Simone Casu
Perché ho
rinunciato
al disegno!
Pregiudizi, errori
e delusioni dovuti
alla mancanza
di un codice di
apprendimento
nella didattica
del disegno
Centro Umanista di Espressione Artistica
2
Quest’opera e pubblicata sotto una licenza Creative Commons
La licenza e disponibile all’indirizzo: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/deed.it
Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia
Tu sei libero
di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare,
eseguire e recitare quest’opera
Alle seguenti condizioni
Attribuzione. Devi attribuire la paternità dell’opera nei modi indicati dall’autore o da chi
ti ha dato l’opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi avallino te o il modo
in cui tu usi l’opera.
Non commerciale. Non puoi usare quest’opera per fini commerciali.
Non opere derivate. Non puoi alterare o trasformare quest’opera, ne’ usarla per crearne
un’altra.
Perché ho rinunciato al disegno
3
Introduzione
Finalità del testo
In questo testo ho voluto raccontare le mie esperienze di insegnate di disegno
nella speranza che possano, in qualche modo, essere di sostegno al lettore che
vuole intraprendere una disciplina artistica, un incoraggiamento a non rinunciare
e a credere nelle proprie capacità.
A chi invece ha rinunciato da tempo o pensa di rinunciare a disegnare, vorrei
trasmettere la certezza che il saper disegnare non è, come si crede comunemente,
una capacità che appartiene ai pochi dotati.
Attraverso le sperimentazioni metodologiche portate
avanti da Giovanni Spinicchia in più di 40 anni di
esperienza didattica, è stato possibile elaborare un codice
definito nei termini di Ascoltare Pensare e Disegnare (AS.
PE.DI.®) per educare i bambini, e Vedere Ragionare e
Disegnare (VE.RA.DI.®) per adolescenti e adulti.
Un codice che ha permesso a chiunque imparare a disegnare senza
commettere errori, orientato con gli stessi fini con cui è composta la grammatica
per l’apprendimento della lingua che ha dato modo a tutti noi di imparare a
leggere ed a scrivere, con facilità, correttezza, ordine e tempo, senza che siano
state richieste predisposizioni di talento.
Infine, mi auguro con questo piccolo contributo di stimolare la ricerca
pedagogica in un settore del sapere, ancora limitato dai tanti pregiudizi, che
considerano il disegno, e l’arte in generale, un passatempo privo di significati
profondi ed indispensabili nella costruzione di una società più umana, in cui si
valorizzino la libertà di espressione e la ricerca di un senso più ampio della vita.
Perché ho rinunciato al disegno
Introduzione
4
Perché ho rinunciato al disegno
5
Simone Casu
Notizie Autore
1969 - Nasce a Cagliari.
1987 - Segnalato all’interno del Liceo Artistico di Cagliari, partecipa ad una performance di
PLEXUS ART al Bastione Vittorio Emanuele II di Cagliari, grazie all’appoggio dei suoi
maestri Gaetano Brundu, Mario Olla, Giancarlo Marchisio e Luigi Mazzarelli.
1989 - Consegue la maturità artistica col massimo punteggio e si trasferisce a Firenze
dove frequenta l’Accademia di Belle Arti nella scuola di pittura di Roberto Palumbo e
successivamente di Adriano Bimbi.
1991 - Lascia gli studi accademici per dedicarsi ad una ricerca artistica non istituzionale.
1993 - Fonda il gruppo artistico “Spazio alla mente”.
1994 - Fonda col l’editore Nicodemo Maggiulli la casa editrice scientifica SEE di cui ricoprirà la
carica di responsabile editoriale fino al 2004. In questi anni esegue anche centinaia di
illustrazioni scientifiche con i massimi studiosi di medicina nazionali ed internazionali.
1996 - Fonda la scuola d’arte “Centro Umanista di Espressione Artistica” a Firenze. Scuola dove
inizialmente si tengono solo corsi di disegno e pittura, fino a giungere nel 2006 a circa 25
proposte formative per adulti in differenti campi dell’espressione artistica, dalla musica al
cinema, dalla scrittura al fumetto.
2000 - Intraprende con l’arch. Giovanni Liberti una proficua collaborazione di studio e ricerca
sulla psicologia e la morfologia dell’immagine che lo porta a tradurre dallo spagnolo
un testo fondamentale, Segni, simboli e allegorie, e a creare il sito www.morfologia.net,
portale di interpretazione, studio e applicazione degli studi morfologici sui simboli e le
allegorie.
2000/2006 - La sua ricerca lo porta ad allestire dei veri e propri spettacoli di interazione artistica
col pubblico a Villa Strozzi a Firenze, dove crea un gruppo artistico, il CUEA STAFF, con il
quale intraprende studi e applicazioni nel campo del pensiero creativo. Da essi nascono
dei corsi di formazione per artisti.
2004 - Nasce la collaborazione col prof. Giovanni Spinicchia per la realizzazione di un testo di
disegno in cui convergano le rispettive esperienze didattiche. Tali esperienze, sperimentate
nell’ambito del Centro Umanista di Espressione Artistica, si indirizzano in una direzione
diametralmente opposta a quella avviata grazie al celebre testo di Betty Edward,
Disegnare con la parte destra del cervello.
2005 ­- Si dedica anche alla fotografia elaborata al computer ed espone alla Galleria del CUEA.
2006 - Fonda l’Istituto Internazionale di Arte Trascendentale ESTETRA che si occupa di
formazione specialistica per lo sviluppo della spiritualità nell’arte (www.estetra.org)
2009 - Fonda, assieme a decine di studiosi e ricercatori di diverse nazionalità, il Centro Mondiale
di Studi Umanisti. Partecipa alla costruzione del Centro Studi Umanisti Salvatore Puledda
di Roma (www.csuroma.org), di cui è membro attivo.
2010 - Attualmente è impegnato nella promozione dei metodi didattici VE.RA.DI.© AS.PE.DI.©
(ascoltare, pensare, disegnare) ed ES.TE.TRA.© (espressione, tecnica, trascendenza) e nella
stesura di 7 libri che comporranno la collana di arte trascendentale che riguardano
argomenti di estetica, psicologia dell’immagine, sociologia, critica, didattica ed
educazione.
Introduzione
6
Perché ho rinunciato al disegno
Sommario
7
Finalità del testo..............................................................................................................pag. 03
Notizie Autori...................................................................................................................pag. 05
I Codici di Apprendimento..........................................................................................pag. 09
1. Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata........... pag. 11
Esaurire l’entusiasmo iniziale.....................................................................................pag. 13
Scoraggiamento..............................................................................................................pag. 15
Conclusioni........................................................................................................................pag. 15
2. Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico ............ pag. 17
La didattica tradizionale...............................................................................................pag.
I cambiamenti negli anni ’60 e ‘70...........................................................................pag.
Gli equivoci della didattica contemporanea........................................................pag.
Troppi discorsi e poche indicazioni......................................................................pag.
Porsi in competizione coi modelli della storia dell’arte..............................pag.
La mancanza di laboratori.......................................................................................pag.
La supremazia scientifica su quella creativa e istintiva..............................pag.
La prospettiva...........................................................................................................pag.
La luce.........................................................................................................................pag.
L’anatomia.................................................................................................................pag.
La conoscenza dei mezzi artistici.............................................................................pag.
Conclusioni........................................................................................................................pag.
19
20
21
21
22
23
24
25
27
28
30
31
3. Da grande volevo fare l’artista!......................................................... pag. 33
La tormentata via dell’Arte..........................................................................................pag.
Lavorare per vivere o vivere per lavorare..............................................................pag.
Gli artisti “lavoratori”.....................................................................................................pag.
La formazione al disegno per adulti........................................................................pag.
Il disegno come conoscenza.......................................................................................pag.
Conclusioni........................................................................................................................pag.
35
37
37
37
38
39
4. Insegnare disegno agli adulti:
l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica............. pag. 41
Siamo tutti bambini.......................................................................................................pag.
Fuggire dalla routine.....................................................................................................pag.
Sviluppare la motivazione...........................................................................................pag.
Mortificare la motivazione......................................................................................pag.
La nostra missione..........................................................................................................pag.
Essere al pari e non essere sopra..............................................................................pag.
Capire chi siamo e chi sono........................................................................................pag.
43
46
47
49
52
52
54
Introduzione
8
Vocazione insegnante...................................................................................................pag. 55
Il miglior modo per apprendere............................................................................pag. 55
Capacità di adattarsi..................................................................................................pag. 56
Cercare di non giudicare..........................................................................................pag. 57
Accompagnare.............................................................................................................pag. 57
Peculiarità dei corsi d’arte del CUEA.......................................................................pag. 58
Entrare in contatto col profondo.........................................................................pag. 58
Integrazione delle esperienze profonde............................................................pag. 60
Creare un buon “clima”.............................................................................................pag. 61
Cura della sfera emotiva......................................................................................pag. 61
Cura del Gioco.........................................................................................................pag. 63
Cura del rapporto tra gli allievi.........................................................................pag. 65
Cura dello spazio.....................................................................................................pag. 69
Cura del tempo........................................................................................................pag. 69
Strumenti Pedagogici “speciali”............................................................................pag. 73
Il fattore mistico-spirituale................................................................................pag. 73
La disciplina interiore............................................................................................pag. 74
Il dialogo interiore..................................................................................................pag. 75
Come sopravvive una scuola privata......................................................................pag. 77
Differenze tra pubblico e privato.........................................................................pag. 78
Differenze di motivazione...................................................................................pag. 79
Differenze di programma....................................................................................pag. 82
La dipendenza economica.......................................................................................pag. 83
Si chiude un ciclo e se ne apre un altro................................................................pag.88
Conclusioni........................................................................................................................pag. 89
5. Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello
e VE.RA.DI............................................................................................ pag. 91
Nuove metodologie di apprendimento artistico................................................pag. 93
I limiti del metodo Disegnare con la Parte destra del Cervello....................pag. 94
Conflitto tra gli emisferi...............................................................................................pag. 95
Esercitazioni teoriche e poco applicabili...............................................................pag. 98
Ma che confusione!...................................................................................................pag. 99
Esperienza VE.RA.DI........................................................................................................pag. 99
Conclusioni........................................................................................................................pag.101
Perché ho rinunciato al disegno
9
Metodi
I Codici di Apprendimento
Per rendere comprensibili tutte quelle parti del libro che richiamano i metodi
elaborati da Giovanni Spinicchia, riportiamo brevemente quali siano le caratteristiche
peculiari di questi rivoluzionari codici di apprendimento.
AS.PE.DI.®
AScoltare, PEnsare, DIsegnare si propone tutto il recupero di quelle immagini che
hanno costituito il disegno del bambino in età prescolare. Immagini entro cui tutte
le cose della realtà circostante erano rappresentate e identificate nella loro natura
spontanea ed in relazione alla sensibilità, al livello culturale del proprio ambiente.
AS.PE.DI.® pur continuando a rispettare la personalità grafica di ciascuno ha
permesso, attraverso racconti e letture di prose e poesie, di ricavare i contenuti e
i significati di quella realtà prima immaginata e adesso rappresentata attraverso
riferimenti reali precisi.
VE.RA.DI.®
VEdere, RAgionare, DIsegnare si propone di recuperare attraverso la copia della
realtà tutte quelle componenti formali di cui è composta, attraverso l’occhio che vede,
la mente che ragiona e la mano che disegna.
I propositi hanno permesso di eliminare durante le esercitazioni l’uso della matita
per permettere al candidato di usare la penna biro per non cancellare gli errori dai
quali ricavare le motivazioni per crescere. Il motivo fondamentale del codice è quello di
condurre ciascuno alla rappresentazione di tutta la realtà disegnata correttamente nelle
forme, nelle linee e nelle proporzioni.
Infine, nel testo si accenna anche al metodo di specializzazione elaborato da Simone
Casu, che descriviamo in breve.
ES.TE.TRA.®
ESpressione, TEcnica, TRAscendenza si propone di recuperare la forza espressiva
della nostra infanzia, attraverso una destabilizzazione delle strutture psicoemotive, che
hanno generato negli anni una rigidità formale. Recuperata la vitalità primordiale, la si
affina attraverso le tecniche fondamentali dell’arte per poi trascenderle, fino a giungere
ad una personale interpretazione delle tecniche acquisite.
Questo metodo didattico di specializzazione si basa sullo studio dei processi creativi che
coinvolgono il pensiero, il sentimento e l’azione (intesa come gestualità), cercando di creare
una coerenza tra i diversi livelli. Alla base di questa pedagogia vi è lo sviluppo dell’auto
osservazione, attraverso la quale, l’apprendista, unico protagonista del metodo, si costruisce
come desidera. Il metodo consiste, dunque, nel fornire strumenti di auto educazione.
Introduzione
10
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 1
Capitolo
1
Le conseguenze
di un’educazione
al disegno non
adeguata
Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata
11
12
Perchè ho rinunciato al disegno
Capitolo 1
Nelle esperienze descritte nei capitoli precedenti è
possibile che molti di voi lettori abbiano riconosciuto
la propria esperienza di bambini e di adolescenti, che
spinti da un naturale senso al disegno si sono sentiti
non sorretti in questa loro ricerca. Ma c’è da dire che
la formazione al Disegno, materia complessa ampia
e profonda, ha ricevuto solo recentemente le dovute
attenzioni pedagogiche.
Ancora oggi è una strada in salita, soprattutto se
analizzata nel contesto dello sviluppo istituzionale
delle strutture educative, che mancano di una
adeguata attenzione e di un appropriato investimento
al confronto ad altri settori sociali che pur essendo
affatto costruttivi, come il mercato degli armamenti ad
esempio, sembra che godano di maggiore attenzione
da parte dei dirigenti economici e politici.
Solo se si analizza il sistema educativo in un contesto
più ampio risulta evidente che non sarà possibile un
progresso didattico se esso non è accompagnato da
un cambiamento di tutte le componenti sociali.
Ciò non ci impedisce di fare delle valutazioni e delle
proposte affinché lo specifico campo della pedagogia
del disegno possa avanzare, ma siamo consapevoli che
l’argomento vada osservato da una prospettiva più
ampia, pur non generalizzando ed entrando in merito
a responsabilità politiche ed economiche.
Riteniamo quindi che il cambiamento delle complesse
problematiche sociali in cui siamo immersi, possa anche
essere stimolato grazie al contributo di una corretta
istruzione al disegno. Istruzione che possa consentire di
educare persone rendendole più sicure di sé, alleggerite da
molti timori e paure legate alla loro espressività.
In questo capitolo vedremo come un sistema
educativo che non sia in grado di aiutare i bambini a
superare le difficoltà di apprendimento del disegno, può
addirittura danneggiarli, creando in loro demotivazione,
paura di sbagliare e chiusura emotiva. Tali frustrazioni
possono causare dei blocchi nella loro personalità per
poi avere, come avremo occasione di riportare nei
capitoli successivi, notevoli conseguenze nell’adulto.
Nella memoria di tutti noi il disegno
spontaneo della prima infanzia era vissuto
con grande intensità e piacere.
Questa passione fonte di vita, ha una notevole
importanza nello sviluppo complessivo della persona e
la mancanza di un codice di apprendimento nelle scuole
dell’obbligo, porta spesso gli insegnanti in difficoltà
e, nella maggior parte dei casi, si può verificare una
retrocessione della fantasia del bambino.
La retrocessione si manifesta attraverso degli
atteggiamenti tipici, che tratteremo in questo capitolo.
Esaurire l’entusiasmo iniziale
Chi non ricorda con piacere il negozio in cui da
piccoli si vendevano i fogli, le matite, i pennarelli e
tutti quei giochi - così li vivevamo - che servivano per
le materie artistiche?
Ancora oggi, quando da adulti entriamo in questi
negozi ci appaiono come dei magici bazar delle fiabe
orientali. Mille colori, matite di ogni genere, la carta
ruvida, liscia, martellata di tutti gli spessori e colori,
fanno sembrare questi luoghi magici. Per non parlare
del profumo delle tinte e del legno usato per le matite, e
la plastilina, il DAS e i pennelli di ogni forgia e spessore.
Che meraviglia!
Forse è ancora oggi tutto questo rappresenta in
noi la magia dell’arte. Vorremo usare tutti quei colori e
sapere cosa servono tutti gli strumenti a noi sconosciuti
ma che infondono il fascino della creazione.
Tutta quella moltitudine però ci disorienta, perché
dentro di noi sappiamo che non sono i mezzi grafici o
pittorici che fanno l’artista. È la conoscenza, potremo
definirla alchemica, ciò che gli consente attraverso dei
semplici pennelli e delle comuni matite, di inventare
mondi che fino a quel momento erano sconosciuti in
cui ci sentiamo come “a casa”.
Tutto questo probabilmente fa parte dei nostri ricordi
d’infanzia, memorie della scuola e dell’entusiasmo con
cui ci perdevamo nei compiti artistici.
Ma purtroppo sorgono anche dei tristi ricordi,
perché sappiamo che quei trascorsi e quell’entusiasmo
cessarono di vivere in noi. Ma cosa può essere
successo? Cosa può averci allontanato da una
attività così gioiosa e felice?
Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata
13
14
Sicuramente alcune motivazioni del nostro
abbandono andranno rintracciate nell’intimo del nostro
cuore, alcune invece possono derivare dalle modalità
con cui abbiamo vissuto questa esperienza in rapporto
agli altri.
Proviamo a ricostruire quali possano esser stati gli
avvenimenti che ci hanno fatto abbandonare il disegno
e la pittura. Anche se può causare un velo di tristezza, e
possa sembrare un poco melodrammatico, cerchiamo
di ripercorrere quello che è stato probabilmente un
trauma nella nostra infanzia.
Prima di questo momento di abbandono, le attività
artistiche ci avevano sempre entusiasmato, soprattutto
eravamo dei veri sperimentatori. Usavamo tutti i mezzi
che avevamo a disposizione: pennarelli, plastilina, DAS,
tempera, matite... Tutto ciò che esprimevamo col segno
e col colore era per noi fonte sicura di gioia.
Conoscevamo ora le proprietà dei pennarelli, delle
matite, della tempera. Avevamo imbrattato centinaia
di fogli in tutti i modi che potevamo scoprire. Tutto
questo lo abbiamo fatto in maniera naturale senza
essere seguiti pedagogicamente dagli adulti.
Non si poteva certo andare avanti in questo modo
spontaneo fino a diventare adulti!
Forse un giorno qualsiasi, ci siamo soffermati a
guardare i nostri disegni spontanei e abbiamo avvertito
che in essi non c’era una crescita, ma una ripetizione.
É difficile rintracciare il momento in cui è comparsa
questa consapevolezza, ma nella nostra mente abbiamo
constatato una inadeguatezza tra i nostri elaborati e la
nostra necessità espressiva.
Come quando cerchiamo di esprimerci con una
lingua che non conosciamo a sufficienza, ci siamo
trovati di fronte ai nostri limiti, e questo, non ci piaceva
affatto. Nessun essere umano gioisce di fronte ai
propri limiti quando le sue intenzioni sono quelle di
avanzare nella scoperta e non di ritrovarsi chiuso in
una meccanica e noiosa ripetizione.
Chi ripeterebbe all’infinito gli stessi errori?
Quella casa, appena abbozzata e rude, che ci aveva
rallegrato quando avevamo 6 anni, ora che ne abbiamo
8 ci sembra, inadeguata e priva di forza.
E quell’albero ancora presenta un cerchio verde
e due linee dritte per il tronco: ma non è così! Noi lo
vediamo rigoglioso nel giardino, pieno di foglie e col
tronco vivo, bitorzoluto e con tutte quelle incredibili
linee delle venature.
Perchè ho rinunciato al disegno
Ma nel nostro disegno non v’è nessuna traccia di
quella nostra percezione, non v’è traccia di quella nostra
intenzione, non v’è traccia di quella nostra sensibilità.
È probabile che in questi momenti
l’entusiasmo iniziale si sia arenato perché
i contenuti che ci eravamo proposti di
trasferire sul foglio erano rimasti nella nostra
immaginazione, mentre sul foglio solo una
parodia infantile di un pensiero che nella
nostra mente era oramai evoluto e ricco di
significati.
Quanti di voi si riconoscono in questa fantasiosa
ricostruzione? E quanti di voi riconoscono in questa
frustrazione, la stessa che oggi si presenta di fronte
alla voglia di creare?
In questi momenti avviene uno scontro tra la
pratica della mano e la propria immaginazione.
Questa mano, lasciata nell’ignoranza, non traduce più il
proprio mondo interiore e ci sentiamo degli incapaci, e i
disegni - che un tempo erano la nostra gioia - diventano
ora i testimoni della nostra impotenza.
A circa 8-10 anni ci vergogniamo di essi, li
nascondiamo agli adulti, e vaghiamo alla disperata
ricerca di soluzioni, copiando dalle riviste, ricalcando,
o imitando i nostri compagni che riteniamo più bravi
e capaci.
Tutto ciò non sarebbe forse avvenuto se avessimo
avuto il supporto di un adulto che, attraverso un
codice di apprendimento, ci avesse guidato ed aiutato
sintonizzare la nostra immaginazione con la realtà.
Il nostro pensiero così arricchito avrebbe potuto
guidare la mano verso la risoluzione dei nostri desideri
espressivi.
Per sostenere nel tempo l’entusiasmo ci vuole una
formazione strutturale basata sul principio di saper
vedere, saper pensare, saper ragionare come esposto
nel metodo VE.RA.DI.
Se non interviene un aiuto pedagogico qualsiasi
persona, di fronte alla ripetizione degli stessi errori, si
convince prima o poi che quel compito non fa per lei
e abbandona i propri propositi espressivi.
Capitolo 1
Scoraggiamento
Dopo questa fase di entusiasmo sopraggiunge
un periodo di scoraggiamento, che può anche essere
superato, ma essendo vissuto spesso in solitudine
oltrepassare questa crisi dipende soprattutto dal
carattere della persona.
Quando un adolescente, rinuncia a disegnare
solitamente è perché, dopo diversi tentativi, non si
ritiene capace, supportato dai commenti degli adulti
che come lui sono stati a loro tempo, vittime del
pregiudizio della dote naturale.
È di fondamentale importanza comprendere che
l’abbandono al disegno non avviene perché si esaurisce
la curiosità e la voglia di farlo. Assolutamente, no!
Al contrario essa ritornerà sempre fuori nel corso
degli anni, e continuerà ad essere un’energia positiva
dentro di sé.
Cosicché, nell’adolescente, avviene spesso una
interruzione della pratica artistica. Una rottura e non
una scelta consapevole. I suoi interessi cambiano e
quell’entusiasmo creativo viene trasferito in parte ad
altre occupazioni.
Ma è probabile che nell’interiorità viva per sempre
una sconfitta. Sensazione che forse cercherà di
soddisfare da adulto intraprendendo una qualsiasi altra
pratica artistica alla ricerca di mezzo che gli consenta
di esprimere la sua umanità.
Così, in maniera indifferente, la società costruisce
intere generazioni di artisti “mancati”.
Ci auguriamo che questa umanità ferita possa,
grazie a questo testo ed i metodi AS.PE.DI. e VE.RA.
DI., riscattare la propria frustrazione dimostrando a
se stessi ed al mondo che per apprendere a disegnare
non è mai troppo tardi.
Conclusioni
Vorremo urlare al modo, a chi comanda alle famiglie ai singoli, che credono che l’arte sia solo un passatempo,
a tutti coloro vorremo dire: che le sensazioni proprie dell’esperienza artistica non possono essere sostituite
da altre attività.
Il mondo interiore che si esprime nell’arte e cono cui dialogavamo tutti nella nostra infanzia, non muore
e non morirà mai perché è parte del bagaglio umano e tutti noi lo portiamo dentro.
Lo scoraggiamento, che ha in qualche modo impedito lo sviluppo dell’esperienza
artistica nell’adolescenza, si ripresenterà ancora quando si cercherà di riprendere in mano
questa ricchezza. Ma ancor più profonda è quella forza creativa che vi ha dato voglia e
l’entusiasmo nella vostra fanciullezza. Quando voi lo chiederete essa continuerà ad essere
a nostra disposizione.
Nel quinto e sesto capitolo riprenderemo da questo punto e cercheremo di capire come questo fallimentare
vissuto agisca da adulti e soprattutto vedremo come è possibile rinnovare l’entusiasmo e superare finalmente
questo blocco.
Le conseguenze di un’educazione al disegno non adeguata
15
16
Perchè ho rinunciato al disegno
Capitolo 2
Capitolo
2
Gli equivoci
pedagogici nelle
scuole ad indirizzo
artistico
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
17
18
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 2
In questo capitolo ci occuperemo di mettere in
rilievo alcuni equivoci pedagogici della didattica del
disegno attuata nelle scuole superiori ad indirizzo
artistico, Istituti d’Arte e Licei Artistici, ed in parte anche
nelle Accademie di Belle Arti.
Li definiamo equivoci perché ci occuperemo di
quegli errori didattici che persistono grazie ad
una particolare fama che si è andata accumulando
nel tempo. Essi perdurano nell’educazione, nonostante
non diano i risultati dovuti. Solitamente si crede
ingenuamente, che si stiano attuando i metodi migliori
e corretti per trasmettere informazioni e conoscenze,
ma forse non è così.
Tratteremo di queste convinzioni, stereotipi se così
li si vuole definire, che sono difficili da sradicare e che
in alcune occasioni, oltre a non dare i risultati che ci
si aspetta, appesantiscono, complicano ed in qualche
modo danneggiano lo sviluppo creativo.
Il fenomeno, che potremo definire di “trascinamento”
è ben comprensibile in un settore in cui non vi sono
stati significativi cambiamenti, se non addirittura
peggioramenti, rispetto al passato.
Cosicché alcuni vecchi modelli continuano a vivere
in una società decisamente cambiata rispetto all’epoca
in cui si sono creati.
Iniziamo il capitolo con una piccola carrellata di
quella che era la didattica del disegno negli anni ’50
prima che avvenissero le trasformazioni degli anni ’60
e ’70 del XX secolo.
La didattica tradizionale
I modelli di riferimento per la didattica tradizionale
del disegno sono da sempre state le opere dei grandi
artisti. Esse venivano utilizzate come modelli da copiare
e da imitare. La didattica dell’arte di un tempo era molto
semplice e consisteva soprattutto in questa pratica: la
copia incessante ed instancabile dei maestri.
L’insegnate, artista operante e non teorico, poneva il
candidato di fronte ad un disegno, per lo più di origine
rinascimentale, da riprodurre graficamente. Non era
una didattica complessa, e per quanto il carisma e la
sensibilità di alcuni insegnanti faceva di loro dei grandi
maestri, non vi erano un codice o una grammatica
del disegno. Non vi era una scuola pedagogica di
riferimento adeguata ai tempi moderni.
Lo scopo di quell’approccio imitativo era quello di
avvicinarsi il più possibile della tecnica e alla forma dei
modelli storici, per poi passare a copiare dei soggetti
dal vero ed infine dedicarsi a vere e proprie creazioni
originali.
Prima i maestri dell’arte, poi la natura morta e
infine la figura umana. I paesaggi non erano soggetti
facilmente riproducibili nelle classi, ma a volte si
realizzavano bozzetti che poi venivano dipinti in aula.
Nonostante le ricerche effettuate dalla psicologia e
dalla pedagogia nei primi anni del ‘900, e nonostante le
sperimentazioni didattiche di scuole come in Bauhaus,
l’ambiente dell’istruzione artistica mantenne il suo
carattere conservatore, e non fu sostanzialmente
toccato dalle discipline psico-pedagogiche che
esplosero all’inizio del XX secolo.
A sostegno di questa mancanza di rinnovamento
e messa in discussione ha sempre pesato la credenza
che l’arte fosse materia adatta a pochi talentuosi e non
disciplina accessibile da chiunque.
Cosicché gli allievi copiavano questi soggetti ma
senza che gli venissero date istruzioni di come e dove
iniziare la copia, o in che modo questa poteva essere
recepita dall’occhio e trasferita sulla carta. Gli unici
consigli che potevano incoraggiare erano affidati ad
esempi pratici in cui il maestro interveniva sul foglio di
ciascuno impostando approssimativamente delle linee,
dalle quali ricavare la forma generale dell’illustrazione.
Nonostante l’esempio pratico le soluzioni di tutti gli
errori che potevano susseguirsi durante l’esecuzione
rimanevano sempre inspiegabili e lasciate all’iniziativa
individuale.
Una didattica molto semplice, in cui si dava per
scontato che bastasse mostrare come si fa un disegno
per poter trasmettere le conoscenze grafiche. Ancora
oggi ci sono insegnanti che adottano questo facile
quanto inefficace metodo, non solo nel disegno ma
anche nella matematica ad esempio, in cui il professore
esegue delle operazioni alla lavagna ed esclama: “Ecco
fatto, tutto chiaro?”
Domanda solitamente ingannevole, dato che se
qualcuno si azzardava a dire: “Non ho capito niente!”
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
19
20
rischiava di essere in qualche modo guardato con
sospetto, giudicato a volte stupido o nel peggiore dei
casi insolente.
A quel punto chi meglio riusciva, per una serie di
motivi inspiegabili, ad indovinare le linee che potevano
restituire una forma il più possibile vicina al modello,
riceveva le lodi ed il consenso di insegnate e compagni.
Tutto questo si perpetuava senza che nessuno sapesse
perché e come riuscisse a conquistare tali risultati. L’arte
era un mistero e frutto del destino.
Per tutti gli altri che non riuscivano nel compito
rimaneva la speranza di capire e migliorare nel tempo,
affidandosi soprattutto alla quantità dei disegni. Spinti
da queste intenzioni ottenevano cartelle con un numero
cospicuo di disegni ma nei quali spesso si ripetevano
i soliti errori. E anche se gli venivano fatti notare gli
insegnanti non avevano le conoscenze per guidarli e
trasmettere loro delle strategie per correggersi.
Laddove ancora sussistono questi
atteggiamenti pedagogici in effetti non si
sta applicando nessuna pedagogia atta al
superamento dei limiti.
Al contrario, queste difficoltà possono essere in
questo modo amplificate e la persistenza degli errori
può diventare motivo di vergogna e frustrazione.
I cambiamenti negli anni ’60 e ‘70
La didattica del disegno che precede i movimenti
studenteschi e dell’arte degli anni ’70 era dunque molto
semplice, si basava sul fare, fare e fare. Era una didattica
di quantità, del dovere e dell’impegno.
Dopo il ’68 la ferrea disciplina, l’autoritarismo e la
violenza punitiva dei metodi educativi dei nostri nonni,
queste forme sono state giustamente condannate.
In questo rifiuto della commistione tra violenza ed
educazione non si può che vedere un fatto di civiltà
ed evoluzione.
Ma è anche vero che il disegno, come tutte le
materie, necessita di un metodo che ne disciplini
l’apprendimento fatto di regole da rispettare. E in quegli
anni le regole venivano confuse con l’autoritarismo, e
la didattica ferrea del disegno, ereditata dal passato,
venne in gran parte abbandonata in favore di una
maggiore libertà espressiva e soggettiva.
Agire il libertà è molto nobile, ma per poter essere
applicata e vissuta con vantaggio si deve sostenere sulla
conoscenza. Per disegnare liberamente, per cantare
liberamente, per scrivere liberamente bisogna saper
disegnare, cantare e scrivere correttamente.
Senza queste basi solide, che si ottengono solo
con una certa disciplina di metodo e non autoritaria,
appassionando e fornendo degli strumenti efficaci agli
allievi, l’apprendimento del disegno nelle scuole d’arte
ha continuato ad essere privilegio dei soli talentuosi.
Perché ho rinunciato al disegno
In effetti credere in maniera così ingenua che bastasse
lo spontaneismo a formare gli artisti del futuro,
giustificato con il fatto di lasciare libertà espressiva,
ha causato la perdita delle conoscenze provenienti
da quella tradizione antica. Tradizione che aveva, nei
suoi limiti, formato intere generazioni di artisti-artigiani
che sapevano cosa significasse il mestiere dell’artista,
disegnatore e pittore.
Così sulla falsa via della ricerca di uno stile personale
rifiutando in toto le tradizioni, la didattica degli anni ’70
si è concentrata sulla formazione umana ed intellettuale,
lasciando le giovani generazioni abbandonate a se
stesse in quanto al mestiere dell’arte.
Questa tendenza al rifiuto del mestiere, che si basa
sul disegno e sulla pittura dal vero, è avvenuta anche
nel campo dell’arte. L’arte concettuale, body art, il
minimalismo sono espressioni ricche di inventiva e di
nuovi linguaggi come le performance e installazioni, ma
in cui il mestiere del disegnatore e del pittore oramai
non esistono più.
Dagli anni ’60 si assiste dunque
all’esplosione di movimento globale che
promuove l’allontanamento dalla “maestria”,
causando un impoverimento culturale e
artistico che oggi si mostra in tutte le sue
conseguenze.
Capitolo 2
Senza niente togliere alle tendenze dell’arte
contemporanea, la scuola ad indirizzo artistico, nella
sua funzione formativa ha perso sempre più il suo
ruolo: garantire quel bagaglio di conoscenze basilari
che possano condurre i giovani a saper disegnare e
dipingere la realtà senza commettere errori.
Gli equivoci della didattica contemporanea
È difficile capire verso dove vada la didattica
contemporanea. Attualmente il mondo della scuola si
presenta molto frammentato ed in mano alle iniziative
individuali piuttosto che ad una chiara direzione volta
al recupero dei valori formativi del saper disegnare e
del saper dipingere correttamente la realtà.
L’unico metodo nuovo che in questi anni è venuto
alla luce è Disegnare con la parte destra del cervello,
della ricercatrice americana Betty Edwards, che però
risulta anch’esso, dalla nostra personale esperienza,
inadeguato e non privo di equivoci come avremo
occasione di commentare nel capitolo settimo.
I metodi AS.PE.DI.® e VE.RA.DI.®, ancora sconosciuti
agli addetti ai lavori, vogliono essere un punto di
partenza per il rinnovamento di queste antiche e
indispensabili discipline che si basano sul disegno.
Qualsiasi rinnovamento sarà dunque possibile
solo se si riconoscono equivoci pedagogici che
ancora vengono attuati, nella speranza che quanto
testimoniamo possa stimolare insegnati e discenti a
sviluppare nuove strategie atte al superamento dei
vecchi schemi.
Troppi discorsi e poche
indicazioni
In questi ultimi 50 anni la scuola e la formazione
in generale, si è enormemente arricchita dei contributi
dovuti ad una maggiore circolazione dell’informazione,
di una alfabetizzazione radicata, di una disponibilità
bibliografica incredibilmente vasta e di tecnologie
multimediali utili l’apprendimento.
L’evoluzione tecnologica ha permesso un ampliamento della conoscenza concettuale a scapito di tutta
la conoscenza artigianale che è alla base dell’arte.
L’insegnamento del disegno e delle materie artistiche si
è quindi spostato verso la letteratura, verso la filosofia,
verso lo studio teorico lasciando grandi vuoti sull’aspetto pratico, snaturando così in maniera profonda le
materie artistiche. Le tendenze sociali, e quindi anche
dell’arte, si sono andate spostando verso il culto del
concetto, dell’idea dell’astrazione.
Anche le relazioni umane hanno subito una sorta
di “astrazione” nelle comunicazioni telefoniche, via
internet e con la televisione. Il mondo virtuale e
dell’immagine si è andato imponendo su quello reale e
della sostanza. Anche l’economia concreta dell’operaio
e dell’industria è diventata astrazione sviluppandosi a
favore della speculazione finanziaria.
L’apparato teorico sta superando
l’esperienza e nella didattica del disegno
sta surclassando l’esercizio manuale.
Molti ragazzi della scuola media ci raccontano
che nell’ora di Educazione Artistica fanno storia
dell’arte. Molti ragazzi del Liceo o dell’Istituto d’Arte ci
testimoniano che hanno passato intere lezioni a cercare
di cogliere la bellezza del colore, l’esattezza di certe
composizioni, senza che tutti questi studi li abbiamo
portati a disegnare e dipingere meglio. All’Accademia di
belle arti molte materie teoriche ingolfano e riempiono
la mente senza dare nessuna soluzione su come si
disegna e si dipinge un volto, il carnato, le vene, un
paesaggio. Nel piano di studi delle scuole d’arte la
maggior parte delle materie non sono di laboratorio
ma intellettuali.
Il disegno è una pratica. La sua didattica deve
fornire le soluzioni ai problemi pratici che non risiedono
nel concettuale ma nell’esperienza.
Quando di fronte ad un modello reale che presenta
100 linee ne vengono ricopiate solo 50 è chiaro che
il disegno non è corretto. Quando le proporzioni tra
cosa e cosa, tra linea e linea non sono rispettate, c’è un
errore. Quando le inclinazioni delle cose soggette alla
visione prospettica non vengono rispettate, il disegno
non è esatto come intuito da Giovanni Spinicchia nel
suo metodo didattico VE.RA.DI.®
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
21
22
Come fare a disegnare tutte le linee, le proporzioni
e le inclinazioni della realtà che ho davanti? Queste
sono le problematiche che deve risolvere una didattica
che sia adeguata al compito del disegno. Se non
viene data nessuna indicazione per il superamento
di queste semplici e concrete problematiche, gli
errori continueranno a persistere, addirittura fino al
compimento degli studi superiori e universitari.
Riteniamo inadeguate e ancora fortemente radicate,
tutte quelle pratiche didattiche in cui si crede che nel
disegno e nella pittura vada bene fare qualsiasi cosa e
che tutto debba essere permesso per non disturbare la
“personalità espressiva”.
E così il vuoto di indicazioni pratiche e puntuali,
viene colmato da una eccessiva teorizzazione che
allontana ed “ingolfa” la mente dei futuri operatori
d’arte, senza condurli a saper disegnare e dipingere.
Per illustrare meglio questo equivoco, in cui la teoria
ha surclassato la pratica, vi raccontiamo il forviante
rapporto che si è creato coi Maestri dell’arte, che
vengono studiati, non più copiando le loro opere, forse
unica vera fonte di conoscenza, ma speculando sulle
congetture dei critici e degli storici dell’arte.
Porsi in competizione coi
modelli della storia dell’arte
Oggigiorno la possibilità di accedere alle informazioni
e alle immagini è incredibilmente più vasta di quella
di soli trent’anni fa. Possiamo dunque immaginarci il
rapporto che potevano avere gli studenti d’arte del
passato nei confronti della Storia dell’Arte.
È credenza diffusa in fatto che avere a disposizione
mille immagini di artisti di ogni epoca sia un vantaggio
ed una ricchezza per il giovane apprendista. Lo è
sicuramente per lo storico dell’arte, per l’amante in
cerca di emozioni, ma per un ragazzo che si appresta
a diventare artista questa mole di informazione può
causare un effetto opposto a quel che si crede.
Non vi sarà difficile immaginare come questi modelli
causino grandi aspettative e come il “mito” romantico
dell’artista diventi da subito un esempio intellettuale,
che pone l’allievo in una tacita competizione ideale con
questi riferimenti.
In ogni disciplina difficile e complessa,
la sfida è sempre con se stessi e si affronta
Perché ho rinunciato al disegno
con la pratica, ed il confronto dovrebbe
essere con i propri coetanei e non con i
grandi maestri, da cui si esce solitamente
perdenti.
Nel passato il rapporto con l’opera di altri artisti
avveniva soprattutto attraverso la percezione dal vero
e non su fotografia. Questo permetteva all’aspirante
artista di recepire molte più informazioni sull’esecuzione
dell’opera, le informazioni relative alla sua fattezza
artigianale, ossia quelle veramente necessarie per il suo
apprendimento. In una foto tutto questo sparisce, non
si vede come è stato dipinto un quadro ed anche i colori
sono alterati. Ciò che si può cogliere nelle riproduzioni
è l’impostazione generale dell’opera ed il disegno delle
forme. Quindi, dal punto di vista delle informazioni utili
all’apprendista, poter guardare un’opera dal vero vale
mille altre riprodotte su carta o a video.
Inoltre le informazioni che accompagnano la
riproduzione delle opere d’arte, redatte dagli storici
dell’arte, non fanno riferimento alla loro realizzazione
artigianale, ai procedimenti e alle tecniche, ma sono
per la maggior parte informazioni storiche, critiche
e filosofiche, che solitamente non dicono niente
rispetto al processo creativo e di realizzazione.
Infine i modelli riprodotti nelle riviste sono tutti
dei maestri storicizzati, essi rappresentano il Top del
Top, in questo modo vengono a mancare i riferimenti
intermedi, molto più prossimi all’allievo e alle sue
possibilità, che gli consentirebbero un confronto più
adeguato e non inibente. Ciò si verifica soprattutto se di
questi grandi artisti si tengono nascosti tutti gli errori,
gli sbagli ed i tentativi che li hanno condotti a realizzare
i loro capolavori. Così facendo l’informazione è parziale
ed in qualche modo falsa, perché per diventare artista
chiunque è passato attraverso un lungo processo,
che solitamente viene celato facendo mancare quel
collegamento tra lo studente e il grande artista.
Lo studio dell’arte, come normalmente viene
trasmesso, presenta, dunque, questi tre svantaggi:
1. la perdita dei dati visivi relativi all’esecuzione
dell’opera
2. la mancanza dei dati procedurali e delle tecniche
utilizzate
3. il confronto impari e irraggiungibile
dall’apprendista
Capitolo 2
L’uso di tali modelli nella didattica dell’arte è
controproducente per la pratica perché anziché
stimolare l’allievo nel fare, lo inibiscono perché il
bagaglio di aspettative lo rende ipercritico nei propri
confronti e sterile di esperienza.
A maggior ragione risulta ancor più pericoloso
il confronto con gli autori moderni, così distanti
dalla pratica artigiana. Per questi artisti è ancora più
opportuno far conoscere la loro formazione giovanile,
perché spesso è passata per il “classico” per poi essere
abbandonata per delle soluzioni personali e originali
irripetibili e ineguagliabili. Tutte le correnti moderne
come il cubismo, l’espressionismo, l’astrattismo ecc. che
hanno superato il formalismo realistico non possono
essere prese da modello per chi si appresta a disegnare
dal vero. Lo studente giustamente si chiede: perché
vuoi che disegni correttamente una natura morta
se poi esalti coloro che non la sanno disegnare
realisticamente?
Quel che proponiamo non è certamente una
censura, o la negazione della storia dell’arte, ma una
maggiore consapevolezza e sensibilità del suo uso
nell’educazione artigianale dell’apprendista. La nostra
esperienza ci insegna che le informazioni teoriche
debbono essere trasmesse in funzione del fare e non
in maniera scollegata ed eccessiva.
Lo studio dell’arte per l’artista dovrà
quindi essere sostanzialmente differente da
quella dello storico.
Per l’allievo artigiano, non è solamente la storia di
un pensiero o di uno stile, ma l’avanzare di una tecnica
e di un linguaggio, che non dovrebbe essere teorico ma
procedurale.
Nella sua formazione il modello da seguire
per l’apprendimento del disegno dovrebbe essere
principalmente la realtà e non gli altri maestri, così
come è stato per tutti i grandi dell’arte nel primo periodo
della loro formazione. Acquisite le capacità artigianali,
qualsiasi allievo potrà dedicarsi, con soddisfazione e
capacità allo sviluppo del proprio linguaggio espressivo,
senza esser stato “soffocato” dai modelli astratti, perché
solo teorici, dei maestri dell’arte.
Se così fosse le scuole d’arte tornerebbero ad avere
nei laboratori il centro delle attività di formazione
la loro essenza didattica diventerebbe pratica e non
teorica.
La mancanza di laboratori
Il processo di cambiamento nelle scuole d’arte, che
dagli anni ’50 del XX secolo ad oggi ha visto l’avanzare
della teoria rispetto alla pratica, si fa evidente nella
riduzione e scomparsa dei laboratori di formazione dei
giovani artisti di domani.
Non sappiamo se la chiusura dei laboratori sia una
conseguenza dello spostamento teorico dell’arte o ne
sia una causa, ma sicuramente sono da considerare
strettamente in relazione.
I laboratori artistici non sono stati tutti smantellati,
ancora sono presenti in molti istituti ma non vengono
utilizzati perché nessun professore si assume più questo
impegno. Riteniamo che in questi anni si siano perdute
le competenze e il mestiere per poterli riattivare. Questi
ambienti rendevano possibile agli allievi di misurarsi con
fatti pratici e tecnici del mestiere dell’arte.
La scuola d’arte, un tempo, era una fucina dove
la didattica ruotava attorno al lavoro manuale e alle
tecniche di laboratorio. Ci riferiamo a laboratori che
non dovrebbero mancare come quello di incisione, di
scultura, di fonderia, di ebanisteria, di pittura su stoffa,
di fotografia, di ceramica, di pittura murale e affresco,
eccetera che sono espressione di un sapere che oramai
è scomparso non solo nelle scuole ma anche nelle
attività artigianali.
Come esempio ricordiamo alcune testimonianze
dei nostri allievi.
In cinque anni di Liceo Artistico, ci riferisce uno
studente, l’unico laboratorio della scuola di sviluppo e
stampa fotografica in bianco e nero, che aveva poche
cose come qualche vaschetta e un ingranditore, non
fu mai utilizzato perché non c’era nessuno che se ne
assumesse le responsabilità. Mentre uno studente
dell’Accademia di Firenze ci riferisce che il laboratorio di
sviluppo e stampa fotografica era aperto solo due ore a
settimana. Il corso di fotografia aveva più di 100 iscritti
e l’accademia contava 3500 studenti. Chiaramente le
carte per sviluppare non erano fornite dalla scuola, e
nel laboratorio potevano lavorare solo due persone per
ogni apertura.
Siamo sicuri che queste testimonianze non siano da
generalizzare e crediamo che ancora in molte scuole
d’arte le cose vadano diversamente, ma nonostante
le eccellenze, questo processo di impoverimento
della didattica dell’arte avanzerà ancora in questa
direzione.
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
23
24
La supremazia scientifica su
quella creativa e istintiva
operatori artistici, è necessario scardinare le regole che
sono state necessarie nella prima fase di formazione
per andare oltre le stesse.
Viviamo nell’epoca del trionfo della scienza e della
tecnologia che ha indubbiamente dato un forte impulso
nell’evoluzione sociale ma non crediamo che abbia
avuto lo stesso esito nella vita emotiva e spirituale
delle persone. Al contrario crediamo che un eccessivo
materialismo abbia impoverito la vita delle persone.
Gli argomenti formativi dove riscontriamo una
supremazia della scienza rispetto alla creatività artistica
sono principalmente:
1. la prospettiva
2. la luce
3. l’anatomia
Anche nella didattica dell’arte possiamo rintracciare
degli atteggiamenti che rappresentano questo processo
di annichilimento della sfera emotiva a favore dei
processi logico razionali.
L’arte non è una scienza, non si deve basare
sulla matematica e sulla geometria e tantomeno
sulle discipline medico scientifiche, che possono
essere al servizio della formazione artistica ma non
devono rappresentare dei dogmi che in qualche modo
limitano la libera creazione e lo sviluppo delle capacità
intuitive.
Nella formazione artistica si trattano diversi
argomenti e difficoltà che, attraverso un progressivo
sperimentare, si vanno risolvendo attraverso delle
soluzioni pratiche che caratterizzano la conoscenza
artistica differenziandola da quella teorica di
fondamentale utilità nella scienza.
I punti in comune tra arte e scienza sono tantissimi
e sicuramente nei secoli passati c’è stato un prolifico
confronto che ha permesso dei salti evolutivi in
entrambe le discipline, e ci auguriamo avvenga anche
nel futuro. Il confine è spesso molto sottile nelle
procedure ma decisamente differente negli obbiettivi.
La pratica scientifica è quanto di più
distante dalla quella artistica anche se non
sono rare le convergenze.
Quella scientifica si sviluppa grazie a leggi e
regole che devono essere riproducibili ed in qualche
modo prevedibili, la matematica e la statistica sono
infatti il mezzo principale di questa disciplina. In arte
la prevedibilità e la riproducibilità dei fenomeni
significa al contrario la perdita della sua magia,
della sua peculiare forza ispiratrice che sopraggiunge
inaspettata.
Ne consegue che se non si vuole istruire solamente
alla tecnica, condizione necessaria per diventare
Perché ho rinunciato al disegno
Su questi tre argomenti la scienza ci ha rivelato
incredibili segreti che possono essere di grande stimolo
per l’artista. Ma riteniamo che nel momento in cui si
crede che la conoscenza delle leggi scientifiche che
regolano questi fenomeni, sia un bagaglio indispensabile
per l’artista, si commetta un errore pedagogico.
In particolar modo nello studio della prospettiva,
del chiaroscuro e dell’anatomia umana, che sono tra
gli argomenti più complessi e ostici da assimilare e
comprendere per gli aspiranti artisti, le spiegazioni
teoriche che derivano dalla scienza e della geometria
abbiano fuorviato dalle soluzioni artistiche.
C’è da dire che questi compiti rappresentano dei veri
e propri scogli nella formazione artistica in cui molti
si sono arenati. Ciò è stato ed è causa di frustrazione
tanto per gli allievi che per gli insegnanti che si
sentono spesso disarmati e non riescono ad elaborare
una didattica adeguata per la trasmissione di queste
conoscenze. Forse per compensare queste difficoltà si
è creduto che sviluppare una conoscenza scientifica su
questi temi potesse aiutare.
Secondo la nostra esperienza, la conoscenza
scientifica può indubbiamente arricchire la mente del
discente, ed è vero che la crescita concettuale e del
linguaggio contribuisce notevolmente allo sviluppo
evolutivo.
Grazie alla sua crescita intellettiva il bambino è
stimolato a disegnare realtà più complesse e strutturate,
e ciò avviene grazie alle conoscenze acquisite nelle
scuole elementari. Risulta anche evidente che
l’affinamento intellettivo non porta conseguentemente
ad uno sviluppo grafico ed immaginifico, anzi, spesso
avviene il contrario.
La sfera percettiva, emotiva e corporea, e, nel nostro
caso, soprattutto manuale, hanno bisogno di indicazioni
pedagogiche specifiche che vadano di pari passo alla
crescita intellettiva. Laddove questo sviluppo è condotto
in maniera disuguale si possono creare conflitti dovuti
Capitolo 2
alla inadeguatezza delle attività e del linguaggio grafico
rispetto a quello verbale e numerico. Linguaggio
grafico che continua ad essere svolto dal fanciullo in
maniera sempre più frustrante e deludente. È forse
superfluo porre in evidenza il fatto che oggi assistiamo
ad un notevole sbilanciamento della pedagogia che si
rivolge all’adolescente formandolo per essere un buon
lavoratore, senza peraltro raggiungere neanche lo scopo
professionale.
Questa parentesi sull’evoluzione grafica del bambino
e dell’adolescente, ci fa capire che è indispensabile
procedere per diverse vie se si intende far crescere
le persone nella loro totalità. Vi è una via intellettiva,
astratta, concettuale in cui si sviluppa la logica, la
matematica ed il linguaggio, una via che invece tende a
potenziare la sfera emotiva, intuitiva, sensibile, ed infine
un’altra via che si occupa dello sviluppo del corpo in
armonia con il resto delle abilità.
Dovrebbe risultare evidente che non si può allenare
il corpo attraverso la matematica, che non si può
sviluppare la capacità artistica ed espressiva attraverso
esercizi ginnici, ed infine non si può abilitare al disegno
e alla pittura studiando i fenomeni da riprodurre in
maniera scientifica e teorica.
Non si tratta di dividere una persona in tre parti,
essa va sempre considerata nella sua totalità, e
l’educazione dovrebbe curarne tutti gli aspetti, si tratta
piuttosto di considerare la specificità dei compiti e
la adeguatezza o meno di studi ed esercitazioni atti
allo sviluppo grafico.
La didattica del disegno e della pittura si
deve basare sull’occhio che vede, la mente
che elabora e ragiona sulle linee, sulla forma
e sui colori, e che a sua volta trasmette
correttamente alla mano ciò che deve
eseguire.
La didattica del disegno e della pittura si deve
basare principalmente sulla copia dal vero e sulla
soluzione formale dei fenomeni osservati e non
sulla conoscenza scientifica. Tantomeno se questa
conoscenza viene offerta come soluzione e rimedio
ai problemi che incorrono nella percezione e nella
traduzione, prima mentale e poi sul foglio o la tela,
delle forme ricavate dalla copia della realtà.
Facciamo un esempio, che può sembrare assurdo,
di uso eccessivo delle informazioni non necessarie al
compito grafico. Immaginate di dover disegnare o
dipingere uno scorcio urbano, vi sedete ed osservate,
secondo voi per poter eseguire un corretto disegno è
indispensabile sapere come questa città sia sorta, come
sia stata progettata, quale sia il numero di abitanti?
Riformuliamo la domanda. Secondo voi è necessario
sapere come nella geometria siano spiegati i fenomeni
della prospettiva per poter disegnare correttamente uno
scorcio architettonico?
Pensiamo che non sia necessario. Illustreremo di
seguito le nostre riflessioni.
La prospettiva
La prospettiva scientifica deriva dalla geometria e
contempla differenti tipologie: frontale, accidentale,
dall’alto e dal basso. Si tratta di complessi procedimenti
che partono da una visione geometrica di piante e
prospetti da cui poi ricavare una visione simile a quella
umana.
I suoi risultati non sono applicabili al disegno dal
vero delle forme, perché l’occhio umano recepisce in
maniera molto estesa e con più facile lettura rispetto
alle interpretazioni scientifiche1.
La prospettiva scientifica chiarisce le regole
geometriche che dovrebbero restituire una visione della
realtà. Questo è ciò che si crede!
Questa convinzione non corrisponde a verità.
Non esiste nella pratica del disegno la fissità del
punto di vista, non esistono le rette né orizzontali e
né verticali perché sappiamo che la nostra visione è
curva e stereoscopica. Stiamo affermando che ciò che
è considerato vero nel convenzionale contesto della
geometria, è in gran parte falso nella pratica della
visione, che è un atto molto più vivo e complesso a
cui non si può applicare la rigidità sterile e riduttiva
della geometria.
Se provate a disegnare applicando queste regole
risulteranno disegni che restituiscono una concezione
delle cose che sembra estraniarsi dalla normale
visione. Questa “aberrazione” si rende evidente
soprattutto quando essa si applica a soggetti che si
estendono oltre il campo visivo (un angolo di circa 80
gradi) che si ottiene fissando un unico punto di vista.
La geometria ricostruisce la realtà anche oltre questi
confini del campo ma per l’occhio umano queste si
traducono in vistose deformazioni. Quindi per vari motivi
il modo di guardare della geometria non è lo stesso di
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
25
26
quello naturale. La prospettiva scientifica è ricca di
regole, di astrazioni e di procedimenti sovrabbondanti
rispetto alle indicazioni utili nel disegno.
Le uniche indicazioni che si conservano della
prospettiva scientifica nel metodo VE.RA.DI.®, sono il
punto di vista, la linea di orizzonte e l’inclinazione delle
linee verso i nostri occhi. Anche il concetto dei punti di
fuga, così fondamentale nella prospettiva geometrica
viene appena accennato come possibilità astratta
della geometria, ma non come procedimento utile al
recupero delle linee della realtà.
Per meglio comprendere questo argomento vi
riporto una mia esperienza prima di incontrare il
metodo VE.RA.DI.
Quando col programma del corso di disegno
giungemmo alla prospettiva, una simpatica e laboriosa
studentessa svedese, laureata in Architettura nel suo
paese di origine, si sentii sufficientemente preparata
ad affrontare il compito data la sua buona conoscenza
della prospettiva scientifica. Il compito consisteva nel
disegno di un angolo della propria casa. La lezione
successiva mi portò il disegno di una credenza
decisamente improbabile, freddo e quasi allucinato, che
però rispondeva totalmente alle regole prospettiche da
lei assimilate in precedenza!
Cosa era capitato?
Lei non aveva osservato l’oggetto in questione. Se
lo avesse fatto avrebbe dovuto muovere il collo per
guardare in basso, e di conseguenza cambiare il punto
di vista, ed in questo modo i piedi della credenza non
sarebbero risultati così deformati.
Essa non ha concentrato la sua attenzione
alla forma che aveva davanti, ma era
preoccupata dei applicare correttamente
regole prospettiche, spostando in questo
modo l’attenzione dalla forma reale osservata
alla astrazione mentale ricordata.
Gli spiegai che la deformazione della parte bassa
della credenza - con quello spigolo così improbabile
- fosse dovuta al fatto che l‘osservatore si sia posto
troppo vicino al soggetto e bastava fare qualche passo
indietro per far rientrare il mobile nel suo campo visivo
e poter, così, cogliere la realtà mantenendo una certa
armonia.
Dunque, se dalla sua posizione la parte bassa della
credenza era esclusa dal campo visivo, ciò che ha
disegnato era una ricostruzione astratta che ha fatto
derivare dai punti di fuga secondo la geometria che ben
sapeva. Per questo motivo il suo elaborato presentava
un certo realismo solo nella parte superiore, che lei
vedeva senza dover piegare la testa.
In questo disegno, che può sembrare a prima vista corretto,
possiamo notare una delle frequenti deformazioni della realtà
osservata dovute all’uso preconcetto della prospettiva geometrica.
La parte bassa che poggia terra, soprattutto nella zona destra, si
presenta forzatamente a punta.
L’acutizzazione degli angoli distanti dal punto di vista geometrico
rendono qualsiasi copia del vero dura, fredda e quasi allucinata dato
che si discosta notevolmente da ciò che normalmente si osserva.
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 2
La luce
Da quando Newton scompose i colori della luce per
mezzo di un prisma le nostre conoscenze riguardo al
fenomeno di irradiazione, riflessione e assorbimento
da parte dei vari pigmenti si è andato sommando ed
oggi disponiamo di tantissime informazioni a riguardo.
Anche la fotografia con la sua esattezza ha contribuito
notevolmente a comprendere il fenomeno dal punto di
vista della percezione.
Nell’apprendimento del disegno è
fondamentale capire il volume delle cose
dato dalla luce. Questo argomento, noto
come chiaroscuro, presenta un certo grado
di difficoltà e spesso è disatteso negli
insegnamenti artistici.
Anche in questo caso bisogna saper distinguere
quali conoscenze siano necessarie al neofita e quali
siano eccessive devono rimanere estranee alla
formazione di base per condurre con semplicità e
chiarezza il compito educativo.
La visione scientifica considera la luce come raggi
che, vengono rappresentate nella geometria come linee
parallele per il sole e irradianti per tutte le altre fonti
di luce artificiali. Questi raggi-linee, sempre secondo la
geometria, colpiscono gli oggetti lasciando un lato in
luce ed uno in ombra, oggetti che a loro volta proiettano
un’ombra su un piano o su altre superfici. Il tutto
viene condotto in un “ambiente” astratto e asettico in
cui non sono contemplati né i riflessi di altri oggetti
e né i comportamenti complessi di assorbimento o
rifrazione di questi raggi. Si viene così a costruire una
situazione geometricamente esatta ma proprio per
questo percettivamente sbagliata perché lo spazio in
cui vivono queste realtà è uno spazio vuoto ed isolato
dal resto delle cose.
Nella copia dal vero la luce non si comporta mai
come una linea retta che colpisce un corpo ma si
moltiplica in una quasi infinita quantità di raggi,
che si riflettono dappertutto e creano una sorta di
spazialità luminosa che avvolge le cose. Ed è in questa
“atmosfera” luminosa in cui sono immerse che le
cose mostrano la loro natura volumetrica.
Fonte luminosa puntiforme
Linea d’orizzonte
Ombra propria
Ombra portata
In questo schema si illustra
l’azione della luce nello spazio
astratto della geometria.
L’immagine mostra chiaramente
la distanza che incorre tra la
copia dal vero nell’arte, ricca
di suggestioni e di sensibilità,
dalla fredda e meccanica
interpretazione che si ottiene
nelle scienze geometriche,
in cui il fenomeno è ridotto
all’essenzialità della ragione.
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
27
28
Nell’arte si fa un uso estetico della luce e se
anche presenta una logica simile a quella scientifica,
ma da esso si distanzia e si differenzia perché le
luci vengono inserite nel disegno e nella pittura per
logiche di contrasto e di bellezza, per far risaltare e
contraddistinguere dei particolari. L’artista è guidato
da un senso estetico della luce e non scientifico.
Ricordo una lezione sulle luci e sulle ombre eseguita
alla lavagna dal mio professore. Dopo le spiegazioni
geometriche attraverso varie proiezioni ortogonali
da cui ricavare le prospettive luminose, ci diede un
foglio fotocopiato in cui era disegnato un ambiente
scarno, un angolo di casa forse, dove c’erano un tavolo
e degli oggetti. Noi dovevamo scegliere il lato da cui
proveniva la luce, se essa era in alto o in basso, se era
solare o artificiale, forte o debole. Capii tante cose sul
funzionamento scientifico della luce ma quella lezione
non mi chiarì affatto su come mi dovessi comportare
nel disegno chiaroscurale. La maggior parte dei miei
compagni andò a casa con la testa sovraccarica di
informazioni e consegnarono le fotocopie con le luci
tutte sbagliate. Povero professore nessuno in fondo era
riuscito ad applicare la visione scientifica!
Ricordo anche che quando disegnavamo i gessi
o alcune nature morte quei calcoli erano l’ultima
cosa che ci veniva in mente. Compresi che la luce
non si comportava in quel modo freddo e astratto
spiegato alla lavagna, essa era vita, essa era come una
carezza che occorreva cogliere con sensibilità solo ed
esclusivamente osservando il vero, aggiungendo a poco
a poco quei valori chiaroscurali che poi mi restituivano
la realtà nella sua natura volumetrica.
Ciò di cui avevamo bisogno, come allievi, non
era una lezione teorica ma pratica in cui venivamo
guidati osservare la complessa natura delle cose.
A distanza di anni, come insegnanti, siamo riusciti
attraverso una attenta indagine dal vero, escludendo
totalmente la geometria delle luci, a far comprendere
e assimilare quella sensibilità sottile che occorre per
ricreare sul foglio quella magia che rende vivi gli oggetti
inanimati.
L’anatomia
Di fronte ad una figura umana ci si rende subito
conto che non basta disegnare i contorni o i muscoli
per rendere vitale il nostro disegno al pari del modello.
Disegnare il corpo umano è un esercizio che può essere
Perché ho rinunciato al disegno
molto frustrante, non solo per i problemi legati alle
proporzioni e all’esattezza delle linee ma soprattutto
in virtù di quella sensazione che abbiamo della massa
corporea, della sua articolata forma che è allo steso
tempo statica e dinamica.
In quanti casi, in cui sentiamo i nostri
disegni inadeguati al vero, facciamo ricorso
ai manuali di anatomia per cercare senza
esisto la soluzione ai nostri errori?
Questo equivoco è tra i più radicati nelle scuole
d’arte. Credere che non si possa conquistare la figura
umana senza prima avere studiato i testi scientifici di
anatomia è cosa comune. La conoscenza scientifica
non risolve assolutamente le difficoltà che si
possono incontrare nel riprodurre manualmente una
realtà complessa come quella del corpo umano.
Vorrei riportare, a tal proposito, una significativa
esperienza. Al Liceo Artistico di Cagliari a supporto della
materia di Anatomia Artistica avevamo in dotazione
un manuale fatto da un medico. Questo voluminoso
manuale era composto da una sezione saggistica, di
circa 350 pagine, e dall’atlante dello scheletro e dei
muscoli di circa 50 pagine.
Alla prima lezione quando ci presentarono il testo
di studio ci fu lo sgomento di tutti i miei compagni.
La professoressa ci mostrava il manuale che noi
osservavamo quasi terrorizzati: pagine e pagine che
spiegavano i muscoli, le inserzioni, le vene, gli organi,
le funzioni articolari e vi dicendo.
Che senso aveva un tale compendio di conoscenze
scientifiche per un artista?
Era un testo di anatomia medica adattato
superficialmente all’uso artistico. Eppure nel manuale
c’era scritto “ad uso dei Licei Artistici e Scuole d’arte”.
Ritenendoci vittime di un grosso equivoco, cercammo
un gruppo di ragazzi di convincere la professoressa
a cambiare testo, sostituendolo con uno più snello
e ricco di immagini. Dopo una indagine di circa una
settimana scoprimmo che quello era l’unico testo in
tutta la scuola e non riuscimmo così a scampare a
quel triste destino. Ben presto, con grande sollievo, ci
accorgemmo che di quel libro se ne faceva solo uso di
consultazione, si utilizzava soprattutto l’atlante allegato
utile per riprodurre i disegni. Ma ciò non ci dispensò
dallo studiare tutte le articolazioni, il liquido sinoviale,
la tipologia di muscoli, ecc..
Capitolo 2
Alla fine dei due anni di anatomia nessuno sapeva
i nomi a memoria dei muscoli e delle varie componenti
anatomiche. Nessuno sapeva l’anatomia scientifica.
Tutti noi avevano portato dei disegni anatomici copiati
senza nessuna consapevolezza profonda della bellezza
della figura umana, così estranea a quelle scarnificate
mostruosità anatomicamente corrette. Come delle
fotocopiatrici umane avevamo copiato le tavole
anatomiche - molti di noi addirittura ricalcando da
fotocopie ingrandite - e ciò fu sufficiente per essere
promossi.
A cosa servirono questi due anni di studio pseudo
scientifico? Nessuno di noi mostrò un miglioramento
dovuto allo studio anatomico nel disegno della modella
che realizzavamo nelle ore di Figura, materia in cui
si copiava dal vero il corpo umano. Tali conoscenze,
anche affascinanti se vogliamo, rimasero in una zona
della mente separata nettamente dalla pratica artistica.
Se consideriamo il corpo umano una somma di
massa muscolare e di vitalità (biologica e spirituale),
non è conoscendone la struttura interna che si può
sperare di riprodurre al meglio il suoi significati.
Per recuperare le linee che compongono questa
forma è sufficiente tenere presente mentalmente
i comportamenti naturali da cui si è sviluppato
l’essere umano, come spieghiamo approfonditamente
nel testo VE.RA.DI.®.
Se tutto è generato da un cellula tonda che si
unisce ad un’altra cellula sarà il movimento circolare
a permetterci di recuperare, senza snaturarla, la natura
umana. Da questo nucleo si va formando il feto che non
è altro che un insieme circolare di elementi, dagli arti,
alla nuca agli stessi vasi sanguigni, ed è chiaramente
circolare anche la pancia della madre che ospita il
feto.
Nella sua esperienza Giovanni Spinicchia ha
accantonato i testi scientifici di anatomia ed ha invitato
gli allievi a disegnare attraverso l’istinto e il gesto
circolare. Gesto continuo e leggero e soprattutto ricco
di movimenti.
Questo atteggiamento pedagogico, gli ha consentito
non solo di trasmettere loro il senso del volume,
delle forme e delle proporzioni, ma soprattutto di
rappresentare l’energia vitale di cui il corpo umano e
la natura sono espressione.
Ecco come si presenta una tavola di anatomia
scientifica. Un corpo scarnificato, che mai
avremo modo di vedere nelle nostre indagini
artistiche. Un corpo disposto in una posizione
standardizzata e difficilmente riscontrabile nei
nostri modelli dal vero o fotografici.
Il corpo umano, al contrario di quanto esposto
nelle tavole anatomiche, è raro che presenti una
evidenza muscolare, soprattutto nelle figure
femminili. Ma l’elemento forse più distante tra
la teoria e la pratica, è che le forme umane,
nella loro articolazione e variabilità dei punti di
vista dal quale si possono osservare, presentano
forme pressoché infinite. Non è quindi
importante e necessario, al fine del disegno, se
non per amore della conoscenza, apprendere le
nozioni anatomiche che si distaccano, per la loro
astrazione, dalla realtà esecutiva.
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
29
30
In conclusione a questa rassegna, ci auguriamo di
aver chiarito sufficientemente quali siano le sostanziali
differenze tra conoscenza scientifica e conoscenza
artistica, e come le prime intervengano dannosamente
nelle seconde.
Quando si trasmettono informazioni che non
servono al compito pratico, esse confondono e creano
disturbi, distraendo il candidato dallo studio della forma.
A maggior ragione quando queste informazioni creano
aspettative rendendo il compito nevrotico e pignolo e
non, come sia opportuno, disteso e piacevole.
Riteniamo che sia necessario porre un limite,
capire quanta debba essere l’informazione scientifica
necessaria all’allievo e che sia stimolante e non inibente,
che liberi piuttosto che sovraccaricare.
Per arricchire il pensiero del disegnatore può essere
interessante la conoscenza di come le cose dell’universo
si possono formare, avere nozioni sui processi chimici,
sull’incidenza dei fotoni luminosi nelle superfici, ecc.
ma sono conoscenze che acquisirà nelle altre discipline
e che ricercherà da solo nella misura e nelle modalità
che più riterrà opportuno.
Bisogna essere in grado di rinunciare alla
sovrabbondanza di informazioni, si tratta di fare un lavoro
in cui si toglie più che aggiungere. Riteniamo necessario
questo alleggerimento, soprattutto, in questo momento
storico in cui siamo bombardati da milioni di informazioni
inutili e secondarie che non sono assolutamente
indispensabili alla vita, ma che contrariamente creano
disorientamento e confusione.
La conoscenza dei mezzi artistici
In conclusione cercheremo di stimolare una
riflessione anche sull’uso adeguato dei mezzi artistici, in
quanto oggi abbiamo una grande possibilità di scelta di
colori, matite, carboncini, terre, pennelli, in un numero
così vasto che disorienterebbe chiunque.
Quindi sarebbe opportuna una pedagogica che
possa orientare gli insegnanti ad una introduzione
graduale e misurata di questi mezzi che consenta di
stabilire anche un ordine progressivo.
È mentalità diffusa considerare che i mezzi possano
fare il fine, ovvero che attrezzarsi delle più costose
tecnologie possa rendere più bravi. Questa credenza
per quanto possa far sorridere e apparire ridicola non
deve essere sottovalutata, dato che nella didattica del
disegno e della pittura viene forse data più importanza
all’uso dei mezzi che all’elaborazione di un codice di
apprendimento.
Non è raro che il bambino, l’adolescente o l’adulto si
circondino di matite di ogni gradazione, di pennarelli, tipi
di carta, pennelli e quant’altro in maniera sproporzionata
alla loro capacità. Fintanto che l’iniziativa è assunta dal
principiante che si è fatto prendere dall’entusiasmo
o dalla smania di consumo non vi sono pericolose
controindicazioni perché la situazione arriverà ben
presto ad un punto di arresto e di saturazione, dato che
i buoni propositi si areneranno nelle difficoltà richiede
la gestione di tale ricchezza di mezzi.
Perché ho rinunciato al disegno
La responsabilità di un insegnante è ben diversa
dato che il neofita si fida delle sue indicazioni. Non
è opportuno ritenere che tale quantità di mezzi sia
necessaria, soprattutto di fronte ai sacrifici economici
che spesso si sostengono per il loro acquisto. È normale,
quindi, che l’allievo si rivolga all’insegnante su come
si debbano usare tutti questi mezzi. Questa quantità
aumenta le aspettative, creando una sorta di ansia di
sapere come adoperare questi strumenti.
In questi casi è molto importante che i
docenti introducano gradualmente all’impiego
di tali risorse, facendo attenzione che i
candidati non siano sottoposti precocemente
a delle problematiche troppo avanzate per
le loro capacità.
Immaginate un bambino piccolo che impara a
leggere e fare le prime operazioni matematiche, i
caratteri sono grandi, pochi di numero ed i compiti
molto semplici. A nessuno verrebbe in mente di porli di
fronte ad un libro di Svevo o a delle equazioni. Se così
si comportasse, il risultato non potrà che essere uno
solo: fallimento e frustrazione. E se si dicesse loro: “non
siete portati per la letteratura e la matematica!”, come
spesso avviene nel disegno, oltre al danno ci sarebbe
anche una beffa.
L’utilizzo di certi mezzi complessi e difficoltosi deve
Capitolo 2
essere promosso solo quando il discente ha acquisito il
sillabario del disegno, ossia quando possiede la capacità
di cogliere una forma nei suoi significati spaziali,
proporzionali e chiaroscurali, come insegna nei suoi
metodi Giovanni Spinicchia.
Nel metodo AS.PE.DI. ® l’uso di certi mezzi si
introduce gradualmente, e nel caso di VE.RA.DI.® si fa
solo uso della sola penna a biro e del foglio da fotocopia
A4 e, solo in un secondo momento, il foglio più grande
di formato A3.
L’uso della penna a biro si è rivelato il mezzo più
idoneo per l’apprendimento, perché il suo segno
rimane pulito, chiaro e incancellabile a differenza del
lapis dalla punta instabile e dalle tracce non favorevoli
per imparare a disegnare. La penna biro permette di
superare ansie, nevrosi, difficoltà di impiego. Inoltre
consente di non cancellare gli errori perché devono
rimanere sul foglio, il quale diventa in questo modo
un documento indelebile, utile per porre a confronto
i disegni successivi in cui evidenziare i progressi
conquistati ed indicare i passi ancora da percorrere.
Dall’esperienza VE.RA.DI.® abbiamo quindi ritenuto
che la matita, il carboncino e i pennarelli non sono
adatti per l’apprendimento di base del disegno, ma
vanno introdotti solamente quando il candidato non
commetterà più errori di forma, di proporzioni, di
armonie volumetriche e sensibilità chiaroscurali, e
ciò si consegue, grazie al metodo, in un solo anno di
studio.
In conclusione, riteniamo che solamente nel
momento in cui è assimilata la “grammatica” del
disegno siano i benvenuti tutti i mezzi che possono
arricchire, trasformare e restituire valori espressivi
legati allo stile personale.
La suggestione dei negozi d’arte spesso spinge gli aspiranti artisti
ad acquistare materiali artistici che si rivelano troppo difficili e
complessi nel loro utilizzo, per finire ben presto abbandonati.
Conclusioni
Ci auspichiamo, con questo capitolo, di non aver fatto barcollare nessun “mito” nella mente di molti lettori,
ma solamente di aver stimolato delle riflessioni che portino ad agire con maggiore consapevolezza pedagogica.
Consapevolezza che liberi dal seguire meccanicamente la tradizione o quanto ci è stato trasmesso. In particolar
modo, ci auguriamo di aver incoraggiato la ricerca verso lo sviluppo creativo di nuove strategie che definiscano
con maggiore precisione gli obbiettivi della didattica dell’arte.
Note
1. In verità la prospettiva geometrica non traduce ciò che l’essere umano vede. La forma matematico-geometrica che più si avvicina alla
visione umana è la prospettiva curva. Questa teorie tiene conto delle deformazioni visive si attuano distanziandosi dal punto centrale
di osservazione. Anche la visione ottica di tipo sferico che proviene dall’occhio al cervello non è “vera” dato che queste informazioni,
parziali e deformate, vengono in realtà corrette e configurate grazie all’intervento del cervello. Ne consegue che la realtà che vediamo è
particolarmente complessa e difficilmente si presta ad essere ridotta da regole matematiche.
Gli equivoci pedagogici nelle scuole ad indirizzo artistico
31
32
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 3
Capitolo
3
Da grande volevo
fare l’artista!
Da grande volevo fare l’artista!
33
34
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 3
Nei precedenti capitoli abbiamo esposto i motivi
a cui si può far risalire la mancanza di un codice di
apprendimento del disegno.
Si è parlato di alcuni preconcetti, degli equivoci
pedagogici e della mancanza di interesse, da parte
delle istituzioni educative e politiche, allo sviluppo del
disegno in seno alle società.
Abbiamo anche fatto notare come ciò sia frutto di
una inadeguatezza generale della collettività che
non è consapevole dei valori pedagogici della pratica
del disegno e della pittura.
Nelle nostre testimonianze non abbiamo cercato un
colpevole, ma abbiamo condotto la nostra riflessione
soffermandoci sulle responsabilità della scuola e delle
famiglie.
Ma siamo sicuri che le responsabilità del nostro
abbandono si debbano esclusivamente agli altri?
È conveniente capire come anche i nostri genitori
ed insegnanti si siano trovati a loro volta influenzati
da un modo di pensare comune, che ha, in fondo,
convinto anche noi!
Per farlo è necessario rompere con il principe dei
pregiudizi!
La convinzione più difficile da sradicare, che tutti
assumiamo come vera senza opporre grandi resistenze.
Vediamo, potrebbe recitare così: chi si dedica all’arte
è molto probabile che morirà di fame, in solitudine,
generalmente incompreso e abbandonato, ed inoltre,
diseredato dalla famiglia e dalla società!
Sembra che esageriamo?
Sì.
Ma non è forse questo il destino che attende chi
si dedica al suo piacere senza curarsi del lavoro e del
guadagno?
Non è forse questa la tacita paura che si nasconde in
quella velata minaccia che sembra faccia un’intera società
a chi vuole dedicarsi all’arte alla poesia o alla musica?
Lo scopo, di questo breve capitolo è quello di sensibilizzare il lettore a curare la propria natura artistica
ed espressiva.
Dedicatevi alla vostra passione con somma soddisfazione e libertà indipendentemente dal timore di
non avere più di che vivere!
La tormentata via dell’Arte
La società attuale è formata da una
moltitudine di persone a cui, per diverse
ragioni, gli è stata negata fin dalla tenera
età, la possibilità di frequentare scuole in
cui far emergere le proprie doti creative ed
artistiche.
Questa condizione non è nuova, in passato molte
persone evitavano, anche col solo pensiero, di intraprendere una carriera artistica pur avendone il desiderio. Sapevano benissimo che per le loro condizioni
socio-economiche o culturali, non potevano permettersi una tale aspirazione. Studiare e dedicarsi all’arte
fino agli anni ‘50 era privilegio di pochi benestanti o
figli d’arte.
La difficile condizione a cui poteva andare incontro
chi desiderasse dedicarsi all’arte, si è imposta nel romanticismo quando l’artista oramai non era più un artigiano
ma un individuo libero dai dettami della committenza.
Si legge nelle biografie di tanti artisti come sia stato
difficile far accettare le loro scelte alla famiglia. Quante
siano state le peripezie che hanno dovuto affrontare
pur di realizzare la loro vocazione.
Perché è stato sempre così arduo far accettare alle
famiglie che l’unica cosa che ci sentivamo di fare nella
vita era dedicarsi all’arte?
Perché non riusciamo a farci una ragione di questa
negazione?
Perché questa rinuncia è causa di così tanta
frustrazione fino a divenire, in molti casi, un triste e
malinconico mal di vivere?
Senza nessuna pretesa psicologica o sociologica
vorremo esporre alcune considerazioni, in gran parte
derivate dall’esperienza di insegnamento e dal continuo
contatto con questa umanità che potremmo definire
di “artisti mancati”.
Da grande volevo fare l’artista!
35
36
Diversi anni fa ci imbattemmo in una vignetta del grandissimo umorista americano, Jules Feiffer, che meglio di
ogni discorso esprime efficacemente alcuni “effetti collaterali” causati dalla negazione delle proprie velleità artistiche.
Vignetta di Jules Feiffer, tratta dai Tascabili Bompiani 1982 ©
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 3
Lavorare per vivere o vivere per lavorare
Uno dei principali impedimenti culturali a sfavore
della professione artistica è, dunque, il fatto di credere
che essa non possa garantire un futuro sostentamento.
Come tutte le credenze sociali, non si può negare
che vi sia una parte di verità in questa convinzione. Ciò
è possibile ma non sicuro. Anche per altri indirizzi di
studio vale la stessa cosa.
Un fatto è invece molto probabile: i danni psicologici che derivano da questa repressione vocazionale
sono maggiori dei vantaggi che si possono ottenere
da scelte, apparentemente più oculate, guidate dalla
sicurezza del lavoro.
L’artista mancato, infatti, sceglie con poca convinzione una professione che gli permetta di vivere
o di sopravvivere. Questa situazione di ripiego, nella
maggior parte dei casi, non si attutisce nel tempo, al
contrario spesso si acutizza in pensieri ed insoddisfazioni che rendono il soggetto poco felice e con il costante
pensiero e la speranza di potere realizzare un giorno,
anche se in età avanzata, il sogno andato infranto.
Questa umanità, può vivere col costante senso di
inadeguatezza, e si nutre di sogni e speranze verso
espressioni come l’arte, la danza, la moda, il teatro, il
cinema, la letteratura, e tutto ciò che risuona in quella
particolare frequenza, dimostrando nei confronti di
tutte le arti una forte partecipazione spirituale.
Per il mercato economico sono una risorsa, in
quanto costoro sono i maggiori consumatori dei
prodotti artistici, e questa frustrazione, come per la
maggior parte dei malesseri, è il motore nel processo di
compensazione offerto dal sistema commerciale.
Gli artisti “lavoratori”
Ma questo destino, comune a molte generazioni,
non è stato così per tutti. Alcuni, forse più fortunati o
determinati, hanno il tempo e possibilità economiche
per potersi dedicare alle proprie aspirazioni artistiche
nonostante professino altri mestieri per vivere.
Questa capacità di adattarsi alle situazioni senza
negarsi la possibilità di creare, in cui convivono l’artista
e il lavoratore, ci è sembrato un modo apprezzabile di
affrontare il problema. Molti di loro sono persone che
lavorano mezza giornata o insegnanti, che pur non
essendo artisti professionisti, dedicano metà della loro
vita a questa loro attitudine.
Esempio storico di artista-lavoratore lo troviamo
nel pittore Henry Rousseau detto il “Doganiere” impiegato al dazio della prefettura della Senna a Parigi
fino al 1893, quando all’età di 49 decide di dedicarsi
solo alla pittura. Iniziò a dipingere nel 1871 a 27 anni
da autodidatta e solo da pensionato si dedicò interamente a questa passione. Anche l’agente di cambio Paul
Gauguin lasciò sia il lavoro che la famiglia nel 1883 a
35 anni per dedicarsi alla pittura.
Come per ogni situazione che non desideriamo ma
che per cause maggiori ci è toccato vivere è importante non demordere, perché vi possono essere delle
strategie che consentano una mediazione tra passione
e costrizione. Si tratta di fede. Se si ha fede nella vita,
col tempo, è possibile creare quelle opportunità che
sono venute a mancare nell’adolescenza, superando
in questo modo l’insoddisfazione, aprendo nuovamente
il nostro futuro alla realizzazione dei nostri sogni.
La formazione al disegno per adulti
La considerevole affluenza degli adulti nelle scuole
artistiche private è un esempio che mostra come la
speranza di dedicarsi al disegno non si spegne col
tempo. Si rivolgono a questi centri persone di varie
età ed estrazione culturale con l’intento di recuperare
quella preparazione che è venuta a mancare in adolescenza, realizzando in questo modo, un sogno a suo
tempo negato.
Da grande volevo fare l’artista!
37
38
Vi sono moltissime scuole d’arte private che si
muovono intorno alle speranze di chi non vuole mollare
a cui va dato il giusto riconoscimento, in quanto contribuiscono a mantenere vive le speranze di diventare
artisti.
Queste scuole permettono, a prescindere da ogni
risultato estetico o mira professionale, di far vivere mo-
menti di profondo e appagante piacere, in cui possono
trovare consolazione le problematiche quotidiane.
I mancati risultati ottenuti dalle scuole
pubbliche nella didattica del disegno, da
origine a quello che posiamo definire “analfabetismo artistico”.
Il disegno come conoscenza
Per sviluppare l’alfabetizzazione al disegno è necessario condurre le nuove generazioni a disegnare
senza errori, come sostenuto dal metodo VE.RA.DI.
Così facendo si considererebbe anche
il disegno, alla stregua delle lettere e dei
numeri, una acquisizione necessaria per lo
sviluppo e la crescita della società.
Secondo noi l’obbiettivo della didattica dell’arte
nelle scuole superiori, come abbiamo già avuto occasione di scrivere, non dovrebbe essere solo quello di
formare artisti e artigiani, bensì quello contribuire allo
sviluppo emotivo-espressivo della persona. Le materie
artistiche permettono di incrementare una maggiore
libertà e creatività, capacità indispensabili per applicarsi
in ogni attività dalla quale si cerchi di trarre soddisfazione esistenziale.
Resta significativo il fatto che l’educazione artistica
sia considerata una materia formativa solo fino alle
scuole medie - anche se con un numero ristretto di
ore - e decade nelle scuole superiori che non siano ad
indirizzo artistico.
Ciò è conseguenza di una impostazione della scuola
orientata principalmente allo scopo professionale, che,
paradossalmente, non è neanche in grado di sostenere,
perché, come tutti ben sanno, il livello di disoccupazione
è tale da far sembrare questo obiettivo un pretesto per
non adempiere allo sviluppo delle nuove generazioni.
Rimane dunque un “vuoto” in cui le scuole si riducono
in “parcheggi”, e ciò porta a pensare che le politiche
sociali siano manovrate da chi ha interesse a mantenere
i popoli nell’ignoranza e in uno stato di non realizzazione delle proprie aspirazioni.
Queste affermazioni, possono sembrare estremiste
e prive di fondamento, eppure tutti i giorni assistiamo
Perché ho rinunciato al disegno
allo smantellamento della scuola e delle università,
intese sempre più come luoghi fuori dal mondo, in
cui gli allievi e gli insegnanti vivono una crescente
precarietà di lavoro e di conoscenze. Quanto viene
trasmesso risulta sempre meno adeguato per affrontare
il proprio futuro.
Come insegnante noto che in tutti i campi del
sapere si sta verificando un fenomeno crescente di
impoverimento.
Nel caso specifico del disegno e della pittura, che
difficilmente si prestano a formare un essere produttivo e meccanico, questo impoverimento è ancora più
evidente. Vivono la stessa sorte tutte quelle materie di
formazione dello spirito, come tutte le discipline umanistiche, che mostrano un disadattamento crescente tra
il mondo dello studio e l’ambiente sociale.
Quindi riteniamo che la sorte, che storicamente
è capitata a chi voleva intraprendere la via dell’arte,
ovvero una lotta contro i pregiudizi, sia comune a
tutte le iniziative che non appaiono utili e produttive.
Ci riferiamo a tutti i settori della ricerca che non hanno
una diretta applicazione pratica, come ad esempio la
filosofia.
Per noi è evidente che il valore di queste
discipline non risieda nella produttività e
nella creazione di ricchezza materiale.
La maggiore parte delle persone si sente riconoscente per contributo che l’arte , nei secoli, ha dato alla
crescita delle società. Nessuno potrebbe asserire che
l’arte, e di conseguenza il disegno, siano inutili e non
necessarie per la vita e lo sviluppo collettivo. Eppure,
nonostante questo aperto riconoscimento del valore
etico e spirituale, a questa antica sapienza non viene
riservato un grande valore nella pratica formativa.
Capitolo 3
Tutto ciò si può riassumere nel detto “l’arte non
paga”, inteso in maniera degradante. Questo atteggiamento di sfiducia si riscontra anche nella considerazione che si ha delle scuole d’arte: piene di persone che
non hanno voglia di studiare e per questo considerate
di serie B.
Stufo di sentire sempre gli stessi stereotipi ho deciso di provare a sfatare queste convinzioni. Mi sono
immaginato di avere come interlocutore un ferreo
sostenitore del lavoro, per il quale tutto l’agire deve
essere “pratico”, e chiaramente, deve dare guadagno!
Riuscite ad immaginare un siffatto individuo?
Bene! Lui è convinto che l’arte non paghi.
Ostentando sicurezza mi dice: “Tu vivi nel mondo dei
sogni, intraprendere una scuola ad indirizzo artistico
è solo una perdita di tempo o tutt’al più un piacevole
passatempo privo di una qualsiasi utilità sociale”.
Gli rispondo sicuro, suscitando grande sorpresa nel
pragmatico personaggio immaginario.
“Mi permetto di dissentire, e le farò vedere, come
il disegno sia una nobile disciplina, non estranea al
mondo del lavoro, l’unico “che conta” per lei”.
“Le farò un elenco delle professioni in cui il disegno è conoscenza indispensabile e necessaria, inoltre,
con sua sicura soddisfazione, potrà verificare che tali
occupazioni siano ben retribuite, solitamente oltre la
media degli impieghi!”
“Ecco dunque dove si può applicare l’arte del disegno:
• Cinema (story board, in cui si disegnano e si dipingono le scene principali prima di girare il film)
• Pubblicità (bozzetti iniziali, layout, ecc.)
• Editoria (illustrazioni di copertine, di favole, di
racconti, ecc.)
• Diffusione scientifica (illustrazioni di anatomia, di
biologia, di fisica, ecc.)
• Satira e umorismo (vignette e strisce)
• Fumetto (sia la parte in matita, che la chinatura e
la colorazione)
• Architettura (schizzi iniziali del progetto e successive elaborazioni prima della parte tecnica)
• Incisione e stampa artistica
• Confezione di Gadget (disegni su maglie, inviti di
auguri, targhe, ecc.)
• Cartoni animati (schizzi iniziali, studio dei personaggi, ambienti di sfondo, ecc.)
• Progettazione design (mobili, sedie, oggettistica,
lampadari, auto, moto, ecc.)
• Moda (modelli di vestiti, stoffe, accessori, borse,
scarpe, ecc.)
• Educazione (elementare e media oltre che professionale e superiore)
• Scenografia teatrale e cinematografica
A questo punto, il nostro ostinato personaggio
dapprima è dubbioso e titubante, ma poi si arrende
all’evidenza e mi dice:
“Caspiterina! Non è assolutamente vero
che l’arte non paga!
Se solo lo avessi saputo a 13 anni, non
avrei certamente studiato per diventare
ragioniere!”
Conclusioni
Non rinunciate alla vostra vocazione. Non importa se vi sarà utile per guadagnare. Attraverso il disegno
sarete in grado di accrescere la vostra capacità di osservazione e di ragionamento in tutto ciò che farete. Ma
soprattutto rendete felice la vostra anima che è eterna, ed è per questo motivo non è mai “troppo tardi” per
riprendere a disegnare!
Da grande volevo fare l’artista!
39
40
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 4
Capitolo
4
Insegnare disegno
agli adulti:
l’esperienza del
Centro Umanista di
Espressione Artistica
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
41
42
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 4
In questo capitolo racconto l’esperienza
di una scuola particolare, il Centro Umanista
di Espressione Artistica (CUEA) in cui si è
cercato di promuovere l’espressione artistica con un chiaro intento di far stare bene
le persone, di regalare momenti di gioia, di
confronto e di stacco dalla stancante vita
quotidiana.
In questa “anomala” scuola abbiamo vissuto serate
molto profonde e di armonia, di pace e di vera passione
per l’arte. Tutto questo è stato possibile per la grande
forza che i nostri allievi ci hanno dato per superare
anche i tanti momenti difficili. Per questo motivo
ringrazio tutte le persone che in 10 anni di vita del
centro mi hanno dato la possibilità di sperimentare
sempre nuove strategie didattiche e di accrescere la mia
esperienza, e hanno reso di me una persona migliore.
Siamo tutti bambini
Occorre, dunque, nella maggior parte dei
casi aiutare sciogliere le paure ed i timori
che negli anni si sono andate stratificando,
attraverso esercizi semplici immaginando di
dialogare con degli adulti che non sono poi
tanto diversi da come erano da bambini.
non ho agito con questa attenzione, ho rischiato in
più situazioni di alimentare le loro frustrazioni anziché
aiutarli a superarle. Ho rischiato di sommare un nuovo
fallimento ed una nuova delusione nella loro esperienza
di “disegnatori falliti”.
Le forme in cui si può esprimere questa fragilità
infantile nell’adulto sono tante e sottili, e vanno
dal disagio sottile che provano nell’essere guardati
disegnare, alla sofferenza evidente nel constatare i
propri errori. A volte si esprime con rabbia, altre volte
con impazienza dovuta all’ansia di non riuscire. In
diverse occasioni l’adulto, come il bambino, sente
il bisogno dimostrare che ha capito tutto, anche se
molti concetti non gli sono chiari, pur di compiacere
all’insegnate o non rivelare la propria ignoranza.
Che fare dunque con questi teneri esseri che non
sembrano poi così tanto cresciuti? È importante,
innanzitutto, riconoscere questa loro condizione. È
importante riconoscere anche in noi insegnati quello
stesso disagio, questo per non sentirci diversi. Nessuno
in classe quando si disegna è un adulto. Ci sentiamo
come scoperti nella nostra intimità e tutto questo va
saputo accompagnare con la leggerezza del gioco e la
sospensione del giudizio.
Per questo abbiamo voluto creare una didattica che
avesse come primi obbiettivi la distensione nervosa,
di ansie e paure, ed il rafforzamento della propria
stima in modo che infondesse fiducia nelle proprie
capacità. Contemporaneamente a questo tratto
caratteristico di sensibilità, affrontare chiaramente
le problematiche tecniche del disegno e delle altre
discipline artistiche che si insegnavano al CUEA.
Quando, all’inizio dell’esperienza mia di insegnante,
Fin dalla formazione della nostra scuola nel 1996,
era chiaro che la finalità della nostra didattica non era
solamente quella di insegnare una tecnica. Siamo partiti
per istruire le persone ad esprimersi con l’arte e ci siamo
ritrovati ad avere il ruolo, forse troppo importante,
di accompagnarli in parte nella ricostruzione di sé
stessi.
Tutto ciò ci ha portato a comprendere quale fosse
il migliore uso delle arti espressive. Abbiamo verificato
Quando una persona decide, dopo tanti anni di
ritornare a disegnare, è possibile che ritornino a farsi
presenti tutte quelle paure e difficoltà proprie della
sua infanzia che lo hanno, poi, portato a rinunciare
al disegno.
Forse è per questo motivo che la sua sensibilità
e la sua fragilità sono molto labili come quando era
bambino.
Ci si accorge ben presto che molte difficoltà di
apprendimento derivino da una bassa autostima dovuta
ad una educazione infantile e scolastica non priva di
rigidità e di mortificazioni per lo spirito, libero e felice,
del giovane apprendista.
Non si può certamente ignorare questa complessità
e questa frustrazione ben descritte nel quinto
capitolo.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
43
44
che l’arte è uno dei più potenti strumenti che l’essere
umano ha elaborato per rendere migliore la sua
esistenza.
Per questo motivo sono convinto che una scuola
d’arte per adulti può ricoprire un ruolo importante nel
creare benessere sociale, oltre che di formazione, in
quanto aiuta le persone a liberarsi delle proprie catene,
a liberarsi dalle conseguenze della violenza sociale
che la ha portati a reprimere la loro parte artistica e
creativa.
Una scuola d’arte può operare ponendo particolare
attenzione alle problematiche psico-emotive senza per
questo finire nella terapia, ma semplicemente ampliando
la propria visione didattica, includendo, al pari della
trasmissione tecnica, la distensione di quelle tensioni
che impediscono di avanzare nell’apprendimento di una
disciplina, così pure nella vita di tutti i giorni.
Per non scivolare in un errore di ambiguità nella
propria pedagogia, il fine principale di una scuola
artistica deve rimanere quello di insegnare un mestiere
manuale ed espressivo, mentre il fine curativo dell’arte
è specifico di un centro terapeutico.
Eppure nella nostra esperienza i due aspetti, tecnico
ed umano, sembravano essere inscindibili, e il benessere
della persona era necessario alla riuscita del compito
artistico e viceversa.
Per questo motivo le persone sentivano che la nostra
era una scuola particolare, non a caso si chiamava
Centro Umanista di Espressione Artistica, in cui
l’amore per l’essere umano dava senso all’espressione e
l’espressione diventava mezzo per liberarsi dalle proprie
paure. Una scuola dove tra arte e vita, tra crescita
artistica e spirituale non ci fosse alcuna differenza. Un
laboratorio creativo in cui si cercava di superare tanto
le difficoltà tecniche che psicologiche.
Ma questo non fu un facile compito perché
occorreva rivolgersi a loro in quanto adulti ma, senza
urtare la loro sensibilità, dialogare con il loro bambino
interiore dall’altro lato. A volte si chiedeva troppo, e
si è rischiato il più lezioni di sovraccaricarli di compiti
da svolgere in classe e a casa, facendoci trasportare
dalla nostra passione per la materia che insegnavamo,
senza considerare la loro fatica dopo una giornata di
lavoro.
Questo fu un errore che feci nelle prime esperienze.
Ricordo uno dei miei primi corsi.
Perché ho rinunciato al disegno
Alla prima lezione di presentazione, mi introducevo
raccontando un poco le mie esperienze artistiche e
facendo vedere alcuni dei miei lavori. Ero convinto che
questo comportamento aperto potesse tranquillizzare
gli allievi. Cercavo di dare loro come una sorta di
“garanzia” delle mie capacità mostrando la mia
attività artistica. Era chiaro che si trattava di una mia
insicurezza e questo rituale scomparve ben presto,
perché i risultati che ottenni erano ben diversi da quelli
che mi aspettavo.
Alla terza presentazione, infatti, decisi che non
aveva alcun senso esporre il proprio curriculum, in
quanto questo non soddisfava un loro reale interesse
ma si rivelò essere solo una mia inutile premura.
Capii che non c’era da parte loro nessuna curiosità
o esigenza di comprendere chi era la persona a cui
affidavano la propria formazione. Il loro interesse era
rivolto principalmente al costo del corso, agli orari
e la frequenza, e l’unica “garanzia” che chiedevano
era quella di rassicurarli che attraverso questo corso
sarebbero stati in grado di disegnare.
Molti di loro mi chiedevano ansiosi: “Impareremo a
disegnare?” oppure “Sei sicuro che anche io, che non
ho mai saputo disegnare, imparerò?”
Dovevo dare loro questa certezza? Sì, è quello che
mi chiedevano. Ed io gliela davo, ma le loro ansie non
si placcavano.
E pensare che ero partito con l’aspettativa di trovarmi
con persone del tutto differenti. Mi immaginavo degli
amanti del disegno e dell’arte, voraci e curiosi di
comprendere il senso profondo del percorso che gli
proponevamo, e tante cose “elevate” come queste. Ed
invece loro stavano su un’altra frequenza, così diversa
dalla mia. Alcuni erano terribilmente preoccupati e
sembravano mossi solo dalle loro paure. Oh, come
le giudicai! Persone apprensive e superficiali, molto
più interessate alla quantità di ore che alla qualità,
al costo del corso piuttosto che la preparazione
dell’insegnante.
Era evidente che non riuscivo ad interpretare
correttamente le loro ansie. In effetti, iniziare un
corso avendo così poca stima dei propri allievi, non
era certamente ciò che desideravo, e quindi cercai di
formulare nuove risposte che potessero spiegarmi il
senso di tali comportamenti.
La soluzione non tardò a venire quando una allieva
mi fece una domanda molto semplice e diretta.
Capitolo 4
Era la prima lezione del corso di disegno, iniziai a
chiedere quali fossero le motivazioni che li avevano
spinti a partecipare, chiesi sulla loro vita precedente
di disegnatori infantili, li informai sulla differenza che
corre tra un’intenzione ed un progetto… insomma dopo
circa 1 ora di dialogo e di riflessione una allieva mi disse:
“Scusa Simone, si pensa molto a questo corso?”
“Non ti preoccupare adesso si inizia a disegnare.”
Gli risposi. Cercai poi di motivare tutto quel preambolo:
“In queste prime lezioni si lavora soprattutto con la
mente perché saper disegnare significa innanzitutto
saper vedere, e la mente va educata a vedere. Sei
preoccupata?”
“Sì, perché penso già così tanto quando sono a
lavoro, che quando vengo qui a disegnare non ho più
voglia di pensare!”
Sacrosante parole, su cui si può scrivere un
intero libro!
Furono queste parole a farmi fare uno scatto nella
testa. La loro principale necessità non era quella di
capire il senso dei loro blocchi nel disegno, o quali
fattori che intervenissero come il “saper vedere”, e
tante altre parole che io avevo dispensato dall’alto
della mia esperienza. No! Non erano quelle le risposte
che cercavano.
La loro principale necessità era di fuggire
dalla propria routine. Di divertirsi e stare
bene. E, come nel caso della allieva, di “non
pensare!”
Scoprì ben presto che una delle maggiori cause
che li spingeva alla partecipazione - anche se mai
mi fu dichiarata in questo modo - era la necessità di
allontanarsi da qualcosa, e di vivere semplicemente
nuove sensazioni.
Vidi ben presto che la maggior parte di loro non era
mossa dalle stesse motivazioni che potevo rintracciare
in me che avevo scelto di fare dell’arte la mia vita.
La loro partecipazione non aveva in generale né gli
obbiettivi e né l’interesse di noi insegnanti, erano
semplicemente alla ricerca di un modo per rilassarsi,
distrarsi, certamente anche di crescere, ma senza troppe
domande e troppe introspezioni. Cercavano un corso
d’arte condotto con moderazione. Pochi compiti, poche
problematiche, e possibilmente con un insegnante che
gli diceva esattamente cosa fare e come fare, che, in
conclusione, gli risolvesse i problemi senza che loro si
sforzassero a trovare delle soluzioni. Una cosa tutto
sommato passiva, quasi come guardare la televisione.
Era evidente che questa superficialità di
approccio, rifletteva una condizione di passività nel quale siamo stati tutti educati.
Questo era un riflesso automatico, un modo di porsi
meccanico, che tutti noi abbiamo in tante occasioni,
ma che andava trasformato per poter apprendere il
disegno in cui si richiedono ragionamento, motivazione
e molta pazienza.
Si trattava dunque di accettare una sfida didattica
che non avevo minimamente previsto: riuscire ad
infondere il gusto del pensare, dell’agire e del sentire
in maniera diversa, più profonda, complessa, curiosa e
consapevole, nonostante il mondo li stesse trascinando
in direzione opposta, passiva e priva di forza creativa.
Il problema era strutturale e aveva a che fare con
nostro abituale stile di vita, con le nostre insoddisfazioni
lavorative, con la pesantezza della giornata. Ma che
mi aspettavo! Erano persone comuni provate dalle
mille vicissitudini che la società gli impone, che
evidenziavano una certa stanchezza fisica e mentale,
condizione questa che non potevamo ignorare.
Li avevo giudicati superficiali e in fuga da se stessi.
Li avevo giudicati come avranno fatto i loro genitori,
i loro insegnanti, e forse loro a sé stessi. Invece mi
stavano insegnando, col solo fatto di venire ogni
settimana al corso, che era qualcosa di più profondo
che li spingeva e che io avrei dovuto vedere oltre il
manto della consuetudine.
Non mi ci volle in realtà molto tempo, in poche
lezioni mi mostrarono che il bambino non si era mai
arreso all’adulto, il bambino era sì, ferito, ma vivo e
voleva ancora giocare, scoprire, mettersi in discussione.
In tutti questi anni di insegnamento ho avuto la
fortuna di conoscere delle persone incredibilmente
vaste, interessanti e ricche di suggestioni, ma che per
vari motivi iniziavano il corso sfiduciate, se vogliamo
anche superficialmente, ma che poi riuscivano tutte,
con i loro ritmi e tempi diversi, a tirare fuori l’artista
che era in loro, ed il bambino infantile diventava ora
finalmente adulto.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
45
46
Fuggire dalla routine
Certo può risultare paradossale rilevare che una
delle motivazioni dominanti che spingeva le persone
ad iscriversi ad un corso d’arte, come i nostri, fosse
fuggire da sé stessi. Ancor più in una scuola come la
nostra in cui si pubblicizzava un approccio all’arte del
tutto contrario!
Ma questo è ciò che consideravamo quando
analizzavamo le motivazioni e le aspettative dei nostri
allievi.
Forse la fuga, se così possiamo definirla, è parte
nevralgica del nostro sistema di consumo. Ed un corso
per loro era probabilmente solo uno dei tanti “prodotti”
da cui trarre distrazione ed evasione.
In realtà non si può fuggire da noi stessi, e loro
lo sapevano bene, ed esaminando attentamente le
nostre considerazioni iniziali, arrivammo ben presto
a comprendere che sì fuggivano, ma da un ruolo che
in qualche modo avevano assunto, come ho esposto
nel quinto capitolo e che è ben illustrato nella poetica
vignetta di Feiffer.
Un ruolo solitamente lavorativo ma non di rado
anche globale e che riguardava varie sfere della loro
vita. Certamente questa insoddisfazione si presentava
con varie intensità e sfaccettature, e non tutti
evidenziavano questo malessere. Eppure, senza cadere
in uno stereotipo esistenzialista, sempre c’era questa
spinta verso qualcosa di diverso, qualcosa che desse
maggiore pienezza, in cui conciliare la propria passione
negata con gli impegni quotidiani.
Questa spinta andava compresa ed alimentata
soprattutto nei punti più articolati del percorso di
formazione, punti in cui si stancavano facilmente.
Non avrei mai pensato all’inizio della mia carriera di
insegnante che il peggior “nemico” fosse la stanchezza,
mia e loro, derivata dagli impegni quotidiani.
Una stanchezza mentale oltre che fisica, dovuta
all’aumentare delle difficoltà di vita che in questi anni
è cresciuta esponenzialmente.
Le condizioni energetiche e di benessere dei
nostri allievi, che valutavamo nella loro capacità di
porre attenzione, di svolgere i compiti assegnati, di
motivazione, di curiosità, ecc. andò dunque peggiorando
dal 1996 al 2006 quando rinunciammo ai corsi di base
per dedicaci alla specializzazione.
Perché ho rinunciato al disegno
Questo processo indotto di “istupidimento” seguiva
di pari passo l’innalzamento delle tensioni sociali e della
pressione psicologica ed emotiva che ne derivavano. Un
dato significativo può essere illustrato dal fatto che le
informazioni metodiche che si trasmettevano in un
corso del ’96 in soli tre mesi, nel 2006 si erano diluite
in nove mesi. Certamente all’inizio il corso era troppo
concentrato, ma le difficoltà di concentrazione si sono
moltiplicate nel corso del tempo.
Un’altra sfida che ci si presentò all’inizio di questa
esperienza fu quindi quella di riuscire a mantenere
sempre un alto livello didattico, che ci consentisse di
trasmettere delle tecniche e contemporaneamente
sciogliere tensioni e paure. Fare tutto ciò senza
affaticare gli allevi, evitando così, di entrare in conflitto
con le loro legittime richieste di distensione e di svago
durate i corsi.
La situazione ci richiedeva di alleggerire la didattica
senza per questo rinunciare alle informazioni necessarie.
Un impegno che ci ha fatto crescere enormemente
come insegnanti, e ci hanno portato ad una maggiore
consapevolezza di cosa sia veramente utile e necessario
trasmettere nelle lezioni. Da questa sfida sono nate le
considerazioni che abbiamo esposto nel quarto capitolo,
quando esaminiamo gli equivoci che ci sono derivati
dal seguire meccanicamente le strategie che abbiamo
ereditato dalla scuola.
Ci siamo dovuti inventare esercizi divertenti,
leggeri, creativi, stimolanti e allo stesso tempo densi
di significati, con un giusto numero di pratiche e con
un crescendo di curiosità e motivazione.
Inizialmente, privi di esperienza di come si
facesse a risolvere questi ostacoli, abbiamo
cercato di informarci attraverso testi e altre
esperienze.
Con tanta curiosità e voglia di istruirci abbiamo
iniziato a documentarci su come le altre strutture di
educazione e formazione per adulti, non solo artistiche
ma umanistiche in generale, cercavano di risolvere il
problema della mancanza di energie dei propri allievi.
Ci ponemmo delle domande che ci guidassero nella
ricerca. Ad esempio ci chiedevamo come “curavano” la
ferita infantile causata dall’abbandono del disegno?
Capitolo 4
Se avvertissero, come noi, l’importanza del lavoro
sensibile e complesso nell’accompagnare emotivamente
e psicologicamente l’allievo verso il superamento
dell’ansia, che si verificava puntualmente nell’apprendere
le tecniche ed i procedimenti artistici?
Lo so, penserete alla nostra ingenuità nel cercare
in tal modo queste risposte! E avete ben ragione,
perché scoprimmo che per molte scuole non è affatto
necessario connettersi con questa dimensione che
l’allievo porta con sé. Anzi, molti insegnanti ritengono
che intervenire sul piano psicologico, facendosi carico in
qualche modo del superamento di queste frustrazioni,
sia un compito che non li deve riguardare.
Indagando più profondamente era evidente che
molte scuole non si facevano carico dell’umanità dei
propri allievi, al contrario cercavano quasi di ridurre
al minimo il contatto umano, in una sorta di rapporto
asettico e affatto coinvolgente.
Un fatto però ci sorprese: il gran numero di iscritti
che tali strutture avevano! Era come se gli stessi allievi
cercassero ed avessero necessità di questo tipo di
trattamento.
Non erano scuole, ma uno dei tanti prodotti di consumo che la società ci offre!
“Se vuoi fuggire, vieni da noi”, sembra che
recitino le loro pubblicità.
D’altronde, oggigiorno, in ogni attività umana c’è
chi lavora per obbiettivi puramente commerciali e chi
per il benessere collettivo.
Il nostro problema lo dovevamo risolvere da soli.
La tendenza alla fuga per dimenticarsi di sé stessi
non veniva affatto trasformata da questi istituti,
ma all’opposto sembrava che ci fosse una sorta
di complicità in cui l’allievo era, paradossalmente,
contento di partecipare a questi corsi. Corsi carissimi,
che però vantavano nomi di prestigio. Avevano così
tanti iscritti che le relazioni tra gli allievi non erano
poi tanto differenti da quelle che si sviluppano in un
qualsiasi, freddo e popoloso, luogo di lavoro. Relazioni
anonime e formali, in cui tra insegnanti e allievi si
ripeteva lo stesso modello scolastico, fatto di voti, di
campanelle, di professori che arrivano in ritardo, e
soprattutto di lezioni prive di una qualsiasi pedagogica
profonda e ben preparata.
Potete ben capire la nostra delusione. Eravamo al
contempo tristi ed indignati per l’esistenza di così tanti
istituti che davano la parvenza, o meglio, l’illusione
della formazione, ma che in realtà non insegnavano
niente o quel poco che facevano era privo di tutte
quelle ricchezze e significati che noi sentivamo voler
trasmettere.
Nessuno scandalo dunque, questo era il mondo,
là, fuori dal Centro Umanista di Espressione Artistica.
Benvenuti in questo pianeta, sembrava dirci il beffardo
destino!
E così, in questo modo sconfortante, avevamo
preso contatto con quello che era il business della
formazione degli adulti. Un vero affare. Ecco dove
vanno tutti questi “artisti mancati”!
Un ultimo fatto, se vogliamo bizzarro, per non
dire altro. Nella maggior parte dei casi molti istituti,
per compensare l’incapacità didattica, rilasciavano
certificati e diplomi che attestavano il loro prestigio
scolastico, esibendo, inoltre, tutti riconoscimenti
possibili esposti in bella vista come garanzia del loro
successo e della loro efficacia. Ma la garanzia di un
istituto privato non dovrebbe forse risiedere nell’onestà
dei propri insegnanti?
Cosicché siamo rimasti col nostro problema iniziale:
motivare! Motivare queste persone stanche della
propria routine a rivitalizzarsi, a rompere la fatica e
la pigrizia attraverso didattiche preparate per rendere
appassionante l’acquisizione delle conoscenze.
Sviluppare la motivazione
Alla luce delle prime esperienze, e a seguito del
confronto con le altre scuole, ci si presentava un bivio:
dare agli allievi ciò che ci chiedono e dare ciò che noi
ritenevamo utile per loro?
Ci si sente un poco mamme o paternalisti, a volte,
nello svolgere il ruolo di insegnanti. Definire bambini
gli adulti significa avvertire in loro quell’inesperienza,
quei timori, e quelle insicurezze che non si addicono
a persone adulte che affrontano con sicurezza la
vita. Almeno questo è ciò che ci presenta il modello
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
47
48
stereotipato dell’adulto. Ma la realtà si presentava
diversa dallo stereotipo: l’adulto ci chiedeva certezze, di
essere guidato, accompagnato in maniera rassicurante
verso il superamento delle difficoltà per ottenere il
successo sperato. Come insegnanti sentivamo il nostro
“potere” di fronte a loro, almeno quello che loro ci
attribuivano, dovuto alla fiducia o speranza nella nostra
capacità di guidarli.
I bambini ad esempio vogliono mangiare sempre
le stesse cose, solitamente patatine fritte e dolci, ma
i buoni genitori sanno che non è una alimentazione
completa e cercano di fargli piacere anche la verdura
e la frutta. Similmente anche per noi, di fronte alla
richiesta di fuga dalla routine, di rilassamento o di
passività, ad esempio quando sentivano faticoso dover
“pensare”, ci siamo trovati a prendere decisioni che
fossero per il loro meglio, per la loro crescita.
Non avevamo dubbi su ciò che di “meglio” potevamo
offrirgli: un percorso educativo che li aiutasse ad
integrarsi col mondo, anzi li stimolasse in qualche
modo a cambiarlo a partire dall’energia che l’arte poteva
generare in loro. Ciò che offrivamo era ben lontano
dalla fuga dalla propria routine, al contrario voleva
essere una leva per cambiarla, attraverso l’esperienza
artistica; acquisire potere sulla propria esistenza, stima
di se stessi e la forza per tornare alle proprie cose con
rinnovata fede ed entusiasmo. Loro ci chiedevano di
non pensare e noi, invece, desideravamo stimolarli a
riflettere perché non credevamo che quella fosse la
loro più profonda richiesta. Era la loro fuga, ma non
la loro richiesta.
Certo l’arte ha il potere di creare nuovi mondi, un
mondo parallelo dove tutto è bellissimo in cui potersi
rifugiare. Ma questo atteggiamento, tipico del bambino
che si protegge nel mondo della fantasia, noi non lo
potevamo sostenere. La nostra scuola non voleva essere
un rifugio ma solo un porto di mare dove attraccare,
rifornirsi di energia, riposarsi per poi nuovamente
salpare le vele ed affrontare il mare, a volte piatto a
volte burrascoso, della vita.
Cercavamo in questo modo di applicare
un principio fondamentale del Movimento
Umanista, organizzazione internazionale
nonviolenta di cui facevamo parte, che
recitava: “tratta gli altri come vuoi essere
trattato”.
Perché ho rinunciato al disegno
Questa, conosciuta come Regola Aurea in molteplici
culture antiche, ci suggeriva che le persone volevano
crescere e non essere trattate da bambini, ma da adulte.
Volevano pensare e non fuggire, volevano non riposare
e appiattirsi ma crescere con vigore. Questo è ciò che
sentivamo essi volessero nel profondo, e ciò è quanto
abbiamo tentato di dargli.
Il punto chiave era dunque risvegliare
in loro questa intenzione di crescita che in
qualche modo si era assopita. Si trattava di
sviluppare la motivazione.
Ecco cosa era per noi motivare: richiamare le loro
migliori virtù, in modo che le potessero applicare e
sviluppare nell’arte. Sapevamo poi che avrebbero, a
secondo della necessità di ognuno, potuto disporre
di questa energia per tornare nella loro routine, in cui
sentivano la vita sfuggirgli di mano, per riprendersi il
loro potere decisionale, la cui perdita causava così tanta
stanchezza e voglia di non pensare.
Ma non eravamo né maghi, né i loro genitori, né
avevamo intenzione di offendere la loro sensibilità
ed indipendenza, la motivazione si poteva dare
solo attraverso un accordo reciproco, altrimenti la
nostra non sarebbe stata educazione ma imposizione
paternalista, da cui avrebbero fatto bene a fuggire!
Il compito non fu poi così difficile, erano persone
molto intelligenti e sensibili quelle che venivano ai nostri
corsi. Si trattava, dunque, di chiarire il più possibile con
gli allievi il senso di questa loro partecipazione, un senso
che fosse il più utile e profondo possibile e che potesse
veramente soddisfarci entrambi, allievi e insegnanti.
Sapevamo che un corso ripetitivo, piatto, in cui
si fanno gli esercizi classici, in cui si cerca di non
affaticarsi, di non pensare, di fuggire, non sarebbe mai
stato svolto da noi insegnanti che educavamo spinti
dalla passione e per vocazione. Sarebbe stato una
mortificazione prima di tutto per noi, di conseguenza lo
sarebbe stato sicuramente per loro. La nostra didattica
si basava principalmente su un fatto di coerenza
personale e riconoscevamo che poteva essere l’unico
modo per essere di aiuto ai nostri allievi.
Motivare, dunque. Cercando di rompere la
superficialità iniziale e stabilire uno speciale accordo
sui fini didattici. La superficialità nasceva da un tipo di
approccio scolastico acquisito nella scuola dell’obbligo,
che non invoglia alla creatività ma aumenta la passività.
Capitolo 4
“Fai così”, ti dicono! Se poi non fai in quel modo ti
puniscono coi voti. Questa non è educazione, ma
coercizione.
La motivazione si crea attraverso dei fatti pratici
ed una sensibilità. Se non si sente l’umanità dell’altro,
se lo si vede solo come una “quota” mensile, se lo si
sente prima come un allievo che come persona, sarà
molto difficile trasmettergli la passione, elemento
necessario per la motivazione. Allo stesso modo, per
quanta passione un insegnate e un allievo ci mettano
nello svolgere un compito, se non si avanza nella
comprensione e acquisizione tecnica la motivazione
va scomparendo. Due persone potrebbero essere
buoni amici, volersi bene, ma al contempo non fare un
passo avanti nel rapporto tra insegnate e allievo. Non
si tratta di compensare con la simpatia e l’affetto la
responsabilità didattica, assolutamente no! Alla scuola
ho avuto vari professori e professoresse buoni, amabili
e gentili, ma che non mi hanno insegnato niente! Che
me ne faccio di un tale rapporto?
La motivazione si attua se la didattica permette
di avanzare e garantendo i risultati promessi. La
motivazione è conseguenza di un ottenimento degli
obiettivi iniziali, per i quali, una persona si rivolge ad un
maestro o ad una scuola. La benzina della motivazione
è imparare a fare e fare imparando. Il resto può essere
sola demagogia se non è accompagnato da una reale
abilitazione.
Mortificare la motivazione
Quando si insegna si vede ben presto che al di là di
qualsiasi simpatia o affetto che si produca tra allievo e
docente, la motivazione nella disciplina cresce o declina
se si ottengono i risultati. Siamo legati al fine che ci
siamo proposti, se non lo raggiungiamo ci abbattiamo,
e a nulla valgono i “va bene, non ti preoccupare…”
dell’insegnante, se dopo vari tentativi non si ottengono
i risultati sperati.
È una questione di onestà professionale. Se vendi
una macchina con certe caratteristiche, che deve dare
certe performance, questa macchina le deve soddisfare.
Se non parte bene, perde olio, non compie la sua
funzione non puoi col sorriso, i titoli o quant’altro,
cercare di convincere il cliente che va tutto bene. Non
va bene affatto!
Però non funziona così, in maniera evidente, in vari
settori della vita umana. Nella politica ad esempio,
continuiamo a votare chi ha dimostrato di essere falso
e disonesto. Forse abbiamo paura perché sentiamo
che non ci sono alternative, oppure perché si insinua
qualcosa di larvato, qualcosa che ci da l’illusione di
avere ciò che chiediamo senza per questo ottenerlo.
Si tratta della demagogia.
Demagogia è un termine di origine lingua greca
(composto di demos, “popolo”, e agein, “condurre,
trascinare”) che indica un comportamento incline ad
assecondare le aspettative della gente sulla base della
percezione delle loro necessità, per ottenere consenso,
anche se poi sono difficilmente realizzabili o non
realizzabili.
L’istruzione vive spesso di demagogia, in particolare
quella privata. Lo scorso paragrafo vi ho raccontato
della nostra deludente presa di coscienza rispetto
alle tante scuole private. Vi ho parlato di un business,
dovuto alle carenze della scuola pubblica.
Permettermi di raccontarvi ancora qualcosa, che
vi aiuti a scoprire certi meccanismi. Immagino che
molti lettori siano persone che cercano di imparare
a disegnare da adulti. Molti di voi è probabile che si
rivolgeranno a degli istituti o scuole, vorremo evitarvi
di avere brutte delusioni, e soprattutto di buttare al
vento i vostri soldi.
Vi raccontai che non tutte le scuole credono che
l’obbiettivo principale sia il benessere dell’allievo, e
spesso, per attirare clienti, fanno perno su aspetti
secondari rispetto alla pedagogica. Difficilmente un
cliente domanda quale pedagogica è utilizzata da una
scuola. Pensa, onestamente, che se si vende un’auto
essa debba funzionare. Non si chiede se questa funziona
o se ha un motore!!! Lo si dà per scontato.
Se pubblicizzi un corso di disegno e di pittura è
chiaro - qui sta l’inganno - che sai insegnarlo! No è
detto. Non date per scontato tutto ciò come se fosse
un assunto.
L’elemento veramente più importante nell’educazione, è il metodo pedagogico usato.
Di conseguenza, dovrebbe essere la qualità
primaria di un insegnate e di una scuola.
È in questa direzione che dovrebbero andare
la maggior parte degli sforzi di una scuola e degli
insegnanti e non in altri settori, che se pur importanti,
non si devono sostituire alla ricerca didattica. Spesso
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
49
50
si punta ad altri fattori al fine di “annebbiare” i futuri
allievi e clienti.
Ecco perché vi parlo di demagogia.
Vi riporto dunque, alcune esperienze.
Uno dei meccanismi che abbiamo scoperto a nostre
spese, e che spesso si valuta la capacità didattica
di un insegnante a partire dalla sua fama come
artista. È importante capire che sono due cose distinte
e separate, anche si usa questa popolarità per attestare
la capacità di un insegnante. Questa sostituzione dei
termini, tra successo personale e successo didattico,
è un atteggiamento comune. Lo si fa troppo spesso,
generalmente non in malafede, ma non sempre…
Se avete notato, sempre più frequentemente, la
qualità di una scuola e dei suoi risultati viene
inquadrata in un’ottica di prestigio. Ma che centra?
Il prestigio degli insegnanti è veramente un metro di
misura adatto per chi vuole apprendere?
Molte scuole basano la propria fortuna sul prestigio
dei propri risultati numerici, della loro grandezza, il che
potrebbe derivare solamente da un’ottima capacità
commerciale, da un grande investimento economico,
e non dalla qualità pedagogica.
Anche se questo sembra oggi un atteggiamento
“normale”, vorrei invece farvi notare che il prestigio o
il successo può essere qualcosa di molto lontano dalla
qualità didattica, soprattutto quando diventa un vanto.
Non c’è niente di peggio di una scuola vanitosa e che
fa bella mostra dei propri “trofei”. È ovvio che tutto
questo luccichio si traduce in un prezzo da pagare: il
prezzo del prestigio!
Se un insegnante o una scuola promuove i propri
corsi in funzione dei propri meriti prestigiosi, dando
poche indicazioni o addirittura non informando
adeguatamente sui metodi didattici, vi devono sorgere
dei sospetti. Se ci pensate bene, è come se un meccanico
dicesse: venite da me perché ho riparato la macchina del
presidente della repubblica! Personalmente preferisco
andare da chi mi informa su altre caratteristiche, ad
esempio se usa certi accorgimenti tecnici, il computer,
o mi fornisce altra tipologia di dati che attestano, ad
esempio, che su mille macchine riparate nessuno è
tornato indietro per lamentarsi!
Insomma, sono convinto che la qualità didattica
di un corso o di una scuola non debba scivolare nei
meccanismi illusori della pubblicità, ma debba informare
su quali siano i suoi principi morali, quali le sue
Perché ho rinunciato al disegno
credenze politiche o religiose, quale sia la loro visione
dell’essere umano e il proprio concetto di educazione ed
apprendimento. Ovvero debba onestamente fornire al
discente le informazioni sui punti più importanti, ovvero
quelli che avranno una maggiore influenza sulla sua
formazione. Nella formazione, secondo voi, influisce
molto più il credo religioso e politico di un insegnate
oppure il fatto che lui abbia dipinto un quadro, che si
trova esposto nel più grande museo del mondo?
Il prestigio di un insegnante può ad esempio derivargli dai meriti professionali, come
essere un pittore di successo, ma questo non
significa che come didatta sia eccellente, o
altrettanto capace.
Comunemente, molte scuole, con il solo obbiettivo
di fare soldi, puntano al prestigio, senza prestare nessun
interesse alla formazione o al controllo della qualità dei
propri corsi e, di conseguenza, dei metodi pedagogici
utilizzati dai propri insegnanti.
Vi racconto un’esperienza. Un anno venimmo
contattati da un prestigioso compositore di canzoni a
livello nazionale, per promuovere un corso di composizione
all’interno della nostra scuola. Compositore che chiamiamo
B.D.
Il noto compositore ci propose un seminario da
svolgersi in tre mesi. Questo seminario si rivolgeva a
chi volesse apprendere a scrivere testi e musiche pop.
Bisogna dire che B.D. è un bravissimo compositore, ha
scritto tante belle canzoni per RAF, Laura Pausini, Marco
Masini, ecc., insomma, veramente un personaggio
di grande prestigio. Ci piacque la sua proposta e
ci accordammo su tutte le specifiche per svolgere
il seminario al CUEA. Scoprimmo poi che lo stesso
fu da lui proposto, anche ad altre scuole di musica
decisamente più grosse e famose della nostra piccola
realtà di quartiere. Ed è con orgoglio che vi racconto
che il nostro fu l’unico corso che riuscì ad avviarsi con
12 partecipanti, mentre le altre strutture non riuscirono
né a promuoverlo e né a realizzarlo.
Tra gli allievi si inserì anche un nostro insegnante
che ci riferiva, nelle riunioni didattiche della scuola,
come fosse l’andamento del seminario.
Il seminario attirò molte persone, per il fatto che
chi lo conduceva era B.D.. Fu notevole l’influenza del
nome di prestigio nel richiamare gli allievi. L’anno
dopo, infatti, il seminario di composizione fu condotto
Capitolo 4
da un altro compositore. Decisamente preparato
pedagogicamente, Leonardo Abbate, ma praticamente
sconosciuto ai più, ed è per questo che l’adesione fu di
sole tre persone. Si capisce dunque come molte scuole
puntino, demagogicamente, a dare alla gente ciò che
chiedono e non ciò di cui hanno bisogno.
Anche se il nome richiamò molte persone, il
seminario fu per noi una grande delusione rispetto
ai nostri standard di qualità didattica, in quanto B.D.
commise diversi errori, gravi e meno gravi.
Vi faccio un elenco di quelli che per noi furono i
motivi della sua inadeguatezza:
• improvvisava le lezioni di volta in volta
• criticava i lavori degli allievi senza dare una alternativa
e senza indicare come correggere tali errori
• le lezioni non avevano gradualità e progressione
• opinava secondo gusti personali senza fornire
indicazioni precise su tali opinioni
• non dava precise indicazioni sul lavoro da svolgere
• buttava giù il morale degli allievi in relazione ai loro
risultati
• non ascoltava le motivazioni che hanno spinto gli
allievi nelle loro scelte ma giudicava da una occhiata
sommaria e frettolosa
• poneva sé stesso e le proprie opere come modello
con atteggiamenti vanitosi
Fu un tentativo, ma dobbiamo forse ringraziare B.D.,
perché l’accaduto ci fu molto utile per comprendere
certe dinamiche e maturare nell’esperienza.
Oltre a questa conoscenza diretta, furono molte le
testimonianze di allievi che, prima di approdare alla
nostra scuola, avevano partecipato a corsi o stage
tenuti da personaggi di successo, ottenendo solo una
grande delusione. Furono queste esperienze ci fecero
intendere che non si poteva, in base alla reputazione
professionale, formulare un assioma deduttivo, che
portasse a pensare che: maggiore è il prestigio della
scuola e dell’insegnante e maggiore è la loro capacità
didattica.
Addirittura, per una logica di compensazione,
formulammo un nuovo assioma: laddove si punta
sul prestigio è alta la probabilità di scontrarsi con
un’istruzione con scarsa cura delle relazioni umane
e della qualità pedagogica.
La motivazione è quindi il motore pulsante che fa
avanzare qualsiasi persona di fronte alle difficoltà, che,
in questo modo, cambiano quasi di significato. Non
sono più dei muri invalicabili in cui si arena il nostro
entusiasmo, ma al contrario, divengono strumenti e leve
per la nostra crescita. È attraverso il superamento della
stanchezza, della pigrizia, delle proprie pure e ansie, che
si può misurare il nostro progresso.
Se si mortifica la motivazione, qualsiasi ostacolo
si può tramutare nella fine del tentativo. Il compito
principale di ogni didattica è forse alimentare quella
forza interiore che, come una formula magica,
trasforma la difficoltà in stimolo, ed il fallimento
in risorsa necessaria alla ricerca di sempre nuove
soluzioni, più chiare e complesse, il cui “premio”
accresce in misura proporzionale alla fatica svolta per
il suo raggiungimento.
Riassumendo, ci siamo ritrovati più o meno in
questa situazione: volevamo insegnare ad adulti ad
esprimersi con l’arte, ma per farlo dovevamo tener
conto di:
1. della pregressa fatica dovuta alla routine
quotidiana
2. della possibile regressione infantile dovuta a
quella antica frustrazione di artisti mancati, che si
riscontrava da subito anche nelle loro creazioni, più
simili ai bambini che agli adulti
3. una possibile tendenza alla fuga dalla propria vita,
vissuta con delusione
4. un atteggiamento passivo, ereditato dalla scuola in
cui, di fronte ai compiti da svolgere, si ponevano nei
confronti dell’insegnante come se fosse una sorta di
“mago” che potesse insegnare loro un’arte senza che
loro si sforzassero più di tanto
Questi furono, dunque, i quattro principali scogli
che abbiamo incontrato nella nostra missione: fatica,
insicurezza infantile, fuga dalla delusione, passività
intellettuale. Riuscire ad insegnare agli adulti
significava per noi superare questi ostacoli.
La chiave di volta, era quella di riuscire a
sviluppare la motivazione eliminando, con
l’esperienza, tutti quei fattori che, viceversa,
potessero mortificarla.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
51
52
La nostra missione
Potrete forse pensare che il superamento di tali
ostacoli fosse il nostro incarico. Questo compito sarebbe
stato impossibile se affrontato in quest’ottica.
Inoltre, avrebbe fatto di noi dei manipolatori, degli
Dei o dei leader, che tanto si vantano del loro potere
sugli altri. Niente di tutto ciò. Niente che creasse nuove
catene e nuove dipendenze.
Ciò che ci guidava recitava in tutt’altro modo: è
solo dentro ogni persona che risiedono la forza e
la capacità di superare tali impedimenti.
Immaginate la complessità di ognuno dei nostri
allievi, o di ognuno di noi. Nessuno potrebbe fornirci
delle soluzioni a questo livello di complessità. Nessuno
potrebbe avere accesso alla nostra testa, al nostro
cuore e a tutta la nostra storia. E, spesso, anche noi
non abbiamo così tante informazioni che ci facciano
comprendere con chiarezza chi siamo, cosa vogliamo,
da dove veniamo e via dicendo. A volte sentiamo che
non ci conosciamo affatto. Come si può educare,
dunque, una persona assumendoci la responsabilità
delle sue componenti profonde?
La chiave di volta era un’altra. Motivarli significava
fornire loro strumenti per riuscire il più possibile nelle
loro intenzioni. Senza questo attivarsi da parte loro è
impossibile qualsiasi didattica. Noi fornivamo strumenti
consolidati, i progressi potevano avvenire oppure no,
non dipendeva da noi. A quel punto si palesava il limite
del nostro compito, il resto era affidato esclusivamente
alla loro volontà.
Sì, è vero, sapevamo che attraverso l’arte potevano
esprimere la propria diversità e creatività con tutti i suoi
meravigliosi effetti collaterali, ma era un evento che
non dipendeva da noi ma dalla loro voglia di lasciarsi
andare. E anche se loro continuavano ad attribuire alla
capacità dell’insegnante tali risultati a noi era chiaro
che non era così.
Quello che potevamo proporre con una certa
esperienza era che si poteva stimolare e non indurre,
la volontà creativa. E se si liberava la creatività, questo
fatto poteva dare loro una tale soddisfazione da fungere
da detonante per avviare tutte quelle trasformazioni
necessarie per crescere: il superamento della fatica,
l’evoluzione dell’infantilismo, la rottura della paura, il
rilassamento dell’ansia ed il sorpasso della passività.
Questa magia detonante può cambiare la direzione
della vita. E se la nostra vita è bella, se la nostra vita
è energica, non vale la pena fuggire, non vale la pena
annullarsi. Invece, vale la pena osare e non si ha più
timore di prendere a piene mani tutti quegli aspetti che
non ci soddisfano per cambiarli in meglio.
Questo è il potere dell’essere umano.
Questo è il potere dell’arte. Questo è il senso
dell’arte: un potente strumento al servizio
della vita.
Che cosa è, dunque, un insegnate? Non un mago,
certamente, non un leader. Ma neanche una mamma o
un padre. Forse è vicino ad un amico, ma molto di più.
Nessuno di noi era un insegnante. Ci dovevamo
inventare, e i nostri allievi erano i nostri maestri.
Essere al pari e non essere sopra
Ma proviamo a definire che cosa credevamo fosse
un insegnante.
L’insegnante ha il compito di organizzare, distribuire
e trasmettere delle conoscenze affinché il discente
possa compiere un nuovo salto evolutivo. In questo
compito contribuisce alla Dialettica Generazionale1 in
cui il vecchio sistema di credenze e conoscenze cede
il passo al nuovo.
Perché ho rinunciato al disegno
Questo superamento del vecchio per opera
del nuovo, avviene grazie alla spinta operata dalle
generazioni più giovani che percepiscono realtà che
non possono avvertire le generazioni precedenti è per
questo motivo, se non le si castra, che esse si trovano
sempre in condizione di effettuare dei cambiamenti
rispetto al passato. E, anche se a volte ci sono dei passi
indietro, l’essere umano ha sempre complessivamente
Capitolo 4
compiuto passi in avanti nella sua evoluzione, grazie
alle nuove generazioni.
Ma se le si castra, se le si opprime, se le si condiziona
a tal punto da rinnegare la loro diversità, si otterrà solo
una grande tristezza. Si soffre molto di questa cosa, di
questa violenza.
Noi non eravamo di certo la vecchia generazione
che insegnava ai bambini, in cui c’è sempre il rischio
di imporre le proprie contraddizioni. E, dunque, chi
eravamo noi? Persone uguali a loro, simili, pari in
esperienza vitale. Non si verifica la stessa condizione
con i bambini, in cui le differenze di conoscenze sono
al pari di quelle di vita.
Anzi spesso ci accade di insegnare a persone con
un’esperienza della vita maggiore della nostra, ed è
quindi ridicolo porsi nei loro confronti come maestri
di vita. Il nostro ruolo è ben chiaro: trasmettere loro
delle conoscenze tecniche.
Nessuno di noi era un Maestro, nel senso più
profondo del termine, ovvero persona con una così
vasta conoscenza delle propria materia, da essere un
faro illuminante nella sua disciplina. Queste persone si
chiamano, per l’appunto, “luminari”.
Non eravamo maestri o luminari, ma avevamo una
piccola esperienza in più di loro. Un evento, forse, nella
nostra vita faceva la differenza, rispetto alle persone
che venivano alla nostra scuola: avevamo potuto
esprimere e studiare quell’arte che ora ci chiedevano
di trasmettergli. Dunque, non una grande differenza in
termini globali. Sicuramente abbiamo avuto le nostre
difficoltà nell’appendere l’arte e ciò che ci ha sorretto
è stata una forte passione, la stessa che cercavamo di
infondere nei nostri allievi, senza la quale ogni impresa
può risultare impossibile da raggiungere.
Eravamo insegnanti per questo motivo:
trasmettevamo loro quelle poche cose che
avevamo avuto dalla vita e raggiunto col
desiderio di fare, per condividere la gioia
dell’arte.
Non eravamo migliori, più intelligenti o più bravi
di loro. Certo, molti insegnanti frustrati - e quanti ce
ne sono! - cercano di sentirsi superiori ai propri allievi
perché vittime della loro frustrazione. Probabilmente
capita a tutti di pensare di essere migliori di altri per
fuggire dalla nostra mediocrità. Ma quanti danni si
commettono in questo modo?
Sì, questo è stato un pericolo anche per noi; sentirsi
insegnanti, in qualche modo, può invitare a sentirsi
in un livello più alto, superiori ai propri allievi.
Pensiamo che questo modo di porsi nell’insegnamento
sia alla radice della maggior parte dei danni educativi.
Forse sto esagerando nel dire che sia la struttura politica
che quella istituzionale non agiscono nella stessa
misura nella formazione scolastica quanto l’insegnante.
Se veramente fosse una condizione meccanica, viste le
condizioni sociali e legislative in cui si trova la scuola
pubblica da sempre, non dovrebbero esistere bravi
insegnanti perché tutti sarebbero minati nel loro agire.
Certo, molti insegnanti abbandonano, rinunciano se ne
vanno via, col motivo che non li “lasciano lavorare”, ed
in gran parte può essere anche vero, ma la didattica è
fuori da tutto ciò.
Si tratta solo ed esclusivamente di come si tratta
l’altra persona, di come la si considera, di come si
considera il proprio lavoro. Per cui non credo tanto
ai mali strutturali, che pure si verificano in molti casi,
è una direzione mentale, psicologica, se vogliamo
da mettere in discussione. A poco valgono le lotte
sindacali, o gli stipendi alti o bassi. Nella classe c’è una
persona con altre persone, vi è un sufficiente grado
di libertà da parte dell’insegnante per fare quello che
vuole all’interno di contenitori programmatici del tutto
relativi.
Il punto centrale di molte scuole è la considerazione
che si ha del ruolo dei docenti e del ruolo dei discenti.
Sono purtroppo inseriti in una struttura di caposubordinato, di sovrano-suddito, di superiore ed
inferiore. I livelli di esperienza si tramutano in livelli
di potere.
Questo è stato un errore frequente nella storia
dell’istruzione. È questo è forse il punto più incongruo
nell’educazione tradizionale.
Nessuno al mondo considererebbe la scuola e
le istituzioni educative come un fattore regressivo
nell’evoluzione umana, eppure oggi, si evidenzia
palesemente questa contraddizione: la scuola non
libera ma opprime. La scuola, che fondamentalmente
è qualcosa che abbiamo creato per il superamento
del dolore e la sofferenza, è stata, ed è, troppo spesso
motivo di sofferenza, di frustrazione, di coercizione
e di controllo sociale. Questa è una direzione
mentale che sempre si è insinuata nei fini formativi,
annullandone il senso.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
53
54
Purtroppo, nei miei studi della storia della didattica,
ho visto come facilmente essa porta con se anche
l’autoritarismo, le punizioni fisiche, la violenza religiosa,
morale. Spesso le tecnologie didattiche sono state,
ed ancora lo sono in tante zone del pianeta, cinghie,
frustini, ecc. Questi strumenti di violenza si giustificano
a partire dal primitivo concetto educativo di punizione
e premio. Nella scuola si sono sviluppate così tante
pratiche di umiliazione e repressione, che, ad esempio,
non si vede come il giudizio ed il voto non sono altro che
dei frustini psicologici a cui gli insegnanti dovrebbero
ribellarsi, come ha fatto Giovanni Spinicchia nella sua
luminosa carriera scolastica.
Solo recentemente, e parliamo dell’inizio del
‘900, si sono fatte avanti filosofe e modelli didattici
nonviolenti, di rispetto della persona, che considerano
l’apprendimento come gioia e gioco. Queste pedagogie
però ancora oggi attendono di essere trasferite in tutte
le realtà scolastiche.
Insegnare agli adulti, anche se si manifesta in
loro qualche atteggiamento infantile, non vuol dire
approfittarsi di loro, manipolarli o esercitare l’autorità
del superiore - anche se a volte è da loro richiesta - che
crea, sempre e comunque, frustrazione e dipendenza.
Certo, un giovane o un bambino, non hanno la
forza e la struttura di esperienza che gli permetta di
opporsi alla negazione della loro diversità e libertà
come la potrebbe avere un adulto. Ma spesso anche
gli adulti, contrariamente a come si potrebbe pensare,
non riescono ad avere strumenti per opporsi a questo
tipo di pratiche, che non sono degne di essere chiamate
pedagogiche.
Ecco perché ho esordito nel capitolo dicendo che
gli adulti sono come i bambini, anche per il fatto che
sono disarmati di fronte alle didattiche tradizionali,
che non li fanno avanzare e li frustrano. Didattiche
che, diversamente, loro sostengono perché credono,
dalle esperienze giovanili, che essere allievi significa in
fondo in fondo, sentirsi inferiori, considerarsi inferiori,
e porsi nei confronti dell’insegnante con sudditanza.
Vi racconterò, nel paragrafo sulla chiusura della nostra
scuola, alcune esperienze che possano illustravi queste
mie considerazioni, e come gli adulti siano molto più
manipolabili di quanto si creda.
Capire chi siamo e chi sono
Di conseguenza, presa coscienza delle difficoltà che
ogni allievo portava con sé nella sua storia, abbiamo
dovuto chiarirci bene che cosa potevamo fare come
insegnanti. E questo ci ha condotto ad una crescente
presa di coscienza del nostro ruolo, ai limiti di rispetto
della persona e all’etica che ci doveva orientare nella
nostra missione. Dovevamo investire sulla loro umanità
e non credere di avere dei superpoteri!
Mi sembrò, quindi, opportuno iniziare con la
conoscenza, la più approfondita possibile in quelle
condizioni, delle persone che venivano ai corsi. Prima
di agire era chiaro che dovevo conoscere e studiare le
mie classi.
Per adempiere a questa esigenza, alla prima lezione
facevo compilare loro un questionario sulla loro storia
scolastica e personale. Traevo molte informazioni da
quei pochi scritti, tra cui avevo spesso la conferma che
la maggior parte di loro presentava un trauma infantile
legato al disegno. Ma ciò che cercavo era il livello
di motivazione personale, che solitamente non era
Perché ho rinunciato al disegno
sufficientemente costruito, chiaro e dunque poteva ben
presto esaurirsi. La motivazione classica e comprensibile
era quella di imparare a disegnare, dipingere, ecc. per
questo cercavo di aiutarli a comprenderne il perché.
Perché vuoi imparare a disegnare? Cosa ti aspetti? Di
divertirmi, di avere piacere. Mi rispondevano.
Che inesperienza! Che stoltezza la mia! Davvero
pensavo che loro mi avessero detto qual’era la loro
motivazione profonda. Che mi potevo aspettare se non
quelle risposte?
Anche se non rinunciai al questionario e al momento
di scambio in classe sulle motivazioni, era chiaro che
le motivazioni, quelle profonde, ero io a dovergliele
tirare fuori. Questo era il mio compito, fare in modo
che, oltre al consueto “perché mi piace”, iniziasse a
crescere in loro una curiosità ed una passione per ciò
che loro non potevano sapere. Non potevano sapere
che cosa poteva dare loro il disegno, che cosa poteva
risvegliare la pittura, la fotografia, il modellato, e tutte
le arti che insegnavo.
Capitolo 4
Era come se, chiedendo ad bambino il motivo per
cui gli piace giocare, mi aspettassi che mi dicesse: “per
sviluppare le capacità creative e cognitive della mia
psiche!”
Questo non lo deve aver chiaro l’allievo. Neanche
aspettarselo da loro solo perché essendo adulti si crede
siano più consapevoli di un bambino. I motivi profondi
li deve conoscere l’insegnante, senza questa chiarezza
come potrà stimolarli in loro?
Insegnare agli adulti, anche in questo caso, non è
diverso dall’insegnare ai bambini. Solo che l’adulto, a
differenza del bambino, può sommare a queste nuove
esperienze quelle precedenti, altre capacità che ha
acquisito fino a quel momento.
Motivare un adulto quindi significa
spesso, aiutarlo a stabilire delle relazioni,
dei collegamenti tra le sue aspirazioni vitali
generali, e quella particolare del disegno.
Bisogna quindi capire l’altro nella maggiore
ampiezza possibile. Bisogna cercare il più possibile di
stabilire un vincolo profondo, aperto e di fiducia, dove,
lui si possa rivelare a te che insegni. Svelare, col tempo,
la sua incredibile ricchezza senza il timore di essere
manipolato o giudicato.
La prima missione era quella di stabilire un
vincolo profondo con l’allievo, e questo non lo si può
di certo fare formalmente. Se così si agisse nessuno si
aprirebbe a te. Nessuno.
Questa missione non richiede quindi solo una
trasformazione dell’allievo, ma anche una aperta e
sincera e costante messa in discussione dell’insegnante.
Una genuina voglia di entrare in contatto con l’altro,
che trascende in questo modo da qualsiasi “impegno
professionale” per divenire un rapporto tra i più
profondi che si possono creare tra due esseri umani.
Vocazione insegnante
La professione didattica è per me una vocazione
al dare.
Se così non fosse, se fosse solo un lavoro, per quanto
nobile sia questo intento, non si riuscirebbe a cogliere
la complessità del rapporto umano fatto a volte di
fragilità e dipendenza, ma anche di crescita e forza, di
frustrazione e fatica, di superamento e gioia.
È un cammino, almeno lo è per me. Un cammino dove
gli eventi mi hanno richiesto di sviluppare attitudini che
prima non avevo o erano appena abbozzate.
Ciò che mi sento di raccontare è il mio cammino in
cui forse molti insegnanti si potranno riconoscere.
Come prima cosa ho capito che dovevo studiare,
non potevo non sapere ciò che insegnavo. Ed io non
sapevo quasi niente prima di insegnare.
Il miglior modo per apprendere
In questi anni, avrei dovuto pagare i miei allievi
per tutto quello che ho dovuto studiare grazie alle
loro esigenze, richieste e domande. Spero, infatti che
nessuno, dopo quanto scrivo, mi venga a reclamare
tutti i debiti che ho accumulato!
La mia prima esperienza fu, come avete avuto
occasione di notare, ricca di insegnamenti. Come tutte
le “prime volte” gli errori sono tantissimi, ma è proprio
grazie a questi che si ha la possibilità di imparare per
migliorare di volta in volta.
Non ricordo a quale lezione, forse la ottava o la
nona, fatto sta che quella sera non avevo preparato
in dettaglio la lezione. Forse nessuno se ne accorse,
ma la mia tensione interna era tale che mi ripromisi
di non trovarmi mai più in una tale condizione. Un
disagio che forse ho provato solo nei banchi di scuola.
Non successe niente di grave, là fuori nel mondo della
classe. Improvvisai e le cose andarono per il verso
giusto. Nessuno mi disse niente. E come avrebbero
potuto. Così come il pubblico non si accorge dell’attore
che sbaglia una battuta perché non conosce il testo,
anche io quella sera ero riuscito ad arrivare alla fine.
Ma l’accaduto mi portò a riflettere per diversi giorni.
Perché ero stato così male? Cosa era accaduto in me?
Non era la paura di una figuraccia, di fatto le cose le
sapevo e avevo poi tenuto bene la lezione.
Fu qualcosa di più profondo, che agì in me. Qualcosa
che mi creava una contraddizione profonda e che
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
55
56
aveva a che fare con il mio senso etico. Camminando
per Firenze, di fronte alla mia città amica, gli eventi
mi vollero consapevole di quel mio malessere. Non
ero stato onesto! Non è di una onestà esterna che vi
parlo, ma qualcosa di impossibile da creare attraverso
un morale o una legge sociali. Qualcosa che non si vede
e che nessuno ti verrà mai a recriminare.
Ero stato disonesto, e questo mi faceva soffrire, e mi
ripromisi allora di non andare più ad una lezione senza
che io fossi stato sufficientemente preparato per dare
loro quel che il mio compito prometteva.
Non si insegna per dovere. Per dovere si fanno
molte cose, ma non insegnare. Insegnare è un aspetto
dell’amare ed esso, come l’olio con l’acqua, non lega
col dovere.
La morale era sempre quella di trattare l’altro
come vorrei essere trattato, ed io avevo troppo
sofferto dell’incompetenza della maggior parte dei
miei insegnanti e non volevo di certo ripetere lo stesso
schema.
Se avessi permesso di rimuovere quella
sensazione attraverso una qualsiasi giustificazione, avrei aperto la strada ad una condizione
che poteva rivelarsi fatale nella mia carriera:
che si può insegnare improvvisando.
Nell’insegnamento è fondamentale l’improvvisazione,
in tante occasioni, ma come un medico o un ingegnere,
o qualsiasi altra professione, non si posso commettere
certi errori che tanto male possono produrre negli
altri.
Da allora tutte le mie lezioni sono preparate tempo
prima, e non il giorno prima considerando “troppo cavie”
i propri allievi. Un poco cavie lo sono state ed ancora lo
saranno, perché la mia didattica è in parte sperimentale,
ma la sua base, che cerco di rendere sempre più solida
con l’esperienza, non è un salto nel vuoto.
Cosicché, mosso dal piacere della mia vocazione,
in questi lunghi anni mi sono ritrovato a studiare
moltissime cose, a fare corsi di formazione, a dipingere e
sperimentare nell’arte, mosso dalla grande motivazione
che i miei allievi mi offrono.
Come potrei infondere loro passione e motivazione
se io per primo non le vivessi?
Sarei falso e disonesto, e questo è forse il principale
motivo del fallimento pedagogico di molti insegnanti
e di molte scuole.
Perché ho rinunciato al disegno
Capacità di adattarsi
La mia ricchezza pedagogica la devo anche al fatto
che ogni allievo mi richiede di sviluppare sempre nuove
strategie. Sia ben chiaro, che non sempre ho il tempo,
l’attenzione e la forza per questa costante messa in
discussione, ma è per me un punto guida. So che devo
sviluppare la mia capacità di adattamento alle diverse
situazioni. In effetti sono convinto che l’educatore
dovrebbe avere la capacità di porsi in relazione con gli
allievi adattandosi il più possibile alle loro esigenze.
Nel CUEA venivano persone abbastanza diverse,
persone che forse mai avrei incontrato nei normali
miei giri di amicizia, così legati alle mie esigenze, ai miei
interessi. Ognuno si circonda di amici che in qualche
modo hanno cose in comune, mentre le persone che
incontra casualmente a lavoro, in autobus o, nel mio
caso alla prima lezione del corso, non erano vagliate
dai miei gusti o pregiudizi.
Erano persone semplicemente e fantasticamente
diverse da quelle che generalmente frequentavo.
Io avevo le mie caratteristiche e loro in qualche
modo le hanno dovute a volte sopportare, ma anche
mi sforzavo di essere diverso con loro.
In un corso si presentò una ragazza che mi
richiedeva tutta l’attenzione. Io non potevo essere a
sola sua disposizione perché la classe era numerosa.
Quando non aveva la mia attenzione la prendeva dal
resto della classe introducendo argomenti a cui altri
si catalizzavano che nulla avevano a che fare con la
lezione. Lo faceva a voce alta disturbando chi voleva
disegnare. Era una mina vagante e se non avessi operato
in qualche modo, la classe si sarebbe presto sciolta
perché il lavoro da fare si complicava enormemente
se non c’erano concentrazione e silenzio.
A mio favore, come carattere, c’è sempre stato il
fatto che non provo quasi mai antipatie o irritazioni
per le persone, ed in quel caso la persona non mi causò
malumori, ma era per me oltremodo difficile arginare i
suoi comportamenti.
I primi tentativi furono scherzosi, in cui gli facevo
notare che era importante mantenere concentrazione
sia nel compito che per tutta la classe. Solitamente il
maestro, riesce con un minimo di autorità a sedare
tali espressioni, ma non in quel caso. Sembrava una
locomotiva logorroica inarrestabile! Non potevo andare
contro di lei, più cercavo di reprimere tale situazione e
più essa esplodeva.
Capitolo 4
Riflettendo sui motivi possibili di tale manifestazione,
mi resi conto che ottenevo il contrario da lei perché
nessuno la ascoltava, e più non la si ascoltava e più
lei parlava.
Come adattarsi? Se davo segno di ascoltarla lei
partiva in quarta, se la sconnettevo lei partiva in
quarta ugualmente rivolgendosi alle altre ragazze.
Se le ragazze l’avessero isolata, lei, forse, si sarebbe
ridimensionata. Dopo 4 lezioni decisi di sconnettere quel
comportamento. Decisi di ignorarlo completamente. Mi
concentrai invece sui suoi disegni, gli diedi compiti
semplici e gli feci un sacco di complimenti, facendogli
notare in più di una occasione i suoi raggiungimenti.
Ecco un esempio di come io stessi sbagliando a
pormi frontalmente, alla fine lei cercava attenzione,
in maniera sicuramente sproporzionata, ma non era
rimproverandola scherzosamente o rifiutandomi
di ascoltarla che lei si rilassava. Mi adattai alle sue
modalità. Lei mi chiedeva qualcosa che non ero solito
dare in quei modi, forme e quantità. Voleva dieci
complimenti a sera, che io non sono solito dare. Ma
mi sforzai di darglieli in maniera sincera, altrimenti
non sarebbe cambiata. Cambiò. Ma poi nel giro di due
mesi andò via. Era chiaro che la sua motivazione si era
esaurita.
Cercare di non giudicare
Non sono solito commentare in termini di giudizio,
di nessun genere. Il bello, il brutto, il brava, il cattiva,
ecc.. Il giudizio, non dovrebbe far parte della mia
didattica. Anche se in diversi casi lo faccio per adattarmi
alle richieste. Giudico un sacco di cose, eccome, anche
io ho questo vizio, ma l’insegnamento mi aiuta a tenerlo
a bada, mi educa a trattare gli altri in maniera migliore
di come faccio solitamente.
Sarà il ruolo, l’importanza che sento di avere, ma
questo mi consente di avere un certo profilo che in
altre situazioni non riesco a mantenere, e guai se non
fosse così. Sarei insegnante per 24 ore al giorno anche
nei sogni!
Nella didattica cerco di aiutare l’altro a sviluppare
autocritica, quindi rilevo soprattutto gli errori e le
conquiste nel disegno o in tutte le altre discipline che
insegno. Il linguaggio non è freddo, ma sì, è soprattutto
tecnico. I valori che assegno possono essere assunti
anche come giudizio, in chi è permaloso, ma è più
difficile offendersi se si valuta con l’allievo che una linea
è corta, inclinata o sbagliata in relazione al modello.
Alle vie della permalosità non ci sono limiti, e può
capitare che qualcuno sia identificato a tal punto col
suo lavoro che lo si possa irritare qualsiasi cosa si dica.
Bene, loro avranno pochi commenti. Non li chiedono
e non li avranno. Il rapporto è a due, ed io sono al loro
servizio anche nella misura in cui loro mi richiedono.
Non sempre è semplice perché io tendo a dare
molto di più di quanto chiedono, è una capacità che
vado affinando e che mi richiede meno protagonismo,
di rimanere più in disparte.
Accompagnare
Non è forse lo stesso modo con cui sono stato
educato. Come si fa ad accompagnare qualcuno se
le classi sono di 30 persone? Ciò è impossibile. Come
scriverò alla fine del capitolo la qualità è spesso nemica
della quantità.
Questo inconveniente, legato all’impossibilità di
seguire fianco a fianco più di un tot di persone si
può superare con un metodo semplice e chiaro in cui
gli allievi non incontrano tante difficoltà. Più sono
le difficoltà pedagogiche e maggiore sarà l’energia
richiesta dagli allievi che chiederanno di essere
accompagnati.
Col metodo VE.RA.DI., il più efficace da me
sperimentato, si possono fare anche classi con 25
persone. Questo lo si deve soprattutto alla qualità ed
efficacia di questo codice, semplice e chiaro, che da
indicazioni giuste e misurate senza porre in disagio
gli allievi.
Se vi è una didattica “forte”, che cioè permette
ai discenti di auto apprendere, le richieste saranno
ridotte alle sole necessarie. Se invece si crea una
pedagogica che non punti all’indipendenza del discente
dall’educatore, esso dovrà faticare moltissimo con i
risultati che ne conseguono. Se sarà brillante, energico
ed avrà pochi allievi la lezione procede bene, ma se
venisse a mancare questo livello di performance, allora
sarà tutto molto faticoso.
Accompagnare non crea dipendenza, ma sostiene,
anche solo attraverso la vicinanza. Chi invece deve
sostenere l’allievo non deve essere la figura del maestro
ma la sua pedagogica, il suo metodo. Esso deve avere
il compito di sostenere e condurre allievi ed educatore,
l’insegnante diventa come un pulsante di allarme: usare
solo in caso di pericolo!
Ogni didattica “forte” punta sulle capacità insite
nella persona, crea problemi e da i giusti strumenti
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
57
58
per risolverli. Non è l’insegnante che risolve, ma gli
strumenti che si acquisiscono.
L’auto apprendimento è la forma più efficace ed
evoluta di pedagogia per adulti. Per comprendere come
si attui basta studiare il metodo VE.RA.DI. pubblicato
dalla stessa casa editrice, ed anche il metodo ES.TE.TRA.
si basa totalmente su questo principio fondamentale
della pedagogia umanista. Il metodo ES.TE.TRA. si
basa su dei principi ed una struttura di riferimento
che si modifica a seconda dell’allievo, ed è per questo
suo adattarsi continuamente che ancora non sono
riuscito a crearne un codice da esporre in un libro. Con
l’esperienza mi auguro un giorno di poter esemplificare
la complessità di questo metodo per la pubblicazione
di un manuale.
Il concetto che sta alla base di questa difficoltà
di codificare in un libro questo metodo, è che esso si
basa su criteri mobili come l’ambiente, i medium usati,
le tipologie delle persone ed ogni allievo lo usa a suo
modo. Auto apprendono da una serie di imput che si
basano su una struttura, la stessa struttura psichica
dell’apprendere.
Questo metodo cerca di seguire le fasi del pensare
in relazione all’imparare facendo.
È un metodo innovativo che ancora è in fase di
codificazione e che in questo momento è ancora in
sperimentazione.
Non credo serva elencare tutti i vantaggi
di questa modalità didattica rispetto ad altre,
che creano dipendenza nel discente.
Prima di raccontarvi quelle che sono per me
le peculiarità dell’insegnamento dell’arte, cerco di
riassumere quanto detto in questo capito dedicato
alla vocazione insegnante.
Insegnare è un atto di solidarietà e di amore che
non deve essere confuso con altre forme di vicinanza
affettiva, come quella dei genitori o degli amici.
L’insegnante è tale in quanto persona preparata, che
ha studiato ed applicato quanto insegna. Deve sapersi
adattare alle esigenze dei discenti senza imporre le
sue conoscenze e la sua personalità. Per fare questo
è necessario che sospenda il giudizio dei propri
allievi accompagnandoli attraverso la forza della sua
pedagogica, che deve avere l’obiettivo chiaro di non
creare dipendenze e confusione. Questa didattica sarà
utile nella misura in cui saprà investire sulle capacità
innate dell’apprendere e trasmettere strumenti, dalla
comprovata efficacia, per il superamento delle difficoltà
proprie della disciplina che si insegna.
Peculiarità dei corsi d’arte del CUEA
È probabile che le osservazioni che vi ho cercato di
comunicare in questo semplice libro, possano essere
riferibili non solo all’educazione e l’apprendimento delle
discipline artistiche ma si possano ritrovare elementi
comuni all’insegnamento nella sua generalità.
Quello che scrivo è comunque riferito alla sola
educazione artistica che, come tale, ha le sue specificità.
Cercherò in questo paragrafo di illustrare quali siano
gli elementi che per me non debbono mancare nell’
istruzione delle discipline artistiche.
Entrare in contatto col profondo
Quasi sempre insegnare ad altri ad esprimersi
artisticamente ci porta a scoprire aspetti profondi e
intimi delle persone. La personalità dell’individuo è vero
che si manifesta anche nel compimento di un calcolo
matematico, ma la componente emotiva e la rivelazione
Perché ho rinunciato al disegno
del mondo interiore non sono richieste nella soluzione
di una equazione, mentre invece è compito sostanziale
e necessario, esprimerle nel fare artistico.
Se è vero che nell’arte la persona si apre e rivela
elementi della sua interiorità, spesso ad essa misteriosi e
sconosciuti, si avrà a che fare con elementi di profonda
intimità che richiedono una sensibilità adeguata per
essere condotti al loro affinamento.
Non di rado questa esternazione causa degli
sconvolgimenti dovuti a quelle “rivelazioni” al a cui
spesso l’autore non sa dare risposta. Cosa mi sta
succedendo? Può esclamare dentro di sé l’allievo che
è appena stato creatore di qualcosa che non contava
di possedere.
Se non riconosce i propri valori, attribuendoli al
caso o all’insegnante, non imparerà da essi. Finito il
corso, o quelle che sono state le condizioni che lo hanno
fatto esprimere non disegnerà più, non dipingerà più.
Capitolo 4
Questo può significare ad esempio che non ha integrato
in sé quanto avvenuto in quelle condizioni, attribuendo
a fattori esterni il motivo di tali conquiste. Sicuramente
ci sono anche altri motivi, primo tra tutti l’interesse a
continuare, ma è sul versante dell’integrazione di quelle
esperienze come proprie, che l’educatore può agire per
dare forza e sicurezza all’allievo.
Questo fatto è molto più ricorrente di quanto si
pensi a credere. In un certo qual modo è una sconfitta
della pedagogia. Ciò sta a significare che non è avvenuta
una vera presa di consapevolezza e non si sia rotta la
condizione di dipendenza.
Forse sto entrando in dettagli troppo specifici, ma
molti lettori che hanno frequentato corsi o scuole d’arte
avranno modo di riconoscersi.
Questo fenomeno è direttamente relazionabile a
quanto ho descritto inizialmente riguardo agli adulti.
La mancanza di autostima, l’ansia, la paura di sbagliare
possono essere talmente radicate che non permettono
di riconoscere come proprie certe rivelazioni. È come se
una parte di loro dicesse: “non sono stato io a disegnare,
è un caso esserci riuscito, è merito dell’insegnante. Io
sono quello incapace.”
Non mi fa piacere parlare di questo aspetto. Vorrei
non si verificasse. Faccio di tutto affinché l’allievo si
senta capace di andare per la sua strada sostenuto
dalle proprie forze.
Ad oggi ho solo una risposta a questo fenomeno di
abbandono della pratica artistica dovuta alla fine dei
corsi. La vita di tutti i giorni è quanto di più distante
dall’arte. L’arte ha bisogno di una serenità mentale,
anche se si nutre spesso di inquietudine. Inquietudine
creativa esistenziale, ben diversa dallo stress quotidiano.
Inoltre, ha bisogno di spazi e tempi diversi da quelli
abituali. Bisogna anche di essere condivisa, altrimenti
muore.
Come fare dunque ad integrare questa
esperienza che appare così diversa e distante
dal resto delle altre attività?
Non è cosa semplice. In qualche modo l’arte fa
pressione al resto della vita. Preme affinché cambino
alcune condizioni. In questo senso rappresenta
potenzialmente un fattore rivoluzionario, in cui sembra
che per dedicarsi alla propria espressività e libertà,
debbano essere scardinate altre abitudini che girano
in senso contrario.
Chi ha il coraggio di destrutturare la sua vita
per far rientrare in essa la pratica artistica? Ci sono
stati miei allievi che lo hanno fatto, è vero, ma sono
stati veramente pochi, ma sono gli unici che hanno in
qualche modo continuato a praticare ciò che hanno
appreso nei corsi.
Anche se questa rivoluzione non l’ho mai chiesta, e
mai mi sono permesso di farlo, per la maggior parte dei
mie allievi ho notato che ad un certo punto avveniva
un blocco. Uno stop! Un’autodifesa, forse, nei confronti
della forza creatrice, che non a caso è rappresentata
nell’antichità greca da Dioniso, il Dio delle forze
primordiali e distruttrici. Una allegoria che può aiutare
a meglio intendere la tendenza della forza dell’arte.
Ad ogni modo, attraverso la pratica artistica si può
giungere a questo bivio interiore, in cui ciò che sempre
ci è piaciuto fare, si esprime con la forza dei risultati
artistici, ma poi, data la sua pericolosa tendenza, essa
viene nuovamente messa da parte.
È probabile che tutto questo sia solo frutto della
mia sensibilità, e così mi piacerebbe che fosse. Magari
proietto significati che non esistono. Però, mi sono
chiesto un giorno se questo fosse vero, che cosa avviene
nella persona che lo vive?
Vi faccio degli esempi. Mi metto nei panni di una mia
tipica allieva, provo ad entrare nei suoi pensieri. Posso
pensare che “creando ed ottenendo dei buoni risultati,
cresce il mio entusiasmo. Può essere che questa mia
attività rimanga solo un passatempo, un hobby che
condivido con qualche amico ed i miei compagni
di corso. Il prossimo anno farò danza, o teatro,
dedicandomi in questo modo ad attività piacevoli che
rendono la mia vita più godibile. Ogni tanto creo
cose ‘strane’, forti, che rivelano qualcosa di più
profondo. Un caso. Sono belle, ne sono orgogliosa. Ma
tutto finisce qui.”
Questo è il caso tipico, che non arriva a nessun bivio,
il suo vivere fila in questo modo.
Ora cerco di mettermi nei panni di quest’altra
tipologia, più inquieta, e forse profonda. “Sono contenta
perché sto imparando molte cose. Cresce il mio
entusiasmo e dipingo o disegno ogni qual volta posso.
Non vedo l’ora di arrivare al corso e mostrare i miei 20
elaborati. La cosa mi prende a tal punto che sento un
cambiamento nella mia vita. Sento che volevo fare solo
questo nella mia giornata. Una particolare energia mi
prende e mi da forza. Ogni tanto creo cose “strane”,
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
59
60
forti, che rivelano qualcosa di più profondo. E tutto
questo non so come gestirlo perché mette a scompiglio
la mia vita”
Ho avuto varie allieve di questo tipo, più donne
che uomini.
Come vedete le cose cambiano tra le due tipologie.
Cambia il modo di vivere l’arte. Le prime integrano in
qualche modo l’esperienza, le seconde hanno difficoltà
a integrarla. Continuiamo il racconto dove eravamo
rimasti.
“Ogni tanto creo cose ‘strane’, forti, che rivelano
qualcosa di più profondo. Esse mi rimandano alla mia
vita, in qualche modo mi rivelano chi sono. È come se mi
ritrovassi a faccia a faccia con me stessa. Ma non sono
pronta. La mia vita non è pronta. Vorrei fare l’artista, Ma
non ne ho il coraggio e forse la capacità. Ma è questo
che sento e non so come gestirlo.”
Non credo che insegnando una lingua straniera o ad
usare la macchina, o il marketing si possano ottenere
queste situazioni. Nell’arte è bene sapere che si possono
verificare in diverse persone forti prese di coscienza
senza che siano preparate ad affrontarle.
Certamente potevo ignorare questi effetti collaterali.
Potevo dedicarmi alla mia vocazione senza curare
questi casi. Ma erano frequenti, più di quanto possiate
immaginare.
Non dico che mi sentissi all’altezza, ciò avvicinava il
mio ruolo di insegnate d’arte alla figura dello psicologo,
in cui veniva richiesto che fossi in parte anche maestro
di vita, perché in quel caso la vita entrava in maniera
prepotente nell’arte e viceversa.
Ma come artista capivo, molto più di quel che davo
ad intendere. Nelle loro creazioni, come una sorta di
sciamano che riesce a decifrare i segni e dei colori,
scorgevo che cosa avveniva nel processo creativo
dell’allievo a partire dalle loro opere. Non so, forse è
un dono. Ma sapevo quando stava succedendo o era
successo qualcosa di molto profondo ed importante
nella realizzazione del disegno o della pittura.
“Guarda cosa capita a chi vuole insegnare
l’arte!” Mi diceva la mia coscienza. “Ora che
tu li hai portati a scoprire queste cose, li devi
anche aiutare ad integrarle!”
Per etica personale non volevo immettermi nella
vita profonda dei mie allievi. Non perché non sentissi
che potesse anche esser utile a loro, ma era una
Perché ho rinunciato al disegno
responsabilità che andava oltre il mio piccolo ruolo.
Decisi allora che non potevo considerarmi loro
insegnante, almeno nelle forme standard. Loro erano
al mio pari. Come loro avevo gli stessi problemi, non
potevo di certo dargli soluzioni. A livello esistenziale ero
vicino a loro, umanamente ero come loro. Anche io mi
trovavo ad avere a che fare con Dioniso, e non era certo
semplice conciliarlo con resto della mia vita.
Con queste persone, tuttora miei grandi amici,
dovevo mostrarmi ed avvicinarmi come persona. Come
amico potevo accompagnarli, perché nell’amicizia
potevo sviluppare quella intimità necessaria per poter
parlare e confrontarsi su queste strane complicazioni
dionisiache!
Con molti di loro decisi poi di fondare l’istituto
ES.TE.TRA. che studia e cerca di sviluppare la spiritualità
nell’arte, in cui confluirono le cose migliori e più
profonde del CUEA, aprendo così un nuovo ciclo più
ampio e complesso del primo di cui vi parlerò alla fine
del capitolo.
Riassumendo un insegnante d’arte, si può trovare
a dove fronteggiare situazioni molto complesse e
profonde proprie della materia, sta alla sua didattica,
alla scuola dove insegna decidere o meno di approfittare
di questa speciale intimità che si viene a creare con
alcuni allievi.
Noi del CUEA sentivamo che la nostra esperienza
andava in quella direzione, per questo cercammo, anche
cambiando locale, di favorire questa intimità a nostro
avviso necessaria affinché le persone si sentissero
motivate ad esprimersi liberamente.
Integrazione delle esperienze
profonde
Eravamo rimasti al bivio interiore. Attraverso l’arte
si rivela, o si può rivelare una forte inadeguatezza
della propria vita, che non è strutturata per vivere
pienamente la propria diversità e ancor meno per
esprimerla.
Per aiutare i nostri allievi a vivere senza paura questa
rivelazione, occorreva creare una bella atmosfera, di
fratellanza, serenità, gioco in cui potessero esprimere
la propria intimità ed evitare in questo modo che essa
mettesse a scompiglio la loro vita.
Si trattava in poche parole di creare le condizioni
Capitolo 4
necessarie affinché ciò che “stimolavamo” si potesse
realmente soddisfare. Immaginate che qualcosa stuzzichi
il vostro appetito, se esso poi non si soddisfacesse
pienamente vi rimarrebbe sempre un certo malessere,
una certa fame che potrebbe dare fastidio nelle vostre
altre attività. Allo stesso modo stuzzicare la voglia di
esprimersi, portando le persone a quel bivio in cui la
vita non si mostra adatta, almeno in quel momento, per
realizzare i propri “appetiti” artistici potrebbe rivelarsi
una potenziale fonte di frustrazione.
Se una scuola d’arte per adulti, a cui molti di loro
si rivolgono perché hanno una certa mortificazione
dovuta alle loro passate esperienze di artisti mancati,
non riuscisse a soddisfare pienamente il loro desiderio,
la loro frustrazione è molto probabile che cresca,
sommandosi a quella biografica.
Quindi non basta stuzzicare, ma bisogna soddisfare
nel miglior modo possibile, altrimenti è meglio non
mettere le persone di fronte alla loro necessità
delusa.
Per integrare queste esperienze profonde si deve
creare tra allievi, e con l’insegnante, un certo livello
di intimità e comunicazione che possa permettere di
esternare le proprie esigenze, inquietudini, o quant’altro,
e poterle, così, elaborare. Questa elaborazione si ha
nel condividerle, nel sapere che non sono cose che
succedono solo a chi le vive, nel sapere che sono
fenomeni propri dell’arte, che sono i gioielli che la vita
ci regala per dimostrarci che siamo parte creativa della
bellezza dell’universo.
Creare un buon “clima”
Abbiamo preso in prestito questo termine, che ben
si addice per descrivere quell’atmosfera necessaria per
l’espressione artistica.
Come avete potuto dedurre da quanto scrivo, fare
arte è tutt’altro che una operazione meccanica e fredda.
Non si tratta di un processo lineare, ma complesso,
che richiede una condizione che favorisca l’apertura,
la mancanza di tensioni e preoccupazioni.
Questa distensione e apertura è sempre più
indispensabile a man mano che il compito richiede
una maggiore partecipazione emotiva e psicologica
da parte dell’allievo.
Il tutto deve essere condotto con atteggiamenti
amorevoli. Ogni volta che ci rivolgiamo a loro potremo
farlo pensando che sono degli incapaci, oppure dei
frustrati, oppure la nostra “quota mensile”. Loro lo
sentirebbero, anche se siamo simpatici e amabili nelle
forme. Ve lo posso garantire, perché quando mi sono
mosso in questo modo loro non si sono aperti con me.
Giustamente, direi.
Invece, se penso che sono fantastici così come si
manifestano, che sono già una incredibile forma del
divino, senza che ci sia bisogno di dimostrare niente a
nessuno, e tanto meno a me che insegno, tutto cambia.
Se penso all’atro come qualcosa di meraviglioso e che
io esisto perché lui esiste, si può ottenere dal nostro
rapporto qualcosa di molto speciale che va oltre
qualsiasi stratagemma didattico.
È una didattica che parte da molto lontano, da una
concezione dell’essere umano aperta e dignitosa. E non
può essere solo un concetto, per quanto bello che sia,
esso si deve in qualche modo tradurre in una sensibilità
capace di trasmettersi tra le persone, al di là di ogni
parola o pedagogia.
Questo almeno era il presupposto del CUEA,
che nasceva dal Movimento Umanista e da questi
suoi basilari concetti, nella speranza che questi si
traducessero nella pratica di formazione.
Creare un buon clima, nella pratica, significava
riuscire a inventare una sorta di salottino emotivo, dove
gli allievi si potessero accomodare tranquillamente, in
caldi e avvolgenti cuscini affettivi.
Per un buon clima ci voleva principalmente cura
per la sfera emotiva, quindi attraverso il gioco e
l’osservazione del rapporto tra loro, inoltre, tutto ciò
si doveva accompagnare da una particolare attenzione
allo spazio in cui ciò avrebbe dovuto esprimersi ed al
tempo, che doveva essere sostanzialmente magico,
diverso quindi da quello quotidiano, nel quale trovare
un rifugio confortevole.
Nel CUEA si era cercato di costruire questo
speciale clima, che oltre alla nostra didattica, era una
componente che, pensavamo, ci rendesse un poco
differenti dalle scuole tradizionali.
Cura della sfera emotiva
Dobbiamo ammettere che ci sono corsi e discipline
in cui le emozioni si possono tenere ad una certa
distanza, ed altri in cui il fattore emotivo è determinante,
come ad esempio nel teatro e nella musica, che pure
si insegnavano al CUEA. Con questo, non voglio
dire che i caratteri delle persone non si manifestino
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
61
62
giocando a calcio o imparando ad utilizzare un
programma informatico o anche nella compilazione
della dichiarazione dei redditi, ma il ruolo dell’emotività
è differente. Un buon educatore, qualsiasi disciplina
insegni, deve sempre tener conto degli aspetti emotivi
e psicologici dei propri allievi, ma nel caso delle arti
espressive si dovrebbe lavorare, non solo osservandoli
e indirizzandoli nello svolgimento dei compiti, ma,
soprattutto, rivolgersi allo sviluppo di questi fattori,
che sono alla base dell’arte. Un persona molto tesa
e preoccupata dei risultati, e si sa che quelli estetici
sono tra i più difficili da ottenere, avrà sicuramente
più difficoltà ad apprendere dei procedimenti tecnici,
perché, come ho già scritto, la sua attenzione viene
“risucchiata” dalla sua paura, distraendolo dal compito
da svolgere.
Vi sono cose che si imparano per ripetizione, come un
testo di una poesia, delle nozioni, ma recitare, dipingere,
danzare o disegnare con passione e sentimento, lo si
può fare solo se si inserisce la spina che collega la mente
al proprio cuore. Ci vuole quella che comunemente
viene chiamata ispirazione, condizione non necessaria,
anche se auspicabile, per tante attività umane.
L’ispirazione non è altro che un contatto
più profondo con se stessi, con il sacro e il
poetico dentro di noi, è apertura, rilassamento, ampliamento delle percezioni.
Per arrivare ad essere ispirati è necessario che le
emotività “grossolane” quelle più animali, come la
paura, il timore, la rabbia, l’ansia, l’angoscia, ecc. cedano
il passo a quelle più elevate come la pace, l’allegria, la
gioia, il benessere, l’apertura poetica, ecc.. L’unico modo
veramente efficace che abbiamo sperimentato è quello
di alleggerire, di ironizzare, insomma, di prendere le
cose come un gioco.
Ad una delle prime visite di Giovanni Spinicchia, al
CUEA mi commentò che trovava singolare il rapporto
che stabilivo con gli allievi. In effetti, senza nessuna
programmazione particolare, la spinta ad insegnare con
rilassatezza e gioia di fare, mi ha portato negli anni ad
abbattere le barriere formali con gli allievi. Sicuramente
la simpatia e l’estroversione sono dei punti a favore
dell’insegnamento. Anche il carisma personale di chi
educa, aiuta nel gradimento per la materia. Ma devo
dire che non è solamente una questione di carattere.
Infatti diversi insegnanti del CUEA, solitamente
chiusi o riservati se non addirittura timidi, durante
Perché ho rinunciato al disegno
l’ora di lezione si trasformavano. Tiravano fuori ironia,
parlantina, empatia con gli altri. In qualche modo
fuoriuscivano da ciò che erano nella quotidianità ed
interpretavano una sorta di ruolo teatrale, il ruolo più
adatto all’insegnante: l’estroverso carismatico.
È per me oggi evidente che le forme del CUEA,
come il suo orientamento pedagogico, facilitavano
e promuovevano questi atteggiamenti rivolti al dare
piuttosto che al prendere, ma tali comportamenti non
si potevano assolutamente produrre a degli accordi a
tavolino, tra l’altro mai stabiliti, tra insegnati e con gli
allievi.
Molti di noi nei periodi di insegnamento, si sono
trovati in momenti di difficoltà personali o sono stati
coinvolti in situazioni di malessere dei propri cari, ciò
nonostante, siamo stati capaci di tirare fuori energie
e atteggiamenti inconsueti, ed a volte del tutto inediti
che non pensavano di avere.
Vi voglio raccontare di una situazione diversa
ma esemplare, che mi ha fatto capire che noi siamo
molto di più di ciò che crediamo o che mostriamo
nella consuetudine. In adolescenza ebbi un incidente
in motorino con un amico che si tranciò letteralmente
il polpaccio, io che ancora svengo alla vista di un mio
taglietto nel dito, reagì con grande controllo e sangue
freddo, lo soccorsi e lo accompagnai all’ospedale.
Quando mi dissero che era stato tutto risolto, svenni
e stetti al pronto soccorso il doppio del tempo del mio
amico! Allo stesso modo ho visto persone trasformarsi
mentre insegnavano, il senso di responsabilità li
trasformava in meglio.
Una persone sensibile e che ama insegnare non
si risparmierà, gli verrà quasi naturale di giocare,
alleggerire, ironizzare, si disporrà all’ascolto e si
mostrerà rassicurante e saggia, perché è consapevole
che, per prendere riferimento in lui, gli allievi hanno
bisogno di tutto questo.
Quindi non importa se un docente sia aperto,
chiuso, carismatico o chissà quale altra caratteristica
comportamentale esprima in tutte le altre situazioni
vitali, ciò che i miei colleghi mi hanno insegnato è che
attraverso la passione per ciò che si fa e l’assunzione
profonda di responsabilità nell’educare, ci si può
trasformare se il fine è considerato di vitale
importanza.
A facilitare questo atteggiamento “plastico”
interveniva il fatto che una struttura come la nostra
aveva un esplicito fine umanistico e sociale. Questa
impostazione ci facilitava nello stabilire un giusto ruolo
Capitolo 4
tra allievo ed insegnante, e la maggior parte delle volte
si riusciva a trascendere i ruoli formali, per giungere
ad una relazione più profonda e umana, stabilendo,
così, un contatto profondo tra persone diverse che si
univano nell’amore per l’arte e per la vita.
Spesso, nei momenti in cui non era necessario il
ruolo dell’insegnante, mentre si attendeva di iniziare la
lezione o nella pausa intermedia o alla fine della lezione,
ci si confrontava su situazioni quotidiane, esistenziali,
anche molto intime e personali. L’insegnante diveniva
un amico a cui rivolgere delle confidenze e viceversa.
Oggi molti dei miei amici sono ex studenti del CUEA.
Questi rapporti erano, inoltre, facilitati dal fatto che
sempre il locale era disponibile ad altri incontri culturali
extra corso, anche se la maggior parte delle persone
partecipava solo alle lezioni. In questi altre occasioni di
socializzazione non vi erano più insegnanti e allievi ma
solo persone attirate dai valori e dallo stile del CUEA,
tanto da sentirsi spinti verso un legame più profondo
con gli insegnanti.
I miei allievi li abbraccio, li bacio, so delle
loro situazioni personali, spesso mi incontro
con loro fuori dai corsi e seminari che tengo,
questo perché permetto che la stima reciproca che nasce tra insegnante e allievo, si possa
estendere alla persona nel suo complesso e
nella sua ampiezza.
Curare la sfera emotiva è stata, ed è, per me qualcosa
che si è rivelata indispensabile nella mia didattica, ma
mi rendo conto che essa proviene da molto più lontano,
da un gusto alle relazioni che dovrebbe essere alla base
di qualsiasi scuola e didattica.
Non mi è mai interessato, inoltre, che questo
approccio umano portasse o creasse un “culto”
dell’insegnante. Se i miei allievi fossero dei miei “fan”
ciò rappresenterebbe per me un fallimento, perché
significherebbe che avrei usato l’insegnamento per
pormi al centro, per esibirmi, per fare il “ganzo”
come si dice a Firenze. Spesso molti insegnanti,
riprendendo un discorso già fatto, considerano gli
allievi il proprio pubblico, esibendosi in classe, ma
questo comportamento non porta ad essere dei buoni
didatti. Il giusto riferimento, che è bene che gli allievi
assumano nei confronti del docente, deve essere in
relazione solamente a quella cura della sfera emotiva
che potrei definire comportamenti nonviolenti, relativi
ad un modo di confrontarsi dolce, sempre allegro,
giocoso in cui non vi è nessun dramma, anche quando
si sbagliano le proporzioni o i colori, cercando sempre
di guardare oltre.
Questo stile educativo che da forza al positivo, alle
virtù, rasserena e apre il futuro a nuove prospettive di
crescita, non può essere falso, ipocrita, formale, perché
l’allievo se ne accorge. Non si può trasmettere dicendo
“non ti preoccupare va tutto bene”, di fronte ad un
errore, ma nel profondo pensare che invece lui “non
capisce un accidente”.
L’atteggiamento ruffiano è scorretto, come pure
mettere le mani sul disegno dell’altro per correggerlo,
è un modo diverso per dire sempre “non capisci
niente”. Quando i nostri allievi si sentivano trattati
con dolcezza, sensibilità, pazienza, con competenza e
professionalità, è chiaro che si sentissero attratti da
quell’ambiente di cui il proprio insegnante era parte,
ma questo lo si otteneva perché nessuno improvvisava
e tutti gli insegnanti erano preparati tecnicamente ed
umanamente.
Qualcuno potrebbe dire che in ogni corso di ogni
scuola si stabiliscono rapporti umani di amicizia, ed
invece no! Il nostro speciale rapporto con gli allievi si
manifestava perché era parte della programmazione
e della nostra preparazione, noi si faceva di tutto per
incontrarci umanamente con gli allievi, nelle pause,
nei diversi appuntamenti extracorso, come vedere
una mostra, andare al cinema o al teatro, ma anche
quando organizzavamo una serata di letture, ed tante
altre attività specifiche atte volontariamente per creare
questa atmosfera emotiva che portava solo vantaggi. In
qualche modo cercavamo nel CUEA di creare il mondo
che volevamo e che non incontravamo in vari settori
dell’ambiante sociale.
Tutto questo avvertì Giovanni Spinicchia al primo
nostro incontro e commentò che non ci poteva essere
ambiente migliore per insegnare discipline artistiche,
dato che le paure e le ansie venivano in tal modo
rilassate.
Cura del Gioco
Ciò che caratterizza una bella emotività tra le
persone è quella complicità che si ottiene nella
leggerezza del gioco. È per questo motivo che la
maggior parte degli esercizi che venivano proposti nei
corsi del CUEA erano strutturati come dei giochi. In
particolare in tutti quei corsi che avevano una notevole
parte creativa e di invenzione, come quelli di scrittura
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
63
64
creativa, sceneggiatura, fumetto e teatro. Rispetto ad
altri corsi, che potrei definire più interpretativi che
creativi, come disegno, pittura, modellato in creta, canto
o chitarra, prima di permettersi di giocare era necessaria
una discreta conoscenza tecnica, e quindi spingere
gli allievi, e la didattica, verso queste forme giocose,
risultava immobilizzante piuttosto che liberatoria. In
questi corsi gli esercizi erano, dunque, più tecnici.
Ma in entrambe le sfere disciplinari valeva lo stesso principio: se c’è divertimento
questo accresce l’entusiasmo e la voglia di
mettersi alla prova (tanto è un gioco!).
L’aspetto ludico in ciò che si fa, aiuta e facilita
l’apertura emotiva e la costanza nella partecipazione.
Se l’insegnante sa essere simpatico, brillante e trasmette
il suo sapere con battute e forme giocose, gli allievi
sono molto più disposti ad apprendere e riescono a
memorizzare meglio le cose. L’atteggiamento serioso
si deve alternare al gioco altrimenti si rischia una
saturazione ed il corso diverrebbe una gita tra amici
dove verrebbe meno la giusta concentrazione. Giocare
sì, ma con misura e moderazione.
Quando, invece, la serietà e la solennità sono alla
base dei comportamenti di un insegnate abbiamo
tutti sperimentato che non coinvolge, anzi spesso
genera rifiuto. È vero che se con la simpatia si cerca
di compensare l’incapacità di insegnare si cade
nell’opposto. Allora meglio uno più serio e onesto
che uno spiritoso e truffaldino! Tra la simpatia e la
conoscenza è preferibile la seconda, ma se si riesce a
creare un connubio tra conoscenza e allegria, il gioco è
fatto: tutti gli allievi saranno presto conquistati.
Un buon insegnante deve curare quel “carisma
simpatico”, altrimenti tutto gli sfugge di mano. Il
carisma di cui parliamo non è quello ipnotico che solo
alcuni personaggi hanno, si può conquistare gli allievi
in tanti modi attraverso la pazienza, la preparazione,
la simpatia, la comunicazione diretta, anche con il
modo di vestire. Per questo ho commentato che ci
sono professori carismatici anche se non sono persone
carismatiche.
Nella didattica dell’arte il gioco è strumentale, al di
là del carattere dell’insegnante. Esso dovrebbe essere
sviluppato anche con l’ottica professionale, certamente
infilarcelo dappertutto non ha senso, ma si può cercare
di rendere i propri corsi sempre più brillanti, tonici,
svegli, anche se nella vita non siamo showman.
Perché ho rinunciato al disegno
Insomma, credo che si possa sviluppare il mestiere
di educatore assumendo dei ruoli appropriati, anche se
questi non sono quelli consueti della vita di tutti i giorni.
D’altra parte chi non “recita” nella vita diversi ruoli?
Forse il nostro modo di porci è lo stesso quando siamo
di fronte ai figli, o siamo nell’intimità con la nostra
amante? Quindi crediamo che vi siano dei ruoli adeguati
allo scopo di istruire, ed altri, invece, inadeguati.
Personalmente gioco molto sulle paure, sulle
insicurezze mie e altrui. Mi mostro spesso che
non so le cose, metto dubbi su ciò che ho appena
affermato apertamente, poi controllo in un libro e
la lezione successiva mi correggo e dico loro che la
lezione precedente ho detto una inesattezza. Questo
atteggiamento, contrariamente a come si potrebbe
pensare, non fa perdere riferimento in me, ma al
contrario accresce la loro stima. Mentire non porta mai
da nessuna parte. Spero, in questo modo di trasmettere
un principio fondamentale che la conoscenza non è
sapere cose, ma porsi costantemente dubbi e domande
senza paura di non avere risposte. La conoscenza è
fatta di dubbi più che di certezze.
Gioco anche con quanto io affermo, a volte, con
troppa solennità. Se mi accorgo di aver esposto dei
concetto come se fossero verità assolute, cerco poi
successivamente di ironizzare. In effetti mi vergogno
di alcune mie rigidità. Cerco anche di ammorbidire
le rigidità degli altri. Ad esempio, riguardo al senso
di mancanza di autostima di cui tutti soffriamo, al
momento in cui si verificano questi conflitti interni che
irrigidiscono, dico spesso durante la lezione che, per chi
lo desidera, solo in caso di necessità, “ho un frustino
per fustigarsi, di ottima qualità che garantisce un buon
livello di sofferenza”. Così trattarci male diventa una
sorta di parodia autolesionista, e risulta più difficile
prendersi sul serio.
Un altro gioco è lanciare una provocazione allegra,
una sorta di gara a chi fa più errori, perché chi più
sbaglia più cresce e questo consente di fare maggiori
avanzamenti.
Ma attenzione a giocare troppo! Ed io, un poco
burlone, ne ho abusato in qualche occasione. Ad
esempio, bisogna porre attenzione a capire subito chi
dei propri allievi è permaloso, con loro non fate mai
battute, non scherzate e non ironizzate, ma al contrario
scoprite il loro atteggiamento facendo i seri, essendo
cupi e mesti. Insomma, enfatizzate dolcemente il loro
ruoli nella speranza che essi si specchino e venga poi
da loro l’esigenza di alleggerire. È un gioco a “specchio”
Capitolo 4
che utilizzo con certi allievi, loro si incupiscono ed io
pure, loro drammatizzano ed io li seguo, sempre con
soavità e rispetto, senza mai arrivare alla presa in giro.
Se condotto in giusta misura, loro sentono, in questo
modo, con maggiore forza il proprio ruolo come
inadeguato e nella maggior parte dei casi cambiano
velocemente. Il tutto avviene in quella dimensione
tacita, di non detti, che è indispensabile sviluppare nella
parte psicologica di ogni didattica.
Ricordo una volta un allievo che triste e costernato mi
fece vedere un suo risultato grafico, definendolo come
“uno schifo”. Si aspettava chiaramente che gli dicessi “ma
no! Non fa schifo…”, insomma, che mi opponessi al suo
giudizio. Gli chiesi, impressionato come di chi non mette
in discussione ciò che l’altro afferma, di chiarire un tale
giudizio, e di farmi comprendere quali erano i motivi per
cui definiva schifoso il proprio disegno. Non me li seppe
dire, si accorse quasi subito che lo schifo era da attribuire
più ad un tono emotivo, un atteggiamento generalizzato.
Era questo “clima interiore” a fargli credere che il suo
disegno era brutto. Chiaramente, quando il suo fluire
negativo cessò, e si mise in un atteggiamento aperto e
disponibile, uscendo così da quel tono un poco rabbioso,
gli dissi quali cose doveva cambiare per abbellirlo e quali
erano i motivi dei suoi errori. Ascoltò con molta attenzione.
Cambiò il suo disegno che appariva ora di suo gradimento
e non tornò più da me con quell’atteggiamento lamentoso
e vittimistico.
È chiaro che un insegnante debba rischiare in
alcuni casi. Può capitare magari di non riuscire ad
ottenere la relazione che ci si aspettava, magari a volte
si ottiene chiusura e distacco, come successe con un
allievo che dopo diverse lezioni ancora si arrabbiava
se commentavo i suoi lavori. Vedevo che si alterava
perché da me voleva solo che gli dicessi che va bene,
bravo, i tuoi disegni sono meravigliosi! Lui chiedeva
solo questo. Capii che non era lì per imparare, ma per
passare un piacevole pomeriggio, amava disegnare e mi
mostrava i suoi lavori con orgoglio come se mi dicesse
“guarda che cosa bella ho fatto?”. Smisi di commentare i
suoi lavori e mi complimentavo sempre delle cose belle
che aveva fatto. La sua relazione cambiò e quando mi
vedeva sorrideva compiaciuto e contento. È chiaro che
gli accordi impliciti con gli allievi possono essere diversi,
e che non si possa trattare tutti allo stesso modo.
L’elemento importante, credo, sia al di la delle forme,
di avere la sensazione che si stia contribuendo al suo
benessere, il che è sempre sinonimo di crescita.
Cura del rapporto tra gli allievi
Ci sono discipline, alcune delle quali da noi
insegnate al CUEA, in cui il rapporto con gli altri è
necessario ed indispensabile. Mi riferisco al teatro, alla
danza, alla musica orchestrale, alla realizzazione di un
cortometraggio o di un film.
Si ritiene, forse anche ingenuamente, che
il disegno e la pittura siano arti individuali,
in cui non ha importanza il rapporto con
gli altri, o almeno non quanto quello con sé
stessi.
Ritengo, invece, che in maniera meno evidente, il
rapporto di gruppo sia una componente necessaria
per creare quella complicità e spirito collettivo che
rende l’apprendimento più interessante e curioso.
Questi legami profondi costruiti durante tutto l’anno
si evidenziano in maniera particolare nei saggi di fine
anno.
In ogni corso artistico promosso da una struttura
privata c’è quasi sempre, un saggio di fine anno.
Questo può essere un video, una mostra, un balletto
o una pubblicazione. Almeno nel CUEA, si è sempre
creato un momento finale dove gli allievi potessero
confrontarsi e mostrare il loro percorso di crescita ad
amici e familiari.
Per certi versi è un fatto commerciale, la scuola
si promuove perché non ha assicurato un continuo
affluire di allievi, ma per noi questo era un significato
decisamente periferico, il senso del saggio di fine anno
era principalmente pedagogico.
Il saggio non poteva essere una forzatura, un
obbligo, perché altrimenti avrebbe perso il suo interesse
profondo. Per questo motivo durante i nove mesi di
corsi, ci si assicurava di formare le persone, in modo
tale che sentissero il traguardo finale, non come una
forzatura o qualcosa di prematuro, ma come una
naturale conseguenza dello studio.
Ricordate che vi ho raccontato che l’inizio dell’anno
la maggior parte degli allievi manifestava spesso
tendenze del tutto contrarie, come paura, ansie,
infantilismi, bassa autostima e tutte quelle espressioni
che non potremmo di certo considerare centrifughe,
che spingono verso il mondo, ma al contrario contratte
e di chiusura. Capirete dunque che il nostro obiettivo
finale ci chiamava a lavorare in direzione opposta a
quella meccanica del principio.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
65
66
Per noi il saggio di fine Giugno significava costruire
una sensibilità, quella di non aver timore di dedicare
ad altri la propria arte, mostrare ciò che si è acquisito
con piacere e divertimento, manifestandosi in una
forma priva di esibizionismo e pretese estetiche, ma
che fosse confidenziale e sincera, e soprattutto sentita
dagli allievi.
Ottenere una tale trasformazione era possibile solo
se nei mesi del corso si maturava un senso dell’arte
più ampio e profondo grazie alla condivisione, per
questo tutti i saggi erano vissuti come una sincera
comunicazione, un punto di verifica, un momento
di confronto, e soprattutto una meta che stimolava
perché significava per loro un motivo in più di
miglioramento.
Spesso si arrivava alla fine dell’anno scolastico, a
Maggio, un poco stanchi. Si avvertiva il peso di un
inverno trascorso e già albeggiava la voglia di partire
per andare in ferie.
Per questo motivo era ancor più necessario rinnovare
gli entusiasmi e le energie. Il saggio di fine giugno aveva
questo effetto. Il saggio consisteva in due, tre giorni
dedicati alle mostre di disegno, pittura, fotografia e
fumetto, alla presentazione e la lettura dei racconti
degli allievi di scrittura creativa e sceneggiatura. Inoltre
veniva pubblicata una piccola rivista con racconti e le
tavole e le illustrazioni di fumetto. Il tardo pomeriggio
era il momento del saggio-concerto dei musicisti di
canto e chitarra, mentre la sera avveniva la proiezione
dei video realizzati dagli allievi della sezione di cinema.
Il saggio era una bella festa con tante persone che si
trattenevano fino alla sera partecipando alla cena, a
volte anche di 150 persone.
Per noi insegnanti era una faticaccia ma sicuramente
ne è sempre valsa la pena perché questo consentiva agli
allievi di “guardare” il frutto della loro esperienza di
formazione.
Non è la stessa cosa fare un saggio o non farlo,
perché in questa occasione si rivela il talento nascosto
di chi inizia questo piccolo viaggio non sapendo o non
credendo di averne. Senza questo momento finale
non si compie la sintesi, non ci si accorge del proprio
percorso e dei risultati estetici, spirituali ed umani che
si sono compiuti.
Il saggio finale consente di cogliere il senso
del processo di crescita che non si avverte durante
l’anno. Durante l’anno si procede per gradi e per passi
e solitamente la stima di sé stessi è sempre molto
Perché ho rinunciato al disegno
bassa. Questo si deve al fatto che tutti i principianti
commettono molti errori ed è facile buttarsi giù. Ma
anche avvengono molte e belle conquiste, ma gli
errori e il negativo risaltano sempre rispetto a ciò che
è buono. Il nostro affezionato pessimismo ci porta ad
avere una visuale del nostro lavoro sempre riduttiva e
negativa. Inoltre, durante l’anno, mancava una visione
complessiva dell’avanzamento perché ogni lezione è
distinta e separata dalle altre. Il saggio finale consente
di vedere in maniera distaccata, e in uno spazio-tempo
ridotto, la sequenza il lavoro svolto.
Tutto ciò portava sempre a sperimentare
una vera e propria sorpresa rispetto a se
stessi, un eureka!, che altrimenti era impossibile ottenere.
Il fenomeno può essere così interpretato. Se ci
ponessimo a guardare un film in un anno, osservando
100 fotogrammi al giorno non arriveremo a comprendere
la storia, ne avremo una sensazione ed una percezione
rarefatta e distorta, ma se avessimo poi la possibilità di
vedere in fila tutti i fotogrammi, come avviene quando
guardiamo un film, è probabile che molti contenuti
nuovi possano apparire. Allo stesso modo il saggio
di fine anno consente una percezione compatta e
logica del proprio lavoro.
Voglio portarvi un esempio concreto di questo
fenomeno. Un anno, una persona abbastanza “distratta”,
arrivò verso la fine del corso con la netta sensazione
di non aver fatto niente, e credeva di avere realizzato
niente di buono. Durante i giorni della preparazione
della mostra espose i suoi tre lavori, li guardò
soffermandosi su di essi in diversi momenti, ma non
riusciva a valorizzarli. Venne il giorno del saggio. I suoi
tre dipinti ebbero moltissime approvazioni, destarono
interesse e stima. Molte persone, sorprese di tali risultati
estetici, gli chiesero come avesse fatto a realizzarli! Alla
fine della serata lei e tutti gli altri suoi compagni, erano
come esaltati! Mi dissero che solo allora avevano avuto
la chiara sensazione che ciò che avevano realizzato
in sole 36 lezioni aveva dell’incredibile, soprattutto
ponendo gli ultimi lavori in confronto al loro livello
di partenza.
Quando i nostri allievi arrivavano ad avere
questo riconoscimento del loro lavoro, per noi si
poteva dire concluso il processo di formazione!
Il rapporto tra allievi aveva una grande importanza
per noi, e per esprimersi in questo modo nei saggi di
Capitolo 4
fine anno, era indispensabile stimolare uno stile di
relazioni, che potesse orientare l’interazione e rapporti
tra gli allievi, durante tutto l’anno. Lo stile era quello
delle relazioni nonviolente.
Ma vediamo come solitamente si danno le relazioni
nei gruppi umani all’interno delle scuole e delle classi.
Dalle nostre e altrui esperienze avevamo notato che
spesso la competizione, il prestigio e l’ipocrisia erano
diventati normali aspetti delle relazioni che si instaurano
all’interno di molte classi nelle scuole statali e private. A
noi era chiaro che quella era una terribile conseguenza
di una didattica che adotta la politica dei premi e delle
punizioni. Ad esempio, per paura dei cattivi voti non
si potrà mai distinguere se l’allievo ha lavorato mosso
dalla voglia di conquistare una conoscenza sincera e
profonda o, come contrariamente avviene, mosso dal
timore studia solo superficialmente.
Non siamo stati educati a studiare per noi
stessi, ma, ahimè, per gli altri!
A noi era chiaro fin dal principio che questo sistema
didattico non lo si poteva mantenere nella nostra scuola.
Tantomeno in una scuola privata come la nostra - anche
se molte lo adottano - perché alla base delle scelte che
portavano le persone adulte ad iscriversi da noi, come
abbiamo scoperto ben presto, c’era una motivazione
intimamente personale. È quindi principalmente in
relazione a se stessi e al piacere di creare, che decidono
di iscriversi, e non certamente per ottenere un voto, un
pezzo di carta, una professione. I nostri erano corsi per
amatori, ovvero amanti dell’arte.
Immaginatevi inadeguatezza di un simile metodo,
basato sui premi e punizioni, nelle scuole per amatori!
Non solo è dannoso, ma è totalmente inutile. Eppure
ancora esistono scuole per adulti che danno voti e
attestati, e che quindi influenzano, in qualche modo, la
loro didattica verso quel fine così rozzo e inadeguato.
Per questo motivo ci è sembrato molto più
interessante educare all’auto valutazione e all’auto
apprendimento, ossia trasferire nell’allievo dei minimi
strumenti per potersi orientare senza la necessità del
maestro, diminuendone sempre più l’importanza fino a
quando la sua figura non scompare e la persona ripone
soprattutto in sé stessa il fulcro delle proprie decisioni
artistiche. Si tratta di aiutare i discenti a prendere
in mano le redini del gioco.
Questo metodo che valorizza l’indipendenza
individuale, può sembrare distante dalle dinamiche
di gruppo, invece è l’elemento che determina
sostanzialmente il sistema di relazioni. Infatti, se
si adotta questa linea di pensiero, al posto della
competizione si instaura la collaborazione o la stima
reciproca dei compagni, perché la maggior parte degli
insegnamenti deriverà dalla singole scoperte, dalle
particolari soluzioni che ogni allievo ha trovato. I
riferimenti educativi saranno così distribuiti tra docente
e compagni. Essi si scambieranno complimenti sinceri, e
quando alcuni otterranno significativi risultati, gli altri
saranno mossi dalla voglia di raggiungerli. Se una sera
uno di loro eseguiva un buon disegno, i compagni erano
spinti al fargli tante domande su cosa gli fosse successo,
per scoprire in questo modo, elementi che potessero
essere utili all’intera classe. In sintesi, saranno mossi
dalla curiosità per l’altro piuttosto che dall’invidia.
In tutti questi anni, a parte alcuni rarissimi casi,
l’insieme della classe è sempre stata motivo di stimolo
per il singolo. Gli altri consentivano all’individuo di
ritrovarsi, di riconoscere sé stesso, e questo genera un
particolare entusiasmo in cui è naturale che si creino
vincoli di amicizia. Devo dire che diverse amicizie che
si sono andate costruendo al CUEA si sono andate
rafforzando nel tempo e sono vive ancora oggi.
Posso dire che nella didattica del disegno e della
pittura non vi sono delle vere e proprie forme di
collaborazione diretta tra allievi, come lo era nel teatro
o nella danza, come ad esempio potrebbero essere fare
un disegno o una pittura collettiva, ma l’unione tra loro
avviene per una naturale tendenza al condividere, insita
in ogni essere umano.
Nel disegno ognuno è, correttamente, concentrato
a trovare una propria entità, una propria forma, ma
questa definizione di sé stessi si va configurando non
solo a partire dalla comparazione dei propri lavori
nel tempo, quindi osservando cosa succede nel suo
processo di crescita, ma, e questo è notevolmente
diverso a come si crede, ciò che li fa avanzare è il
confronto coi propri compagni e, in misura decisamente
minore, con gli esempi tratti dalla storia dell’arte.
Nessuno vive isolato, dunque, e l’influenza e la
partecipazione degli altri nella propria formazione
risulta un fattore moltiplicativo.
Se si adotta una didattica nonviolenta, di non
competizione con gli altri e soprattutto con sé stessi,
gran parte dell’attenzione si rivolge al lavoro, alla
qualità dei compiti, ed in parte ad osservare cosa
succede, con curiosità e profondità, agli altri suoi
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
67
68
compagni. La moltiplicazione avviene perché negli
altri vede possibilità espressive e strategiche differenti
dalla sua, vede che ci sono mille modi di disegnare
una stessa bottiglia. Ciò non vuol dire che cerchi di
emularli spinto da chissà quale ansiosa e schizofrenica
ricerca della perfezione. Può essere enormemente
soddisfatto del suo stile e ed è per questo motivo che
non vede i disegni degli altri come modelli da seguire.
Ciò avviene nell’invidioso, invece, che sente quegli
altri modi di esprimersi come nemici perché vorrebbe
essere il migliore. Ma nella pace delle relazioni questi
modi diversi di esprimersi sono ricchezza, ed è grazie a
questa diversità che l’individuo affina il suo stile. Lo stile
personale, grazie a questa modalità, ha la possibilità di
crescere per differenze, per confronti sani e profondi.
Non si tratta di emulazione ma di moltiplicazione della
visione individuale e della consapevolezza che si ha del
proprio lavoro.
Vi ho raccontato dei saggi di fine anno e della
didattica nonviolenta e collaborativa, ma c’è, un
ultimo un fattore che aiuta le relazioni tra allievi. Si
tratta di qualcosa di non usuale che definisco azione
di forma.
L’azione di forma non procede insegnando
qualcosa o concetti, non si tratta di trasmettere attraverso i canali concettuali, ma come
per il “buon clima” di cui si parlava, di creare
delle modalità, o forme, alle quali gli allievi
vanno adattandosi armoniosamente.
Per questo motivo il creare delle buone relazioni
nella classe dipende, non solo dalle didattiche e
dalle procedure di apprendimento, ma soprattutto
dall’insegnante che si pone in una certa forma di
relazione fin dal principio. Se è rigido e distante, se non
approfondisce la conoscenza umana dei propri allievi
anche l’insieme acquisirà in qualche modo quelle forme
fredde e distaccate.
Prima si è parlato di questi elementi da un altro
punto di vista. Del carisma dell’insegnante, della sua
efficacia, del rapporto coi singoli allievi, ecc. ma non
delle relazioni di classe. Di tutte le relazioni che si
svolgono dentro quella forma, che come un ambito
fisico di cui parleremo dopo, contiene ed influenza,
dando ad esempio ritmo e tono emotivo, a tutto ciò
che si svolge nel suo interno. Al contrario di quanto
prima esposto, vorrei farvi notare che si tratta di una
azione indiretta, e spesso impercettibile, che agisce
Perché ho rinunciato al disegno
senza che la si veda agire.
Una azione di forma è ad esempio quella del buon
clima, o di un buono spazio, che contribuiscono a creare
un ambiente caldo, piacevole, rilassato, dove si scherza,
si fanno delle battute, si ironizza, si parla apertamente
di ciò che ci succede, si ammettono i propri errori, e ci si
mostra per quello che si è, evitando forzarsi di apparire
per come non siamo. Questo era per noi l’ambiente
migliore per avanzare nella crescita artistica unitamente
alla crescita della persona.
Questa “forma”, per continuare ad esemplificare, è
diversa da quella di una azienda, della famiglia, degli
amici. È un luogo in cui ci si confida e ci si apre. Anche
l’insegnante, quindi, nei suoi modi particolari di porsi,
agisce a dare volume o piattezza, luce o buio, colore o
grigiore a quella forma.
Quando venivano allievi nuovi, inserendosi anche
uno o due mesi dall’inizio dei corsi, essi entravano in
una forma di relazioni già costruita. Tra me e gli altri
allievi già c’era una certa simpatia, sintonia, ecc.. Se io
trattavo il nuovo venuto, come tutti gli altri compagni
solitamente facevano, come un estraneo a quel che
già si era creato, lui avrebbe sofferto del suo entrare in
ritardo. Questo è molto importante, perché già si trova
nelle condizioni psicologiche sfavorevoli di partenza
rispetto al programma del corso, a cui si aggiungeva il
senso di estraneità relazionale. Poteva dunque verificarsi
una certa possibilità di “rimbalzo”, se vogliamo definirlo
in questo modo, che poteva mettere a disagio il nuovo
arrivato. Quindi, io per primo, non lo trattavo come uno
nuovo creando in questo modo un’azione di forma.
Se agli altri compagni già li abbracciavo, per fare un
esempio, o gli rivolgevo battute complici, anche con lui,
in maniera più soft ed indagatrice, mettevo la stessa
forma fin dal primo minuto. Questo atteggiamento
non è diverso da quando conosciamo nuove persone
e li trattiamo come se fossero dei vecchi amici. Capita
anche quando ci introduciamo in alcuni ambienti
familiari così dolci ed inclusivi che ti sembrano da
subito “la tua famiglia”.
Se attuavo sul momento questa forma, anche gli
altri lo includevano da subito. Se non la mettevo, e mi
è capitato, poteva farlo un altro allievo, certamente, ma
era decisamente meno probabile, e non avrebbe avuto
lo stesso significato, perché un insegnante è come un
direttore d’orchestra e la sua autorità ha una maggiore
influenza nell’insieme.
Capitolo 4
Cura dello spazio
Il buon clima si deve anche all’ascendente che hanno
l’organizzazione e strutturazione dello spazio in cui si
svolgono le lezioni.
Come si può essere rilassati e aperti in certi luoghi
freddi, duri, pomposi, o che magari riflettono una certa
aggressività o un senso di potenza e di potere di chi li
ha costruiti?
Dato che l’ambiente di lavoro, influenza
notevolmente le attività svolte al suo interno,
è indispensabile che esso rispecchi tutte le
caratteristiche che abbiamo chiamato “buon
clima”.
Gli architetti di un tempo lo sapevano bene, e oltre
a progettare uno spazio per assolvere a delle esigenze
pratiche, lo costruivano anche in funzione delle
esigenze estetiche e spirituali, come risulta evidente
nell’architettura sacra. Il luogo in cui si studia e si
crea sembra un argomento secondario in una scuola
rispetto agli strumenti e alle attrezzature, ma non lo è.
Non basta una stanza qualsiasi con un tavolo e le sedie,
come noi avevamo nelle nostre scuole.
Per disegnare e dipingere sarebbe opportuno avere a
disposizione uno spazio ampio dove si possa usufruire
di una parete in cui appendere dei grandi fogli o tele.
L’ambiente dovrebbe essere caldo e sereno, luminoso,
ma soprattutto “sacro”. Sacro perché è un luogo di
concentrazione, di espressione e di esperienza profonda.
Un luogo da tenere distinto dagli altri dove si mangia, si
dorme e si legge. Non sottovalutate l’apporto creativo
che può avere uno spazio dedicato all’espressione, se
ben costruito agirà positivamente su di voi. In un luogo
così curato, ci verrà voglia, quasi automaticamente,
di creare. Esso porta entusiasmo ed invenzione, allo
stesso modo in cui quando siamo all’interno di una
cucina rilassante e comoda, sentiamo che questo luogo
stimola il desiderio di mangiare o, in una riposante
stanza da letto, di dormire. Allestire adeguatamente uno
spazio fisico aiuta a conquistare quello spazio mentale
necessario alla creazione, ben più complesso e difficile
da ritagliare al giorno ripetitivo e automatico.
All’interno del CUEA il locale dei corsi non era
suddiviso in delle stanze isolate, come solitamente è in
una scuola, ma c’erano delle stanze di passaggio. Questo,
che poteva sembrare un deficit, invece nello stile della
scuola diventava una virtù, perché si interpretava lo
spazio come un luogo aperto. Certamente chi passava da
una stanza ad un’altra vedendo gli altri che disegnavano
o dipingevano, lo faceva con attenzione e il giusto
silenzio, ma allo stesso tempo vedeva come i quadri o
i disegni evolvevano, vedeva come si organizzavano gli
altri corsi, si incuriosiva delle altre arti.
Nella stanza di passaggio venivano svolti tutti i corsi
manuali: disegno, pittura, modellato in creta, fumetto
e teatro. Mentre nelle altre stanze, a sinistra, che
davano su quella principale di passaggio, si svolgevano
i corsi di scrittura creativa, riprese video e montaggio,
sceneggiatura e composizione. Infine tutti gli altri corsi
di musica, in un’altra sala insonorizzata, che stava al
lato destro. Questa particolare organizzazione degli
spazi faceva sì che il lavoro della scuola circolasse,
come una sorta di linfa vitale, tra tutti gli allievi che si
incontravano, soprattutto nella pausa.
Per evitare un sovraccarico di informazioni si decise
di spezzare le tre ore circa di lezione con una pausa.
La pausa era programmata, più o meno come gli orari
di ingresso e uscita dei corsi, in sincronia con gli altri
corsi. In questo quarto d’ora di stacco, gli allievi si
ritrovavano in uno spazio che chiamammo “Caffè dei
Pazzi”, angolo in cui si poteva prendere un caffè, un
tè, un barretta di cioccolato, un pacchetto di crackers.
In queste pause si creava un breve momento in cui le
persone potevano dirsi cosa facevano nella vita, come
era andata la giornata, confrontarsi sulle difficoltà, ecc..
Sono nate molte amicizie all’interno del CUEA, forse
proprio perché noi si favoriva lo scambio, la curiosità e
il genuino interesse per il lavoro degli altri corsi. Molti
allievi infatti mi testimoniavano che la sera, anche
se stanchi, si rigeneravano in quell’ambiente caldo e
umano e tanti di loro, hanno espresso il loro dispiacere
per la chiusura della scuola avvenuta nel 1996.
Vorrei adesso parlarvi di un fattore tempo nella
didattica dei corsi d’arte, considerato da pochissimi o
nessuno, forse proprio perché bizzarro e sfuggevole,
come è d’altronde sempre il tempo. Per farlo, ho
però necessità di portarvi da un’altra parte, dal quale
poi osservare quanto ho da testimoniare, e poterlo
comprendere in profondità, almeno mi auguro di
riuscirci con questo giro largo!
Cura del tempo
Un indigeno delle isole Samoa il capo Tuiavii
di Tiavea fu invitato alla fine dell’800 a Londra per
conoscere la nostra civiltà. Al suo ritorno alle isole
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
69
70
Samoa raccontò ai suoi conterranei del suo viaggio
nelle terre dell’uomo bianco e chiamava Papalagi. La
sua descrizione della società londinese è qualcosa di
straordinario.
Consigliamo vivamente la lettura di tale libretto,
Papalagi, edito da Stampa Alternativa nell’edizione che
allora si chiamava Millelire, e che oggi è diventata di 2
euro. Il capo Tuiavii raccontava così il nostro rapporto
col tempo, ed è appunto questa visione estranea che
ci porterà a trattare poi il nostro argomento.
Il Papalagi non ha tempo.
Il Papalagi è sempre scontento del tempo che ha a disposizione, e
accusa il Grande Spirito di non avergliene dato di più. Bestemmia
contro Dio e la sua grande saggezza dividendo e ridividendo ogni
nuovo giorno secondo un piano preciso. Lo spezza proprio come
si farebbe con
una noce di cocco servendosi di un coltello da boscaglia.
Tutte le parti hanno un nome preciso: secondi, minuti, ore.
Il secondo è più piccolo del minuto, che è più piccolo dell’ora; tutti
insieme fanno un’ora, e sono necessari sessanta minuti, e ancora
più secondi, per arrivare a un’ora.
Questa è una cosa che ho assimilato male, che non ho mai capito
bene, perché mi fa star male pensare più del necessario a cose così
infantili. Il Papalagi fa di questo un gran sapere. Gli uomini, le donne
e i bambini stessi, che ancora non si reggono sulle loro gambe,
portano nei loro panni una piccola e piatta macchina rotonda, che
pende sul collo legata a spesse catene di metallo, oppure è allacciata
al polso con strisce di pelle, dalla quale sanno leggere il tempo.
Questa lettura non è facile. Si fanno esercitare i bambini, tenendo
la macchinetta vicino all’orecchio per farli divertire.
Queste macchine, che si possono portare facilmente su due dita
tese, assomigliano al loro interno alle macchine che sono dentro
la pancia delle grandi navi, che voi tutti conoscete. Ci sono però
anche grandi e pesanti macchine del tempo che stanno ritte
all’interno delle capanne o che pendono dall’estremità più alta delle
case, perché possano essere viste da lontano. Quindi dopo che è
passata una parte del tempo, due piccole dita che sono all’esterno
lo segnalano, e contemporaneamente la macchina manda un urlo,
e uno spirito colpisce il ferro che è nel suo cuore.
Proprio così, in una città europea quando una parte del tempo è
trascorsa c’è un fragore violento.
Quando risuona questo rumore del tempo il Papalagi si lamenta: «È
duro pensare che è passata un’altra ora». Fa poi una faccia triste,
come chi debba sopportare una gran pena, anche se arriva subito
un’ora tutta fresca.
Non ho mai compreso tutto questo, posso solo pensare che si tratti
Perché ho rinunciato al disegno
di una grave malattia. «Il tempo mi sfugge», «II tempo galoppa
come un cavallo!», «Datemi un po’ di tempo!», questi sono i lamenti
dell’uomo bianco.
Dico che questa deve essere una malattia, perché, se anche il
Bianco ha voglia di fare qualcosa che in cuor suo desidera, per
esempio stare al sole o andare sul fiume in barca, oppure amare
la sua ragazza, guasta quasi sempre il suo piacere fissandosi sul
pensiero: «Non mi rimane
tempo per essere contento». Il tempo ci sarebbe, ma lui anche con
la migliore volontà non riesce a vederlo. Parla di mille cose che gli
rubano il tempo, si piega imbronciato e scontento su un lavoro che
non ha voglia di fare, che non gli da nessuna gioia e al quale non lo
obbliga nessuno tranne lui stesso.
Se però improvvisamente si accorge di avere tempo, che ne ha a
disposizione, o se un altro gli da del tempo - i Papalagi si danno
reciprocamente tempo in molte maniere: niente viene tanto stimato
quanto questa attività - allora gli manca nuovamente la voglia, o è
stanco per il lavoro fatto senza gioia. E di regola vuole fare il giorno
dopo ciò per cui avrebbe tempo quello stesso giorno.
Ci sono Papalagi che sostengono di non avere mai tempo. Corrono
freneticamente qua e là, come se fossero posseduti dal demonio, e
ovunque vadano fanno del male e creano spavento perché hanno
perso il loro tempo.
Questa ossessione è uno stato tremendo, una malattia che nessun
uomo della medicina può guarire, che contagia molti e porta alla
rovina.
Poiché ogni Papalagi è posseduto dall’angoscia per il tempo, sa
anche molto precisamente quante volte sono sorti la luna e il sole
da quando ha visto per la prima volta la grande luce, e non solo lo
sanno tutti gli uomini, ma anche tutte le donne e tutti i bambini,
anche piccoli. E questo gioca un ruolo così importante da venir
festeggiato a intervalli di tempo precisi e costanti con fiori e grandi
banchetti.
Spesso ho sentito come ci si sentisse in dovere di vergognarsi per
me, quando mi si chiedeva l’età e io ridevo non sapendolo. «Ma
devi pur sapere quanti anni hai!» dicevano, lo rimanevo in silenzio
e pensavo: è meglio che non lo sappia.
Sapere l’età significa sapere per quante lune si è vissuti.
Questo contare e cercare di sapere è molto pericoloso, perché si sa
quante lune dura la vita della maggioranza delle persone. Ognuno
vi presta una grande attenzione, e quando sono passate proprio
tante lune si dice: «Tra poco morirò».
Non si prova più nessuna gioia e si muore veramente in poco tempo.
In Europa ci sono solo poche persone che hanno veramente tempo.
Forse non ce n’è proprio nessuna. Per questo la maggior parte di
loro corrono attraverso la vita come un sasso che sia stato lanciato.
Quasi tutti camminano guardando per terra e agitando le braccia
per procedere il più velocemente possibile. Quando qualcuno li
Capitolo 4
ferma dicono irritati: «Perché mi devi disturbare, non ho tempo,
cerca di sfruttare bene il tuo». Si comportano proprio come se
chi è più veloce valesse di più e fosse più valoroso di chi procede
lentamente.
Ho visto un uomo mettersi le mani tra i capelli, digrignare i denti e
strabuzzare gli occhi come un pesce agonizzante, diventare rosso e
verde e sbattere mani e piedi, perché il suo servitore era arrivato più
tardi di un soffio. Il soffio era per lui una grande perdita, irreparabile.
Il servitore fu costretto a lasciare la capanna, il Papalagi lo cacciò
e gli gridò: «Mi hai rubato tempo abbastanza. Chi non rispetta il
tempo, non ne è degno».
Solo una volta ho incontrato un uomo che aveva molto tempo e non
si lamentava mai per la sua mancanza; ma quest’uomo era povero,
sporco e abbandonato. La gente si teneva alla larga da lui e nessuno
lo rispettava. Non riuscivo a comprendere un tale comportamento:
camminava senza fretta e i suoi occhi sorridevano in modo
tranquillo e amichevole. Quando lo chiesi a lui la sua espressione si
alterò e disse tristemente: «Non ho saputo mai utilizzare il mio tempo
e per questo sono una povera nullità disprezzata da tutti».
Quest’uomo aveva tempo ma neanche lui era felice.
Il Papalagi dedica tutte le sue forze e i suoi pensieri a trovare il modo
di rendere sempre più pieno il tempo. Utilizza l’acqua e il fuoco, la
tempesta, i lampi del cielo per trattenere il tempo. Costruisce ruote di
ferro per i suoi piedi e da ali alle sue parole per avere più tempo.
E perché tutta questa gran fatica?
Cosa fa il Papalagi con il suo tempo? Non l’ho mai capito veramente,
anche se parla e gesticola come se il Grande Spirito lo avesse
invitato a un ricevimento.
Credo che il tempo gli sgusci via come un serpente tra le mani
umide, proprio perché lo tiene troppo stretto a sé. Non gli lascia il
modo di riprendersi. Gli corre dietro dandogli la caccia tendendo le
mani, non gli concede alcuna sosta perché possa stendersi al sole. Il
tempo deve stargli sempre vicino, deve cantargli e dirgli qualcosa.
Il tempo però è quieto e pacifico, ama la tranquillità e starsene
disteso su una stuoia.
Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo capisce, e lo maltratta
con i suoi rozzi costumi.
Cari fratelli! Non ci siamo mai lamentati per il tempo, lo abbiamo
amato così come è venuto, non gli siamo mai corsi dietro, non lo
abbiamo mai voluto concentrare o dilatare. Non è stato mai per
noi motivo di disagio o fastidio. Si faccia avanti chi tra noi non
ha tempo! Tutti noi abbiamo tempo in gran quantità; e siamo
soddisfatti del tempo che abbiamo, non abbiamo bisogno di più
tempo di quanto ne abbiamo e comunque ne abbiamo abbastanza.
Sappiamo che arriviamo sempre in tempo ai nostri obiettivi e che
il Grande Spirito ci chiama a lui secondo la sua volontà, anche se
non conosciamo il numero delle nostre lune. Dobbiamo liberare il
povero, il confuso Papalagi dalla follia, dobbiamo distruggergli
la sua piccola macchina del tempo rotonda e annunciargli che
dall’alba al tramonto c’è molto più tempo di quanto un uomo possa
avere bisogno.
É chiaro che il nostro rapporto col tempo è in
relazione ad un meccanismo frenetico in cui siamo
coinvolti nostro malgrado. Cosa centri tutto questo
con l’arte è affare che non si può comprendere se
minimamente non si è sperimentato cosa avviene nella
creazione. Ma siccome tutti noi, almeno da piccini,
abbiamo creato, dipinto, disegnato e forse recitato, non
vi sarà difficile comprovare con la vostra esperienza
quanto affermo.
Il tempo dell’arte, il tempo della creazione
è quasi opposto al tempo della produzione
frenetica nel quale siamo immersi tutta la
giornata. Quindi, per dedicarsi ad una qualsiasi disciplina artistica esso dovrà essere
modificato.
Il tempo dell’arte, diceva Garcia Marquez, va al
passo di mulo!
Se condividete quanto detto, è chiaro che oltre al
buon clima, alla didattica “forte”, e a tutte quelle cose
che abbiamo cercato di sviluppare nel CUEA, vi era
bisogno di un tempo o ritmo adeguato. E ovvio che per
avanzare nel disegno, come in qualsiasi altra conoscenza
occorre dedicargli del tempo, ma pur sempre si ragiona
in termini di quantità. Non occorre solo un numero
di ore, di quantità di tempo, ma soprattutto occorre
un tempo qualitativamente sereno e fortemente
vissuto. E questo lo si conquisterà a man mano che
cresce in noi l’entusiasmo, a man mano che superiamo
limiti e difficoltà.
Suggerisco, quindi, di non entrare assolutamente
in conflitto con il resto delle altre occupazioni, ma è
più indicato far sì che questo tempo sia una conquista
di passione, in cui la gioia che sorgerà nel dedicarsi
a disegnare possa a poco a poco dare la forza ed il
piacere di restare delle ore a svolgere quel compito.
Così, in maniera molto naturale, i discenti si ritrovano
a dedicare a questa disciplina un tempo durante la
settimana che credevano di non avere disponibile!
Come se avessero vinto dei bonus tempo che
pensavano di non avere il diritto di ricevere.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
71
72
Disegnare e dipingere sono attività in cui ci
riprendiamo il nostro tempo. Questa tipologia di tempo
è inversamente proporzionali all’ansia e alla fretta.
Il comportamento ansioso può portare a voler
bruciare le tappe. A volte è sostenuto dal fatto che si
crede che con la fretta si avanzi velocemente, e spinti
da quest’ansia si trangugiano una infinità di argomenti,
che in realtà non riusciamo ad assimilare. La nostra è
la cultura della quantità e ciò influenza anche il nostro
approccio allo studio. La quantità crea spesso l’illusione di
avanzare, ma se ciò che si è studiato non viene assimilato
profondamente, tale conoscenza svanirà o creerà dei
blocchi in uno stadio avanzato dell’apprendimento.
Questo fenomeno avviene perché affronteremo con
presunzione tutte quelle problematiche relative ad
un livello di difficoltà superiore alle nostre capacità,
problematiche ci richiedono conoscenze che in realtà
non abbiamo acquisito perché siamo andati dritti e
spediti in precedenza. Quindi è importante comprendere
che soffermarsi a fondo, senza passare a nuove
problematiche fino a quando le precedenti non sono
state sufficientemente comprese ed integrate, non
è una perdita di tempo. La lentezza che deriva dal
lavoro accurato e di qualità è una garanzia che quanto
abbiamo appreso non svanisca dopo una settimana, ma
soprattutto è la condizione necessaria per qualsiasi
disciplina artistica.
Difatti, mi ha sempre sorpreso chi organizzava corsi
di base (quelli che partivano da zero per intendersi),
con una durata di tre mesi. Se la lentezza è alla base
dell’insegnamento artistico, la fretta, l’efficientismo di
certi corsi di base riesce veramente a far maturare chi
non ha nessuna esperienza?
Nei corsi di base del CUEA spesso affluivano allievi da altre esperienze veloci e
concentrate, fast, a volte poco gratificanti
se non fallimentari. Avevano sperimentato
che per certe conoscenze non esistono
scorciatoie.
A chi sente che non ha tempo e vuole sapere tutto
e subito, va chiarito che questo atteggiamento di
forzatura lo porterà ad ottenere il contrario. Vi sono
scuole che ammaliano, dando l’illusione che si possano
acquisire subito (subito!), certe capacità, io credo che
lo facciano perché intuiscono che questo è ciò che
richiedono molte persone. Non si possono illudere le
persone che certi risultati avvengano in pochi mesi,
ma certamente è possibile avere delle soddisfazioni
Perché ho rinunciato al disegno
fin dalla prima lezione, soddisfazioni che servono per
dare quel senso di avanzamento concreto che aiuta i
discenti ad avere l’entusiasmo a continuare. Altrimenti,
questa voglia di ottenere tutto subito, porta le persone
ad andarsene e questa era una sfida per una scuola
privata come la nostra.
Per i corsi del CUEA si faceva questo esempio: fare
delle scale musicale per 9 mesi è frustrante, meglio
imparare degli accordi minimi che consentano di
suonare un pezzo semplice in pochi mesi, per poi
accedere a livelli più complessi e più alti, ma avendo
la soddisfazione, e direi il sostegno, che qualcosa di
concreto si sia stati grado di farlo da subito. Anche
nel disegno si lavora per risultati graduali, che danno
comunque un senso di concretezza, visibile fin dai
primi esercizi, nei quali si pone l’allievo a copiare un
soggetto dal vero fin dalla prima lezione, in modo tale
che subito sia operativo.
Un altro quesito che spesso ci pongono gli allievi è:
“quanto tempo occorre per imparare?”. Questo punto
è molto importante perché va compreso che il tempo
senza la pazienza non dà i suoi frutti. Il tempo per
imparare non lo si può determinare a priori perché
nell’apprendimento agiscono diversi fattori. Ogni
persona compie un percorso di comprensione differente
per lo stesso argomento. Solitamente chi lavora bene
all’inizio e crea solide basi, nella fase finale si può poi
permettere di accelerare. Mentre al contrario chi è
stato troppo vorace, spesso si blocca nei compiti più
complessi che si presentano a fine corso, e, se non
ritrova la giusta umiltà, abbandona il compito non
credendosi capace di risolverlo. Chiaramente un buon
insegnate e un buon metodo didattico, ben strutturato
come VE.RA.DI., evitano che gli allievi “si brucino” per
l’ansia di voler arrivare.
La cura del tempo, noi la ottenevamo soprattutto a
partire dal buon clima e dalla didattica appassionante,
che facevano permanere i nostri allievi nel compito,
senza l’ansia di andare avanti. Più o meno come per
un bacio, o per un bell’abbraccio, il tempo si dilatava e
pareva eterno, e le nostre tre ore di lezione diventavano
un’oasi nel tempo meccanico. Un oasi dove ci si
dimenticava dell’orologio, e dove, dentro la settimana,
dentro il giorno e dentro le ore, era come se si aprisse
una parentesi, una sospensione in cui la soddisfazione
era tale da non avere più necessità di “altro tempo” per
fare o raggiungere ciò che in quel preciso momento già
avveniva e si andava manifestando.
Capitolo 4
Strumenti Pedagogici “speciali”
Come avete avuto occasione di constatare, questo
capitolo è in realtà un libro nel libro. Non solo per
la sua lunghezza, ma soprattutto perché si tratta di
raccontarvi una lunga ed intensa esperienza, che
vorrebbe, come una qualsiasi storia di vita, non essere
lineare ma rispecchiare in qualche modo quell’intreccio
e complessità esistenziali che poco si addicono ad
essere raccontate in maniera fredda e sistematica.
Non è frutto di uno studio, come potrebbero essere
altri capitoli del libro, ma un racconto in cui i temi
fondamentali dell’educazione agli adulti, riaffiorano
costantemente in ogni parte e non si concludono ed
esauriscono in un paragrafo.
Spero che questo modo di procedere, in cui si
compiono dei voli circolari attorno alle stesse esperienze
e concetti, possa essere di vostro gradimento, in quanto
ad ogni nuovo volo gli stessi argomenti vengono
osservati da punti di vista differenti, cambiando
assumendo così sempre più spessore e profondità,
o almeno mi auguro che questo avvenga in voi che
leggete!
A tal proposito, nel paragrafo in cui vi racconto di
quando i nostri allievi entrano in contatto col profondo,
ho lasciato alcune cose in sospeso, che vorrei riprendere
con maggiore focalizzazione nelle prossime righe.
Il fattore mistico-spirituale
In questi anni di insegnamento artistico ho scoperto
che il fenomeno spirituale, altrimenti non saprei definirlo, è un elemento intrinseco, e affatto trascurabile,
nell’apprendimento. Si tratta del fenomeno in cui attraverso la pratica artistica il discente comprende, scopre,
vive, sperimenta emozioni, intuizioni e pensieri che
vanno molto più in là del compito che sta svolgendo.
Un giorno un allievo mi portò un suo disegno che
aveva fatto sedendosi su una collina e guardando in
basso. Erano solo ed esclusivamente dei cespugli, in
realtà erano solo delle chiazze chiaroscurali sul foglio.
Eppure guardando quel disegno compresi che lui
aveva avuto una esperienza profonda, di trascendenza
rispetto ai cespugli, ed era andato oltre la dimensione
materiale delle piante e ne aveva colto in qualche
modo la vibrazione intensa della vita. Queste “chiazze”
cespugliose vibravano ancora sul foglio come mosse
dal vento o come se stessero crescendo per opera della
linfa vitale, della fotosintesi.
Compresi subito la situazione e lo guardai negli occhi
con un profondo senso di complicità trasmettendogli
che avevo capito cosa gli era successo. Ci capimmo
subito e gli chiesi se aveva disegnato solo i cespugli
o se gli era successo qualcos’altro. Mi disse che si era
perso, aveva perso la cognizione del tempo e dello
spazio, che era entrato in trance e quando si ridestò
aveva finito il disegno. In fondo non sapeva se lo aveva
fatto lui perché quell’esperienza di sé stesso era così
diversa da come si percepiva abitualmente, e mentre
disegnava si sentiva in pace con se stesso ed in armonia
con quell’ambiente.
Si può insegnare ad avere questo contatto
più profondo con noi stessi?
Questa è la sfida dell’Istituto ESTETRA, fondato al
sciogliersi del CUEA. Diversi esperimenti mi inducono a
credere, che lo si può fare, semplicemente innescando
dei quesiti, delle domande, delle riflessioni più poetiche,
più ampie sul senso di ciò che si fa. Perché credo che il
senso dell’arte non è quello naturale della sopravvivenza
del corpo e della specie, non si manifesta quando ci si
trova di fronte ad un problema logico, un problema
economico o materiale da affrontare, ma sembra essere
una necessità spirituale di elevazione, una necessità di
godimento estatico, un desiderio di esistere più in là
della morte.
Non penso che si possa insegnare espressione
artistica a certi livelli se si ha paura di toccare certi temi
esistenziali profondi. Certamente in pratiche di base il
mondo spirituale si presenta con meno frequenza, ma
nei corsi di specializzazione e soprattutto di pittura,
esso è quasi costantemente presente per chi lo sa
cogliere e sostenere. L’arte ad un certo punto richiede
l’abbandono, un abbandono che ha a che vedere con
una fiducia totale, completa ed incondizionata nei
confronti di tutto, di noi stessi, del mondo, dell’universo.
Si può educare per creare le condizioni affinché possa
avvenire questo abbandono, questo momento che
precede l’ispirazione, e, se gli eventi lo vorranno, si
riuscirà ad accedere a questo particolare stato di grazia
mentre si disegna, si dipinge, si danza, si suona e si crea
qualcosa di artistico.
Ci sono persone che pur essendosi dedicate per anni
ad una disciplina artistica non sono avanzate, perché
forse non hanno lavorato sul nucleo dei blocchi emotivi
e psicologici, indirizzando così i loro sforzi solamente
allo sviluppo della parte tecnica. L’educazione artistica
è una educazione psicologica, emotiva e, a certi livelli,
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
73
74
soprattutto spirituale, perché i fenomeni che si vanno
sperimentando sono di difficile inquadramento, se li si
cerca di ridurre a dei procedimenti tecnici, per quanto
complessi ed elaborati essi siano. Chi si appresta ad
imparare l’arte deve essere disposto a farsi un poco
sconvolgere, a farsi trasportare verso comprensioni
che possono anche mettere in discussione la sua intera
esistenza, e ciò si potrà verificare solo se si riesce a porci
con verità senza avere il timore delle conseguenze di
questo totale abbandono.
È per questo motivo che le condizioni in cui si sono
date le mie prime esperienze col CUEA, si sono rivelate,
in un certo punto del mio percorso, inadeguate a questi
nuovi e più ampi propositi.
Eppure molte delle cose sperimentate in quella sede
sono alla base della nuova didattica che ho definito
dell’Arte Trascendentale, fra tutte quelle esperienze
didattiche, due in particolare mi hanno spinto in quella
direzione.
La disciplina interiore
Ho parlato dell’auto apprendimento come quel
complesso insieme di operazioni che avvengono
nell’allievo e che non possono essere né trasmesse
né indotte dall’insegnante. Ciò è valido per tutte le
operazioni di apprendimento, ed il termine auto, sta solo
a significare una necessità di differenziarle da quello
che da sempre è stato definito in maniera confusa
apprendimento. Si crede che si apprende grazie a delle
operazioni che avvengono soprattutto “fuori” come
se esse fossero contenute nell’esercizio dato. Questo
modo di vedere ha detratto un certo potere all’allievo
a favore della metodologia usata e dell’insegnante. In
realtà la maggior parte delle operazioni avvengono
“dentro”, spesso all’insaputa dello stesso allievo. Non è
che certi meccanismi avvengono veramente all’insaputa
dell’allievo, esso ne ha tutte le sensazioni, il problema
sta nel non riconoscerle, nel non saperle vedere e
decifrare, ed in questo la didattica tradizionale non ha
certamente contribuito, anzi ha operato inversamente.
Di conseguenza l’apprendimento è dovuto a tutta
una serie di operazioni (di cui scriverò nei futuri
testi), che non possono essere guidate che non
dall’operatore stesso. Ma come fa il discente a dirigere
le proprie operazioni se non sa che esistono, né come
si manifestano, e tantomeno, come si orientano?
Lo stesso insegnate non è consapevole del perché
sa disegnare, del come apprende, del come struttura
Perché ho rinunciato al disegno
e guida le diverse strategie psico-emotive, come può,
dunque, trasmettere qualcosa che non sa?
In qualche modo è possibile che agisca anche un
altro elemento, che potremmo definire di possesso
o di potere. Se le persone capiscono come auto
apprendere, attraverso questa comunicazione con
se stessi, scompare la figura dell’insegnante perché il
vero artefice della crescita è l’allievo. Se si estendesse
questo atteggiamento libero e consapevole in tutte le
sfere della vita si potrebbero a spezzare tutte le catene
di dipendenza.
Cosicché, è difficile che in un mondo
dove non si vuole la libertà delle persone,
la didattica possa svilupparsi e crescere in
questa direzione.
Ne convenite?
Ed è per questa struttura di pensiero condizionante
che l’educazione di sé stessi è così poco sviluppata.
Per accrescere una cosciente auto educazione non si
tratta di conoscere dei procedimenti precodificati, ma
di essere attenti osservatori di ciò che ci succede
dato che le situazioni sono sempre diverse, e noi
con esse, e qualsiasi procedimento mentale che sia
meccanico e non dinamico risulterebbe una forzatura, o
quantomeno inadeguato. Non c’è niente di più difficile
che conoscere se stessi, è decisamente più facile vedere,
criticare, disquisire su ciò che è esterno a noi, come ad
esempio i commenti didattici o di altro tipo che si fanno
ai lavori degli altri.
In tutta onestà neanche noi insegnanti ci siamo
chiesti fino in fondo il motivo di certe abilità che sono
forse innate, ci succedono e basta, siamo capaci e basta.
Se anche avessimo colto delle caratteristiche peculiari
nella nostra intimità operativa, senza una immediata
documentazione, con lo scorrere del tempo ci si dimentica
presto quali fossero i passi, i ragionamenti, che ci hanno
portato a certe soluzioni nel disegno o nella pittura.
Come anche ci siamo dimenticati delle inquietudini che
hanno accompagnato tali conquiste, le nostre paure e le
nostre ansie. Per cui chiediamo ai nostri allievi di compiere
azioni che per primi non sappiamo come si verifichino in
noi stessi, certo ne vediamo i risultati esterni, ma non ne
conosciamo i meccanismi interiori. Quei meccanismi che
sono stati per noi necessari per avanzare, lo sono anche
per i nostri allievi.
Il rischio è quello di credere che ci siano cose
Capitolo 4
“evidenti”, scontate e che non hanno bisogno di
spiegazioni, che basta farle vedere o narrarle per
spiegarle ad altri. Quando si costruisce una pedagogia
che da per scontato quali siano i meccanismi mentali
dell’apprendimento, solitamente si passa subito da
un tema ad un altro, con una facilità e velocità che, a
pensarci bene, noi docenti abbiamo ottenuto solo grazie
al lavoro di anni. Poi, quando insegniamo, chiediamo
che i discenti compiano questi passi in pochi mesi con
la stessa agilità.
Crediamo che un buon insegnante e un buon allievo,
debbano innanzitutto domandarsi sui quei processi
di apprendimento, elaborazione e sintesi che hanno
agito nella loro mente, nel nostro cuore, di nascosto,
tacitamente. Da taciti bisogna poi renderli espliciti,
esteriorizzarli, organizzarli, ordinarli in modo tale che
possano essere percorribili da altri.
Se ci osservassimo, magari scopriremo che abbiamo
operato in una determinata forma, in un modo, con
delle caratteristiche “interne” che non sono affatto
evidenti. C’era in noi una curiosità, una necessità, una
voglia di scoprire, smontare, capire, che ha fatto sì,
che con i giusti esercizi, ci siamo rafforzati e siamo
cresciuti.
Questo bisognerebbe forse insegnare: un
atteggiamento che sia di aiuto per osservare e dirigere i nostri pensieri sulla forma,
sull’estetica, sui contenuti, sulle modalità di
percepire e di agire. Questo è ciò che intendo
per disciplina interiore.
Coi metodi AS.PE.DI., VE.RA.DI. e ES.TE.TRA. si insegna,
non una tecnica manuale, ma un atteggiamento
mentale. L’atteggiamento è prima della tecnica.
Pensare e sentire prima di agire. È forse azzardato
dire che istruiamo a pensare ma è così, e lo diciamo
alla presentazione di nostri corsi di disegno. Mentre
in quelli di pittura è fondamentale sentire, per questo
stiamo cercando di sviluppare anche un codice di
apprendimento per la pittura che potrebbe chiamarsi
Sentire, Vedere, Dipingere. Da sempre la pittura è stata
associata al sentimento ed il disegno alla ragione, e noi
possiamo confermare che i processi che intervengono
sono di fatto differenti e si completano a vicenda.
Tutto questo, ovvero agire artisticamente (e non solo)
con attenzione a noi stessi mentre contemporaneamente
facciamo attenzione alle operazioni tecniche, che
abbiamo chiamato Disciplina Interiore, è alla base della
didattica del CUEA degli ultimi anni ed è fondamento
della pedagogia dell’Arte Trascendentale.
Per non dare solo indicazioni filosofiche o
psicologiche vi vogliamo illustrare uno strumento
pratico che noi usiamo, e che ritroverete nel libro
VE.RA.DI..
Il dialogo interiore
Partiamo da un presupposto: se ciò che succede
nella mente prima, durante e dopo il disegno, è
determinante nei risultati grafici e psico-emotivi finali,
non è indifferente osservare questo strano movimento
di pensieri, che tanto si adoperano per la creazione, ad
esempio, di un disegno.
Non bisogna credere che sia importante solamente
guidare i ragionamenti durante l’esecuzione del compito,
ciò porterebbe a credere che disegno sia solo una
pratica manuale. Il candidato inizia in realtà a disegnare
“mentalmente”, e lo fa prima di prendere in mano una
matita: lo fa immaginando il compito, e poi guardando
i modelli da disegnare. Solo dopo avere iniziato questo
processo visivo e mentale di preparazione, solo dopo
questa intenzione che già “lavora” prima di operare sul
foglio, esso inizia a tradurre in linee ciò che vede. Lo
fa grazie al ragionamento che guida la mano. Senza
questo ragionamento che precede, conduce e segue
l’operazione sul foglio la mano non saprebbe dove
andare.
Tutto ciò è molto semplice se ci pensate, ma è
sempre rimasto ai margini se non addirittura assente
nella didattica del disegno come di altre discipline. È
questo che ci ha condotto, Giovanni Spinicchia, prima,
ed io poi a distanza di circa 40 anni, a comprendere
che non si insegna a disegnare o dipingere, ma a
pensare e sentire. A pensare in un certo modo, e
da qui, di conseguenza, a vedere, e poi per ultimo a
disegnare. Certamente poi tutte queste fasi diventano
quasi simultanee e retro alimentanti, ma è opportuno
distinguerle nella pedagogia in modo da educare la
mente col pensiero, l’occhio con la visione e la mano
con la pratica del segno.
Non finisce qui il processo, almeno non ancora.
Finita la fase grafica la sua mente continua ancora
ad elaborare, a riprova di questo meccanismo, molto
spesso è solo dopo che ha già disegnato che capisce
come doveva disegnare. Ma come! Sì, avviene proprio
così. Si crede che si apprenda durante, ma il punto
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
75
76
in cui avviene la comprensione di tutta la fase di
apprendimento- quando uno esclama “ho capito!”
- avviene in quel momento fondamentale che è la
valutazione dell’elaborato.
Il processo di apprendimento che parte dall’intenzione,
passando dall’esplorazione o premonizione del
compito, al mettersi in condizione fisica di farlo, fino
all’esecuzione pratica, si concretizza solo nella fase in
cui “esce” da quello stato creativo e ne può vedere i
risultati. Quando è dentro lo vive, ma solo quando
è fuori che lo comprende.
Ma andiamo ancora oltre, laddove si crede che non
esista più nessun apprendimento, e che questo si sia
concluso in classe, o durate l’esercitazione.
Abbiamo notato, senza che l’insegnate lo pretenda
o ne faccia una richiesta pratica, che il candidato in
ogni circostanza in cui viene a trovarsi, ossia nelle
varie situazioni del suo quotidiano, pur non essendo
munito di foglio e matita, automaticamente il suo
pensiero osserva un qualcosa che lo incuriosisce con
lo stesso atteggiamento mentale del disegnatore, del
pittore, del poeta e così via. Durante questa scoperta la
sua mente già elabora, si appassiona, disegna, dipinge,
scrive, danza, suona, ma la cosa più sconvolgente per
il nostro vecchio modo di intendere, è che lo fa senza
disegnare, dipingere, scrivere, danzare e suonare.
È strano crederlo ma la sua mente si istruisce in
continuazione e non solo quando esegue il compito.
Anzi, diciamo che il “fare” è solo il punto centrale di
una operazione che non ha limiti definiti di tempo e
di spazio. Si da in una indefinitezza spazio temporale,
e questo è un punto che ora non posso approfondire
ma vi chiedo solamente di mettere in relazione queste
ultime affermazioni con quanto scritto sulla concezione
di spazio e di tempo nel CUEA.
Quindi, in classe, durate quell’esercizio,
si dà e si manifesta qualcosa che è iniziato
molto tempo prima e finirà quando non si
sa.
Nella pratica didattica tutto questo si traduce
semplicemente chiedendo e parlando di cosa succede,
di cosa è successo prima, e di cosa succederà dopo.
In questo modo l’allievo porta con se dei semi di
consapevolezza o di attenzione durate tutta la
settimana, e osserva qualcosa di più ampio, estendendo,
così, la sua possibilità di apprendere.
Perché ho rinunciato al disegno
Già prima di conoscere e sperimentare il metodo
VE.RA.DI. di Giovanni Spinicchia, in cui tutto ciò è
sistematizzato ed esplicitamente manifesto, si usava
invitare gli allievi a porre attenzione ai pensieri
prima, durante e dopo gli esercizi. L’idea era quella di
stimolare la concentrazione a tutto il dispiegarsi del
processo artistico. Questo “movimento” della mente
lo chiamammo il Dialogo Interiore; un dialogo che
ognuno ha sempre fatto tra sé e sé, un dialogo che
l’allievo sostiene nella sua mente e che sempre è rimasto
oscuro, anche agli stessi “dotati”, che non vedevano
come il fluire di certi ragionamenti fosse determinante
per giungere a certi risultati artistici e tecnici.
Scoprii questo meccanismo quando al CUEA
iniziarono i corsi di teatro, in effetti l’attore si prepara
moltissimo prima di recitare, di entrare inscena, di fare
arte. Esso compie tutta una serie di esercizi, meditazioni
e sviluppa la concentrazione e ciò che noi vediamo in
un’ora è frutto di mesi di lavoro. Iniziai a osservarmi
mentre disegnavo e dipingevo e vidi che dare spazio
a diverse operazioni di preparazione mi facilitava
nel compito. Come mai non ci avevo mai pensato
prima! Ora la didattica di ES.TE.TRA. consta di molte
esercitazioni ante-creative che predispongono gli allievi
a compiere al massimo dell’energia, o concentrazione,
i loro disegni e pitture.
Grazie all’incontro con VE.RA.DI. abbiamo compreso
che l’esito di un disegno corretto si consegue fin dai
primi ragionamenti, come il buon giorno si vede dal
mattino. La didattica VE.RA.DI. agisce sulla mente,
perché è dalla qualità e tipologia dei comportamenti
psico-emotivi, che la mano di conseguenza agisce:
quindi è chiaro che non è la mano va corretta, ma la
mente, sono il pensiero ed il ragionamento che vanno
guidati verso una precisa modalità che consentirà di
avanzare.
I pensieri “nocivi” che precedono il disegno (e
che poi ne compromettono il risultato o lo rendono
più difficile di quel che è), sono composti da tutte
quelle immaginazioni ansiose dovute alle aspettative
estetiche. Partire con l’idea di fare un “bel disegno”, è
secondo Giovanni Spinichhia - e da me comprovato - la
maggiore fonte di ansia a sua volta generata dalla paura
di sbagliare. Chiaramente essi, a loro volta, derivano
da un sentimento più ampio e diffuso che possiamo
identificare con la mancanza di fiducia nelle proprie
capacità.
Tutti questi atteggiamenti sono comprensibili e
Capitolo 4
hanno le loro motivazioni. Quindi nella nostra didattica
non si cerca né di contrastarli e né di mettersi in nessun
modo in conflitto con essi, perché nella lotta si ottiene
solo un aumento di tensione.
Si possono riconoscere, quindi, specifici
comportamenti sia mentali che esecutivi, a cui
bisognerà dare una risposta pedagogica. Li riportiamo
sinteticamente2:
• convinzione o pregiudizio di non saper disegnare
• credere che il soggetto da copiare non vada bene
• paura di commettere errori
• che sia un problema il non saper usare i medium
(matita, pennarelli, ecc.)
• eccessiva velocità di esecuzione del disegno
• sguardo assorbito più dal foglio e dal segno che dal
riferimento reale
• pensiero distratto da una serie di divagazioni personali
e di tutto rispetto ma che nulla hanno a che fare con
il compito proposto
• ridurre a poche linee la realtà la quale era composta
di maggiore complessità
Questi sono i maggiori comportamenti mentali che
vanno educati unitamente agli errori tipici del disegno
(mancanza di linee, di forme, inclinazioni, proporzioni,
ecc.).
Per rasserenare il candidato abbiamo già commentato
che in VE.RA.DI. usiamo mezzi semplici, oggetti e forme
facili e minime, cercando di dosare con un giusto
grado di distribuzione, i compiti, in modo da porre in
progressione le difficoltà, ma in particolare diciamo loro
cosa essi stanno pensando, in quelli che chiamiamo
Dialoghi Interiori. Ovvero gli facciamo presente
alcuni pensieri che è molto probabile che il candidato
sperimenterà. Evidenziandoli, avrà la possibilità di
vederli agire, e potrà accumulare quella esperienza che
gli consentirà di dirigerli correttamente, ad esempio,
muovendo in altre direzioni la propria attenzione, non
alle ansie, insicurezze e paure, ma alle linee, alle forme,
alle proporzioni, ecc..
Così facendo lui inizierà ad apprendere come
dialogare con queste ansie, con questi “personaggi”
o “voci” interiori. Operazione, questa, che sarebbe
impossibile fare a partire da una operazione esterna, da
parte del tutore ad esempio. A questo punto spero risulti
chiarissimo, che apprendere richiede la manipolazione
di vissuti per la maggior parte osservabili e educabili
da “dentro” e quindi di responsabilità, quasi esclusiva,
dell’allievo.
Per concludere, non pensiate che l’orientamento
attento di questi vissuti psico-emotivi non sia più
necessario, perché essi, col tempo, scompaiano. L’attore
esperto di teatro continua a testimoniare che prima di
salire sul palco ha timore come la prima volta, solo che
ora, e questo lo aggiungiamo noi, sa come usarlo a suo
favore, come controllarlo e superarlo.
Il Dialogo Interiore non ha l’obbiettivo di zittire, o
risolvere certi giochi di forza, non ha dunque nessun
obiettivo terapeutico, ma quello di capacitare i nostri
allievi a saper orientare la propria intenzione creativa,
ora rilassandosi e facendo silenzio, ora sfruttando
certe forze per dare energia alle proprie creazioni, ma
mai comunque, quella di negare o entrare in conflitto
con la loro complessità, che sperimentiamo in tutte le
nostre azioni.
Saper condurre il Dialogo Interiore consente, quindi, di tramutare in ricchezza tutto
ciò che prima era solo impedimento.
Come sopravvive una scuola privata
In questa seconda parte del capitolo, seconda
perché tratterò argomenti non solo didattici, vorrei
parlarvi di quelle condizioni organizzative e strutturali
che hanno permesso ed influito nella nostra didattica.
Questi avvenimenti e condizioni hanno influito sulla
scuola, in forma diversa ma non minore rispetto a ciò
che fino ad ora abbiamo raccontato, che era soprattutto
inerente ai corsi e all’esperienza di insegnamento.
Credo sia molto significativo, e forse anche
opportuno e in qualche modo appassionate, raccontarvi
quale fosse la particolare condizione sociale in cui
ha operato il CUEA. Come noi abbiamo cercato di
contrastare, se vogliamo, la tendenza generale, di
disumanizzazione. Quindi si parlerà di cosa vuol dire
essere una scuola privata, senza finanziamenti, senza
appoggi politici e senza cedere a compromessi.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
77
78
Vi illustrerò cosa significasse per noi essere una
scuola promossa dal Movimento Umanista, e quindi
in sostanza, contribuire, nelle nostre forme e nei nostri
modi, di cui in gran parte avete già appreso, al grande
progetto di costruzione di una società nonviolenta
operata attraverso lo sviluppo dell’Umanesimo
Universalista3.
Differenze tra pubblico e privato
Una scuola per adulti come CUEA, colma, a volte
a distanza di molto tempo, i vuoti di conoscenza che
le scuole tradizionali hanno lasciato nelle persone. Ma
anche soddisfano nuove esigenze di formazione, con
discipline estranee alle scuole pubbliche e che, grazie
alla passione di molti insegnanti e scuole private,
si vanno diffondendo nella collettività. Ne sono un
esempio tutte quelle pratiche non riconosciute dallo
stato, come le medicine integrative e provenienti
da altre culture, che possono essere diffuse solo ed
esclusivamente grazie alle iniziative private.
In generale si rivolgono a queste strutture
persone che sentono la necessità di un continuo apprendimento per il piacere di sapere
e il gusto del fare.
La nostra attività educativa viene definita
“formazione permanente”, differente da quella primaria,
superiore ed universitaria. Una differenza sostanziale
con le scuole istituzionali sta nel fatto che il piacere
di studiare cede, troppo spesso, il passo al dovere. Per
questo motivo la caratteristica motivazionale di chi
si iscrive in queste scuole si basa principalmente sul
piacere, il piacere di venire a “scuola”.
I nostri studi non sono necessari per accedere a
livelli lavorativi più alti, a cui purtroppo si è ridotta la
maggior parte della giustificazione culturale didattica,
ma alla conoscenza per la conoscenza. Questa è una
condizione di base che differenzia notevolmente la
nostra didattica di scuole private amatoriali per adulti,
dalle scuole istituzionali o professionali.
Un altro elemento sostanziale di differenza, è che
ogni allievo paga il corso, ossia deve reciprocamente dare
qualcosa per accedere agli studi, e se i corsi non sono
come lui desidera o vorrebbe, cessano le motivazioni
che lo spingono a pagare e quindi a sostenere una
scuola che non lo soddisfa. Noi insegnanti privati siamo
Perché ho rinunciato al disegno
scelti di mese in mese4. La nostra è un’attività a più alto
rischio di quelle istituzionali e questo fatto ci dovrebbe
spingere a lavorare maggiormente con un criterio la
qualità che di quantità, perché i nostri allievi sono
anche i nostri clienti. Detto così parrebbe un poco
rozzo, ma a nostro avviso è un fattore di garanzia del
servizio.
Certamente, come abbiamo già affrontato, vi sono
anche scuole private pessime che raggiungono discreti
numeri di partecipazione, soprattutto grazie alla
pubblicità o al prestigio della scuola o degli insegnanti,
e pur educando con metodi tradizionali, con la logica
del premio-punizione ad esempio, mantengono il loro
status.
L’adulto pagante ha quindi un potere di scelta
più grande rispetto ad altre tipologie di allievi,
come gli studenti universitari o della scuola
dell’obbligo ad esempio. Questo vantaggio lo possiede
indipendentemente dal fatto che si avvalga o meno di
questo potere.
Altro punto caratteristico dell’insegnamento agli
adulti è la diversità delle persone che vi partecipano.
Nel caso dei corsi collettivi ci troviamo spesso con
classi composte da persone di età compresa tra i venti
e i sessantacinque anni. Nel caso dei corsi individuali
le esigenze sono anch’esse molto diverse. Cosicché
la programmazione di base subisce modificazioni
didattiche notevoli a seconda degli allievi ed ogni anno
si va modificando e migliorando.
Inoltre, essendo corsi principalmente serali, svolti
dopo le stancanti attività lavorative hanno necessità di
una parte pratica molto superiore a quella teorica. Per
noi sarebbe impensabile fare lezioni come all’Università
composte di tre ore di sola teoria, o stando seduti su
di una sedie per ore. È forse per questa ragione, che
la nostra didattica è più vicina a quella delle scuole
elementari, in cui c’è un’ampia parte di sperimentazione
di gioco. Essendo corsi del dopolavoro, sono rilassanti,
non richiedono molti compiti da fare a casa e non vi
sono esami da sostenere. Ognuno prende quello che
vuole e che può, quindi devono essere ricchi di esercizi
molto graduali e devono soddisfare sia chi ha tempo
energie e attenzione, e sia coloro che non dispongono
di tali risorse. Così facendo si cerca di soddisfare le
loro esigenze soprattutto nelle ore di partecipazione al
corso. Questa tipologia di corsi non deve frustrare, non
deve essere l’ennesimo impegno doveroso.
Capitolo 4
Queste differenze tra pubblico e privato, potrei
riassumerle in un breve elenco:
• colmano i “vuoti” delle scuole pubbliche o parificate
• si basano sul piacere di venire a scuola
• questo richiede maggiore attenzione alla qualità
• gli studenti sono anche clienti
• gli studenti hanno (potenzialmente) maggiore potere
sugli orientamenti didattici
• maggiore diversità (età, formazione, provenienza,
professione, ecc.)
• corsi principalmente serali e che si svolgono dopo
il lavoro
Grazie al confronto con la scuola pubblica, da
cui tutti proveniamo, abbiamo riflettuto su quali
dovessero essere, le caratteristiche strutturali della
nostra scuola privata. Poi ci siamo confrontati con
altre scuole private, ed anche in quel caso abbiamo
sentito il bisogno di tracciare delle differenze. A furia
di cercare di distinguerci abbiamo compreso che cosa
non ci piaceva affatto, e allora abbiamo detto: proviamo
a fare diversamente! C’è chi dice che i cattivi modelli
siano devianti, per noi invece sono stati molto utili. Alla
fine, il nostro sentirci diversi ci ha aiutato nella ricerca,
a cui abbiamo aggiunto i principi filosofici e ideologici
del Movimento Umanista e le nostre esperienze nate
dal rapporto con gli allievi.
Abbiamo messo tutto assieme nel calderone creativo
e ne è venuta fuori una didattica che aveva più o meno
le caratteristiche che abbiamo fino ad ora trattato, che
riassumo in un breve elenco:
• interagire con persone traumatizzate
• gli allievi non devono sobbarcarsi di compiti e di
impegni eccessivi
• la lezione deve essere distensiva e piacevole
• gradualismo semplice ed elementare
• parte pratica più ampia di quella teorica
• cura delle relazioni e degli spazi
• didattica nonviolenta
• auto apprendimento
• accompagnare nelle fasi profonde e spirituali
L’effetto complessivo di questa impostazione, lo
potrei tuttavia ancora riassumere in una solo concetto:
dare motivazione.
Motivazione dell’allievo, ma anche dell’insegnate e della scuola, nel cercare di
ottenere dalle nostre esperienze il meglio
per tutti noi.
Ma perché quando io andavo a scuola non era così?
Perché la scuola pubblica è così priva di questa benzina,
di questo fuoco che muove le montagne? Perché è la
motivazione, che potrei ridefinire come volontà mossa
dal desiderio della conoscenza, pare stia arrivando ai
minimi storici nella scuola pubblica?
Voi potrete a questo punto farvi un’altra domanda,
ovvero perché in tutto il testo, nonostante io insegni in
una scuola privata, sono così coinvolto nel problema
della scuola pubblica?
Va bene, ve lo dirò chiaramente. Non credo
nell’iniziativa privata, e dopo ve ne darò testimonianza.
Invece credo fermamente nell’iniziativa pubblica.
L’istruzione è un diritto fondamentale di tutti, e non ho
nessun interesse di categoria o sciocchezze simili. Sono
un didatta e l’unico mio interesse è vedere una società
che cresce, che avanza, e non posso quindi che stimolare
un rinnovamento della scuola pubblica, che invece ho
sofferto moltissimo, come quasi tutti i miei amici. L’ho
sofferta alle medie, alle superiori e all’università ho
toccato l’apoteosi. I queste esperienze ho potuto vivere
quella contraddizione che vede l’istruzione relegata al
ruolo di formazione al lavoro, nel migliore dei casi, e di
disintegrazione dello spirito critico ed autocritico, nel
peggiore e più diffuso dei casi.
Per cui, vorrei stimolare un cambiamento, anche
solo attraverso queste mia esperienza che dal settore
privato vede con una certa angolazione il pubblico. E
mi auguro, che questo particolare mio punto di vista,
possa essere in qualche modo di aiuto.
Differenze di motivazione
Nella scuola dell’obbligo (elementari e medie), in
quella superiore ed universitaria ed infine professionale
si dà quasi per scontato quali siano le motivazioni che
spingono a studiare: nella prima si studia perché è un
obbligo e quindi non sei motivato veramente; nella
seconda spesso la motivazione non cambia rispetto
alla scuola dell’obbligo, infatti, i dati parlano molto
chiaramente rispetto alla percezione della scuola come
un parcheggio; così si arriva all’università, terzo caso,
in cui vi sono alcune persone mosse da diversi ideali
ed altre, che continuano meccanicamente ad andare
a scuola senza in fonda avere ben chiaro il perché,
infatti, le persone che si laureano sono una percentuale
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
79
80
bassissima degli iscritti; le scuole professionali di tre
anni, di cuoco, muratore, elettricista, per intenderci
hanno la motivazione del lavoro, ma se ci pensiamo
anch’essa per molti è una costrizione (a chi piace
veramente lavorare?), anche quando non c’era obbligo
scolastico fino a 16 anni ma fino ai 13.
Se indagassimo tra i milioni di studenti al mondo,
risulterebbero rari coloro che lo fanno per passione,
per motivazione profonda, per il piacere di fare. Questa
percentuale in scuole come il CUEA, che si rivolgono
ad adulti, è altissima perché se non sei motivato non ti
iscrivi ad un corso che paghi e che ti richiede energia,
tempo e fatica, soprattutto quando si svolge dopo che
si è lavorato per 6-8 ore.
Questo era un punto di forza fondamentale del
CUEA perché senza motivazione non si apprende. Senza
motivazione si fatica. Senza motivazione ci si annoia.
Senza motivazione ci si violenta o si viene violentati.
Senza motivazione impieghiamo il minimo delle nostre
risorse per ottenere il minimo dei risultati.
Senza motivazione, o se addirittura obbligati, colleghiamo lo studio e la conoscenza
a sensazioni di sofferenza, e questo fatto ci
incatena all’ignoranza, sentita al contrario
in modo piacevole.
È triste constatare che solo in pochi casi ed in poche
scuole la motivazione degli allievi e degli insegnanti,
risplende chiaramente ed è ricca di emozione e di
ambizioni.
Ma c’è da dire una cosa a riguardo: forzatamente,
senza gusto, senza motivazione ma solo col senso del
dovere, si possono ottenere dei mediocri ma pur validi
risultati in tutto ciò che riguarda l’apprendimento non
creativo ma, piuttosto, potrei definire, meccanico. Per
intenderci si può imparare a memoria una poesia, un
procedimento matematico, una formula chimica. Si
possono quindi acquisire dei dati per poi “riversarli”
nelle interrogazioni ed esami, e per questo rituale,
svuotato di senso, ottenere addirittura un voto! Si può
arrivare perfino a laurearsi, in questo modo asettico
e disciplinato, così, spinti dal dovere e dalla paura
provocata dal sottile ricatto, che senza il titolo di
studio non siamo “nessuno” sono arrivati fino in fondo
moltissimi studenti.
Questo è circolo vizioso del dovere, si studia per
dovere perché ci si prepara al dovere del lavoro. Se si
studiasse in libertà dove li trovano i giovani che poi
Perché ho rinunciato al disegno
lavorino con un sano e costruito senso del dovere?
Vanno educati fin da piccini!
In questo surreale scenario si crea un altro circolo
vizioso pieno di menzogne. Si mente ai figlioli quando
rientrano da scuole e dicono che non gli piace, si
mentono i professori quando si studia solo per le
interrogazioni e gli esami, si mente alla società quando
si fa un lavoro che non ci piace, ed a volte si mente a
noi stessi quando ci facciamo piacere tutto questo che
non è minimamente mosso dal piacere e dalla voglia
di conoscenza.
Nell’arte non esiste menzogna. Se provi a
disegnare, o dipingere o danzare o qualsiasi
altra arte espressiva non viene fuori niente.
Niente di artistico, solo delle schifezze! Si
può certamente dissimulare, ma per farlo
bisogna essere degli esperti.
Chi insegna arte, o una qualsiasi disciplina artistica,
con l’obbiettivo di trasmettere dei significati profondi,
e non solamente per conseguire uno stipendio, sa
benissimo che non vi sono trucchi, non si può barare,
non si riesce a creare senza motivazione. È inutile
provare e riprovare, non succede niente, o al massimo
solo qualcosa di tecnico, di mestiere, e i neofiti non
hanno questo livello di conoscenze. Le padronanze
artistiche ed espressive non si possono acquisire col
senso del dovere, ma solo attraverso una sensibilità ed
una dedizione che ponga al centro la propria diversità
e unicità umana. In realtà qualsiasi conoscenza è
creativa e non meccanica, è forse per questo che
assistiamo al trionfo della tecnica sulla scienza, alla
super valutazione delle università tecniche piuttosto
che a quelle umanistiche.
Sto forse esagerando? Mi piacerebbe pensare che
la maggior parte degli studenti che ho conosciuto si
dedicassero allo studio mossi da una voglia vorace di
conoscere, da una curiosità insaziabile, accompagnati
da una leggera e soave melodia, che altro non è che
quel meraviglioso sentire il proprio pensiero muoversi,
crescere, svilupparsi. Avere un bel vissuto di quello che
si chiama apprendimento e studio.
Mi sembra che ci sia questa differenza sostanziale,
della motivazione, tra ciò che può fare una piccola
scuola privata e ciò che non fa il mastodontico apparato
pubblico. Ricordo che molti miei compagni alla fine delle
scuole medie non avevano una vocazione conclamata,
come la mia, e per questo motivo non sapevano che
Capitolo 4
indirizzo scolastico imboccare dopo la licenza media.
Questo, era un problema, per loro e soprattutto per i
genitori. Il criterio di scelta non si basava in generale
su cosa ti piace, su cosa senti vuoi fare, ma su ciò che
pensi possa essere il tuo futuro lavoro.
Se ci pensate ha qualcosa di allucinante chiedere ad
un fanciullo in piena esplosione ormonale di scegliere
in base al lavoro che farà tra dieci o quindici anni!!
Eppure non ci si rende conto di questa assurdità e la si
considera normale.
Al CUEA, tutti noi insegnanti, avevamo vissuto
direttamente o indirettamente questo delirio, e
sapevamo che cosa significasse questa forzatura
nello sviluppo della persona, che, come ho all’inizio
commentato, aumenta esponenzialmente quando c’è
di mezzo il piacere dell’arte, soprattutto quando si ha a
che fare con gli adulti che si sentono artisti mancati.
Per questo passato non proprio libero, i motivi che
spingevano le persone a partecipare ai corsi erano per
noi importantissimi e bisognava conoscerli. Alla
prima lezione dei corsi di Disegno, Pittura e Scultura e
Fumetto si affrontava con gli allievi il senso della loro
motivazione. Lo si faceva usando un questionario. Chi
voleva poteva commentare le sue risposte agli altri.
Nel questionario si chiedeva: perché ti sei iscritto
al corso, cosa ti aspetti, su quali risorse (tempo e
spazi) credi di poterti “appoggiare” per fare questo
cammino?
Prima di rispondere al questionario, era per noi
necessario fare una premessa, onde evitare risposte
troppo generiche o superficiali, che poco senso
avrebbero avuto per noi e per loro.
Facevamo, quindi, un distinguo tra i sogni (o
aspirazioni) dai progetti: un progetto è un piano
concreto e per realizzarsi necessita di obbiettivi e di
pianificazione, mentre un sogno orienta lo spirito,
il progetto da direzione al corpo, alle azioni. Poi si
procedeva a far compilare il foglio con su scritte
delle domande. L’introduzione di questa premessa
tra il mondo delle idee e quello dei fatti, li portava
a connettersi col senso dell’impegno nei confronti
di se stessi oltre che del corso. Un piccolo punto di
consapevolezza, almeno noi ci provavamo, prima
di iniziare il corso. Così, si dialogava di questo fatto
personale, e questo ci consentiva di porre in risalto un
punto fondamentale dell’apprendimento: i risultati
che avrebbero ottenuto alla fine dell’anno sarebbero
dipesi soprattutto dalla loro motivazione.
Non potevano certamente cogliere appieno quella
premessa, dato che introduceva un atteggiamento
che si sarebbe sviluppato in futuro, con il dialogo
interiore e tutti gli altri strumenti. Però faceva sì che
non si creassero, almeno ci provavamo, false speranze
o sterili aspettative.
Per aiutare ad avere un presa di coscienza delle loro
motivazione, usavamo un semplice questionario, e altre
due spiegazioni. Il tutto non durava più di un’ora. Si
trattava principalmente di rispetto. Il rispetto di loro
come persone. Chiedergli chi erano e cosa volevano ci
sembrava l’unica cosa ovvia da fare, come potevamo
considerarli numeri, o cognomi, o l’ennesima classe
del 1997?
Non è forse così che spesso ci siamo sentiti alle
scuole pubbliche? Ciò che cerco di mostrare è che
forse non occorre una rivoluzione totale, globale,
per stimolare la motivazione di tanti studenti, ma un
semplice questionario, un considerare con maggiore
profondità le persone.
Non voglio dire che a partire da quelle sole domande
cambiavano atteggiamento, la loro predisposizione
iniziale era di passività, come abbiamo già visto,
credevano che si apprende grazie all’insegnante, visto
come un demiurgo. Ma ciò dava subito un senso di
vicinanza tra noi e loro che non si sente più nella
maggior parte delle scuole.
Cerchiamo di chiarire meglio questo trasfondo
in cui l’insegnante viene visto come un demiurgo.
Quando si trovavano di fronte alla prima domanda
del questionario, che era “Cosa ti aspetti da questo
corso?”, potevano rispondere: di imparare a disegnare!
Ma quello era chiaro fin dall’inizio, sennò che si iscrive
a fare una persona?
Noi, allora, ci servivamo dell’interscambio per
approfondire il quesito: “Bene, vuoi disegnare, è
ovvio, ma cosa ti aspetti da questo saper disegnare?
Cosa chiedi?”. Volevamo che si spingesse a pensare a
cosa sarebbe accaduto nella sua vita dopo che avesse
imparato a disegnare. Direte che siamo stati un poco
folli, ma loro sentivano, al di là delle risposte, di cui
sempre meno curavamo le formulazioni, che al CUEA
si spingeva verso un modo di intendere e di ragionare,
in cui loro erano i protagonisti principali.
Nessuno si poneva quelle domande in quel modo.
Nessuno lo faceva prima che si trovasse di fronte a
quello stimolo che lo portava a rivelare e valorizzare le
proprie intenzioni.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
81
82
Il questionario iniziale era come un dialogo socratico, maieutico, in cui estraevamo da
loro, come una gestatrice, il senso di quella
loro partecipazione.
Allora in loro sorgevano come per incanto le
motivazioni più profonde e specifiche: “Voglio imparare
a disegnare le piante perché vorrei diventare un
progettista di giardini”; “Voglio imparare a dipingere
il mare perché mi affascina la luce che colpisce la sua
superficie”.
Insomma questo era l’obbiettivo della prima lezione:
cercavamo di aiutarli nel formulare il più possibile il
senso della loro partecipazione.
La capacità di partecipare era proporzionale alla chiarezza dei loro intenti: più erano
confusi e maggiori erano le loro difficoltà,
maggiore era la loro chiarezza e maggiori
erano l’entusiasmo e la voglia di fare.
Quando il motivo di partecipazione si esternava
e si rendeva esplicito, per gli allievi ma anche per gli
insegnanti, essi scoprivano che dietro una loro scelta,
apparentemente futile, si celavano profonde ragioni che
avevano trascurato, ma che, grazie a questa scoperta,
si rafforzava in loro il senso di partecipazione.
L’obbiettivo più importante era appassionare gli
allievi ad un percorso sentito valido al di là dei risultati.
Appassionare a vivere esperienze che trovano il loro
pieno senso nell’essere vissute profondamente al
presente senza rincorrere un fine ultimo. Certo era
difficile portarli a questo tipo di sensibilità, ovvero gioire
del mezzo, il disegnare, indipendentemente dai risultati,
ma questa era la didattica del CUEA far comprendere
questo principio: i passi sono più importanti dei
risultati, dato che la meta finale non è che la somma
delle sensazioni e dei vissuti accumulati durante il
percorso.
Se durante il corso ci siamo arrabbiati, se abbiamo
preteso troppo, se abbiamo fatto le cose tanto per farle
col senso del dovere, sapremo forse disegnare un poco
ma saremo molto stanchi, molto snervati. Se invece ci
divertiamo nel fare le cose e siamo felici del fatto che,
dopo tanti anni, siamo riusciti a dedicare del tempo ad
una attività che abbiamo sempre desiderato riprendere
in mano questo solo è sufficiente a soddisfarci. Se
viviamo l’apprendimento in questo modo ci divertiamo
tantissimo e cresciamo molto più velocemente.
Perché ho rinunciato al disegno
E questo modo di vivere lo studio e la pratiche
conoscitive, è quanto forse c’è di più distante
dalla scuola pubblica, in cui è tutto finalizzato alla
promozione, ai voti, al diploma o alla laurea. Non posso
soffermarmi in questa sede ad illustrarvi quello che è
il modello di scuola pubblica senza tutte queste mete
esterne, ma vi chiedo di riflettere sul fatto che possa
esistere un altro modo di impostare l’istruzione in cui
i mezzi sono il fine e non viceversa.
Un modo in cui al centro non vi è obbligo, non vi
sono parcheggi generazionali di studenti, non vi sono
numeri di matricola, non sarebbe più a favore della
conoscenza? Certo l’obbligo, i voti e tutto il resto sono
stati strumenti indispensabili un una fase di sviluppo
dell’istruzione pubblica, ma poi da strumenti sono
diventati l’obbiettivo primario che spinge le persone a
istruirsi. Questo capovolgimento di termini ha causato
un profondo disorientamento di studenti, professori ed
istituzioni, e ci ha allontanato dalla conoscenza.
Con la nostre esperienza speriamo, quindi, di
aver messo in risalto il fatto che la motivazione è
qualcosa di molto complesso e che appartiene più al
mondo interiore che al raggiungimento di obiettivi
esterni.
Differenze di programma
Una scuola privata amatoriale, a differenza di quella
pubblica o una privata parificata, gode di una grande
libertà di azione. Questa libertà si evidenzia in maniera
particolare nella programmazione didattica.
La chiarezza del percorso formativo che proponevamo
ai nostri allievi era per noi un altra leva fondamentale
per elevare la motivazione. Mettevamo particolare cura
nello spiegare che cosa offrivamo nel nostri corsi.
Per esempio, all’Università ci danno il programma
di studi, nelle scuole medie e superiori il programma è
stabilito dal Ministero, ma se ci pensate bene non sono
altro che un elenco di cose, come se fosse una lista
della spesa o un menù culinario. Per noi un programma
era qualcosa di ben diverso.
Un programma non consiste solo in un
elenco di cose che si faranno, ma soprattutto
si dovrebbero precisare agli allievi quali siano
gli obbiettivi didattici.
Come ho già sottolineato, questo modo di procedere,
Capitolo 4
che dovrebbe essere scontato e ovvio, non corrisponde
alla norma. Il programma, ovvero la lista di ciò che si
andrà a studiare, per essere compreso gli va dato
un senso, una direzione. In un menù, ad esempio,
non c’è scritto niente riguardo all’alimentazione
corretta o suggerita. In un menù non si spiega perché
è meglio il prosciutto come antipasto, la pasta come
primo e l’insalata nel finale. L’elenco e la suddivisione
in categorie non è quindi sufficiente per illustrare
un pasto, allo stesso modo un programma non è
sufficiente per illustrare una didattica, manca qualcosa
di fondamentale.
In un percorso di formazione sarebbe bene chiarire,
nella misura adeguata, quale sia il criterio per cui
nel programma si studiano delle cose per prime,
perché altre per seconde, ma soprattutto è essenziale
dichiarare che cosa si dovrebbe ottenere attraverso
queste informazioni.
Che cosa produce, quindi, nell’allievo la mancanza
di queste fondamentali informazioni?
Se ci pensate bene, è come se un medico agisse sul
nostro corpo senza che noi avessimo consapevolezza
di quello che sta facendo. Non vi sentirete come degli
oggetti? Non vi sentirete come esclusi dalle scelte
fondamentali? E queste scelte, non dovreste essere voi
a deciderle, in fondo si tratta della vostra vita e non di
quella degli insegnanti!
Si tratta di potere che ci viene sottratto. Potremmo
definire questo atteggiamento come una forma di
abuso di potere. Il potere che dovrebbe essere nelle mani
del discente, lui dovrebbe sapere per poter scegliere,
ma in realtà non accade niente di tutto ciò. In realtà
l’insegnante gode di una superiorità su di voi. Che
uso ne farà? Se sarà un bravo insegnante o un cattivo
insegnante ce ne accorgeremo?
Il punto centrale di questo “vizio”, non saprei
come definirlo, è che lo studente si trova sprovvisto
di strumenti per potere valutare l’operato del suo
istruttore. Come faccio a valutare se sono stati raggiunti
gli obbiettivi se mi si presenta solo un elenco?
Come si può pretendere dunque che qualsiasi allievo sia motivato, se lo escludiamo fin
dal principio a partecipare in maniera attiva
ai piani generali, di cui lui sarà il principale
destinatario?
Se l’insegnante si aspetta qualcosa, se promette
dei risultati li deve rendere espliciti fin dal principio.
In questo modo si compromette con gli allievi che
possono, a loro volta, valutare alla fine del percorso se
hanno ottenuto gli obbiettivi promossi dall’insegnante.
Questa è una condotta onesta e rispettosa, ed è parte
della nostra didattica nonviolenta.
Questo tipo di premessa, o di programma, richiedeva
un impegno non indifferente da parte di noi insegnanti.
Cosicché anche ogni lezione, doveva avere un suo
particolare obbiettivo, ed esso doveva essere raggiunto
dalla maggior parte della classe, altrimenti non si poteva
andare avanti nel programma.
Ma l’aspetto più “sano”, si deve al fatto che,
rivelando apertamente il senso del programma, tutti
erano chiamati a partecipare attivamente al suo
raggiungimento, e il rapporto di potere tra insegnanti
e allievi, si capovolgeva. Ognuno con le proprie
responsabilità lavorava al raggiungimento degli
obiettivi siano essi interiori o esteriori.
La dipendenza economica
Abbiamo visto che l’economia, o la necessità
del denaro, sia una spina nel fianco nella didattica,
perché i valori ed obbiettivi pedagogici sono forse
diametralmente opposti a quelli economici.
Si è detto che la scuola perde senso se la si intende
solo ai fini della formazione professionale, si è detto che
anche le scuole private, spesso perdono senso perché
sono spinte verso il business, si è inoltre dichiarato, che
anche un insegnante che compie la sua funzione per
il solo scopo di guadagnarsi uno stipendio, è possibile
che perda il suo senso.
Il fatto di credere che il denaro sia un valore, sembra
faccia perdere senso a tutto ciò che di più alto vi è
nell’essere umano e nella società che ha costruito. Il
denaro è dunque insensato?
È la solita regola del “dipende da come lo si usa”, del
come lo si vive e del valore che ad esso si attribuisce.
In una scuola privata il fatto di dover dipendere dalla
costante affluenza di fondi, può anche avere un ruolo
stimolante, come testimonierò in questo paragrafo,
ma essa non potrà prescindere dalla direzione
disumanizzate generale, in cui il ricatto economico pare
lo strumento principale.
Che succedeva nel CUEA? Bene, ora ve lo racconto.
Nella nostra pedagogia si introdussero, dunque,
diversi momenti di riflessione, di auto valutazione e
di introspezione per potere far crescere la coscienza
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
83
84
e far approfondire le motivazioni dei nostri allievi.
Tutto ciò ci portò a creare ben presto una particolare
consapevolezza riguardo al ruolo delle aspettative,
paure e timori, nel processo apprendimento. Si cercava,
di conseguenza, di impiegare tutte queste osservazioni,
nella creazione di una pedagogia che in qualche modo
cercasse di dare delle risposte che potessero avvicinarci
alla soluzione di queste tante sfide. Nel complesso, tutto
ciò lo abbiamo sentito come un forte stimolo per la
nostra missione educativa.
Immagino che voi avrete riflettuto in diversi
punti del capitolo, sul tempo e l’energia che questi
obbiettivi ci richiedevano. In effetti, tutto ciò, esigeva
riunioni regolari tra insegnanti, preparazione puntuale
e dettagliata dei corsi, personalizzazione e adattamento
della didattica sugli allievi, elaborazione di momenti di
verifica, valutazioni delle loro risposte e delle nostre
metodologie, e via dicendo.
Un poco pazzi, in effetti ci sentivamo, ma al di là
della nostra missione vocazionale, tutto ciò doveva
essere finanziato da qualcuno, altrimenti dove avremo
preso il tempo se avessimo dovuto lavorare otto ore al
giorno come tutti quanti?
Ma noi non avevamo tutti quei soldi. Tutto
questo grande lavoro non aveva un riscontro
economico, ovvero, non erano sufficienti
le iscrizioni degli allievi per sostenere la
scuola e le nostre ricerche.
Sapevamo dunque che se non fossimo riusciti a
guadagnare a sufficienza, prima o poi, la scuola sarebbe
chiusa, come poi è successo nel 2006.
La soluzione non era quella che tutti si aspetterebbero,
ed è in effetti la più facile da un punto di vista esteriore,
ossia quella di aumentare gli iscritti, aumentare la
pubblicità, aumentare la retta mensile.
Ma non lo abbiamo fatto, e vi spiego perché. Ciò che
è avvenuto non è stato di certo un suicidio premeditato,
ma una maturazione di alcuni principi.
Il primo dubbio amletico è stato: come conciliare
l’azione culturale vera e sentita, con la capacità di creare
ricchezza economica?
Questa era l’altra sfida, non didattica, ma di
sopravvivenza. La sfida che non si vede, ma a cui
siamo stati sottoposti soprattutto negli ultimi anni con
l’entrata in eurolandia, dal 2002 al 2006.
L’insegnamento delle persone adulte è purtroppo
Perché ho rinunciato al disegno
spesso, una questione di soldi, di business, come si usa
dire. Nella maggior parte dei casi l’adulto per formarsi
paga un retta mensile o annuale. La formazione
fino all’Università è ancora in parte garantita dallo
stato, ma le necessità cultuali e formative delle
persone adulte non sono mai state considerate dalle
istituzioni pubbliche al pari di quelle del un bambino,
dell’adolescente e del ragazzo. Forse uno stato giusto
ed equo non dovrebbe considerare assolto il proprio
compito con lo scadere della giovinezza, ma sarebbe
auspicabile accompagnare l’evoluzione culturale in
tutte le fasce di età. È vero che esiste anche l’università
dell’età libera, che è gratuita, ma non supplisce le
esigenze popolari. Un fatto è comunque evidente: la
formazione degli adulti è diventata un mercato
economico non indifferente.
Si può anche diventare ricchi aprendo una scuola
per adulti e questo ci rimanda ad un problema non
irrilevante che riguarda la direzione didattica di queste
scuole. Si tratta di un aperto conflitto di interessi, in
cui non è chiaro se l’obbiettivo principale di un istituto
formativo sia la preparazione dei propri insegnanti e la
qualità didattica, o, al contrario, quello di incrementare
i propri profitti a scapito della qualità.
Questo dubbio è amletico, perché in fondo influisce
sull’essenza, intesa come onestà educativa, di un
istituto privato. Almeno, noi del CUEA sentivamo che
il confine tra il discente ed il cliente era sottile e
compromettente.
Abbiamo detto che un adulto in cerca di distrazioni
ed in atteggiamento di fuga dalle proprie frustrazioni
può essere facile “preda” per istituti che promettono
ciò che loro vogliono sentirsi dire, senza che poi ci sia
un riscontro reale nei risultati di apprendimento.
Al di la delle sterili polemiche, ci siamo scontrati con
delle realtà educative private che sono a pieno titolo
delle aziende, che vendono un prodotto come tanti
e che operano attraverso il canale forviante, se non
menzognero, della pubblicità, che in questo caso è solo
propaganda. Abbiamo quindi sentito subito il bisogno
di differenziarci come la scuola di “vocazione” rispetto
a quelle di “business”.
Una scuola di vocazione, come noi ci siamo definiti,
opera mossa da un reale e genuino interesse per una
educazione che liberi l’essere umano dalle oppressioni,
e che considera la cultura e la creatività come mezzi
per l’evoluzione spirituale e intellettuale della persona.
Operare in virtù di un business ci è invece apparso
come una sorta di contraddizione o, per lo meno, ci
Capitolo 4
si è presentato un reale pericolo di infatuazione al
denaro, che ci avrebbe potuto condurre in una direzione
opposta a quella che ci eravamo proposti.
Risulta evidente che per sostenere la ricerca
didattica ed un costante miglioramento delle nostre
proposte formative, occorreva investire molto tempo
che non sarebbe stato possibile compensare con le
quote di iscrizione, a meno che esse non fossero state
elevate, ma in questo modo cessavamo di essere una
scuola che puntava all’educazione della base sociale.
Decidemmo allora di insegnare percependo solamente
un rimborso spese e dedicando il nostro tempo come
volontari senza percepire uno stipendio adeguato.
Per questo la maggior parte degli insegnanti del CUEA
lavoravano mezza giornata svolgendo altri lavori per
potersi dedicare alla formazione semi volontaria.
Certamente vi sono anche esempi di scuole private
che riescono a dedicare molto tempo alla qualità senza
che questi costi ricadano totalmente nelle quote di
iscrizione, ma solitamente sono appoggiate da sponsor
istituzionali e privati. Inoltre è più facile sostenersi come
scuola privata, se si promuovono corsi professionali,
perché gli allievi sorretti della speranza di futuri
guadagni che potranno avere grazie alle conoscenze
acquisite, sono disposti a pagare delle quote onerose.
Insomma, le scuole create per il piacere di stare
bene, per il piacere di creare, senza nessun fine
professionale, e senza lavorare sulla quantità a scapito
della qualità - ci sono scuole che facevano classi di 50
persone, ma come si fa a seguirle! - vivono quasi tutte
ai limiti. Dovevamo accettare che non si diventa ricchi
se si hanno certi obiettivi.
Quindi la nostra prima difficoltà è stata,
fino all’ultimo, il reperimento delle risorse
economiche.
Negli anni facemmo vari tentativi per operare senza
aumentare le quote di iscrizione, ma ciò alla fine non
fu possibile. Allora, per non convertirci in una scuola
di business, decidemmo di chiudere. Sia ben chiaro
che nessuno di noi era allergico ai soldi e riteniamo sia
una virtù riuscire a gestire un apparato che comporta
delle ingenti spese lasciandolo sempre in attivo, ma
questa non era una nostra virtù ed il pericolo di
perdere la nostra direzione umanista fu reale, quindi
in varie occasioni, inclusa quella che portò a cessare
l’attività, abbiamo preferito mantenerci fuori da certi
meccanismi.
Il problema economico non è certamente il più
nobile e il più interessante da affrontare per una
scuola d’arte, però crediamo che la nostra esperienza
possa testimoniare il livello di disumanizzazione che la
schiavitù del denaro comporta.
Avere risorse proporzionate al lavoro svolto, è
stato un punto di fondamentale importanza per poter
aprire una sede adeguata, per poter avere attrezzature
idonee e, soprattutto, poter fornire ai nostri allievi
gratuitamente, tutto il materiale didattico all’interno
della popolare quota di iscrizione. Purtroppo tali risorse
non furono mai sufficienti e le strategie che avremmo
dovuto affrontare non erano in sintonia coi nostri
ideali.
Eravamo proprio incontentabili, non volevamo
cedere alle pressioni economiche ma allo stesso
tempo non ci piacevano le facili soluzioni, che forse ci
avrebbero deviato dai nostri fini.
Fu molto significativo anche il nostro tentativo di
farci appoggiare nella ricerca didattica - ne andava della
sopravvivenza della scuola - da istituzioni pubbliche
come il comune, il quartiere dove operavamo e le varie
fondazioni private.
Forse tutta la nostra energia non sarebbe dovuta
andare nella ricerca pedagogica, ma nelle conoscenze
politiche, nel conoscere le persone che contano, avere
forse insegnanti famosi, avere una sede di lusso,
spendere molti più soldi in pubblicità. Ma a quel punto,
la nostra vocazione Umanista sarebbe stata solo un
nome, un termine vuoto, che non qualificava il nostro
centro.
Abbiamo cercato dei finanziamenti pubblici, ma
non ne abbiamo ricavato niente se non una delusione.
Per comprendere come ragionano i nostri dirigenti, in
relazione alle iniziative culturali di base e che hanno il
solo scopo del benessere umano, riportiamo una beve
testimonianza.
Un anno cercammo di farci aiutare dall’amministrazione comunale del nostro quartiere noto a Firenze
come Quartiere 4. La nostra richiesta era quella di
finanziare e/o promuovere i corsi. Essendo in crisi per
i costi altissimi dell’affitto e le altre spese, cercavamo
solamente di sopravvivere come associazione, per questo la nostra richiesta non era affatto onerosa. Dopo
aver esaminato la nostra proposta, il quartiere si disse
interessato a due sole tipologie di corsi, perché non
erano promossi da altri enti che sostenevano nella loro
programmazione annuale di formazione per adulti.
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
85
86
Erano interessati al corso di Fumetto e di Scrittura
per il Cinema. Per questo motivo chiamarono gli
insegnanti per avere delle informazioni riguardo al
programma. All’incontro settimanale tra gli insegnanti
chiesi come era andata la conversazione e se avrebbero
promosso ed inserito nel loro calendario i nostri due
corsi.
Gli insegnanti avevano ricevuto infatti una loro
telefonata. In questo colloquio, freddo ed indiretto,
avevano subito una sorta di terzo grado, così almeno
me lo descrisse Andrea Cantucci che si occupava
del fumetto. Da questo interrogatorio risultava che
l’elemento fondamentale e discriminante per patrocinare
le attività era: quanto è famoso l’insegnante?
Ve lo aspettavate? Avevamo parlato di questo
“piccolo” problema nei paragrafi precedenti, e delle
conseguenze che questo modo di pensare, prima
che di operare, poteva avere rispetto alla qualità del
servizio didattico. Si torna sempre da quelle parti,
come vedete!
che vivono e si arricchiscono diverse scuole che si
occupano di espressione artistica. Ci riescono pur
avendo insegnanti che improvvisano la maggior
parte delle lezioni, che vengono in ritardo alla lezione,
insegnanti che ripetono sempre le stesse cose, e che
in generale educano con l’atteggiamento irrispettoso
che noi abbiamo esemplificato nel prestigioso
professionista, B.D., che ha tenuto da noi il corso di
composizione.
Siamo stati discriminati perché i nostri insegnanti
non sono mai stati famosi e non lo sono ancora, è
semplicemente gente che ama quello che fa e che
ha messo molta più energia nella didattica che nella
promozione della professione. I risultati che ottenevamo
con gli allievi attestavano che si lavorava con un buon
livello qualitativo ma a loro questo non interessava.
Siamo stati esclusi dal festino dei finanziamenti solo
perché per noi è meglio una persona felice che sa
disegnare male, che una persona tesa, ansiosa, piena di
aspettative, e infelice che sa disegnare benissimo! E noi
abbiamo sempre cercato di ottenere tanto i risultati
tecnici che persone felici!
Ma era ovvio che agli impiegati del Quartiere 4 non
interessava affatto sapere quanto erano felici i nostri
allievi, quanto erano felici di venire a creare e studiare
dopo una faticosa giornata di lavoro. Non ci potevamo
aspettare che loro ce lo chiedessero, ma quando gli
abbiamo fatto notare che questi erano i risultati che
per noi contavano più di ogni prestigio, a loro tutto ciò
non gli riguardava. Come avrebbero potuto gonfiarsi il
petto promuovendo degli anonimi sconosciuti?
Ritorniamo al nostro conflitto d’interesse, che
abbiamo lasciato in sospeso.
Solitamente l’adulto è allievo ma anche cliente, e
questo meccanismo è sostanzialmente diverso dalla
scuola pubblica, che è gratuita. Nell’istruzione statale
uno studente non è, almeno per ora, anche un cliente.
Egli è solo studente.
Alcuni credono che la mancanza di potere degli
studenti nella scuola pubblica, è dovuto al fatto che
non paghi, ed in una società basata sull’economia lo
studente è giusto ed opportuno, se vuole potere, che
si converta in cliente e le scuole in aziende.
Così pensa chi sostiene che vada privatizzato tutto
ciò che può dare profitto, e la scuola è presa d’assalto
ogni giorno da questi squali.
Così forse crede anche la gente, che il clientestudente abbia più potere dello studente. Lui può
scegliere dove andare, e se una scuola non lo soddisfa,
dirotterà le proprie finanze verso un’altra struttura! Il
cliente-studente ha il potere di punire ed il mercato, così
penalizzato (vi risuona questa parola?) dovrà cambiare
altrimenti perde la sua possibilità di profitto.
Sembra un racconto dell’orrore o grottesco, ne
convenite?
La nostra esperienza coi clienti-studenti, ci
conferma tutto il contrario. Il cliente-studente, come lo
studente non pagante, non si ribella quando la struttura
Non c’è da meravigliarsi se il “tratto umano” che
dovrebbe essere il punto centrale di ogni attività, oggigiorno è in ribasso, ed a guardar bene, nell’educazione
non è mai stato una priorità irrinunciabile!
È grazie a questa condizione sociale disumanizzata
Perché ho rinunciato al disegno
Per questo siamo felici di non essere stata una
scuola di successo, di prestigio, perché questo è il
risultato del nostro rifiuto di muoversi attraverso le
conoscenze politiche, alle iniziative di prestigio, i trucchi
pubblicitari, e così via. Abbiamo chiuso per un atto di
coerenza, e ciò non ci ha portato a nessun dispiacere
personale, ma solo sociale. Crediamo che il mondo, in
fondo, abbia perduto qualcosa. Il mondo ogni giorno
perde molto di più di una scuola di vocazione perché il
sistema economico e di controllo psicologico in realtà
non favorisce la coerenza, ma la violenza.
Capitolo 4
educativa si dimostra impreparata o improvvisata.
Non si oppone al disservizio. Non fa richiesta di una
prestazione migliore.
Vorrei raccontarvi qualcosa a proposito. Fin dalle
primissime esperienze avevo preso la buona abitudine,
subito dopo ogni lezione, di scrivere al computer il
resoconto della lezione. Annotavo le reazioni degli
allievi, riflessioni di vario genere, punti da modificare
della didattica, propositi per migliorare o integrare la
metodologia con dispense, letture, immagini, proiezioni
e quant’altro.
All’inizio della mia professione usavo chiedere,
in diversi momenti del corso, suggerimenti per
il miglioramento, consigli utili alla crescita, e
soprattutto alla fine del trimestre o del semestre facevo
compilare una scheda di valutazione sulle diverse
componenti del corso e autovalutazione sui momenti
di apprendimento.
Così facendo mi ritrovai dopo qualche anno ad
insegnare con lezioni sempre diverse e rinnovate.
Pensai, scherzosamente riguardandomi indietro, e visti
i tanti miglioramenti sopraggiunti nel tempo, quanto
mi avessero sopportato gli allievi nelle prime, rozze ed
immature lezioni!
Grazie a loro stavo migliorando. Ma attenzione,
nessuno di loro aveva mai direttamente contribuito
al miglioramento delle lezioni, se non per qualche
commento sporadico. La maggior parte delle modifiche
erano desunte dalla mie riflessioni a caldo e a freddo.
Loro avevano contribuito sostanzialmente allo sviluppo,
ma solo perché li avevo ascoltati ed interpretati, gli
facevo domande e gli ponevo questionari. Nessuno
di loro mi avrebbe portato, alla fine dell’anno la
valutazione scritta dell’esperienza se io non gliela
avessi chiesta!
Non mi potevo di certo aspettare che
un allievo mi dicesse: in questo punto sei
stato troppo prolisso, in quest’altro avrei
invertito i fattori, ecc.. Non è loro compito,
ma è responsabilità diretta dell’insegnante e
indirettamente della direzione scolastica.
Le persone che si avvicinano timidamente ad una
materia di studio o a dei laboratori non sono in grado
di muovere una critica precisa di qualcosa che non
conoscono. Vi ricordate l’esempio dell’attore? Non può
il pubblico valutare se ha sbagliato la battuta, non ne
ha i mezzi. Certo, lo studente comunica in mille modi e
critica in tante forme. Dà delle avvisaglie che qualcosa
non va quando mostra stanchezza, o nel calo della
frequenza, se la sua partecipazione è attiva o passiva,
ecc.. Questi sono tutti indicatori importantissimi della
sua “critica”, ma solo l’insegnante li può decifrare per
trarne dei motivi di miglioramento o di valutazione
della didattica adottata.
Ritorno su questo punto perché ingenuamente
si crede che pagando qualcosa, questo ci dia potere
decisionale, ma non è vero, il nostro potere è sempre
a portata di mano e dipende solo ed esclusivamente
dal nostro livello di attenzione e di conoscenza. Non
centra un bel niente se paghiamo o meno! Al momento
possiamo minacciare, fare un poco di chiasso, anche
andarcene. Chi non vuole cambiare troverà il modo per
raggirare in ogni forma le critiche, e sempre troverà uno
stratagemma fino a quando gli studenti non avranno
sviluppato un vero senso critico.
Vi sono vari stratagemmi per raggirare lo studente
pagante acritico. Perché esso si fida sostanzialmente
di voi. E, come ai bambini, a cui si può raccontare di
tutto, lo si può mentire facendo credere di sapere cose
che non si sanno, facendo il “maestro” sapientone,
ponendoli sempre in uno stato di difficoltà. In tal modo
saranno sempre troppo preoccupati di loro stessi, dei
loro errori, per poter dedicare la loro attenzione alla
qualità dell’insegnante. E anche se non si ottengono i
risultati finali promessi, è un gioco da ragazzi raggirarli.
Si può fare in modo che sia lo studente a sentirsi in
colpa, impreparato, stupido e ignorante: “noi le cose
gliele abbiamo dette è lui che non ha capito!”
Sembra un film di animazione, la Crudelia Demon
della didattica. Questi sono meccanismi che ho visto
così tante volte in moto, ma non penso siano mossi da
malafede, ma solo da un modello di relazioni sociale,
e di relazioni insegnante allievo che si basano sulla
manipolazione e la coercizione, direi quasi volontaria
e bilaterale.
Quante volte di fronte ad un fallimento didattico
abbiamo pensato più meno una cosa simile? “Sono
stupido, il povero insegnate ci ha provato, mi dispiace
che gli ho fatto perdere del tempo, in effetti, lo sapevo
fin dal principio che non ero capace…”
Ho visto intere classi trattate a “pesci in faccia”
dai propri insegnanti. Per me questo si esprime, ad
esempio, quando si affrontano le lezioni improvvisando
totalmente, quando si criticano gli allievi senza dare
loro soluzioni alternative, o quando arrivano a fine anno
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
87
88
coi propri disegni “fatti” dagli stessi professori! L’elenco
di atteggiamenti scorretti da parte di insegnanti nei
confronti degli adulti paganti può essere decisamente
più lungo, eppure nonostante tutto questo gli allievi
sono apparentemente contenti. Anzi, vi potrà forse
non sorprendere, il fatto che molti di loro stimassero
coloro che non gli avevano trasmesso niente, ma li
avevano solamente intrattenuti con grandi promesse
e paroloni.
Ma come? Vi trattano male e voi pagate senza
dire niente? Vi dà il minimo della sua energia e voi lo
difendete? Non vi ribellate? Anzi, mi sa che devo stare
attento alle mie critiche perché voi, ora, lo difendete!
Non è forse questo il meccanismo che vi
è tra i servi ed i padroni? Non è forse questo
quel tipo di “amore” che incorre tra il carnefice e alcune delle sue vittime?
Forse vado troppo lontano, per un libro che ha
l’obbiettivo di fornire domande al perché non si disegna
più, al perché non si sia imparato a disegnare, al perché
si sia rinunciato. Forse è anomalo che mi metta a
descrivere questi meccanismi così ampi e complessi?
Spero di non avervi distratto troppo dal vostro
interesse iniziale, e mi auguro di essere riuscito a
trasmettere un principio: non esistono fenomeni
isolati, quindi anche l’educazione assumerà le
forme tipiche di relazione che vi sono tra le persone
appartenenti alla stessa epoca storica.
Il modello macroscopico di complicità tra oppressi
e oppressori così evidente socialmente, si ripresenta, in
forme più lievi e dissimulate anche all’interno di una
classe scolastica. Non credo che tutto ciò distolga dalla
domanda scritta sulla copertina del libro. Solo che il
problema specifico del disegno, lo si cerca di vedere con
una ampiezza, forse inaspettata per il lettore.
L’insegnante, la scuole e l’allievo non vanno
migliorando le loro condizioni attraverso una dialettica
ed una lotta di potere.
Non si tratta di promuovere una gara a chi
ha più potere per non farsi fagocitare, come
nel darwinismo sociale5, ma di aumentare il
proprio livello di attenzione di consapevolezza, quale unico vero e potente strumento
di potere sulle nostre vite.
Quindi, anche se può risultare un mistero non
possiamo negare il fatto che alcune persone diventano
tanto più servili, mansuete e innocue quanto più le si
tratti male o le si usi e le si sfrutti. Tutti si aspettano
una loro ribellione dalla quale possa scaturire un
miglioramento sociale. Ma non si ribellano poi tanto.
I giovani sempre presentano questo pericolo, ma poi
pare che si ammansuetano col tempo.!
Io credo in una ribellione più silenziosa e meno
fragorosa da quelle romantiche che sono entrate a
far parte dell’immaginario collettivo. Ogni persona,
senza scendere in piazza può cambiare il mondo. Forse
si tratta di sviluppare una profonda onestà in tutte
le nostre attività, fuori dai riflettori dello stereotipo
rivoluzionario. Questo atteggiamento, più umile e
sentito, è andato maturando in noi anche grazie ai tanti
problemi economici a cui il CUEA è stato sottoposto
negli anni.
Per riassumere, dobbiamo ringraziare le incertezze
economiche e le sue pressioni conseguenti, perché ci
hanno permesso di rafforzarci e di chiarire la nostra
direzione di scuola umanista e di vocazione.
Si chiude un ciclo e se ne apre un altro
Il Centro Umanista di Espressione Artistica, fondato
a Firenze nel 1996, diventa una scuola di base nel
1997-98. Dopo i primi anni in cui i corsi si svolgevano
in delle strutture sociali, quali sono le Case del Popolo,
decidemmo di aprire un nostro locale. Nel 2003, si
cambiò sede, in modo che fosse adatta ai nostri scopi
di crescita.
Perché ho rinunciato al disegno
Nel 2006, con oltre 12 mila euro di debiti, si scioglie
la scuola, rimanendo solo associazione e qualche corso
sporadico.
Tutte le esperienze più belle e profonde non sono
andate perdute, a parte quelle che rimarranno per
sempre nei cuori delle persone che hanno condiviso
Capitolo 4
questa bellissima avventura, perché molte delle
conoscenze pedagogiche stanno ora confluendo
nel metodo Espressione Tecnica Trascendenza (ES.
TE.TRA.).
Questo metodo e l’istituto omonimo, continuano
quel viaggio utopistico e incredibilmente gratificante
iniziato nel CUEA, la creazione di una nuova didattica
dell’arte che sappia coniugare i principi etici della
nonviolenza con quelli estetici dell’arte, affinché tra
etica ed estetica non vi sia nessuna differenza.
Conclusioni
In questi oltre dieci anni di insegnamento ad adulti di discipline artistiche ho scoperto che se si hanno
le giuste motivazioni ed i giusti mezzi, si possono ottenere grandi avanzamenti nella pratica del disegno e
della pittura, anche in età avanzata.
Anche se molte occasioni sono andate perdute, forse per una inadeguata educazione infantile, ritengo
che solo da adulti si riescano a cogliere ed apprezzare determinati valori di cui l’arte è portatrice.
Note
1. La Dialettica Generazionale è, secondo Silo che riprende il concetto da Ortega y Gasset, il vero motore della storia. Si tratta di quella
spinta al cambiamento che ogni nuova generazione promuove rispetto alla precedente. Vedi Silo, Opere Complete Vol. I, Contributi al
pensiero: discussioni storiologiche; ed. Multimage, Firenze 2000
2. Vedi a tal proposito il Capitoli 3 e 4 del libro VE.RA.DI.,
3. Per conoscere più approfonditamente questi concetti visita il sito www.umanipedia.org
4. Per ovviare a questo problema la maggior parte delle scuole private chiede agli iscritti di pagare un’unica quota annuale, anche se a rate,
che verrà trattenuta dall’istituto indipendentemente dalla frequenza dell’allievo. Al CUEA invece ritenevamo che all’allievo gli dovesse
essere data la possibilità di sceglierci di mese in mese, in modo tale da stimolare gli insegnanti a non adagiarsi. Poi nell’ultimi due anni
fummo costretti per una questione di stabilità a dividere la rette in trimestri.
5. Vedi a tal proposito la pagina di wikipedia all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Darwinismo_sociale
Insegnare disegno agli adulti: l’esperienza del Centro Umanista di Espressione Artistica
89
90
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 5
Capitolo
5
Due metodi a
confronto:
disegnare con la
parte destra del
cervello e VE.RA.DI.
Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.
91
92
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 5
In questo capitolo porrò a confronto la metodologia
VE.RA.DI. con la metodologia Disegnare con la parte
Destra del Cervello che abbrevio con la sigla D.C..
Forse per tirare l’acqua al mio mulino, come si
dice popolarmente! Ma credo che, vista la popolarità
del metodo D.C., ci siano molte persone che hanno
abbandonato il proposito di disegnare perché si sono
arenate in alcuni punti chiave di questo metodo.
Cercherò, quindi, attraverso la mia esperienza didattica,
di evidenziare questi nodi difficilmente rilevabili dal
principiante. Ma è proprio grazie al metodo VE.RA.DI.
che oggi sono in grado fornire indicazioni alternative
per andare avanti.
La metodologia VE.RA.DI. è stata introdotta nel
Centro Umanista di Espressione Artistica nel 2004, dopo
otto anni di utilizzo della metodologia elaborata negli
anni ’70 dalla ricercatrice americana Betty Edwards,
conosciuta come Disegnare con la parte destra del
Cervello. L’introduzione di questo nuovo codice di
apprendimento, mi ha portato a riconoscere il limiti
del metodo D.C. e a non farne più uso, dato che creava
non pochi problemi di apprendimento.
Prima di raccontarvi quali siano le lacune e gli
errori concettuali del metodo D.C., sento doveroso
riconoscere che al testo della Betty Edwards va dato un
grande merito per aver rinnovato l’entusiasmo in molte
persone adulte che credevano che disegnare fosse solo
una questione di talento.
Il libro della Edwards è purtroppo l’unica metodologia,
aperta e al servizio di tutti, per l’apprendimento
del disegno che ha rotto con i pregiudizi sociali. Ci
auguriamo, con il libro VE.RA.DI., di poter contribuire
attivamente alla ricerca didattica per superare tutti gli
ostacoli che hanno impedito a milioni di persone nel
mondo di disegnare correttamente.
Nuove metodologie di apprendimento artistico
In questi ultimi anni, nel campo della creatività,
dello sviluppo delle facoltà mentali e nell’educazione,
abbiamo visto sorgere con piacere, metodologie
specialistiche che hanno abbreviato e reso più facili
alcune attività e, al contempo, hanno aperto nuove
prospettive dando vita a nuove discipline di studio e
nuovi procedimenti di azione.
La ricerca che dagli anni ‘60 ha portato Giovanni
Spinicchia ai metodi AS.PE.DI.® e VE.RA.DI.® può essere
inserita in una dimensione internazionale che ha visto,
in quegli stessi anni, il manifestarsi di una necessità di
cambiamento rispetto alle metodologie classiche. Nei
paesi anglosassoni la ricerca didattica e sperimentale su
nuove metodiche di sviluppo della persona attraverso
l’arte, ha dimostrato che tali applicazioni danno grandi
frutti se sapute sfruttare e valorizzare.
Grazie al loro atteggiamento pragmatico hanno
sistematizzato e reso semplici e puntuali molte
operazioni di uso comune, queste loro innovazioni
sono soprattutto da attribuire ad un diverso approccio,
più spregiudicato se vogliamo, che ha portato
all’avanguardia il loro modo di operare. La scrittura
creativa, ad esempio, consiste in un atteggiamento
sistematico in cui lo scrivere - anche se sempre si è
scritto - risulta scomposto in passi semplici e percorribili
da tutti. Non da ultimo va detto che tale impulso
innovativo è anche stato mosso da una ricerca del
business, e loro sono dei maestri in questo settore.
L’Italia, paese di grande tradizione storica culturale,
soprattutto nell’arte, è rimasta molto indietro
rispetto alle innovazioni americane ed inglesi, sia
per una condizione di arretratezza culturale e sia per
una mancanza di investimento verso tutto ciò che è
nuovo ed innovativo. Siamo come ancorati al nostro
passato, e se andate in libreria a vedere i nomi degli
autori della quasi totalità dei manuali di disegno e
pittura, scoprirete che sono stranieri, per la maggior
parte anglosassoni.
Cosicché ci ritroviamo americanizzati nella maggior
parte delle attività persino, forse non tutti ne sono al
corrente, in quelle di cui siamo stati maestri per secoli,
come l’arte e la didattica artistica. Non mi interessa
di certo esaltare l’orgoglio nazionale, per il quale
francamente non nutro alcun interesse, ma ritengo che
tra noi e gli anglosassoni vi siano sufficienti differenze
che meritano di essere valorizzate, e non uniformate
dal pensiero unico della globalizzazione.
Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.
93
94
Per promuovere il metodo VE.RA.DI. in Italia, tra gli
editori e gli investitori pubblici e privati, abbiamo girato
in lungo ed in largo e le risposte sono sempre state
negative. Questo dimostra ancora una volta quanta
strada ci sia ancora da fare affinché si dia il giusto
valore alla ricerca didattica, ed in generale a tutta la
conoscenza.
Cosicché, oggi in libreria troviamo molti titoli
di grande successo su nuove metodologie tutti
di importazione. Per citarne solamente alcuni in
relazione all’arte e alla creatività, ci riferiamo alla
Betty Edwards creatrice del metodo Disegnare con la
Parte destra del Cervello, a Edward de Bono fautore
del Pensiero Laterale, a Richard Bandler ideatore della
Programmazione Neuro Linguistica (PNL), a Tony
Buzzan teorico delle Mappe Mentali, e la lista potrebbe
continuare ancora.
Un dubbio rimane, in cui non è chiaro se il
successo di tali metodi si deve principalmente
alla loro forza e costruzione intellettuale, o
diversamente, alla loro forza commerciale!
Anche nel campo della didattica musicale, nei
primi anni del XX secolo, sono stati elaborati metodi
efficacissimi, che aspettiamo ancora di vedere applicati
in grande scala in Italia, come quello Carl Horff o
Suzuki, utilizzati largamente in Germania e Giappone
ed in tante regioni del pianeta. Anche oltralpe negli anni
’60 è stata elaborata una metodologia psicoterapeutica
ed espressiva al disegno e alla pittura dalla pedagogista
Martenot da cui prende il nome il metodo omonimo.
È mai possibile che in tutti questi anni i creativi
italiani si siano come atrofizzati? Non crediamo
assolutamente. Giovanni Spinicchia è dimostrazione
di una vitalità creativa che non ha smesso di esistere
nella nostra nazione, ciò che invece è cambiato è un
atteggiamento in cui non si valorizzano più i propri
talenti, ed è forse per questo motivo che dal 2002 al
2010 circa 60 mila ricercatori e giovani sono “scappati”
dall’Italia verso altri paesi.
Punto in comune di tutte queste metodologie è
l’ideazione e la messa in pratica di una serie di regole,
procedimenti, atteggiamenti, ecc., che possiamo definire
Codici di Apprendimento, che facilitano, e rendono
di più ampia portata, l’accesso a delle competenze
specifiche e l’uso delle stesse. Ma soprattutto hanno
permesso di ottenere dei risultati in gran lunga superiori
di quelli che si ottenevano e si ottengono, coi metodi
tradizionali.
Grazie alle nuove metodologie di insegnamento è
avvenuto:
1. un miglioramento di quanto già si acquisiva con
altre metodologie
2. una maggiore accessibilità delle conoscenze
3 . maggiore possibilità di avere successo, inteso come
ottenimento degli obiettivi
4. il raggiungimento di risultati più eccellenti ed, in
alcuni casi, “miracolosi”
5. apertura di nuove prospettive e figure professionali
Purtroppo queste nuove metodiche, non più
tanto nuove visto che esistono da circa quarant’anni,
continuano ad essere estranee alla maggior parte delle
persone e degli educatori.
Si nota, soprattutto che le nuove metodologie non
si sono mai trasferite nelle didattiche istituzionali
delle scuole statali o parificate, se non per interesse
e merito di iniziative individuali. Anche se l’arretratezza
didattica del nostro paese è a volte quasi irritante, se non
indignante, ci auguriamo che i tempi siano maturi per
una più ampia diffusione di metodiche non tradizionali
nell’educazione alle arti e alla creatività espressiva.
I limiti del metodo Disegnare con la Parte destra
del Cervello
Senza dubbio va dato atto che questo metodo nel
campo della psicopedagogia del disegno è stato come
un fulmine a ciel sereno ed ancora, a distanza di più
di 30 anni dalla sua prima pubblicazione in Italia, è
Perché ho rinunciato al disegno
rimasto fino ad oggi, a parte VE.RA.DI., l’unico testo
che affronta l’annoso problema della mancanza di un
codice di apprendimento del disegno.
Il libro, a mio avviso, contiene, non solo inadeguatezze
Capitolo 5
pedagogiche, ma anche distorsioni concettuali. Se
volessimo vederle in un più ampio spettro, in cui
si osserva come agisce la mentalità imperante, si
potrebbe intravedere in tali errori concettuali anche
delle inesattezze ideologiche.
Considerare che il disegno dipende dalla parte
destra del cervello, come viene spiegato nel testo, è
una forzatura priva di fondamento. Questa teoria,
che vedremo poi in dettaglio, viene utilizzata, credo in
assoluta buonafede, per dare una ragione fisiologica
all’incapacità che molti incontrano nell’apprendere
il disegno. Il metodo afferma che non si impara a
disegnare perché non usiamo a sufficienza la parte
destra del cervello. Su questo punto cardine ruota il
metodo D.C. ed a questo deve la sua fortuna.
Sono totalmente in disaccordo a questo
approccio pseudoscientifico del metodo
che tira in ballo il cervello diviso in sinistro
e destro.
Purtroppo, se pur affascinante questo approccio,
tirando in causa le funzioni separate dei de emisferi, può
portare ad un neopositivismo. La moderna neurologia
e genetica si spingono troppo spesso in questa
direzione, in cui si cerca di dare fondamento fisiologico
a tutte le difficoltà psico-emotive che incontriamo nella
nostra vita. Credo che l’essere umano sia qualcosa di
più complesso, e anche se riconosco a tutte le attività
umane una base fisiologica, non posso credere che
l’inventiva e la creatività del pensiero dipendano, in
maniera meccanica o causale, dalla conformazione
fisica o biologica. Esse sono frutto di una continua
interazione con le componenti più sottili dell’esistenza,
in cui entrano in causa la psiche e quella sensibilità
acuta che possiamo definire spirituale.
Se si credesse che il disegno dipendesse da una
mancata utilizzazione di una parte del cervello, lo stesso
ragionamento, per assurdo, ci porterebbe a credere
che esso si possa stimolare con un farmaco, con una
operazione chirurgica, o qualsiasi intervento chimico
o meccanico.
Cosa c’entra dunque il cervello col disegno?
È solo un espediente psicologico. Ma purtroppo
nel libro non si illustra in questi termini, facendo
cadere il lettore in confusionari equivoci dalla pretesa
scientifica.
Mentre invece, le parti del libro sicuramente valide
sono quelle che ci pongono di fronte a dei problemi
seri e reali, quali:
1. l’inadeguatezza del sistema educativo tradizionale
2. il pregiudizio castrante che per disegnare ci vuole
talento
3. ribadire che disegnare è saper osservare
4. la repressione del lato “artistico” delle persone,
mettendo in luce i traumi della nostra infanzia
5. il tentativo di creare un percorso graduale di
apprendimento
Ma purtroppo questa metodologia si compromette
su alcuni punti fondamentali:
1. pone enfasi su un conflitto ed una divisione tra i due
emisferi, che non esiste!!
2. non accompagna il candidato alla soluzione di tutti
problemi formali
3. “ingolfa” la mente del discente con problematiche
estranee al disegno creando principalmente
confusione
Vediamo il primo punto, quello concettualmente
più deviante.
Il conflitto tra gli emisferi
Quando mi sono incontrato col metodo VE.RA.
DI.® erano già 8 anni che presso la nostra struttura si
utilizzava la metodologia Edwards. Questo metodo mi
ha permesso di lavorare con discreti risultati e mi ha
salvato dal vuoto della tradizione nel quale ero stato
educato. Quindi grazie Betty Edwards! La riconoscenza
che nutro, per un metodo degli anni ’70, non mi deve
però far esimere dal muovere delle critiche che poi il
lettore valuterà se accettare o meno.
Torniamo a noi. Fin dalle prime esperienze didattiche
col metodo D.C. ho dovuto adattare e modificare alcune
lezioni, perché alcuni contenuti creavano problemi
più che risolverli. Problematiche che i miei allievi
esprimevano regolarmente e cui non riuscivo a dare
delle soluzioni. Vediamo quali.
Il metodo si basa tutto sulla trasposizione nella
didattica del disegno, delle scoperte dei primi ricercatori
in neurologia Roger W. Sperry e Jerre Levy che avevano
notato che le due parti del cervello compivano funzioni
differenti. La parte Destra e Sinistra non erano uguali,
come lo sono i due reni o le due braccia, ma le loro
Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.
95
96
funzioni erano differenziate e complementari. Se ci
pensate, è affascinante come già il Taoismo e il dualismo
Pitagorico avessero espresso nella loro mistica questa
realtà fisiologica. È chiaro che soprattutto negli anni
’60, periodo in cui si effettuavano tali ricerche sul
cervello diviso e sulla differenza del lavoro dei due
emisferi, ci fosse un particolare entusiasmo di fronte
a certe ricerche che davano qualche risposta al come
funzioniamo, e quindi si credeva anche di rispondere
alla profonda domanda su “chi siamo”. Solo che l’essere
umano, non è come una macchina, non possiamo
classificarlo in base al volume del suo cervello, come
si fa con una automobile in cui la cilindrata del motore
è determinante. Eppure, quelle ricerche spingevano
diversi ricercatori e appassionati ad andare oltre, a
partire dal funzionamento fisiologico azzardavano delle
risposte su “chi siamo”, e nel nostro caso sul perché
disegniamo. Come se noi fossimo il nostro cervello o
il nostro corpo!
Il testo della Edwards, infatti, fondamenta la sua
metodologia su queste ricerche fatte con persone non
sane fisicamente ma anormali, che avevano subito
operazioni ed avevano il cervello diviso in due, dato
che il corpo calloso che mette in comunicazione i
due emisferi era stato reciso per diversi motivi atti
a salvaguardare la salute complessiva dei pazienti. I
pazienti analizzati e studiati da Sperry e Levy diedero
ad intendere ai ricercatori che l’emisfero destro compiva
funzioni cognitivo-spaziali e il sinistro logico-razionali.
Quindi, per deduzione, se si lavora con l’emisfero destro
anziché il sinistro si dovrebbe disegnare meglio.
Voi penserete che non si possa estendere una
constatazione avvenuta in particolari circostanze di
laboratorio a tutto il genere umano, ma dobbiamo
ammettere che in diverse occasioni l’essere umano è
stato affascinato da questo desiderio di comprendere
e di controllare gli eventi, illudendosi che i successi
ottenuti in un campo gli potessero dare la soluzione a
problemi che non rientravano in quello specifico. A volte
questo modo di ragionare, di esportare le scoperte di un
settore in un’altro, si è verificata una buona strategia
per avanzare, ma troppo spesso si è assistito a delle
forzature1, e questo mi sembra il caso di questa bizzarra
neurologia del disegno.
Questa tesi neurologica, chiaramente, non è mai
stata provata scientificamente con soggetti sani,
perché altrimenti si sarebbe visto che è sostanzialmente
falsa. Questa divisione di funzioni non esiste, e tutti
coloro che affermano che la parte destra è sede della
Perché ho rinunciato al disegno
creatività, e viceversa la sinistra della ragione, lo
fanno forse perché ancora il loro sistema di credenze
considera l’uomo al pari di una macchina, complessa e
meravigliosa s’intende, ma non differente da qualsiasi
altro fenomeno privo di libera intenzionalità.
Io credo fermamente, anche dalle mie sperimentazioni
didattiche, che la situazione sia decisamente più
complessa, intrecciata e complicata. Non metto in
discussione che avvengano delle specializzazioni
funzionali nel cervello, ma voi avete mai provato a
disegnare? Vi sembra possibile che il resto del cervello
si spenga e dica “ora entri tu, parte Destra, a lavorare
perché sei più brava di me?”
Disegnare non è una funzione né biologica
né tantomeno meccanica, come si fa a
credere che la nostra incapacità derivi dalla
supremazia della parte Sinistra del cervello
sulla Destra?
Moltissimi allievi mi chiedevano negli anni: “Ma io
ho la parte destra sviluppata?”; “Io sono mancino quindi
disegno meglio?”.
Vi rendete conto di cosa si andava a creare con
questo tipo di approccio? Pensavano ingenuamente
che quanto dicesse la Edwards potesse veramente
verificarsi.
Questo dualismo è fortemente alimentato nel testo
della Edwards, in cui il cervello si divide in D (destro) e S
(sinistro) che si parlano, in cui si suggerisce di escludere
l’azione del cervello S predominante. Seguendo il
testo parrebbe che tutti noi siamo in conflitto perché
abbiamo due emisferi che la pensano diversamente e
che il Sinistro vuole comandare. Qui sorge il problema
dato che il cervello S non va assolutamente bene per
disegnare, va tenuto a bada e va fatto lavorare quello
giusto il cervello D. Ad ognuno va affidato il suo
compito: che il cervello S faccia i calcoli e che il cervello
D pensi a disegnare!
È sicuro il fatto che la tesi “scientista” e non
scientifica della Edwards ha il suo impatto nel lettore
ed è stata forse questo approccio a fare la sua grande
fortuna editoriale, ma essa non centra niente con
l’apprendimento del disegno, tant’è che i risultati
ottenuti con la sperimentazione del metodo VE.RA.
DI.® sono decisamente più veloci, profondi, estesi ed
efficaci.
Quindi dal secondo anno in cui applicavamo il
Capitolo 5
metodo D.C. decidemmo di cambiare subito alcuni
presupposti, primo fra tutti che il cervello non è
diviso.
La parte D non è specializzata nel disegno
più della S, solo grazie alla interezza delle
nostre capacità che possiamo disegnare.
È chiaro che senza il ragionamento razionale
che si vuole arginare all’emisfero S non esisterebbe
il disegno perché nell’arte c’è tanta di quella
costruzione logico matematica da far rabbrividire,
molta più della componente fantastica, immaginifica
ed estemporanea.
Ma lasciare che la magia dell’emisfero D risolva
i problemi del disegno quasi da solo, significa non
affrontare il problema del disegno fino in fondo
cercando, con questo stratagemma, di farlo divenire
un vaso di pandora.
Si disegna con tutti e due gli emisferi, sempre e
comunque, e non esiste questo conflitto tra le due
componenti razionale ed emotiva a livello neurologico,
ma solo la si sperimenta per un sistema educativo e
repressivo che abbiamo commentato ampiamente nel
resto del libro.
Esercitazioni teoriche e poco
applicabili
Il metodo Edwards ha sinceramente il merito di aver
sollevato il problema del “saper vedere”. Il testo non
propone la risoluzione dei problemi legati alle differenti
realtà da copiare, che potremo riassumere in natura
morta, paesaggio naturale e urbano, e figura umana,
come è nel testo VE.RA.DI.®, ma propone, a soluzione
di tutte le problematiche del disegno, 4 differenti modi
di guardare:
1. disegnare senza guardare
2. guardare al contrario (solo con le foto che si possono
girare)
3. guardare i soli contorni
4. guardare tutto ciò che sta attorno all’oggetto
o spazio negativo (pratica quasi impossibile da
effettuare!)
Anche se si considerano questi esercizi sul “vedere”
come propedeutici all’attività del disegno, essi si
discostano dalla pratica reale e fattiva del disegnare.
Quando pratichiamo non possiamo disegnare senza
guardare, quindi dopo che si sia compiuto questo
esercizio non sapremo come applicarlo nella regola;
neppure possiamo capovolgere il mondo per vederlo
al contrario come suggerisce il secondo esercizio;
vedere solo le sagome delle cose può invece essere un
buon mezzo per avanzare; in ultima analisi, riuscire a
compiere questo difficilissimo atto mentale di escludere
l’oggetto e vedere solo quello che gli sta attorno si è
verificata una impresa quasi impossibile!
Dunque cosa rimane?
Un affascinante libro che parla del disegno e di
tanti di argomenti letterari o saggistici decisamente
interessanti. Argomenti sul disegnare, come noi
trattiamo in questo libro, ma che non guidano nella
pratica alla risoluzione di tutte le problematiche della
copia dal vero.
La maggior parte delle persone che veniva al corso
aveva letto il libro, per mia fortuna perché era un mezzo
se vogliamo pubblicitario del mio corso. Veniva al CUEA
perché non era riuscita a finire la lettura del libro, e
tanto meno a fare tutti gli esercizi.
Devo ringraziare oltremodo la Edwards perché
ogni anno giungevano molti studenti che affluivano
proprio grazie alle promesse non risolte e alla difficoltà
del testo.
Il metodo fornisce, inoltre, delle finestrelle trasparenti
chiamati “mirini” come se fossero degli schermi di
vetro su cui disegnare ciò che si vede, qualcosa di
difficilissimo e di improbabile riuscita, tanto che dopo
tre anni di prove capimmo che ci complicavano solo la
vita, ed abbandonammo la finestra trasparente. Anche
in questo caso si ricorreva ad uno stratagemma di
dubbia riuscita che non si poteva applicare nella pratica,
come quando siamo in viaggio e vogliamo fissare un
scorcio di una cittadina sul taccuino che ci portiamo
appresso. Nel metodo VE.RA.DI. non ci sono trucchi e
stratagemmi propedeutici, che si usano in “laboratorio”
e che poi non si possono applicare nella quotidianità.
Per dover di cronaca, nel libro c’erano anche altre
due modalità per affrontare la prospettiva e le luci,
quindi potremmo dire che in tutto il metodo D.C. si
educa a 6 modi di “vedere”. Questi altri due modi per
copiare la prospettiva e le ombre erano così difficili che
anche io, che disegno da sempre ho faticato moltissimo
a capire come si dovevano utilizzare. Dopo la prima
sperimentazione li esclusi dal corso.
Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.
97
98
Per quanto riguarda il disegno negativo ossia
disegnare una forma guardando ciò che la circonda, è
il punto che mi ha dato più filo da torcere. È stato un
trauma. Ogni anno su 40 allievi lo capivano in tre, e
dopo il terzo anno eliminai questa pratica. La mantenni
perché in effetti, per chi capiva questo modo di vedere,
poteva anche essere un utile approccio, ed anche io
quando disegnavo la trovavo una buona modalità
di guardare. Ma mentre la mia esperienza di 20 anni
di attività mi permetteva di cogliere la “visione in
negativo”, per la maggior parte degli allievi alle prime
armi, il concetto gli rimbalzava del tutto. Così dovetti
rinunciare anche a questo esercizio del metodo D.C.
Insomma quando adottammo VE.RA.DI. presso il
nostro centro, del metodo Edwards utilizzavamo solo
tre esercizi su sei, mentre, nelle parti più complesse e
difficili dell’apprendimento, avevamo attuato nuove
strategie, tra l’altro molto vicine al metodo VE.RA.DI..
Evviva! Il nuovo metodo risolveva gli aspetti stimolati
dalla Edwards, ma da lei mai risolti.
Ma che confusione!
Dobbiamo ringraziare la Edwards perché quando
aprimmo la scuola non esistevano libri di psicopedagogia
del disegno ma solamente i classici manuali che ti
illustrano i risultati finiti, belli da vedere magari, ma
privi di una qualsiasi didattica di apprendimento
graduale, metodica e realmente efficace per i neofiti. E
così continua ad essere per tutti i manuali di disegno:
non insegnano ai non capaci, ma abbagliano con le loro
belle copertine e belle illustrazioni.
Sono libri di lettura, in cui un esperto può trovare
anche buone indicazioni. Un esperto, ma non un
principiante.
Ora, a distanza di anni dalle prime sperimentazioni,
il libro Disegnare con la parte destra del cervello,
come manuale di disegno, mi risulta farraginoso ed
estremamente difficile, soprattutto se paragonato a
VE.RA.DI.. Può essere un interessante testo di lettura,
anche se pieno di concetti fuorvianti e un forzati, come
abbiamo già trattato.
Esperienza VE.RA.DI.
Incontrai Giovanni Spinicchia in un bar di Via
Romana, nello storico quartiere di Firenze, Oltrarno, non
distante dal suo studio di Via dei Serragli. Distribuivo i
volantini della scuola, di cui portavo sempre delle copie
appresso e che consegnavo nei luoghi di passaggio.
A quel tempo Giovanni, dopo vari tentativi di far
adottare il suo metodo a famose scuole di Firenze,
non aveva ancora trovato un luogo dove potesse
operare senza causare gelosie ed invidie da parte di altri
insegnanti, che si vedevano sempre sorpassati nella loro
didattica da quel metodo, che poi chiamammo VE.RA.
DI., che tanti risultati aveva dato negli anni.
Non era certamente il mio caso, non avevo nessun
ruolo da difendere, ero sempre alla ricerca di innovazioni
e di miglioramenti. Dalle sue prime parole capii che quel
simpatico individuo mi stava offrendo una grande
occasione per crescere ed avanzare.
Di li a qualche giorno, mi invitò al suo studio
per farmi vedere le “prove” di quanto egli affermava
riguardo alle sue capacità di insegnamento. Rimasi
estasiato e sorpreso, non diversamente da tutti i
nostri allievi quando gli presentiamo il metodo.
Perché ho rinunciato al disegno
Disegni perfetti, eseguiti con pulizia, esattezza e quella
piacevole sensazione di piacere e rilassamento. I suoi
allievi mostravano la forza di chi è sicuro in quello che
fa. Una fermezza di intenti che ben si mostrava, in quei
tratti veloci e sicuri ed in quella sensibilità formale
e chiaroscurale che tutti gli allievi parevano aver
conquistato, senza quasi nessuna distinzione tecnica
tra i diversi risultati.
Un metodo sorprendete! Decisi allora
di convocare subito una nuova classe di
sperimentazione per misurarmi con questo
nuovo codice di apprendimento.
A quel tempo la mia esperienza di insegnamento
del disegno si basava in parte sulla didattica del
metodo Edwarsd ed in gran parte da cambiamenti dello
stesso che avevo effettuato negli anni con l’obiettivo
di raggiungere quella perfezione che presentavano
invece gli ex allievi di Giovanni Spinicchia. Ora avevo
l’occasione di raggiungere ciò che avevo sempre
cercato! Ora, lui, mi offriva in più sensazionale metodo
Capitolo 5
che io avessi mai conosciuto, senza chiedere niente in
cambio, se non la possibilità di poterlo offrire al mondo
e di praticarlo in una scuola.
Tra gli allievi del nuovo corso una buona parte
aveva già effettuato un anno di disegno al CUEA. Mi
accorsi solo allora quanto quelle persone, che credevo
oramai abbastanza esperte, avessero così tante
lacune strutturali nel disegno. Loro sapevano copiare
benissimo, con chiaroscuro e proporzioni, ma nei loro
disegni mancava qualcosa...
Mancava una costruzione intellettiva
solida che gli facesse dire: “disegno questa
forma, questo braccio o viso, perché ho
capito la sua struttura profonda”.
Purtroppo disegnavano ancora molto per mimesi,
ossia per imitazione superficiale ed estetica. Questo
modo di procedere potrei paragonarlo ad una tipologia
di formazione che vidi, diversi anni prima, in TV e che
ben si presta come esempio. Si trattava di un video
che documentava come in Giappone un orchestra di
bambini di sei anni, suonasse alla perfezione musiche
di Beethowen.
Strabiliante! Mi dissi.
In effetti la cosa mi incuriosì moltissimo, tanto
che feci delle ricerche. Scoprii che questi bambini,
che suonavano perfettamente brani musicali, che
solitamente si riesce a padroneggiare con anni di
studio ed in età decisamente più avanzata, potevano
eseguirli solo per imitazione pedissequa senza in realtà
sapere come sia la struttura musicale, quindi senza
conoscere le note del pentagramma. Un’educazione
sonora, e nel caso dei miei allievi visiva, spogliata da
ogni ragionamento è quindi più semplice, veloce ed
immediata da apprendere ma mostra sempre una certa
ripetitività e rigidità. Questa impostazione imitativa
non consente, quindi, all’operatore di modificare la
struttura ed in fondo di comprenderne la sua plasticità
e la sua creativa possibile combinazione. Questa è una
tipologia di conoscenza che rimane limitata alle sole
nozioni acquisite.
La metodologia VE.RA.DI. al contrario di quella D.C.,
che potrei definire imitativa, non insegna direttamente
a disegnare ma a ragionare, cioè a comprendere quali
siano i comportamenti mentali che sono alla base del
disegno di qualsiasi forma, vista in qualsiasi situazione e
da qualsiasi punto di vista. Il disegnare è quindi solo una
conseguenza di una comprensione basilare, profonda
e totale di una attività non solo visiva, ma mentale,
visiva e manuale.
Questa conoscenza, così asciutta ed essenziale
quanto efficace e diretta al compito da eseguire, ha
anche il pregio di rimanere impressa nel tempo perché
le operazioni mentali che si eseguono in questo nuovo
metodo, sono così affascinati che aprono una finestra
su un modo di vedere ordinato e metodico, tanto che
ci si può ritrovare ad applicarlo anche in altre sfere
del fare e del sapere. È una ginnastica mentale che
ordina il pensiero in tutte le sue categorie formali,
anche se esse non sono direttamente quelle di copiare
un oggetto dal vero, ma solamente quelle della normale
percezione quotidiana.
Quando iniziò la classe su VE.RA.DI. avevo qualche
dubbio su questa “miracolosa” metodologia, ma se
esisteva una tale metodologia era necessario poterla
conoscere e divulgare a più persone possibili.
Invitai quindi circa 25 persone tutti ex alunni
del CUEA a verificare e sperimentare questo nuovo
approccio.
Va detto che il metodo VE.RA.DI. parte da compiti
semplici mentre invece con il metodo Edwards si
passava dopo poche lezioni a disegnare il volto umano
senza approfondire la natura semplice delle forme e
delle linee. Per questo motivo mi sorpresi molto nel
constatare che i disegni iniziali eseguiti dai miei ex
allievi col metodo VE.RA.DI. risultassero così scomposti
e privi di logica.
Dopo una decina di lezioni dovemmo sospendere
il corso perché eravamo arrivati a Giugno e, quando
riprese l’anno a settembre del 2005 stavamo già
lavorando alla stesura del libro e all’ordinamento del
metodo che decidemmo di chiamare VE.RA.DI. e non
rimase del tempo per continuare la sperimentazione.
Nonostante le poche lezioni eseguite al CUEA, vorrei
riportare, a testimonianza della efficacia di questo
codice di apprendimento, alcuni disegni eseguiti dai
miei allievi.
Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.
99
100
Disegni eseguiti durante l’applicazione del metodo VE.RA.DI.
Questi 5 disegni sono stati eseguiti da Diego in 10
lezioni. La penna è il primo disegno che ha fatto, il
comò con la lampada l’ultimo. Il resto dei disegni
dimostrano la progressione della sua “mente”
nell’affrontare la copia dal vero.
Perché ho rinunciato al disegno
Capitolo 5
Queste altre illustrazioni sono opera di Manuela, eseguite alle ultime lezioni.
Conclusioni
Non è stato facile ammettere che gli anni di lavoro con altri metodi e le mie personali scoperte
metodologiche, non avessero in realtà tolto ogni possibilità di errore ai candidati, eppure, per onor di verità
e di conoscenza, ho ritenuto molto più intelligente ed interessante comprendere VE.RA.DI. piuttosto che
rifiutarlo.
Da questo esperimento al CUEA è nata la collaborazione con Giovanni Spinichhia che ci ha portato, grazie
alla sua esperienza e alla mia capacità organizzativa nel documentare il suo metodo, a ordinarlo e riassumerlo
in una pubblicazione in modo tale che questa conoscenza potesse essere diffusa e fatta sperimentare a più
persone possibili.
Oggi il metodo è accessibile a tutti grazie la pubblicazione del manuale di disegno VE.RA.DI.
Note
1. Il pensiero scientifico, soprattutto in seguito ai grandi successi del XVIII secolo, ha esteso le sue tesi meccanicistiche anche alle scienze
sociali e mediche applicando gli stessi parametri di valutazione e di analisi all’essere umano che non è un essere meccanico ma intenzionale,
ed in cui la sua libertà di scelta lo differenzia sostanzialmente dai fenomeni fisici e biologici.
Due metodi a confronto: disegnare con la parte destra del cervello e VE.RA.DI.
101
SEMINARI VE.RA.DI.
AS.PE.DI. ed ES.TE.TRA.
Simone Casu diffonde le proprie conoscenze metodiche attraverso dei seminari di due giorni
che si svolgono in tutta Italia. Le sedi sono quattro suddivise in nord, centro e sud Italia e Sicilia.
I seminari si svolgono nei fine settimana presentano tutti lo stesso
svolgimento.
Partono con una conferenza gratuita ed aperta a tutti il Venerdì sera, alle ore 21, della durata
di un’ora di esposizione dell’argomento, una sorta di lezione che fa parte del seminario, a cui di
seguito viene dato ampio spazio alle domande dei convenuti. Il sabato e la domenica si studia
e si lavora dalle 9.30 del mattino fino alle 18.30 circa con una pausa autogestita di un’ora per il
pranzo.
Per visualizzare le date, i luoghi e le tematiche dei seminari andate sui siti:
www.cuea.it
www.veradi.eu
www.estetra.org
Perché ho rinunciato al disegno!
Il libro, si rivolge ad amanti, studenti ed insegnanti d’arte, e a tutte quelle
persone che hanno sempre desiderato disegnare e non hanno mai creduto di
poterci riuscire.
Una ressegna di testimonianze, denuncie, anedotti che raccontano la
storia mai espressa di milioni di persone che, per la mancanza di un codice di
apprendimento per il disegno e per i pregiudizi sociali, hanno rinunciato ad una
delle esperienze più belle e appaganti della loro infanzia.
Perchè ho rinunciato al disegno, desidera dare voce e sopratutto speranza
a tutti coloro che si riconoscono in quella umanità privata della propria
espressività grafica perchè considerata senza talento.
Questo testo intende informare sui metodi di disegno AScoltare PEnsare
DIsegnare (AS.PE.DI.) e VEdere RAgionare DIsegnare (VE.RA.DI.) di Giovanni
Spinicchia, che da 40 anni permettono a chiunque ad apprendere a disegnare
come hanno imparato a leggere, scrivere e fare di conto.
Il libro è nato dalla necessità di divulgare al grande pubblico le motivazioni e
le intenzioni che hanno dato origine ai metodi AS.PE.DI. e VE.RA.DI.
È un viaggio nel mondo del disegno visto da chi lo ha sempre insegnato
rendendo felici intere generazioni di studenti.
Giovanni Spinicchia e Simone Casu sono autori dei libri sui
metodi di disegno per bambini AS.PE.DI. e per adolescenti ed
adulti VE.RA.DI. editi dalla stessa casa editrice.
Perchè ho rinunciato al disegno
Scarica

Perché ho rinunciato al disegno