Dal supplice libello 'Maria Borgato'
del postulatore don Giuseppe Magrin
Note biografiche di Maria Borgato
Maria nacque il 7 settembre 1898 a Saonara (Pd), figlia di Rosa Pagnin e di Borgato Antonio.
Fu battezzata col nome di Luigia Maria Pulcheria Borgato dei Soti. Ben presto fu chiamata più
semplicemente “Maria”, benché nella Carta di Identità figuri soltanto col nome di Luigia.
Fu la maggiore di quattro fratelli: Luisa, che nacque nel 1900, Agnese, nel 1902 e Giovanni, nel
1905. La sua era una famiglia di contadini, povera come tante altre, ma molto generosa e ospitale con
chi stava in miseria.
Gli altri dati sono quelli di una “donna qualsiasi”, vissuta nel tessuto paesano dell’epoca. Nessun
fatto eccezionale o eclatante che la distinguesse da altre ragazze del paese, o meglio, della Parrocchia.
Maria risulta non colta, non affascinante, con un lavoro modesto di ricamatrice e di sarta.
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Di corporatura gracile, claudicante fin dalla nascita per una lussazione all’anca che si tentò di
operare a 5 anni, senza successo, Maria Borgato aveva un carattere riservato, con una presenza discreta,
mai di primo piano. Sarebbe passata inosservata se non si fosse colta da parte di tutti, in famiglia e in
parrocchia, una vita straordinaria di fede “integrale”, di speranza tutta evangelica e di carità così
altruisticamente operosa da dedicarsi pienamente ai più bisognosi o ai più in pericolo di vita, rischiando
lei stessa la vita. E lo faceva con coscienza lucida e in piena libertà.
Visse, infatti, in un’epoca di forti contrasti politico-sociali che sfociarono, prima nella grande
guerra (1915 – 1918) e successivamente in una delle più aberranti guerre della storia dell’umanità: la
seconda guerra mondiale. E fu proprio in quest’ultima che Maria fu coinvolta direttamente e
tragicamente.
Infatti, fu una delle seicento donne italiane catturate e deportate nel Campo di concentramento
tedesco di Ravensbrük, dove finì probabilmente nel forno crematorio.
Maria morì a soli 46 anni, l’anno 1945. Purtroppo non conosciamo con esattezza né il giorno, né
il mese della “cremazione” da parte delle SS.
Le sue lettere dalla prigionia ci dicono come fosse sorretta da una fortissima fede e da un non
comune coraggio cristiano che non temiamo definire autentico eroismo; e ciò rivela quale fosse la sua
vita interiore fatta di dedizione e di scelte a lungo termine che lei amava non manifestare, sul modello
della Vergine di Nazareth, “che conservava tutto nel suo cuore”.
Nelle poche lettere che Maria scrisse, quasi tutte dal carcere, emergono con chiarezza quei valori
spirituali di fede e carità cristiana che ha sempre cercato di infondere agli altri, con una testimonianza
molto forte, ma lineare e discreta.
Ciò che colpiva chiunque l’avesse conosciuta, e che la faceva apparire veramente grande, era la
sua bontà d’animo; più di un testimone l’ha definita: “immensa”. Si capiva che doveva essere
alimentata da una grande forza interiore, che derivava dai valori in cui credeva. E ciò spiegava il suo
incredibile dinamismo.
A dire il vero, fin dall’adolescenza Maria desiderava farsi suora, possibilmente in una
Congregazione missionaria, non escludendo neppure la possibilità d’essere monaca contemplativa in un
Monastero. Ma, per quella sua lussazione all’anca che la costringeva a claudicare, non fu accettata da
nessuna Congregazione e da nessun Monastero cui si rivolse. Allora gli istituti religiosi non
accettavano aspiranti con menomazioni fisiche.
L’incontro personale con Cristo era divenuto così esigente da spingerla a consacrarsi comunque e
a leggere anche nelle difficoltà, la volontà di Dio e i segni della sua vocazione. Pensò allora ad una
consacrazione personale e poi nella Compagnia di Sant’Orsola fondata da Sant'Angela Merici nel 1535
a Brescia e che allora era un Istituto Secolare ante litteram, proponendo ai suoi membri una
consacrazione vissuta nella vita ordinaria dei laici. Maria fu accettata nella Compagnia di Padova e qui
fece il suo cammino di formazione che la portò alla consacrazione a vita, godendo della stima e
dell'affetto di tutti.
Visse così da “consacrata in famiglia”. In questa maniera, poté realizzare quella piena donazione
a Cristo che desiderava vivere unita a un pieno inserimento nella vita cristiana e sociale della sua gente,
coniugando insieme, secondo il carisma di Sant'Angela, azione e contemplazione.
Le sue giornate erano lunghe e faticose; fatte di preghiera, di sacrificio, di intenso lavoro che poi
era in gran parte dedicato agli altri, nella gratuità più spontanea.
Servire il prossimo con umiltà, soprattutto i più bisognosi, era lo scopo principale della sua vita,
perché nel prossimo vedeva e incontrava Gesù.
Le umiliazioni e le privazioni non l’hanno mai piegata. Per tutta la vita ha saputo tacere più che
difendersi ed anche per questo, dopo una “delazione anonima” da parte di nazifascisti in quanto aiutava
anche militari delle forze alleate a fuggire verso la Svizzera, fu arrestata, imprigionata e poi mandata a
morire in Germania.
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Una frase, da una delle sue ultime lettere, può essere una significativa sintesi dell'eroicità nel
vivere il Cristo e, con Lui, dedicarsi al prossimo a rischio della vita: “ non datevi pena per me, la mia
vita l’ho votata a Dio perciò il soffrire è per me un vantaggio che vedrete in cielo”.
Testimonianze su Maria Borgato
La testimone che più di tutti visse accanto a Maria fu la nipote, Delfina, figlia di Giovanni, il
fratello di Maria. Ha conosciuto la zia meglio di altri avendo trascorso con lei gli anni dell’infanzia,
della giovinezza e parte del periodo di detenzione nel 1944. Delfina vive tuttora; è anziana ma ancora
lucida nei ricordi.
La sua testimonianza è stata raccolta e pubblicata, assieme a quelle di altre persone, nel volume
dal titolo: Maria, una vita firmata dono, biografia realizzata per interessamento della Compagnia di
Sant’Angela Merici di Padova (E. Zatta ed. Cleup).
Delfina descrive così la sua esperienza con zia Maria.
Nel 1927 nacqui io, la prima nipote. Fui battezzata con il nome di “Delfina” in onore della
sorella della nonna che si era fatta suora.
Maria si affezionò subito a me anche perché le fui affidata per permettere a mia madre Emilia di
seguire gli uomini nel lavoro dei campi, cosa che lei non poteva fare essendo di gracile costituzione.
Dopo qualche anno, vennero a mancare prima il nonno di Maria e poi anche sua mamma Rosa.
In famiglia intanto, aumentavano i nipoti. Maria, per ragioni di spazio, chiese ed ottenne da mia
mamma, di farmi dormire in stanza con lei; iniziammo così ad approfondire il nostro legame.
Maria cominciò presto ad insegnarmi le preghiere e a raccontarmi la vita dei Santi.
All’avvicinarsi del Natale, prese a spiegarmi chi fosse Gesù e di come fosse obbediente ai suoi
genitori, io dovevo prendere esempio da Lui.
A quel tempo non c’erano molte possibilità economiche, gli adulti si preparavano al Santo
Natale andando in chiesa per la novena, aiutavano il parroco a preparare il presepio ed il giorno di
Natale era festa grande: ci si riuniva tutti da noi, famigliari e parenti; c’era sempre qualche persona
sola o qualche bambino più povero di noi e con loro si divideva il poco che c’era.
Spesso Maria andava a far visita a qualche persona ammalata e bisognosa, cercando di aiutarla
come poteva.
Appena fui un po’ più grandicella, iniziò a portarmi in chiesa con lei e mi spiegava cosa
significasse la Santa Messa; mi teneva vicina, mi sussurrava che sull’altare scendeva Gesù e mi
diceva: noi non lo vediamo, ma Lui è lì che ci guarda e ci ascolta e quando il sacerdote alza la
Particola occorre pregare così: “Signore mio e mio Dio!”.
Mi spiegava che Dio è in cielo, ma che scende tutti i giorni sui nostri altari per essere sempre
vicino a noi.
Ella mi suggeriva anche, per chi si doveva di volta in volta pregare. Mi ha insegnato a pregare
per gli altri, ad esempio per la farmacista che aveva dei problemi. Mi ha sempre aiutata nella
preparazione e nel ringraziamento dopo la comunione.
Alla sera, in casa non c’era corrente elettrica, la zia pregava al lume di candela. A volte si
addormentava, allora io la invitavo ad andare a letto, ma lei, fedele ai suoi impegni, non si coricava se
prima non aveva terminato le sue preghiere.
Quando al mattino non volevo alzarmi per andare a Messa con lei, mi faceva delle promesse per
convincermi; una di queste era che a Natale Gesù sarebbe nato anche a casa nostra perché lei avrebbe
provveduto a fare il presepio. Fedele alla promessa, con i pochi risparmi che aveva, comperò un
Bambin Gesù e lo depose sulla credenza con un po’ di paglia. Noi bambini (eravamo diventati tre)
passando davanti dovevamo mandare i bacini a Gesù e fare il segno della croce; ci spiegava che Gesù
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era nato povero e voleva vivere con noi e dovevamo volerGli bene per farlo rimanere sempre con noi,
nel nostro cuore; quello fu il primo presepe di casa nostra.
Maria si dedicava con passione all’insegnamento del catechismo e tutti gli anni preparava i
bambini alla prima comunione. Allora mi portava con sé, anche se non avevo ancora l’età, così piano
piano iniziò a preparare pure me. Promettendo che si sarebbe presa lei l’impegno di seguirmi, convinse
il parroco ad ammettermi alla Prima Comunione a soli cinque anni.
A quel tempo Maria frequentava la Compagnia di Sant’Orsola fondata da Sant’Angela Merici e
ne osservava scrupolosamente la Regola.
Alcune volte, partecipavo con lei, agli incontri per le figlie di Sant’Angela, che si tenevano a
Liettoli di Campolongo Maggiore (VE), un paesino poco lontano dal nostro.
Qui c’era un gruppetto di figlie di S. Angela che si riunivano una volta al mese per incontri di
formazione umana e spirituale e ricevevano le intenzioni comuni di preghiera per tutto il mese
successivo.
Lei si recava a Liettoli a piedi, in quanto la lussazione all’anca non le consentiva di andare in
bicicletta.
Sono andata con lei qualche volta anche a Padova, nella sede delle Orsoline, che mi preparavano
la cioccolata.
Ricordo Maria come una persona serena e disponibile con tutti.
Rivolgeva una particolare attenzione alla sorella rimasta vedova, con cinque bambini piccoli; lei
la aiutava più che poteva. Quando i nipotini venivano da noi, li faceva dormire nel suo letto e questi
ancora se la ricordano.
A volte, di nascosto, portava il latte, senza farselo pagare, ad una vicina di casa, ragazza madre,
che aveva una figlia con problemi; di nascosto perché in casa, essendo in tanti, non poteva disporne a
suo piacimento.
Al nuovo cappellano di Saonara, don Antonio, che mancava di tutto, Maria ha voluto regalare
una confezione di fazzoletti con ricamate le iniziali del nome; era tutto quello che poteva fare, date le
ristrettezze economiche in cui vivevamo.
Spesso si metteva a disposizione del parroco: ricamava le tovaglie per gli altari o puliva la
chiesa.
Faceva tutto volentieri, anche se il parroco mai capì la sua scelta di consacrarsi restando nel suo
ambiente di vita; lei però nemmeno si era accorta di questo e l’ha sempre considerato un padre
spirituale.
In paese, nel 1919, una nobildonna, la contessa Pia di Valmarana, donna sensibile ed
intraprendente, fondò una scuola di ricamo e di merletti di Burano per dare la possibilità ad alcune
ragazze del paese, di guadagnare qualche cosa.
Maria entrò a far parte di quel gruppo; c’era un orario fisso di lavoro per ricamare, soprattutto
corredi per la dote e tovaglie che venivano ordinate. Persino il Vescovo di Venezia si serviva delle
ricamatrici della Contessa per abbellire chiese importanti.
In casa Maria aiutava come poteva: la giornata dei contadini iniziava alle cinque del mattino, gli
uomini nelle stalle e le donne ad allevare galline e maiali, poi la colazione e, per i bambini la scuola.
Maria aveva il compito di portare il latte ad alcune famiglie del paese, mansione che compiva
prima di recarsi in chiesa e spesso l’accompagnavo anch’io. Durante il percorso, ogni tanto, sostavamo
perché dovevamo consegnare il latte a diverse famiglie, per questo partivamo da casa molto presto.
Quando partivamo da casa, facevamo il segno della croce e recitavamo il Santo Rosario che
puntualmente finivamo all’arrivo in chiesa anche perché il tragitto era lungo e disagiato. Le ero molto
affezionata: dividendo la camera con lei, parlavamo di tutto. Lei era per me una guida ed un sostegno.
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Un giorno che mi servivano i colori per la scuola e la mamma non si decideva mai a
comprarmeli, anche perché la mia famiglia non era benestante seppure il cibo non mancasse mai, la
zia, dal cuore grande, me li comprò con i suoi risparmi.
Tutto procedeva normalmente fino all’inizio della guerra, allora cominciarono nuove privazioni
e sofferenze; i giovani furono chiamati a fare il servizio militare e poi spediti al fronte, a casa
rimanemmo noi donne, i vecchi e i bambini.
Le famiglie contadine si occupavano del lavoro nei campi e delle stalle dalla mattina alla sera.
Maria cercava di rendersi utile nei lavori di casa e a tenere i miei fratellini che erano diventati
nove, così mia madre, come gli uomini, poteva lavorare nei campi.
Un giorno mio fratello Graziano si ammalò di difterite; c’era il pericolo del contagio per tutti gli
altri e quindi il dottore voleva portarlo all’ospedale o metterlo in quarantena.
Maria, vista la gravità del caso, si offrì di rimanere con lui, in isolamento assistendolo
amorevolmente, per tutto il tempo necessario alla guarigione, cioè quaranta giorni, evitando il ricovero
al lazzaretto! Anche Maria doveva fare delle iniezioni a scopo di prevenzione, allora per pudore
imparò a farsele da sola.
La guerra continuava tra stenti e sacrifici per tutti, mancavano molte cose e per certe famiglie,
mancava pure l’indispensabile, così nella nostra famiglia c’era sempre qualcuno da aiutare perché più
povero.
Una cugina del bisnonno dopo la morte del marito era rimasta sola e senza mezzi per vivere, così
i genitori di Maria l’accolsero in casa con loro e Maria l’aiutò sempre nelle sue necessità fino alla
morte.
Oltre a questa zia (così la chiamavano) c’era pure un’altra donna, poverissima, di nome Pina, che
viveva di elemosina per sé e per i vecchi genitori: una volta alla settimana, il giovedì, a pranzo c’era
un posto anche per lei e quando se ne andava, riceveva sempre qualche cosa da portare ai genitori.
In quel periodo zia Maria ci fece una sorpresa: tornata da un viaggio a Padova, ci offrì dei
confetti e disse: “Oggi è la mia festa, ho fatto i voti e quindi, sono diventata suora a tutti gli effetti!”
In realtà, Maria si era già consacrata a Dio in giovane età - nel 1920 - con il vincolo giuridico
della “promessa” prevista dalla Compagnia di S. Orsola di Padova ma, solo al compimento dei
quarant’anni era possibile emettere il “ voto” di castità. Questa è la festa a cui si riferisce Maria.
Padre Gino Pastore, da parecchi anni missionario comboniano in Mozambico, dello stesso paese
di Maria, durante un’omelia nella chiesa di Saonara, disse: “ I Santi non sono solo quelli che hanno
ricevuto gli onori degli altari, ma anche quelli che, come Maria Borgato, hanno dato prova di santità
con le loro azioni quotidiane”.
Attività in favore dei prigionieri inglesi, arresto e prigionia
A Saonara, c’era la ditta Sgaravatti che, prima della guerra dava lavoro a molti uomini nei vivai.
Coltivavano piante di ogni tipo e sementi; con la guerra venne a mancare la manodopera, così chiesero
allo stato di poter utilizzare i prigionieri inglesi nel lavoro dei campi.
Erano circa centoventi, in gran parte sudafricani. Catturati in Africa, furono deportati in Italia e
secondo un accordo italo-tedesco, vennero costretti a lavorare sotto sorveglianza nella boaria
Sgaravatti, come contadini. Erano trattati bene e all’interno del “campo” godevano di una certa libertà.
La domenica potevano assistere alla S. Messa nella vicina chiesa parrocchiale.
La gente del paese li rispettava, si avvicinava a loro senza timore e facendo amicizia, dal
momento che lavoravano insieme.
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Tutto ciò fino all’8 settembre 1943, giorno della pubblicazione dell’Armistizio (la firma è
avvenuta il 3 settembre a Cassibile).
Noi contadini, ignari del significato politico di questo “armistizio”, ci illudemmo che la guerra
fosse finita, invece iniziarono per tutti i veri guai.
I nostri soldati, rimasero senza guida. Tutti scapparono per raggiungere le proprie case
affrontando pericoli e disagi di ogni genere, sempre ricercati dai fascisti e dai tedeschi. Così pure i
prigionieri inglesi si trovarono senza più sentinelle, liberi di scegliere loro stessi il da farsi.
All’inizio, euforici perché liberi, essi andavano di casa in casa con la cioccolata, il te, ecc… poi
le provviste finirono. Cercarono di nascondersi tra i vigneti e i campi di granoturco, sperando che le
cose si risolvessero in pochi giorni, invece purtroppo, la situazione peggiorò sempre più e ben presto si
trovarono senza cibo e senza un ricovero per la notte. Iniziarono così ad avvicinarsi alle case a
chiedere aiuto.
Una delle poche case in mezzo agli alberi e nascosta, era quella nostra. Fu da noi che bussarono i
primi giovani sbandati chiedendo asilo.
Maria, presa da compassione, tese la mano e cominciò ad occuparsi di loro. Cercava di aiutarli
come poteva, ma le difficoltà erano tante: i tedeschi e i fascisti, perquisivano le case, le stalle e i fienili
del paese. Arrivò la brutta stagione ed a questi prigionieri mancava proprio tutto: vestiario, medicine,
cibo, ecc..
Con l’inverno, le difficoltà aumentarono. Alcuni prigionieri chiedevano riparo per la notte, allora
mio padre Giovanni lasciava una scala appoggiata al fienile perché, a tarda sera, si rifugiassero nel
fienile andandosene via alla mattina.
Benché preoccupate di venire scoperte, altre famiglie del paese facevano lo stesso. La situazione
però si faceva veramente pericolosa; i tedeschi erano sempre più presenti a tutte le ore con controlli e
perquisizioni. Con dei proclami avvertivano che, se avessero trovato prigionieri in casa, l’avrebbero
incendiata ed imprigionato gli uomini
Nel mese di ottobre del 1943 arrivò in paese il Comando tedesco che mise una taglia di 1.800
lire - circa 1.000 euro attuali - a beneficio di chi denunciava o consegnava un prigioniero alleato).
Avevamo paura perché sapevamo di essere controllati ma, nonostante ciò, si continuava.
Ciò nonostante la zia dette testimonianza dei valori in cui credeva: una volta cedette il letto ad
un prigioniero perché malato e ad una ispezione tedesca, questi fece appena in tempo a scappare.
La zia andava dalle persone benestanti, come le sorelle Sgaravatti, per chiedere cibo e vestiario
per i prigionieri, o da Patrizia, l’amica farmacista che le dava medicine e sciroppi.
Anche se la vita diventava sempre più dura e le famiglie erano sempre più a rischio (i fascisti
dispensavano botte e facevano bere olio a chi non era iscritto al loro partito), la zia continuava ad
aiutare queste persone, ed io la seguivo in questo. Era sempre in cerca di soluzioni, finché, tramite
un’impiegata della prefettura di Padova, di nome Elsa, ebbe l’occasione di incontrare un gruppo di
studentesse di Padova: Teresa e Liliana Martini collegate al gruppo FraMa ( iniziali di Franceschini –
Marchesi) che, oltre degli ebrei, si interessava del salvataggio dei soldati alleati, braccati dai
nazifascisti, dal barbone affamato all’ufficiale inglese in fuga .
Il gruppo faceva capo alle sorelle Martini, sotto la regia di Armando Romani, con le quali si
accordò per cercare di far espatriare gli ex prigionieri.
Le Martini erano guidate da un frate della basilica del Santo, padre Placido Cortese, il quale
procurava le carte d’identità falsificate con le foto che erano prese dagli ex voto del Santo.
Si facevano dei viaggi per portare gli inglesi al confine con la Svizzera vicino a Como, passando
per Milano.
Maria ed io avevamo il compito di accompagnarli fino alla stazione di Padova.
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Questi uomini però, dovevano essere vestiti decentemente e istruiti nel caso fossero stati
scoperti. Maria da sola non riusciva più a provvedere a tutto, quindi si faceva aiutare da me, ormai
sedicenne.
Ci fu un’occasione in cui un gruppo di cinque prigionieri era pronto per partire, ma uno di loro
era malvestito e dava nell’occhio, allora Maria riuscì a convincere, con molta pazienza, mia madre, a
regalare il vestito da sposo del marito Giovanni!
Di solito la partenza da Saonara avveniva dopo la mezzanotte e l’arrivo alla stazione ferroviaria
di Padova era previsto per la mattina presto; il viaggio era estenuante e pericoloso. C’era il coprifuoco
e non si poteva accendere il faro della bicicletta, si camminava al buio pesto e in silenzio per paura di
incontrare qualcuno che poteva essere un nemico pronto a tradirci.
Maria andava avanti con due, tre giovani ed io la seguivo con gli altri sempre facendo attenzione
al più piccolo rumore.
Consegnati i prigionieri si tornava a casa a riprendere il lavoro di sempre, io a scuola di sarta,
Maria a ricamare dalla Contessa.
Ad un certo punto mia madre, temendo per la sorte della famiglia chiese a Maria di smettere,
Maria rispose: ”Forse, un giorno anche i tuoi figli andranno per il mondo e potranno trovarsi in una
situazione simile: non saresti contenta che fosse fatto per loro quello che si fa ora, per questi
poveretti?”.
Portammo in salvo una trentina di inglesi, ma i rischi aumentavano di giorno in giorno: la
minaccia dei tedeschi di bruciare la casa e di arrestare il capo famiglia, spaventava molto noi e le altre
famiglie, tanto che si decise di sospendere gli aiuti.
Destino volle che un certo Franz (Franco), una persona della quale ci si fidava, perché aveva
vissuto in una famiglia di Arzerello di Piove di Sacco (PD) chiese aiuto per altri ex prigionieri che
dovevano partire in gran fretta da Padova, così si decise di fare un ultimo viaggio.
Come al solito, dal telefono pubblico del bar-trattoria del paese (da Pistola), avvisammo Teresa
e Liliana (la frase segreta era: "Sono pronti due o tre polli”) che erano sempre disponibili, e ci
aiutarono ancora.
Liliana venne con le foto avute da padre Cortese per scegliere tra quelle che più assomigliavano
ai fuggitivi; compito che venne affidato al sig. Franz perché era l’unico ad aver visto i prigionieri.
Verso sera, zia Maria mi mandò ad Arzerello a vedere se i prigionieri avevano bisogno di
vestiario per essere presentabili, ma, quando li vidi, mi venne subito il dubbio che non fossero
realmente ex prigionieri, perché troppo ben vestiti e con un modo di fare alquanto arrogante.
Tornata a casa, spiegai tutto a zia Maria che mi dette ragione, ma a quel punto non si sapeva più
cosa fare!
La sera del 13 marzo del ’44, verso le undici, arrivò un camion carico di fascisti e tedeschi che
con prepotenza si fecero aprire la porta. Misero a soqquadro la casa, la stalla ed il fienile. Poi con
violenza ci buttarono fuori in cortile e io presi anche le botte alla presenza dei miei, che non poterono
difendermi.
Non trovando nessun estraneo, ci caricarono sul camion, io, papà Giovanni e Maria. A casa
rimasero mia madre con nove figli e gli anziani genitori di Maria.
Maria era molto preoccupata per noi, cercò di assumersi tutte le colpe, ma non riuscì perché era
Franz che ci interrogava e sapeva già molte cose.
Ci portarono a Piove di Sacco, in una caserma dove ci fecero attraversare le camerate occupate
da fascisti che ci ridevano dietro. Il giorno dopo, di pomeriggio, ci caricarono tutti in camion (ormai
eravamo una quindicina), non sapevamo dove ci avrebbero portati. Arrivammo a Padova in via Galilei
a casa delle Martini, mi fecero scendere e con dei tedeschi vestiti in borghese entrammo in casa.
Ci accolse Teresa ma arrestarono anche lei, la sorella Liliana e Milena Zambon, impiegata alla
Banca d’Italia.
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Ci portarono a Venezia nel carcere di S. Maria Maggiore, dove ci divisero nuovamente. Era il 14
marzo!
Prima che ci dividessero, Maria confessò al fratello Giovanni: “Ho una sola preoccupazione; la
sorte tua e di Delfina, perciò ti scongiuro accusa me, dì che sono stata io”. Maria fu rinchiusa in una
cella con altre donne accusate di colpe comuni.
Ricordo che in carcere a Venezia, io ero in isolamento, durante l’ora “d’aria” Maria passando
davanti alla mia cella mi disse per consolarmi: “Meglio essere da soli piuttosto che avere certe
compagnie come ho io”. Lo diceva così, tanto per tirarmi su il morale.
Anche Maria cercava di passare il tempo come poteva.
Aveva soltanto un ago e poco filo e con questi ricamò un piccolo fazzoletto che poi regalò a
Liliana Martini per la quale nutriva una speciale simpatia, perché la considerava una brava ragazza.
Quel fazzolettino Liliana lo conservò per qualche tempo, poi, terminata la guerra, me lo regalò.
Alla domenica, nel corridoio si celebrava la Messa, venivano aperte le porte delle celle e le
carcerate potevano uscire. Ma la mia cella non l’aprivano perché avevano paura che io parlassi con le
altre. Leggere, niente; confessarmi, neanche; perché pensavano che io mi servissi del prete per
trasmettere notizie.
Ad ogni interrogatorio gli aguzzini studiavano che cosa potevano inventarsi per farmi patire di
più. Di solito mi interrogavano in una stanza dove nessuno poteva sentire quando mi picchiavano.
Stretta in un angolo, mi tiravano le codine e mi davano certi schiaffoni da farmi sbattere la testa al
muro, oppure mi pestavano i piedi tanto che persi le unghie.
Anche Maria fu interrogata con gli stessi criteri; ma non ho mai sentito che si lamentasse.
Capito che non avremmo parlato, smisero di interrogarci; però, ci lasciarono tre giorni senza
mangiare né bere e senza mai aprire la porta della cella.
Mia zia, per pregare, si chiudeva in bagno, perché le compagne di cella la disturbavano e la
prendevano in giro.
Dalla sera del 13 marzo e per quaranta giorni, non abbiamo più saputo niente della nostra
famiglia. La mamma veniva nel carcere di Venezia e insisteva con le guardie per poterci vedere. Il
colloquio fu concesso quando finirono gli interrogatori. Presi da compassione nel vedere le condizioni
di mamma Emilia, incinta di sei mesi dell’undicesimo figlio, le concessero un incontro di quindici
minuti, io e zia Maria da una parte, la mamma e la zia Gesualda dall’altra e, nel mezzo, camminava
avanti e indietro la guardia.
Zia Maria era molto rammaricata nel vedere la fatica di Emilia per questo le disse:” Se fossi qui
da sola ti pregherei di non venire più!”
Saputo che papà Giovanni era tornato, zia Maria mi disse che da quel momento il carcere le
sembrava meno duro.
Il 4 maggio era domenica, venne a trovarci una seconda volta mia madre; portò qualche cosa da
mangiare, ma Maria non volle prendere nulla, dicendo che a lei bastava il cibo del carcere. Lasciò tutto
a me.
A metà luglio, una guardia ci avvisò che le SS avevano deciso un trasferimento. Partimmo il 27
luglio scortate dalle guardie; una quindicina le donne e una cinquantina gli uomini.
La prima tappa fu il carcere di Bolzano, pieno di gente di molte nazionalità, peggiore di quello di
Venezia. Assi di legno con fessure piene di insetti, celle buie, umide, mangiare pessimo, e
bombardamenti con noi chiuse a chiave in cella.
Mia zia mi confortava come poteva. Per alcune notti dormimmo insieme; poi, dopo due tentativi
andati a vuoto a causa dei bombardamenti anglo-americani, iniziarono le partenze.
Le più giovani, me compresa, sono state le prime a partire senza sapere la destinazione. Con me pure
Liliana e Teresa Martini, Pasquina Chiarotto (una giovane come me di Castel Cerino in provincia di
Verona), Erica e Gabriella di Gorizia. Finimmo a Mauthausen in Austria.
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Pensavamo che Maria e le altre, sarebbero state mandate a casa. Lo dissi anche a Maria, ma lei
mi rispose: “ Cosa vuoi che io vada a fare a casa senza di te? Pensa che cosa direbbero i tuoi
genitori”!
Maria chiese ai tedeschi se poteva partire con me, ma le risposero che per quello che avevo fatto,
meritavo di partire da sola. Era molto rammaricata e non riusciva a darsi pace e in lacrime mi disse:
“Se una di noi due è destinata a morire, io offro volentieri al Signore la mia vita, purché tu torni a
casa. Va’ pure, vedrai che il Signore ti aiuterà”.
Quelle furono le sue ultime parole che sentii, poi non sapemmo più nulla l’una dell’altra.
Deportazione in Germania: testimonianze
Dopo circa due mesi anche Maria fu deportata in Germania, nel campo di concentramento di
Ravensbrück vicino a Berlino insieme alla signora Raimondi, a Milena Zambon, alla signora Battan di
S. Angelo di Piove di Sacco, a Maria Mocellin di Fiesso d’Artico e Maria Zonta di Padova.
Alcune compagne di Maria, tornate dalla Germania, così hanno descritto la deportazione: “Ci
caricarono per portarci a Ravensbrück in vagoni bestiame. A gruppi di cento in ogni vagone. Stavamo
tutte strette, le une sulle altre. Non avevamo né acqua, né possibilità di uscire: dovevamo stare in
piedi senza mai sedere.
Dormivamo anche in piedi non potendo muoverci tanto eravamo strette. Così viaggiammo per
sette giorni. Viaggiavamo in un vagone piombato. Era estate. Eravamo tutte zuppe di sudore, nere in
viso per la polvere della locomotiva, i vestiti puzzavano, le nostre gambe erano sporche di letame.”
A Ravensbrück furono divise a seconda dei lavori assegnati. Molto pesanti.
Tante volte Maria non la chiamavano al lavoro, ma la lasciavano in baracca a rammendare le
divise dei carcerati. La signora Raimondi, compagna di prigionia nella stessa baracca di Maria, le
diceva: “Ma chi glielo fa fare? Lasci perdere; quando saremo a casa io le darò il doppio di quello che
le danno qui; basta che faccia a meno di portare qua dentro questi stracci!” Lo diceva perché, ogni
volta che Maria portava quegli stracci in baracca, introduceva anche altri parassiti.
Fin dal primo giorno le internate assistettero a scene raccapriccianti, inimmaginabili che, spesso,
loro stesse subirono: denutrizione, freddo, maltrattamenti e forno crematorio.
Quelle che vivevano in baracca con Maria, hanno detto che non si è mai lamentata di niente.
Hanno testimoniato pure, la grande fede cristiana e un’instancabile dedizione che Maria
rivolgeva alle compagne di sventura.
La ricordano che era spesso raccolta in preghiera e ad incoraggiare tutti. “La mattina presto, si
inginocchiava al lato della branda e recitava la Santa Messa da sola” .
Tornata dalla Germania, la signora Raimondi disse che prima non credeva in Dio ma, vedendo la
fede di Maria, anche lei ha cominciato a credere.
“Sono convinta che quando ci si trova nel pericolo, la fede viene a tutti. Fede o non fede, nelle
necessità e nel pericolo, tutti pregano. Certo che noi siamo state più fortunate a tornare, anche le
signorine Martini sono tornate, con qualche malanno ma vive. Ma lei, Maria”…..
Anche Maria sperava di tornare. Nelle lettere dal carcere, raccomandava ai fratellini di Delfina
di essere bravi, di aiutare la mamma e il papà, di andare a Messa; prometteva loro che li avrebbe
portati a fare un viaggetto, segno che la speranza di tornare c’era. Sperava di tornare perché aveva i
genitori anziani.
Quando il fronte di guerra si stava avvicinando a Ravensbrück, i tedeschi incolonnarono le
prigioniere e le fecero camminare da un paese all’altro, per non farle cadere in mano ai Russi. Tutto
questo successe in quello ed in altri campi. E chi si fermava, veniva ucciso.
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Presto o tardi molti sono tornati, ma lei no. Alcune sue compagne di baracca dissero che
nell’ultimo periodo s’era ammalata. Un giorno, tornando dal lavoro, non la trovarono più; per cui
dedussero che l’avessero eliminata.
Le detenute, sottoposte a lavoro coatto in condizioni inumane, quando non servivano più alla
produzione o vi era un soprannumero, venivano eliminate. A Maria toccò questa tragica sorte.
All’arrivo dei Russi, poco lontano dal Campo, furono scoperte fosse comuni con centinaia di
corpi.
Su Maria furono fatte varie ricerche da parte della Croce Rossa internazionale, ma senza esito.
Perciò, si ottenne l’atto di morte presunta.
Delfina tornò alla fine di giugno del 1945, e riunì i suoi ricordi e quelli di zia Maria in un libretto
intitolato “La staffetta” (E. Zatta) pubblicato nel 1995, ma ha continuato a parlarne ovunque,
desiderando che venisse meglio conosciuta la vita e la figura eroica della zia. E fintanto che la salute
glielo consentirà, continuerà a testimoniare perché non vada perduta la memoria di tanto dolore, ma
anche di tanta forza di vivere, di tante crudeltà, ma anche di tanto amore donato; e vada riconosciuta
l’eroica dimensione spirituale ed umana di Maria.
Disegni di Alessio Gennaro
Pubblicazione realizzata dalla
Compagnia di Sant’Orsola – Istituto Secolare di Sant’Angela Merici diocesi di Padova.
La Compagnia di Sant’Orsola – Istituto Secolare di Sant’Angela Merici nasce a Brescia il 25-111535. La sua Fondatrice, Sant’Angela Merici, seguendo l’intuizione dello Spirito, propone, già a quel
tempo, una forma di vita nuova per le donne: vivere la consacrazione, in povertà, verginità e
obbedienza nel mondo, abitando nelle proprie case, senza segni esteriori e mantenendosi col proprio
lavoro.
Le appartenenti all’Istituto mettono al centro della loro esperienza Gesù Cristo e cercano, nel cammino
spirituale, di unire l’azione alla contemplazione, diventando ovunque testimoni dell’amore di Dio e
assumendo “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto”
(G.S.).
Per contatti: e-mail [email protected]
Sito: www.istitutosecolareangelamerici.org
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