all'ambito della prima rivoluzione industriale della
metà del Settecento.
Ma Weber infatti, come chiarisce lo stesso titolo dell'opera, si riferisce allo "spirito" capitalistico, a quella disposizione
socio-culturale che, correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria
attività per generare nuove iniziative economiche.[1] Max Weber notava come i paesi calvinisti, come i Paesi Bassi,
l'Inghilterra sotto Oliver Cromwell e la Scozia, erano arrivati primi al capitalismo rispetto a quelli cattolici come la
Spagna, il Portogallo e l'Italia.
Si chiedeva quindi: se il capitalismo genuino è caratterizzato essenzialmente dal profitto e dalla volontà di reinvestire
incessantemente quanto guadagnato, questo atteggiamento ha una relazione con la mentalità calvinista? Questo
potrebbe spiegare il ritardato avvento del capitalismo nei paesi rimasti cattolici, rispetto a quelli in cui si diffuse la
Riforma? In tutte le società pre-capitalistiche l'economia è intesa come il modo per produrre risorse da impiegare per
fini non economici (produttivi): consolidare il potere od ottenere maggiore influenza politica, coltivare la bellezza
proteggendo letterati ed artisti (mecenatismo), soddisfare i propri bisogni (consumi) od ostentare tramite il lusso il
proprio status sociale.
Nello spirito capitalistico invece il conseguimento di questi fini legati a valori extra economici sono del tutto secondari
e trascurabili: ciò che importa è che il profitto sia investito e sempre crescente. Il capitalista vero è colui che ottiene la
massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé, non dai piaceri che il guadagno può procurare. Ma per
consolidare una tale mentalità, contraria alle tendenze "naturali", è stata necessaria, osserva Weber, una grande
rivoluzione socio-culturale: la Riforma protestante, la quale iniziò per finalità religiose ma che involontariamente favorì
il diffondersi della secolarizzazione (eterogenesi dei fini).
1.3.2
ADRIANO OLIVETTI – COMUNITA’
La figura di Adriano Olivetti ed il suo progetto sociale ed industriale stanno tornando di attualità, od almeno di moda,
come dimostra anche il recentissimo sceneggiato televisivo, pur nel suo modestissimo spessore. Il seguente articolo è
tratto dal Corriere della Sera, al sito:
http://archiviostorico.corriere.it/1997/gennaio/29/Adriano_Olivetti_mistico_che_non_co_0_9701297778.shtml
Quasi un duello a "Repubblica" sull'imprenditore di Ivrea scomparso trentasette anni fa Adriano Olivetti, il mistico che
non piaceva a Togliatti. Pampaloni: "Un idealista". Soavi: "Il Pci l'attaccò". Si torna a parlare di Adriano Olivetti,
l'imprenditore (scomparso ormai trentasette anni fa) che tentò di dar vita, nella sua Ivrea, a un capitalismo più umano; e
che fu anche, con le sue Edizioni di Comunità, animatore di un vivace dibattito culturale. Se ne torna a parlare, o
meglio a polemizzare, con un tormentone che va avanti da venerdi' scorso sulle pagine culturali di Repubblica. La
polemica è tra Geminello Alvi e lo storico Lucio Villari: il primo sostiene che Olivetti era anche e soprattutto un
mistico, e che i comunisti lo demonizzarono, non sopportando alcuna visione del mondo al di fuori della propria; il
secondo replica duramente, difendendo - nella sostanza - il Pci e accusando Alvi di parlare a vanvera, senza alcuna
conoscenza dei fatti. E' una polemica in (finora) ben cinque puntate, e non certo a colpi di fioretto. La riassumiamo
brevemente. Alvi comincia, appunto, venerdi' scorso, dicendo che "i comunisti paragonarono il mite Olivetti a Hitler e
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lo battezzarono patronalsocialista, fedeli al Pci dell'ipocrita Togliatti". Nello stesso articolo, Alvi definisce "fiammante
di mistica" il libro L'Ordine politico delle Comunità pubblicato da Olivetti nel 1946. Il giorno dopo, sabato, Lucio
Villari ironizza su questa "fiammante mistica" e nega l'ostilita' del Pci: "Olivetti fu a lungo esponente del Partito
socialista e i comunisti lo rispettarono sempre... Non mi risulta... che lo abbiano paragonato addirittura a Hitler. Da dove
ha tratto Alvi questa strana notizia?... Forse Alvi ha fatto un po' di confusione di testi". Nemmeno ventiquattr'ore di
tregua e riprendono i combattimenti. Domenica Alvi risponde a Villari e va giù pesante: parla di "concitazione
adolescente", dice che "Villari si scompone" e per ben due volte, papale papale, gli dà dell'ignorante. Ieri altri due
pezzi, uno per ciascun contendente. Villari, offesissimo, dice che quella di Alvi è "una replica ineducata e insolente,
guarnita da gravi insulti", che "introduce un metodo inusitato nella pagina culturale del nostro giornale". E insiste
riproponendo l'interrogativo: "Scusi Alvi, dove ha letto quelle cose?". Alvi cita articoli di giornali (comunisti) e libri, e
conclude: "Tutta la sinistra non comunista fu demonizzata, tormentata, calunniata dal Pci nel dopoguerra; si figuri la
Comunita' di Ivrea o le ingenuità mistiche e sociali di Olivetti". Insomma, toni al limite del duello. Ma, nella sostanza
dei fatti, chi ha ragione? Renzo Zorzi, segretario generale della Fondazione Cini di Venezia, che lavorò alle Edizioni di
Comunità, è talmente disgustato da questa polemica che preferisce non intervenire. E Giancarlo Lunati, attuale
presidente del Touring e per vent'anni dirigente dell'Olivetti, la pensa più o meno allo stesso modo: "Questo scambio di
accuse non mi è piaciuto. E non sto né con Alvi né con Villari. Adriano Olivetti non meritava questa piccola
polemica". Ma è vero o no che i comunisti lo demonizzarono? "Non lo hanno né demonizzato né esaltato. Ma è
sbagliato anche porsi questo problema di "schieramento.
Adriano Olivetti era un uomo veramente nuovo, un
personaggio anomalo, che stava fuori da qualsiasi schema.
Fuori dai partiti tradizionali, e fuori persino dalla
Confindustria. Secondo me, era un genio. E in questi cinque articoli il vero Adriano Olivetti io non l'ho mai trovato".
Si schiera invece, e senza esitazioni, lo scrittore Giorgio Soavi, che di Olivetti fu genero: "Ha ragione Alvi,
assolutamente. Villari è un professore comunista che continua a ragionare come se non ci fosse stata alcuna svolta, e in
questa polemica ci ha rimesso qualche penna". E spiega: "Olivetti era certamente un mistico, affascinato da Maritain,
Kierkegaard e Steiner.
Quanto ai comunisti, ricordo che quando alle Edizioni di Comunità pubblicammo
Testimonianze sul comunismo, e sulla nostra rivista apparve il racconto di Silone Uscita di sicurezza, Togliatti ci
attaccò con un articolo feroce sull'Unita". Più cauto Geno Pampaloni, che fu molto vicino ad Adriano Olivetti: "La
sinistra da un lato lo accusava di paternalismo per come gestiva l'azienda. Dall'altra, riconosceva che a Ivrea c'era più
libertà, ad esempio, che alla Fiat. Ma dire che lo paragonarono a Hitler mi sembra esagerato". Fu un mistico o un
imprenditore? Tutte e due le cose. Era cresciuto in un ambiente molto religioso e cercava di conciliare il capitalismo
con i suoi ideali. Ma aveva anche il pragmatismo del vero capitano d'industria".
Brambilla Michele
1.3.3
DALL’IMPRENDITORIALITA’ ALLA FINANZA
La transizione dalla fase imprenditoriale alla fase finanziaria speculativa non è un fatto ineluttabile ma è la
conseguenza di una dialettica sociale e di iniziative politiche in parte note ed analizzabili.
Seguono alcune
informazioni pertinenti, dal sito. http://scenarieconomici.it/capire-la-crisi-la-legge-glass-steagall/.
Le stesse
informazioni, anche se espresse in modo leggermente meno chiaro, si possono trovare su Wikipedia (ed in numerosi
altri siti).
La situazione attuale non è una novità: già nel 1920 la speculazione finanziaria drogò l’economia negli Stati Uniti,
ottenendo temporaneamente uno sviluppo abnorme (i ruggenti anni venti) e portando poi in 8 anni alla grande
depressione e mettendo in ginocchio, all’inizio del 1933, numerose banche statunitensi. Si scatenò, in seguito alle
sofferenze di diverse banche, il panico finanziario e si formarono file di correntisti che ritiravano i risparmi agli
sportelli. Allora il Congresso degli Stati Uniti ed il presidente Franklin Delano Roosvelt risposero con decisione:
chiusero le banche per 4 giorni durante i quali, tramite la commissione Pecora (presieduta dall’italo americano Pecora,
donde il nome), si effettuò la separazione tra le attività speculative e quelle inerenti la normale attività bancaria.
Quindi presero due misure risolutive:
- la prima fu l’istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) con lo scopo di garantire i
depositi e prevenire il panico della corsa allo sportello.
- La seconda fu l’introduzione di una netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria
d’investimento mediante il Glass-Steagall Act.
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Lo scopo di questo provvedimento era di evitare che un fallimento di una banca speculativa coinvolgesse anche le
banche tradizionali, che si basano sulla raccolta dei risparmi della clientela, esponendo così l’economia reale ai danni
provocati da eventi negativi strettamente finanziari.
La Glass-Steagall permise un lungo periodo di andamento regolare dei mercati, sino al 1999 quando Bill Clinton, su
forti pressioni delle lobbies bancarie, la sostituì con la Gramm-Leach-Bliley Act, revocando la separazione tra le attività
bancarie, ma non la FDIC e quindi estendendo di fatto la garanzia dello stato ai debiti finanziari!11
E’ così nata e si è progressivamente gonfiata in modo abnorme un’economia finanziaria senza più alcuna
corrispondenza con la realtà materiale, sino ad arrivare grazie a meccanismi di leverage ad una massa monetaria virtuale
pari a oltre 12 volte il pil mondiale di un anno!
A seguito di questo fatto nel 2007 si è verificata la grave insolvenza nel mercato dei mutui subprime che ha scatenato
una forte crisi di liquidità nel sistema bancario con le gravissime conseguenze sull’economia reale, che tutti noi ormai
giornalmente sperimentiamo.
In pratica le banche esposte in questi titoli tossici, che promettevano altissimi
rendimenti, per non fallire stanno tentando di coprire le enormi perdite conseguenti alle speculazioni sbagliate
prelevando la necessaria liquidità dall’ economia reale.
Ma, come detto sopra, questa non è assolutamente sufficiente a causa dell’ enormità della massa debitoria in gioco, per
cui assistiamo negli Stati Uniti alla produzione e distribuzione di denaro alle banche senza alcun limite (il capo della
FED è soprannominato Helycopter Ben per la sua distribuzione di denaro a pioggia) e in Europa, da parte della BCE di
Draghi, al finanziamento illimitato del deficit, effettuato bypassando le regole istitutive della stessa BCE, mediante l’
emissione di buoni del tesoro all’ 1% che vengono prestati alle banche, le quali in tal modo coprono le loro perdite e si
finanziano a basso costo.
Purtroppo questo sistema svuota la liquidità destinata all’economia reale e quindi assistiamo qui in Italia, al Credit
Crunch che affligge privati e imprese, in specie le medie e piccole, ottenendo in pratica l’ inasprimento della recessione
già in atto con il peggioramento di tutti gli indici economici, dal tasso di disoccupazione (dall’ 8 all’ 11,7%) alla
diminuzione del PIL (- 2,7%) alla produzione industriale (-7,8%), con gravissime conseguenze per il tessuto economico
tutto.
Molti tra gli analisti più ascoltati (es N. Roubini) pronosticano un collasso di questa bolla finanziaria ed in particolare il
fallimento del sistema Euro e asseriscono che “stiamo solo comprando tempo” e mentre ciò avviene, vediamo crollare il
ns tenore di vita ed il ns benessere. (Ad es. il Welfare per cui tanto negli scorsi decenni si è combattuto viene a mano
mano svuotato: per non citare i provvedimenti attuati nel mercato del lavoro e in campo pensionistico, ricordiamo
l’asserzione del sig Monti che anche la Sanità non potrà più essere gratuita come oggi).
Come è facilmente comprensibile, questa strada non ha sbocchi positivi: la bolla speculativa si sta ingrossando sempre
più e sta precipitando a rotta di collo verso una crisi iperinflattiva che potrebbe portare ad un crollo mondiale
dell’economia reale.
Questo avviene con la complicità di governanti messi a capo degli stati in modo non democratico, senza il consenso dei
cittadini elettori. Questi governanti, specie in Europa, hanno varato provvedimenti di tutela delle banche stesse a
discapito del contribuente. Vedi i meccanismi cosiddetti salva-stati mediante i quali le banche in crisi vengono salvate
dalla BCE o dal FMI (fondo monetario internazionale), ma non direttamente, poiché queste potrebbero fallire, bensì
tramite gli Stati, che in tal modo si rendono garanti del pagamento di somme prestate con interessi a carico del
contribuente.
Non per nulla i vari Papadimos in Grecia, Monti in Italia e Draghi per la BCE sono esponenti della banca d’affari
americana Goldman Sachs, pesantemente impegnata in queste attività speculative.
Per uscire da questa situazione, il primo passo da compiere è ripristinare la separazione tra banche speculative e banche
tradizionali, salvando queste ultime dai contraccolpi della finanza speculativa ed obbligando le prime, nel caso di
operazioni sbagliate a pagarne il costo direttamente senza ribaltarlo sulla collettività.
Giorgio Tasca
11
Mi risulta che per quanto riguarda l’Italia, l’abrogazione sia avvenuta addirittura prima, ed in due tempi, con leggi di
Amato (1992) e di Draghi (1998). Saro grato a chi volesse/potesse fornire ulteriori informazioni.
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Appunti dalle conferenze
a cura di Danilo Cambiaghi
NOESIS – BERGAMO
INCONTRI di FILOSOFIA
GUSTAVO ZAGREBELSKY
2013 - 2014
ENERGHEIA
POTERE - DENARO
Per un discorso più articolato si veda il libro Uscita di Sicurezza di Giulio Tremonti, 2012, Rizzoli Editore.
1.3.4
GIANFRANCO MIGLIO
I brani che seguono sono stati tratti dal sito dell’Enciclopedia Treccani.
Politologo e storico, nato a Como l'11 gennaio 1918. Laureatosi in giurisprudenza, allievo di G. Balladore Pallieri e di
A. Passerin d'Entrèves, nel 1956 divenne ordinario di Storia delle dottrine politiche, nella facoltà di Scienze politiche
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, della quale è stato preside dal 1959 al 1989; ha insegnato in seguito
Scienza della Politica presso lo stesso ateneo.
Il suo interesse per la storia delle istituzioni, che si è accentuato agli inizi degli anni Sessanta ma che si rintraccia già nei
primi lavori sul concetto di stato nella Grecia arcaica, sulla nascita dello stato nel Medioevo e nella ricerca sul termine
'stato' nel senso moderno dell'espressione, si concreta in modo specifico nella storia dell'amministrazione. Questa è
intesa, secondo la lezione weberiana, come ricerca delle primarie strutture istituzionali e come analisi della loro
evoluzione e trasformazione, compiute con rigore oggettivo. Si ricorda a tal proposito, che M. ha creato e diretto un
istituto di ricerca, la Fondazione Italiana per la Storia Amministrativa (FISA), di cui gli Acta Italica, l'Archivio della
Fondazione italiana per la storia amministrativa, gli Annales FISA, la Bibliografia periodica sistematica internazionale
di storia amministrativa hanno costituito la produzione più significativa.
Negli studi di scienza della politica, nei quali M. appare spaziare tra la ricerca della ''regolarità'' della politica (cioè le
costanti di lungo periodo) e l'indagine sulla specificità dell'esperienza occidentale, spiccano quelli dedicati all'analisi del
sistema politico italiano e della sua crisi. Nei lavori sullo stato ha un certo peso una specifica tradizione politica
cattolica − nella sua versione se non forse più immediatamente antistatalistica, certamente meno incline alla concezione
statocentrica più eminentemente laica − che sovente lo ha posto in contrasto con la storiografia liberale. M. riesamina
criticamente le modalità di realizzazione e di costruzione dello stato nazionale in senso centralistico, considerando
derivati da quel processo i mali presenti nella vita italiana.
Negli anni Sessanta M. preannuncia le sue tesi favorevoli al federalismo e negli anni Ottanta s'inserisce nel dibattito
divenuto sempre più serrato sui problemi della riforma dello stato. Attraverso il Gruppo di Milano, nel quale hanno
lavorato anche studiosi di orientamento diverso dal suo, M. ha formulato proposte e soluzioni tecniche d'ingegneria
costituzionale che affiancano l'elezione delle Assemblee rappresentative alla scelta popolare diretta del capo del
Governo. Convinto assertore della necessità di modificare la Costituzione italiana, M. ritiene che ciò possa avvenire
soltanto mediante la rottura, anche violenta, con il sistema precedente e quindi in radicale opposizione con
l'orientamento prevalente sia in sede politica sia in sede scientifica.
Lasciato l’insegnamento universitario, nel 1988, l’ultima fase della vita del M., quella che lo portò a diventare un
personaggio assai noto anche presso il largo pubblico, fu segnata dall’avvicinamento al movimento leghista,
dall’impegno politico-parlamentare e da una strenua battaglia a favore del federalismo.
Nel Movimento Lega Nord, dopo le delusioni degli anni precedenti, egli vide una forza politica nuova e radicale,
popolare e ideologicamente motivata, estranea ai tradizionali giochi di potere, in grado perciò di imprimere una spallata
decisiva a un regime politico che egli giudicava in crisi irreversibile e al suo interno profondamente corrotto.
Pur senza aderire formalmente alla Lega, il M. accettò di candidarsi al Senato come indipendente nelle sue file, dove
venne eletto nelle legislature XI (aprile 1992-aprile 1994) e XII (aprile 1994-maggio 1996). Ma i contrasti insorti ben
presto con il leader leghista U. Bossi, che non ne appoggiò la nomina a ministro per le Riforme istituzionali nel primo
governo Berlusconi (maggio 1994), lo spinsero a una traumatica rottura, che avrebbe raccontato in un caustico libretto
apparso nel settembre di quello stesso anno (Io Bossi e la Lega: diario segreto dei miei quattro anni nel Carroccio,
Milano). Dopo l’allontanamento dalla Lega, nel 1995 diede vita al Partito federalista, del quale fu presidente.
L’alleanza con il Polo delle libertà gli consentì di essere nuovamente eletto al Senato per la XIII legislatura (maggio
1996-maggio 2001).
In questo periodo, segnato da un non facile equilibrio tra analisi scientifica e impegno politico militante, la sua antica
polemica contro lo Stato unitario e accentratore lo portò a sostenere la legittimità della rivolta fiscale e della
disobbedienza civile e a farsi paladino di un modello federale di matrice contrattualistica che prevedeva, sull’esempio
dei cantoni svizzeri, la divisione dell’Italia in alcune grandi aree macroregionali e la nascita di una forma di governo di
stampo «direttoriale». Una prospettiva istituzionale e una battaglia politica talmente radicali da accentuare la sua
antica fama di studioso eccentrico e solitario.
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Appunti dalle conferenze
a cura di Danilo Cambiaghi
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GUSTAVO ZAGREBELSKY
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POTERE - DENARO
Il M. morì a Como il 10 ag. 2001.
La vasta produzione scientifica del M. si trova raccolta nei due volumi Le regolarità della politica, Milano 1988; quella
pubblicistica si può leggere nel volume Il nerbo e le briglie del potere. Scritti brevi di critica politica (1945-1988), ibid.
1988. Per le sue proposte di riforma costituzionale si vedano Una Repubblica migliore per gli Italiani, ibid. 1983 e il
libro-intervista, a cura di M. Staglieno, Una Costituzione per i prossimi trent’anni, Roma-Bari 1990.
Fonti e Bibl.: Multiformità ed unità della politica, a cura di L. Ornaghi - A. Vitale, Milano 1988; G. Ferrari, G. M.
Storia di un giacobino nordista, Milano 1993; A. Campi, Schmitt, Freund, M. Figure e temi del realismo politico
europeo, Firenze 1996, pp. 113-148; C. Lottieri, Indagine su G. M., in Élites, 2001, n. 2, pp. 28-35; A. Vitale,
L’attualità di un gigante scomodo per la politica, ibid., n. 3, pp. 4-10; D. Palano, Geometrie del potere. Materiali per la
storia della scienza politica italiana, Milano 2005, pp. 289-450; G. Di Capua, G. M. scienziato impolitico, Soveria
Mannelli 2006; P. Schiera, Il problema dello «Stato» e della sua modernità. G. M. dalla storia alla scienza politica,
introduzione a G. Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto «Stato», Brescia 2007, pp. 5-38; L. Ornaghi,
Nell’autunno del jus publicum europaeum: G. M. e la politica internazionale, introduzione a G. Miglio, La controversia
sui limiti del commercio neutrale, Milano 2009, pp. V-XL.
A. Campi
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a cura di Danilo Cambiaghi
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